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6046  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / EZIO MAURO. Il secolo delle guerre ideologiche è finito proprio nell’isola ... inserito:: Novembre 28, 2016, 08:39:11 pm
Il secolo delle guerre ideologiche è finito proprio nell’isola comunista, dove Fidel ha avuto l’ambizione di difendere e profilare la sua rivoluzione come l’ultimo esperimento socialista. E con l’ossessione di farla sopravvivere intatta

Di EZIO MAURO
27 novembre 2016

Incredibilmente, nell'aprile dell'anno in cui tutto stava crollando e ogni cosa diventava possibile - il 1989 - Fidel si alzò davanti al mondo per proporre il modello cubano come l'unica esperienza ortodossa del socialismo di fine secolo. I deputati, i capi del partito, il popolo cubano lo avevano visto celebrare gli onori massimi a Mikhail Gorbaciov, portato in trionfo sulla "ciajka" presidenziale nei 25 chilometri dall'aeroporto all'Avana, con Castro in piedi accanto a lui che gli alzava il braccio in segno di vittoria, procedendo in mezzo a un milione di cittadini plaudenti. Ma quando il segretario del Pcus, con la disperazione istintiva di chi avverte i morsi della fine, invitò Cuba a riformare il suo comunismo per poterlo salvare (come avrebbe fatto poco dopo a Berlino davanti ai gerarchi impassibili della Ddr) Fidel si alzò in piedi e consumò il suo personale strappo dall'eresia morente gorbacioviana. "L'Urss non può decidere da sola, l'unico suo privilegio è essere grande. E Cuba non ha mai avuto uno Stalin, dunque non ha bisogno di avere oggi una perestrojka". Gorbaciov si guardò intorno smarrito, poi controllò l'orologio misurando il fallimento del suo tentativo di inserire L'Avana nel processo di distensione mondiale tra Est e Ovest e si trovò improvvisamente solo e straniero nell'isola del socialismo uguale a se stesso.

Così il comunismo tropicale, difeso e sostenuto per decenni dal Cremlino, si ribellava al suo protettore, rifiutando di cambiare. Fidel si presentava al mondo come l'Ortodosso, trent'anni dopo il "discorso delle colombe" con cui entrò trionfalmente nella capitale con la rivoluzione, mentre due colombe si posavano sulle spalline della sua divisa verde, in segno di benedizione di Nostra Signora della Mercede. L'ultima perfidia fu un fuorionda serale sulla tv cubana, coperto dalla voce monotona dello speaker, con Gorbaciov che in un angolo dell'Assemblea Nacional tirava fuori un pettine dalla tasca interna della giacca e si pettinava prima di entrare in scena, in un gesto post-imperiale e privato che rompeva da solo tutta l'iconografia monumentale dei Segretari Generali comunisti, vissuta sempre in pubblico.

La Cuba castrista doveva tutto all'Urss, seguita e omaggiata dal Comandante nelle sue visite ad limina a Mosca, fino allo scarto finale. Per Fidel era inconcepibile che uno Stato socialista, capace di sconfiggere il fascismo e soprattutto di uguagliare in peso e influenza la superpotenza capitalistica degli Usa avesse accettato di distruggersi. Perché questa è stata la sua diagnosi davanti al tentativo riformista gorbacioviano: invece di correggersi mantenendo la sua natura, l'Unione Sovietica ha commesso il grande errore storico di imboccare la strada di una riforma di sistema, nella convinzione di poter costruire il socialismo - o mantenerlo - attraverso "metodi capitalistici", come li disprezzava Castro.
Ma regolati i conti con la deriva sovietica, costretto a rimodulare pesantemente l'economia dell'isola senza gli aiuti "fraterni" di Mosca, Fidel ha avuto l'ambizione di difendere e profilare la sua rivoluzione come l'ultimo esperimento socialista del secolo, con l'ossessione di farla fuoriuscire intatta. L'epopea, d'altra parte, non era mai stata mutuata da Mosca insieme con i finanziamenti, ma era ostinatamente indigena e autonoma. Il ricordo nostalgico e ripetuto dei "Tre Comandanti", Raul, Camilo Cienfuegos e soprattutto il "Che", l'eroe che fino agli ultimi anni secondo il racconto del líder maximo lo andava a visitare di notte, in sogno, e continuavano a discutere come avevano sempre fatto, quando avevano la mitraglia in mano. Il dissenso liquidato con l'etichetta dei "traditori". La convinzione negli anni più difficili di poter vivere "del capitale umano". La venerazione per José Martí ricordando il suo ammonimento: "Essere colti è l'unico modo di essere liberi". Lo scambio epico di dialogo con Cienfuegos, inciso in plaza de la Revolucion: "Voy bien, Camilo"? "Vas bien, Fidel".

La "prima generazione" della rivoluzione, tenuta insieme con il pugno di ferro del dittatore, si va esaurendo, ma ormai altre tre sono nate e cresciute nell'isola sotto il segno di Fidel. La quarta, l'ultima, è la più aperta al contagio. Ha visto salire al potere Raúl, appena quattro anni più giovane del fratello, in una deriva dinastica dove il carisma appassisce e cresce il bisogno di auto-tutela di una nomenklatura spaventata. Ha visto soprattutto Fidel passare dalla tuta mimetica con gli scarponi alla tuta sportiva rossa, bianca e blu con il marchio dell'Adidas, soprattutto l'ha visto smagrito e divorato dalla malattia, nei discorsi radiofonici sempre più rari.

Il regime si trova oggi davanti alla sua massima torsione, perché finisce il legame mitologico e storico con le sue origini, l'eroica fonte di legittimazione, la personificazione populista nel leader che finiva sulle copertine di Time, nelle televisioni di tutto il mondo mentre stringeva la mano di Allende, Mandela, Juan Carlos, Garcia Marquez, Saramago, Agnelli, Arafat, Tito, Indira Gandhi, Giovanni Paolo II attraversando con loro la storia da protagonista. "Dobbiamo dimostrare di essere in grado di sopravvivere", è il comandamento degli ultimi anni di Fidel a Raúl, nella convinzione che sia più facile teorizzare come si costruisce il socialismo che capire come conservarlo e preservarlo in futuro.

Il Comandante in jefe ha regolato la successione in vita, tentativo onnipotente di garantire il futuro alla sua costruzione politica. Ma il castrismo senza Fidel è fragile e il sentimento di fine d'epoca dominava Cuba già a marzo, quando Barack Obama è sbarcato nell'isola come ambasciatore di un mondo nuovo, ottantotto anni dopo la visita dell'ultimo presidente americano, Calvin Coolidge. Il vuoto lasciato da Fidel riempiva già allora la scena, rimpicciolita dai timori di Raúl che non poteva fare a meno di normalizzare i rapporti con gli Usa per dare ossigeno all'economia cubana, ma cercava di cancellare ogni valenza storica ad una visita che simbolicamente segnava un passaggio d'epoca. Così non è andato ad accogliere l'ospite all'aeroporto ma ha mandato il suo ministro degli Esteri, non ha voluto nessun corteo d'onore, ha lasciato il presidente americano da solo nella passeggiata nella Città Vecchia, nella cattedrale, nell'incontro con il vescovo, poi con i "cuentapropistas", quell'embrione di società civile e di economia gestita in proprio che si sta affacciando nelle maglie strette del regime.
I cubani osservavano la scena nelle vecchie televisioni dai colori incerti, appese sui trespoli coi fili volanti nei bar del centro senza niente da servire ai clienti. Al mattino, 68 "damas de blanco" si erano radunate nella chiesa della Quinta Avenida, la strada delle ambasciate, per chiedere davanti alle telecamere di tutto il mondo a Santa Rita, ("abogada de lo imposible") di far scarcerare mariti, figli, padri dissidenti politici e prigionieri nelle carceri cubane: ma soprattutto di aiutarli a conquistare il vero traguardo, "una Cuba senza Castro", finalmente con la libertà politica, di parola, d'impresa. Spente le telecamere, la polizia nel pomeriggio era passata nelle case delle "damas", per arrestarle in gruppo. Come un apriscatole della storia, la visita di Obama in poche ore aveva certificato l'esistenza del dissenso, la conferma della repressione poliziesca e la speranza di un cambiamento di regime.

Oggi si guarda la vecchia "ceiba", l'albero sacro dell'Isola, che proprio sulla Plaza de Armas è morto rinsecchito accanto al Templete. Il regime lo ha sostituito in fretta, di notte, ma la gente ricorda la vecchia superstizione caraibica secondo cui sotto l'"arbol del misterio" si svolgeva il rito sacro del passaggio di potere tra un Capo e un altro, perché sotto la ceiba "si muovono e parlano gli dei". Il dio del comunismo, intanto, contempla da oggi il tabernacolo vuoto del castrismo. Riuscirà a sopravvivere, fuoriuscendo da se stesso nell'ultima metamorfosi che Fidel aveva sempre esorcizzato? Più probabile che il sistema crolli per estenuazione, senza più l'anima fondatrice del vecchio dittatore. Che muore - singolare destino - insieme con il Novecento che era durato fin qui con le sue guerre ideologiche, ed è venuto a finire proprio nell'isola comunista, in questo tramonto tropicale dell'autunno 2016: altro che secolo breve.

© Riproduzione riservata
27 novembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/cultura/2016/11/27/news/fidel_castro_e_il_900_muoiono_insieme-152910222/?ref=HRER3-1
6047  Forum Pubblico / Gli ITALIANI e la SOCIETA' INFESTATA da SFASCISTI, PREDONI e MAFIE. / Walter VELTRONI. Il pericolo della post verità inserito:: Novembre 28, 2016, 08:37:52 pm
Opinioni
Walter Veltroni - @veltroniwalter
· 26 novembre 2016

Il pericolo della post verità
Comunicazione   

Oggi è facile semplificare fino a distorcere. Queste righe solo per richiamare tutti noi alla bellezza dello spirito critico, alla capacità di leggere la realtà nella sua complessità

Ha fatto bene, anzi benissimo, Laura Boldrini a rendere noti, con nomi e cognomi, i messaggi offensivi e sessisti da lei ricevuti nel tempo. Bisogna leggerli, per capire la spirale di orrore nella quale si rischia di precipitare. E l’idea della donna che sopravvive, come una bestia immortale, al modificarsi del tempo. Al trivio reso discorso pubblico si unisce il desiderio del dolore e della morte atroce di chi ha idee diverse dalla propria.

Si insulta, si aggredisce, si minaccia. Tutto impunemente. Le parole diventano violente ed è questa, da sempre, l’anticamera della violenza. Ma tutto il circuito comunicativo oggi è sottoposto a fenomeni morbosi, per usare un’espressione gramsciana. Oggi, ad esempio, si fa strada semplicemente, come fosse ovvia, l’idea che circolino ampiamente, tra l’opinione pubblica, informazioni false, costruite ad arte per interessi di varie natura. Nobilitando quelle che potrebbero essere altrimenti dette delle insulse menzogne, questo dileggio della realtà è stato gentilmente definito la “post verità”.

Se ne parla come fosse una frivola moda del tempo, come il Pokemon Go, che per tre settimane è stato il fesso protagonista della stampa mondiale e ora giace, goffo, nella polverosa soffitta dei ricordi inutili. A me non viene da scherzare o da sottovalutare questo fenomeno nuovo e inquietante. Lo prendo sul serio e mi fa orrore, come il clima infernale che la nuova dimensione del discorso pubblico sta prendendo.

Urla e balle, odio e certezze assolute, ce n’è abbastanza per aspettarsi il peggio. Trovo, in questo, conferma della necessità di monitorare bene le grandi mutazioni che stanno intervenendo nei processi di selezione e diffusione della conoscenza nel mondo nuovo. Quando ci renderemo conto che quella in corso è una rivoluzione tecnologica paragonabile a quella che portò, nella seconda metà dell’ottocento alla nascita della società moderna, delle città, delle classi sociali e di forti idee politiche? Oggi sta succedendo qualcosa di persino più grande, perché più invasivo, anche perché avviene non in una fase espansiva dell’economia.

