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6061  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / DOMENICO QUIRICO - Il racconto di un estone: «Costiamo meno dei militari ... inserito:: Novembre 26, 2016, 09:01:26 pm
“La mia vita da mercenario assoldato dalle compagnie per sparare ai pirati”
Il racconto di un estone: «Costiamo meno dei militari regolari. Per 3 mila dollari risolviamo problemi, anche con mezzi illegali»
Ci sarebbe un miliardario giordano dietro alla società che utilizza quattro navi e oltre 300 mercenari per la lotta contro i pirati in tutto il mondo


Pubblicato il 26/11/2016 Ultima modifica il 26/11/2016 alle ore 07:26
Domenico Quirico Inviato ad Anversa

Veniva chiamato… come veniva chiamato? Non lo so, non fatemene una colpa. Innanzitutto tra noi non c’era intimità, uno incontrato in un bar vicino al porto di Anversa, un locale sporco, odore di birra da poco prezzo, un ragazzo dal colore giallo di meticcio stava lavando il pavimento, in un angolo una donna dagli occhi apatici, una prostituta, aspettava, già alle nove del mattino, qualche cliente disperato.

E poi lui, quando si presentava, tirava fuori sempre nuove identità. A me ha dato il nome di battaglia, Lembitu, un eroe estone del Medioevo che aveva combattuto contro i re danesi, mi ha spiegato. 

Ma chissà quanti ne aveva di questi nomi di battaglia, uno per porto e per contratto, a Gibuti, in Sri Lanka, in Sud Africa, ad Aden. Allora per noi sarà per sempre Lembitu, mercenario estone e cacciatore di pirati, capace di raccontare storie selvagge e terribili di guerra e di mare. Perché mentre cinque o sei flotte internazionali pattugliano pigramente l’Oceano Indiano al costo di tre milioni di euro al giorno e il problema dei pirati somali è ufficialmente risolto, Lembitu su una nave di mastini della guerra assoldati in mezzo mondo, e pagati dagli armatori, dà loro la caccia senza rispettare leggi e regole internazionali, semplicemente per ucciderli. 

Ho incontrato molti combattenti duri, senza pietà, li riconosco dal volto, torva espressione di cacciatori di uomini dalle labbra compresse e dallo sguardo aguzzo. Eppure fin dall’inizio, ad Anversa, avevo la certezza che lui fosse un uomo avido di recitare la propria biografia come un attore recita una parte. Ricordo, e ricorderò a lungo, l’incontro con l’estone. Si aprì e si chiuse in quel caffè del porto come una ferita. Questo è il suo racconto. Da ascoltare con gli occhi chiusi.

AFP
(Gli assalti dei pirati sono un fenomeno in calo a livello globale. Ma in alcune zone, come in Asia, sono aumentati nell’ultimo anno) 

«…Hai sentito che freddo fuori? Dio, se mi capitasse di trovarmi di nuovo in una buona tempesta di neve, di quelle del mio Paese! Giuro che mi spoglierei nudo e mi rotolerei dentro. Quando ero in Afghanistan con il contingente estone ci gettavamo nella neve senza niente addosso. E quegli stronzi di afghani intirizziti nelle loro palandrane ci guardavano con gli occhi fuori. Ma non erano solo risate. L’Afghanistan sono montagne e le montagne se fai la guerra sono una gran fregatura. Tutto quello che ti serve devi portartelo dietro, ti servono munizioni e infili caricatori di zinco e mezza cassa di granate in tutte le tasche, nello zaino, le appendi alla cintura. Ti segano all’inguine e alle cosce, ti pesano sul collo. 

Adesso, da quando lavoro in mare, son solo luoghi caldi. Troppo, alla malora. Non posso più soffrire il mare. Non riesco a guardarlo senza sentire l’odore di quella nave schifosa, il tanfo del gabinetto otturato. Stiamo sempre in mutande, o nudi, a 42 gradi, i volti sfatti, le guance setolose, tutti scuri come negri, anonimi, puzziamo. Proprio una bella tribù di guerrieri.

E pensare che la prima volta che ho visto la nave “Ohio” mi era sembrata proprio a puntino. Forse era merito del mare, di quel mare. L’Oceano Indiano è diverso da quello delle mie parti, fosco, scuro, avvolto da nebbie. Ah, se me lo ricordo il primo giorno di ingaggio. Mentre su un gommone, all’alba ci avvicinavamo, la “Ohio” ci aspettava al largo dello Sri Lanka in acque internazionali fuori dalla curiosità della legge, il mare ancora dormiva oppresso dal grande caldo umido e pesante. Un vapore gravava su quella distesa immensa di silenzio. Poi in pochi minuti il cielo si arrossa, il mare diventa di madreperla, sonnolento, sotto il sole di fuoco riflette il cielo blu che gli assomiglia ma un poco più pallido. Una massa grigia con brillanti righe rosse dipinte sul fumaiolo e sulle murate si stacca davanti a noi. Dai, è quella. Cacciapirati “Ohio”, quarantacinque metri di ferraglia appena verniciata, trecento tonnellate messe insieme negli Anni Ottanta nei cantieri giapponesi come guardiacoste e un’enorme scritta in nero “Sea Man guard”. Il guardiano del mare. Così da lontano sembrava davvero una vera nave da guerra di qualche marina ufficiale. Era quello il primo trucco, l’avrei scoperto poi. 
 
REUTERS
Tre giorni avevamo aspettato la chiamata in quel sudicio albergo di Colombo. L’aria anche di notte si incollava alla pelle come una mano molle. Gli altri, gli altri ingaggiati, li avevo riconosciuti subito tra i clienti: grossi, i movimenti a scatti tipici dei militari, gli zaini enormi con dentro tutta la vita, c’erano altri due estoni e alcuni inglesi. Per me era la prima volta e non volevo farlo capire. Ancora non ci credevo. La “Advant Fort” aveva risposto alla mia richiesta di ingaggio! Tremila dollari al mese depositati sul conto in banca che gli indichi tu e sarebbero stati quattromila se fossi stato capo team. Ma non avevo titoli sufficienti, c’era gente lì che aveva fatto almeno un paio di guerre vere, reduci o disertori della Legione, ex Sas, qualche russo degli Spetnaz. Sono tempi duri, c’è troppa domanda, migliaia che si offrono per qualsiasi cosa preveda un fucile in mano e la possibilità di sparare e così quei bastardi della “Advant Fort” possono offrire contratti da fame.
Bella storia, stai a sentire. C’è un miliardario giordano che vive in Inghilterra, il signor Samir Farajallah, che fonda una società per distruggere i pirati nell’oceano indiano senza badare ai mezzi. Ha trecento mercenari, quattro navi, una sede in Virginia con ammiragli americani in pensione e gente dell’intelligence navale nel consiglio di amministrazione. Tanto per avere le spalle coperte. Gli armatori di tutto il mondo lo pagano perché costa meno dell’ingaggio dei militari regolari e garantisce i risultati. Con ogni mezzo.

Insomma, per raccontarti come è andata: mando la richiesta, un estone che si occupa degli arruolati del mio Paese mi contatta via Skype, mi arriva il biglietto aereo per Colombo ed eccomi qui. Ti verremo a cercare, aspetta. E infatti: saliamo a bordo della “Ohio”, il ponte sembra bello, è lustro, non c’è ruggine. La nave rulla ma in modo bonario, è piena di scricchiolii familiari. Lo scafo sembra solido e parla di viaggi che dobbiamo fare insieme e delle fatiche sopportate sulle strade del mare antiche come il mondo e nuove come i passaggi che lo solcano. Siamo una trentina di militari da molti posti, più o meno tutti parlano l’inglese. E poi ci sono sei uomini dell’equipaggio più il capitano, tutti indiani. Accoccolati a poppa gli indiani parlano tra loro fitto fitto, a voce bassa, fino a notte tarda.

Ma era sotto coperta che c’erano i guai. Nessuna doccia, l’acqua te la rovesciavi addosso, acqua gialla, puzzolente, non filtrata che dovevi usare anche per lavarti i denti, dopo tre giorni tutti avevano la dissenteria, il gabinetto otturato, odore acre di sudore che si fonde coi fetori soliti delle stive. E faceva così caldo, il termometro sale ogni giorno, i soli girano, i giorni mentre tagliamo i fusi orari finiscono per fondersi in un’unica luce appannata e abbagliante che acceca gli occhi. Così abbiamo cominciato a tuffarci in mare. Il capitano ci ha avvertito, attenti ragazzi non li vedete ma qui è pieno di squali. Chi se ne frega. Il giochino era chi non si butta è un coniglio e allora per non perdere la faccia giù in acqua. Il cibo era uno schifo totale, riso con dentro le formiche che camminavano e il cuoco, un criminale, che diceva: ma non siete contenti? Son tutte vitamine in più. 

Sai: non si diventa amici su una nave così; ci si è divide a seconda dei gruppi nazionali, si sta con gli estoni. E poi di che vuoi parlare? Di donne, delle ore a mostrarsele sui telefonini, quella più nuda e quella più puttana. Su una cosa tutti d’accordo, essenziale è non conoscere la donna con cui si va, non ha che da esser questo: sesso, l’altro sesso. 

C’era una playstation sulla nave, che lusso, e si faceva ginnastica sul ponte per ore: per stancarsi, per far passare il tempo. Raccontano che la compagnia ha un’altra nave che fa solo appoggio in mare ovvero porta viveri e munizioni ai “cacciatori” come la “Ohio”, si chiama “Sultan”, la comanda pare un italiano e tiene a bordo anche la moglie nigeriana, uno splendore. Dicono che ci sia internet a bordo e una palestra, io non l’ho mai vista e forse son solo cazzate.

La nave è come il carcere: dopo tre giorni sai tutto degli altri e gli altri di te, come reagiscono alla fatica, quello che non si lava perché l’acqua è sporca e quello che non si lava perché è un sudicio. Ci sono dei pazzi lì, un inglese che ogni tanto saltava sul ponte urlando e cominciava a sparare raffiche di mitra in tutte le direzioni. Ci sono anche le notti, in mare. Senti che tutto dentro di te si indurisce, si attorciglia, e si mette in guardia. Gli occhi vedono meglio, l’udito si affina come nei gatti. La tensione è alta, ti aspetti tutto e sei pronto a tutto.

