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7006  Forum Pubblico / ESTERO fino al 18 agosto 2022. / Libia Parisi: “Non ci sono le condizioni per mandare i nostri uomini” inserito:: Marzo 07, 2016, 05:04:38 pm
Parisi: “Non ci sono le condizioni per mandare i nostri uomini”
Libia   

L’ex ministro della Difesa invita il governo a non cedere alla “manovra a tenaglia” per convincerlo a intervenire in Libia: “Guai se ci mettessimo in strada senza sapere dove stiamo andando”

Le ultime drammatiche notizie provenienti dalla Libia riguardano direttamente l’Italia. A finire vittime del complicato scenario del Paese nordafricano, con l’avanzata dell’Isis e l’incapacità di dare un assetto politico stabile, sono stati due nostri connazionali, Fausto Piano e Salvatore Failla, mentre altri due che erano finiti nella mani dei terroristi sono riusciti a liberarsi. Partendo da questi nuovi elementi, abbiamo chiesto ad Arturo Parisi, ex ministro della Difesa nel secondo governo Prodi, la sua opinione sull’eventuale coinvolgimento diretto italiano nelle operazioni anti-Isis sull’altra sponda del Mediterraneo.

Da ex ministro della Difesa, quindi con una cognizione di causa anche dal punto di vista, diciamo così, tecnico, lei pensa che ci siano le condizioni per ipotizzare un intervento militare in Libia?
Innanzitutto mi faccia dire che un ex ministro è solo uno che è stato ministro ma che non lo è più. Ogni situazione è diversa dall’altra, ogni situazione cambia in ogni momento. Dalla lezione dell’esperienza mi porto appresso più domande che risposte. Su tutti i teatri nei quali abbiamo operato. Figuriamoci sulla Libia, che dopo Gheddafi si scompone ogni giorno di più. Quello che si sa è tuttavia sufficiente a consigliare la massima cautela, che è peraltro la linea che il governo ha finora seguito registrando un plauso esteso almeno al nostro interno. Peccato che all’esterno, muovendo dalla nostra ripetuta richiesta di guidare la missione militare, al momento solo eventuale, si vada sviluppando una manovra a tenaglia che ci va stringendo ogni giorno di più per spingerci a scelte che non abbiamo preso.

A chi si riferisce?
Proprio oggi sul Corriere, per voce dell’ambasciatore a Roma, a fronte della ribadita disponibilità americana a sostenere la nostra attesa, abbiamo visto quantificato in cinquemila “paia di scarponi” il prezzo da pagare perché questa ambizione possa essere soddisfatta.

Quindi, secondo lei non è ancora opportuno parlare di un intervento militare?
Anche se dovessimo mantenere il discorso terra terra a livello degli scarponi, la mia risposta alla sua domanda è no. Non ci sono le condizioni. Ed anzi prima lo chiariamo e meglio è. Non vorrei che iniziando anche solo da un pugno di uomini dispiegati in modo più o meno segreto al seguito della nostra bandiera, ci trovassimo presto esposti ad impegni che non siamo in grado di mantenere.

Perché non lo siamo?
Ho detto impegni, ma dovrei dire nuovi impegni. Il motivo per il quale noi non siamo in condizione è infatti innanzitutto il fatto che di impegni ne abbiamo già molti. Nella stessa regione nella quale, pur in forme diverse si manifesta quella minaccia che chiamiamo fondamentalismo islamico, noi siamo infatti tra quelli che hanno più scarponi sul terreno. Dal Kosovo all’Afghanistan, dall’Iraq al Sinai, passando per il Libano le nostre truppe sono in prima fila per qualità e quantità. Ogni ulteriore impegno dovrebbe corrispondere ad una ridislocazione. Ma se gli scarponi sono determinanti prima ancora viene la chiarezza degli obiettivi della eventuale missione che dovremmo guidare. Guai se ci mettessimo in strada senza sapere dove stiamo andando:  senza aver chiaro il perché, con chi, e contro chi.

Magari anche senza che vi sia una richiesta di un governo nazionale libico che, allo stato, non è rappresentativo?
Non voglio nascondermi nessuna delle obiezioni che gli scettici avanzano a questo proposito per metterci fretta. Ma la precondizione della richiesta e quindi della esistenza di un governo nazionale, più che la garanzia necessaria sul piano formale perché si possa partire, sul piano sostanziale è la prova che prima o poi si possa arrivare. Le armi straniere possono ad alcune condizioni sostenere il cammino autonomo di un popolo, ma non imporre dall’esterno una meta.

La tragedia dei due italiani uccisi a Sabrata rimanda al problema dell’attività dei nostri servizi segreti e al rapporto fra questi e le forze militari. C’è il famoso tema della catena di comando. Secondo lei, l’Italia è ben organizzata da questo punto di vista?
Tra i diversi Paesi europei l’Italia è certo quella che conosce meglio il terreno. E la disponibilità di una intelligence di prima mano che in questi anni ha seguito da presso gli eventi è certo il nostro plus. Ma sostenere che a guidare il processo basti l’informazione è un’altra cosa. Informazione, decisione e azione sono momenti distinguibili ma non divisibili. È bene che ad ognuno sia riconosciuto il ruolo che gli compete.

Da - http://www.unita.tv/interviste/parisi-non-ci-sono-le-condizioni-per-mandare-i-nostri-uomini/
7007  Forum Pubblico / Gli ITALIANI e la SOCIETA' INFESTATA da SFASCISTI, PREDONI e MAFIE. / GENTILONI: «Per stabilizzare la Libia non servono guerre lampo» inserito:: Marzo 07, 2016, 05:00:54 pm
«Per stabilizzare la Libia non servono guerre lampo»

Di Gerardo Pelosi
6 Marzo 2016

È in contatto continuo con l’Unità di crisi sugli sviluppi della situazione a Sabrata e per il rientro dei due tecnici della Bonatti liberati venerdì. Sente su di sé tutto il peso e la responsabilità di queste ore misurando bene le parole e, più ancora, le decisioni che ci si attende da un Paese in prima fila come l’Italia nella lotta al terrorismo, nella crisi dei migranti e nella stabilizzazione della sponda Sud del Mediterraneo.

Ma su un punto il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, non sembra disposto a fare marcia indietro: non si può pensare di risolvere la crisi libica con una guerra lampo (una Blitzkrieg) e confondere le operazioni antiterrorismo con le missioni internazionali di stabilizzazione. Occorre evitare, insiste il responsabile della Farnesina, che la Libia «sprofondi nel caos dove possono proliferare episodi tragici come quelli che hanno coinvolto i nostri ostaggi».

Ministro, allora spieghiamo perché la scelta politico-diplomatica resta oggi l’unica possibile.
Deve essere chiaro che non ci sono scorciatoie illusorie, esibizioni muscolari. È vero, il tempo stringe, ma non c’è alle porte nessuna guerra lampo. Il governo è consapevole degli errori del passato e sta lavorando per creare le condizioni di stabilizzazione in Libia. E un’operazione politica prima che militare ed è questa la grande sfida della comunità internazionale che vede l’Italia in prima fila.

Ma perchè sulla Libia la Ue appare così divisa e assente?
Non è una novità che la Ue non disponga di un esercito comune ma sulla Libia si è mossa sempre con una dinamica unitaria, a partire dalla missione navale antitrafficanti. Ogni Paese può avere interessi specifici, ma non è vero che i 28 stiano andando in ordine sparso.

Sono passati molti mesi e un Governo di unità nazionale in Libia non vede ancora la luce. Non ritiene che l’ex inviato Onu per la Libia Bernardino Leon abbia perso tempo prezioso?
La diplomazia può superare gli ostacoli ma il tempo è necessario e l’impazienza pericolosa. La guerra in Siria dura da sei anni e per l’Iran deal ce ne sono voluti 13. Per la Libia a metà dicembre su iniziativa italiana e degli Stati Uniti la comunità internazionale nella Conferenza di Roma ha adottato un percorso che ha rappresentato un salto di qualità rispetto all’anno e mezzo precedente. Subito dopo abbiamo avuto l’accordo di Skhirat e poi la risoluzione 2259 delle Nazioni Unite. Il percorso è sempre stato definito da chi lo ha promosso assolutamente fragile ed è incompiuto perché c’è una maggioranza nel Parlamento di Tobruk per varare il governo di accordo nazionale ma a questa maggioranza finora non è stato consentito di esprimersi. Nelle prossime settimane Kobler, sostenuto anche dalla comunità internazionale, valuterà in che modo questa maggioranza possa esprimersi.

Cosa serve ancora per insediare il Governo?
Innanzi tutto che questa maggioranza possa esprimersi trovando il modo per sfuggire alle minacce degli estremisti. Ne ha parlato mercoledì scorso Martin Kobler al Consiglio di sicurezza della Nazioni Unite. Serve inoltre l’inclusione nel processo di forze locali , tribali e legati alle milizie che finora sono state ai margini o ostili perché la nascita del nuovo governo deve puntare alla più vasta aggregazione possibile in un Paese che presenta un contesto molto frammentato. Il governo inoltre dovrà insediarsi quanto prima a Tripoli. Tutto questo è affidato a un intenso lavoro diplomatico a guida Onu ma non dimentichiamo che oltre a questo, tutto ciò è affidato soprattutto ai libici.

Quali sono i rischi di questo esercizio?
Si tratta di evitare che la Libia sprofondi nel caos dove possono proliferare episodi tragici come quelli che hanno coinvolto i nostri ostaggi diventando uno “Stato fallito” come la Somalia a poche centinaia di chilometri dall’Italia. Il nostro compito è aiutare la Libia a recuperare la sovranità, quello che gradualmente, ma dopo molto tempo, si sta realizzando in Iraq. Solo un Governo sovrano può prosciugare l’acqua in cui nuota Daesh, aiutarci a debellare il traffico di migranti, valorizzare le grandi risorse del Paese. Alle richieste di questo Governo l’Italia e la comunità internazionale sono pronte a rispondere anche sul piano della sicurezza. Ma su questa disponibilità non va alimentata troppa confusione.

Da dove viene questa confusione, forse dagli organi di informazione?
No, parlo dell’idea stessa che si possano risolvere problemi così complessi con qualche rullare di tamburi. Mi preoccupa perché alimenta pericolose aspettative. Qualcuno forse pensa di stabilizzare la Libia con qualche decina di raid aerei? Ma, dov’era nel 2011? Non ha inteso quella lezione? E poi qualcuno davvero pensa che delle truppe speciali francesi o inglesi o italiane o marziane possano controllare un Paese di 1,6 milioni di chilometri quadrati che ha 200mila uomini armati tra le varie milizie? So bene che la guardia contro la crescita di Daesh in Libia va tenuta alta ma se confondiamo il percorso necessario di stabilizzazione con operazioni mirate antiterrorismo prendiamo lucciole per lanterne. Sono cose diverse.

A Roma c’è stata una piena sintonia della comunità internazionale. Ma allora perché gli americani ci stanno precisando perfino quanti uomini dobbiamo schierare?
Non è così. La sintonia con gli Stati Uniti è totale: serve un Governo libico e l'Italia è pronta a coordinare la risposta alle sue richieste sul piano della sicurezza.


Sulla Siria, invece, si sta aprendo qualche interessante prospettiva di speranza?
Con tutta la sua fragilità ci troviamo di fronte a una finestra di speranza quasi miracolosa. Potrebbe chiudersi ma intanto da due settimane la cessazione delle ostilità che avevamo deciso a metà febbraio a Monaco è in atto. Se questa speranza non si spegne si potrebbe non solo alleviare la catastrofe umanitaria in atto ma, entro il 15 marzo, potrebbe ripartire il negoziato di prossimità tra le parti a Ginevra con l’inviato dell’Onu Staffan De Mistura. La telefonata di venerdì tra i leader europei Renzi, Merkel, Cameron e Hollande con il presidente russo Putin aveva proprio l’obiettivo di consolidare questa finestra di speranza coinvolgendo pienamente la Federazione russa nella cessazione delle ostilità.

Domani a Bruxelles sul tavolo dei capi di Stato e di Governo tornerà il dossier dei migranti. Cosa ci dobbiamo attendere?
L’Europa sta vivendo uno dei momenti più difficili degli ultimi 60 anni. La crisi migratoria, gli effetti della recessione economica che si fanno ancora sentire e che determinano una crisi di fiducia tra cittadini e politiche comunitarie e infine il referendum su Brexit che ci tiene con il fiato sospeso. Per questo il vertice europeo di domani prima con la Turchia e poi tra i 28 assume un’importanza particolare.

Il vertice riuscirà ad evitare il precipitare della crisi migratoria?
Come ho detto varie volte, per salvare Schengen dobbiamo gradualmente superare Dublino. L’idea si va facendo strada, c'è una prima proposta della Commissione e un documento condiviso dai ministri degli Interni di Italia e Germania. La stessa decisione di destinare risorse di assistenza e di emergenza alla Grecia riflette la consapevolezza che i Paesi di primo approdo non possono gestire da soli la situazione. Domani i leader europei saranno impegnati a rendere più gestibile la situazione delle rotte balcaniche riducendo i flussi con la collaborazione di Libano, Giordania e Turchia e scommettendo sul cessate il fuoco in Siria. La sfida è evitare che questo tentativo venga vanificato da azioni unilaterali che trasformino gli attuali controlli intensificati in vera e propria chiusura delle frontiere che, se avvenisse, metterebbe a repentaglio gli sforzi di gestione del fenomeno e farebbe saltare il meccanismo di libera circolazione delle persone. Nella seconda parte del 2015 la rotta balcanica ha fatto registrare un incremento eccezionale mentre è rimasto stabile il numero migranti che hanno utilizzato la rotte tradizionale dalla Libia.

C’è il rischio che rotta balcanica che ha registrato un forte incremento negli ultimi mesi possa coinvolgere l’Italia da Albania?
Il rischio non va ignorato ma la cooperazione da tempo attivata con il Governo albanese può impedire un’offerta di imbarcazione da parte dei trafficanti che è la base per dirottare la rotta balcanica verso l’Adriatico.

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2016-03-06/per-stabilizzare-libia-non-servono-guerre-lampo-093818.shtml?uuid=ACO2PniC&p=3
7008  Forum Pubblico / MONDO DEL LAVORO, CAPITALISMO, SOCIALISMO, LIBERISMO. / Delega fiscale tra luci e ombre, ma le riforme strutturali sono un’altra cosa inserito:: Marzo 07, 2016, 04:57:00 pm
Salve Ggianni,
ti segnaliamo questo nuovo intervento pubblicato sul sito:
Delega fiscale tra luci e ombre, ma le riforme strutturali sono un’altra cosa
   
Fisco Equo pubblica l’intervento di Luigi Mazzillo*, pronunciato in occasione del Convegno su “Decreti di riforma fiscale e statuto del contribuente: linee ed obbiettivi”, tenutosi a Roma presso il Tar del Lazio lo scorso 2 marzo. (Vai al documento integrale).