La immensa e affascinante trasformazione di ogni modalità del vivere sta cambiando tutti i codici, tutte le relazioni tra sé e il tempo, tra sé e gli altri. E, poi, tra sé e il lavoro, precario e incerto, e tra sé e la democrazia. Cose grandi, passaggi di fase storica di cui i singoli frammenti non possono essere capiti senza uno sguardo d’insieme.

La vittoria di Trump non può essere spiegata con analisi ordinarie, come la Brexit, quello che avviene in Turchia, l’affermazione del populismo su scala mondiale… Leggere, in proposito, l’articolo di George Monbiot sul Guardian a proposito delle tredici crisi che l’umanità ha di fronte. Ma soffermiamoci sulla coda della cometa, sulla cosiddetta post verità.

Un sito internazionale ha raccolto, nel 2015, la prova che almeno 76 fotografie, divenute virali in rete, erano false, manipolate. La notte del Bataclan circolò la notizia che, nelle stesse ore, un terribile terremoto aveva provocato migliaia di vittime in Giappone. La campagna sulla Brexit è stata alimentata dalla notizia, inventata, che la Gran Bretagna pagava 350 milioni di sterline a settimana per l’Europa. Dopo gli attentati di Parigi è circolata la foto di uno dei presunti attentatori, solo che era in realtà un pacifico critico di videogiochi impegnato in un selfie nel bagno con un Ipad, prontamente trasformato graficamente in libro del Corano, e a cui era stato, con il Photoshop, aggiunta una cintura esplosiva al fianco.

Circola, in questi giorni, un video che raccoglie dichiarazioni di dirigenti della sinistra contro le proposte di riforma della Costituzione di Berlusconi. E lo si usa per mostrare una palese contraddizione con il sostegno che le stesse persone hanno dichiarato al sì nel referendum del 4 dicembre. Non lo sarebbero state neanche se si fossero riferite a quando, nel 2006, Berlusconi approvò una riforma nella quale il premier aveva il potere di scioglimento delle camere e di nomina e revoca dei ministri, qualcosa evidentemente di molto diverso da ciò di cui discutiamo oggi.

Ma quelle dichiarazioni si riferiscono invece a una manifestazione che il Pd promosse nel 2009 quando Berlusconi dichiarò, da presidente del consiglio, che la Costituzione era filocomunista e che si proponeva interventi sulla carta per limitare l’autonomia dei giudici e per far avanzare il presidenzialismo. Di questo si trattava. Non del superamento del bicameralismo perfetto o dello scioglimento del Cnel. In quella occasione Scalfaro, che parlò per tutti noi, chiarì: «Non abbiamo mai detto che non si può toccare la Costituzione – ha proseguito – vogliamo aggiornarla, ma non si può stravolgerla. Non si possono toccare i valori di fondo, la libertà, la giustizia, i diritti primari delle persone». Affermazione che condivido in toto.

Dunque ciò che è diverso, in quel video, non è l’opinione delle persone ma l’oggetto del loro giudizio. Propaganda per ingannare i cittadini, alimentata da una manipolazione, gravissima, nella quale è caduta onestamente anche una persona dabbene come Maurizio Crozza. Ciascuno di noi dovrebbe cercare di dire la verità, essere sempre attraversato dalla meraviglia del dubbio, e accettare la complessità.

Oggi invece è più facile fermarsi al titolo che entrare nei contenuti. Semplificare fino a distorcere, che volete che sia. Molto sulla rete è così, ma la colpa non è solo della rete, sottratta alla mediazione responsabile del giornalista. Come ha dimostrato Luca Sofri nel suo bel volume Notizie che non lo erano, ormai anche i giornali, per inseguire lo spirito del tempo, costruiscono o ospitano deliberate, non casuali, fandonie.

Queste righe solo per richiamare tutti noi alla bellezza dello spirito critico, alla capacità di leggere la realtà nella sua complessità, al guardarsi dalla emotività che vogliono indurre fabbricanti, consapevoli o no, della post verità. Altrimenti si potrà finire col credere davvero che le camere a gas di Birkenau non siano mai esistite ma che, cito da uno dei testi dei negazionisti, «quei mucchi di cadaveri furono il prodotto di una epidemia di tifo prodotta dai bombardamenti alleati». Il mio amico Shlomo Venezia, uno dei meravigliosi sopravvissuti allo sterminio degli ebrei, mi raccontava sempre che quando tornò da Auschwitz la sua pena maggiore stava nel non essere creduto quando raccontava ciò che aveva vissuto e visto. Degli ebrei, per sostenerne l’eliminazione, era stato detto di tutto, inventato di tutto. Non dimentichiamolo, mai.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/il-pericolo-della-post-verita/
6048  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / Lia De Feo. Sulla morte di Fidel Castro inserito:: Novembre 28, 2016, 08:36:34 pm
Domenica 27 novembre 2016
Sulla morte di Fidel Castro
Omaggio a Fidel
Lui ha preso un popolo costretto a passare da una bandiera all'altra e ne ha fatto una cosa diversa: il popolo che ha vinto [Lia De Feo]

Di Lia De Feo.