C’è il momento in cui ti accorgi che sei entrato nella zona calda, ci siamo e cominci a pensare: cazzo, sei solo su questa nave schifosa abbandonato da tutti, se ti succede qualcosa ti pagheranno? Saltano i nervi, scoppiano risse feroci per una parola, qualcuno resta a terra nel sangue, e il capo sta a guardare.

Vivi con i tuoi pensieri, la nave ti entra nel sangue, diventa tutto per te, esci dalla realtà, non hai nulla da fare se non sparare a qualcuno che non sai chi è, il mondo diventa diverso, non so come spiegarti, non tutti ce la fanno, esser un militare non basta. Hai paura, sì, lo sai che fai cose illegali e puoi essere arrestato. E allora ti ripeti: ma sì quelli son pirati, se possono ti uccidono e allora, chissenefrega, spara.

Adesso vuoi sapere del nostro lavoro: quello normale è la scorta sulle navi, una squadra di tre uomini sale armata e già questo è al limite delle regole della navigazione. Guarda che non è uno scherzo. Salire a bordo per esempio: i mercantili non rallentano per caricarti, il tempo è denaro per gli armatori e allora accosti con un gommone una nave che se è vuota naviga a quindici nodi e cerchi di tirarti su con una scala di corda che ti gettano dalle murate alte come un grattacielo. Se non sei attento e svelto il movimento delle onde ti inchioda tra la fiancata e il barchino. Gambe fracassate, se sei fortunato.

Ma quello è niente. Un giorno il capo, un inglese alcolizzato, ex Sas, comincia a gridare: attivazione! Attivazione! Eravamo davanti a Merka si vedevano le casette bianche. Eravamo dunque armati in acque territoriali somale. Qui incrociamo altri barchini dei pirati, più a nord ci sono quelli di Eyl che si fanno chiamare «guardiacosta somali» e quelli di Haradere, i «marines somali». Che stronzi. Allora: attivazione! Ve la facciamo vedere noi, marines. 

Prendiamo le armi e corriamo alle murate. Davanti a noi c’è una piccola imbarcazione, sembra un peschereccio, i colori squamati dal tempo. Pirati? Non so come ne fossero certi, erano in contatto radio con la centrale della compagnia, può darsi che quelli abbiano informazioni. Comunque chi li conosce? All’ordine cominciamo a sparare all’impazzata. Per questo ci pagano, no? In mare il colpo singolo lo dimentichi, i cecchini se li mangia il movimento delle onde. Quello che devi fare è scaricare trenta colpi, tutto il caricatore, a raffica, senza prender fiato.

Dal barchino mi pare che rispondano al fuoco, sì, sono colpi che fanno risuonare le fiancate della “Ohio”. Ma dura poco, ormai il battello somalo è così sforacchiato che si è inclinato. Non si vede più nessuno. Fine. «Tutti sotto coperta - grida l’inglese - tutti sotto coperta branco di fottuti. Non so: forse non vuole che assistiamo al controllo dei morti. E al dopo: il fuoco o un buco nella stiva per far affondare il battello. Non bisogna lasciar tracce. Tre volte abbiano attaccato i «pirati».

Una volta, da lontano, prima di sparare mi è sembrato che sulla barca si agitassero dei ragazzini. “Ferma”, ho detto a un altro estone che stava accanto a me, non sparare, sono bambini. “Idiota, non sai che i somali addestrano i ragazzini alla pirateria spedendoli a fare da esca controllando se le navi sono armate? Spara prima che ti ammazzino loro”. 

Una notte il capitano era ubriaco: ha cominciato a gridare andiamo a divertirci un po’. Abbiamo virato verso terra, si vedevano luci sulla costa poi una più piccola in mare che ondeggiava al moto delle onde. Abbiamo iniziato a sparare come se fossimo pazzi, caricatori su caricatori, gridavamo come belve, come se su quella barca ci fossero tutti i guai e i fantasmi della nostra vita. Spero fossero davvero pirati perché non è rimasto molto di loro. La lucina si è spenta. Silenzio».

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Da - http://www.lastampa.it/2016/11/26/esteri/la-mia-vita-da-mercenario-assoldato-dalle-compagnie-per-sparare-ai-pirati-Sy8aEnJcYDjzSQrkYuWiFN/pagina.html
6062  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / Rosi BRAIDOTTI, Il postumano inserito:: Novembre 23, 2016, 07:54:24 pm
Rosi BRAIDOTTI, Il postumano

Il testo di Rosi Braidotti Il postumano. La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte è molto interessante per comprendere il postumanesimo affidandosi alla viva voce di una delle protagoniste di questo nuovo orizzonte filosofico. Il postumanesimo è ormai un campo di studi ben strutturato e ha messo in moto un notevole fermento culturale che interseca, in vari modi, l’analisi antropologica sulla soggettività che sarà destinata ad abitare la terra. Un libro molto importante che, insieme a quelli di autori come Haraway, Marchesini e Graham, riesce ad offrire uno spaccato su come intendere quel post: non semplicemente un luogo futuro di creature tecnologicamente umanoidi ma lo spazio inedito di comprensione della realtà e dell’umano. 

Il testo, infatti, si libera dalla “nostalgia” di un umanesimo ormai in crisi per cercare di cogliere nel migliore dei modi le opportunità teoretiche, politiche e sociali di questa nuova condizione di esistenza. Il pensiero della Braidotti si sviluppa su di un doppio movimento: un postumanismo critico e un postumanismo affermativo. In primo luogo, si vuole assumere in positivo lo smascheramento che gli studi di genere, quelli postcoloniali e quelli ambientali hanno inflitto all'antropocentrismo esasperato della nostra cultura che ha rintracciato nella separazione e nell’umiliazione delle alterità divergenti dal tipo “Uomo” la cifra della propria identità e delle propria grandezza. In secondo luogo, penetra senza paura nello scenario attuale, in cui le invasioni tecnologhe obbligano la filosofia ad una ridefinizione dei concetti di morte, di specie e di individuo offrendo possibili modi di articolare l’etica, la politica e la vita alla luce di un approccio antropodecentrato e antiumano, proprio perché postumano.

Secondo la Braidotti, infatti, ogni vivente - specialmente l’uomo - si deve scoprire come sintesi di un divenire nomade, costituito nella sua transitorietà da processi umani e non-umani, organici e inorganici, politici e sociali. Contro la dicotomia di natura e cultura che ha segnato l’identità unitaria dell’uomo dell’Umanesimo, si sostituisce un soggetto critico non unitario, un “soggetto relazionale determinato nella e dalla molteplicità, che vuol dire un soggetto in grado di operare sulle differenze ma anche internamente differenziato, eppure ancora radicato e responsabile” (p. 57).

Tale scoperta non deve però ignorare la possibilità di una estrema colonizzazione della vita da parte dei mercati e della logica del profitto, possibilità che invece il postumanesimo può scongiurare alla luce di una consapevolezza etica e politica che le tecnologie hanno inaugurato nell’ultimo secolo. I risultati bio-ingegneristici raggiunti con la pecora Dolly e promessi dalla genetica applicata alla vita non equivalgono necessariamente alla comparsa di un nuovo mondo distopico e alienante, ma possono essere il punto di partenza per una nuova coscienza ontologica dell’essere umano nei confronti delle altre soggettività che abitano, a vario titolo, il pianeta. È necessario, proprio per questo, un approccio zoe-centrato, laddove per zoe si intenda la nuda vita nei suoi aspetti non-umani, che si articola secondo i vettori del divenire-animale, del divenire terra e del divenire-macchina già indagati dalla filosofia di Deleuze e Guattari.

Infatti, a chiusura del testo, la Braidotti afferma: «non ho nessuna nostalgia dell’Uomo, misura presunta di tutte le cose, o per le forme del sapere e dell’autorappresentazione che le accompagnano. Accolgo ben volentieri gli orizzonti multipli dispiegati dal crollo dell’umanesimo eurocentrico e androcentrico. Interpreto la svolta postumana come una felice opportunità di decidere insieme chi e cosa vogliamo divenire» (p. 204).

Il Postumano rappresenta un buon punto di partenza sulla “questione” postumana, che aiuta il lettore sia nella sua comprensione, sia nella presa di posizione di fronte alle sue argomentazioni. È innegabile, infatti, che alcune categorie “classiche” con cui l’uomo ha spiegato se stesso mostrino ormai la corda, richiedendo così la messa in questione dei dispositivi sociali di creazione e gestione delle identità. La Braidotti afferma che la soggettività è «un processo di autopoiesi e autocreazione del sé, che include complesse e continue negoziazioni con la norma e i valori dominanti e dunque molteplici forme di responsabilità» (p. 43); ma così facendo la questione etica postumana rimane legata ad una incertezza costitutiva dell’azione, che più che risolvere la magna quaestio su che cosa sia l’uomo lo dissolve verso qualcos’altro di indefinibile ed indefinito. Se è vero che l’ente che va sotto il nome di uomo è un costrutto teorico segnato da alcune storture, è altrettanto vero che il compito della filosofia rimane quello di indagarlo con maggiore attenzione. Eliminare la difficile domanda su che cosa sia l’uomo, infatti, rischia di compromettere la risposta sul come, egli, voglia effettivamente vivere.

Il testo della Braidotti, in conclusione, rimane un ottimo strumento per comprendere lo status quaestionis della riflessione filosofica contemporanea sul postumano e, nel contempo, un utile aggiornamento per chi vuole addentrarsi ancora di più nella sua comprensione grazie allo sforzo dell’Autrice di indagare molti aspetti delle tecnologie contemporanee, come il moderno warfare e gli aspetti necropolitici delle nostre società. Un testo che tira le fila su di una realtà che, volenti o nolenti, ci obbliga ad una riflessione non più accidentale ma più che mai vicina, prossima e tangibile.