Riforma organica della tassazione non doveva essere, e riforma organica non è stata. I decreti attuativi della delega fiscale vanno presi per quello che sono: una manutenzione straordinaria. Con elementi positivi, e i passi avanti verso un fisco più semplice, certo e moderno sono tra questi; e altri invece negativi, come l’indebolimento dell’effetto di deterrenza nella lotta all’evasione e l’ennesimo smacco ai diritti del contribuente. Ma soprattutto con tante questioni che l’incompleta attuazione della delega ha lasciato irrisolte: dal riordino delle agenzie fiscali alla razionalizzazione dell’Iva, fino alla revisione dell’Irap e la riforma del catasto. Tutta una serie di punti interrogativi che confermano ancora una volta la necessità e l’urgenza di proporre e portare a termine una riforma strutturale del sistema fiscale.

La delega incompiuta. Benché non nascesse come riforma organica del sistema fiscale, la delega avrebbe dovuto investire quasi tutto l’ordinamento tributario: dalla tassazione del reddito d’impresa all’Irap, dal contrasto all’evasione all’abuso del diritto, passando per accertamento, contenzioso, semplificazioni delle procedure, catasto e giochi. Eppure, dei 43 obiettivi della riforma ne sono stati raggiunti non più del 50 per cento. Col risultato che molte questioni sono rimaste irrisolte – revisione di Iva, Irap, riforma del catasto e del sistema di riscossione degli enti locali- e altre sono ancora aperte, per via di interventi troppo morbidi.

Il riordino “minimal”. Il riferimento è al riordino delle agenzie fiscali, che in buona sostanza si è limitato al riequilibrio del rapporto fra personale dirigenziale e non. L’impressione è che con l’Amministrazione finanziaria si stia forse perdendo il senso dell’orientamento strategico, con il rischio di comprometterne il ruolo che si era andato positivamente definendo a partire dai primi anni ’90.  Il legislatore delegato del 1999 aveva chiaramente riconosciuto la natura specialistica delle Agenzie fiscali e ne aveva sancito la conseguente autonomia organizzativa, da esercitarsi attraverso un proprio regolamento di organizzazione. L’obiettivo, insomma, era quello di superare il modello burocratico a favore di un assetto manageriale che avesse il suo perno in una progressione di carriera basata sui risultati. La scelta di bandire un concorso aperto a tutti va nella direzione contraria, data la delicatezza e la rilevanza delle mansioni svolte (si pensi al ruling o alle verifiche sui soggetti internazionali). Sono ruoli che non possono essere affidati al primo venuto: nelle selezioni per ruoli apicali non può̀ non entrare anche la valutazione curriculare.

Banche dati e tracciabilità. Luci e ombre su questo fronte. A cominciare dall’adozione della fatturazione elettronica tra privati, che di per sé potrà sortire effetti limitati in termini di riduzione dell’evasione Iva. La e-fattura, infatti, può essere uno strumento utilissimo solo se l’Amministrazione finanziaria è messa in condizione di acquisire - tempestivamente, compiutamente ed in modo organizzato - i dati in esse contenuti, come fatto con successo in Portogallo. Più tracciabilità e maggiore incrocio di banche dati non possono che essere obiettivi condivisibili, e i risultati che sta ottenendo il nuovo Isee non fa che confermarne l’importanza. Per questo appare contraddittoria la scelta di alzare il tetto al contante e l’abolizione del divieto di pagare cash i canoni degli affitti, che oltre a favorire evasione e riciclaggio hanno un costo economico diretto che è stato calcolato per l’Italia nell’ordine di 8 miliardi annui – lo 0,52 per cento del Pil, contro una media Ue dello 0,40. Assolutamente positive le disposizioni del dlgs 160/2015 che intervengono sul monitoraggio e sulla revisione delle agevolazioni fiscali e sulla rilevazione dell’evasione fiscale e contributiva.

La “troppa” semplificazione. Si è detto che uno degli aspetti positivi della delega fiscale è il passo in avanti fatto nell’ottica di un Fisco più semplice e certo. Il rischio, tuttavia, è che su alcuni aspetti il Legislatore abbia ecceduto, sottovalutando il rischio di attenuare troppo l’effettività delle sanzioni amministrative e, quindi, indebolito l’attività di deterrenza. Un intervento probabilmente eccessivo, per un sistema tributario basato sull’adempimento volontario. In questa ottica, suscita perplessità la decisione di concedere una nuova (ennesima) rateizzazione dei debiti tributari. È molto probabile che molti si convincano che non è il caso di affrettarsi a versare, posto che si può rinviare tutto al prossimo giro. Nel mentre, il fenomeno delle imposte dichiarate dovute e non versate sta assumendo dimensioni allarmanti: 36,3 miliardi nel quadriennio 2008-2011, di cui 11,5 miliardi nel solo 2013. Si tratterà̀ pure, forse, di un modo, peraltro alquanto improprio, di finanziare alcune imprese in difficoltà, ma è di tutta evidenza che ci si espone al rischio concreto di insolvenza ai danni dello Stato e di compromissione dell’azione di riscossione. A fiaccare ancor di più la deterrenza è da un lato la nuova disciplina del raddoppio dei termini di accertamento; dall’altro l’attenuazione delle sanzioni per l’infedele dichiarazione.

L’urgenza di una riforma. A conti fatti, questa “manutenzione straordinaria” neanche troppo ben riuscita non fa che confermare l’urgenza di una riforma, stavolta davvero strutturale del sistema fiscale. A dirlo sono i dati: su 28 paesi dell’Ue, siamo al sesto posto quanto a pressione fiscale (44% del Pil), e come se non bastasse il peso tributario è caricato per l’80% sui redditi da lavoro dipendente e da pensione perché, nel frattempo, siamo anche al secondo posto per evasione fiscale (120 miliardi l’anno). Il tutto avvolto da un groviglio di 500 adempimenti che rendono il nostro sistema uno dei più complessi e onerosi d’Europa. (Vai al documento integrale).

*L’autore è Presidente aggiunto onorario della Corte dei Conti

Da – Fisco Equo
7009  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / GUSTAVO ZAGREBELSKY In vista della consultazione popolare fissata a ottobre... inserito:: Marzo 07, 2016, 04:55:13 pm
Referendum Costituzionale, Gustavo Zagrebelsky spiega i 15 motivi per dire no alla riforma voluta da Renzi

In vista della consultazione popolare fissata a ottobre sulle modifiche alla Carta, il presidente emerito della Consulta elenca le ragioni per votare contro il disegno messo a punto dal premier e dal suo governo


Di F. Q. | 6 marzo 2016

Pubblichiamo ampi stralci di un documento preparato per l’associazione Libertà e Giustizia dal professor Gustavo Zagrebelsky in vista del referendum.

Nella campagna per il referendum costituzionale i fautori del Sì useranno alcuni slogan. Noi, i fautori del NO, risponderemo con argomenti. Loro diranno, ma noi diciamo.

1. Diranno che “gli italiani” aspettano queste riforme da vent’anni (o trenta, o anche settanta, secondo l’estro)
Noi diciamo che da quando è stata approvata la Costituzione – democrazia e lavoro – c’è chi non l’ha mai accettata e, non avendola accettata, ha cercato in ogni modo, lecito e illecito, di cambiarla per imporre una qualche forma di regime autoritario. Chi ha un poco di memoria, ricorda i nomi Randolfo Pacciardi, Edgardo Sogno, Luigi Cavallo, Giovanni Di Lorenzo, Junio Valerio Borghese, Licio Gelli, per non parlare di quella corrente antidemocratica nascosta che di tanto in tanto fa sentire la sua presenza nella politica italiana. A costoro devono affiancarsi, senza confonderli, coloro che negli anni hanno cercato di modificare la Costituzione spostandone il baricentro a favore del governo o del leader: commissioni bicamerali varie, “saggi” di Lorenzago, “saggi” del presidente, eccetera. È vero: vi sono tanti che da tanti anni aspettano e pensano che questa sia finalmente “la volta buona”. Ma questi non sono certo “gli italiani”, i quali del resto, nella maggioranza che si è espressa nel referendum di dieci anni fa, hanno respinto col referendum un analogo tentativo, il tentativo che, più di tutti gli altri sembrava vicino al raggiungimento dello scopo. A coloro che vogliono parlare “per gli italiani”, diciamo: parlate per voi.

2. Diranno che “ce lo chiede l’Europa”
(…) Diteci che cosa rappresenta l’Europa di oggi se non principalmente il tentativo di garantire equilibri economico-finanziari del Continente per venire incontro alla “fiducia degli investitori” e a proteggerli dalle scosse che vengono dal mercato mondiale. A questo fine, l’Europa ha bisogno d’istituzioni statali che eseguano con disciplina i Diktat ch’essa emana, come quello indirizzato il 5 agosto 2011 al “caro primo ministro”, contenente un vero e proprio programma di governo ultra-liberista, in materia economico-sociale, associato all’invito di darsi istituzioni decidenti per eseguirlo in conformità. Dite: “Ce lo chiede l’Europa” e tacete della famosa lettera Draghi-Trichet, parallela ad analoghi documenti provenienti da “analisti” di banche d’affari internazionali, che chiede riforme istituzionali limitative degli spazi di partecipazione democratica, esecutivi forti e parlamenti deboli, in perfetta consonanza con ciò che significano le “riforme” in corso nel nostro Paese. (…) A chi dice: ce lo chiede l’Europa, poniamo a nostra volta la domanda: qual è l’Europa alla quale volete dare risposte?

3. Diranno che le riforme servono alla “governabilità”
(..) “Governabile” è chi si lascia docilmente governare e chiediamo: chi si deve lasciar governare e da chi? Noi pensiamo che occorra “governo”, non governabilità, e che governo, in democrazia, presupponga idee e progetti politici capaci di suscitare consenso, partecipazione, sostegno. In assenza, la democrazia degenera in linguaggio demagogico, rassicurazioni vuote, altra faccia della rassegnazione, e dell’abulia: materia passiva, irresponsabile e facile alla manipolazione. Questa è la governabilità. A chi dice “governabilità” noi rispondiamo: partecipazione e governo democratico.

4. Diranno: ma la riforma è pur stata approvata dal Parlamento, l’organo della democrazia
Ma noi diciamo: quale Parlamento? Il Parlamento illegittimo, eletto con una legge elettorale obbrobriosa, dichiarata incostituzionale, per l’appunto, per essere antidemocratica (deputati e senatori nominati e non eletti; premio di maggioranza abnorme che ha scollato gli eletti dagli elettori). La Corte costituzionale ha bollato quell’elezione come una specie di golpe elettorale, per avere “rotto il rapporto di rappresentanza” (testuale). È vero che la Corte aggiunse che, per l’esigenza di continuità costituzionale, le Camere così elette non sarebbero decadute immediatamente.

Ma è chiaro a tutti coloro che hanno ancora un’idea seppur minima di democrazia che da quella sentenza si sarebbe dovuto procedere tempestivamente, per mezzo d’una nuova legge elettorale conforme alla Costituzione, a nuove elezioni, per ristabilire il rapporto di rappresentanza. (…) È vero che, scandalosamente, anche da parte delle più alte autorità della Repubblica, dell’informazione e da parte di non poca “dottrina” costituzionalistica, si fa finta che non esista una questione di legittimità che getta un’ombra su tutta questa vicenda, tanto più in quanto, se non vi fosse stato l’incostituzionale premio di maggioranza, sarebbero mancati i numeri necessari per portarla a compimento. (…)

5. Parleranno di atto d’orgoglio politico dei parlamentari, finalmente capaci di “autoriformarsi” senza guardare al proprio interesse
Noi parliamo, piuttosto, d’arroganza dell’esecutivo. Queste riforme sono state avviate dall’esecutivo con l’impulso di quello che, per debolezza e compiacenza, è potuto essere per diversi anni il vero capo dell’esecutivo, il presidente della Repubblica; sono state recepite nel programma di governo e tradotte in disegni di legge imposti all’approvazione del Parlamento con ogni genere di pressione (minacce di scioglimento, di epurazione, sostituzione dei dissenzienti, bollati come dissidenti), di forzature (strozzamento delle discussioni parlamentari, caducazione di emendamenti), di trasformismo parlamentare (passaggi dall’opposizione alla maggioranza in cambio di favori e posti) fino ai voti di fiducia, come se la Costituzione e le istituzioni fossero materia appartenente al governo, fino a raggiungere il colmo: la questione di fiducia posta addirittura agli elettori, sull’approvazione referendaria della riforma (o me o la riforma, sempre che voglia prendere sul serio un simile proclama da parte di uno che non eccede in coerenza ed eccede invece in spregiudicatezza). Questo non è il primato della politica, ma delle minacce e degli allettamenti. Se volete parlare di politica, noi diciamo: sì, ma sapendo che è mala politica.

6. S’inorgogliranno chiamandosi “governo costituente”
Noi diciamo che il “governo costituente”, in democrazia, è un’espressione ambigua. Sono i governi dei caudillos e dei colonnelli sud-americani, quelli che, preso il potere, si danno la propria costituzione: costituzione non come patto sociale e garanzia di convivenza ma come strumento, armatura del proprio potere. Il popolo e la sua rappresentanza, in democrazia, possono essere “costituenti”. I governi, poiché sono espressione non di tutta la politica, ma solo d’una parte, devono stare sotto la Costituzione, non sopra come credono invece di stare d’essere i nostri riformatori che si fanno forti dello slogan “abbiamo i numeri”, come se avere i numeri, comunque racimolati, equivalga all’autorizzazione a fare quel che si vuole. (…)

7. Diranno che l’iniziativa del governo nelle faccende costituzionali non ha nulla d’anormale e, quelli che sanno, porteranno l’esempio della Francia, del generale De Gaulle e della sua riforma costituzionale del 1962.
Noi ci limitiamo a porre queste domande: credete davvero d’essere dei nuovi De Gaulle, il capo della Resistenza repubblicana che sbarca in Normandia al momento della liberazione? E di poter paragonare l’Italia di oggi alla Francia d’allora? La riforma francese aveva alla sua base le idee costituzionali enunciate “disinteressatamente” nel 1946 a Bayeux, guardando lontano e radicandosi nel passato della storia della Repubblica francese. Noi abbiamo invece testi raffazzonati all’ultima ora, la cui approvazione si è resa possibile per equivoci compromessi concettuali e lessicali, proprio sul punto centrale della riforma del Senato. (…)

8. Diranno che, anche ad ammettere che la riforma abbia avuto una genesi non democratica e un iter parlamentare telecomandato nei tempi e nei contenuti, alla fine la democrazia trionferà nel referendum confermativo.
Noi diciamo che la riforma forse sottoposta al giudizio degli elettori porta il segno della sua origine tecnocratica unilaterale e che il referendum richiesto dallo stesso governo che l’ha voluta lo trasformerà in un plebiscito. Non si tratterà di un giudizio su una Costituzione destinata a valere negli anni, ma di un voto su un governo temporaneamente in carica. (…) Avremo una campagna referendaria in cui il governo avrà una presenza battente, come se si trattasse d’una qualunque campagna elettorale a favore di una parte politica, e farà valere il “plusvalore” che assiste sempre coloro che dispongono del potere, complice anche un’informazione ormai quasi completamente allineata.

