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7021  Forum Pubblico / ITALIA VALORI e DISVALORI / Reggia di Caserta: sindacati folli o minacciati da cosche locali?? inserito:: Marzo 04, 2016, 11:39:08 pm
«Il direttore lavora troppo, mette a rischio la Reggia di Caserta»

Di Antonello Velardi

«Il Direttore permane nella struttura fino a tarda ora». Non solo. «Tale comportamento mette a rischio l’intera struttura museale». Chi è questo stravagante personaggio che la sera non vuole tornare a casa e resta sul luogo del lavoro, danneggiando? È sano di mente? Chi lo ha messo lì, creando disorientamento e preoccupazione? È un direttore di un’azienda privata che deve fare i conti con il mercato difficile e con i fusi orari e perciò deve fare le ore piccole nel suo ufficio? No, no, niente di tutto questo.

Il direttore non è un pazzo, o per lo meno ha superato tutti i test psico-attitudinali ai tempi dell’assunzione e non ha dato segni di particolare sconnessione durante i suoi incarichi precedenti. Si è sempre comportato così. È stato nominato da poco e per giunta lavora nella pubblica amministrazione, nel senso che potrebbe scansare il lavoro eppure non lo fa. E non è un funzionario qualsiasi, è il nuovo direttore della Reggia di Caserta, bella e maledetta, uno dei più importanti monumenti al mondo, orgoglio dell’Italia, grande occasione persa, simbolo di tutti i guasti dei beni culturali nel nostro Paese, in particolare al Sud. Si chiama Mauro Felicori, viene da Bologna, da giovane faceva il giornalista; i primi giorni sembrava un marziano, ora si è integrato ma continua a muoversi come un marziano. Ma chi lo accusa di lavorare troppo? Non ci crederete: i sindacati. L’accusa è contenuta in un documento ufficiale di protesta redatto nei giorni scorsi da un numero consistente di sigle sindacali che rappresentano i lavoratori della Reggia. Il documento ha un oggetto che la dice lunga: «Gestione della Reggia di Caserta. Rilievi».

Ora, siccome sembra uno scherzo anche se di pessimo gusto, bisogna aggiungere che scherzo non è perché il documento di protesta è stato inviato al capo di gabinetto del ministro Dario Franceschini, al segretario generale del ministero dei Beni Culturali e al responsabile della Direzione generale dei musei: Giampaolo D’Andrea, Antonia Pasqua Recchia e Ugo Soragni. Che l’hanno preso sul serio perché hanno chiesto delucidazioni all’accusato, cioè a Felicori. Certo, il documento è di tre pagine e mezza e la scrittura oscilla tra il burocratese e il sindacalese; essendo un documento sindacale è scattata la procedura per la richiesta di chiarimenti. Ma è davvero singolare che il neo direttore della Reggia di Caserta sia chiamato a dare spiegazioni sul tutto ma anche sul perché lavora troppo e fa le ore piccole in ufficio. Vale la pena riprodurre per intero il passaggio surreale: «Il Direttore permane nella struttura fino a tarda ora, senza che nessuno abbia comunicato e predisposto il servizio per tale permanenza. Tale comportamento mette a rischio l’intera struttura».

Due capoversi sopra, c’è anche la premessa logica, giusto per essere chiari: «A cinque mesi dall’insediamento del nuovo direttore della Reggia di Caserta spiace rilevare che...». Quindi i sindacati sono dispiaciuti che Felicori resti nel tardo pomeriggio e di sera lì invece di prendere la strada di casa. Fermo restando che il ruolo del sindacato è più che importante, che i diritti dei lavoratori vanno difesi, che le prevaricazioni sul posto di lavoro vanno respinte con le forza, va capito che cosa sta succedendo nella Reggia di Caserta. Intanto, non tutti i sindacati hanno firmato quel documento, alcuni di essi hanno fatto un passo indietro. La nota di protesta riguarda l’intera organizzazione del lavoro ma si capisce chiaramente che di fondo c’è un certo malcontento nei confronti di Felicori. Il quale ha il vizio, se vizio è, di fare spesso di testa sua.

E di prendere alla lettera il mandato che gli è stato dato dal ministro, avallato direttamente dal premier Matteo Renzi: risollevare la Reggia, ora in stato comatoso, incrementare il numero dei visitatori, riorganizzare il servizio con una logica più moderna, combattere con forza il malcostume e gli intrallazzi di custodi, dipendenti e faccendieri che nel monumentale palazzo del Vanvitelli stazionano, alcuni per contratto (i primi e i secondi) ed altri per radicata consuetudine (i terzi). Felicori si è messo di buzzo buono e, in questi primi cinque mesi, ha preso una serie di decisioni, rivoluzionarie nella loro ordinarietà perché eversive rispetto al passato.

I suoi predecessori non vivevano a Caserta ma erano pendolari (grazie alle comodità): la stazione ferroviaria è di fronte alla Reggia, vi fermano anche le Frecce dell’alta velocità. Lui non torna a Bologna neanche nel fine settimana, anzi si fa raggiungere dalla moglie. Va in giro per Caserta e per la sua provincia, a conoscere il territorio, nel weekend, e poi ne scrive su Facebook; durante la settimana arriva ogni giorno in ufficio alle sette e mezza (abita lì, proprio lì) e se ne va non prima delle otto, nove di sera. I custodi e gli altri dipendenti lavorano dalle sette del mattino alle sei e mezzo del pomeriggio, la Reggia chiude a quell’ora, il parco un’ora prima del tramonto.

Gli altri direttori se ne andavano prima della chiusura, subito dopo se ne andavano (spesso) i dipendenti che avrebbero dovuto staccare alle sei e mezza. Felicori invece resta lì, ma dalle cinque alle sei e mezzo esce dall’ufficio e va in giro per il palazzo, tra parco e appartamenti. Vigila. Dopo le sei e mezza sale in ufficio e ci resta fino a tardi, con un gruppo di dipendenti amministrativi alcuni dei quali erano prima custodi e ora sono stati da lui spostati. Insomma, ha cambiato tutto. E vuole cambiare ancora; rimodulerà gli orari, sposterà un altro po’ di gente per arrivare al suo obiettivo finale: tenere aperta la Reggia sette giorni su sette. Sì, perché non tutti lo sanno ma il palazzo del Vanvitelli resta chiuso il martedì per far riposare i dipendenti: è l’effetto di vecchi accordi sindacali, non è stato mai possibile modificarli. Un posto bellissimo, la Reggia di Caserta. Ma davvero complicato. E Felicori non riesce ancora a capacitarsi di molte cose che a lui, ma anche a noi, appaiono davvero strane.

Agli inizi di questo mese ha fatto i calcoli e ha scoperto che a febbraio c’è stato un incremento del 70% di presenze rispetto allo stesso mese del 2015. Quando i suoi collaboratori gli hanno portato i dati pensava che avessero sbagliato e avessero confuso 7 con 70. Ha fatto controllare, ha ricontrollato anche lui; il dato era esatto: 70%. Perché a lui sembrava strano? Perché è molto, molto difficile che le presenze in un qualsiasi monumento quasi raddoppino in mancanza di un evento eccezionale, di una campagna particolare, di un’iniziativa straordinaria, peraltro in un periodo dell’anno abbastanza piatto. Insomma l’incremento del 70% è il semplice effetto della presenza costante del direttore controllore, dalla mattina alla sera. Fino a tarda ora. Un comportamento, hanno scritto i sindacati, che «mette a rischio l’intera struttura museale». E si è visto.

Giovedì 3 Marzo 2016, 23:45
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Da - http://www.ilmattino.it/caserta/il_direttore_lavora_troppo_mette_rischio_la_reggia-1587148.html
7022  Forum Pubblico / LA CULTURA, I GIOVANI, La SOCIETA', L'AMBIENTE, LA COMUNICAZIONE ETICA, IL MONDO del LAVORO. / LUOGHI DELLA CULTURA Sceglierli compito non facile per il Curatore della collana inserito:: Marzo 04, 2016, 11:32:46 pm
Quando eravamo arabi

... Oggi ricordiamo soprattutto le invasioni, ma fin dal IX secolo il mondo islamico ha profondamente influenzato la nostra cultura

Di Ursula Janssen -

Capitale dell'Emirato di Sicilia dall'831 al 1072, Palermo vantava oltre 300 moschee, tra cui quella su cui venne eretta l'odierna cattedrale a partire dal 1185. Oggi ne resta solo una colonna con un'iscrizione in arabo.

Quando il viaggiatore, storico e poeta andaluso Muhammad ibn Jubayr visitò Palermo nel mese santo del Ramadan dell’anno 1184 tornando dal suo pellegrinaggio alla Mecca, la veduta della città, che egli ben conosceva, lo lasciò stupefatto. Palermo era stata la capitale dell’Emirato di Sicilia per circa 130 anni e adesso, all’epoca della sua visita, era governata da re normanni cristiani:

"Essa è la metropoli di queste regioni; aduna in sé i due pregi: comodità e magnificenza. [Troverai quivi] ogni cosa che tu bramar possa, buona o bella […] Stupenda città; somigliante a Cordova per l’architettura […] un limpido fiume la spartisce; quattro fonti erompono da’ suoi lati. […] Le moschee loro sono innumerevoli: la più parte servono di scuola a’ maestri del Corano. […] In questo Cassaro vecchio son de’ palagi che […] abbagliano gli occhi con la loro bellezza [traduzione di M. Amari, da Biblioteca arabo-sicula, 1880]".

Oggi l’Islam è la seconda fra le religioni più praticate in Italia dopo il cattolicesimo. Ma la quota della popolazione che lo professa, l’1,4 per cento, è di fatto più bassa rispetto a 1.000 anni fa. La presenza musulmana in Italia data dal IX secolo, periodo in cui la Sicilia venne assoggettata dal califfato abbaside. Fu una presenza consistente già a partire dall’827, quando gli invasori giunti dall’Africa del Nord conquistarono Mazara del Vallo e Marsala (Marsa Allah, il “porto di Dio”), e si protrasse fino al 1300, anno in cui venne distrutto a Lucera l’ultimo insediamento musulmano.