 R. Braidotti, Il postumano. La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte, DeriveApprodi, Roma 2014, pp. 223.
 

Giorgio TINTINO

Da - http://www.unimc.it/filosoficamente/libri-approfondimenti/rosi-braidotti-il-postumano
6063  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / Rosi BRAIDOTTI, Il postumano. Intervista di Sibilla Destefani inserito:: Novembre 23, 2016, 07:53:17 pm
Il postumano.

La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte
A colloquio con la filosofa Rosi Braidotti, ospite d’onore del ventiseiesimo Congresso annuale degli studi d’italianistica che si apre domani a Zurig
o.
 
Di Sibilla Destefani

Il ventiseiesimo Congresso annuale dell’Associazione americana degli studi di Italianistica per la prima volta nella sua storia avrà luogo in Svizzera. L’intervento della filosofa femminista Rosi Braidotti – già direttrice del Centre for the Humanities dell’università di Utrecht – s’intitola Paradossi postumani e si terrà sabato 24 maggio alle 17:30 nell’aula magna dell’Università di Zurigo.

Viviamo in un’epoca di grandi contraddizioni, marcata da una recrudescenza della violenza, in particolare sulle donne e sui civili, ma anche perpetrata dai più giovani contro i più giovani: le stragi di massa nelle scuole americane, ma recentemente anche in numerosi paesi europei, sono tristemente entrate a far parte dell’attualità quotidiana. Allo stesso tempo, il nostro è un secolo di grandissimo progresso tecnologico, sia dal punto di vista civile che militare: possiamo clonare le pecore e fecondare artificialmente un essere umano, e allo stesso tempo un ragazzo di Las Vegas può far decollare un drone da una base militare situata in Sicilia e lanciarlo contro il fuoristrada su cui si sta consumando l’ultima fuga di Muammar Gaddafi. Contraddizioni, tensioni, ansie e conflitti che non mancano di caratterizzare la quotidianità di un Occidente in crisi identitaria, economica e morale che sembra aver perduto, insieme con i privilegi di prima potenza mondiale, anche un po’ di lucidità. L’ultimo libro della filosofa italo-australiana Rosi Braidotti a tale crisi generalizzata dà il nome di Postumano. Un termine che ritroveremo anche nel suo intervento di sabato a Zurigo.

Rosi Braidotti, cominciamo proprio dal titolo del suo libro, che non manca di suscitare interrogativi e perplessità: che cos’è il postumano?
Il postumano non è un concetto filosofico: si tratta piuttosto di uno strumento di lavoro per cercare di comprendere le conseguenze delle mutazioni in atto sia in campo scientifico (con la rivoluzione bio-tecnologica che segna il passaggio al nuovo secolo) che in campo sociologico, in particolare per ciò che concerne la nostra visione dell’umano. Non ci siamo mai interrogati fino in fondo sull’umano in quanto appartenente alla specie Antropos, con tutto ciò che implica. Il postumano è un tentativo di mettere a fuoco un campo di domande aperte e di paradossi legati alla nostra epoca e alla nostra specie.



Il termine “postumano” implica un prima diverso, altro. Che cosa segna, secondo Lei, il passaggio dall’umano al postumano?
In realtà si tratta di un doppio passaggio: c’è un post-umano nel senso di passaggio al di là dell’umanesimo, che è una cosa, e poi c’è un post-umano diverso, inesplorato dalle scienze umane, segnato dalla fine dell’antropocentrismo. La critica dell’umanesimo è un discorso antico quanto l’umanesimo stesso, che si accentua a partire da Nietzsche per poi subire la sua débâcle definitiva dopo la Seconda guerra mondiale. Questo ultimo aspetto è stato messo in rilievo da Adorno e dalla Scuola di Francoforte, e poi anche dal movimento del Sessantotto, che si oppone ad un umanesimo dominante e repressivo, implicato nell’esclusione, spesso violenta, di tante categorie di esseri che non sono considerati umani, o almeno non allo stesso del modello culturale che sottintende: maschio, bianco, eterosessuale. Quello sull’antropocentrismo è un discorso diverso: potremmo riassumerlo come un confronto tra due tipi di approccio alla conoscenza, in particolare tra le scienze della vita e le scienze umane. Queste ultime non hanno mai messo in discussione l’idea di antropos come specie dominante e aggressiva, padrona del mondo. La rivoluzione biomolecolare e biogenetica degli ultimi decenni, al contrario, ha già oltrepassato l’idea di antropocentrismo: la vita è diventato un soggetto trasversale che implica tutte le specie, non più riducibile al solo essere umano. In questo senso siamo già in un mondo post-umano.

L’edizione italiana del Suo libro porta un sottotitolo che a prima vista potrebbe risultare un po’ oscuro: “la vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte”. Tre concetti chiave che suggeriscono l’infrazione di tre tabù fondamentali: la nozione di individuo, l’appartenenza ad una specie ‘umana’ e l’ineluttabilità della morte sembrerebbero essere gli ultimi dati certi di un secolo incerto. Perché allora questo avverbio, oltre, che definisce uno spostamento? E di che tipo di spostamento stiamo parlando?
Ancora una volta, il discorso è riconducibile alla fine della centralità di antropos e alla rivoluzione genetica e biomolecolare: la vita è un concetto trasversale che implica tutte le specie. In questo senso, non è un caso che la robotica ricorra, per le sue ricerche, alle percezioni e alle capacità di altri esseri viventi, come il fiuto dei cani, per esempio, o il sonar dei delfini. La vita spezza l’eccezionalità dell’umano. Ciò era stato previsto da Foucault, che ben rilevava la morte dell’uomo in quanto individuo in cambio di un nuovo concetto di vita trasversale che ci permette, per esempio, di attuare la rivoluzione genetica contemporanea: noi condividiamo il 98% del nostro codice genetico con altre specie animali; la differenza è minima. Siamo oltre l’individuo, oltre la specie e anche oltre la morte: il codice genetico che contiene saggezza accumulata dalla nostra e dalle altre specie è indifferente alla morte del singolo. C’è una grande differenza tra la morte personale e la morte impersonale già intuita da Spinoza: la sopravvivenza della specie è molto più importante che non la sopravvivenza dell’individuo.

Lei mette in avanti un’antropologia di stampo monistico e radicalmente materialistico; eppure il mondo attuale sembra essere assetato di spiritualità. La notizia della conversione di Madonna all’ebraismo, ma anche quelle di giovani occidentali che si convertono all’islamismo radicale e fuggono dalle loro case per combattere la jihad, o ancora le masse oceaniche di ragazzi e ragazze accorsi a Rio de Janeiro per ascoltare Papa Francesco: sono tutti segnali, per quanto confusi, di una sete di qualcosa. Come analizza Rosi Braidotti tali fenomeni? E come conciliare il risveglio religioso con il suo materialismo radicale?
Il materialismo per me non è sinonimo di ateismo. Solo nel marxismo, nella filosofia hegelo-marxista, esiste questa equazione immediata tra essere materialisti ed essere atei. Se ci avviciniamo al materialismo a partire da Spinoza siamo confrontati con un discorso diverso: la materia è complessa e diversificata, non limitabile ad una serie di opposti. Non possiamo spaccare il mondo in due, come fanno i dualisti; non si può definire la natura come l’opposto della cultura, lo spirito come il contrario della materia. I nostri corpi, per esempio, sono un continuum di natura-cultura completamente socializzati, attraversati dai media, dall’estetica, dalla medicina e dalla visualità: che cosa c’è di naturale in tutto questo? Lo stesso discorso è applicabile alle religioni, o alle nuove forme di religione, come le definirei io. Anche qui si può parlare di una posterità: io la definisco postlaicità. C’è un bisogno di ritualità e sì, anche di spiritualità. Le nuove forme di spiritualità post-laica si realizzano al di fuori delle religioni tradizionali: basti pensare ai grandi concerti, che non sono altro che messe massicce all’aria aperta. La gente ci va perché cerca appartenenza, cerca riti comuni. In questo senso siamo in una sorta di neo-tribalismo. Anche i riti alternativi che segnano la mia generazione rientrano in questo discorso: gente non credente, ma che ad un certo punto sente il bisogno di ritualizzare. In questo senso la spiritualità non è inconciliabile con il materialismo. Anzi.

Nel suo libro, così come anche in numerosi interventi pubblici degli ultimi mesi, lei ha stigmatizzato ciò che definisce come un neoumanesimo sociale insito nel discorso pubblico. In un’intervista recente, per esempio, ha dichiarato la necessità di un’etica nuova, adatta al nuovo mondo postumano. Un’etica postumana, per dirla con le sue parole. Potrebbe spiegare che cosa intende? Quali dovrebbero essere questi nuovi valori postumani?
Il mio punto di partenza è un’opposizione radicale all’individualismo. Secondo me quello di individuo è un concetto sfinito, che non ha più niente da dire. Bisogna partire da un soggetto non unitario, trasversale e relazionale: non da una forza, bensì da un gruppo di forze, dall’assembramento dei soggetti e delle relazioni. La morale individualista di stampo kantiano ormai non significa più niente, non è più in grado di fornire risposte. Si usano parole vecchie in un mondo nuovo, e questo è inutile, anzi dannoso: c’è un costante tentativo di riportare tutto indietro, ad una presunta morale naturale che non è mai esistita, ce la siamo inventata noi. Io propongo un discorso diverso incentrato sull’idea di libertà. E anche su quella di coraggio: dobbiamo avere il coraggio di osare le nostre fantasie, di esplorare le nuove possibilità sviluppate dalla rivoluzione tecnologica. Prendi il caso di un’associazione come Dignitas, per esempio: loro fanno un discorso etico estremamente illuminato, ti danno la possibilità di uscire come vuoi, liberamente. Ripensano la morte. Ci sono tanti modi di morire: sotto le bombe in Siria, stuprata a morte in un campo profughi, oppure tranquillamente nel proprio letto. Bisogna essere lucidi ed essere coraggiosi. Non possiamo imporre un discorso antiquato su realtà nuove e sconvolgenti. Dobbiamo diversificare il discorso etico, oltrepassare i limiti dell’individualismo e dell’antropocentrismo: questo va oltre la morale kantiana ‘ama il prossimo tuo come te stesso’. Si tratta di affermare un’etica post-antropocentrica che consideri tutti i soggetti viventi: l’ambiente, certo, ma anche le altre specie, per non parlare di quelli che non hanno voce, gli invisibili, i derelitti, gli ultimi. Quelli che l’umanesimo non considera umani, o almeno non abbastanza umani. Spezzare i vecchi dogmi, ecco quello che dobbiamo fare: pensare nuovi modi di amare, nuovi modelli di famiglia, nuovi modi di morire. Sperimentare fino in fondo le possibilità che la scienza ci dà, senza avere paura.