9. Diranno che non c’è da fare tante storie, perché, in fondo si tratta d’una riforma essenzialmente tecnica, rivolta a razionalizzare i percorsi decisionali e a renderli più spediti ed efficienti
Noi diciamo: altro che tecnica! È la razionalizzazione d’una trasformazione essenzialmente incostituzionale, che rovescia la piramide democratica. Le decisioni politiche, da tempo, si elaborano dall’alto, in sedi riservate e poco trasparenti, e vengono imposte per linee discendenti sui cittadini e sul Parlamento, considerato un intralcio e perciò umiliato in tutte le occasioni che contano. La democrazia partecipativa è stata sostituita da un sistema opposto di oligarchia riservata. (…) Le “riforme” costituzionali sono in realtà adeguamenti della Costituzione a questa realtà oligarchica. Poiché siamo per la democrazia, e non per l’oligarchia, siamo contrari a questo adeguamento spacciato come riforma.

10. Diranno che i partiti di sinistra, già al tempo della Costituente, avevano criticato il bicameralismo (cuore della riforma) e che perfino Pietro Ingrao, ancora negli anni 80, si espresse per l’abolizione del Senato
Noi diciamo: andate a leggere i resoconti di quei dibatti e vi renderete conto che si trattava, allora, di semplificare le istituzioni parlamentari per dare più forza alla rappresentanza democratica e fare del Parlamento il centro della vita politica (si parlava di “centralità del Parlamento”). La visione era quella della democrazia partecipativa o, nel linguaggio di Ingrao, della “democrazia di massa”. Oggi è tutto il contrario: si tratta di consolidare il primato dell’esecutivo emarginando la rappresentanza, in quanto portatrice di autonome istanze democratiche. (…)

11. Diranno che siamo come i ciechi conservatori che hanno paura del nuovo, anzi del “futuro-che-è-oggi”, e sono paralizzati dal timore “dell’uomo forte”
Noi diciamo che a noi non interessano “riforme” che riforme non sono, ma sono “consolidazioni” dell’esistente: un esistente che non ci piace affatto perché portatore di disgregazione costituzionale e di latenti istinti autoritari. Questi istinti non si manifestano necessariamente attraverso l’uso esplicito della forza da parte di un “uomo forte”. Questo accadeva in altri, più primitivi tempi. Oggi, si tratta piuttosto dell’occupazione dei posti strategici dell’economia, della politica e della cultura che forma l’ideologia egemonica del momento. Questo è ciò che sta accadendo manifestamente e solo chi chiude gli occhi e vuole non vedere, può vivere tranquillo. Si tratta, per portare a compimento questo disegno, di eliminare o abbassare gli ostacoli (pluralismo istituzionale, organi di controllo e di garanzia) che frenano il libero dispiegarsi del potere che si coagula negli organi esecutivi. Non occorre eliminarli, ma normalizzarli, ugualizzarli, standardizzarli, il che significa l’opposto del far opera costituente.

12. Diranno che siamo per l’immobilismo, cioè che difendiamo l’indifendibile: una condizione della politica che non ha mai toccato un punto così basso in tutta la storia repubblicana, mentre loro vogliono rianimarla e rinnovarla
Noi opponiamo una classica domanda alla quale i riformatori costantemente sfuggono: sono più importanti le istituzioni o coloro che operano nelle istituzioni? La risposta, che sta non solo in venerandi scritti sulla politica e sulla democrazia – che i nostri riformatori, con tranquilla e beata innocenza mostrano d’ignorare completamente – ma anche nelle lezioni della storia, è la seguente: istituzioni imperfette possono funzionare soddisfacentemente se sono in mano a una classe politica degna e consapevole del compito di governo che è loro affidato, mentre la più perfetta delle costituzioni è destinata a funzionare malissimo in mano a una classe politica incapace, corrotta, inadeguata. Per questo noi diciamo: non accollate a una Costituzione le colpe che sono vostre. (…)

13. Diranno: non ve ne va bene una; la vostra è una opposizione preconcetta. Non siete d’accordo nemmeno sull’abolizione del Cnel e la riduzione dei “costi della politica”?
Noi diciamo: qualcosa c’è di ovvio, su cui voteremmo pure sì, ma è mescolato, come argomento-specchietto, per far passare il resto presso un’opinione pubblica orientata anti-politicamente. A parte il Cnel, che in effetti s’è dimostrato in questi anni una scatola quasi vuota, la riduzione dei costi della politica avrebbe potuto essere perseguito in diversi altri modi: riduzione drastica del numero dei deputati, perfino abolizione pura e semplice del Senato in un contesto di garanzie ed equilibri costituzionali efficaci. Non è stato così.

Si è voluto poter disporre d’un argomento demagogico che trova alimento nella lunga tradizione antiparlamentare che ha sempre alimentato il qualunquismo nostrano. Avere unificato in un unico voto referendario tanti argomenti tanto diversi (forma di governo e autonomie regionali) è un abile trucco costituzionalmente scorretto, che impedisce di votare sì su quelle parti della riforma che, prese per sé e in sé, risultassero eventualmente condivisibili. Voi dite di voler combattere l’antipolitica, ma proprio voi ne esprimete l’essenza. (…)

14. Diranno: come è possibile disconoscere il serio lavoro fatto da numerosi esperti, a incominciare dai “saggi” del presidente della Repubblica, passando per la Commissione governativa, per le tante audizioni parlamentari di distinti costituzionalisti, fino ad approdare al Parlamento e al ministro competente per le riforme costituzionali. Tutto ciò non è per voi garanzia sufficiente d’un lavoro tecnicamente ben fatto?
(…) Le questioni costituzionali non sono mai solo tecniche. A ogni modifica della collocazione delle competenze e delle procedure corrisponde una diversa allocazione del potere. Nella specie, ciò che si sta realizzando, per l’effetto congiunto della legge elettorale e della riforma costituzionale, è l’umiliazione del Parlamento elettivo davanti all’esecutivo; l’esecutivo, un organo che, non essendo “eletto”, potrà derivare dall’iniziativa del presidente della Repubblica che, dall’alto, potrà manovrare – come è avvenuto – per ottenere la fiducia della Camera.
Quanto poi alla bontà del testo di riforma dal punto di vista tecnico, ci limitiamo a questo esempio, la definizione delle competenze legislative da esercitare insieme dalla Camera e dal Senato (sì, il Senato rimane, il bicameralismo anche e, se la seconda Camera non si arenerà su un binario morto, i suoi rapporti con la prima Camera daranno luogo a numerosi conflitti): “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere per (sic!) le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali, e soltanto per le leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali concernenti la tutela delle minoranze linguistiche, i referendum popolari, le altre forme di consultazione di cui all’art. 71, per le leggi che determinano l’ordinamento, la legislazione elettorale, gli organi di governo, le funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane e le disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni, per la legge che stabilisce le norme generali, le forme e i termini della partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea, per quella (?) che determina i casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l’ufficio di senatore e di cui all’art. 65, primo comma, e per le leggi di cui agli articoli 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116 terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo comma, 122, primo comma, e 132, secondo comma”.

Se questo pasticcio è il prodotto dei “tecnici”, noi diciamo che hanno trattato la Costituzione come una legge finanziaria o, meglio, come un Decreto milleproroghe qualunque: sono infatti formulati così. Quanto ai contenuti, come possono i “tecnici” non aver colto le contraddizioni dell’art. 5, noto perché su di esso si è prodotta una differenziazione nella maggioranza, poi rientrata. Riguarda la composizione del Senato e non si capisce se i senatori rappresenteranno le Regioni in quanto enti, i gruppi consiliari oppure le popolazioni; non si capisce poi se saranno effettivamente scelti dagli elettori o dai Consigli regionali. Saranno eletti – si scrive – dai Consigli regionali “In conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri”. Ma, se queste scelte saranno vincolanti, non ci sarà elezione ma, al più ratifica; se non saranno vincolanti, come si può parlare di “conformità”.

Un pasticcio dell’ultima ora che darà filo da torcere a che dovrà darne attuazione: parallele convergenti, quadratura del cerchio… Agli autorevoli fautori di norme come queste, citate qui a modo d’esempio chiediamo sommessamente: dite con parole vostre e con parole chiare che cosa avete voluto. (…) Questi tecnici non hanno dato il meglio di sé, forse perché hanno dovuto nascondere nell’oscurità l’assenza di chiarezza che ha regnato nella testa di coloro che hanno dato loro il mandato di scrivere queste norme. Loro non lo diranno, ma lo diciamo noi. Nella confusione, una cosa è chiara: l’accentramento a favore dello Stato a danno delle Regioni e, nello Stato, a favore dell’esecutivo a danno dei cittadini e della loro rappresentanza parlamentare. Orbene, noi della Costituzione abbiamo un’idea diversa: patto solenne che unisce un popolo sovrano che così sceglie come stare insieme in società. “Unisce”? Questa riforma non unisce ma divide. Non è una costituzione, ma una s-costituzione. “Popolo sovrano”?

Dov’è oggi svanita la sovranità, quella sovranità che l’art. 1 della Costituzione pone nel popolo e che l’art. 11 autorizza bensì a “limitare”, ma precisando le condizioni (la pace e la giustizia tra le Nazioni) e vietando che sia dismessa e trasferita presso poteri opachi e irresponsabili? È superfluo ripetere quello che da tutte le parti si riconosce: per molte ragioni, il popolo sovrano è stato spodestato. Se manca la sovranità, cioè la libertà di decidere da noi della nostra libertà, quella che chiamiamo costituzione non più è tale. Sarà, al più, uno strumento di governo di cui chi è al potere si serve finché è utile e che si mette da parte quando non serve più. La prassi è lì a dimostrare che proprio questo è stato l’atteggiamento sfacciatamente strumentale degli ultimi anni: la Costituzione non è stata sopra, ma sotto la politica e perciò è stata forzata e disattesa innumerevoli volte nel silenzio compiacente della politica, della stampa, della scienza costituzionale. Ora, la riforma non è altro che la codificazione di questa perdita di sovranità. Apparentemente, la vicenda che stiamo vivendo è una nostra vicenda. In realtà, chi la conduce lo fa in nome nostro ma, invero, per conto d’altri che già hanno fatto il bello e il cattivo tempo nei Paesi economicamente, politicamente e socialmente più deboli e s’apprestano a continuare. Per questo, chiedono governi che non abbiano da dipendere dai parlamenti e, ove sia il caso, dispongano di strumenti per mettere i parlamenti, rappresentativi dei cittadini, nelle condizioni di non nuocere.

Seguiamo questa concatenazione: la Costituzione è espressione della sovranità; se manca la sovranità, non c’è costituzione. La Costituzione e il Diritto costituzionale, con la sedicente riforma costituzionale, s’avviano a mantenere il nome, ma a perdere la cosa. L’impegno per il No al referendum ha, nel profondo, questo significato: opporsi alla perdita della nostra sovranità, difendere la nostra libertà. Post scriptum: C’è poi ancora un altro argomento che, per la sua stupidità, abbiamo esitato a inserire nella lista di quelli meritevoli d’essere presi in considerazione. È già stato usato ed è destinato a essere ripetuto in misura proporzionale alla sua insensatezza. Per questo, non lo ignoriamo semplicemente, come forse meriterebbe, ma lo collochiamo alla fine, a parte.

15. Diranno: sarà divertente vedere dalla stessa parte un Brunetta e uno Zagrebelsky
Noi diciamo: non fate torto alla vostra intelligenza. Come non capire che si può essere in disaccordo, anche in disaccordo profondo, sulle politiche d’ogni giorno, ma concordare sulle regole costituzionali che devono garantire il corretto confronto tra le posizioni, cioè sulla democrazia? In verità, chi pensa di vedere in questa concordanza un motivo di divertimento, e non una seria ragione per dubitare circa il valore dei cambiamenti costituzionali in atto, non fa che confessare candidamente un suo retro-pensiero. Questo: che tra una Costituzione e una legge qualunque non c’è nessuna differenza essenziale; che, quindi, se sei in disaccordo politico con qualcuno, non puoi essere in accordo costituzionale con lui, perché tutto è politica e nulla è costituzione. A noi, questo, non sembra un modo di pensare rassicurante.

Da Il Fatto Quotidiano del 6 marzo 2016

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/03/06/referendum-costituzionale-gustavo-zagrebelsky-spiega-i-15-motivi-per-dire-no-alla-riforma-voluta-da-renzi/2522863/#_=_


7010  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / Stefano FOLLI. - Primarie centrosinistra, i numeri dell'apparato inserito:: Marzo 07, 2016, 04:52:55 pm
Primarie centrosinistra, i numeri dell'apparato
Spoglio dei voti per le primarie centrosinistra a Napoli

Di STEFANO FOLLI
07 marzo 2016
   
A questo punto l'errore più grave sarebbe gonfiare le cifre per abbellire la verità. Un po' come il conto dei manifestanti a piazza San Giovanni o al Circo Massimo. Il rispetto verso i romani e anche verso se stessi impone invece ai dirigenti del Pd di accettare i dati reali delle primarie per quello che sono: l'evidenza di un sostanziale fallimento.

Ha vinto Giachetti con una percentuale netta, ma non c'è granché da esultare. Calcoli non definitivi descrivono un'affluenza di circa il 50-60 per cento inferiore a quella di tre anni, quando il vincitore fu Ignazio Marino. Oggi siamo fra i 40 e i 50mila voti contro i 100mila ufficiali di allora (poi scesi a circa 94mila). In mezzo ci sono le spiegazioni del disastro: l'inchiesta sulla criminalità mafiosa, gli arresti, la rete del malaffare, la progressiva delegittimazione della giunta fino alla caduta del sindaco, il ricorso obbligato al commissario. Una città snervata e da troppo tempo priva di un'amministrazione efficiente, sullo sfondo di un centrosinistra che sulla carta rivendica la maggioranza relativa ma è roso dai suoi errori e dalla crisi come un albero aggredito dalle termiti.

Con tali premesse sarebbe davvero paradossale se i cittadini si fossero affrettati alle urne per scegliere un nome e un volto peraltro abbastanza sconosciuti. Qui è un'altra bizzarria del caso romano. Le primarie sono per eccellenza lo strumento che "personalizza" il messaggio politico e stabilisce un rapporto diretto, nel bene e nel male, fra l'elettore e il candidato. Occorrono personaggi solidi, capaci di comunicare in modo moderno e di conquistare l'attenzione dell'opinione pubblica. Viceversa a Roma non abbiamo avuto né i grandi comunicatori né i brillanti candidati e tanto meno l'opinione pubblica.

Quei 40-50mila voti - che potrebbero essere anche meno dopo le verifiche - hanno il sapore dell'apparato, di un mondo comunque legato al partito e pronto a rispondere alle sue esigenze. Il voto di opinione, in grado di testimoniare della vitalità di una proposta politica, a Roma è rimasto in larga misura a casa. Un segnale che è negativo in assoluto, ma lo è in modo particolare perché il test del Campidoglio coinvolge Renzi in prima persona. Vale a dire il premier-segretario che deve tutto alle primarie e che ha costruito le sue fortune sul rapporto diretto con gli elettori, al di là e al di sopra degli apparati. A Roma invece per cavarsi d'impaccio egli e i suoi hanno avuto bisogno proprio di quel poco di struttura partitica che ancora esiste, mentre l'opinione "renziana" è rimasta abbastanza indifferente al rito ormai logoro dei gazebo.