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Da - http://www.nationalgeographic.it/wallpaper/2016/03/03/foto/quando_eravamo_arabi-3000450/1/?ref=HREN-1
7023  Forum Pubblico / LA CULTURA, I GIOVANI, La SOCIETA', L'AMBIENTE, LA COMUNICAZIONE ETICA, IL MONDO del LAVORO. / LUOGHI DELLA CULTURA e CULTURA DEI LUOGHI - TRIESTE. inserito:: Marzo 04, 2016, 08:55:40 pm
Carso. Boschi, mare e castelli. Scorci sul Golfo di Trieste
Attorno al capoluogo un piccolo mondo fatto di perle architettoniche e natura, di scorci sull'acqua e di borghi. Dalle falesie di Duino al sentiero di Rilke, una guida pratica

Di GIULIA STOK
04 marzo 2016

È un estremo lembo d’Italia, stretto tra i boschi sloveni e il golfo di Trieste: terra carsica, scavata da acque sotterranee nei millenni, tormentata geologicamente e storicamente. Su questo confine geografico, linguistico e climatico, in pochi chilometri di curve tra Duino e il capoluogo la costa regala perle architettoniche e naturalistiche, lussuosi castelli e deliziosi paesini.

San Giovanni al Timavo, spoglia e spirituale, benché a pochi passi dalla strada trafficata, accoglie nel suo involucro gotico i resti di mosaici di una basilica paleocristiana. Sorge in un luogo considerato sacro fin dall’antichità, ovvero accanto alle risorgive del Timavo, dove il fiume riemerge dal sottosuolo in una cornice sontuosamente verde. Proseguendo verso sud si raggiunge la baia di Duino, piccola e raccolta, sulla quale, davanti a una platea di barche di pescatori, si fronteggiano due storici ristoranti di frutti di mare. I giardini fioriti delle idilliache villette del paese sono un piacevole preludio al lussureggiante parco del Castello. Residenza dei Principi della Torre e Tasso, che ospitarono a inizio Novecento Rainer Maria Rilke (qui scrisse le Elegie Duinesi), oggi è ancora abitato dalla famiglia ma anche in parte aperto al pubblico. Tra glicini, alberi secolari, cespugli di erbe aromatiche, statue e reperti archeologici la vista si estende sul golfo fino alla costa di Grado e, nelle giornate più terse, al campanile di Aquileia. All’interno, in una sequela di stanze ovattate da colori caldi, si ammirano la scala a chiocciola del Palladio e una bella collezione di strumenti musicali, tra cui un fortepiano del 1819 suonato da Listz.

Gli scorci migliori sul castello si scoprono arrivando a piedi dalla vicina Sistiana, fermandosi ai punti di avvistamento delle Grande Guerra lungo il sentiero intitolato a Rilke. I lecci e i carpini neri sul mare diventano arbusti bassi e spinosi, la vegetazione balcanica si ammorbidisce in mediterranea e offre rifugio a fringuelli, ghiandaie, picchi, scoiattoli. E’ la riserva naturale delle falesie di Duino, area protetta 80 metri a picco sul mare. Guardando in basso si avvistano le reti per la mitilicoltura, in passato attività di sussistenza per gli abitanti di queste zone. Chi nasceva qui, e qui voleva restare, in passato poteva essere contadino, pescatore o minatore. La pietra calcarea della zona infatti è considerata pregiata fin dall’antichità, fu utilizzata perla basilica di Aquileia e per alcune residenze degli Asburgo. Oggi al posto della cava di Sistiana sorge Portopiccolo, nuovo borgo ecosostenibile con marina e hotel di lusso, mentre quella di Aurisina, poco oltre, è ancora in attività.

Ci avviciniamo alla grande Trieste, ma i paesi si fanno sempre più raccolti, inframmezzati da spiagge limpide e solitarie, raggiungibili scendendo centinaia di gradini. Santa Croce era famosa, ancora qualche decennio fa, per una tonnara cui partecipava tutto il paese, dirigendo le operazioni marittima dall’alto della falesia. A Contovello, una manciata di case con orti e giardini lussureggianti che digradano in una serie di ripidi terrazzamenti con vigne e alberi da frutto, il silenzio pare quasi magico. Nella luce del pomeriggio, Piazza Unità d’Italia si staglia così vicina da poterla toccare, l’Adriatico è calmo e sonnolento sotto il sole, e in fondo ai tunnel vegetali appare la perla del Castello di Miramare.

A un’altra epoca sembrano appartenere anche le osmize (da otto, in sloveno), rustiche mescite dove da fine Ottocento si serve vino di produzione propria per otto giorni l’anno, accompagnato da affettati, formaggi stagionati in grotta, semplici piatti caldi (per indirizzi, giorni e orari di apertura qui). Chi cerca un vino più raffinato, invece, vada direttamente a Prepotto, una frazione nell’entroterra di Sistiana. Qui tre aziende coraggiose, Edi Kante, Skerk e Zidarich hanno trasformato i difficili vitigni locali di un tempo in nettari da intenditori. Da non perdere la Vitovska, un bianco salino che sa di mandorla amara, e che cresce solo in una manciata di chilometri tra Sistiana e la Slovenia.

© Riproduzione riservata
04 marzo 2016

Da - http://www.repubblica.it/viaggi/2016/03/04/news/costa_triestina_duino_e_dintorni-134763944/?ref=HRLV-20
7024  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / DOMENICO QUIRICO Sabratha, i due ostaggi italiani uccisi con un colpo alla nuca inserito:: Marzo 04, 2016, 12:24:13 pm
Sabratha, i due ostaggi italiani uccisi con un colpo alla nuca prima del blitz delle forze libiche
Fausto Piano e Salvatore Failla erano stati rapiti in luglio da miliziani vicini all’Isis.
Affidati a un altro gruppo gli altri due connazionali


04/03/2016
Domenico Quirico
Inviato a Sabratha

La vigilia è finita, la ebbrezza sanguinaria comincia. Il cannone tuona. La terra fuma. È vero? Incredibile sembra l’evento dopo tanta esitazione. Invece l’uccisione comincia, la distruzione comincia. È vero. Perché ci sono già due morti. Fausto Piano e Salvatore Failla, ostaggi di questa eruzione demoniaca, della metastasi libica del califfato, dipendenti della impresa Bonatti di Parma, rapiti nel luglio dello scorso anno. Da banditi si diceva più che da islamisti: ma dove inizia il confine che separa gli uni dagli altri? I banditi non diventano spesso combattenti di dio? 

Si può morire così, con una pallottola alla nuca, a Sabratha, l’esecuzione prima che gli assassini a loro volta venissero uccisi, a settanta chilometri da Tripoli, in una città di fastose rovine romane e di sanguinosi fanatismi.
I sanguinari piromani del Califfato universale sono arrivati anche qui. Una casa nel nulla, una prigione rifugio usata forse prima di un altro, ennesimo spostamento. Gli italiani usati - secondo quanto racconta un testimone – come «scudi umani», per coprire la fuga. Dentro la casa un pugno di armati non si sa esattamente quanti, una donna e un bambino. Sì, in mezzo alle cartucce, ai mitra, alle salmodianti preghiere e all’odio, una donna e un bambino, il jihad come fatica quotidiana, banale. 

Sono gli unici sopravvissuti alla battaglia tra una milizia fedele del governo di Tripoli e un gruppo di combattenti di Isis. Sarebbero tunisini: ancora il marchio della Tunisia, terra che qualcuno descrive giulivamente fuori pericolo, sollevata per miracolo dalla peste del fanatismo armato. Sabratha a 170 chilometri dal confine tunisino: lì c’è un campo di addestramento da cui sono partiti i responsabili degli attentati al Bardo e a Sousse.

Alla fine hanno contato nove morti e una donna che urla e un bambino ferito; ed è lei a raccontare di essere moglie di uno dei combattenti e che tra i cadaveri ci sarebbero anche degli stranieri: ostaggi italiani. In quattro erano stati rapiti nel 2015, altri due dipendenti, Gino Pollicardo e Filippo Calcagno, della ditta italiana. Non sono lì, ha detto la donna, perché sono stati affidati a un altro gruppo in un altro luogo. A venderli sarebbe stato l’autista libico ora sotto interrogatorio. 

Mentre viaggio verso Misurata penso che il nulla esiste più di tutto ciò che esiste. E che non si minacciano le guerre se poi non si ha il coraggio di farle davvero. Che attendere i comodi dell’Onu, il girovagare di mediatori senza forza e l’interminabile arte del rinvio dei politicanti libici impegnati a spartirsi poltrone e rendite petrolifere, è più che un errore. La guerra non è qualcosa che si annuncia, che si dibatte, su cui si fanno circolare «voci»: la fai e basta, se pensi sia giusta e necessaria, attacca, spara, mettiti al riparo quando devi. Tutto qua. E poi recupera i morti. L’occidente non ha fatto la guerra e recupera già questi poveri morti. 

La faremo questa guerra, prima o poi, cinque anni dopo aver annientato il regime psicopatico di Gheddafi torneremo qui per riparare alle nostre colossali e colpevoli imprevidenze. Torneremo certo «per finire il lavoro», triste formula con cui copriamo la nostra passata incapacità. Torneremo, questa volta, non per smontare un tiranno (amico nostro), ma per un obbiettivo totalmente egocentrico: difendere i nostri interessi economici (la maledizione libica: avere le più grandi riserve di idrocarburi dell’Africa) e fermare i migranti in un altro possibile stato terrorista. 

Ma Piano e Failla, e i loro due compagni ancora scomparsi, in questo disegno che posto avevano? Qualcuno aveva pensato a loro, quando annunciava azioni di corpi speciali, raid di bombardieri e altre meraviglie belliche prossime e venture per sgretolare gli assassini di Dio? Ed erano solo annunci.

Li dimenticheremo in fretta i due lavoratori inghiottiti da una normale storia del nostro tempo, ovvero il restringersi del mondo che possiamo vivere e percorrere: sì, li dimenticheremo come abbiamo dimenticato il giovane cooperante Lo Porto, ammazzato dagli americani in Afghanistan «per errore», ucciso da coloro da cui attendeva in fondo al suo martirio la liberazione. Come abbiamo dimenticato Lamolinara, l’ingegnere ammazzato in Nigeria in un blitz tecnicamente imperfetto. 