Ultima domanda, inevitabile alla vigilia di un convegno dedicato alla letteratura, scienza umana per eccellenza: qual è il ruolo delle scienze umane oggi? E più in particolare: qual è il ruolo della letteratura nel 2014?
È un ruolo fondamentale. La letteratura è una delle grandi fonti di risonanza della nostra cultura. In moltissima letteratura, a partire da Joyce e dalla Woolf, l’individuo non è più al centro, è sostituito dal mondo. I grandi autori in questo senso sono un po’ dei profeti: anticipano il futuro. Le Lezioni americane di Calvino, per esempio, anticipano il postumano. L’opera di Calvino io la definirei come la poetica del mondo postumano. La letteratura come specchio del mondo, come voce del mondo, ha anticipato un sacco di cose. Privarsi delle scienze umane è per l’università, e anche per la società in generale, un vero e proprio suicidio: significa privarsi dell’intuizione del presente sul futuro; equivarrebbe a strapparsi un occhio, e per di più un occhio illuminato: quello che ci permette di guardare oltre le tenebre. Spero che questo il convegno lo dica: senza di noi, senza una comprensione adeguata della plasticità del linguaggio, non possiamo andare avanti. L’università senza scienze umane muore. È cieca. Ci vuole una cultura del rispetto reciproco.

Versione integrale dell’intervista apparsa sul Corriere del Ticino il 24 maggio 2014.


Rosi Braidotti, Il Postumano, La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte Editore DeriveApprodi, 2014,
6064  Forum Pubblico / SCRIPTORIUM 2017 - (SUI IURIS). / Che vi scrivevo ...TRUMP, Giulio Cesare al Rubicone, oppure alle Idi di Marzo. inserito:: Novembre 23, 2016, 04:12:11 pm
Trump, marcia indietro che gela i sostenitori

Il presidente Usa prende le distanze da tante promesse fatte in campagna elettorale soprattutto quella relativa alla riabilitazione delle energie fossili


Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI
22 novembre 2016

NEW YORK - Marcia indietro tutta, anche su Parigi? Donald Trump sta infliggendo una doccia fredda ai suoi sostenitori, prendendo le distanze da varie promesse della campagna elettorale. Già diversi siti e commentatori della destra radicale sono furiosi perché ha detto di non voler continuare le indagini su Hillary Clinton. Nei comizi le folle urlavano entusiaste "Lock her up" (mettetela in carcere), e perfino in un duello televisivo lui glielo disse in faccia, che avrebbe nominato uno "special prosecutor" per incriminarla. Scherzava. Ma fin qui, la retromarcia è comprensibile, perfino prevedibile. Si possono dire cose durissime in campagna elettorale, poi quando uno ha vinto volta pagina, e sotterra l'ascia di guerra. Tanto più che Hillary agli ultimi conteggi ha preso due milioni di voti in più di lui, accanirsi con inchieste giudiziarie contro di lei oltre che una brutta vendetta sarebbe un gesto che acutizzerebbe le divisioni di una nazione già lacerata.

Ma Parigi? Qui la questione è molto più delicata. Non solo Trump ha più volte detto di considerare il cambiamento climatico "una bufala" (o addirittura "un'invenzione dei cinesi per danneggiare la competitività dell'industria americana"); non solo ha promesso più volte di stracciare quegli accordi; inoltre ha inserito quelle promesse in un più generale piano di riabilitazione delle energie fossili, petrolio e carbone.

Oltre ad essere perfettamente in linea con la tradizione repubblicana (i Bush padre e figlio erano espressione della lobby Big Oil), quelle promesse gli valsero voti cruciali, ad esempio tra i minatori delle montagne Appalachian. Wall Street sale dalla sua elezione, anche perché le multinazionali energetiche festeggiano. La Famiglia Koch, potentato petrolchimico di destra che aveva avuto una certa freddezza verso Trump, ora lo appoggia. Insomma retrocedere sull'anti-ambientalismo non gli sarà facile.

Un'avvertenza ulteriore. La frase "possibilista" su Parigi, Trump l'ha pronunciata in queste ore nel corso di un incontro con la direzione e redazione del New York Times, quotidiano liberal che lo ha osteggiato e continua ad essere fortemente critico verso di lui. Trump - anche in questo fedele al suo modello Berlusconi? - ha una certa tendenza a plasmare la sua oratoria sui gusti di chi lo sta ascoltando. Gli piace piacere. Adora accattivarsi l'audience che ha davanti. Se domani sera lo intervistasse un giornalista alla O'Reilly o alla Hannity su Fox News, sarebbe capace di dire cose molto diverse da quelle che ha appena detto al New York Times.

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22 novembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2016/11/22/news/trump_parigi_accordo_distanza_da_promesse_campagna_elettorale-152581933/?ref=fbpr
6065  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / Barbara Gobbi. Sanità: le novità in arrivo per ticket, ricoveri e cure inserito:: Novembre 22, 2016, 11:48:53 pm
GLI ITALIANI E LA SALUTE
Sanità: le novità in arrivo per ticket, ricoveri e cure


Di Barbara Gobbi 22 novembre 2016

Sono la spina dorsale del Servizio sanitario nazionale, nati nel 2001 in occasione della riforma del Titolo V della Costituzione che diede il "la" alla regionalizzazione della salute. Obiettivo: garantire a tutti i cittadini parità d’accesso alla salute, da nord a sud d’Italia. Quindici anni dopo e in concomitanza con la nuova modifica costituzionale che potrebbe, se approvata, porre fine alla legislazione concorrente sulla salute, si punta al rilancio.

    Focus 21 novembre 2016

Come cambiano le prestazioni a pagamento Ssn
Stiamo parlando dei Livelli essenziali di assistenza (Lea), cioè dei servizi e delle prestazioni che il nostro Ssn è tenuto a offrire in via gratuita o dietro pagamento di un ticket e che dal prossimo anno subiranno un significativo restyling. Tra le novità principali (vedi schede), in soffitta le prestazioni vetuste, delisting per le cure che oggi si possono ricevere in ambulatorio senza passare per ricovero o day hospital, riclassificazione di gruppi di patologie e inserimento di nuove malattie sotto l’ombrello Lea. Mentre il medico, quando prescrive, dovrà riportare sulla ricetta la diagnosi o il sospetto diagnostico; e attenersi, per prestazioni ad alto costo o a rischio di inappropriatezza, a condizioni di erogabilità e indicazioni prescrittive. E i nuovi Lea inaugurano la formula "reflex": di due accertamenti, il secondo viene eseguito solo se l'esito del primo lo richiede.

La funzione dei Lea
Dal medico di base al pronto soccorso, dalle analisi del sangue alle visite specialistiche, la nostra "vita sanitaria" si svolge in buona parte nel solco dei Lea, diretta derivazione dell’articolo 32 della Costituzione, che ha contribuito a fare del Servizio sanitario italiano uno dei migliori al mondo. Eppure, è la nostra esperienza quotidiana di pazienti a farci toccare con mano le inefficienze del sistema. Complice una crisi economica che non dà tregua, complici, anche, i danni di un federalismo sanitario mal interpretato, i Lea non per tutti sono a portata di mano. Anzi. Lo dicono i dati sulla spesa "out of pocket" dei cittadini: oltre 34 miliardi secondo il Censis. Soldi sonanti usciti dalle tasche di quanti, non trovando risposte nel Ssn, si fanno carico delle cure. Chi può, beninteso. Troppe disparità regionali, liste d’attesa infinite, ospedali poco sicuri. Ed è questa l’impasse che si punta a risolvere con i nuovi Lea.

    Attualità 20 novembre 2016

Dalla legge di bilancio carico di 64 nuove misure
L’iter
Messi a punto dalla ministra Beatrice Lorenzin a inizio 2015 in attuazione del Patto per la salute, sono poi andati in stand-by per le perplessità del ministero dell’Economia sulle coperture. Approvato con una serie di emendamenti dalla Conferenza Stato-Regioni il 7 settembre scorso, ora lo schema di Dpcm che aggiorna i Lea tutt’ora vigenti è all’esame del Parlamento. Che dovrà esprimersi entro il 5 dicembre. Dopo il vaglio, atteso a fine mese, delle commissioni Affari costituzionali e Bilancio. La copertura finanziaria è la prima preoccupazione. Formalmente, i nuovi Lea vedranno la luce, con due anni di ritardo sulla tabella di marcia, nel 2017, quando il Dpcm avrà completato l’iter di approvazione. Poi si tratterà di applicarli, con le risorse disponibili: la legge di Stabilità 2016 ha "blindato" su questo obiettivo 800 milioni del Fondo sanitario nazionale. Ma i governatori non ritengono sostenibile affrontare la rivoluzione Lea solo con quelle risorse. Negli anni una manciata di regioni si è "portata avanti", ampliando o innovando il menù delle prestazioni essenziali. Ma ci sono realtà dove l’accesso ai Lea è una corsa a ostacoli.