S'intende che non hanno torto Orfini e lo stesso Giachetti quando rivendicano i dati dell'affluenza, per quanto deludenti siano, contrapponendoli alle poche migliaia di "clic" elettronici con cui i Cinque Stelle scelgono i loro candidati. Eppure l'argomento, che pure ha una sua forza polemica da spendere in campagna elettorale, non basta a mascherare l'insuccesso. È meglio riconoscerlo con umiltà, senza pasticciare con le cifre, ammettendo che forse non si poteva fare di più dopo i peggiori tre anni nella storia della sinistra romana. Ciò non toglie che la mediocrità dello spettacolo offerto è stata al di sotto delle attese.

Nel momento in cui si trattava di recuperare la credibilità perduta ed era urgente trasmettere un messaggio chiaro, in grado di suggestionare e coinvolgere il sentimento collettivo intorno a un'idea della Capitale e della sua resurrezione, si è scelto di andare alle primarie nel segno del basso, anzi bassissimo profilo. Candidati che la gente conosceva poco e male, privi di vero fascino. Uomini di qualche esperienza amministrativa, anche positiva, e tuttavia incapaci di trasmettere una visione della città, privi di un programma che non si esaurisse in un elenco abbastanza ovvio di buone intenzioni. Come se non fosse in ballo il destino di una delle metropoli più importanti del pianeta.

La pochezza del dibattito emerso in queste settimane è l'anticipo, si può temere, di una contesa per il Campidoglio che rischia di essere altrettanto monotona, grigia e retorica. Giocata tra forze talmente poco convinte di sé - compresa l'alternativa grillina - da autorizzare i sospetti che in realtà nessuno o quasi voglia veramente vincere la disfida. Ma, se così fosse, la politica avrebbe abdicato ancora una volta e in modo clamoroso, diciamo senza precedenti, alle sue responsabilità. Sotto gli occhi del mondo. Perché quello che accade a Roma sembra interessare a tutti tranne che ai romani.

© Riproduzione riservata
07 marzo 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/03/07/news/i_numeri_dell_apparato-134922087/?ref=HRER2-1
7011  Forum Pubblico / LA CULTURA, I GIOVANI, La SOCIETA', L'AMBIENTE, LA COMUNICAZIONE ETICA, IL MONDO del LAVORO. / 10 consigli di un 24enne multimilionario per diventare ricchi e gestire il ... inserito:: Marzo 07, 2016, 04:49:48 pm
10 consigli di un 24enne multimilionario per diventare ricchi e gestire il proprio impero

L'Huffington Post | Di Silvia Renda

Pubblicato: 26/02/2016 17:05 CET Aggiornato: 26/02/2016 17:05 CET

Daniel Ally aveva 24 anni quando guadagnò il suo primo milione. Una conquista alla quale non è arrivato per caso, ma fu la prima tappa di un percorso fatto di impegni e sacrifici. Certo i soldi fanno gola a molti, certo in molti invidiano l'impero economico del ragazzo, ma in quanti sarebbero disposti a sacrificare vacanze e mettere anima e corpo per ottenere i suoi stessi risultati?

Seppure anche la fortuna e il caso giochino infatti un ruolo fondamentale per raggiungere lo scopo, giocare di strategia garantisce i risultati migliori. La formula magica per diventare come Ally non esiste, ma seguire delle direttive può avvicinarci di più alla meta. Ai suoi potenziali emuli Ally, su Business Insider, ha rilasciato 10 consigli per diventare ricchi e gestire al meglio il proprio impero. Vi stupirete di quanto per la causa non bastiate solo voi, ma gli altri svolgano un ruolo fondamentale. E forse alcuni, dopo aver letto, penseranno che no, non ne vale la pena.

    1
    Costruisci qualcosa più grande di te
    Quando la brama di fama e ricchezza annebbia qualsiasi altro pensiero, spesso si finisce col vedere gli altri come una minaccia al raggiungimento del proprio scopo. Condividere significa essere più deboli, aiutare gli altri significa dar loro un vantaggio che potrebbe farci arrivare secondi. In realtà per Daniel non esiste pensiero più sbagliato. E nell’aiutare gli altri che traiamo i maggiori insegnamenti e i maggiori vantaggi. “Coloro che vogliono essere ricchi devono arricchire prima gli altri”.
    2
    Allineati con gli esperti
    Per raggiungere il meglio bisogna essere circondati dal meglio. Ogni milionario dispone di un team di esperti e i loro consigli possono pregiudicare successi e sconfitte dell’imprenditore. Per questo è bene scegliere con attenzione da chi circondarsi. Non dovete accontentarvi voi e non dovete scegliere gente che si accontenti, ma sempre pronta a spronarvi a far di più e a dare il meglio. “Trova esperti nel tuo settore e se è possibile fai amicizia con loro”.
    3
    Crea un sistema che funzioni
    Imposta la tua giornata secondo una tabella funzionale. Stabilire orari e scadenze ti aiuta a gestire al meglio il tuo tempo. Questo non significa necessariamente mettere la sveglia la mattina all’alba per sfruttare quanto più possibile la giornata. Bisogna essere in grado di conoscere se stessi, per scoprire quale tabella di marcia ci garantirà i risultati più soddisfacenti.
    4
    Marketing e vendite
        Si dice che la pubblicità sia l’anima del commercio e per diventare milionari bisogna innanzitutto essere in grado di vendere se stessi. Il marketing aiuta a costruire la propria credibilità e a migliorare le vendite dei propri prodotti, per questo è bene essere esperti nel settore. “Bisogna trovare un prodotto da vendere e che abbia una storia da raccontare”.
    5
    Prendi decisioni rapide
    Quando gestisci un grande impero le decisioni da prendere sono numerose. Rimandare e delegare può sgretolare lentamente quell’impero, rendendolo più debole e impedendogli di crescere. Assumiti la responsabilità delle tue scelte, non utilizzare scuse per non farlo, non dare agli altri la responsabilità. Una buona leadership ti renderà una macchina da guerra.
    6
    Stabilisci le tue priorità
    Giostrarsi fra migliaia di impegni significa anche avere la freddezza di comprendere quale sia giusto sacrificare o a quale non si può dedicare tutta l’attenzione. Per decidere l'impegno da trascurare è necessario stabilire le proprie priorità e i propri obiettivi. Solo così la scelta causerà meno danni possibili.
    7
    Produci senza sosta
    Per Daniel weekend, giorni festivi e ferie sono solo delle inutili perdite di tempo. Certo, il riposo è importante, questo neanche lui lo nega, ma a suo parere ogni tanto ci si riposa più del necessario. Per essere dei campioni ogni momento libero deve essere impiegato al raggiungimento del proprio scopo. Non essere egoista sprecando del tempo prezioso quando ci sono tante persone che hanno bisogno del tuo aiuto! Ti rendi conto che la tua vera felicità dipende dal lavoro che produci?”
    8
    Servi le persone

    I soldi non sono l’unico fine per il quale i multimilionari decidono di far sacrifici e investire il proprio tempo. Un’ altra motivazione a spingerli a lavorare è la gente. Poter esser in qualche modo di aiuto agli altri. E questo genera automaticamente profitto. “Un tempo ridevo di chi lavorava da volontario, senza esser pagato. Ora posso comprendere”.
    9
    Cerca di migliorare continuamente
   
    “Se si vuole cambiare il mondo è necessario conoscere molto ed essere in grado di cambiare”, dice Daniel. Per far ciò la lettura, gli incontri con le altre persone sono il metodo migliore per ampliare le proprie conoscenze e migliorare.
    10
    Ottieni un feedback
    “Ottenere un feedback è fondamentale se si vuol creare un business di successo”. Avere quella che crediamo essere l’idea migliore del mondo, che però non è in grado di colpire nessun altro all’infuori di noi, è totalmente inutile. I consigli di una fidanzata, un amico, un genitore o anche un estraneo possono aiutarci a osservare dall’esterno le potenzialità e le debolezze dei nostri pensieri e infine risultare vincenti.

Da - http://www.huffingtonpost.it/2016/02/26/consigli-multimilionario-ricchi-_n_9327230.html?ncid=fcbklnkithpmg00000001
7012  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / Maria Elena Boschi, Ministro per le Riforme: Rapporto con le istituzioni inserito:: Marzo 07, 2016, 04:46:34 pm
Rapporto con le istituzioni
La via delle riforme per colmare la distanza tra politica e cittadini
Il ministro delle Riforme risponde all’editoriale di Ferruccio de Bortoli «Il fossato da riempire tra istituzioni e cittadini»

Di Maria Elena Boschi, Ministro per le Riforme costituzionali e rapporti con il Parlamento

Caro direttore, al fondo degli interrogativi posti, con puntualità e passione civile, da Ferruccio de Bortoli sul Corriere di sabato («Il fossato da riempire tra istituzioni e cittadini») c’è una domanda radicale che merita, secondo me, un approfondimento ulteriore: non se, ma quanto gli strumenti della democrazia rappresentativa, e dunque le sue stesse forme, siano efficaci, riescano a colmare il divario — crescente? — tra elettori ed eletti, tra demos e decisori. Prendendo in parola i timori sul pericolo di una «irrilevanza», una «distanza» che richiama «disaffezione» e «disagio» il governo ha messo in campo una serie di riforme di sistema. Quella costituzionale, che troverà a ottobre con il referendum, un momento di coinvolgimento e di partecipazione più ampia, dopo il lungo lavoro parlamentare, peraltro non ancora concluso. E che renderà più leggibile e comprensibile il nostro disegno istituzionale, più chiara la nostra democrazia. La disaffezione alla politica si combatte anche con una politica più chiara e semplice e soprattutto decidente, come fa la nostra riforma.

E non sarà solo una semplificazione, una doverosa razionalizzazione, ma uno sforzo di rendere la architettura delle istituzioni più lineare e coerente, anche con la sua ispirazione costituente. Perché io penso che, anche di fronte alla nuove sfide che ci vengono poste dal disagio di cui parla de Bortoli, dalla Rete, dall’ampliamento delle sfere di cittadinanza, abbiamo una via maestra per trovare soluzioni intelligenti: la nostra Costituzione. Per questo, nella riforma, abbiamo pensato al rafforzamento dell’istituto referendario, tra l’altro introducendo per la prima volta anche referendum propositivi e di indirizzo, non semplicemente come bilanciamento, ma come stress test, come prova da sforzo che ha bisogno di una maggiore responsabilità per evitare che si trasformi, come purtroppo è accaduto troppe volte, in un esercizio velleitario e ininfluente. Inoltre, se da un lato abbiamo alzato il numero delle firme da raccogliere per le proposte di legge di iniziativa popolare, dall’altro, abbiamo reso obbligatoria la discussione e deliberazione in Parlamento, proprio per evitare che restassero a prendere polvere nei cassetti. Quando parlano i cittadini, se messi in condizione di far udire chiara e forte la propria voce, non ci sono guru e blog che tengano. Io stessa, e svesto i panni di ministro per parlare come militante del Partito Democratico, non so quanti saranno gli italiani che affolleranno i gazebo oggi per le primarie a Roma, Trieste, Napoli (ma anche Bolzano, Grosseto, Benevento). Ma penso, con orgoglio, che questa sia non la, ma una risposta, la nostra risposta — non solo numerica, quantitativa, ma qualitativa — a quel senso di spossessamento che de Bortoli lamenta. Non la panacea, ma un tentativo, democratico dunque perfettibile, di aprire, includere, partecipare, condividere, scegliere. Non sarà un voto contro quello di oggi alle primarie, non sarà un voto contro quello al referendum di ottobre, ma per, aperto al cambiamento, se è solo se saremo in grado di rendere il meno accidentato possibile questo percorso di decisione, di definizione di Lebenschancen per dirla con Dahrendorf, questa assunzione di responsabilità da parte dei cittadini che siamo.

Per questo crediamo alla Rete e alle opportunità aperte dal web, ma non pensiamo che sia una surroga, una delega in bianco. Anche il ricorso al débat publique valorizzato dal nostro governo (non solo nel codice appalti ma anche per esempio nella riforma della Rai) non può esonerare la classe politica dalla assunzione delle proprie responsabilità e dalla necessità di decidere. Essere cittadini informati ci impone di essere esigenti, critici, senza sconti per nessuno. Lo scrutinio deve valere per ognuno di noi, anche per chi si nasconde dietro gli algoritmi.

In questo senso, invito a non banalizzare anche un’altra riforma di sistema che abbiamo messo in campo, quella della legge elettorale. Che finalmente restituirà ai cittadini il diritto di sapere il giorno stesso del voto chi avrà vinto le elezioni. La riforma costituzionale e la legge elettorale insieme daranno la possibilità ai cittadini di scegliere non solo i parlamentari, ma la maggioranza di governo. Il popolo sceglie di più non di meno quando ha la possibilità di individuare la maggioranza di governo, come già aveva evidenziato anche Mortati. Un risultato tanto più apprezzabile se si guarda quanto sta succedendo in questi giorni in Europa, dalla Spagna all’Irlanda, con sistemi elettorali che favoriscono, quelli sì, ammucchiate e trasformismi, incertezza e instabilità. Per la prima volta siamo un esempio positivo su questo terreno, grazie all’Italicum che permette di scegliere le maggioranze di governo ai cittadini al momento del voto e non ai partiti dopo il voto, mettendoci in condizione non solo di contarci, ma di contare.

Per questo è non solo opportuno, ma urgente che si dibatta e si discuta ancora di proposte — come quella sulla rappresentanza sindacale, ad esempio — per colmare il fossato e non scoraggiare l’impegno, che c’è eccome, di chi chiede voce e conto agli eletti. In questa capacità di adattamento, nella spinta a non schivare i problemi, ma ad affrontarli con soluzioni condivise, credibili, sempre migliorabili, risiede la forza mite della democrazia. Non saranno sufficienti, certo, ma le riforme che stiamo portando avanti, caro direttore, non sono e non devono essere considerate un punto di arrivo, ma di partenza, per fare dell’Italia, come ci siamo impegnati a fare, un Paese più semplice e più giusto.

5 marzo 2016 (modifica il 6 marzo 2016 | 14:38)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/16_marzo_06/via-riforme-colmare-distanza-politica-cittadini-ministro-boschi-b24b3b6e-e301-11e5-a080-fdf627ee5982.shtml
7013  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / GIUNTI. Carlo Nordio: "Ultima chiamata a Renzi per riformare le intercettazioni inserito:: Marzo 06, 2016, 07:23:38 pm
Il procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio all'HuffPost: "Ultima chiamata a Renzi per riformare le intercettazioni"

L'Huffington Post |  
Di Arianna Giunti

“La responsabilità della mancanza di una legge sulle intercettazioni è esclusivamente politica. Ed è ignobile e inaccettabile che si sia passati attraverso una devastazione dei diritti costituzionali di riservatezza. La politica ha il dovere di intervenire. Se a Renzi le cose stanno bene così le lasci come sono. Ma se dice che devono essere cambiate, allora lo faccia il più presto possibile”.