Non è facile raggiungere Sabratha, eppure sarebbero solo settanta chilometri. Ma a Janzur, appena superato il vecchio aeroporto internazionale di Tripoli ora chiuso e distrutto, scontri tra le infinite milizie rivali hanno interrotto la strada: muri alzati con la sabbia e grandi trincee che hanno tranciato l’asfalto. Bisogna scendere a sud, allora, compiere una grande diversione nel deserto e poi riguadagnare la strada litoranea. Ma ad Al Azazyiah, quando pensi che il peggio è dietro di te e le milizie di Sabratha ostili a Isis hanno il controllo, il deserto è ancora più pericoloso: perché i gruppi jihadisti, costretti a lasciare le posizioni in città, si sono dispersi per render la maggior parte del territorio impraticabile. L’auto avanza e vedo alla mia destra rupi che precipitano verso il mare e le palme che sono più grigie che verdi e ogni tanto una certa erba verde e crudele, un’erba al sangue. Dopo tanti chilometri di sabbia, c’è qualcosa di miracoloso e ancor più meraviglioso perché a contatto con il deserto: il mare, che richiama con le onde infiniti pensieri. La Libia come la Siria e lo Yemen, il Paese delle maledizione e dei miti, le intatte solitudini, quella che un tempo era l’ultima verità concessa ai nostri sogni.

Penso a ciò che nessuna ricostruzione potrà mai colmare. Al vuoto dei sette mesi di prigionia dei poveri morti. Posso farlo, ne ho un poco il diritto. Conosco i sogni di liberazione che ti trascinano ininterrottamente, e ininterrottamente si spezzano come fili marci. E il tempo che non esiste, il giorno e la notte, le ore e i minuti che si confondono. L’attesa è una dimensione spaziale così come il tempo. 

Duadi, è il sindaco di Sabratha, come tutti gli arabi si muove e parla come se avesse nel petto una perenne tempesta. Racconta la dinamica dello scontro in cui hanno perso la vita gli italiani; e come sia difficile cacciarli via. Qualche giorno fa il governo a Tripoli con molto ottimismo aveva annunciato che il problema era risolto.

Qui come nel califfato della terra dei due fiumi il reclutamento delle milizie Isis è internazionale ma la sua anima è locale, radicata nelle mille contraddizioni di questo posto violento. Ancora la micidiale capacità del califfato di mescolare forze diverse. Sirte che era il feudo della tribù di Gheddafi, duramente bombardata dagli occidentali nel 2011, è stata poi malmenata dai successori del dittatore: come le tribù sunnite di Iraq dopo la caduta di Saddam Hussein. Imitando gli ufficiali di Saddam molti pretoriani del Colonnello hanno raggiunto le file dell’Isis per cercare la rivincita. E nuovo potere. Così in Libia dove l’internazionale islamica progetta di creare una nuova provincia del califfato o di trasferirsi in caso di sconfitta in Medio Oriente, la generazione di Gheddafi ha fatto alleanza con quella di Saddam per combattere il jihad. Feroce malizia della storia: entrambi sono passati dall’anti-islamismo originario all’islamismo più radicale.

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Alcuni diritti riservati.

Da - http://www.lastampa.it/2016/03/04/esteri/sabratha-i-due-ostaggi-italiani-uccisi-con-un-colpo-alla-nuca-prima-del-blitz-delle-forze-libiche-2V6auiY4JT0rBir2ElXieI/pagina.html   
   
   
7025  Forum Pubblico / MONDO DEL LAVORO, CAPITALISMO, SOCIALISMO, LIBERISMO. / Vito LOPS. Come capire se l’investimento è quello giusto: basta una domanda inserito:: Marzo 04, 2016, 12:17:58 pm
Come capire se l’investimento è quello giusto: basta una domanda

Scritto da Vito Lops il 29 Febbraio 2016
Imprendiamo

Houston, abbiamo un problema. Secondo il World Economic Forum l’Italia figura al 46esimo nella classifica che misura il livello di cultura finanziaria, peggio ci sono solo Paesi come Messico e Venezuela. Gli altri Stati del G20, così come quelli del G8, sono nettamente in vantaggio. A quanto pare dalle nostre parti in pochi conoscono la differenza tra un’obbligazione e un’azione. Tra un fondo bilanciato e un fondo flessibile, eccetera. Ed è davvero un clamoroso peccato, considerato che da questi concetti non si scappa. Prima o poi tutti si trovano ad avere un gruzzolo, anche piccolo e di poche migliaia di euro, da dover investire. In totale assenza di cultura finanziaria vorrà dire che le decisioni sui nostri soldi le prenderanno altre persone. E non sempre è un bene perdere il controllo.

Per quanto riguarda l’universo femminile, poi, questo problema è amplificato. I temi finanziari sono considerati ostici in partenza e spesso vale il principio tanto poi ci pensa il mio compagno/marito. A questo livello il controllo sul denaro è davvero minimale. Gli italiani sono bravi a mantenere il controllo nella “fase 1”, quella dell’accumulo della ricchezza (abbiamo un patrimonio tra i più elevati in Europa, sei volte il reddito contro le 4 della Germania) ma nella “fase 2”, quella dell’investimento del patrimonio, si mostrano piuttosto impreparati. Non a caso siamo tra i Paesi che investono di più in fondi comuni di investimento. Il che è una buona cosa se non si hanno conoscenze finanziarie perché il fai-da-te è estremamente pericoloso. Ma è altrettanto vero che affidare totalmente ad altri il proprio patrimonio (la fase 2) vuol dire in un certo qual modo rinunciare al controllo.

In qualsiasi campo della vita più abbiamo controllo più abbiamo successo. Il controllo non lo si acquisisce in poco tempo, ma solo – come ricordo in questo post – investendo nel “fattore T”. Se non investiamo nell’educazione finanziaria rinunciamo ad avere il controllo nella “fase 2”. Ed è un peccato perché gli individui ricchi – quelli che hanno un reddito annuo superiore ai 300mila euro – mediamente riescono ad avere una certa forma di controllo anche nella “fase 2”, quella della creazione di redditi da investimento.

Il controllo può essere totale (fai-da-te) o parziale. Personalmente ritengo che il controllo parziale sia la strada ideale da perseguire per chi si procura il reddito primario (“fase 1”) in un ambito differente dal mondo della finanza. In questo caso è improbabile che si abbia la possibilità di acquisire un’esperienza sul campo tale da poter eguagliare le competenze di un professionista che lavora in quell’ambito e quindi di assumere il controllo totale nella “fase 2”. Ecco perché è bene avvalersi della consulenza di esperti nel campo degli investimenti se il nostro reddito primario (“fase 1”) è sganciato dal mondo della finanza e quindi non abbiamo il tempo materiale per pareggiare la cultura finanziaria di un consulente. Abbiamo quindi bisogno della consulenza. Ma allo stesso tempo dobbiamo dimostrare di essere competenti nel campo, per non essere totalmente in balìa.

Dobbiamo “investire nel fattore T” per mantenere una forma, seppur parziale, di controllo sulla gestione della propria ricchezza. Solo in questo caso abbiamo gli strumenti per testare la qualità dei consigli ricevuti. Se non conosciamo la differenza tra un’obbligazione e un’azione, un fondo flessibile o un fondo bilanciato, un fondo passivo e un fondo attivo e via dicendo, saremo totalmente vulnerabili alla eventuale buona fede del consulente finanziario. Il cui obiettivo è in ogni caso diverso dal nostro. Chi vende il prodotto punta sulle commissioni (un flusso costante e periodico di reddito) promettendo agli investitori un guadagno eventuale sul capitale (aumento del prezzo di mercato de prodotto). L’incasso delle commissioni è sicuro mentre il nostro guadagno no. E’ un rischio che non possiamo permetterci perché la “fase 2” deve potenziare la “fase 1”, non eroderla o metterla in pericolo.

A questo punto c’è una semplice regola da seguire, che è la stessa regola che ispira l’investitore che ha il pieno controllo della “fase 2”.

Questa regola è una domanda da porre al consulente e/o all’intermediario finanziario che ci propone di investire in un determinato strumento. “Bene, sono anche disposto ad investire una parte dei miei risparmi in questo prodotto finanziario. A una condizione, però: che lei sia disposto a prestarmi almeno l’80% dei soldi dell’operazione”.

Se il consulente, come accade nella maggior parte dei casi, risponde che non è possibile, non resta che commentare. “Mi scusi, lei mi sta dicendo che investire in questo prodotto sarebbe una grande opportunità, eppure non è disposto a prestarmi dei soldi e rinuncia ai relativi interessi. Non capisco. Ciò significa che lei stesso non crede in prima persona nelle potenzialità del prodotto che mi offre”.

E’ un modo per ribaltare le carte sul tavolo e per far uscire allo scoperto chi propone l’investimento. Se è un investimento davvero interessante e solido questo fungerà da garanzia sui soldi prestati. E il proponente non dovrebbe aver problemi a finanziare l’operazione. In caso contrario, avremo la riprova che non si tratta dell’occasione della vita. E che l’Eldorado sarà da qualche altra parte.

Da - http://www.alleyoop.ilsole24ore.com/2016/02/29/come-capire-se-linvestimento-e-quello-giusto-basta-una-domanda/?uuid=guYtFBXP
7026  Forum Pubblico / LA CULTURA, I GIOVANI, La SOCIETA', L'AMBIENTE, LA COMUNICAZIONE ETICA, IL MONDO del LAVORO. / NACQUE SOTTO CARLO MAGNO LA CULTURA EUROPEA MODERNA? inserito:: Marzo 04, 2016, 11:41:34 am
Carlo Magno nell'analisi di Stefan Weinfurter
Di Luca Menichetti
28/02/2016

Le pagine dello storico Weinfurter ritraggono la figura di Carlo Magno da una prospettiva in larga parte inedita che guarda alle basi teoriche del suo potere.