    Manovra 2017 17 novembre 2016
Ddl Bilancio, medici Ssn verso sciopero il 28 novembre

L’impatto sui ticket
Il restyling del perimetro Lea, non si preannuncia però indolore: il contraltare del risparmio di 50 milioni di euro sui ricoveri, sarà l’extra carico di ticket d’ambulatorio - 18,1 milioni - sulle spalle dei cittadini. Per il "tunnel carpale" così come la cataratta "semplice", per esempio, si pagherà il ticket. Non solo. C’è allerta sul nuovo Nomenclatore protesi, fermo al 1999. L’aggiornamento sorvola sulla personalizzazione dei presidi, anche se resta la ripartizione tra dispositivi "su misura" e dispositivi "di serie". E non è chiaro chi pagherà i presidi più innovativi. La riabilitazione oncologica è un rebus. Il cahier de doleances è lungo. I rischi ci sono. I governatori chiedono di rinviare l’immissione nei Lea, per esempio, di prestazioni ad alto costo come l’adroterapia, cura d’avanguardia destinata ai tumori radio-resistenti. La richiesta è: avanti piano. Intanto, bisogna partire.

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2016-11-20/sanita-novita-arrivo-ticket-ricoveri-e-cure--190424.shtml?uuid=ADCw8MwB
6066  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / EZIO MAURO. La sottile linea rossa Viaggio in Italia cercando la sinistra inserito:: Novembre 22, 2016, 11:43:51 pm
La sottile linea rossa
Viaggio in Italia cercando la sinistra
Dov'è finita la sinistra? La nostra inchiesta parte da Torino, dal tram numero 3 che taglia e ricuce due città: quella del salotto e quella dei nuovi esclusi. Sono loro che hanno gonfiato il vento dei grillini

Di EZIO MAURO
20 novembre 2016

CERCANDO LA SINISTRA conviene salire sul tram numero 6 al capolinea di piazza Hermada nell’Oltrepò torinese e poi proseguire col 3 da corso Tortona. Sulla vettura c’è scritto “Vallette”, il nome della stazione d’arrivo dopo nove chilometri di viaggio, ventiquattro fermate, un’ora di tempo per attraversare la città: partendo dai piedi della collina con le case più belle nascoste nel verde per arrivare al ghetto dormitorio di periferia che qualcuno negli anni Sessanta ha cosparso di nomi dei fiori, via dei Gladioli, via delle Primule, via delle Pervinche, attorno a viale dei Mughetti e ai sedicimila vani costruiti per gli immigrati del sud trasformati in operai.

I torinesi dicono che è una linea che non arriva da nessuna parte e non porta in nessun posto. Ma bisogna salire sul “3” con Marco Revelli, professore di scienza della politica e in realtà speleologo sociale appassionato della natura profonda di Torino per scoprire che tra i due capolinea si invertono i quozienti elettorali del Pd e del M5S, con Piero Fassino che parte da piazza Hermada con il 53 per cento dei voti contro il 47, mentre Chiara Appendino arriva alle Vallette addirittura con il 74 per cento dei consensi contro il 26 della sinistra. Inspiegabile? Mica tanto, se si scopre che tra le due stazioni c’è una differenza nell’aspettativa di vita di sette anni e dunque è come se a ogni chilometro percorso dal “3” dalla precollina alla periferia si perdesse poco meno di un anno di vita.
 
Eccola qua la Moriana di Calvino, dice Revelli, città con una faccia di marmo e di alabastro e una di latta e di cartone. Ma il punto è che nei marmi vive la sinistra, mentre sopravvive invece debole e insignificante nel mondo costruito con materiali più fragili e senza colori, rovesciando la sua storia e forse il suo destino. Sul computer del professore c’è la mappa di questa separazione e mentre il mouse passa sui seggi elettorali si vede il Pd afflosciarsi man mano che dal centro dov’è in testa si va nelle “barriere”, come qui chiamano le periferie ex operaie, oggi popolate da pensionati che dopo una vita in fabbrica, grazie alla crisi, stringono in mano un pugno di mosche: prepensionati che si sentono ancora attivi senza poterlo più essere, con figli torinesi di seconda e terza generazione che capiscono il dialetto ma non capiscono più la città. Suprema eresia in una Torino che pareva disegnata in fabbrica con le sue linee rette e squadrate e poi montata fuori con gli stessi strumenti operai delle officine, tanto da far dire a Herman Melville che “sembrava costruita da un unico capomastro per un unico cliente”.
 
Vado con Paolo Griseri a vedere la “ciambella”, come lui la chiama, quegli atolli intermedi e quelle isole periferiche che circondano il centro e che Giorgio Bocca arrivando da Milano attraversava come barriere coralline disposte a protezione del cuore di Torino. La sinistra non abita più qui, o ci abita in affitto. I Cinque Stelle vincono quasi dovunque, più ci allontaniamo dal salotto torinese più crescono. Quelle isole coralline si ribellano, tutte insieme, tornano vulcaniche formando una specie di città circolare che pensa e parla e borbotta diversamente dal nucleo centrale così sabaudo e insieme straniero, pieno com’è oggi di turisti che riscoprono la sua antica bellezza. Ma c’è qualcos’altro da capire, e come capita spesso la lezione torinese rischia di valere per tutta l’Italia. Basta camminare per piazza Foroni (ribattezzata piazza Cerignola dai pugliesi arrivati in massa fin qui), dove si vendono taralli cerignolesi originali a tre euro e cinquanta ogni mezzo chilo, per avere la percezione che la separazione non è puramente geografica e non è nemmeno soltanto economica, neppure esclusivamente sociale.
 
Gli studiosi dei flussi e delle tendenze dicono che a Torino i grillini hanno vinto senza avere una tradizione. E questo si sa, anche se la città era stata tre anni fa la capitale dei “Forconi” (movimento effimero nato e bruciato per autocombustione dopo aver bloccato per due giorni piazza Castello) e anche se qui era andato in scena uno dei primi “Vaffa day”, con piazza San Carlo piena zeppa ad ascoltare gli insulti lanciati a mezzo mondo dal comico leader di fianco al “Caval d’Brons” impassibile. Ma hanno vinto anche senza insediamento politico, senza organizzazione, senza base sociale. Questo perché hanno saputo trasformarsi in “vela” per il vento che soffiava, vento di rabbia e di frustrazione, un vento che si è gonfiato proprio qui nelle barriere torinesi, mescolando cassaintegrati cronici, professori incazzati, piccoli imprenditori dell’indotto Fiat abbandonati dalla crisi, da Confindustria e dall’internazionalizzazione dell’azienda. È il sentimento — anzi, il risentimento, potente e nuovissimo — dell’esclusione.

La sottile linea rossa Viaggio in Italia cercando la sinistra
Torino: l'interno del tram numero 3 che parte da Corso Tortona e attraversa la città fino alla periferia nord.

Tutte le immagini pubblicate in questo reportage sono di Lorenzo Palmieri e raccontano il suo viaggio sulle tracce della sinistra.
Il fotografo, nato a Benevento nel 1981, ha iniziato lavorando per un'agenzia e poi ha deciso di dedicarsi ai reportage e ai progetti personali, come freelance, pubblicando su testate nazionali e internazionali.

Gli esclusi
L'élite
La borghesia
Le due sinistre
Il vocabolario
I poveri
Gli immigrati
Il populismo
Gli sceriffi
I fondatori
Il lavoro
Il sentimento
Gli esclusi

QUEL TRAM CHE TAGLIA E RICUCE LA CITTÀ disegna dunque un’inedita e sottile linea rossa, tra la sinistra e gli “esclusi”. Non sono necessariamente poveri, e neppure quantitativamente, tanto meno professionalmente, ma come dice Ian Buruma hanno un’”auto- immagine” di impoverimento sociale, civile, morale. Sono i tagliati fuori, quelli che scoprono che la democrazia formale è intatta nelle sue espressioni ma rimpicciolita nella sua sostanza, gli ascensori sociali si sono bloccati, il circuito della rappresentanza si è rotto, loro hanno perso il collegamento. Percepiscono i diritti democratici come un sistema di garanzie che vale solo per i garantiti e a un certo punto si scoprono a coltivare un sottile disincanto per la stessa democrazia, che sembra non incidere più sulla materialità della loro esistenza, sulla concretezza delle loro condizioni di vita.
 
Naturalmente la democrazia, se potesse parlare, direbbe loro di rivolgersi alla politica, che è stata inventata proprio per tradurre in forme concrete e pratiche i principi della cornice democratica repubblicana. Ma per gli esclusi la politica è lenta, senza vocabolario e lontana, soprattutto si mostra indifferente, quasi insensibile alle domande che arrivano da un ceto medio proletarizzato nelle speranze se non nel reddito, nelle aspettative rovesciate in delusioni. È quel ceto che nel pendolo sociale si è alleato negli anni Settanta alla sinistra per scrollarsi di dosso almeno un po’ il morbido giogo democristiano profumato d’incenso, e che nei primi Novanta ha creduto a Berlusconi che lo invitava a mettersi in proprio, diventare soggetto politico autonomo, prendersi la politica.
Erano due modi, opposti, di accettare la regola della politica e la sfida delle istituzioni, addirittura di crederci. Oggi, al contrario, siamo davanti al ribellismo del ceto medio che si sente depredato del presente, altro che futuro, mentre si accorge di camminare all’ingiù nella scala sociale e avverte che le classi sociali sono diventate gabbie in cui si entra per nascita e solo molto faticosamente si esce per istruzione e per merito. Gli spostati — che Donald Trump ha appena battezzato forgotten men togliendoli dall’oscurità, segnalandoli al mondo e facendone la sua base politica — si sentono messi di lato rispetto al mainstream, a cui non credono più perché non li riguarda e perciò diventa parziale e menzognero, li inganna. Lo spostamento è decisivo, perché è proprio quel nuovo spazio grigio la terra di nessuno in cui si percepisce la perdita di senso sociale e cresce la delusione, la nuova solitudine repubblicana, la silenziosa secessione democratica.
 