Io non ho amato Cuba, nei tre anni trascorsi a studiare lì. Tanto è vero che mi spostavo in Messico ogni volta che potevo, e alla fine a Cuba ci avrò trascorso un anno e mezzo in totale. Non l'ho amata perché amo poco le isole, in generale, e perché i cubani mi davano sui nervi, parecchio.  E la pativo: l'embargo è uno stillicidio di cose che non funzionano, che non si trovano, che sono difficilissime da fare.
L'embargo crea paesi logoranti dove la sopravvivenza è legata all'organizzazione che ti dai, e dove tu, straniero, sei sempre in torto: perché hai più soldi - credono loro - e vieni dalla parte di mondo che la vorrebbe vedere cadere, Cuba, e l'isola risponde togliendoti ogni tratto umano e trasformandoti in un portafogli che cammina, caricaturizzandoti nel cliché dello straniero a Cuba che, nove volte su dieci, non è una bella persona.
Io, quindi, ogni volta che potevo prendevo il mio Cubana de Aviación e in 50 minuti ero in Messico, dove la gente era normale e non si aspettava di essere pagata anche solo per rispondere a un "buongiorno". E dove, perdonatemi, mangiavo: un'insalata che non fosse di cavolo, una minestra che non fosse sempre e solo di riso con fagioli, un frutto che non fosse l'unico che si trova a Cuba di trimestre in trimestre. Un'introvabile patata. Un gelato che non fosse stato scongelato e ricongelato quaranta volte. A Cuba, a meno che tu non voglia spendere molti soldi - e anche lì, uhm - apprendi cos'è la deprivazione sensoriale, dopo mesi passati a provare un sapore solo. Io a Cuba una volta sono quasi svenuta in un supermercato, dopo due giorni trascorsi all'infruttuosa ricerca di un pomodoro. Il corpo ti chiede certe vitamine, certi sali minerali, e tu non riesci a darglieli. Atterravo in Messico e, i primi due giorni, mi strafogavo.
Eppure, Cuba funzionava. A modo suo. Davanti a ogni facoltà, all'università, c'era una targa che ringraziava la tale Comunità Autonoma spagnola che aveva finanziato il sistema elettrico. All'interno della facoltà sembrava di essere negli anni 50 dopo un bombardamento: banchi, cattedre, lavagne, tavoli sbilenchi, lampadine a intermittenza, computer e telefoni arcaici, sedie metalliche incongruenti, tutto in rovina, tutto cadente, e in mezzo a tutto questo professori trasandati, sciupati, malvestiti, che però ti facevano lezioni durante cui il tempo volava, che sapevano quello che facevano, che erano bravi. A volte proprio bravi. L'assoluta incongruenza tra lo squallore del luogo e la qualità delle parole. E la serietà, la severità, l'inflessibilità dietro la trasandatezza. La gente che ho visto bocciare all'esame di dottorato. L'incongruenza che tu, straniera, avvertivi tra come si presentava il tutto e la loro altissima considerazione di sé. Perché i cubani hanno un'immensa stima di sé. I cubani si sentono speciali, bravissimi, una specie di razza eletta. E questo non te lo aspetti, da un paese che cade a pezzi. E siccome te la fanno pesare, la loro presunzione, la loro certezza di essere degli immensi fighi, un po' li strozzeresti e un po' ti ritrovi ad ammettere che tutti i torti non ce li hanno. Li strozzeresti per i modi, ma poi devi ammettere che la loro forza è tutta lì. Nel sentirsi i migliori di tutti e quelli che non hanno paura di nessuno.
E' difficile, per una come me, arrivare all'aeroporto praticamente in fuga, pregustando il mondo normale che riabbraccerai entro un'ora, sopportare con odio le ultime angherie cubane prima di entrare nell'aereo (un assorbente dieci dollari di cui otto te li metti in tasca tu, negoziante cubana che abusa del mio stato di straniera in difficoltà?) e poi, nel momento esatto in cui l'odio ti trabocca da dentro, vedere gli sportelloni di un aereo angolano che si aprono e i passeggeri che cominciano a scendere: in sedia a rotelle, in barella, uno più sciancato dell'altro. Africani che vanno a curarsi a Cuba. Gente che noi, in Europa, lasciamo morire con indifferenza se non soddisfazione, e che la poverissima Cuba invece accoglie e cura. E tu che fai? Guardi, ti rendi conto, e che te ne fai più del tuo odio? Ti accorgi che sei una straniera viziata o, peggio, che non sei proprio nessuno. Che la Storia, da quelle parti, non sei tu, non passa per l'Europa. Tu sei lo spettatore pagante, se ti va bene, oppure aria, vattene. Cuba mette a fuoco altro da te.
L'Europa, in effetti, è lontanissima. Ed è straniante sentire gli europei che parlano di Cuba e dicono sempre, puntualmente, tutto il contrario di quello che vedi tu. Dai massimi sistemi a quelli minimi. Cominciamo dai primi: "E' una dittatura, la gente vuole fuggire, gli omosessuali perseguitati, i dissidenti". In realtà, l'immagine di dittatura cubana che si ha all'estero è quella dei primi anni 70, del cosiddetto "quinquenio gris" che la stessa ortodossia politica della Cuba di oggi definisce come "intento de implantar como doctrina oficial el Realismo socialista en su versión más hostil." La definizione è di EcuRed (la Wikipedia cubana, per intenderci) ma io stessa ho sentito criticare, addirittura ridicolizzare quell'epoca nelle aule universitarie dell'Università dell'Avana. Sono passati 35 anni da allora, gente. Cuba non è quella cosa lì. I cubani fanno il diavolo che gli pare. E pure gli stranieri.
Diceva la mia padrona di casa: "Tre cose non si possono fare, a Cuba: le droghe, lo sfruttamento dei bambini e, se sei straniero, una smaccata propaganda antistatale. Per il resto, se vuoi camminare per strada nudo e a testa in giù nessuno ti dice niente." I dissidenti? Avranno una dignità quelli legati alla Chiesa, suppongo, ma credo che tutti sappiano che le varie Damas en Blanco, per non parlare poi della Sanchez, prendono soldi per ogni manifestazione che fanno (famoso un loro sciopero perché non erano pagate abbastanza). Io non ho conosciuto nessuno, letteralmente nessuno, che ne parlasse con un minimo di rispetto. E' gente pagata, punto, chiusa la questione. Poi, certo, la gente parla di politica, immagina il futuro, esprime idee. C'è chi ama (amava, gessù.) Fidel e chi lo detesta/detestava. E chi, la maggior parte, ha sentimenti ambigui, tra l'ammirazione e il rancore. Chi cambia idea ogni secondo. Perché, di fondo, i cubani sono orgogliosi delle loro conquiste. Sono orgogliosi di quello che hanno combinato. E fanno catenaccio, sono uniti, sono isolani. Ecco, sono isolani. Non capisci Cuba se non ti metti in testa questo: che sono isolani, e per loro il mondo è Cuba e tutto il resto c'è se serve, sennò può pure affondare. Vogliono scappare? In realtà vogliono viaggiare. Perché sono isolani, appunto. C'è tanto mondo che non hanno mai visto. E poi, certo, vogliono soldi. Vogliono comprare cose. Vogliono guadagnare, come è umano che sia. Ma poi vogliono tornare. I cubani muoiono di nostalgia, lontano da casa, dalla famiglia, dalla loro gente, dal loro riso e fagioli. Sono uniti da fare schifo, i cubani. E se si sentono minacciati, di più. Ne sanno qualcosa gli USA, che inasprirono l'embargo nel momento esatto in cui cessarono gli aiuti dall'URSS e a Cuba fecero, letteralmente, la fame. Speravano in una rivolta, gli USA. Si ritrovarono con un popolo che si rimboccò le maniche per l'ennesima volta e ne uscì in piedi, come sempre. Inventandosi cose come il pastrocchio di soia, ripugnante intruglio distribuito alla popolazione come "proteinas para el pueblo". Perché poi sono pratici: il corpo ha bisogno di proteine, vitamine, carboidrati? In qualche modo li ingurgitavano. E nei parchi ci sono gli attrezzi per fare ginnastica, tipo palestra. E se non ci sono medicine, ricorrono alle piante, alla medicina naturale. Ne escono sempre. E si concedono pure il lusso di esportare i loro medici in Venezuela, come altri esporterebbero, chessò, rame, in cambio di petrolio venezuelano. Questo, hanno fatto i cubani: hanno esportato medici in cambio di petrolio. Perché questo è quello che hanno: la loro formidabile, benché odiosissima, gente. Suona retorico, lo so. Odio scriverlo, odio dirlo. Però è vero. Incredibilmente, è vero. Come, poi, questi medici, questi professionisti cubani riescano ad essere bravi nonostante ristrettezze di ogni genere (falla tu, ricerca, in un paese con internet a pedali) io non lo so e non l'ho capito. Ma ce la fanno.
Gli omosessuali, poi: a Cuba si celebra il Pride, per dire. Sono finiti gli anni 70, "Fresa y chocolate" fu girato con sovvenzioni statali, non scherziamo. Ma, soprattutto, ricordo una pubblicità progresso dello Stato, dei cartelloni esposti nelle farmacie che mi colpirono molto. Era una cosa sulla prevenzione dell'AIDS e c'era la foto di due gay che si baciavano. Ma a differenza dell'Europa, dove i due gay sarebbero stati giovani e bellissimi, nella foto cubana c'erano due signori di mezz'età, bruttini, normali. Due comuni cittadini, come li avresti potuti incontrare sul pianerottolo. Né giovani, né belli, né magri, niente. Due signori che si baciavano e un pacato invito all'amore che non escludeva la prevenzione. Sobrio. Rispettoso. Bello. Mi sembrò un esempio da seguire. Del resto, Cuba è molto poco patinata. Non ha neanche la pubblicità, se è per questo. Solo pubblicità progresso e grosse scritte motivazionali un po' ovunque. E' il buono dell'avere molto poco da comprare, nessuno cerca di convincerti a farlo.
Altrettanto stranianti mi paiono poi i discorsi degli stranieri che celebrano i cubani come un popolo di felici danzerini sempre di buon umore e simpatici, uh, che simpatici. Di buon umore? Io, gente stronza come all'Avana ne ho vista poca, in vita mia. Quando diventa chiaro che non li vuoi scopare, che non gli vuoi offrire da bere, che non ti caveranno una lira, tu diventi trasparente ma attorno a te si dispiega la realtà: gente affaticata, incazzosissima, arrogante o, semplicemente, con i cazzi suoi a cui pensare, come è giusto e normale che sia. No, non sono ciarlieri: puoi farti un'ora su un taxi collettivo strapieno senza che nessuno parli con nessuno. Puoi andare mille volte allo stesso bar senza scambiare una parola col barista. Ricevere una gentilezza gratis è rarissimo, ricevere un sorriso non interessato di più. Se sei in difficoltà attiri gli squali. E più è giovane, la gente, e più è stronza. Ecco, questa è una cosa importante: il divario tra i vecchi e i giovani, a Cuba. Con la crisi degli anni Novanta, il sistema scolastico cubano si ritrovò a piedi, come molte altre cose. Con il grosso dei maestri esportati in giro, ci si ritrovò con i ragazzi più grandi a fare lezione ai più piccoli, per dire, e a un generale decadimento dell'istituzione. Per questo e altri motivi, si percepisce uno stacco culturale importante tra i cubani da una certa generazione in giù. I giovani non valgono quanto i loro padri. E questo sarà un problema, in prospettiva. Poi, è vero, la gente fuori dall'Avana (o da Varadero, gessù) è meglio. Molto meglio. Ma i cubani sono, dicevo, isolani. Cocciuti, orgogliosi, quello che vuoi tu, ma non amichevoli. Ma manco per il cazzo, proprio. Se sono amichevoli, anzi, è meglio che ti preoccupi. Avranno i loro motivi, e sono motivi che non ti convengono. Esagero? Sì, un po'. Sintetizzare crea stereotipi, è ovvio. Però, ecco, stereotipo per stereotipo, quello dello stronzo mi pare più azzeccato di quello del felice danzerino. Fermo restando che ballano benissimo, è ovvio.
Ma siamo sempre lì: se da una parte io li detestavo - a un certo punto li detestavo proprio tutti, senza eccezioni - dall'altra, poi, mi accorsi in fretta che, nel resto dell'America Latina, potevo usare il mio status di residente a Cuba come un'onorificenza, una cosa che mi distingueva in positivo dalla massa europea. Soprattutto in Nicaragua. In Nicaragua, quando la gente scopre che vivi a Cuba si emoziona. Manca solo che ti abbracci. Perché, in un modo o nell'altro, tutti debbono qualcosa ai cubani. "Io mi sono laureato a Cuba, gratis!" "Mio padre è stato salvato da un medico cubano!" Una folla. Il Nicaragua trabocca di gente che in gioventù è stata presa e spesata da Cuba per studiare, che ha avuto vitto e alloggio gratis per anni, che ha con l'isola un debito a vita. E se tu vivi a Cuba, pare che ce l'abbiano anche con te, il debito. Ti trattano bene. Ti rispettano. I cubani sono rispettati, in America Latina. Se lo sono guadagnato. E alla fine, è questo: li rispetti. Io li rispetto. Non li amo, ma li rispetto. E quando hai girato per tutto il Centro America, e non ne puoi più di vedere bambini coperti di stracci, bambini che in Chiapas vanno a lavorare trascinandosi zappe più grandi di loro, bambini che circondano il Ticabus a ogni sosta della Panamericana armati di stracci e si mettono a lavarlo in cambio di un'elemosina, finisce che non vedi l'ora di tornarci, a Cuba, e di vedere finalmente bambini normali (la normalità è un concetto molto mobile), con l'uniforme lavata e stirata, belli pettinati con la riga a lato o le treccine e che vanno, tutti, A SCUOLA. Oppure a giocare. E che non lavorano. Mai. Riatterri a Cuba che trabocchi di rispetto. Lo dici al taxista che ti riporta all'Avana e lui è contento, rincara la dose: "E' vero, noi ci lamentiamo e ci dimentichiamo del buono, ma è proprio vero. Anche i nostri portatori di handicap, non c'è confronto. E che dire della delinquenza, del narcotraffico? Siamo fortunati, noi." Sì, sono fortunati, loro. Perché è una questione di prospettiva: se nasci povero, malato, sfortunato, è meglio se nasci a Cuba. Molto meglio, proprio. Fuori da lì, muori e muori male. Un povero non vuole essere guatemalteco, haitiano, dominicano. Vuole essere cubano, credimi.
Cosa si può dire di Fidel nel giorno della sua morte? Questo, probabilmente: che ha dato un senso allo sfuggente concetto di "cubanità". Concetto che i cubani inseguivano da un secolo, prima che arrivasse lui. Che ha preso un popolo che lottava per la sua indipendenza da cent'anni - prima contro gli spagnoli e subito dopo, come una grottesca beffa, contro gli USA che ne presero il posto - e lo ha reso, per la prima volta nella sua storia, indipendente. Parliamo un po' di questo, di cosa è la "cubanità". I cubani sono figli di due popoli entrambi sradicati, spagnoli e africani, piombati su un'isola dove gli indigeni erano scomparsi praticamente subito e senza quasi lasciare traccia. Sono il risultato dell'incontro/scontro e poi mescolanza di europei venuti a fare soldi e di africani trascinati come schiavi. Sarebbero un'accozzaglia di storie e culture diverse, di radici sradicate, di bianchi e neri, schiavisti e schiavi, violentatori e violentati, se tutte queste storie e queste culture non si fossero mischiate, se tutti non fossero andati a letto con tutti, se l'immenso meticciato che ne è derivato non si fosse unito, a un certo punto, nel nome della lotta per l'indipendenza. Cuba è giovane. Diceva uno dei suoi grandi intellettuali, Fernando Ortiz: "Tutto quello che in Europa è successo nell'arco di millenni, a Cuba è successo in soli quattro secoli". Cuba non ha storia che non sia di appena ieri, non ha spiritualità come la intendono i popoli antichi, non ha religione che non sia un minestrone di riti mischiati, non ha un colore, una faccia, un'identità che non sia quella dell'essere cubani, appunto. Qualsiasi cosa ciò voglia dire. E diceva sempre Ortiz: "La cubanità non la dà la nascita, in un paese come il nostro, né la residenza, il colore, non te la dà nessun dato oggettivo. La cubanità te la dà la volontà di essere cubano". E' cubano chi ha voluto costruire Cuba. E Cuba, quindi, ha cominciato a nascere nel 1860, quando bianchi e neri insieme hanno cominciato a lottare contro la Spagna. Insieme, questo è importante. Lì è stato lo spartiacque. E l'hanno combattuta per 30 anni, fino al 1898. Quando sono arrivati gli USA, che fino ad allora se ne erano rimasti a guardare tifando per lo più Spagna, e hanno sfilato la vittoria ai cubani. Hanno dichiarato guerra a una Spagna ormai sfiancata, l'hanno sconfitta e si sono presi Cuba. I cubani, quindi, invece di una vittoria si sono trovati davanti a un passaggio di consegne. Invece della loro costituzione si sono ritrovati l'Enmienda Platt, e un padrone nuovo a cui obbedire.
Però i cubani sono cocciuti, come dicevo. Per i cinquanta anni successivi si sono rotti la testa studiando, protestando, guerreggiando - la rivoluzione fallita del '30 - e ancora e ancora, tra due dittature e mille governi-fantoccio, mentre la loro economia dipendeva dagli USA, mentre persino il razzismo si accodava a quello degli USA impiantando l'apartheid che gli spagnoli mai avevano conosciuto, mentre sull'isola dilagavano il gangsterismo e la corruzione e le carceri erano piene - allora, mica oggi! - di oppositori politici. E poi è arrivato Fidel, la cui storia è talmente folle che sembrerebbe finta, se non fosse invece reale e documentabile. Si cita spesso "La Storia mi assolverà", credo il più delle volte senza averlo letto. E' l'autoarringa con cui lui, ben prima della Rivoluzione, spiegò ai giudici che lo avrebbero condannato il perché dell'assalto alla caserma Moncada, fatto da lui, il fratello piccolo Raul e un manipolo di studenti, studentesse, ragazzi vari, e finito malissimo. E' la fotografia della Cuba sotto Batista e gli USA. E' una dichiarazione di intenti - o, all'epoca, di sogni - ed è, soprattutto, l'autoritratto di un gigante. E' molto difficile leggerlo, sapere che quell'uomo stava entrando in carcere e non sentire un rispetto immenso. Poi vennero l'uscita dal carcere, l'esilio in Messico, l'acquisto di una barchetta (Il Granma) con cui partire, stipandola all'inverosimile, all'assalto di Cuba, lo sbarco (su cui il Che disse: "Fu più che altro un naufragio"), la polizia di Batista che stermina i naufraghi, Fidel che alla fine si ritrova con - boh, vado a memoria - meno di venti superstiti e dice: "Ce l'abbiamo fatta, vinciamo sicuro." E vince. Sul serio. E, per la prima volta nella sua storia, Cuba diventa uno Stato sovrano. Questo, è stato il punto.
E poi vince ancora, e ancora, e ancora. Contro gli USA. Prendendoli sempre, incessantemente, per il culo. Gli USA proiettano propaganda anticastrista sul loro palazzone all'Avana? Castro fa circondare il palazzone da bandiere più alte, una per ogni stato che all'ONU si è dichiarato contrario all'embargo, e così lo impacchetta rendendolo praticamente invisibile. Gli USA mandano navi al largo di Mariel per prendere dissidenti in fuga e mostrarli al mondo? Fidel fa svuotare tutte le carceri e i manicomi di Cuba e ne spedisce gli ospiti tutti da loro, riempiendo gli USA di matti e delinquenti comuni cubani. La lista è infinita, la vicenda umana di Fidel anche. Il rapporto tra USA e Cuba, alla fine, è strano. Ma strano forte.
Gli USA e Cuba si amano e si odiano, sembrano parenti in lite. I primi hanno sempre voluto mettere le mani sui secondi, prima cercando di comprare Cuba alla Spagna, poi prendendosela con le cattive. I secondi hanno sempre sofferto l'ingombrante ombra e le mire squalesche dei vicini, e hanno fatto tutto quello che un popolo può umanamente fare per farsi trattare alla pari. Cuba non ha voluta fare la fine di Puerto Rico, tutto qui. Non ha voluto essere una colonia. Ma, alla fine, la sua storia recente è stata comunque pesantemente condizionata dagli USA. Avrebbero chiesto aiuto all'URSS, virando fortemente sulle posizioni sovietiche, se non avessero dovuto difendersi dagli USA? Avrebbero avuto bisogno di un partito unico per 50 anni se non avessero avuto bisogno di essere tanto compatti dinanzi a un nemico tanto potente? E come sarebbe, oggi, Cuba, se non uscisse da 60 anni di embargo? Se è riuscita a dare cibo, salute e istruzione a tutti i suoi cittadini NONOSTANTE l'embargo, cosa avrebbe fatto senza il limite, l'impoverimento a cui è stata condannata? Voi lo sapete? Io no, francamente. Quello che so, è che l'embargo li ha compattati ancora di più. E, conoscendoli, non era difficile da capire.
Però ho visto un sacco di cittadini USA, a Cuba, e ben prima che Obama aprisse il paese. Col cappello in mano e colmi di ammirazione, li ho visti. Che arrivano per dei corsi di studio all'università, o da soli, passando per il Messico per non farsi scoprire dalle proprie autorità. Perché gli statunitensi non potevano andare a Cuba per ordine degli USA stessi, ma lo Stato cubano li ha sempre fatti entrare, facendo col visto lo stesso giochino che Israele fa con chi non vuole il timbro d'entrata sul passaporto: te lo dà su un pezzo di carta. E ho visto un sacco di cubani che desideravano andarci, negli USA, e fare soldi, vedere l'abbondanza, visitare i parenti. Sono talmente vicini, in linea d'aria, che sembra incredibile.
Io, alla fine - e concludo questa lunga riflessione che oggi mi era proprio necessaria - di Cuba ho capito questo: che la devi rispettare, sennò prendi calci in culo. Tiri fuori il peggio dai cubani, se li prendi contropelo. E che questo orgoglio infinito, cocciuto, cazzuto, fa parte del sentire dell'isola ma Fidel lo ha saputo compattare, dargli sfogo e direzione. Lui ha preso un popolo costretto a passare da una bandiera all'altra e ne ha fatto una cosa diversa: il popolo che ha vinto, quello che si è guadagnato l'indipendenza e l'ha difesa, quello che ha ottenuto le uniche, grandi conquiste sociali dell'America Latina, quello che più si è schierato contro il razzismo, quello che ha fatto sognare mezzo pianeta, quello che non si capisce come abbia fatto ma, in qualche modo, ce l'ha fatta. Ha preso una colonia e ne ha fatto uno Stato. Molto, molto orgoglioso di sé. Ha commesso errori? Certo. Avrebbe potuto fare di meglio? Sì. I cubani hanno sofferto? Sì, ma l'alternativa era essere Puerto Rico o peggio. E avevano combattuto troppo, e troppo a lungo, per potere accettare di essere Puerto Rico. So' gente orgogliosa, che gli vuoi dire.
Per quanto possa sembrare paradossale, io non pensavo che Fidel potesse morire. Pensavo che avrebbe seppellito pure me. Mi fa proprio uno strano effetto, questa morte, ed essendo io una donna del Novecento penso che, stavolta, di giganti non ne rimane proprio nessuno. Ora: i cubani di oggi, i giovani cubani di oggi, saranno all'altezza della storia incredibile che gli lascia Fidel?  Io credo che lui abbia cercato anche, riuscendoci spesso, di tirare fuori il meglio dal proprio popolo. Di dargli disciplina, serietà, educazione, cultura. Di fare di un popolo caraibico il popolo serio per eccellenza di tutta l'area. Operazione non facilissima, va detto.
Lascia un popolo povero ma viziato, nonostante la cura da cavallo degli anni Novanta. Che non paga bollette, che ha la sopravvivenza assicurata, che si crede 'sto cazzo. E che è umanamente e culturalmente in declino da un po'. Dove le differenze razziali, dagli anni novanta in poi, si sono accentuate. Da quando le rimesse dell'estero sono diventate vitali, e si dà il caso che il grosso dei cubani emigrati fosse bianco e abbia, quindi, mandato denaro alle famiglie bianche, mettendo loro e solo loro in condizione di partire con la piccola impresa. Un popolo che ha più aspettative che voglia di lavorare, e a cui il turismo - soprattutto quello italiano, e va detto a nostro disonore - ha fatto un gran male.
Non so cosa ne sarà di Cuba, se i suoi "difetti" la aiuteranno anche stavolta o se, senza il carisma del suo Padre della Patria, diventerà il paesello qualsiasi che tanti sperano che diventi. Temo la generazione cresciuta negli anni Novanta. Se Cuba va al macero, sarà per loro. Ma se questo dovesse accadere, sarebbe una gran perdita per il mondo intero. Sono degli stronzi, pensano solo agli affari loro, ti venderebbero al macello se solo potessero - e lo fanno appena possono - e tuttavia, pur di essere fighi, hanno dato tanto. Per un'italiana che non li regge ci sono cento cittadini del Terzo Mondo che devono loro qualcosa. Da sessanta anni, rendono il pianeta più vario e più vero.
Io credo che si sentano abbastanza male, oggi, i cubani. E che ne abbiano tutti i motivi.
Tocca invece invidiare un po' il Padreterno, se c'è, ché finalmente se lo vede là, 'sto famoso Fidel, e finalmente può farci due chiacchiere. Non ha aspettato poco, decisamente. E mi piace immaginare che, tra i due, il più curioso sia il Padreterno.