Il titolo della biografia di Stefan Weinfurter, «Il santo barbaro», potrebbe far pensare ad un'analisi della figura di Carlo Magno tutta incentrata sulle contraddizioni dell'uomo e del suo potere. In realtà, se la struttura del saggio risulta piuttosto tradizionale (capitoli principali: "La Vita Karoli Magni e le altre fonti, Carlo il santo e il sacro impero, L'infanzia e la personalità di Carlo, La fine della concorrenza tra i correggenti, Le guerre per la fede e la causa dei buoni, L'esercizio del potere e i suoi strumenti, Le mogli, la prole e la questione della successione, Gli intellettuali, il sapere e l'univocità della fede, Le verità della Chiesa e l'autorità dottrinale di Carlo, Carlo imperatore e l'Oriente, Il vecchio Carlo e la verità del cuore), Weinfurter ha inteso indagare uno degli aspetti forse ancora poco approfonditi dell'epoca carolingia, un alto medioevo che ancora non conosceva un compiuto sistema feudale e che iniziava a riscoprire la cultura classica. L'obiettivo del nuovo potere era quello di «perseguire una disambiguazione dei più svariati ambiti della vita dell'uomo, di accreditare una suprema autorità dottrinale […] di puntare alla chiarezza e all'inequivocabilità del linguaggio, del modo di argomentare, di lavorare all'uniformazione dell'organizzazione politica, militare ed ecclesiastica» (p.13).  Un programma ambizioso da cui tutto il resto discendeva e che legittimava l'azione di Carlo Magno in un territorio - l'attuale Francia - che ancora era diviso tra le regioni di Austrasia Neustria, Borgogna e Aquitania.

Una biografia, questa, che include le cosiddette storie di Aquisgrana che presentano Carlo Magno anche come un uomo incline alle perversioni, succube della magia e propenso alla necrofilia e all'omosessualità» (p.49) con la consapevolezza che il mito re dei Franchi ha finito per far dimenticare il Carlo storico.

Stefan Weinfurter afferma innanzitutto che l'autorità regia, a cavallo tra l'VIII e il IX secolo, è stata mobilitata al fine di creare, anche al di fuori dei confini del regno, la massima legittimazione possibile. In questo senso, l'imperatore, malgrado le enormi resistenze soprattutto locali, è stato «il simbolo e l'incarnazione di una solidità istituzionale e di una certezza del diritto percepite come sommamente auspicabili»; e così «la santità conferiva non soltanto all'ordine morale, bensì anche a quello politico e giuridico, l'impulso della persistenza» (p.51).

Su questa linea possiamo leggere le pagine dedicate alle limitate anticipazioni del feudalesimo e al rapporto fiduciario che intercorreva con i vassalli del re. Di grande rilevanza, poi, la fioritura delle scienze esatte intorno all' 800, di fatto strumenti in mano a Carlo e al britannico Alcuino per imporre norme finalmente chiare. In questo contesto, "la norma della rettitudine" era: «la norma del bene, della correttezza e della precisione, del timore di Dio e della giustizia: era, in definitiva, la norma della verità» (p.186). Un passaggio, questo, che introduce la logica conseguenza dell'azione di Carlo Magno in rapporto a una Chiesa che metteva a disposizione del progetto imperiale la sua strumentazione concettuale: «agli occhi di Carlo mantenere il controllo sui dogmi della Chiesa rappresentava un obiettivo centrale, al quale era da collegare anche l'esortazione all'obbedienza nei suoi confronti che il sovrano aveva rivolto nel 796 al nuovo papa Leone III» (p.204). Un obiettivo, questo, che inevitabilmente voleva dire cristianizzazione, conquiste militari (leggiamo delle campagne contro i Sassoni, i Longobardi, gli Avari) e anche confronto con l'Impero romano d'Oriente, con l'Islam e con le complesse alchimie di potere presenti nella Roma dell'VIII secolo. Da questo punto di vista uno degli episodi più mitizzati, ovvero l'incoronazione del Natale dell'anno 800, viene letto ancora una volta in stretto rapporto con gli intenti di "disambiguazione". Come scrive Weinfurter, è probabile che il re Carlo non abbia gradito tempi e modi dell'incoronazione; e non soltanto per la presenza di un'ingombrante aristocrazia romana. La cerimonia presieduta da Leone III concedeva un tipo di dignità imperiale completamente nuovo: quello che successivamente ne emerse fu un impero totalmente diverso da quello antico, un impero petrino nella misura in cui era il papa che lo assegnava» (p.215).

Il saggio di Weinfurter, che si conclude con un Carlo Magno ormai al termine del suo percorso terreno, sostanzialmente insoddisfatto e consapevole di aver sottovalutato la forza delle pluralità territoriali e culturali, è corredato da un'ampia bibliografia: oltre cinquanta pagine che spaziano da Adalvino di Ratisbona ai contemporanei Karl Ferdinand Werner e Thomas Zotz.

Da - http://sintesidialettica.it/leggi_articolo.php?AUTH=19&ID=543
7027  Forum Pubblico / MONDO DEL LAVORO, CAPITALISMO, SOCIALISMO, LIBERISMO. / «I tuoi soldi»: focus su come gestire conti correnti e carte di credito inserito:: Marzo 03, 2016, 05:58:38 pm
«I tuoi soldi»: focus su come gestire conti correnti e carte di credito

29 febbraio 2016

Come difendere i propri risparmi attrezzandosi meglio? A questa necessità vitale di una comunicazione a misura di risparmiatore e, prima ancora, di un'autentica formazione vuole rispondere la nuova iniziativa del Sole 24 Ore: “I tuoi soldi. Corso pratico di educazione finanziaria”. Il 2° volume “Gestire conti e pagamenti”, in edicola con Il Sole 24 Ore martedì 1° marzo, è dedicato a conti correnti e carte di credito: il conto bancario o postale è la porta d'accesso a tutti i servizi del mondo bancario e finanziario ma, per chi non conosce nulla del mondo del credito, anche uno strumento semplice come questo, assieme ai servizi connessi, come le carte di pagamento, gli assegni e i bonifici, può trasformarsi in un'occasione di perdita di soldi e di frustrazione. Il secondo volume de “I tuoi soldi – Corso pratico di educazione finanziaria”, in edicola martedì 1 marzo a 50 centesimi oltre il costo del Sole 24 Ore, dà le nozioni di base per poter fare in modo che conti bancari e postali, carte di pagamento e assegni svolgano la loro funzione originaria di “passaporti” per ottenere strumenti e servizi utili a realizzare i progetti e soddisfare i bisogni dei lettori.

In due mesi le borse hanno fatto tremare i risparmiatori. Qual è il bilancio d'inizio 2016?
A due mesi dall'inizio del 2016 è tempo di fare i primi bilanci sui mercati finanziari perché è stato un avvio di stagione particolarmente turbolento. Su nove settimane, le Borse europee hanno archiviato 7 ribassi consecutivi (come non accadeva dal 2011) e appena due settimane positive. Mentre tra le classi di investimento il primo posto va all'oro, tornato in auge dopo anni di flessione e pur in assenza di inflazione. Ampio focus sul Sole 24 Ore di martedì 1 marzo.

Moda24 speciale settimana della moda: giovani e social media le novità della Milano fashion week
Sulla cover del numero speciale di Moda24 dedicato alla settimana della moda donna che si chiude oggi, una recensione della sfilata di Giorgio Armani, che, come sempre, chiude la fashion week. Inoltre un'analisi dedicata al savoir faire che si è visto su queste passerelle: gli stilisti hanno puntato sulla creatività ma anche sull'artigianalità di tessuti, lavorazioni e dettagli. Una sorta di dimostrazione di come il sistema moda italiano sia unico perché comprende una filiera che nessun altro paese ha. Completa la cover un approfondimento sul ruolo dei social media, in primis Instagram. Nelle pagine centrali, una recensione di tutte le altre sfilate di domenica e di oggi, da Dolce&Gabbana a Ferragamo, da Trussardi a Dsquared2. Focus infine sui giovani che hanno sfilato nell'ultima giornata e bilancio delle fiere di prêt-à-porter (White, Mipap e Super) e del Mido (occhiali).

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2016-02-29/-i-tuoi-soldi-focus-come-gestire-conti-correnti-e-carte-credito-195535.shtml?uuid=ACUZfWeC
7028  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / GUSTAVO ZAGREBELSKY Zagrebelsky e Canfora su Oligarchia e Democrazia inserito:: Marzo 03, 2016, 05:56:48 pm
Sintesi Dialettica: per l'identità democratica

Zagrebelsky e Canfora su Oligarchia e Democrazia
Di Luca Menichetti
28/02/2016

Luciano Canfora e Gustavo Zagrebelsky, coadiuvati da Geminello Preterossi, indagano sui concetti di democrazia e oligarchia, e sulle forme con cui le oligarchie tendono a mascherare la propria natura.

Il libro di Luciano Canfora e Gustavo Zagrebelsky “La maschera democratica dell’oligarchia”, pubblicato nel 2015 da Laterza, raccoglie e approfondisce una serie di loro dialoghi avvenuti a Torino, Bologna e Roma. L'argomento è di stretta attualità, ma gli autori, coadiuvati dal curatore del volume, Geminello Preterossi, partono da lontano. Al cospetto di movimenti che tendono ad intercettare la rabbia dei cittadini e che denunciano l'involuzione del potere democratico in oligarchia, è diventato ormai necessario comprendere il significato di certe parole e prendere atto, come afferma Zagrebelsky, che l'affermazione dell'oligarchia - in un mondo caratterizzato dalla finanziarizzazione dell'economia e quindi dal denaro che non è più mezzo ma fine - non può che passare ormai per procedure democratiche svuotate di senso. Un regime che quindi non si manifesta sempre nelle forme tradizionali, ma che possiamo anche individuare nella cosiddetta oligarchia finanziaria, più nascosta, anche non ufficiale, che si fonda sul denaro che alimenta un potere fondato sulla speculazione e sul potere che, a sua volta, alimenta flussi finanziari in favore di pochi privilegiati. Un'oligarchia contemporanea del tutto peculiare e, per dirla in altri termini, che non potendosi dichiarare per quello che effettivamente è, deve mimetizzarsi, rendersi invisibile, nascondere la sua faccia» (p.10). Un regime del privilegio caratterizzato da cittadini degradati a sudditi, dall'autoconservazione attraverso la cooptazione, quindi palesemente in contrasto con le regole anche formali della democrazia. Tutto ciò, in un momento storico nel quale «i fattori di trasformazione e redistribuzione della ricchezza e potere non [sono] più nella rappresentanza politica, ma nella tutela giurisdizionale dei diritti» (p.38).