Intendiamoci, dice l’ex sindaco Piero Fassino che questa deriva l’ha vista arrivare prima del ballottaggio, non è vero e non è possibile che la società di oggi provochi un fenomeno così ampio e cosciente di esclusione; ma è vero che genera questa sensazione, questa rappresentazione di singoli e di gruppi che si sentono esclusi, ed è ciò che conta, soprattutto politicamente. Aggiunge una spiegazione: poiché la linea rossa di separazione divide chi si sente ancora rappresentato e chi invece vive nella solitudine politica, senza rappresentanza, noi paghiamo qui la crisi di tutti i corpi intermedi, sindacati, Confindustria, Confcommercio e quant’altro. Pezzi di ceto, parti di professione, gruppi di interesse, singoli individui fuoriescono e si sentono “spostati” come dopo l’uragano, fuori da ogni tutela, da qualsiasi possibilità di trovare un’espressione comune ai loro problemi personali. Vento che soffia, cercando una vela.
Gli esclusi sono contro. Dunque possono accettare rappresentanza solo da un partito che sia contro, talmente contro da non essere nient’altro, da ridursi a questa sola dimensione (oltre a quella — totalmente prepolitica — dell’onestà, che dovrebbe essere una pre-condizione ovvia per tutti, mentre il Pd sembra non accorgersi del numero enorme di inquisiti tra le sue file), rifiutando ogni intesa e ogni accordo per paura di una contaminazione che inquini la diversità ontologica del movimento, la sua estraneità, come di alieni che vivono permanentemente in un altrove politico. Questo comporta un assolutismo integrale, che porta a credere in una propria Verità con la maiuscola, mentre in un parlamento democratico le verità sono tutte minuscole perché relative, e si combinano con le verità altrui, cercando la regola democratica della maggioranza nella combinazione dei programmi e dei numeri, come vuole il compromesso democratico liberamente accettato.
 
Movimento permanentemente separato, il grillismo rappresenta la separazione degli esclusi quasi antropologicamente, segnalando la sua diversità fino all’estraneità dalla politica, dalle istituzioni. Fino a rifiutare la scelta di campo, capitale in Occidente, tra destra e sinistra, nella tentazione del partito- ovunque che sconta l’ambiguità pur di allungare e allargare l’identità nel rancore. Non conta chi sei, come hai vissuto e ciò che sai, l’importante è venire da fuori, rispetto al Palazzo, vivere fuori, non cadere dentro, certificare l’altrove ben più che il merito o il sapere. La differenza conta più dell’esperienza. L’alienità vince sulla competenza, perché è sciolta dai riti del potere. L’alterità prevale sulla conoscenza, perché non è castale né professionale, ma ha la cifra permanente dell’eterno dilettante. Siamo vicini all’ignoranza esibita come garanzia di innocenza.
 
Lenta e appesantita dalle responsabilità del potere la sinistra è spiazzata. Ha creduto per un secolo nella politica come pedagogia, non sa cosa fare quando la da arte sociale a esperimento virtuale, che ribalta i suoi esiti in Parlamento ma li coltiva fuori, nello streaming, nei vertici chiusi all’hotel Forum di Roma, nel direttorio. Ma la sinistra è spiazzata prima di tutto da se stessa, per sua colpa. Nel voto ribelle di Torino, c’è anche il rifiuto per una politica che si è fatta establishment permanente e controlla il potere da troppi anni, quasi fosse una “classe eterna”, come dicevano in Russia della nomenklatura sovietica. Come se in mezzo al “castrum” centrale, tra i palazzi barocchi, fosse cresciuto un Castello invisibile ma presente, un recinto del potere che ha per lati la Fiat, la fondazione San Paolo, la Cassa di Risparmio, il Politecnico.
 
Diciamo un giardino, ammette Sergio Chiamparino, ex sindaco e governatore del Piemonte, con l’erba verde e gli alberi frondosi per chi sta dentro, e la porta chiusa per chi si sente fuori. «È evidente che in giro siamo percepiti come un tutt’uno con l’establishment, e questo è forse inevitabile quando la sinistra raggiunge il maggior tasso di potere della storia, a livello nazionale e locale. Provi a guardarsi intorno: abbiamo tutto, il presidente della Repubblica, del Consiglio, del Senato e della Camera, città e regioni. D’accordo che il potere logora chi non ce l’ha, ma rischia di separare chi ce l’ha, e di rinchiuderlo. Col risultato che noi peschiamo dentro il giardino, i Cinque Stelle fuori, nel mare più vasto e più mosso. Bisogna ricordarci che siamo venuti al mondo per dischiudere le opportunità a chi le merita, ma soprattutto per rappresentare i più deboli. Si possono tenere insieme le due cose, altrimenti ci si rintana, o si cambia pelle. Soprattutto, non si governa una società sfrangiata come la nostra ».
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Torino: la fermata "Vallette" del tram numero 3, il capolinea. In questa zona la neosindaca grillina Chiara Appendino ha ottenuto il 74 per cento dei consensi: mentre Piero Fassino, del Pd, solo il 26 per cento.


Vince il rifiuto per una politica che è diventata "classe eterna".
Chiamparino: "Abbiamo tutto: Quirinale, Palazzo Chigi, Camera, Senato. Il potere logora chi non ce l'ha, ma separa dal Paese chi ce l'ha".
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L'élite
IL BUONSENSO RIFORMISTA DI CHIAMPARINO lo chiama establishment, classe dirigente. Ma gli esclusi la chiamano élite, casta, circolo chiuso, dando corpo alla teoria dei “giri” di Gustavo Zagrebelsky, strutture impermeabili di comando e di sottopotere che procedono per cooptazione e per esclusione, autogarantendosi e perpetuandosi, immobili. Su quell’élite — nazionale, europea — si scaricano oggi tutte le colpe, i rancori, le frustrazioni insieme con le delusioni e la condanna per l’inefficienza delle istituzioni, per la vacuità della politica. Per la lontananza e la grande dimenticanza.
Ma la sinistra, dopo la sua lunga marcia, può andare al potere in Occidente senza farsi establishment? Un bel problema.
 
Magari ci fosse un vero establishment in questo Paese, verrebbe subito da rispondere, una classe dirigente degna di questo nome, perché in grado di coniugare gli interessi particolari legittimi che innervano la società con l’interesse generale: invece di questi network di piccolo potere, salotti sedicenti buoni e in realtà abbondantemente tarlati, alleanze corporative, intese consociative, accordi al ribasso, minimi comun denominatori imperanti. Con una politica debole ma con un’imprenditorialità gregaria e velleitaria, talvolta protestataria ma sempre concessionaria, pronta a scambiare favori al ribasso con chi governa, senza mai una reciproca autonomia, tentata talvolta dall’avventura politica senza avere il fuoco nella pancia di Berlusconi, ma solo cenere di antichi fuochi parastatali.
 
Detto questo, che è metà del problema, resta l’altra metà: come può la sinistra governare e salvarsi l’anima? A me verrebbe da dire che oggi ci si salva l’anima soltanto governando, il che faticosamente significa accettare i compromessi, le mediazioni, lo scarto tra le utopie e la realtà sapendo che i coltivatori del rancore ti urleranno contro ma sapendo anche che le pinze e i cacciavite che la sinistra ha nello zaino sono gli strumenti più adatti a contrastare la radicalità della crisi, che pesa sugli estremi della scala sociale, deformando al massimo le distanze. Per essere chiari: sono convinto che il riformismo sia l’unico orizzonte possibile per la sinistra occidentale d’inizio secolo, anche se il vento è contrario e gonfia le vele altrui, premiando l’irresponsabilità che alimenta la rabbia invece di trasformarla in politica.
Il vento contrario non viene dal nulla perché il riformismo è sempre stato minoranza in Italia, ricorda a Milano Michele Salvati, economista ma soprattutto primo inventore dell’idea di un partito democratico italiano. Prima il Pci che era tutt’altro che riformista, spiega il professore, poi gli ondeggiamenti di Occhetto, la difficoltà perenne di accettare il tema del liberalcapitalismo, e il tutto sempre senza aver avuto Bad Godesberg, la scelta netta di campo per la democrazia, nella libertà e per il mercato.
 
La partita non è finita, perché il Pd è nato con la cultura di governo e per governare, ma quella cultura fatica ad affermarla compiutamente, anche per la guerra mondiale che il partito ha importato al suo interno, invece di combatterla con la destra o con Grillo. «Non ci si rende conto che la libertà estrema per la circolazione dei capitali in un mondo de-regolato, unita alla mancanza di protezione per i ceti più deboli è una cornice che può stritolare la sinistra, mentre fa riemergere la rabbia sociale e genera uno scontento diffuso di cui approfitta la destra populista», dice Salvati. «Eppure il modello c’è perché il secolo socialdemocratico è stato grandioso, e i Trenta Gloriosi, i tre decenni seguiti alla guerra, con l’economia sociale di mercato hanno liberato il capitalismo temperandolo, cioè frenandone gli istinti più belluini, mentre un welfare condiviso dalla sinistra e dai conservatori ha emancipato le classi popolari».
Quel welfare che per Romano Prodi, il fondatore dell’Ulivo, resta ancora il segno distintivo di una sinistra moderna, un segno che si va scolorendo «perché quell’attenzione che c’era alla protezione dei cittadini, soprattutto quelli più esposti agli imprevisti della vita, è andata scemando, e non è un problema solo italiano e nemmeno soltanto di una parte politica, ma oggi attraversa tutta l’Europa».
Quanta fatica per arrivare fin qui, a una sinistra di governo, con le sue costruzioni materiali come il welfare, con le sue costruzioni teoriche perennemente in ritardo, un ritardo colpevole. E adesso che c’è la cultura di governo e c’è persino il governo (nelle città, nelle regioni, a Roma), proprio adesso che la sinistra diventa classe dirigente scoppia la rivolta contro le élite e contro l’establishment. Neanche il tempo di aprire la porta della stanza dei bottoni, verrebbe da dire, quella stanza che Pietro Nenni, quando ci entrò per la prima volta da vicepresidente del Consiglio, trovò vuota. Tutto questo comporta un rischio evidente. Perché il riformismo, cioè la cultura di governo della sinistra liberamente accettata, è molto recente, in formazione, per molti versi ancora fragile e addirittura posticcia. Sotto i colpi di maglio del trumpismo dilagante e delle opportunistiche imitazioni di casa nostra c’è il rischio che quell’embrione di cultura si intimidisca, rattrappendosi e mimetizzandosi. Diventando dunque incapace di concorrere alla vera grande partita, che è quella per l’egemonia culturale, la corrente di fondo che trascina e determina la politica.
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Milano: la casa dell'accoglienza "Enzo Jannacci" in viale Ortles.