Pubblicato da Franco Romanò a 22:55

Da - http://2011oraequi.blogspot.it/2016/11/sulla-morte
6049  Forum Pubblico / AUTORI. Altre firme. / ILVO DIAMANTI - Allarme bullismo, dalle aule ai social network: ne è vittima... inserito:: Novembre 28, 2016, 08:34:38 pm
Allarme bullismo, dalle aule ai social network: ne è vittima un adolescente su tre
Genova, un episodio di bullismo nel 2015: due ragazze di 16 e 17 anni si accaniscono contro una dodicenne
Mappe. L'avvento della Rete ha delineato un nuovo territorio per un fenomeno che, rivela il sondaggio Demos, preoccupa una parte sempre più larga della popolazione

Di ILVO DIAMANTI 28 novembre 2016

"Bulli troppo giovani per finire in tribunale, ma ci sono altre pene"
Torino: vittima delle vessazioni dei compagni bulli, diventa disabile a undici anni

Il bullismo è un fenomeno serio e odioso. Ma solo da pochi anni ha ottenuto un'attenzione pubblica adeguata. Anche se ha una storia lunga. Narrata dal cinema e dalla letteratura. Oggi, però, è oggetto di preoccupazione diffusa. E, per questo, numerosi istituti di ricerca conducono analisi e ricerche sistematiche, sul fenomeno. Dall'Istat all'Istituto Toniolo dell'Università Cattolica, al Centro di ascolto di Telefono Azzurro.
 
Tanta attenzione riflette l'effettiva crescita del fenomeno, ma anche il diverso significato che ha assunto. In passato, infatti, era "accettato" come una sorta di rito di passaggio all'età adulta. Pochi lo definivano come un sopruso o un abuso. A scuola, ma anche nella vita quotidiana, nei gruppi, nei quartieri, il bullo era, spesso, la figura dominante. Il bullismo: un metodo di affermarsi attraverso l'umiliazione di altri giovani. Più deboli o, comunque, meno capaci di reagire. Meno disposti ad agire nello stesso modo. Tuttavia, per quanto serio e grave, il fenomeno appariva "circoscritto". O almeno localizzato, non solo nello spazio, ma ancor più nel tempo. Passati alcuni anni, il contesto cambiava. Tanto più e soprattutto se si cambiava, appunto, contesto. Residenza, località. E soprattutto: scuola. Perché la scuola ne è sempre stato l'ambiente privilegiato.
 
Oggi non è più così. Perché, da un lato, la "giovinezza" si è allungata. Come gli anni di studio. E, soprattutto, perché le distanze territoriali non contano più come un tempo. Anzi: non contano più. Perché l'avvento della rete, dei social media le ha vanificate. E, anzi, ha delineato e costruito un nuovo "territorio" nel quale il bullismo, anzi, il cyber-bullismo, si è affermato. E diffuso. Senza più limiti.

L'osservatorio di Repubblica.it sul cyberbullismo
Secondo un'indagine Doxa Kids svolta su tutto il territorio italiano, il 35% dei ragazzi dagli 11 ai 19 anni è stato vittima di episodi di bullismo. E il fenomeno appare in aumento, soprattutto negli ultimi anni. Anche se bisogna tener conto che, ormai, ogni "atto violento" commesso da giovani ai danni di altri giovani, presso l'opinione pubblica, tende a venir catalogato come "bullismo". Senza ulteriore specificazione.
 
Le vittime coinvolte, comunque, sono principalmente femmine (nel 56,3% dei casi), tra gli 11 e i 14 anni (nel 40,6% dei casi). Infine, il 10,2% dei bambini e adolescenti coinvolti è di nazionalità straniera.
 
L'Istat traccia un profilo ancor più pesante del fenomeno. Secondo le sue indagini, infatti, nel 2014, oltre metà dei giovani (e giovanissimi) compresi fra 11 e 17 anni è stato oggetto di episodi violenti ad opera di altri ragazzi o ragazze. Due su dieci, inoltre si dichiarano bersaglio di "offese" ripetute. Più volte al mese. Circa il 6% è stato vittima di questi episodi per via digitale. Sui social network. In questo caso si tratta, soprattutto, di ragazze. Il bersaglio privilegiato (si fa per dire) di cyber-bullismo.

Se questa è la "realtà" del fenomeno, il sondaggio di Demos, condotto nelle scorse settimane in Italia, ne conferma la gravità e la diffusione, nella "percezione" sociale. Infatti, 7 persone su 10 considerano il bullismo "inaccettabile". Rispetto al 2007 (cioè, quasi 10 anni fa) si tratta di oltre 5 punti percentuali in più. Nello stesso tempo, fra gli italiani, è cresciuta la convinzione che il fenomeno sia diffuso nella maggioranza delle scuole. Lo pensa, infatti, quasi un quarto della popolazione. Ed è interessante osservare come questa idea non sia concentrata in una specifica coorte d'età. Risulta, invece, trasversale. Distribuita ed estesa in diversi settori sociali e generazionali. Certo, la preoccupazione appare molto elevata soprattutto fra i giovani da 15 a 24 anni. E fra gli studenti. In entrambi i casi, la convinzione che il bullismo sia diffuso in gran parte delle scuole è condivisa da circa il 30% degli intervistati. Giovanissimi e studenti, d'altronde, in larga parte coincidono. E sono, per questo, il bersaglio (ma, spesso, anche gli autori principali) del fenomeno.