Mentre nelle Procure di mezza Italia infuriano inchieste politiche su malaffare e corruzione (l’ultima in ordine di tempo quella sulle presunte tangenti nella sanità lombarda che ha portato all’arresto del braccio destro di Roberto Maroni, Fabio Rizzi) le toghe continuano a chiedere a gran voce una legge sulle intercettazioni che tuteli gli indagati dalla pubblicazione sulla stampa di dialoghi privati irrilevanti alle indagini. Che, oltre a rappresentare una gogna mediatica inutile e crudele, rischiano di influenzare l’andamento di un processo.

Dopo le Procure di Roma e Torino, a tornare sull’argomento è il procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio, che negli anni Ottanta ha indagato sulle BR venete, sulle cooperative rosse durante gli anni di Tangentopoli e che è stato presidente della Commissione ministeriale per la riforma del codice penale.

Dalla cornice del LexFest di Cividale del Friuli dove con i giornalisti Lirio Abbate, Massimo Bordin e Piero Sansonetti, il sottosegretario alla giustizia Cosimo Ferri e il presidente dell'Unione Camere Penali Beniamino Migliucci è stato uno dei relatori della kermesse dedicata alla giustizia e agli operatori del diritto, Nordio spiega ad HuffPost come in alcuni casi questo delicatissimo strumento di indagine debba rimanere “nella cassaforte del pubblico ministero”.

Un ruolo fondamentale è rivestito dalle cosiddette “intercettazioni preventive”. Secondo il magistrato, infatti, “occorre disciplinare quelle intercettazioni che sono fatte sotto il controllo e l’autorizzazione del pm ma che non hanno valore processuale”. Si tratta cioè di frasi che – spiega Nordio - “non finiscono nel fascicolo delle prove, non vengono lette dalle parti, dagli avvocati, dai cancellieri proprio perché non hanno valore di prova.” Pur essendo utilissime “per comprendere come si muovono eventuali sospettati e sono garantite nella segretezza perché rimangono nella cassaforte del pubblico ministero”.

Il procuratore veneziano, titolare dell’indagine sul Mose, parlando a margine della kermesse ideata dal giornalista Andrea Camaiora e organizzata dal team di comunicazione SPIN, non nasconde inoltre il suo disgusto verso il cattivo uso che viene fatto delle intercettazioni ancora nella fase preliminare dell’inchiesta, contenute nei brogliacci della polizia giudiziaria.

“Siamo arrivati al paradosso – si sfoga Nordio – di vedere in televisione attori che recitano sulla base dei brogliacci della polizia, che per altro non hanno nessuna affidabilità”. “Gli attori – prosegue – interpretano a seconda del tono che vogliono introdurre. E sappiamo che il tono è l’elemento fondamentale di un dialogo, e in questo modo un dialogo ne esce alterato nel suo significato”.

E quindi, sebbene definisca le linee guida delle Procure di Roma e Torino che disciplinano l’uso delle intercettazioni sensibili “una buona notizia”, Nordio non esita a parlare di responsabilità politica: “E’ la politica che deve fare le leggi – dice ad HuffPost – perché le autoregolamentazioni di alcune Procure, per quanto dimostrino una sensibilità che prima non c’era, non sono vincolanti, né per le altre Procure né per i giudici e comunque non sono omogenee, quindi c’è il rischio che qualche Procura adotti un sistema e che qualcun’altra non ne adotti nessuno”. La palla, insomma, ora passa al presidente del Consiglio Matteo Renzi.

Da - http://www.huffingtonpost.it/2016/03/06/nordio-intercettazioni_n_9393660.html?ncid=fcbklnkithpmg00000001
7014  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / EUGENIO SCALFARI. Il racconto di 40 anni di vivace concorrenza tra noi e il Corr inserito:: Marzo 06, 2016, 07:17:27 pm
Il racconto di 40 anni di vivace concorrenza tra noi e il Corriere

Di EUGENIO SCALFARI
06 marzo 2016

Ricordo ancora quando nell'autunno del 1975 feci una sorta di tour nelle sale teatrali delle principali città italiane per presentare pubblicamente il futuro giornale quotidiano "la Repubblica" che sarebbe uscito nelle edicole il 14 gennaio del 1976. "Dall'alpi alle Piramidi", scrisse il poeta. Più modestamente io andai da Torino a Palermo, da Milano a Bari, da Reggio Calabria a Bologna, a Firenze, a Verona, a Padova, a Catania, a Genova, insomma dappertutto, concludendo al teatro Eliseo di Roma.

Dopo aver esposto le caratteristiche più interessanti del futuro giornale, a cominciare dal formato che era per l'Italia un'assoluta novità e il cosiddetto palinsesto, cioè la collocazione dei diversi argomenti, l'abolizione della classica terza pagina, il trasferimento delle pagine culturali al centro e una sezione economica che chiudeva il giornale, la parola passava al pubblico e le domande fioccavano. Quante pagine? Trentadue. Quali sono i temi esclusi? Le cronache locali, la meteorologia, lo sport. Anche lo sport? Sì, anche lo sport. Ed infine: qual è l'obiettivo editoriale? Superare tutti gli altri giornali. Anche il "Corriere della Sera"? Sì, anche il Corriere, anzi l'obiettivo è proprio quello.

Il pubblico accoglieva quest'ultima risposta da un lato ridendo e dall'altro applaudendo. E poi, giù il sipario.

L'inseguimento durò esattamente dieci anni: nel 1986 raggiungemmo e superammo il Corriere nonostante che, sotto la direzione di Piero Ottone, avesse raggiunto il massimo delle sue vendite.

E nonostante avesse adottato una politica di neutralità nei confronti del partito comunista che fin lì era stato la bestia nera del giornale di via Solferino, da custodire ideologicamente in una gabbia del giardino zoologico o in un ghetto dal quale non si può né entrare né soprattutto uscire.

Dieci anni sono appena un baleno per superare un giornale che esisteva esattamente da cent'anni quando Repubblica vide la luce.

L'altro ieri il Corriere della Sera ha giustamente celebrato i suoi 140 anni pubblicando un supplemento molto interessante che contiene l'elenco di tutti i direttori. Innumerevoli, a cominciare dal fondatore che si chiamava Eugenio Torelli Viollier e soffermandosi soprattutto su Luigi Albertini che di fatto lo rifondò nel 1900 e lo diresse fino al 1921 quando, nominato senatore del Regno, ne lasciò la guida al fratello continuando però a scriverci articoli di un coraggioso antifascismo, ancorché lui, Luigi Albertini, fosse un liberal-conservatore di un antisocialismo a prova di bomba e quindi, dal '19 al '22, sostanzialmente non ostile alle squadre che incutevano timore alle "Case del popolo", così come era stato un fiero interventista nella guerra del '15, appoggiando D'Annunzio che ne era la bandiera.

Centoquarant'anni da un lato e quaranta dall'altro; una miriade di direttori da un lato e tre (il terzo dei quali è però arrivato da poche settimane) dall'altro. Che cosa è accaduto nel periodo di convivenza e di concorrenza tra le due testate? Come è cambiato il paese, l'opinione pubblica, il costume e quale è stata la funzione dei due giornali nell'influenzare quell'opinione ed esserne al tempo stesso influenzati?

***

Il Corriere della Sera è sempre stato il giornale del capitalismo lombardo: produttività, profitto da reinvestire, "fordismo" come allora si diceva, salari soddisfacenti e aggrappati alla produttività della manodopera che alimentava la domanda, dialettica severa con i sindacati, antisocialismo e soprattutto anticomunismo, atteggiamento filogovernativo sempreché i governi in carica aiutassero gli investimenti privati con appositi e tangibili incentivi che facessero funzionare a dovere i servizi pubblici; fiscalità proporzionale e non progressiva, commercio con l'estero libero nei settori nei quali la nostra economia era in grado di competere ma protezionismo e dazi dove eravamo ancora in fase immatura. Laicismo ma con misura perché la religione e la famiglia rappresentavano i pilastri della società. In politica estera Francia, Inghilterra e America erano i punti di riferimento. Governi, sia in Italia sia all'estero, preferibilmente liberal-conservatori.

Questo il quadro generale, che aveva il vantaggio d'esser condiviso dalle classi dirigenti non solo lombarde ma italiane. Infatti il Corriere vendeva metà della tiratura in Lombardia e soprattutto a Milano e provincia dove la sua cronaca locale ne aumentava la diffusione; l'altra metà nel resto d'Italia e soprattutto nelle città dove una parte della classe dirigente si sentiva adeguatamente rappresentata da quel giornale.

Questa struttura al tempo stesso economica, politica e culturale era stata creata da Luigi Albertini che non era soltanto un giornalista ma anche organizzatore, uomo di vasta cultura e di vaste conoscenze sociali, comproprietario di maggioranza nella società che editava il Corriere, avendo con sé come soci di minoranza alcuni famiglie industriali, proprietarie di imprese soprattutto tessili.

Proprio per queste caratteristiche Albertini era molto più che un direttore nominato da una proprietà, era direttore e proprietario, quindi assolutamente indipendente. Condivideva pienamente gli ideali e gli interessi del capitalismo lombardo, ma gli dava una vivacità ed una modernità sua propria con il risultato di influenzare la pubblica opinione di stampo liberal-conservatore senza peraltro che lui e il Corriere che era casa sua ne fossero condizionati. Era molto patriottico Luigi Albertini. Non amava la guerra ma le imprese coloniali sì, anche per mettere l'Italia a livello delle altre potenze europee.

Giudicava il governo italiano dal colore politico che aveva, ma anche dall'efficienza. E metteva gli interessi del Corriere ed i valori del giornale al centro della sua attenzione. Di fatto il Corriere era un partito di cui il suo direttore era il capo. Infatti parlava con i presidenti del Consiglio direttamente. Al prefetto di Milano parlava quasi come un suo superiore e lo stesso faceva con il direttore della Banca d'Italia, specie quello che dirigeva la sede milanese dell'Istituto.

Queste notizie sono in gran parte rese esplicite dalle sue memorie, fonti di grande ricchezza per ricostruire il passato.

Questa situazione proseguì quando Albertini dovette cedere la proprietà del giornale perché Mussolini non sopportava che i grandi quotidiani italiani fossero posseduti da giornalisti-direttori. Così accadde al proprietario-direttore de La Stampa, Alfredo Frassati, così accadde anche alla Serao che dirigeva e possedeva Il Mattino di Napoli ed ad altri quotidiani importanti e così accadde anche a lui, che dovette cedere la proprietà alla famiglia Crespi, fortemente impegnata nell'industria tessile e già azionista di minoranza nella società del Corsera.

I direttori nominati dai Crespi dovevano naturalmente essere graditi a Mussolini, che come primo mestiere era stato direttore prima dell'Avanti e poi del Popolo d'Italia da lui fondato. Al Corriere, come negli altri giornali che erano ormai ossequienti al regime fascista, voleva giornalisti bravi che però adottassero la linea del governo, sia pure adattandola al tipo di lettori ai quali quel giornali si dirigeva. Dunque propaganda capillare attraverso testate di prestigio che quel prestigio dovevano conservarlo e addirittura accrescerlo. Il Corriere della Sera si conformò a quelle direttive come tutti gli altri. Con un minimo di fronda? Direi di no. Del resto la fronda non era possibile.

Le cose naturalmente cambiarono quando il fascismo cadde e il Corriere diventò come tutti gli altri un giornale antifascista, famiglia Crespi consenziente.

Il primo direttore della nuova situazione fu Mario Borsa che non era soltanto antifascista ma anche repubblicano. Su questo punto i Crespi non erano d'accordo, tant'è che Borsa, a Repubblica già proclamata, si ritirò. Ma poi la qualità professionale dei direttori che si avvicendarono a via Solferino fu sempre notevole e culminò con Missiroli, con Spadolini e infine con Piero Ottone del quale ho già fatto cenno.

Quando nacque Repubblica c'era appunto lui alla direzione del Corriere; ma vent'anni prima era già nato l'Espresso, il settimanale "genitore" del quotidiano. E l'Espresso aveva già messo sotto tiro la stampa quotidiana, la sua formula, i suoi valori, tutti sotto l'influenza del Corsera. Sicché la polemica tra il nostro gruppo e il Corriere e il resto dei quotidiani fatti a sua somiglianza, non è cominciata quarant'anni fa ma sessanta. Solo La Stampa di Torino era del tutto diversa dal Corriere, e Il Giorno di Milano, che però aveva già perso una parte della sua iniziale brillantezza.

Questo fu il teatro nel quale i due gruppi si scontrarono.

***

Come avvenne e di quali valori diversi il gruppo Espresso-Repubblica fosse portatore l'ho già accennato all'inizio di quest'articolo, ma ora mi soffermerò su qualche punto che merita d'essere approfondito.

La parola liberale anzitutto. Nella lingua inglese si chiama "liberal" che serve a designare chiunque non sia asservito ad una ideologia. Non riflettono abbastanza, secondo me, sull'uso ed il senso della parola "ideologia" che lessicalmente significa adesione ad un'idea e perciò anche sostenere che "liberal" è colui che non si sente asservito ad una qualsiasi ideologia configura in questo modo proprio un'ideologia.

Comunque il significato reale della parola "liberal" consiste nel rifiuto del totalitarismo. I liberal cioè possono cambiare idea secondo l'andamento dei fatti che modificano il luogo in cui essi vivono. Basta lessicalmente aggiungere una aggettivo a quella parola: c'è il liberal conservatore, il liberal moderato, il liberal progressista. Al di là non si va, il liberal radicale non è concepibile. Il liberal vive in uno spazio che politicamente è definibile di destra o di centro, ma non di sinistra. Aggiungo che dal punto di vista economico è liberista.

Da noi, nel linguaggio politico italiano, questi aggettivi sono applicabili ma esistono anche altre e più approfondite spiegazioni.

Anzitutto quegli aggettivi possono diventare sostantivi: reazionari, conservatori, moderati, progressisti. Inoltre c'è la parola liberale ma c'è anche liberista, libertario, libertino.

A mio parere il Corriere della Sera, sia pure con i mutamenti portati dai vari direttori nelle varie stagioni della loro direzione, ha sempre avuto un sottofondo liberale-liberista e conservatore o moderato.

Noi, di Espresso-Repubblica, siamo sempre stati liberal-democratici. E se volete altre ma equivalenti definizioni, siamo stati innovatori con l'ancoraggio del bene comune, della giustizia sociale, dell'eguaglianza dei punti di partenza, cioè dare a tutti i cittadini e soprattutto ai giovani le stesse possibilità di misurarsi con la vita.

Questo significa liberal-democratico che è la definizione politica dei due grandi valori di libertà ed eguaglianza, mettendone secondo le circostanze l'accento a volte più sulla libertà e a volte sull'eguaglianza, purché l'altro valore sia sempre presente e mai dimenticato.