Il riformismo in Italia è sempre stato minoranza. Ma a Milano con Pisapia e con Sala ha funzionato l'alleanza tra sinistra di governo e borghesia. Salvati: è l'unico modo per mettere le briglie al neoliberismo dominante
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La borghesia
DAL SUO DOPPIO OSSERVATORIO, tra Milano e Bologna dov’è direttore del Mulino, Salvati si è convinto che l’alleanza tra la sinistra di governo e la borghesia è oggi l’unico modo di rimettere le briglie al neoliberismo in un Paese in declino. Potremmo dire che c’è in proposito un modello Milano, anzi un doppio modello che ottiene lo stesso risultato — governare la città — cambiando i fattori: prima con Giuliano Pisapia la sinistra ha proposto un patto alla borghesia milanese, poi con Sala è la borghesia che ha chiesto un’alleanza alla sinistra e in entrambi i casi la città ha detto sì e si sono vinte le elezioni.
 
L’avvocato milanese lo fermano ancora per strada chiamandolo sindaco, anche adesso che indica la traduzione fisica, concreta, di quel patto a Quarto Oggiaro, dove stanno insieme la centrale operativa delle forze dell’ordine, la casa del volontariato, la casa dell’associazionismo, la scuola civica musicale intitolata a Claudio Abbado; o quando si sposta in zona Corvetto, dove c’è la fondazione Prada, l’hub del coworking per i giovani ma anche (al numero 69 di viale Ortles) la casa dell’accoglienza Enzo Jannacci, che dà un posto per dormire a mille persone senza un tetto dai diciott’anni in su, con mensa, docce, lavanderia; o ancora la zona dove s’innalzano i nove grattacieli di Milano e dove l’ex sindaco ha voluto — proprio qui — la casa della memoria che riunisce le associazioni dei partigiani e delle vittime del terrorismo, un luogo del ricordo proprio in mezzo al nuovo skyline della città.
 
Ma basta andare con Matteo Pucciarelli a due passi dalla Bocconi e dal Parco Ravizza, in via Bellezza, aprire la porta del numero 16 ed entrare nei due mondi che vivono insieme al circolo Arci più grande di Milano, diecimila soci per trovare un’ottima polenta, un buon tiramisù e un direttivo dove le due Milano sembrano addirittura stringersi la mano come succedeva nei simboli delle vecchie Società di Mutuo Soccorso, due mani intrecciate. E infatti qui, al circolo “Bellezza”, il presidente è Maso Notarianni che viene dall’esperienza di Emergency, nel gruppo dirigente c’è Milly Moratti ma c’è anche l’ex fondatore delle Brigate Rosse Alberto Franceschini. E il mix funziona e gira su se stesso durante la giornata. Al pomeriggio sembra di entrare in una Casa del Popolo degli anni Sessanta o anche prima, coi pensionati seduti al tavolo col mezzolitro davanti e le carte in mano. Ma la sera arrivano i ragazzi per il concerto di Joshua Radin nel vecchio teatro, per le nottate rock, per la discoteca, mentre di giorno ci sono i corsi di milonga e di tango col maestro Alberto Colombo, con la pratica del domingo guidata alle 15,30, libera fino alle 23, con possibilità di aperitivo a bordopista, proprio nello spazio dove Luchino Visconti ha girato Rocco e i suoi fratelli.
 
«I borghesi vengono, certo, i pensionati discutono di referendum, i ragazzi cantano e ballano», dice Notarianni. «È un gran mischione che funziona, e a noi qui a Milano questo incrocio è venuto naturale, tanto che la candidatura di Pisapia a sindaco è nata proprio qui, perché era il posto giusto per parlare all’intera città, una cornice perfetta, coerente col senso di quella candidatura. Ricetta milanese? Questi posti possono avere ancora un significato dovunque, a patto che abbiano un’anima. Io penso che si possa parlare di politica come una volta e divertirsi, stando insieme e magari imparando qualcosa per non buttare via il tempo. A condizione di far le cose per bene e crederci, ricetta che la sinistra sembra non conoscere più».
Attenzione però, avvisa Pisapia: per governare un sistema complesso oggi ci vuole certo una sinistra che sappia parlare con la borghesia, lavorando col pubblico e con il privato, tenendo sempre il pallino in mano e mettendo fin dal primo minuto un paletto ben in vista, per dire agli imprenditori che c’è spazio per loro, ma al servizio della città e a suo vantaggio. Quest’alleanza vale per le giunte, nei municipi delle città ma vale anche a livello nazionale, non nel senso di inseguire partitini di un centro che non c’è ma nella capacità della sinistra di convincere e coinvolgere autonomamente interessi moderati ed elettori di centro in un progetto di governo che cominci intanto a rovesciare il vocabolario: sinistra-centro, dice l’ex sindaco, dopo tanti esperimenti più o meno riusciti di centro-sinistra.
La cifra politica di centro che lui cerca è quella di una borghesia aperta, occidentale, europea, moderna, capace di esprimere un impegno civile in uno sforzo di governo e di cambiamento, come se fosse una grande lista civica nazionale alleata alla sinistra. Quella lista non c’è e allora i “borghesi civici” bisogna andare a prenderseli uno per uno e non è facile, soprattutto perché bisogna essere insieme responsabili e coraggiosi, ma soprattutto credibili, portando all’appuntamento una sinistra a sua volta aperta, occidentale, europea, moderna. Tante cose.
La sottile linea rossa Viaggio in Italia cercando la sinistra
Milano: il quartiere Isola con il bosco verticale e la Casa della Memoria.

Il Referendum è in sé una faglia vivente. Alla Camera del Lavoro di Porta Vittoria i compagni per il "Sì" e quelli per il "No" hanno litigato anche sull'affitto della sala grande. Polemica a fior di pelle che attraversa la Cgil e i rapporti col Pd
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Le due sinistre
PER ARRIVARE A DIRE, POI, CHE LA SINISTRA BORGHESE non basta più. Per Pisapia ci vuole anche la capacità di tenere a bordo quel pezzo di sinistra più radicale senza il quale non si vince, ma soprattutto si regala spazio alla destra e ai grillini, finendo paradossalmente per dare ragione a Camille Paglia quando dice che “la sinistra è una frode borghese”. Però a bordo c’è l’ammutinamento perenne, le faglie corrono dovunque, a sinistra del Pd ma oggi soprattutto al suo interno. Il referendum è in sé una faglia vivente: anche a Milano, naturalmente, se si esce dal “Bellezza” e si passa alla Camera del Lavoro più importante d’Italia, a Porta Vittoria. Qui hanno litigato addirittura per l’affitto della sala grande, quando la “Sinistra per il Sì” ha organizzato la sua prima assemblea proprio in Camera del lavoro, con Maurizio Martina, Fassino e Anna Finocchiaro. Il “Sì” che esordisce in casa del “No”? Putiferio, e risposta riformista del segretario generale Massimo Bonini, quarantuno anni: «Noi diamo la sala a chi la chiede». Ma quando il comitato “Basta un Sì” torna alla carica per organizzare un incontro, scatta la protesta dei compagni del “No”, che blocca la richiesta. Sala vuota, dunque, polemica a fior di pelle e — sotto la
pelle — l’idea che la faglia passi anche attraverso la Cgil, tra la sua naturale difesa della Costituzione e il suo legame col Pd. E qui si apre la questione eterna delle due sinistre, torna in campo il buon vecchio Turati, il riformismo e il massimalismo in guerra, quando non siamo nemmeno sicuri di avere finalmente un riformismo di governo, dopo un secolo: e per questa strada tormentata si arriva fino a Bertinotti.
O meglio, a Pisapia, perché l’avvocato uscito da palazzo Marino ha ormai un ruolo nazionale come uomo-ponte tra i mondi separati delle due sinistre. A parte il fatto che non i pontieri, ma i pompieri oggi troverebbero abbondante lavoro all’interno del Pd (che vive dentro un incendio permanente, bruciando ogni giorno la casa comune purché muoia il vicino di stanza), la sinistra radicale oggi è un sentimento sparso e disperso, senza più un’organizzazione. Ponte con che cosa, dunque, verrebbe da chiedersi, se manca una sponda? Vittorio Foa spiegava “ l’assurdità di unire diverse realtà malate che non possono guarire sommandosi tra loro così come sono, ma solo cambiando se stesse”. Ma Pisapia sta girando l’Italia e giura che c’è una rete spontanea pronta a riformarsi, se nasce l’occasione. Ecco dunque il sogno del Ponte a tre campate per vincere, governare e salvarsi l’anima.
Ma per provarci, ci sono due precondizioni che l’ex sindaco mette sul tavolo a ogni suo incontro: la prima è che la sinistra-sinistra la smetta di dire solo no e soprattutto la pianti con la storia della mutazione genetica dei riformisti, che trasforma il Pd nel nemico principale da abbattere; la seconda, che il Pd la finisca di credersi l’unica sinistra, e dunque l’unica forza abilitata a decidere, l’unico attore in scena in questa metà del terreno di gioco.
 
Sono due ostacoli simmetrici, quasi le ultime ideologie rimaste a sinistra, e bisogna disarmarli insieme con buona volontà e soprattutto con realismo, se non si vuole regalare il Paese alla destra o a Grillo. Pisapia lo ha anche detto a Renzi: può darsi che un giorno accada quel che oggi non è possibile e che il Pd diventi padrone incontrastato del campo, ma prima che da solo possa rappresentare l’intera sinistra deve passare una generazione, forse addirittura devono passarne due. “E intanto, che facciamo?”. Rispondono i personaggi di Ellekappa, nella loro indagine permanente sui tormenti della sinistra: “Il sogno, la casa comune di tutta la sinistra”, dice il primo. E l’altro risponde: “L’incubo, le riunioni di condominio”.
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Milano: il circolo Arci "Bellezza", il più grande della città, dove gli anziani giocano a carte.