LE TABELLE
 Tuttavia, la diffusione del bullismo viene denunciata dai "giovani-adulti", fra 25 e 34 anni, in misura perfino più ampia: 33%. Si tratta dei "fratelli maggiori", che, presumibilmente, hanno appena concluso la loro "carriera" di studenti. E, per questo, percepiscono l'esperienza del bullismo in misura più intensa e diretta. Perché l'hanno lasciata alle spalle. Ma la diffusione del bullismo è denunciata, in misura esplicita ed estesa anche presso le generazioni successive. Soprattutto fra le persone fra 55 e 64 anni. Mentre fra gli "anziani" (oltre 65 anni) la percezione del fenomeno risulta decisamente limitata (12%). Probabilmente perché è stata metabolizzata nel tempo. Oppure perché, come si è detto, viene ritenuta inevitabile. Quasi un passaggio obbligato oltre l'adolescenza.
 
Infine, l'influenza esercitata dalla rete e dai social network sulla crescita degli atti di bullismo appare "data per scontata" da una quota maggioritaria della popolazione. Ne sembrano convinte, soprattutto, le persone più anziane, con oltre 65 anni d'età e livello di istruzione meno elevato. Le componenti sociali, dunque, che hanno meno confidenza e meno pratica rispetto ai media digitali. Così si conferma l'idea che il bullismo "spaventi" soprattutto chi ne ha notizia solo - o soprattutto - attraverso la radio e la TV.
Il "bullismo mediale", insomma, rischia di suscitare più paura di quello "digitale".

© Riproduzione riservata
28 novembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/cronaca/2016/11/28/news/mappe_allarme_bullismo-152982524/?ref=nl-Ultimo-minuto-ore-13_28-11-2016
6050  Forum Pubblico / "ggiannig" la FUTURA EDITORIA, il BLOG. I SEMI, I FIORI e L'ULIVASTRO di Arlecchino. / Arlecchino. Da FB ad amici che si lamentavano dei locali rumorosi di oggi ... inserito:: Novembre 26, 2016, 09:25:51 pm
Chiamala se vuoi "sciatteria"!
Da piccolo andavo in "osteria" con mio nonno, lui giocava a carte con altri nonni io mangiavo un panino con mortadella e bevevo una spuma.
Ogni tanto i nonni alzavano la voce, tra loro, per una carta scartata nel momento sbagliato. Ricordo quei pomeriggi all'osteria come momenti sereni e di pace.

Ed eravamo poveri. Ciaooo

Da FB del 22/11
6051  Forum Pubblico / FAMIGLIA, SOCIETA', COSTUME e MALCOSTUME. / Emiliano: Tutta la Puglia si mobiliti per Taranto (come la Cgil?) inserito:: Novembre 26, 2016, 09:21:43 pm
Manovra, Emiliano: “Tutta la Puglia si mobiliti per Taranto”
Il governatore all’indomani della bocciatura dell’emendamento alla finanziaria da 50 milioni di euro per fronteggiare le emergenze sanitarie causate dall’inquinamento

Pubblicato il 25/11/2016
Ultima modifica il 25/11/2016 alle ore 15:44
Fabio Di Todaro

La tregua armata tra il Governatore della Regione Puglia Michele Emiliano e il Governo presieduto da Matteo Renzi è nuovamente un ricordo sbiadito. «Tutta la Puglia deve mobilitarsi al fianco dei tarantini per pretendere da Roma ciò che loro spetta - è il pensiero dell’ex magistrato -. Da anni la città subisce un inquinamento di Stato che ha spaventosamente aumentato ogni sorta di malattie». Dalla sede della Camera di Commercio Roma, dove si trovava stamane per presentare il progetto di decarbonizzazione dell’Ilva, il presidente della Regione Puglia ha reagito così alla bocciatura dell’emendamento che gli avrebbe permesso di destinare 50 milioni di euro per affrontare l’emergenza sanitaria che si vive nel capoluogo ionico. A firmarlo erano stati i parlamentari Vico, Pelillo (entrambi tarantini), Capone, Ginefra, Grassi, Mariano, Mongiello, Bordo e Ventriciello, chiedendo «che per il triennio 2017-2019, venissero assegnate, con riferimento all’Azienda sanitaria locale di Taranto, risorse nel limite di spesa di 50 milioni di euro annui per l’assunzione e la stabilizzazione di personale del Servizio sanitario nazionale, per l’acquisto di materiale di consumo, attrezzature e attività diagnostiche di primo e secondo livello». Una possibilità, questa, che sembrava più vicina dopo le rassicurazioni date lo scorso 12 novembre a Bari dal ministro per la Sanità, Beatrice Lorenzin.

Ulteriori sviluppi dopo il 7 dicembre 

Nell’occasione, sulla stessa linea di quanto dichiarato nelle settimane precedenti dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Claudio De Vincenti e dal ministro dell’Ambiente Gianluca Galletti, il ministro confermò ai giornalisti che «da parte del Governo c’è sicuramente apertura ad aiutare la Puglia». Promesse rese però vane l’altro iersera in Commissione Bilancio della Camera, dove siedono i deputati pugliesi Francesco Boccia (Pd) e Rocco Palese (gruppo misto). Stamane è stata la stessa Lorenzin a tornare sulla vicenda: «Per derogare al decreto ministeriale 70 è sufficiente operare una modifica dello stesso decreto ministeriale, senza intervenire su una norma di rango primario. Ho già istituito un tavolo di confronto con la Regione, le altre istituzioni locali i tecnici della direzione generale del Ministero e dell’istituto Superiore di Sanità al fine di approfondire le esigenze correlate alla situazione ambientale e sanitaria dell’area di Taranto nell’ottica di valutare l’esistenza dei presupposti tecnico-scientifici e giuridici che consentano di approntare una deroga al decreto ministeriale in questione». Eventuali decisioni in merito saranno rese note dopo il 7 dicembre, data in cui all’Istituto Superiore di Sanità saranno presentati i risultati di uno studio epidemiologico che darà ulteriore evidenza della situazione sanitaria dei cittadini residenti nell’area di Taranto. 
Pd locale contro il Sì al referendum 

La decisione ha provocato la frattura del Pd a livello locale, impegnato anche nell’individuare il candidato da far correre alle comunali in programma per giugno. Nel partito c’era grande attesa per questo momento, anche perché della questione erano stati investiti esponenti locali del governo. Ecco spiegato perché il dietrofront è giunto come una doccia fredda. La delusione è stata grande, ma ha lasciato subito spazio alla rappresaglia. ««Tagliare questo fondo significa non aver percepito la gravità della situazione e soprattutto la necessità di continuare a curare con mezzi adeguati le persone che si sono ammalate e di fare prevenzione per il futuro - è il pensiero di Costanzo Carriero, coordinatore provinciale del Partito Democratico -. A questo punto si ferma la nostra campagna referendaria a sostegno del sì. Finora abbiamo creduto nel merito del referendum, lo abbiamo appoggiato per essere più forti in Europa e per continuare a sostenere l’azione di questo governo che ha prestato attenzione verso il nostro territorio. Adesso, però, quest’ultimo aspetto è venuto meno. Nella difesa del nostro territorio non c’è governo amico che tenga».

Referendum: una partita che si gioca a Sud 

Un’altra gatta da pelare per Renzi e l’intero fronte del sì, che al Sud rischia di giocarsi tutto. Ai fronti caldi di Palermo e Napoli, si aggiunge dunque quello di Taranto, dove il Premier fu duramente contestato a luglio scorso e la fiducia nei confronti del centrosinistra è ai minimi storici. Nemmeno la promessa di agevolare le assunzioni sembra scaldare il Mezzogiorno. Il futuro del Governo, oltre che della Costituzione, si gioca a sud della Capitale.

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Da - http://www.lastampa.it/2016/11/25/italia/politica/manovra-emiliano-tutta-la-puglia-si-mobiliti-per-taranto-WSdnSFn6t7rwF1egG5JSDK/pagina.html
6052  Forum Pubblico / ESTERO fino al 18 agosto 2022. / Ex calciatori abusati da bambini dall’allenatore. (Lo schifo non ha confini) inserito:: Novembre 26, 2016, 09:18:24 pm
Ex calciatori abusati da bambini dall’allenatore. Scoppia lo scandalo pedofilia in Gran Bretagna
Quattro ex giocatori hanno scelto di rivelare le violenze subite da bimbi fra i campi e gli spogliatoi delle squadre giovanili inglesi

Pubblicato il 25/11/2016 Ultima modifica il 25/11/2016 alle ore 22:28
LONDRA

Non riescono a trattenere le lacrime quattro degli ex giocatori che hanno scelto di rivelare gli abusi sessuali subiti quando erano bambini fra i campi e gli spogliatoi delle squadre giovanili inglesi. Andy Woodward, uno dei primi a farsi avanti per denunciare uno scandalo che continua ad allargarsi, ha pianto in diretta alla Bbc mentre tre ex compagni, Steve Walters, Chris Unsworth e Jason Dunford, ricordavano le violenze perpetrate su di loro dall’ex allenatore del Crewe Alexandra (quarta serie), Barry Bennell.

«Sono stato violentato fra le 50 e le 100 volte e non lo avevo mai detto ad anima viva», ha raccontato Unsworth. Mentre per Walters quegli abusi sono un trauma terribile, per lui e per gli altri, capace di segnare in modo indelebile le vite e le carriere di molti giocatori. Bennell, 62 anni, ha già scontato tre condanne in carcere per abusi sessuali su minori ma nuove accuse sul suo conto stanno giungendo da più parti. Secondo la testimonianza di Unsworth, l’ex calciatore era stato diverse volte a casa dell’allenatore che talvolta si intratteneva con due-tre ragazzini alla volta. 

Non è però l’unico “orco” travestito da coach che ha imperversato nel calcio giovanile inglese. Almeno tre forze di polizia stanno conducendo indagini su questo scandalo, raccogliendo le voci di vittime che finalmente si fanno avanti. E di sicuro servono ad abbattere il muro di gomma dell’omertà gli appelli che vengono lanciati da più parti, a partire dal mondo del calcio. Il capitano dell’Inghilterra, Wayne Rooney, ha chiesto a tutti i giocatori che hanno subito abusi sessuali di chiamare la linea telefonica appositamente istituita e «di non soffrire più in silenzio». E perfino la premier Theresa May è intervenuta, tramite un suo portavoce, elogiando il coraggio mostrato da quanti hanno deciso di denunciare le violenze. 

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Da - http://www.lastampa.it/2016/11/25/esteri/calciatori-abusati-da-bambini-scoppia-lo-scandalo-pedofilia-in-gran-bretagna-YxwXJDb0E15gG4iWjf6ytJ/pagina.html
6053  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / FEDERICO GEREMICCA - Un premier 3.0 per rovesciare il pronostico inserito:: Novembre 26, 2016, 09:16:16 pm

Un premier 3.0 per rovesciare il pronostico

Pubblicato il 26/11/2016
Ultima modifica il 26/11/2016 alle ore 07:57
Federico Geremicca

Ci sono le battute, come inevitabile: «Nella mia veste di scrofa ferita e aspirante serial killer...». Qualche faticosa autocritica: «La mia sorte non è importante, non farò l’errore di personalizzare». Un avvertimento a Berlusconi (e non solo) di cosa potrebbe riservare l’alba del 5 dicembre, se vincesse il No: «Lui dice “il giorno dopo ci sediamo al tavolo con Renzi” ... No, a quel tavolo ci troverà Grillo e Massimo D’Alema». Ma nella lunga intervista concessa ieri dal premier a Massimo Gramellini, c’è soprattutto - in controluce - l’asse portante della possibile strategia futura: certo buona in caso di vittoria del Sì, ma ugualmente utile anche in vista di una campagna elettorale che molti ormai vedono vicina.