Il dialogo, spesso a tre, con anche Preterossi, non è sempre caratterizzato da una perfetta sintonia tra Zagrebelsky e Canfora, ma proprio grazie a tale dialettica il tema viene approfondito anche e soprattutto nelle sue manifestazioni più recenti. Ad esempio, secondo Canfora: «oggi in Russia è venuta fuori un'altra élite (tremenda), quella dei nuovi ricchi. Gli ex capi partito che hanno fatto in tempo a cambiare l'impalcatura esteriore e a tirare fuori le ricchezze accumulate, con un ritorno al capitalismo selvaggio aperto alla mafia. I cinesi hanno avuto più accortezza nel disciplinare questo moto, imbrigliandolo dentro l'impalcatura tradizionale, ma facendo ugualmente sprigionare tutto l'egoismo feroce del capitalismo d'assalto» (p.34). L'osservazione di questo stato di cose si sposta poi sull'Italia contemporanea sulla quale, da parte di tutti, vengono fuori situazioni tutt'altro che rassicuranti. Pensiamo alla formazione, intesa come carta di tornasole dello stato di salute della nostra democrazia. Ricordando la polemica di Canfora sulle conseguenze delle riforme dell'università e della scuola, ovvero burocratizzazione, abbassamento del livello culturale dell'insegnamento, Preterossi sottolinea i danni causati dall'ossessione pedagogistica, dall'esaltazione acritica dell'autonomia, dalle pseudo-valutazioni. Argomenti polemici che non lasciano scampo alla nostra attuale classe politica, sempre molto generosa nel dispensare ottimismo e tacciare le voci critiche di disfattismo. Zagrebelsky, pur senza usare termini ormai abusati come "rottamazione" e "riciclare", ha quindi colto nel segno quando menziona gli effetti deleteri della "post-democrazia" italiana che, oltretutto, sta rivelando in pieno l'idea dell'uomo forte al comando, senza la presenza di efficaci contrappesi: «le forme della democrazia restano, ma gli effetti sulla circolazione del governo tra gruppi dirigenti e forze sociali diverse, il confronto effettivo di idee, di programmi, la competizione tra questi, non li vediamo più. Se siamo disposti a considerare fattori di novità il giovanilismo, l'inesperienza, l'improvvisazione, l'arroganza e l'ambizione, allora siamo disposti a credere a qualunque cosa» (p.91).

L. Canfora, G. Zagrebelsky, La maschera democratica dell'oligarchia, a cura di G. Preterossi, Laterza, Roma 2015, pp. 144, € 9,50.

Da - http://sintesidialettica.it/leggi_articolo.php?AUTH=19&ID=541

7029  Forum Pubblico / LA CULTURA, I GIOVANI, La SOCIETA', L'AMBIENTE, LA COMUNICAZIONE ETICA, IL MONDO del LAVORO. / LUOGHI DELLA CULTURA e CULTURA DEI LUOGHI - Una sfida per due editori. inserito:: Marzo 03, 2016, 02:27:16 pm
LUOGHI DELLA CULTURA e CULTURA DEI LUOGHI

Lanciamo qui un invito che è anche una sfida:
possono due editori diversi tra loro (non poco) trattare un tema unico, ma di vaste opportunità di sviluppo?

Io penso di si, senza averne ancora parlato con gli interessati lancio qui l'idea-provocazione.

Nel nome della cultura si sono diffusi, a vari livelli di lettori, opere eccelse e cose meno "nobili".
Noi de LAU vogliamo dimostrare come in un confronto tra due editori impegnati nel trattare "cultura", da due punti di vista alternativi, possa emergere la volontà di nobilitare l'arte del leggere.

Ci impegniamo nel tentare di convincere gli interessati.


I PROTAGONISTI CHE SFIDIAMO:  

Edizioni Saecula. (Vicenza prov.).

Edizioni del Foglio Clandestino. (Milano prov.).


IL PRIMO LUOGO DELLA CULTURA CHE PROPONIAMO ALLE DUE EDITRICI:

LA CITTA' DI FERRARA.

ciaoooo

 
7030  Forum Pubblico / ECONOMIA e POLITICA, ma con PROGETTI da Realizzare. / BERSANI e le vecchie manovre "contro" per il potere interno al PD. BASTA! inserito:: Marzo 01, 2016, 06:22:25 pm
Bersani: "No a congresso anticipato è una risposta arrogante"
"Non è vero che abbiamo bisogno di Verdini come non avevamo bisogno di Berlusconi. Renzi scelga se vuol fare quello che rottama o quello che resuscita"

01 marzo 2016

ROMA - "Una risposta arrogante, tranciante". Così Pierluigi Bersani ha commentato il 'no' ad un congresso anticipato arrivato dalla segreteria Pd all'indomani del voto in Senato sulle Unioni Civili. "Mi spiace che non si veda un po’ di gente che sta cercando di raffigurare un Pd ospitale per un'idea di sinistra - ha aggiunto Bersani - se non si apprezza questo sforzo vuol dire che non si sta capendo cosa sta succedendo". "Ci sono dei problemi - ha proseguito Bersani - che richiederebbero una discussione. Un congresso sarebbe più utile ma cercheremo comunque di far vivere una discussione nel partito, ci vediamo a Perugia per questo", facendo riferimento alla convention della minoranza Pd che si terrà l'11, 12 e 13 marzo.

Bersani ha poi affrontato il tema della maggioranza e dei voti del partito di Verdini: "Non è vero che abbiamo bisogno di Verdini come non era vero che avevamo bisogno di Berlusconi con il Patto del Nazareno. E' una scelta, Renzi scelga se vuol fare quello che rottama o quello che resuscita e su questo bisognerebbe fare una discussione anche congressuale". "Se uno che vota la fiducia non è in maggioranza - ha aggiunto - uno che non la vota non è all'opposizione...Siamo fra aggiuntivi e disgiuntivi. Eccoci finalmente approdati nella casa delle libertà. Devo riconoscere a Renzi una straordinaria qualità: è riuscito a cambiare le papille gustative di un bel pezzo dell'area democratica e dell'informazione. Il mondo di Verdini risulta improvvisamente commestibile. Io continuo a trovare questa cosa

"Se uno riesce a buttarmi fuori deve avere un gran fisico..." ha poi scherzato Bersani rispondendo ai cronisti che chiedevano conferme sull'eventualità che, con l'avvicinamento di Verdini al Pd, la minoranza possa uscire dal partito.

© Riproduzione riservata
01 marzo 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/03/01/news/bersani_no_a_congresso_anticipato_rispostea_arrogante-134563751/?ref=HREC1-5
7031  Forum Pubblico / MONDO DEL LAVORO, CAPITALISMO, SOCIALISMO, LIBERISMO. / Marchionne: "Nessun colloquio con Psa". E apre all'Alfa in Formula Uno inserito:: Marzo 01, 2016, 06:14:34 pm
Marchionne: "Nessun colloquio con Psa". E apre all'Alfa in Formula Uno
L'ad di Fca parla dal Salone dell'auto di Ginevra: "Non stiamo parlando di alleanze con nessuno".
Poi promette il massimo sforzo per la piena occupazione degli stabilimenti in Italia e sul futuro del marchio dice: "Potrebbe entrare nel mondo delle corse, magari con i motori Ferrari"

01 marzo 2016

MILANO - Nessun colloquio con Peugeot. "Massimo impegno" per la piena occupazione negli stabilimenti italiani di Fca entro il 2018 e "perché no" all'Alfa Romeo in Formula Uno, "magari con i motori Ferrari". Da Ginevra, dove è in corso il Salone dell'auto, l'ad di Fca, Sergio Marchionne, risponde alle domande sul futuro del gruppo escludendo - prima di tutto - di aver avviato dei colloqui per una fusione i francesi di Psa, "ma in questo momento non stiamo parlando con nessuno". Quanto al tema della piena occupazione il manager italo-canadese spiega che "cercheremo di fare del nostro meglio, siamo in buone condizioni. Non ho cattivi annunci da dare, quindi preparatevi a una serie di lanci di modelli".

A Ginevra, intanto, ne sono stati presentati dieci tra nuovi modelli e restiling: "Quello che vedete oggi è solo l'inizio", spiega Marchionne nella prima conferenza stampa dopo il lancio di Giulia e Maserati Levante: "Come avevamo promesso, avremmo investito quando il mercato avrebbe ripreso". Sul marchio Alfa l'amministratore delegato del Lingotto punta molte carte: "Abbiamo finalmente messo a punto la piattaforma. Il ritardo rispetto ai tempi era proprio legato alla necessità di avere un prodotto tecnologicamente all'altezza dei concorrenti in un segmento in cui noi eravamo usciti. Ora dovrete abituarvi a veder uscire i modelli a ritmo sostenuto".

Insomma Marchionne ostenta fiducia è certo il ritardo sulla tabella di marcia per il rilancio di Alfa Romeo a togliergli il buon umore. D'altra parte per l'ad di Fca solo "due dei sei modelli previsti" arriveranno dopo il 2018: gli altri saranno nei concessionari entro due anni. Oltre alla Giulia ci sarà un SUV compatto che viene fatto a Cassino. La 4c è già in vendita: all'appello mancano l'ammiraglia, il grande SUV, l'erede della Giulietta e quella della Mito.

A sostenere la tranquillità di Marchionne contribuiscono anche le vendite visto che "febbraio per noi è stato un mese decente sia in Canada sia in Usa, così come in Europa e in Italia. Non vedo elementi negativi ad eccezione dell'America Latina. Non ci sono motivi per essere pessimisti". Nel Vecchio continente il gruppo stima di aumentare le vendite nel 2016 del 3%.