Questo diversifica i due gruppi editoriali e le due opinioni pubbliche che sentono l'appartenenza all'uno o all'altro.

Noi non siamo mai stati un partito, ma sempre abbiamo avuto noi stessi, cioè i valori che noi sosteniamo, come punto esclusivo di riferimento.

Sono stati di volta in volta alcuni partiti o alcune correnti di quei partiti, ad avvicinarsi a noi, ma non è mai avvenuto il contrario. Spesso è capitato che fossero con noi Guido Carli quando era governatore della Banca d'Italia e Antonio Giolitti, comunista prima e socialista dopo la crisi di Ungheria repressa nel sangue dalle truppe sovietiche. Oppure Aldo Moro ed Enrico Berlinguer, oppure Beniamino Andreatta, oppure Ciriaco De Mita.

Noi siamo sempre stati laici, fautori della libera Chiesa in libero Stato, ma molti democristiani sono stati vicini a noi e si sono battuti di conseguenza ed alcuni comunisti hanno modificato la loro ideologia non certo per merito nostro, ma con noi si sono trovati a loro agio.

Questo è stato ed è il nostro patrimonio ideale e civile. E questo ho ragione di credere che resterà in un futuro che non deve dimenticare il passato e che deve operare attivamente nel presente garantendo libertà e giustizia sociale.

© Riproduzione riservata 06 marzo 2016

Da - http://www.repubblica.it/cultura/2016/03/06/news/repubblica_corriere_della_sera-134860729/?ref=HRER2-1
7015  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / Claudio MAGRIS Corriere che da 140 anni racconta il mondo inserito:: Marzo 06, 2016, 07:03:46 pm
Corriere che da 140 anni racconta il mondo

Di Claudio Magris

Il Corriere della Sera compie 140 anni. Il quotidiano fondato da Eugenio Torelli Viollier nacque il 5 marzo 1876 nella Galleria Vittorio Emanuele, da poco terminata. Per celebrare lo storico anniversario domani sarà in edicola uno speciale gratuito di 96 pagine con le prestigiose firme di oggi e di ieri. L’evento coincide con la rivoluzione digitale e dei contenuti che il Corriere sta realizzando. Anticipiamo il racconto di Claudio Magris sulla sua lunga esperienza al Corriere, contenuto nel supplemento.

Cinque marzo 1876, esce il primo numero del Corriere della Sera. L’Italia di quel giorno a noi sembra protostoria; Garibaldi e Marx sono ancora vivi, il Partito socialista non è stato ancora fondato, i fratelli Wright non sono ancora riusciti a volare e a smentire il loro padre vescovo metodista secondo il quale mai l’uomo ne sarebbe stato capace. Quei 140 anni, quei 51.000 giorni e più, con l’incredibile e sempre più accelerata trasformazione della realtà e dell’uomo stesso, sono un’era. Ed è per me ogni volta stupefacente e insieme rassicurante pensare che da più di un terzo di quell’era scrivo sul Corriere, da quando, credo su suggerimento di Enzo Bettiza, Giovanni Grazzini nell’ottobre del 1967 mi pubblicò, in quello che allora si chiamava Corriere letterario, un articolo su Max Brod e Kafka, un battesimo fondamentale nella mia vita. Il giornale si tuffa nel mondo e nella sua polvere, senza paura di sporcarsi le mani ma sapendo che per restare pulite e rendere più pulito il mondo quelle mani devono immergersi nel disordine delle cose, pronte anche a prendere per il bavero la menzogna. È una barca di carta spazzata di continuo dalle onde, è sempre in viaggio e non conosce la pace del porto. Quanto più è esatta e onesta nella sua rappresentazione del reale, tanto più la sua cronaca assomiglia spesso a un testo surrealista, perché accosta sulla pagina le cose più diverse del reale, l’assurdità, il bene ed il male, il coraggio, il sudiciume e le inimmaginabili trasformazioni del mondo. È il brogliaccio di un tentacolare e gigantesco romanzo ormai globale.

Un giornale ha enorme importanza e responsabilità — che è facile tradire — nella formazione di un Paese. Nessun giornale, con tutte le forche caudine delle varie pressioni e ragnatele, della gregaria convenzionalità spesso imperante talora di epoche terribili che deve attraversare, è senza peccato. Nemmeno il Corriere. Ma nella sua lunga e talora contraddittoria storia esso ha assolto complessivamente in grande misura al compito di un grande giornale. Per questo è divenuto, nella sua navigazione di lungo corso, il giornale d’Italia. Sulle sue pagine hanno scritto giornalisti, scrittori, politici, studiosi che hanno fatto grande non solo il Corriere ma l’Italia. Servizi, inchieste, reportage — cronache fedeli all’istante che diventano Storia.

Forse il segreto del Corriere e della sua grandezza (credo fin dai tempi di Albertini) risiede pure nella medietà, se così si può dire, che con sfumature diverse e con grandi impennate di originalità lo ha caratterizzato. Risiede in quell’assenza di partito preso a priori e di tono eclatante, spocchioso o ideologico, che ha potuto farne il giornale di quasi tutti e non solo per l’eccellenza delle firme e dei servizi. Ho sempre amato i giornali che — a parte quelli esplicitamente e onestamente di partito — non fanno capire subito l’orientamento politico o ideologico di chi li tiene in mano. Il Corriere non è mai stato e non è un club supponente di migliori né un salotto di chi la sa più lunga e si considera più avanzato degli altri. È un giornale civile, originariamente espressione di una solida borghesia, con i suoi pregi e difetti, e forse oggi per questo in una certa difficoltà, in un mondo in cui sono sparite le tradizionali classi sociali, pressoché amalgamate in una palude colloidale e gelatinosa.

Certamente, in tanti anni, il Corriere ha avuto le sue oscillazioni, ardite innovazioni e guardinghe cautele; ha avuto le sue cadute e le sue confusioni, incertezze titubanti con i poteri economici o il melmoso e rovinoso coinvolgimento con la P2, affrontato e respinto con sanguigno coraggio da Alberto Cavallari, mio fratello maggiore. Ma il Corriere ha saputo difendere la propria autonomia anche con toni più ironici eppure non meno inflessibili, come quando ad esempio Ferruccio de Bortoli, altro grande direttore che mi ha aiutato a crescere, scriveva in prima pagina «pubblichiamo volentieri questa lettera dell’on. Previti e l’avremmo pubblicata anche senza i cortesi solleciti di Palazzo Chigi».

Il Corriere mi ha fatto crescere, è stato una fondamentale scuola della mia vita. Una scuola di scrittura, che insegna a mettere i propri fantasmi a contatto con il mondo e a prestare più attenzione a quest’ultimo che a quelli; che insegna a scrivere su un evento che piomba addosso all’improvviso senza poter studiarlo prima di scrivere ma riflettendovi e studiandolo mentre lo si scrive in lotta con il tempo e con il numero delle battute, altra salutare ginnastica del pensiero e della fantasia. Una grande educazione linguistica, che insegna a essere comprensibili a quel lettore medio sconosciuto che è sempre il tuo interlocutore ma senza cedere alla falsa e ingannevole semplificazione, mettendosi a rischio in quel dialogo col lettore, come in ogni vero dialogo.

Di questi quarantanove anni al Corriere vorrei raccontare tante cose che mi hanno formato. Piccole e grandi; belle, dure, comiche, tragiche, conflittuali, fraterne. La mia mania di litigare per i titoli, con Grazzini e Nascimbeni che mi prendevano in giro e poi, nel caso di quest’ultimo, una conciliatrice partita a carte, a cotecio, di cui Nascimbeni era un campione — aveva pure vinto il trofeo dell’Oca d’argento a Verona — spirito che continua oggi nel fraterno cammino insieme ad Antonio Troiano. La severa, formatrice gerarchia di un tempo; i miei primi direttori, Alfio Russo e Giovanni Spadolini — di cui più tardi sarei divenuto molto amico — non li ho neppure mai visti e sulla Terza Pagina ho potuto scrivere un articolo solo dopo sei anni di collaborazione al Corriere letterario, nonostante Gaspare Barbiellini Amidei, altro amico cui sono debitore, avesse cercato di «spingermi» più in alto un paio d’anni prima. Gli anni del terrorismo, il corpo di Tobagi steso a terra. Il fumo rassicurante della pipa di Ugo Stille. Mieli che mi rende meno ansiosa la mia breve parentesi parlamentare spingendomi a continuare a scrivere pure in quel periodo.

Momenti drammatici, in cui ho visto pressoché l’intero corpo del giornale stringersi in una battaglia comune e ho capito che il lavoro tecnico, concreto all’ingranaggio del giornale non vale meno di chi lo scrive o lo dirige, come i marinai che sbrogliano le vele o i motoristi in sala macchine conducono la nave non meno degli ufficiali sul ponte. Altri momenti invece conflittuali, in cui l’unità del giornale sembrava in pericolo. Tante cose si affollano. I viaggi per il Corriere, che mi hanno aiutato a trovare me stesso; le battaglie etico-politiche, i grandi personaggi del Corriere, solo intravisti, come Buzzati al suo tavolo, o frequentati, come Biagi e, purtroppo tardi, Montanelli. Le lettere dei lettori, cui rispondo una per una — precisazioni, ringraziamenti, commenti, correzioni, richieste, elogi, insulti. I dimafonisti, necessari al mio analfabetismo digitale, con i quali un tempo avevo pure cordiali discussioni circa le loro proposte, ora accettate ora rifiutate, di correzioni al mio articolo che stavo loro dettando. Dopo che il loro numero era stato drasticamente ridotto, è toccato anche al direttore de Bortoli ricevere la mia dettatura al telefono e lo considero una vera promozione simbolica, i gradi di caporale napoleonicamente ricevuti sul campo.

Il tempo passa, dice un personaggio di Cent’anni di solitudine. Mica tanto, risponde un altro. Il tempo condensato dei decenni trascorsi fa tutt’uno con quello frenetico del giornale da fare ogni giorno, con le notizie che arrivano e le pagine composte, scomposte e ricomposte fino all’ultimo momento. Vita convulsa in cui però ci si sente a casa. Sì, il tempo passa ed è sempre più difficile. «Ah per queste cose ci vorrebbe un giornale!» diceva sarcastico il direttore Missiroli. Forse questo giornale, come del resto lui sapeva benissimo, e come sa il direttore Fontana, c’è.

2 marzo 2016 (modifica il 2 marzo 2016 | 23:23)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/16_marzo_03/corriere-140-anni-34d37cca-e0bb-11e5-86bb-b40835b4a5ca.shtml
7016  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / D. QUIRICO Le milizie che guidano Sabratha hanno rotto con l’Isis e con Tripoli inserito:: Marzo 06, 2016, 07:02:00 pm
Così le milizie che guidano Sabratha hanno rotto con l’Isis e con Tripoli
Pochi mesi fa tra le rovine dei monumenti romani sfilavano i mezzi degli jihadisti ma dopo il bombardamento Usa di febbraio tutto è cambiato nei rapporti di forza


06/03/2016
Domenico Quirico
Inviato a TRIPOLI

Marzo è un mese misterioso. Il mese delle rivoluzioni, il mese delle guerre. Anche nella vita individuale, in questo mese, qualcosa si mette in moto, silenziosamente.

È così che lavorano le guerre e le rivoluzioni, silenziosamente, come la terra. 

A marzo la Libia si è rimessa in movimento. Dall’Italia arriva l’eco di sbarchi già (quasi) pronti e di risolutorie operazioni occidentali, si contano gli uomini e le navi… Come un ingranaggio, dente dopo dente, rotella dopo rotella, il caos libico comincia ricomporsi ad assestarsi su nuove faglie e a rovesciare sulla testa ciò che era in piedi.

Questa geografia delle alleanze tra gruppi armati è la vera politica di qui. Non quella delle trattative per assegnare ministeri che corrono tra i «governi» di Tobruk e di Tripoli e quello, un po’ pirandelliano personaggio senza persona, che appassisce e intristisce a Tunisi e negli alberghi di mille capitali «amiche», ma lontanissime. Cinque anni fa qui c’è stata una esplosione atomica, il nucleo si è frammentato in migliaia di parti. In perenne movimento e in perenne processo di accrescimento o diminuzione della massa critica. Ci sono processi che si possono vincere solo in seconda istanza. Le rivolte quasi sempre sono un processo di questo genere. In prima istanza viene annientata oppure diventa sé stessa. In seguito, nel periodo del purgatorio, ciò che ne costituiva il significato si depura. A volte occorre parecchio tempo. Qui cinque anni non sono bastati.

 Uno di questi frammenti è Sabratha, lo sfondo, il palcoscenico della tragedia degli ostaggi italiani. La Libia è cresciuta, su su, al nostro fianco dopo la caduta di Gheddafi, ed è come una certa parentela che c’è, che esiste anche se non ci si scrive da anni, anzi si fa finta di ignorarla, vergognandosene un po’, un antipatico segreto di famiglia. C’è, vive, prolifica e a un tratto bussa alla tua porta e ti dice: sono qua, con i migranti, il petrolio in pericolo, le turbe dei fanatici del califfato. È fatta: ora bisogna occuparsene. Così è arrivata per noi questa, a cosa disfatte, e non ne avevamo voglia. Ma neanche potevamo tirarci indietro: così ci lasciamo andare.

 
Andare a Sabratha, al di la dei pericoli, degli inciampi che la guerriglia delle bande ha sistemato sulla strada, è un pellegrinaggio in questa storia malinconica, ancora in atto e struggente per chi ha cura delle sorte e del dolore degli esseri umani. La campagna è bella, sudata di fatica come nel nostro Sud, ma la terra qui sembra degradare a sabbia anche quando non è ancora sabbia. La vegetazione in Libia è innaturale. La natura era, è il terreno brullo, piano, senza ombra; il resto è una sopraffazione meravigliosa dell’uomo. La vegetazione violenta il suolo che in realtà resta sempre calpestato da secoli, senza iniziative proprie, come una morte geologica. 

Così lo sguardo resta sempre al mare che si costeggia: denso, il mare, e innegabilmente un po’ torvo, con il suo azzurro intenso, ma senza trasparenza, e la balza dell’onda arriva verde, di uno strano verde opalino. Poco fuori dalla città, a un tratto, enorme, sproporzionato, inverosimile oggi, il teatro romano. E non sembra rovina, ma messo lì come un modello al vero, per mostrare quello che era ai tempi di Severo e Marco Aurelio. Fuori del vero e del falso, fuori della natura e della Storia. È un conflitto con il destino, oggi la rovina di Sabratha. La guerra ha azzannato questa città di forse centomila abitanti, non la lascia più. E la gente? La gente ha imparato ad essere come i bambini, persuasi che la notte non finirà più.

In mezzo ai monumenti qualche mese fa sono sfilate alcune decine di veicoli di Daesh (Isis), con le nere bandiere, le mimetiche alternate ai barracani, i volti coperti dai turbanti come elmi medioevali. Una trentina, che nei racconti fantasiosi, giornalistici e non, sono diventati centinaia. Una dimostrazione di potenza, la propaganda dei fatti in cui il califfato e i suoi vassalli sono maestri.