Una sorta di Renzi 3.0, che ha bisogno di una premessa nella quale il segretario-premier, naturalmente, crede ancora: la vittoria del Sì al referendum. Una vittoria che - a giudizio di Renzi - farebbe dell’Italia e del suo governo (premier in testa) il soggetto più forte in Europa, considerate le fatiche e le insidie elettorali che attendono Angela Merkel e François Hollande. E una forza che, acquisita in Italia, Renzi intenderebbe spendere - ed è una novità - soprattutto in Europa: «Il 2017 sarà cruciale per l’Europa, l’Italia deve avere una sua forte strategia».

Una strategia, una linea, che il presidente del Consiglio ha sintetizzato con una battuta: «Tra populismo e globalizzazione». Tradotto in politica - e col volto dei due leader che oggi meglio paiono incarnare quei due filoni - fra Trump e Merkel: una specie di terza via tra populismo nazionalista e certo rigore tecnocratico europeo. Che comunque obbligherebbe Renzi a trovare un equilibrio tra la fase uno del suo governo (convintamente europeista) e l’attuale fase due, segnata da polemiche quotidiane, veti annunciati e rivendicazione di sovranità. 

 Per il premier si tratterebbe, in fondo, di dare spessore e sistematicità a quel che in qualche modo è già stata la sua discussa pratica di governo in questi mille e passa giorni: accompagnare a classici provvedimenti «di sinistra» iniziative (leggi) che parlino anche all’elettorato più moderato, di centrodestra. Un tentativo, insomma, di tener conto del vento che tira e provare ad evitare al Pd la sorte che si è abbattuta sui socialisti spagnoli, francesi e greci, e sugli ancora provati laburisti inglesi.

 

Si tratta, come è evidente, di un tentativo non facile e già oggetto di contestazione - nell’ultimo anno almeno - per l’implicito «snaturamento» di approcci e valori classici e cari alla sinistra italiana. Ma soprattutto, questa ipotetica terza via sarebbe più difficilmente percorribile senza la forza - una sorta di investitura - che una vittoria del Sì attribuirebbe a Renzi ed al governo, tanto sul piano interno quanto sullo scenario europeo. Ma che possibilità ha il Sì di prevalere nelle urne del 4 dicembre?

Difficile dirlo. Ma da qualche giorno, paradossalmente, la campagna referendaria - dopo tentativi di spersonalizzazione e discussione nel merito - sembra esser tornata precisamente al punto di partenza: il referendum sul premier. Con una novità non da poco, dettata - forse - dall’avvicinarsi della sentenza. Infatti, al cacciamo (o salviamo) Matteo Renzi, si è andata aggiungendo una domanda: va bene, lo cacciamo, ma dopo che succede? Anche per questo è difficile immaginare che il rush finale di questa campagna venga lasciato ai costituzionalisti e a dotti confronti sul bicameralismo: lo scontro sarà tutto politico, e l’arma più forte in mano al Sì - checché se ne pensi - oggi sembra proprio essere quella certa e atavica paura italiana del «salto nel buio». Come forse, mesi e mesi fa, Matteo Renzi aveva immaginato. O forse soltanto sperato.
 
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6054  Forum Pubblico / MONDO DEL LAVORO, CAPITALISMO, SOCIALISMO, LIBERISMO. / Enrico MARRO - Quanto rischi di diventare povero? inserito:: Novembre 26, 2016, 09:14:44 pm
Quanto rischi di diventare povero?

Di Enrico Marro 24 novembre 2016

Quali sono i “fattori di rischio” che possono portare alla povertà? È una delle domande che si pone il nuovo Global Wealth Report di Credit Suisse, settima edizione dello studio che ogni anno analizza la ricchezza di 4,8 miliardi di persone adulte in più di 200 Paesi del mondo. La novità del 2016 è che la corposa analisi della banca svizzera si sofferma anche sui poveri, l’ampia e sfortunata base della “piramide della ricchezza”, ossia gli adulti che possiedono meno di 10mila dollari. Si tratta di oltre tre miliardi e mezzo di persone, pari quasi a tre quarti della popolazione mondiale. Non pochi.

In Italia un minore su tre a rischio povertà
Ci sono tratti comuni a tutti i poveri del globo, spiega la ricerca di Credit Suisse, “fattori di rischio” che accomunano i diseredati di Europa, America e Asia. I più comuni sono tre: essere giovani, single e poco istruiti. «Nella maggior parte dei Paesi il più grande “rischio” è avere meno di 35 anni - si legge nello studio - fattore che aumenta la probabilità di povertà in media del 15%». Non sorprende, poiché gli under 35 si ritrovano all’inizio del loro ciclo di risparmio e accumulazione della ricchezza. «Ma di recente i giovani hanno anche dovuto far fronte a particolari difficoltà - continua l'analisi - per esempio una crescita sproporzionata della disoccupazione, sulla scia della crisi finanziaria globale». Una buon livello di istruzione aiuta i giovani a evitare il rischio povertà, ma non offre la garanzia completa di sfuggire dalla “base della piramide”.

Scendiamo in dettaglio nelle macroaree geografiche. Nell’Europa continentale a correre il maggior “rischio povertà” sono i giovani single di sesso maschile, disoccupati e con basso livello di istruzione, mentre nel Regno Unito la fascia più debole è costituita dalle giovani madri separate e con scarsa scolarizzazione. Vediamo invece i ricchi: nell’Europa meridionale il segmento più facoltoso è quello delle coppie over 65, in pensione e con livelli di istruzione superiore.

Un’altra caratteristica della “base della piramide” è quella di essere pesantemente indebitata. In Europa, in particolare, a pesare sui budget dei meno abbienti sono i mutui immobiliari, mentre negli Stati Uniti a questi si aggiunge il peso non indifferente dei prestiti contratti per coprire i costi dell’istruzione superiore.

I super ricchi hanno sempre di più
Se consideriamo la sola Italia, poi, scopriamo che nel 2016 la ricchezza media netta per italiano adulto è scesa rispetto all’anno precedente dell’1,1%, a quota 202.288 dollari a persona. A cambi costanti la diminuzione è stata di circa lo 0,8%. Il calo della ricchezza in Italia è stato guidato prevalentemente dalla diminuzione della ricchezza mobiliare, scesa del 6,1% per adulto nel periodo 2015/2016 a cambi correnti e del 5,8% a cambi costanti. La capitalizzazione dei mercati infatti, secondo l’analisi del Credit Suisse, si è tendenzialmente ridotta di circa il 10% in Francia e Germania, mentre Italia e Regno Unito hanno avuto una performance ancora peggiore.

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6055  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / JACOPO IACOBONI. - Renzi: “Bisogna che vinca il Sì, in questo modo saremo più... inserito:: Novembre 26, 2016, 09:13:45 pm
Renzi: “Bisogna che vinca il Sì, in questo modo saremo più forti in Europa”
Il premier alla Stampa: “Se passa il No Berlusconi non troverà me al governo ma Grillo. Non importa cosa farò io dopo, ho 41 anni e nulla da aggiungere al mio curriculum”

Pubblicato il 26/11/2016
Ultima modifica il 26/11/2016 alle ore 09:32

Jacopo Iacoboni
Torino

«Se vince il Sì andremo in Europa con più forza a spiegar loro come fare su migranti, economia, e posti italiani a Bruxelles». Uscendo dalla redazione de La Stampa - dove ieri mattina ha risposto in una videointervista alle domande di Massimo Gramellini e dei lettori - Matteo Renzi parla di quella che è per lui la sfida cruciale del referendum del 4 dicembre, e il suo messaggio di fondo: se vince il No, dice, torneranno tecnocrati alla Mario Monti che vessano i cittadini, alzano le tasse, e rimettono il segno meno davanti ai dati del Pil. Se vince il Sì, secondo il premier, «l’Italia sarà più stabile e in grado di dettare condizioni all’Europa. Indicheremo una terza via, per rispolverare un’espressione clintoniana», e l’idea che espone in redazione è di sfuggire all’alternativa tra Trump e Angela Merkel, tra populisti e globalisti. «Il mondo in questo momento è dibattuto, con la Russia che sappiamo, con l’effetto Trump che aleggia, con la Brexit». In questo scenario lui vede uno spazio, un’opportunità, di far pesare una via italiana: «Noi siamo quelli che hanno fatto mettere agli atti, davanti alla Cancelliera, le perplessità sull’austerity». Oppure, per farsi sentire di più: «Noi diamo all’Europa venti miliardi tutti gli anni e ne prendiamo indietro dodici. Se di questi dodici ne lasci per strada una parte, hai vinto il premio Nobel per la stupidità. Mentre ci impegniamo a riequilibrare questo rapporto di venti a dodici, intanto ci siamo detti: spendiamo meglio questi dodici».

La «vera» Casta 

Ambizioni europee come queste passano ora, inesorabilmente, dal voto sul referendum costituzionale. Dopo questa aspra campagna elettorale, con accuse e controaccuse, cosa rispondere a un racconto che vorrebbe ormai il rottamatore nei panni del simbolo di una Casta? «Dicono a noi che siamo la Casta? Dall’altra parte, nel fronte del No, vedo un sistema che tiene insieme cinque ex presidenti del Consiglio: Monti, De Mita, Lamberto Dini, D’Alema e Berlusconi. Li riconosci dalla quantità di pensioni. Berlusconi dice: “Il giorno dopo ci sediamo al tavolo con Renzi”. No, il giorno dopo, ci trova Grillo e Massimo D’Alema, non il sottoscritto. Cinque ex premier che per anni ci hanno detto riforme e non le hanno fatte. Se gli italiani vogliono affidarsi a loro, prego, si accomodino». Lo scenario che prefigura, o lo spauracchio che agita, se preferite, è che se vincesse il No rischiamo un governo tecnico, «ma il governo tecnico non fa l’interesse dell’Italia, spiana la porta ad altri interessi, ad altre cose. Per questo serve la politica, un governo politico». 
Il No dell’Economist 

Il presidente del Consiglio non può non rispondere qualcosa sull’Economist, che ha scritto: «L’Italia dovrebbe votare No». Sa che quell’articolo viene cavalcato in rete, diventa virale, viene agitato come verità in terra dagli stessi che un paio d’anni fa strepitavano contro i giornali della finanza e dell’establishment: «Leggo che l’Economist parla di un governo tecnico, loro lo chiamano tecnocratico. Magari per l’Italia è meglio, io l’ultimo governo tecnico che ricordo, quello di Mario Monti, ha alzato le tasse e ha prodotto il segno meno sulla crescita. Il 2017 sarà cruciale per l’Europa, l’Italia deve avere una forte strategia europea e lo può fare solo un governo con solidità e stabilità, un governo politico. Un governo tecnico che dice “ce lo chiede l’Ue” non fa l’interesse dell’Italia ma di altri». 

I risultati del governo 

Qualche punto prova a rivendicarlo, anche rispondendo a domande come quella di Corrado Attili. «Tutto possiamo dire tranne che in due anni non abbiamo fatto niente». Ricorda quelli che a lui paiono meriti del suo governo: «Negli ultimi due anni il nostro debito è stabilizzato, al 132 per cento. È alto, troppo alto, ma non cresce più. Anzi l’abbiamo tagliato, di 43 miliardi. Lo so, vogliamo fare di più, ma mia nonna diceva che il meglio è nemico del bene». Inseguendo una perfezione mitica ci avvitiamo nell’inazione, quella che lui chiama la palude. Situazione che, a Gramellini che gli chiede dei limiti della riforma, riassume in una battuta: «Questo referendum è come un viaggio in autostop; ne avete mai fatti da ragazzi? È come se tu volessi andare da Roma ad Aosta, passa uno che ti offre un passaggio fino a Torino. Voi che fate, accettate o aspettate uno che vi porti ad Aosta?». Per dire che tante cose le avrebbe volute diverse anche lui, come gli domanda il lettore Giorgio Mari, «se avessi potuto fare da solo la riforma sarebbe stata diversa», ma il punto cruciale, il taglio dei costi e la fiducia data da una sola Camera, è per lui comunque fondamentale.