A stuzzicare la fantasia degli addetti ai lavori, così come degli appassionati, però è soprattutto la possibilità dell'ingresso dell'Alfa Romeo in Formula 1 che secondo Marchionne sarebbe "una grandissima cosa, sarebbe importante affermare il marchio commercialmente, credo che la Ferrari sia disposta a fargli da spalla per lo meno agli inizi. Potrebbe cominciare con i motori Ferrari comunque non è un discorso imminente. Quello che si può fare lo facciamo, vedo bene l'Alfa in F1 per ragioni storiche".

A livello politico, prosegue la luna di miele con il governo Renzi con il manager che sottolinea l'efficacia dell'agenda delle riforme spiegando che "deve essere continuata, è essenziale per la credibilità del paese all'estero". Marchionne parla anche della gestione del debito pubblico perché "che sia alto è la scoperta dell'America, è in quelle condizioni da anni e la colpa non è mia, non è di Renzi. E' una cosa da gestire, ma l'unico modo per ripagare i debiti è guadagnare di più e avere introiti fiscali, tasse abbinate ai redditi delle persone e delle imprese, quindi cerchiamo di farle guadagnare di più. Poi naturalmente bisogna ridurre la spesa".

© Riproduzione riservata
01 marzo 2016

Da - http://www.repubblica.it/economia/2016/03/01/news/marchionne_auto_ginevra-134554429/?ref=HREC1-14
7032  Forum Pubblico / ESTERO fino al 18 agosto 2022. / ARTHUR RUTISHAUSER. Cosa manca all'Unione Lettera dall'Europa / Tages-Anzeiger inserito:: Febbraio 29, 2016, 06:24:54 pm
Cosa manca all'Unione
Lettera dall'Europa / Tages-Anzeiger

Di ARTHUR RUTISHAUSER
29 febbraio 2016

A tutto ci si abitua, anche alla crisi. Da oltre un anno, gli Stati europei lo dimostrano quasi ogni giorno: dapprima sulla questione dei fondi alla Grecia, poi sull'inarrestabile afflusso dei migranti, e da ultimo sulla richiesta di statuto speciale della Gran Bretagna. Questi tre punti sono seguiti con grande attenzione dalla Svizzera, che per i suoi stretti rapporti economici con l'Ue è direttamente esposta, nel bene e nel male, a ogni decisione sulla valuta europea. Quanto poi al problema del flusso migratorio, i legami di Berna con Bruxelles sono anche più stretti di quelli di Londra, per i suoi trattati bilaterali con l'Ue. La Svizzera fa parte dello spazio Schengen. E benché non sia uno Stato membro, i suoi rapporti con l'Unione Europea sono perennemente in crisi.

Mentre il problema Grecia (tutt'altro che risolto) è scomparso come per miracolo dai titoli di testa, la crisi migratoria e i timori suscitati dalla Brexit sembrano destinati a occupare a lungo le prime pagine dei giornali. In fondo si tratta di un unico problema: la paura di "invasioni" fuori controllo - che si tratti di profughi o di extra-comunitari non graditi, soprattutto dall'Est europeo. La libera circolazione, nelle sue varie forme - dalla cultura dell'accoglienza promossa dalla Germania al libero scambio della forza lavoro sancito dalle norme di Bruxelles - non può più contare sul favore maggioritario dei cittadini europei; al contrario, suscita paure crescenti, fino agli eccessi xenofobi che credevamo ormai superati da settant'anni.

È come se nelle capitali della vecchia Europa la nomenclatura avesse perso quasi ogni contatto con la realtà; al suo posto è subentrato un timore degli elettori che rasenta il panico. Altrimenti non si comprenderebbe come mai la Commissione, col polacco Donald Tusk alla presidenza del Consiglio europeo, abbia potuto redarguire il governo austriaco per aver fissato un tetto massimo all'afflusso dei profughi, e ciò benché l'Austria sia notoriamente uno dei pochi Paesi disposti ad aprire le porte a un numero consistente di rifugiati. O perché Viktor Orbán venga tacciato di populismo per la volontà di indire un referendum sulla ripartizione dei rifugiati - anche se tutti sanno che quando contesta le direttive europee sull'immigrazione, il premier ungherese non fa altro che esprimere una percezione diffusa nei Paesi dell'Est europeo. Ed è quella stessa paura a spiegare la decisione dei capi di governo dell'Ue di indire un vertice straordinario per venire incontro alla richiesta di statuto speciale della Gran Bretagna.
Cosa manca all'Unione
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Anziché ascoltare la gente e agire in maniera più pragmatica per realizzare il sogno di un'Europa unita, i responsabili non fanno altro che formulare pseudo-accordi, che da subito si rivelano destinati a rimanere lettera morta. Come la decisione, semplicemente ignorata, di distribuire tra i Paesi europei 160.000 rifugiati. O la promessa di tre miliardi di euro alla Turchia (una tangente?) affinché assista i rifugiati sul suo territorio, per evitare che premano in massa sull'Europa occidentale. Finora, di quei miliardi nei campi profughi non si è vista neppure l'ombra.

Il premier britannico viene rispedito a casa con un viatico di mini-riforme in campo sociale, i cui effetti saranno praticamente nulli. Partito con la promessa di arginare l'afflusso di immigrati in Gran Bretagna, David Cameron deve accontentarsi della vaga promessa di una clausola di salvaguardia che non ha neppure la facoltà di attivare direttamente. Evidentemente si pensa di poter condurre una campagna imperniata sulla paura, per indurre i britannici a seppellire una volta per tutte, il prossimo 23 giugno, qualunque progetto di uscita dall'Ue.

Sui tre grandi problemi dell'Ue - la permanenza della Grecia nell'Eurozona, l'immigrazione di massa e la libera circolazione in un'Unione sempre più estesa - c'è da fare una considerazione che li accomuna: si è preteso troppo dal progetto europeo. E si chiede troppo ai cittadini dell'Unione. In tutti e tre questi campi manca la legittimazione democratica. E anche se i relativi progetti potrebbero apportare vantaggi ad altri livelli, nell'immediato comportano maggiori costi per i cittadini, più disoccupazione e insicurezza sociale.

Che fare? Nel processo di unificazione europea servirebbe probabilmente una battuta d'arresto, per tornare a dare la priorità alla politica del fattibile e al conseguimento di vantaggi tangibili per la popolazione. È ora di accantonare i principi di Bruxelles, che nessuno più vuole, per passare a una politica più duttile, aperta alle eccezioni e alle soluzioni pragmatiche. Una politica in grado di dare a tutti gli interessati la sensazione che le loro preoccupazioni vengano prese sul serio. Solo così si potrà evitare che le élite europee entrino in crisi ogni qual volta si annunci - in Gran Bretagna, in Ungheria o magari in Svizzera - la decisione di indire un referendum.
L'autore è direttore del quotidiano svizzero "Tages-Anzeiger"

(Traduzione di Elisabetta Horvat)
© LENA, Leading European Newspaper Alliance

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29 febbraio 2016

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2016/02/29/news/cosa_manca_all_unione-134454292/?ref=HRER2-2
7033  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / EUGENIO SCALFARI. Quel padre fascista che non smise mai di credere nel mito ... inserito:: Febbraio 29, 2016, 06:23:31 pm
Quel padre fascista che non smise mai di credere nel mito del duce
Nel libro di Pierluigi Battista una vicenda familiare e politica


Di EUGENIO SCALFARI
29 febbraio 2016
   
Quando due mesi fa ricevetti dall'autore Pierluigi Battista il suo libro intitolato "Mio padre era fascista" con una dedica molto affettuosa (siamo amici da molti anni e seguo con interesse il suo lavoro di editorialista del "Corriere della sera") decisi di leggerlo e di recensirlo. Di solito non faccio questo mestiere, ma in questo caso il titolo mi intriga molto e poi dirò perché.

Sono passati due mesi, le celebrazioni prima dei sessant'anni dell'"Espresso" e poi dei quaranta di "Repubblica" mi hanno molto impegnato. Eventi dolorosi come la morte di Umberto Eco sono purtroppo sopravvenuti. Ma ora finalmente sono più sereno e posso adempiere al compito che mi ero proposto.

Il libro di Battista è edito da Mondadori, sviluppa 161 pagine e comincia con due esergo, uno dei quali di Ennio Flaiano merita di essere qui citato: "Famiglia romana con padre liberale e figlio maggiore comunista, minore fascista, zio prete, madre monarchica, figlia mantenuta: si sfidano tutti gli eventi (Frasario essenziale per passare inosservati in società)".

Ebbene, la vita di Pierluigi col padre fu esattamente l'opposto: un dramma psicologico profondo che dal padre fu trasmesso al figlio quando era ancora adolescente e che il padre aveva scelto come il solo cui confidare il proprio rovello, la propria rabbia, la propria disperazione contro l'Italia e gli italiani che erano stati (quasi) tutti fascisti durante il ventennio e poi si erano convertiti in massa all'antifascismo mettendo all'indice quei pochi, anzi pochissimi, che avevano mantenuto i loro ideali d'un tempo e per essi avevano pagato un altissimo costo sia negli anni in cui c'era il Duce a guidare il paese sia quando l'antifascismo era diventato una norma non solo delle leggi ma anche dei sentimenti popolari.

Scrive Pierluigi: "Mio padre erano due. C'era mio padre integrato. E c'era quello apocalittico. C'era il borghese tranquillo che osservava con orgoglio una sua rigorosa etica del lavoro e c'era il fascista sconfitto e piagato che rimuginava senza sosta risentimento e rabbia. C'era il conservatore e c'era il ribelle. C'era il professionista di successo, l'avvocato stimato nel mondo forense... e c'era l'uomo intimamente devastato da una storia che l'aveva condannato, tormentato da un dolore indicibile... mangiato dentro da un'ossessione che non l'abbandonava mai... Io li ho conosciuti entrambi".


Queste parole scritte dall'autore nelle prime pagine del libro ne contengono la chiave. Pierluigi ha sofferto per anni di questa confidenza segreta col padre, che in famiglia gli altri figli probabilmente non conoscevano e che sua moglie (la madre di Pierluigi) credeva e sperava che il marito avesse abbandonato considerandola un errore di gioventù.