È passato pochissimo tempo e tutto è cambiato: le formazioni islamiste radicali sono state respinte fuori dalla città, e dalle rovine romane dove si dice nascondessero gli arsenali. Si sono ritirate in uno spazio semideserto, tra la città e uno scalino all’orizzonte, quasi tutto unito, e di un azzurro che tende al lilla, il gebel: è terra brulla, rari i campi, poche case, cespugli secchi o ciuffi di erba dura. 

Un anno e mezzo fa sono stato a Sabratha una prima volta. Non nella città, ma proprio in questo deserto, con i combattenti della montagna, la milizia di Zintan: quella che nel 2011 ha tolto Tripoli a Gheddafi e poi ne è stata cacciata da «Alba libica», i fratelli musulmani su cui noi Italia facciamo molto conto, e le formazioni armate che hanno base a Misurata. Allora gli islamisti combattevano apertamente, erano alleati, non sprecavano neppur molta fatica a nascondersi. Laggiù - mi mostrarono gli uomini di Zintan – sì, proprio tra le rovine, vicino al mare c’è al Qaeda… sarà difficile cacciarli… 

I fondamentalisti, ben armati e fanatici, erano perfetti alleati per tenere a bada gli odiati nemici, quelli del parlamento di Tobruk, i soldati del generale Aftar, uomo dell’Egitto e degli americani. Tutti sapevano che tra Alba libica il partito al potere in parte della Tripolitania e gli uomini del jihad c’erano ottimi rapporti. Poi tutto è cambiato con il bombardamento americano del 19 febbraio che avrebbe ucciso alcuni dei capi delle milizie del califfato. Le formazioni locali hanno «scoperto», improvvisamente, che i fondamentalisti erano troppo maramaldi nella loro città e che i loro alleati di Tripoli erano troppo arroganti e padroni. Alleanze che finiscono, di colpo. E si passa subito alla guerra.

Lo stesso scenario in scala più grande: in tutta la Libia, nelle centinaia di alleanze e coabitazioni tra gruppi armati che noi non conosciamo si ridisegnano in queste settimane le posizioni. Nessuno vuole trovarsi dalla parte dei perdenti, si vuole cancellare le tracce di aver diviso il pane con i fondamentalisti. 

Anche a Tripoli le voci tambureggiano. Sembra stia per compiersi ciò che prima era impossibile: la formazione di Misurata finora alleata dei fratelli musulmani, potentemente armata, guidata da Salad Badi, starebbe per saltare il fosso e allearsi sul terreno con gli uomini di Zintan per dare l’assalto a Tripoli. Con i nemici dei feroci scontri di tre anni fa!

Moltiplicate questi scenari per cento, mille volte e avrete forse compreso qualcosa della Libia. Ma chi può esser sicuro di conoscere bene questo labirinto per poter ritrovare la strada?

Da - http://www.lastampa.it/2016/03/06/esteri/cos-le-milizie-che-guidano-sabratha-hanno-rotto-con-lisis-e-con-tripoli-OuFyfFET1ot3uViZsbQyGJ/pagina.html
7017  Forum Pubblico / ESTERO fino al 18 agosto 2022. / Libia Parisi: “Non ci sono le condizioni per mandare i nostri uomini” inserito:: Marzo 06, 2016, 06:59:23 pm
La grande spartizione della Libia: un bottino da almeno 130 miliardi

Di Alberto Negri, con un’analisi di Vittorio Emanuele Parsi
6 Marzo 2016

Quando si incontreranno martedì al palazzo Ducale di Venezia, Matteo Renzi e François Hollande guardandosi negli occhi dovrebbero farsi una domanda: per quali ragioni facciamo la guerra in Libia?

La risposta più ovvia - il Califfato - è quella di comodo. La guerra di Libia è partita nel 2011 con un intervento francese, britannico e americano che con la fine di Gheddafi è diventato conflitto tra le tribù, le milizie e dentro l’Islam, che però è sempre rimasto una guerra di interessi geopolitici ed economici. L’esito non è stato l’avvento della democrazia ma è sintetizzato in un dato: la Libia era al primo posto in Africa nell’indice Onu dello sviluppo umano, adesso è uno stato fallito.

Il rientro in Italia degli ostaggi italiani
La guerra è in realtà un regolamento di conti e una spartizione della torta tra gli attori esterni e i due poli libici principali, Tripoli e Tobruk, che hanno due canali paralleli e concorrenti per l’export di petrolio.

Qui si possono liberare alcune delle più importanti risorse dell’Africa: il 38% del petrolio del continente, l’11% dei consumi europei. È un greggio di qualità, a basso costo, che fa gola alle compagnie in tempi di magra. In questo momento a estrarre barili e gas dalla Tripolitania è soltanto l’Eni: una posizione, conquistata manovrando tra fazioni e mercenari, che agli occhi dei nostri alleati deve finire e, se possibile, con il nostro contributo militare.

Per loro, anche se l’Italia ha perso in Libia 5 miliardi di commesse, stiamo già accantonando risorse per un contingente virtuale in barili di oro nero. Non è così naturalmente, ma “deve” essere così: per questo l’ambasciatore Usa azzarda a chiederci spudoratamente 5mila uomini. La dichiarazione di John Phillips, addolcita dalla promessa di un comando militare all’Italia, sottolinea la nostra irrilevanza.

La Libia è un bottino da 130 miliardi di dollari subito e tre-quattro volte tanto nel caso che un ipotetico Stato libico, magari confederale e diviso per zone di influenza, tornasse a esportare come ai tempi di Gheddafi. Sono stime che sommano la produzione di petrolio con le riserve della Banca centrale e del Fondo sovrano libico che sta a Londra dove ha studiato per anni il prigioniero di Zintane, Seif Islam, il figlio di Gheddafi, un tempo gradito ospite di Buckingham Palace al pari di tutti gli arabi che hanno il cuore nella Mezzaluna e il portafoglio nella City. Oltre alla Bp e alla Shell in Cirenaica - dove peraltro ci sono consorzi francesi, americani tedeschi e cinesi - gli inglesi hanno da difendere l’asset finanziario dei petrodollari.
Anche i russi, estromessi nel 2011 perché contrari ai bombardamenti, vogliono dire la loro: lo faranno attraverso l’Egitto del generale Al Sisi al quale vendono armi a tutto spiano insieme alla Francia. Al Sisi considera la Cirenaica una storica provincia egiziana, alla stregua di re Faruk che la reclamava nel 1943 a Churchill: «Non mi risulta», fu allora la secca risposta del premier britannico. Ma ce n’è per tutti gli appetiti: questo è il fascino tenebroso della guerra libica.

Il bottino libico, nell’unico piano esistente, deve tornare sui mercati, accompagnato da un sistema di sicurezza regionale che, ignorando Tunisia e Algeria, farà della Francia il guardiano del Sahel nel Fezzan, della Gran Bretagna quello della Cirenaica, tenendo a bada le ambizioni dell’Egitto, e dell’Italia quello della Tripolitania. Agli americani la supervisione strategica.

Ai libici, divisi e frammentati, messi insieme in un finto governo di “non unità nazionale”, il piano non piacerà perché hanno fatto la guerra a Gheddafi e tra loro proprio per spartirsi la torta energetica senza elargire “cagnotte” agli stranieri e finire sotto tutela. E insieme ai litigi libici ci sono le trame delle potenze arabe e musulmane. Sono “i pompieri incendiari” che sponsorizzano le loro fazioni favorite: l’Egitto manovra il generale Khalifa Haftar, il Qatar seduce con dollari sonanti gli islamisti radicali a Tripoli, gli Emirati si sono comprati il precedente mediatore dell’Onu Bernardino Leòn per appoggiare Tobruk; senza contare la Turchia, che dalla Siria ha rispedito i jihadisti libici a fare la guerra santa nella Sirte.

La lotta al Califfato è solo un aspetto del conflitto, anzi l’Isis si è inserito proprio quando si infiammava la guerra per il petrolio. Ma gli interessi occidentali, mascherati da obiettivi comuni, sono divergenti dall’inizio quando il presidente francese Nicolas Sarkozy attaccò Gheddafi senza neppure farci una telefonata. Oggi sappiamo i retroscena. In una mail inviata a Hillary Clinton e datata 2 aprile 2011, il funzionario Sidney Blumenthal rivela che Gheddafi intendeva sostituire il Franco Cfa, utilizzato in 14 ex colonie, con un’altra moneta panafricana. Lo scopo era rendere l’Africa francese indipendente da Parigi: le ex colonie hanno il 65% delle riserve depositate a Parigi. Poi naturalmente c’era anche il petrolio della Cirenaica per la Total. È così che prepariamo la guerra: in compagnia di finti amici-concorrenti-rivali, esattamente come faceva la repubblica dei Dogi.

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2016-03-06/la-grande-spartizione-114530.shtml?uuid=ACe75oiC
7018  Forum Pubblico / I.C.R. Immaginare Conoscere Realizzare. "Le TERRE DI RANGO" e "Le TERRE DI FANGO". / JOHN NASH, DAL NOBEL ALL'OSCAR inserito:: Marzo 06, 2016, 06:54:49 pm
Muore in un incidente stradale John Nash
Il 23 maggio 2015 ha trovato la morte in un incidente stradale il geniale matematico ed economista. Premio Nobel per l’Economia nel 1994, solo qualche giorno prima era stato insignito anche del prestigioso premio Abel.

Lo ricordiamo con questa ‘tesina’ proposta a suo tempo dal prof. Gianfranco Gambarelli. Negli approfondimenti l’autore ha voluto anche dare una testimonianza diretta dei suoi incontri e degli scambi epistolari avuti con il famoso studioso statunitense.

 JOHN NASH, DAL NOBEL ALL'OSCAR
Di Gianfranco Gambarelli*

Matematica, follia e genialità nella vita del Premio Nobel portato sullo schermo da Russell Crowe. A beautiful mind ha vinto quattro Oscar e due Golden Globe. Diretto da Ron Howard e interpretato da Russell Crowe, trae spunto dalla vita di John Nash, premio Nobel per l'Economia. Questa connessione fra scienza e cinema è dovuta principalmente alle tormentate e sorprendenti vicende del grande matematico, nonché all'importanza delle sue scoperte; Nash è qualcosa di più di un 'Nobel', visto che i suoi lavori sono noti a gran parte degli studenti di scienze economiche in tutto il mondo.

Una vita sorprendente
Nato nel 1928 a Bluefield (West Virginia) si laurea in Matematica a Princeton e inizia a lavorare con John von Neumann, Lloyd Shapley e Harold Kuhn. Quest'ultimo gli sarà vicino negli anni bui, gli darà la notizia del Nobel e ne farà la presentazione ufficiale a Stoccolma, nel corso della cerimonia di consegna. Nash si occupa principalmente di Teoria dei Giochi, ma anche in altri settori della Matematica trova importanti risultati. In uno di essi è peraltro anticipato da un italiano. In un'autobiografia Nash scrive in proposito: "Accadde che lavorassi in parallelo con Ennio de Giorgi, che operava a Pisa. Egli fu il primo a raggiungere la vetta almeno per il caso, particolarmente importante, delle equazioni ellittiche" (Nash, 1955). Verso la fine degli anni '50 si ammala di schizofrenia e inizia una drammatica peregrinazione in vari istituti di cura; solo nei primi anni '90 nuovi farmaci gli permettono di riacquistare un certo equilibrio mentale. Nel 1994 vince il Nobel per i risultati, ottenuti negli anni '50, sui Giochi non cooperativi e riprende gradualmente a muoversi negli ambienti scientifici.
Nel 1998 esce il libro di Sylvia Nasar A beautiful mind che risulterà finalista al Premio Pulizer. Una versione in italiano viene pubblicata l'anno seguente dalla Rizzoli con il titolo Il genio dei numeri. Nel gennaio 2002 esce una pubblicazione di taglio più scientifico, The essential John Nash di Sylvia Nasar e Harold Kuhn. Ancora a gennaio esce il film, che si porta immediatamente ai vertici delle classifiche di pubblico in tutto il mondo.

Un carattere difficile
Dice di lui Barbara Bonvento: "La fame di affetto che lo spingeva a cercare le amicizie più diverse e il non volere, allo stesso tempo, essere dominato dagli altri, spiegano i suoi rapporti umani complessi e gli amori di vario genere vissuti in maniera turbinosa e scostante. Quelle che sembravano solo manifestazioni di una personalità dotata di genialità, si rivelarono sintomi della malattia che lo colpì quando le intuizioni e le scoperte scientifiche gli avevano fatto guadagnare riconoscimenti da parte dei più grandi matematici del tempo" (Bonvento, 1999). Mentre per anni (scrive Sylvia Nasar) "l'uomo Nash rimaneva congelato in uno stato di sogno, un fantasma che vagava per Princeton scarabocchiando lavagne e studiando libri religiosi, il suo nome cominciò a comparire ovunque - in testi di economia, articoli di biologia evolutiva, trattati di scienze politiche, riviste matematiche" (Nasar, 1998). È di Shapley l'osservazione da cui hanno tratto spunto i titoli delle opere a lui dedicate: "Ciò che lo ha redento è stata una chiara, logica, bellissima mente" (Nasar, Kuhn, 2002).
Oggi, sedata la malattia, Nash ha ritrovato un po' di serenità. Le manifestazioni di affetto e i riconoscimenti che continuano a pervenirgli da ogni parte del mondo accademico sono una testimonianza, oltre che dell'enorme importanza dei suoi studi, anche dell'umanità che ha saputo offrire a chi lo ha conosciuto veramente.

La Teoria dei Giochi
La Teoria dei Giochi è la scienza matematica che analizza situazioni di conflitto e ne ricerca soluzioni competitive e cooperative. Le applicazioni e interazioni di tale teoria sono molteplici: dal campo economico a quello militare, biologico, sociologico, psicologico, finanziario, politico, ambientale, sportivo. Per un'introduzione digeribile anche da non matematici segnalo il mio volumetto Giochi competitivi e cooperativi (II ed. Torino, Giappichelli, 2003, con contributi storici a cura di Guillermo Owen). La Teoria nasce nel 1928 con un articolo di von Neumann e trova i primi importanti impieghi nella seconda guerra mondiale. Il matematico è, infatti, padre del mitico MANIAC (coperto dal segreto militare) precursore del Mark1. I primi utilizzi dell'Informatica consistono nell'applicazione della Teoria dei Giochi all'elaborazione delle quote di sgancio per i bombardieri, dei percorsi dei convogli che minimizzano la probabilità di intercettazioni nemiche e così via. Un nuovo passo fondamentale è favorito dall'incontro a Princeton fra von Neumann e l'economista Oskar Morgenstern; da quell'interazione nasce nel 1944 il testo Theory of Games and Economic Behavior destinato a rivoluzionare i rapporti fra Matematica ed Economia.