L’attacco al M5S 

Il Renzi di oggi ammette diversi errori, in questa fase sta evidentemente provando a ricucire un gap di umanità che s’era creato, e lui a un certo punto ha avvertito. Anche agli insulti sceglie di replicare con più ironia, o autoironia, o almeno ci prova: «Nella mia veste di scrofa ferita e di aspirante serial killer, da parte nostra dico che la nostra intenzione è di abbassare totalmente i toni dello scontro, anche perché va nel nostro interesse». Però sui tagli ai costi della politica e la doppia morale dei cinque stelle, va all’attacco: «Il M5S parla di riduzione degli sprechi, ma prende come noi i fondi per il gruppo parlamentare: al Senato noi abbiamo preso 30 milioni, loro 13. La differenza è che il M5S utilizza i fondi del gruppo al Senato per pagare la casa di Rocco Casalino, un loro dipendente. Capite? Pagano le bollette coi soldi dei fondi del Senato, è vietato». 
Per Torino, il premier elogia come la Regione di Sergio Chiamparino sta gestendo l’emergenza del maltempo; dice di aver incontrato «la sindaca Appendino», in uno spirito di collaborazione reciproca. Promette un intervento immediato per il maltempo, «i soldi ci saranno, ma bisogna spenderli bene». E sul Moi, le palazzine del villaggio olimpico da tempo occupate da famiglie di immigrati e profughi, assicura: «C’è massima disponibilità a sostenere un’iniziativa finalizzata a risolvere la situazione in modo... piemontese, quindi con grande sobrietà. Siamo disponibili a venire incontro alle esigenze delle istituzioni». 

«Se devo, me ne andrò» 

In definitiva, è un Renzi meno da selfie - anche se diversi ragazzi gliene chiedono, quando esce dalla Stampa, e lui non si sottrae - e più concentrato a far passare un messaggio conclusivo: l’Italia può essere importante, nella stagione Trump-Brexit, con la Russia sullo sfondo: «Abbiamo davanti il 4 dicembre un grande assist per segnare, cambiare l’Italia e anche l’Europa, o sparare la palla in tribuna. La mia sorte non è importante - risponde al lettore Fiora - non farò più l’errore di personalizzare; ma poi gli stessi che me lo rimproverano mi domandano continuamente “che cosa farò io?”. Rispondo così: non importa. Io ho 41 anni, ho fatto il sindaco della città più bella del mondo (Gramellini lo interrompe: “A parte Torino”), non devo aggiungere più nulla al mio curriculum. Non sto lì a vivacchiare, non sono adatto. Se dobbiamo tornare alle liturgie del passato, le riunioni di maggioranza con i tecnici, per la logica della palude, delle sabbie mobili tanti sono più bravi di me. Io sto se possiamo cambiare». Un sassolino dalla scarpa se lo toglie, senza nominare Enrico Letta: «Quando toccherà a me lasciare Palazzo Chigi, uno si gira, si inchina alla bandiera e sorride, non mette il broncio. Passerò la campanella con un sorriso e un abbraccio a chiunque sia perché Palazzo Chigi non è casa tua ma degli italiani».

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Da - http://www.lastampa.it/2016/11/26/italia/speciali/referendum-2016/renzi-bisogna-che-vinca-il-s-in-questo-modo-saremo-pi-forti-in-europa-wfNl3YT8Y6HdaL6RwODrvI/pagina.html
6056  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / MATTIA FELTRI. La fascinazione italiana per Fidel e quel grande equivoco ... inserito:: Novembre 26, 2016, 09:12:01 pm
La fascinazione italiana per Fidel e quel grande equivoco romantico
Da Gianni Minà a Raffaella Carrà al rapporto tra Pci e Cuba: in fondo conta più quello che rappresenta di quello che è stato

Pubblicato il 26/11/2016 Ultima modifica il 26/11/2016 alle ore 10:54
Mattia Feltri

Il grande equivoco romantico è che Cuba fosse la trasposizione fisica e geografica di Macondo. E che Fidel fosse l’incarnazione storica di Aureliano Bendìa, che aveva promosse guerriglie e sommosse a decine, dove la vittoria bastava fosse ideale. E infatti il luogo e l’eroe di Cent’anni di solitudine avevano fatto del suo autore, il sommo Gabriel Garcia Marquez, l’amico e il garante della purezza di Cuba.

Ancora, infatti, fra i sostenitori del piccolo stato caraibico contro il Golia americano anche in Italia c’erano (o ci sono) molti campioni della cultura e dello spettacolo, prima ancora che dei partiti. Gianni Minà era il totem, diciamo così, attorno a cui ruotavano il filosofo Gianni Vattimo e il maestro Claudio Abbado, il riverito giornalista Alberto Ronchey e l’illuminato editore Giangiacomo Feltrinelli, la popstar Zucchero e la decana dell’entertainment a colori, Raffaella Carrà. E poi ancora Gina Lollobrigida, che all’elogio del rivoluzionario faceva precedere quello delle mani, «così belle», e Carla Fracci, cosciente del regime dittatoriale cubano, e però niente poteva prevalere sulla «grande considerazione che il balletto gode nei paesi socialisti».

E dunque tutti castristi, per ragioni diverse, e con diverse intensità, talvolta rafforzate e altre indebolite dal tempo, dall’annacquarsi dell’utopia, e così anche il più giovane dei castristi, Gennaro Migliore, ora nel Pd, fu visto una sera a Milano ad ascoltare con attenzione Mario Vargas Llosa, Nobel per la letteratura e irriducibile nemico di Garcia Marquez.

È che il rapporto fra il Pci e Cuba non è mai stato semplicissimo: grande attenzione e simpatia all’inizio, poi una certa diffidenza proprio per la natura un po’ eccentrica del comunismo cubano: andarono sull’isola Enrico Berlinguer e Luigi Pintor, Pietro Ingrao e Rossana Rossanda, tornando sempre con più perplessità che entusiasmi. E lasciando progressivamente il castrismo e il guevarismo alle fascinazioni sessantottine, e poi ai partiti minori della seconda Repubblica, dove si ricorda un «lunga vita, caro comandante», spedito da Fausto Bertinotti a Castro per i suoi ottant’anni nel 2006.

In fondo conta più quello che rappresenta di quello che è stato, purtroppo, così anche oggi non soltanto l’eterno Marco Rizzo, rivalutatore di Stalin, ma pure il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, possono ricordarlo come un liberatore, piuttosto che come un tiranno.

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Da - http://www.lastampa.it/2016/11/26/esteri/la-fascinazione-italiana-per-fidel-e-quel-grande-equivoco-romantico-qnWnE2q8p4oyNjp2ZzB5aM/pagina.html
6057  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / FEDERICO RAMPINI. Trump, marcia indietro che gela i sostenitori inserito:: Novembre 26, 2016, 09:10:40 pm
Trump, marcia indietro che gela i sostenitori

Il presidente Usa prende le distanze da tante promesse fatte in campagna elettorale soprattutto quella relativa alla riabilitazione delle energie fossili

Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI
22 novembre 2016

NEW YORK - Marcia indietro tutta, anche su Parigi? Donald Trump sta infliggendo una doccia fredda ai suoi sostenitori, prendendo le distanze da varie promesse della campagna elettorale. Già diversi siti e commentatori della destra radicale sono furiosi perché ha detto di non voler continuare le indagini su Hillary Clinton. Nei comizi le folle urlavano entusiaste "Lock her up" (mettetela in carcere), e perfino in un duello televisivo lui glielo disse in faccia, che avrebbe nominato uno "special prosecutor" per incriminarla. Scherzava. Ma fin qui, la retromarcia è comprensibile, perfino prevedibile. Si possono dire cose durissime in campagna elettorale, poi quando uno ha vinto volta pagina, e sotterra l'ascia di guerra. Tanto più che Hillary agli ultimi conteggi ha preso due milioni di voti in più di lui, accanirsi con inchieste giudiziarie contro di lei oltre che una brutta vendetta sarebbe un gesto che acutizzerebbe le divisioni di una nazione già lacerata.

Ma Parigi? Qui la questione è molto più delicata. Non solo Trump ha più volte detto di considerare il cambiamento climatico "una bufala" (o addirittura "un'invenzione dei cinesi per danneggiare la competitività dell'industria americana"); non solo ha promesso più volte di stracciare quegli accordi; inoltre ha inserito quelle promesse in un più generale piano di riabilitazione delle energie fossili, petrolio e carbone.

Oltre ad essere perfettamente in linea con la tradizione repubblicana (i Bush padre e figlio erano espressione della lobby Big Oil), quelle promesse gli valsero voti cruciali, ad esempio tra i minatori delle montagne Appalachian. Wall Street sale dalla sua elezione, anche perché le multinazionali energetiche festeggiano. La Famiglia Koch, potentato petrolchimico di destra che aveva avuto una certa freddezza verso Trump, ora lo appoggia. Insomma retrocedere sull'anti-ambientalismo non gli sarà facile.

Un'avvertenza ulteriore. La frase "possibilista" su Parigi, Trump l'ha pronunciata in queste ore nel corso di un incontro con la direzione e redazione del New York Times, quotidiano liberal che lo ha osteggiato e continua ad essere fortemente critico verso di lui. Trump - anche in questo fedele al suo modello Berlusconi? - ha una certa tendenza a plasmare la sua oratoria sui gusti di chi lo sta ascoltando. Gli piace piacere. Adora accattivarsi l'audience che ha davanti. Se domani sera lo intervistasse un giornalista alla O'Reilly o alla Hannity su Fox News, sarebbe capace di dire cose molto diverse da quelle che ha appena detto al New York Times.

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22 novembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2016/11/22/news/trump_parigi_accordo_distanza_da_promesse_campagna_elettorale-152581933/?ref=fbpr
6058  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / JACOPO IACOBONI. - Nel mirino l’uomo di Casaleggio. Grillo: “Da noi chi sbaglia inserito:: Novembre 26, 2016, 09:08:16 pm
Nel mirino l’uomo di Casaleggio. Grillo: “Da noi chi sbaglia paga”
Bugani: “Una trappola”. L’autore dell’esposto: “Sapeva e mise il like”

Pubblicato il 24/11/2016
Ultima modifica il 24/11/2016 alle ore 07:06

JACOPO IACOBONI
TORINO

Nella storia degli indagati M5S per le firme a Bologna, inutile girarci intorno, è Massimo Bugani l’uomo politicamente nel mirino. È uno dei tre membri dell’Associazione Rousseau (assieme a Davide Casaleggio e all’europarlamentare David Borrelli). Ha un ruolo importante nella piattaforma informatica. È stimato da Casaleggio junior, che lo considera persona di fiducia. Bugani, ha osservato ieri, ritiene che ci siano «giochetti in corso contro di noi a Bologna», per colpire lui e direttamente Beppe Grillo e Davide Casaleggio; e si sfoga tornando a evocare anche il «sabotaggio». Grillo sul blog fa una difesa d’ufficio ma poi dice: «Anche qualcuno di noi a volte sbaglia, ma state sicuri che pagherà, come sempre è accaduto e come sempre accadrà»: un modo per fare quadrato, sì, ma non una difesa senza se e senza ma di nessuno. Segno di una differenza da cogliere, tra il fondatore e il giro di Davide Casaleggio. 
 
La tesi di Bugani è che «siamo caduti o in un banale errore o in una trappola tesa da ex esponenti del Movimento allontanati». La sua testimonianza è che «Marco (Piazza, il suo braccio destro indagato) è scrupolosissimo. Se è accaduto qualcosa è stato fatto in assoluta buona fede, senza che lui ne sapesse nulla, o per danneggiarlo». Dice che loro sono prontissimi ad andare dagli inquirenti. E minaccia querele contro i suoi accusatori politici. Piazza fa sapere che se c’è l’avviso di garanzia si autosospenderà.
 