Pierluigi invece lo sapeva e il padre, per l'amore che aveva verso di lui, glielo aveva confidato e glielo ricordava quasi tutti i giorni. In più, Pierluigi scoprì, quando il padre era morto, un suo diario segreto dove erano raccolte frasi, slogan, brani di canzoni, aforismi, che emergevano casualmente dalla sua memoria e che annotava temendo di scordarsene.

Il padre continuò a confidarsi col figlio. Non cambiò neppure quando si accorse che Pierluigi, invece di condividere quella sua rabbia e condividerla con un'adesione intima, aveva invece tratto conseguenze del tutto opposte. Era diventato comunista e addirittura "gruppettaro". E poi, passata questa ventata di radicalismo di sinistra, era tuttavia un riformista democratico come del resto tutt'ora è e come anch'io l'ho conosciuto.

Suo padre - che conoscesse con esattezza queste sue posizioni politiche o le ignorasse perché Pierluigi non gliene aveva mai parlato - adottò comunque un altro modo di comunicare quella parte di sé che il figlio ha definito "apocalittica". Invece di proseguire con la rabbia e il desiderio di vendetta, cominciò ad additare al figlio le opere positive del regime: l'arte fascista e i grandi artisti che del fascismo si erano nutriti, a cominciare da Mario Sironi e dal futurismo in genere (lo stesso Giuseppe Bottai veniva dai futuristi e pubblicava la bellissima rivista Primato). E poi l'urbanistica e l'architettura, a cominciare dal caposcuola Marcello Piacentini e dalle sue opere. Lo portava a passeggio a via dell'Impero (lui la chiamava ancora col suo vecchio nome), in via della Conciliazione dove le casupole e i vicoli del Borgo erano state distrutte da un sontuoso accesso alla basilica di San Pietro; e poi la costruzione dell'Università dell'Urbe, del Foro Mussolini con il suo obelisco, di alcune grandi ville patrizie dentro e fuori Roma, a cominciare dall'unificazione tra il Pincio e Villa Borghese. E Littoria e le paludi pontine sostituite da terre fertili e da Sabaudia, fino ad Anzio e al Circeo.

Insomma l'aspetto positivo del fascismo. E le sue canzoni che di tanto in tanto canticchiava in casa: Roma rivendica l'impero, Le donne non ci vogliono più bene, Si và sul vasto mar e tante altre. La famiglia lo udiva cantare quelle canzoni ma non ne faceva un problema, erano ricordi piacevoli d'una piacevole gioventù.

In parte era così, ma soltanto in parte. Pierluigi sapeva che cosa c'era dentro quei ricordi: a 22 anni il padre era partito volontario per combattere una guerra nazionale; era stato fatto prigioniero in Grecia ed aveva scontato oltre un anno di prigionia.

Tornato in Italia s'era trovato dinanzi ad una guerra civile ed aveva scelto di parteciparvi; dopo due anni di battaglie contro i "resistenti" in difesa della patria fascista (la sola che per lui esisteva) era stato preso prigioniero a guerra finita e relegato nel campo di concentramento di Coltano, dopo aver rischiato la fucilazione. A Coltano due anni di inferno e infine la liberazione, disposta dal governo antifascista e appoggiata da Togliatti per pacificare gli animi in nome della nuova Italia democratica. Ma questa motivazione aveva gettato altro fiele nell'anima del ribelle che vi aveva visto un'ipocrisia tesa ad acquistar consenso.

Battista ha vissuto questo dramma fino in fondo e soltanto negli ultimi anni della vita del padre una maggiore tranquillità era entrata nell'anima sua. Aveva ormai una solida posizione professionale, una famiglia, una sua vita ed anche il padre nei suoi ultimi anni sembrava aver placato il suo dramma interno godendo il benessere conquistato col suo lavoro.

Anche questa storia, come molte altre, è sembrata esser finita bene, ma la scoperta del diario intimo del padre, con annotazioni scritte poco prima di morire, ha dato a Pierluigi il dolore che era scomparso o almeno attenuato. E così ha deciso di scrivere questo bellissimo libro che ho qui cercato di raccontare. Ma l'ho fatto anche per un'altra ragione: anch'io sono stato fascista, come del resto ho più volte raccontato. Sicché la lettura del libro di Pierluigi mi ha indotto a considerare quello stesso mondo cui ho partecipato per dodici anni di seguito, da quando sono andato alla scuola elementare e sono automaticamente entrato a far parte come balilla delle organizzazioni giovanili fasciste, fino a quando fui espulso dal Guf per un articolo scritto su Roma fascista, settimanale del Guf dell'Urbe al quale collaborai per due anni.

Il libro di Pierluigi mi ha fatto di nuovo tornare in mente quei miei anni di fascismo che vennero poco dopo quelli del Battista padre. Lui partì per la guerra, nel 1940; io fui espulso dal partito fascista nel '43 e vi ero entrato nel 1931.

Non starò qui a raccontare come vissi quel periodo, negli anni in cui frequentavo il ginnasio a Roma, poi a Sanremo, poi di nuovo a Roma quando entrai all'Università nel '41. Dirò soltanto che la mia appartenenza al fascismo non era minimamente turbata da dubbi. Il Duce era il Duce, le canzoni che Battista padre canticchiava a casa ed aveva cantato a squarciagola negli anni del fascismo imperante e poi di Salò, anch'io le ho cantate e di tanto in tanto capita anche a me di ricanticchiarle adesso. Ma c'è una differenza di fondo tra la mia storia e quella del Battista padre.

Ai tempi miei c'erano già, ma forse c'erano sempre state, due o tre diverse "correnti" nel partito ed anche nei Guf e nei giornali che rappresentavano la voce studentesca dei giovani fascisti universitari.

C'era una corrente di "fascismo muscolare" rappresentata da Roberto Farinacci, una più moderata rappresentata da Galeazzo Ciano ed infine un'altra culturalmente frondista rappresentata da Giuseppe Bottai. Io ero fascista nel modo di Bottai, ma molti nel giornale universitario su cui scrivevamo erano per Farinacci a cominciare da Tedeschi che poi, dopo la caduta di Salò e l'arrivo della democrazia in Italia, diresse Il Borghese.

Quando fui espulso dal Guf, attraversai tre o quattro giorni di grande sconforto, ma poi mi ripresi perché prevalse dentro di me questa considerazione: se Carlo Scorza, segretario generale nazionale del partito, mi ha espulso, segno è che non mi considera fascista ma antifascista. Lui in questa materia ne sa più di me. Quindi ha ragione lui: io sono antifascista, altrimenti non avrei scritto quell'articolo.

Così diventai sinceramente antifascista, fondammo con alcuni amici un'apposita organizzazione clandestina ed esordimmo con una scazzottata collettiva alla facoltà di giurisprudenza contro i giovani del Guf. Insomma, per merito di Carlo Scorza che nel colloquio terminato con la mia espulsione mi aveva strappato le spalline della divisa che indossavo e se l'era messe sotto i piedi calpestandole, la mia uscita e la mia "conversione" durarono quattro giorni e non l'intera vita.

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29 febbraio 2016

Da - http://www.repubblica.it/cultura/2016/02/29/news/nel_libro_di_pierluigi_battista_una_vicenda_familiare_e_politica-134454294/?ref=HRER2-1
7034  Forum Pubblico / ICR Studio. / E-learning: cos’è? Perché dovrei usarlo? Di Elisa Terra inserito:: Febbraio 29, 2016, 11:26:20 am
E-learning: cos’è? Perché dovrei usarlo?

Di Elisa Terra - Programmatore Area Formazione Continua di Treviso Tecnologia, esperto in e-learning
Data pubblicazione: 20/02/2006

In questi ultimi anni, sempre più frequentemente si sente parlare di e-learning, ma cosa significa questo termine? In questo articolo proviamo a metterci nei panni di tutti coloro a cui viene offerto un corso in e-learning e che vogliono capire cosa gli viene proposto e perchè dovrebbero accettarlo.

Nell’era dell’informatica evoluta, di Internet e della tecnologia, le persone che non sanno utilizzare un computer sono sempre meno. Ciò nonostante i corsi di informatica di base sono ancora molto richiesti. L’offerta tuttavia, rispetto a cinque anni fa, è molto cambiata. I corsi cosiddetti di base non hanno più ragione di esistere se non in una formula tale da permettere ai partecipanti e agli organizzatori una maggiore flessibilità. È per questo che se volessi frequentare un corso di informatica tra le nuove proposte, quelle dichiarate innovative, mi verrà senza dubbio proposto un corso e-learning. Ma cosa vuol dire fare un corso in e-learning? O, meglio, cosa vuol dire e-learning? Vediamo per prima cosa il significato letterale di questo termine: elettronic learning, in italiano formazione elettronica. Ma cosa vuol dire realmente questo termine? Una prima possibile definizione è la seguente, formulata dalla Commissione Europea: “L’e-learning è l’istruzione di domani”.

Questa definizione è sicuramente poco utile; vediamone un’altra: “Un nuovo modo di studiare reso possibile dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione”.

Quella più completa, a mio avviso, è: “Una metodologia didattica che offre la possibilità di erogare contenuti formativi elettronicamente attraverso Internet o reti Intranet.”

http://www.webdieci.com/docs/formazione/44_e-learning/E-learning_600.asp
7035  Forum Pubblico / NOI CITTADINI, per Civismo, Conoscenza e Consapevolezza. / POLO DEMOCRATICO, perchè? inserito:: Febbraio 29, 2016, 11:18:39 am
L’ultimo Croce: “L’uomo vive nella verità”
Giovanni Spadolini

Giovedì 25 febbraio 2016

“La Voce Repubblicana”, 4-5 gennaio 1983

Toccò a me, come presidente del Consiglio, insediare il comitato per l’edizione nazionale delle opere di Benedetto Croce: settantatré volumi da riordinare secondo un criterio unitario ma rispettoso delle varianti, delle correzioni, dei ripensamenti, talvolta delle rielaborazioni dell’autore instancabile, in cui brillava una fede incomparabile nel lavoro come sogno di nobiltà divina, quasi di predestinazione.
Fu una cerimonia semplice e scarna: nessun abbandono alla retorica, quasi il tocco di una seduta di lavoro. Il comitato proveniva da un’udienza del presidente Pertini: in quel Quirinale da cui il maestro di Napoli aveva rifuggito, allorché un compagno di partito dell’attuale capo di Stato, Pietro Nenni, aveva portato la proposta di elezione in sede di direzione socialista (usando, Nenni, forse senza pensarci e in senso positivo, il giudizio su Croce come “papa laico” che invece Gramsci aveva coniato molti anni prima, ma in senso polemico e riduttivo).