Giocatori e mosse, strategie e pagamenti
Ogni 'giocatore' è un soggetto razionale che può scegliere fra varie 'mosse'. Per esempio, se il giocatore è un commerciante, le sue mosse possono aumentare o diminuire o lasciare invariati i prezzi dei suoi articoli; le mosse di un acquirente possono cambiare o restare fedeli a un prodotto o a un fornitore; le mosse di un responsabile di logistica militare possono inviare un convoglio lungo un certo percorso, piuttosto che lungo un altro. Ogni 'strategia' consiste nell'adozione di una mossa o di una combinazione di mosse. Per esempio, i convogli possono essere inviati periodicamente, per il 30% dei viaggi su un percorso e per il 70% su un altro; i prezzi dei prodotti possono essere variati in rotazione e così via. In dipendenza dalle strategie adottate da tutti i giocatori, ognuno riceve un 'pagamento' che può essere positivo, negativo o nullo. Un gioco di dice 'a somma costante' se per ogni vincita di un giocatore v'è una corrispondente perdita per altri. In particolare, un gioco 'a somma zero' fra due giocatori rappresenta la situazione in cui il pagamento viene corrisposto da un giocatore all'altro.

I risultati di Nash
I principali risultati di von Neumann riguardano i giochi a somma costante fra due giocatori. Il problema dei giochi a somma variabile viene affrontato alla fine degli anni '40 da John Nash, che introduce e sviluppa il concetto di 'equilibrio di Nash'. Un insieme di strategie adottate da tutti i giocatori costituisce un equilibrio di Nash se a nessuno conviene cambiare la sua, nel caso in cui tutti gli altri mantengano fissa la loro scelta. Consideriamo per esempio un gioco composto da vari giocatori, ciascuno dotato di un numero finito di strategie ordinate secondo un certo criterio. Supponiamo che la regola dei pagamenti assegni vincite positive a tutti i giocatori, nel caso in cui tutti insieme scelgano la loro prima strategia; ancora vincite positive a tutti, nel caso in cui tutti insieme scelgano l'ultima strategia di ciascuno; vincite nulle a tutti, altrimenti. È facile verificare che l'insieme delle scelte per cui ognuno gioca la sua prima strategia costituisce un equilibrio di Nash; analogamente l'insieme delle scelte per cui ognuno gioca la sua ultima strategia. Ovviamente, non tutti i giochi sono così semplici. Nel 1953, Nash affronta il problema delle strategie di cooperazione fra giocatori e della ripartizione della vincita ottenuta. La 'soluzione cooperativa di Nash' per giochi a due persone costituisce un importante contributo alla risoluzione di conflitti.

I successivi sviluppi
Gli equilibri di Nash vengono in seguito approfonditi da Reinhald Selten con l'introduzione dei relativi "raffinamenti", che porteranno il Nobel anche a quest'ultimo. La soluzione cooperativa di Nash viene generalizzata da John Harsanyi per casi di più di due giocatori, in alternativa a un altro importante concetto di soluzione cooperativa, il "valore per giochi a n persone", introdotto da Shapley nel 1953. All'inizio degli anni '60, Thomas Schelling avvia importanti studi su problemi di conflitto in ambito di armamenti e di disarmo, nonché energetico e ambientale. Ancora in quel periodo, Robert Aumann e Michael Maschler danno il via ai "giochi a informazione incompleta" i cui sviluppi porteranno il Nobel anche ad Harsanyi. Aumann sviluppa utilissimi modelli su giochi di mercato continui, o infiniti, o ripetuti e crea una scuola diffusa in tutto il mondo. Harold Kuhn (coautore con Tucker del famoso teorema di ottimizzazione) dà uno sviluppo fondamentale ai Giochi in forma estesa e ai collegamenti fra Teoria dei Giochi e Programmazione matematica. La società da lui diretta, Mathematica, consentirà ai due futuri Nobel Selten e Harsanyi di applicare la Teoria dei Giochi al problema del disarmo. Nel 1965 il testo Game Theory di Guillermo Owen (III ed., New York, Academic Press, 1995) costituisce la 'fase Gutemberg' della teoria, in quanto la diffonde in tutto il mondo grazie alle traduzioni in russo, giapponese, tedesco, polacco, romeno. Owen lavora anche con Shapley per applicazioni politiche dei Giochi e generalizza il valore di Shapley, nonché altri valori successivamente introdotti, al caso di Giochi con diverse probabilità di formazione delle coalizioni. Su questo punto pare che Nash abbia ancora qualcosa da dire… ma andiamo con calma. Limitiamoci a registrare che nel 2005 il Nobel per l'Economia viene nuovamente assegnato a due 'giochisti': Aumann e Schelling.

Realtà e fiction
A prescindere dalle inevitabili lacune, il libro di Sylvia Nasar è sostanzialmente veritiero. Una piccola polemica è sorta in Italia per una descrizione riportata dalla Nasar sull'aspetto fisico di Ennio De Giorgi, ma è poi risultato che si trattava essenzialmente di un'infelice traduzione in italiano del testo inglese. Il successivo libro scritto dalla Nasar in collaborazione con Harold Kuhn costituisce una importante integrazione sia per gli aspetti scientifici (trattati in modo un po' dilettantesco nell'opera precedente) sia per le bellissime testimonianze fotografiche. Fra queste, particolarmente suggestiva è la riproduzione della tesi di laurea di Nash, ove già appaiono chiaramente la definizione degli equilibri e il teorema di esistenza.

Per quanto riguarda il film, le differenze dalla realtà sono molteplici. Intanto Nash è alto e magro e Alicia piccola e paffutella; ciò appare ribaltato nelle figure di Russel Crowe e Jennifer Connelly. Un figlio di Nash, che risale a una relazione precedente il matrimonio, è ignorato. Ancora ignorato è il fatto che Alicia e John, dopo una separazione durata molti anni (nel corso dei quali Alicia aveva comunque seguito da vicino le vicende dell'ex marito), si sono risposati il primo giugno 2001. L'episodio in cui John spazza via le pedine alla fine di una partita non risulta dalle testimonianze di molti suoi compagni di studi. Ciò naturalmente non lo esclude, ma sembra più attendibile che l'adattatore cinematografico abbia preso spunto dall'invenzione, fatta da Nash, di un gioco simile alla dama, che divenne molto popolare nella sala dei matematici di Princeton. A proposito di tale sala, la 'cerimonia delle penne' (secondo cui tutti i matematici presenti a Fine Hall depositavano la loro penna sul tavolo di uno studioso che riconoscevano superiore) è molto suggestiva, ma inventata. Ancora inventato è il discorso durante la cerimonia del Nobel: è noto, infatti, che in tale circostanza il premiato si limita a ricevere l'onorificenza senza dire nulla; i soli speakers sono il cerimoniere e il presentatore delle motivazioni (in questo caso Harold Kuhn). Nel film i risultati scientifici sono quasi completamente trascurati; nei rari casi in cui appaiono sono per lo più imprecisi. Per esempio, molte delle formule scritte sulle lavagne e sui vetri delle finestre non riguardano i lavori di Nash e la soluzione illustrata con l'"episodio della bionda" non costituisce un equilibrio di Nash. Non è il caso di dilungarsi in proposito, come non è il caso di fare delle puntualizzazioni sulla consistenza dei successivi deliri, per non rovinare l'emozione del film a chi non l'avesse ancora visto. Il giudizio complessivo è comunque, per opinione pressoché unanime, estremamente positivo, tenuto conto che la drammatizzazione cinematografica deve spesso viaggiare con ali proprie. Il punto focale del film sta nella frase pronunciata da Alicia in un momento particolarmente difficile della malattia: "ho bisogno di credere che qualcosa di straordinario possa accadere". Il bellissimo messaggio per tutti gli infelici è che qualcosa di straordinario è davvero accaduto.
 
Approfondimenti
John Nash: qualche testimonianza personale

*Ordinario di Metodi Matematici per l'Economia e la Finanza e di Teoria dei Giochi e delle Decisioni presso la Facoltà di Economia dell'Università degli Studi di Bergamo e presso l'Accademia della Guardia di Finanza.

Da - http://www.treccani.it/scuola/tesine/gioco_matematico/3.html
7019  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / MONICA RUBINO Fiducia nei ministri a febbraio: Padoan stacca tutti, sorpresa ... inserito:: Marzo 05, 2016, 04:54:51 pm
Fiducia nei ministri a febbraio: Padoan stacca tutti, sorpresa Martina, Galletti ultimo
Rispetto alla rilevazione di gennaio, gli ultimi dati confermano il ministro dell'Economia in vetta alla classifica.
Il titolare delle Politiche Agricole sale al terzo posto, mentre il responsabile dell'Ambiente precipita in fondo alla graduatoria


Di MONICA RUBINO
04 marzo 2016

ROMA - Il ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan è ancora primo. Ma la vera sorpresa dell'ultimo sondaggio svolto dalla Ipr Marketing sulla fiducia degli italiani ai ministri del governo Renzi nel mese di febbraio è il grande recupero di Maurizio Martina. Il responsabile delle Politiche Agricole era al 24% a novembre e ha aumentato la propria fiducia di ben 6 punti, arrivando al 30% e piazzandosi al terzo posto a pari merito con Giuliano Poletti (Lavoro), che invece nel corso degli ultimi 4 mesi ha perso 6 punti.

Rispetto alla rilevazione di gennaio, Padoan non solo si riconferma in prima posizione ma allunga il passo, raggiunge il 39% e stacca di ben 6 punti il secondo in graduatoria, Graziano Del Rio, responsabile di Infrastrutture e Trasporti.

In aumento anche il ministro dell'Interno Angelino Alfano che "da quando si è schierato in prima linea contro la stepchild adoption - sostengono i sondaggisti della Ipr Marketing - ha incrementato il livello di fiducia di 4 punti e oggi arriva al 28%, posizionandosi al 5°posto".
 
Nella parte bassa della classifica, invece, Gianluca Galletti (Ambiente) con il 12% di fiducia sprofonda in ultima posizione al posto di Marianna Madia (Pubblica amministrazione), che questa volta è penultima. Mentre Maria Elena Boschi (Riforme) conferma un trend in calo, passando dal 22% di novembre al 15% di febbraio. "Probabilmente le critiche sul caso di Banca Etruria hanno lasciato il segno", sostiene ancora la Ipr Marketing.

Le interviste sono state realizzate il primo marzo 2016 su un campione di mille cittadini maggiorenni residenti in Italia e disaggregati per sesso, età e area di residenza.

In generale, la fiducia media dell'intera squadra di governo perde un punto nell'ultimo mese e si stabilizza al 22%. Sono solo 4 su 15 i ministri che superano l'asticella immaginaria del 30%, mentre altri 3 fanno registrare un livello di fiducia tra il 25 ed il 29%. Infine sono 4 i ministri in "zona rossa", ossia sotto il 15%: oltre ai già citati Madia e Galletti, ci sono anche Stefania Giannini (Istruzione) e Federica Guidi (Sviluppo Economico).

© Riproduzione riservata
04 marzo 2016
Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/03/04/news/fiducia_nei_ministri_a_febbraio_padoan_stacca_tutti_sorpresa_martina_galletti_ultimo-134714328/?ref=nl-Ultimo-minuto-ore-13_04-03-2016
7020  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / FABIO MARTINI. Renzi sceglie la prudenza: “In Libia niente fughe in avanti” inserito:: Marzo 04, 2016, 11:40:17 pm
Renzi sceglie la prudenza: “In Libia niente fughe in avanti”
Il presidente del Consiglio comprende le richieste degli alleati di un intervento, ma vuole rinviare la decisione: nessuna accelerazione

04/03/2016
Fabio Martini
Roma

Nel salone dei ministri, il Consiglio era iniziato da 35 minuti. la riunione stava scorrendo senza asperità, ma alle 10,55 è arrivato il primo dispaccio di agenzia: «Forse uccisi due ostaggi su quattro in Libia». Nelle ore precedenti Matteo Renzi era stato preavvisato che erano in corso le dolorose verifiche, tipiche di questi casi, ma l’ufficializzazione (o quasi) della morte de due italiani ha contrariato il presidente del Consiglio. La morte violenta di connazionali in operazioni belliche è considerata da sempre una vera iattura per tutti i capi di governo, anche per quelli meno condizionati dai mutamenti quotidiani dell’opinione pubblica e anche per questo motivo Renzi ha cercato subito di capire la dinamica nella quale erano morti i due italiani. Tragica casualità o «avvertimento» in vista di un possibile ruolo protagonista dell’Italia nella guerra all’Isis in Libia? 

Domande e risposte decisamente importanti. Assieme ai ministri del «ramo» (Gentiloni, Pinotti, Alfano) Renzi ha incontrato i vertici dei Servizi e alla fine, in mancanza di una versione definitiva, per tutta la giornata il presidente del Consiglio ha preferito non esporsi pubblicamente. E dunque fa testo quel che Renzi ha detto in sedi informali. Il primo concetto espresso dal capo del governo a Palazzo Chigi è chiaro: «Io non mi faccio dettare la linea dai giornali», alludendo alle ennesime fughe di notizie, comparse ieri mattina, circa un impegno dei militari italiani in operazioni di guerra in Libia. Un fastidio dettato non soltanto dall’insofferenza che Renzi prova verso tutti coloro che, pensa lui, provano a forzarlo in una determinata direzione. In realtà il presidente del Consiglio è interiormente diviso. Da una parte comprende le ragioni di chi - Usa in testa - è pronto a legittimare una leadership italiana, in cambio però di un intervento armato, con tanto di scarponi sul deserto. Ma a contrastare questo «imperativo categorico» della Realpolitik, in Renzi gioca l’istinto, che continua a consigliargli di rinviare il più possibile il momento della scelta: o dentro o fuori. E infatti anche le esternazioni riservate di queste ore da parte di Renzi risentono di questa divisione interiore: da una parte Palazzo Chigi cerca di non farsi imporre la linea dai mass media, dall’altra il presidente del Consiglio non nega che, prima o poi, i nostri militari possano entrare in azione. Ma colloca quel momento in una fase non immediata. Ecco le sue parole informali nella giornata di ieri: «Su questo terreno ci vuole prudenza. Nessuna fuga in avanti. La situazione è troppo delicata perché ci si lasci prendere da accelerazioni». 

E quanto alla morte dei due italiani, Renzi è stato ancora più prudente: in casi come questi, dice, occorre agire «con prudenza, silenzio, serietà, affidabilità». Una linea sulla quale trova il consenso di uno, come Romano Prodi, che conosce bene la realtà libica. Al punto che diverse fazioni locali avevano chiesto a Palazzo Chigi un suo ruolo di mediazione. Dice Prodi: «Il nostro presidente del Consiglio ha detto che l’intervento militare può arrivare solo dopo la richiesta di un governo libico unitario, dal quale siamo lontanissimi. Non c’è una situazione per cui si possa in questo momento intervenire». Esattamente la linea di Renzi, anche se poi Prodi avvalora una interpretazione - poco incoraggiante per il governo - sulla morte dei due tecnici: «Avere quattro ostaggi italiani per l’Isis è un formidabile strumento di pressione. Perciò sono propenso a credere a qualcosa di deliberato, più che a un incidente». 

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