Gli accusatori però non arretrano affatto, per la minaccia di essere querelati. Anzi. Stefano Adani, uno dei due che materialmente hanno presentato l’esposto, ci dice: «Innanzitutto non sono episodi isolati. Ne citiamo quattro. Il banchetto al Circo Massimo, dunque con autenticatore fuori Regione, cosa vietata dalla legge. Due episodi a Bologna, di cui uno al circolo (usa proprio questa parola, «circolo») Mazzini, dove si raccoglievano firme che venivano autenticate dopo: è vietato. E almeno un altro accaduto a Vergato, comune dell’Appennino bolognese, dove arrivò un autenticatore da un altro paesino». Bugani cosa c’entra? Risponde Adani: «Fa parte dell’esposto che Bugani sapesse di almeno una delle cose illegali avvenute: su Facebook gli scrisse un militante mandandogli la foto della sua firma al Circo Massimo, e Bugani mise il like. C’è lo screenshot, pubblicato da Radio Città del Capo due anni fa. Poi il like Bugani l’ha cancellato, sostenendo che il suo tablet era finito nelle mani di un collaboratore che era d’accordo con noi. Cosa ovviamente non vera». Toccherà naturalmente ai magistrati verificare chi abbia ragione, sarebbe un caso di «like a sua insaputa».
Potrebbe finire dunque anche il braccio destro di Casaleggio nelle indagini? Adani non vuole rispondere sui nomi del suo esposto, ma aggiunge un dettaglio: «Non ci sono solo i quattro indagati: gli episodi dell’esposto documentano anche altre persone. E pensare che noi anni fa a Bologna andavamo ai banchetti del Pd per verificare e contestarle a loro, le firme false; poi nel Movimento c’è chi si è messo a fare le stesse cose». C’è mai stato un incontro tra loro e Bugani o Piazza? «Glielo abbiamo chiesto, non ci ha mai risposto».
 
Bologna e l’Emilia sono terre fondative, dei cinque stelle. Terre di guerre interne, di storie brutte come la lapidazione sessista di Federica Salsi, o come quella di Giulia Sarti messa sotto attacco per le mail. Una terra di grandi divisioni dentro il Movimento, tra ciò che poteva essere e ciò che è stato. Favia versus Bugani su tutte, con Favia che finisce fuori, il volto delle origini, il pupillo di Grillo. Ora Favia ci dice: «Il gruppo di Bugani non può sperare di cavarsela con l’ingenuità o l’ignoranza: vi dico per certo che sono persone che conoscono benissimo le leggi sulla raccolta delle firme. Perché fanno queste cose? Per l’arroganza di chi si sente ormai potente e può tutto».
 
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6059  Forum Pubblico / ESTERO fino al 18 agosto 2022. / Biografia del Lider Maximo: ecco chi era il padre della rivoluzione cubana inserito:: Novembre 26, 2016, 09:05:20 pm
Biografia del Lider Maximo: ecco chi era il padre della rivoluzione cubana
Mondo   
Fidel Castro, morto venerdì sera a 90 anni, ha guidato Cuba con il pugno di ferro quasi mezzo secolo

E’ stato uno dei principali e controversi personaggi politici della seconda metà del ventesimo secolo, simbolo della lotta antimperialista. “Condannatemi, non importa, la storia mi assolverà”, disse durante il processo per l’assalto alla Moncada, evento fallimentare ma che sarà ricordato come l’inizio della rivoluzione cubana. Una rivoluzione capace di resistere agli Stati Uniti, alla dissoluzione dell’impero sovietico, all’isolamento, su cui un giudizio unanime non sarà mai possibile. Fidel Castro, del quale il fratello Raul ha annunciato oggi la morte, nacque il 13 agosto 1926 a Biràn, un villaggio cubano nella provincia meridionale di Holguin, dove il padre possedeva 23.000 acri di piantagioni.

Dopo aver studiato a Santiago di Cuba si trasferì all’Avana, dove frequentò un esclusivo collegio gesuita, dal 1941 al 1945, per poi iscriversi alla facoltà di Diritto. All’università aderì alla lotta antimperialista, convinto del ruolo opprimente degli Stati Uniti sul destino di Cuba, schierandosi apertamente contro il presidente cubano, Ramon Grau.

La discesa in campo – Qualche anno dopo la laurea in legge si candida alle presidenziali, progetto subito frustrato per il golpe del 10 marzo di Fulgencio Batista. La sua risposta è l’assalto alla Caserma della Moncada, il 26 luglio 1953. Per Fidel fu un disastro: i ribelli vennero catturati e 80 di loro fucilati. Castro è condannato a 15 anni di prigione e, nella sua difesa finale, pronuncia il famoso discorso su “La storia mi assolverà”, in cui delinea il suo sogno rivoluzionario.

L’esilio in America e l’incontro con il Che – Dopo il carcere, amnistiato, va in esilio negli Usa, poi in Messico: è qui che conosce Ernesto Guevara. Insieme al “Che”, Raul ed altri 79 volontari, nel ’56 sbarca nell’isola a bordo del “Granma”. Il gruppo, sorpreso dalle truppe di Batista, viene decimato: in 21 riescono a rifugiarsi nella Sierra Maestra. I due anni di guerriglia mettono alle corde il dittatore. Il primo gennaio 1959, i “barbudos” entrano trionfalmente a L’Avana. Castro lo fa qualche giorno dopo. Fino al trionfo della “revolucion”, l’isola viveva del commercio con Washington.

La presa del potere – Dopo la presa del potere di Fidel, il Paese divenne un campo di battaglia della “guerra fredda”. Cuba riesce comunque a resistere al duro embargo americano e ad un attacco militare, quello della “Baia dei Porci”, organizzato dalla Cia formato da cubani reclutati all’estero. E’ poi stata al centro della crisi dei missili nel 1962 che ha rischiato di trascinare il mondo in una guerra nucleare mondiale.
Nemico numero uno della Casa Bianca – Forte di un inossidabile carisma e affascinante capacità oratoria, Fidel è stato per decenni il “nemico numero uno” di Washington: con il risultato che, mentre accresceva la sua dipendenza dall’Urss, appoggiava i movimenti marxisti e le guerriglie in America Latina ed in Africa, diventando tra i leader del movimento dei Paesi non Allineati.

Il matrimonio – Nel frattempo, si sposa con Dalia Soto del Valle. Hanno cinque figli: Alexis, Alexander, Alejandro, Antonio e Angel. Il Lider Maximo, con una vita privata nella quale realtà e mito s’intrecciano, è “sopravvissuto” a dieci presidenti Usa e – ha più volte ricordato – a 600 attentati. Perfino nel crepuscolo del suo mandato, Fidel e il sistema politico cubano sono riusciti nel bene e nel male a resistere alla disintegrazione socialista e al crollo dell’Urss nel ’91.

Fidel Castro il “Comandante” – Per i cubani, Castro è stato il “Comandante”, oppure semplicemente Fidel, sul quale sono state costruite tante ‘storie': “non dorme mai”, “non scorda nulla”, “è capace di penetrarti con lo sguardo e sapere chi sei”, “non commette sbagli”. Castro ha d’altro lato esibito una devozione per le cifre e dati, nascondendo caratteristiche come il pudore e lo scarso interesse, raro per un cubano, per la musica e il ballo.

La malattia – Ha sempre avuto una salute di ferro fino all’improvvisa e grave emorragia all’intestino avuta al rientro di un viaggio dall’Argentina poco prima di compiere 80 anni. Malato, dopo aver delegato il potere al fratello Raul – prima in modo provvisorio il 31 luglio 2006, poi definitivamente nel febbraio 2008 – ha così cominciato il conto alla rovescia verso la fine di una vita leggendaria.

La fine di un’era – L’era di Fidel si scioglie lentamente, in mezzo a una nuova Cuba ogni volta più “raulista”, tra una serie di riforme economiche e la mano ferma del potere sul fronte politico: di sicuro una transizione, la cui portata è però difficile da capire. La data chiave della nuova era è il 17 dicembre 2014: quel giorno, a sorpresa e con la mediazione di Bergoglio, L’Avana e Washington annunciano il “disgelo” bilaterale.

Fidel assiste da lontano, ogni tanto scrive qualcosa ribadendo concetti quali la “sovranità nazionale” e il “no all’impero”. Ma in sostanza a dettare il ritmo dei cambiamenti ormai è Raul. “Ucciso” più volte dalle reti sociali, e con lunghi periodi di assenza dal pubblico, i limiti al suo mandato Fidel li aveva fissati nel 2003, dirigendosi ai cubani: “Rimarrò con voi, se lo volete, finché avrò la consapevolezza di potere essere utile, se prima non lo decide la stessa natura. Né un un minuto prima né un secondo dopo”.

Da - http://www.unita.tv/focus/biografia-fidel-castro-chi-era-il-padre-rivoluzione-cubana/
6060  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / Nicoletta Cottone Pa, Renzi: «Trionfo della burocrazia, da 20 anni cavilli ... inserito:: Novembre 26, 2016, 09:02:57 pm
Firma del patto con Venezia
Pa, Renzi: «Trionfo della burocrazia, da 20 anni cavilli bloccano il Paese»

Di Nicoletta Cottone 26 novembre 2016

«Le città sono le vere protagoniste del futuro. Federalismo non è utilizzare una distorta applicazione del titolo quinto per bloccare, attraverso norme procedimentali, la possibilità di licenziare i dirigenti che non funzionano». Lo ha detto il presidente del consiglio Matteo Renzi, alla firma del patto per Venezia, all’indomani della sentenza della Corte costituzionale sulla riforma Madia.

La sentenza ha dichiarato illegittime le parti in cui è previsto che l’attuazione della riforma possa avvenire con il semplice parere della Conferenza Stato-Regioni (mentre serve invece prima l’intesa con le regioni).

Vogliamo scardinare la burocrazia
«Quello che è accaduto in queste ore - ha dichiarato Renzi- è il trionfo della burocrazia. Perché noi abbiamo chiesto il parere e invece ci voleva l’intesa. Noi non vogliamo scardinare il federalismo. Vogliamo scardinare la burocrazia. Se cosa si fa in una città lo decide la città, io mi sento più tranquillo che se lo decidono i burocrati romani. Federalismo non è utilizzare ogni cavillo per bloccare lo sviluppo del paese. Sono venti anni che ci bloccano».

    Meglio quando si stava peggio? Così il Paese è finito
«Oggi - ha detto ancora il premier - se vivete di nostalgia siamo finiti, se pensate che si possa tornare ai gloriosi racconti di quanto si stava meglio quando si stava peggio, siamo finiti».

La firma del patto per Venezia
Intanto Renzi e il sindaco Luigi Brugnaro hanno siglato, a Ca' Farsetti, il Patto per Venezia. «Nel momento in cui si firma un patto - ha detto Renzi - ci si impegna a lavorare per i nostri figli». Il primo cittadino di Venezia Luigi Brugnaro ha sottolineato come il Patto per Venezia sia il frutto di un anno di lavoro tra la città ed il Governo. Per Renzi, il Patto è un segno di federalismo dove il Governo accoglie una serie di problematiche, ma lascia alla città, che il sindaco lo ha eletto, le scelte operative.

Emergenza: ora serve progettare
«L’Italia è abituata a gestire l’emergenza ma bisogna essere bravi anche sulla progettazione, ingegnerizzazione e architettura del Paese», ha detto Renzi nel suo intervento per la firma del Patto di Venezia a Venezia. «Siamo abituati a gestire l’emergenza come è avvenuto ad Alessandria che ha dovuto evacuare delle persone, oggi nel pomeriggio incontrerò i sindaci del savonese abbiamo ben chiare anche le difficoltà di Sicilia e Calabria. Seguiamo emergenza». Ha reso noto che la prossima settimana tornerà a visitare le zone terremotate, come ha fatto ieri il presidente Mattarella. «Il nostro Paese è in grado di affrontare un'emergenza quotidiana, merito straordinario della protezione civile, sull’emergenza l’Italia è efficace. Ma non basta essere bravi sull’emergenza bisogna essere bravi sulla progettazione. È mancato un lavoro di ingegnerizzazione e architettura del nostro paese, e l’idea dei patti come quello di oggi con Venezia nasce dal bisogno di tenere tutti insieme fili nella giusta direzione», ha detto il premier.

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2016-11-26/pa-renzi-trionfo-burocrazia-20-anni-cavilli-bloccano-paese-100447.shtml?uuid=ADlLvW2B
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