Tutti uomini di cultura; nessun politico infiltrato e mascherato. Antichi allievi dell’Istituto di studi storici di Napoli, come Romeo o Galasso; presente allora, come sottosegretario alla presidenza, un crociano di assoluta fede e quasi di fisica insofferenza verso le manifestazioni dell’anticrocianesimo epidermico e ritornante. Francesco Compagna, anch’egli reduce dalle lezioni di palazzo Filomarino nell’immediato dopoguerra. Filologi e critici letterari in quantità per proporre soluzioni, per individuare rimedi, per approfondire analisi o colmare lacune.

Un’edizione nazionale pone infiniti problemi. Il mio intervento, come studioso prima ancora che come presidente del Consiglio, fu breve e ridotto all’essenziale. Croce ha realizzato in vita la sua edizione nazionale. Ha diviso le sue opere secondo uno schema che solo negli ultimi anni ha subito qualche correzione, qualche brivido di ripensamento o di autocritica. Ha anticipato quasi tutti i suoi libri sulla “Critica” e, dopo la “Critica”, sui “Quaderni della critica”; ha raccolto tutti i suoi scritti con metodo certosino, con pazienza esemplare anche le lettere aperte inviate ai giornali. Ha preventivato tutto; ha calcolato tutto. Quasi nel timore che manie esterne si sovrapponessero alla sua inimitabile costruzione intellettuale.

Instancabile artigiano
Col culto dei distinti che lo caratterizzava, e cui improntava l’intera sua concezione del mondo, ha separato nettamente le pagine di storiografica, di storia generale, di storia minore, di filosofia, di estetica, di critica letteraria, di politica. Conviene cambiare poco o nulla nella distribuzione dei suoi studi (recuperando solo qualche scritto giovanile dimenticato, qualche testo lasciato da parte nelle riviste, magari marginale o ereticale). Non solo: ma allontanarsi il meno possibile dai caratteri, dall’impostazione grafica da lui preferita.
Croce aveva l’amore “fisico” per i libri. Collaborava col suo editore, col vecchio Laterza, nella scelta dei caratteri, nella selezione della carta. Non amava i cambiamenti: l’uomo che contribuì a cambiare come pochi le basi intellettuali e spirituali della vita italiana, l’uomo che ispirerà tutti i rinnovatori (anche quelli che dopo la guerra avrebbero voluto “seppellirlo”, coloro – dirà una volta – “che vorrebbero ficcarmi a forza in una bellissima e decorosissima tomba”).

Anche in materia tipografica rifuggiva da tutte le novità, detestava tutti gli esibizionismi. Aveva una specie di pudore della pagina scritta. Lo sorreggeva il fremito della continuità coi grandi classici a cui si era nutrito e alimentato. Non ebbe mai bisogno di illustrazioni nell’opera sua: perché il suo stile di grandissimo prosatore riusciva a rendere chiari tutti i riferimenti anche artistici e architettonici.
Si consentiva, sì, qualche “divagazione”, qualche rapporto – editorialmente parlando – “extraconiugale”: ma sempre in una certa cornice, in un certo ambito ideale, in quella Napoli che comprendeva Morano, legato alla memoria di De Sanctis, quel suo mezzogiorno depresso e derelitto che lo congiungeva idealmente a Giustino Fortunato, quelle pubblicazioni di storia locale, quelle miscellanee introvabili che egli amava come pochi, anche per il senso della rarità, anche per il senso, in lui sconfinatamene vivo, delle piccole patrie (“l’Italia è una pianta dalla molte radici”, avrebbe detto Cattaneo).

Non ispirarsi, per l’edizione nazionale di Croce, ai criteri di grandezza che compenetrarono l’edizione nazionale di D’Annunzio, a suo tempo, dopo tutti i litigi e i bisticci col grande Arnoldo Mondadori. Croce, appunto, come anti-D’Annunzio, Croce come simbolo dell’Italia della ragione. Croce artigiano instancabile, che merita di rivivere in un’edizione nazionale non pomposa, non barocca, neanche troppo costosa (raccomandai di pensare a un’edizione universale per i giovani parallela a quella principale: e non secondo i criteri di arbitraria selettività che hanno caratterizzato certe immissioni di Croce nelle attuali “universali”).
Croce artigiano, come visse, con discrezione, con signorilità, con immenso distacco dalle cariche e dai riconoscimenti, con un’influenza profonda sulla cultura esercitata con la penna, al di fuori, perfino, di un diretto veicolo accademico.

Maestro di vita? Lucio Colletti ha riproposto questo tema in un recentissimo dibattito sull’eredità di Croce trent’anni dopo promosso dalla rivista ideologa del partito socialista, “Mondoperaio”, insieme con Rosario Romeo, con Cesare Leporini, con Augusto Del Noce. “Maestro di vita, conoscitore profondo delle passioni umane, alto moralista. Un uomo il cui incitamento alla serietà del vivere oggi vale più che mai”. Il tutto, da parte di Colletti, dopo una riduzione quasi spietata del peso di Croce nella cultura occidentale: divulgatore della cultura romantica tedesca, filosofo tutto sommato secondario e derivato, storico forse più grande nelle piccole cose che nelle grandi.
Romeo ha respinto la tesi di Croce come maestro di vita, quasi isolato dalla sua opera, quasi svincolato dal suo depositum fidei in senso laico. “Non si può accettare la tesi di Croce maestro di vita e moralista, né sul piano storico né sul piano logico, se si parte da un giudizio su Croce come debole filosofo, storico di scarso valore e critico letterario tutto sommato marginale”.
E Romeo non ha torto. “Come mai un pensatore, in fondo di secondo piano, ha potuto esercitare una funzione di primo piano nelle cultura italiana?”. E i rilievi dello storico sono tutti pertinenti, tutti azzeccati: compreso il rapporto fra Croce e la società italiana.

In quel dibattito si è parlato molto, con un termine orrendo, di “omogeneizzazione della società” operata da questa specie di livellamento culturale crociano. E Romeo ha avuto buon gioco nell’obiettare: “respingerei ogni omogeneizzazione, mi limiterei a parlare della creazione di un ethos pubblico”. Ma “la creazione di un ethos pubblico non è l’accettazione di una teoria filosofica idealistica. È sempre il risultato di un’egemonia culturale”. Romeo accetta il termine che era caro a Gramsci, riconosce che l’egemonia c’è stata, che si è proiettata nel lungo dialogo filosofico fra Croce e Gentile, che si è estesa nella lotta a tutte le forme di provincialismo italiano, che ha naturalmente comportato pedaggi pesanti, come la sottovalutazione della scienza, comune del resto a tutte le scuole filosofiche del primo ventennio del secolo, o come la subordinazione e talvolta il disconoscimento delle scienze sociali rispetto alle scienze umane.

È un’egemonia, quella del crocianesimo, che ha consentito all’Italia di avanzare nel livello di studi e nel respiro sociale nonostante il “fermo” imposto dal fascismo, e di prepararsi al traguardo del dopoguerra attraverso quel grande retroterra culturale che compenetrò in misura diversa tutte le forze democratiche all’indomani della liberazione.

Questo trentennale della morte di Croce ha permesso di fissare il grande debito che hanno verso Croce soprattutto tutti i non crociani, tutti coloro che ne respingono la dottrina, tutte le correnti che hanno più forte il senso messianico o fideistico della storia. Un giorno si affronterà pure il tema di quanto Croce abbia pesato nell’evoluzione politica dei cattolici democratici e di quale influenza abbia esercitato nella crisi ideologica, in atto, del comunismo (sì, del comunismo: proprio Croce che proveniva dalle simpatie verso Antonio Labriola e dalla sottoscrizione alle vittime socialiste del 1898!).

Ma soprattutto il trentennale della morte, ci ha permesso di ricordare quel Croce mosso, problematico, insoddisfatto o inquieto, quel Croce che noi conoscemmo nelle stanze di redazione del “Mondo” di Mario Pannunzio, l’ultimo Croce. Il filosofo per il quale il progresso rappresentava “il soffrire più in alto”, il pensatore che non si appagava più delle certezze dell’epoca liberale, ma contrapponeva a tutti i fanatici delle intolleranze manichee, abbastanza numerosi negli anni ’49-’50, l’uomo del dubbio e del tormento, il solo che “vive nella realtà”.

Una filosofia laica della vita
“Non andate in cerca della verità”: così suonavano le ultime parole della prima conversazione all’Istituto storico di Napoli pubblicata il 12 marzo 1949 sul “Mondo”: “non andate in cerca né del bene, né del bello, né della gioia, in qualcosa che sia lontano da voi, distaccato e inconseguibile, in effetti inesistente, ma unicamente in quel che voi fate e farete, nel vostro lavoro nel cui fondo c’è l’Universale [una maiuscola eccezionalmente tollerata da Pannunzio] di cui l’uomo vive; e per chiudere con un motto bizzarro ma profondo, che soleva ripetere un dotto tedesco, o se si vuole ebreo-tedesco, altamente benemerito degli studi, il Wartburg, tenere sempre presente che Gott ist im Detail, che Dio è nel particolare”.

Dio è nel particolare. È un motto che riassumeva intera la filosofia laica della vita, oggi che si parla tanto, a proposito e a sproposito, di laicità. Parallelo al giudizio che di Croce appena scomparso dette un grande poeta che l’aveva sempre molto amato, essendone misuratamente riamato, Eugenio Montale: una lezione segnata “da quel Dio che Croce, come tutti i credenti, non volle mai nominare invano”.

Giovanni Spadolini
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