Il circolo Arci Bellezza è il laboratorio perfetto: diecimila iscritti, dibattiti sul referendum, corsi di milonga, concerti rock: "Qui vengono tutti: professionisti, pensionati, ragazzi. E' un gran mischione che funziona".
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Il vocabolario
PER CAPIRE CHE FARE, BISOGNEREBBE PRIMA SAPERE cosa dire. Davanti a una crisi economica senza precedenti, con una destra che abbattendo il politicamente corretto si è presa la più estrema libertà di parola, sfondando il linguaggio politico e stravolgendo i riferimenti culturali tradizionali del suo campo, la sinistra ha chiuso il vecchio vocabolario e non ha trovato il nuovo. Nessuno si preoccupa di scriverlo, tutti sono troppo occupati a cercare la battuta efficace nei centoquaranta caratteri di un tweet, invece di mettere in campo un pensiero lungo, accettando l’uno contro tutti dei social network dove vive la democrazia del libero scambio di opinioni, senza più il pulpito e il messaggio verticale: ma dove cresce anche la società del rancore. Intanto la destra sa di cosa parla, e sa persino come farlo.
 
La battaglia di Donald Trump si appoggia sulle parole “prendere”, “guardare”, “dire”, “Paese”, “occupazione”, “gente”, “grande”, “grosso”, “cattivo”. I comizi di Viktor Orbán lamentano “la sparizione delle nazioni europee e dei loro valori” e la volontà di “renderle irriconoscibili” e chiedono che “l’Europa resti agli europei” e che i vari paesi rifiutino di “farsi sovietizzare da Bruxelles”. L’ideologia di Marine Le Pen costruisce uno scenario psicopolitico di assedio che parte dall’evocazione del “caos” imminente, passa alla “sostituzione” degli europei con gli immigrati maghrebini, punta su un “nazionalismo rivoluzionario”, propone un “patriottismo economico”, pretende una “sovranità al servizio dell’identità”, denuncia il “tradimento delle élite” mentre sullo sfondo evoca “una Francia che noi non riconosceremo più, che diventerà per noi un Paese straniero”.
 
Di fronte a questa costruzione meta-politica che agita il profondo di paure antiche con linguaggi nuovissimi, la sinistra non usa più le parole tradizionali del suo discorso pubblico perché le sembrano vecchie, mentre in realtà appaiono antiche solo perché non suonano autentiche. Cosa c’è di più moderno che ragionare sui diritti del lavoro negando che siano — unici tra tutti i diritti — una variabile dipendente della crisi, mentre sono invece una cifra della qualità democratica del Paese di cui usufruiamo tutti, lavoratori dipendenti, professionisti e imprenditori? E cosa c’è di più responsabile che sostenere la necessità di rimodulare il welfare per proteggerlo dall’urto di questo decennio, salvandolo? Infine: perché dovrebbe essere vecchio parlare di uguaglianza nella fase in cui la crisi addirittura sorpassa e sopravanza le disuguaglianze trasformandole in esclusione, sapendo per di più che mentre la democrazia “scusa” e sconta le disuguaglianze non può tollerare le esclusioni?
 
Soprattutto, chi dovrebbe fare questi discorsi se non la sinistra, proprio e tanto più quando governa, e dunque ha la responsabilità dell’intero Paese e non solo di una sua parte? Ma se ti mancano le parole, le tue parole, quelle della tua storia (naturalmente interpretate secondo lo spirito dei tempi e il carattere dei leader) sei prigioniero dell’egemonia culturale dominante, gregario del pensiero unico, attore nell’agenda altrui, e intanto il concetto di sinistra sbiadisce dentro un liquido pulito e confortevole ma diverso e senza colore. L’indistinto democratico.
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Bologna: una partita a biliardo al circolo Arci "Benassi", il più antico della città.

La sinistra non sa più pronunciare la parola povertà. Ma a Bologna sono nate le "Cucine popolari" grazie ad un sindacalista Cgil. "Ero stanco di parlare di diritti dei diseredati mentre gli altri facevano da mangiare".
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I poveri
UNA PAROLA CHE LA SINISTRA NON PRONUNCIA più è proprio questa — povertà — e il suo silenzio suona forte perché la nuova miseria si sta allargando. O meglio, spiega a Bologna Roberto Morgantini, noi parliamo anche di poveri, la questione vera è che non sappiamo parlare coi poveri. Lui ha lavorato una vita nel sindacato, si occupava di immigrazione, praticamente non c’è un profugo arrivato senza niente a Bologna che non sia passato per le sue mani. A un certo punto, con Lucio Dalla, si sono messi in testa di aprire una specie di refettorio laico per dimostrare a se stessi che non c’è solo la Chiesa a occuparsi di povertà, che non c’è soltanto la carità ma anche la solidarietà, che non è il pane benedetto l’unico che può sfamare i più disgraziati. Poi Lucio è morto, e tutto sembrava finito prima di incominciare, perché non c’erano i soldi.
 
«Ma io sentivo il disagio di occuparmi solo di questioni come i diritti dei diseredati, cose tutte più che sacrosante, intendiamoci, ma mentre parlavo con quella gente qualcun altro si preoccupava di dar loro da mangiare», racconta Morgantini. «Volevo farlo anch’io. Ho settant’anni, convivevo con Elvira da trentotto, abbiamo avuto l’idea di sposarci per sfruttare i regali di nozze come finanziamento al progetto e alla fine abbiamo raccolto settantamila euro e sono nate le “Cucine popolari”, in partenza con sei volontari e pochi pasti. Oggi quelli che ci regalano il loro tempo per andare a prendere pasta, carne, frutta e verdura, per cucinare, servire a tavola e lavare i piatti sono trenta, e a tavola si siedono ogni giorno ottanta persone. Funziona, e l’idea della laicità è andata a farsi benedire. Io sono laico, ci mancherebbe, ma ho scoperto che con i preti e i volontari cristiani si lavora che è una meraviglia, e poi se devo dire la verità stamattina avevamo bisogno di verdure e chi ce le ha date? Comunione e Liberazione, con il Banco Alimentare».
 
Bisogna guardarla, alle cucine di via Battiferro numero 2, la nuova geografia della povertà italiana. Perché Bologna fa parte del Paese ricco, c’è una cultura solidale antica e tenace, si sta meglio che altrove. Ma qui ci sono tutti: gli stranieri appena arrivati con qualche barcone e risaliti fin quassù con piazza Maggiore come prima immagine dell’Italia, ma anche gli italiani che mese dopo mese diventano due o tre in più, e che ormai sono la metà degli ospiti. C’è chi ha perso il lavoro e la casa come Graziella, che dorme in un centro per senzatetto, mangia qui a pranzo e incarta qualcosa per cena da portar via; c’è Maria che è una ragazza madre e si è presentata un anno fa con la figlia di un mese e poi non ha più mancato un giorno; c’è il “professore” malato di Alzheimer che povero non è ma mangia qualcosa solo qui e allora la moglie lo accompagna a mezzogiorno; al tavolo in fondo c’è Antonio che ha problemi psichici e tra un’ora, quando avrà finito il pranzo, darà una mano a sparecchiare, trasformandosi in povero-volontario. Tutto questo a cinque minuti dalla stazione, quartiere Navile, nel cuore della città “grassa”, a cui piace una sinistra «che metta le mani nelle cose», come dice il compagno Morgantini che infatti sta già macchinando per aprire un’altra cucina popolare ancor più in centro, nel Porto, un quartiere dove vivono molti vecchi soli, e per preparare i soldi che non ci sono farà una vendita straordinaria di Pignoletto, il bianco delle colline bolognesi imbottigliato qui dai volontari: per Natale due bottiglie a dieci euro, e qualche pasto a qualche nuovo povero in più.
 
Il caso di Bologna, dove con la povera gente lavorano strutture come “Piazza grande” o quella storica di don Nicolini, oltre alla Caritas e all’Antoniano, è importante proprio perché tutta la città vede quel che succede, e lo sa. Vede i poveri, vede il volontariato, conosce insieme il problema e la sua gestione, una possibile soluzione, e anche l’evidenza concreta della solidarietà. Oltre a un problema di vocabolario, infatti, la sinistra ha un problema di sguardo. Ci sono cose che non riesce a scorgere più, non le inquadra, e se le incontra non riesce a metterle a fuoco.
 
La distanza tra chi sta in alto e chi precipita — gli integrati e gli espulsi — è aumentata fino a diventare una vera e propria frattura sociale. Intere parti di società, di generazione, di ceto stanno sperimentando un naufragio silenzioso con l’onda della crisi che li sopravanza fino a sommergerli. La divaricazione epocale tra i privilegiati che vivono nello spazio sovranazionale dei flussi finanziari e dei flussi d’informazione e i dannati che abitano il sottosuolo degli Stati nazionali diventa incolmabile. Con questo risultato formidabile: la rottura del nesso che legava i ricchi e i poveri nel loro percorso distinto e disuguale tuttavia collegato, il venir meno di quel vincolo di destino collettivo che abbiamo chiamato società e che avevamo conservato fino a oggi.
Noi fingiamo che i garantiti e gli scartati siano ancora vincolati dal sentimento di un destino civile comune, verso un orizzonte condiviso di ciò che per anni abbiamo chiamato “bene comune”. Ma dietro la crosta miracolosa di coesione sociale che tiene insieme questa divaricazione a orologeria, assorbendo o forse disperdendo le tensioni e i conflitti, ci sono gruppi e soggetti che semplicemente vanno alla deriva, finiscono sul bordo a saggiare a tentoni il margine periferico della democrazia, ne fanno un valore d’uso minimo e soprattutto insignificante: e giungono infine a considerare i suoi valori e i suoi diritti come un apparato di nobili parole, che funzionano però come un privilegio in più — supremo, perché diventa regola — per i privilegiati. Nello stesso tempo e simmetricamente il garantito non avverte più il valore o l’utilità di quel legame col povero, le condizioni culturali, sociali, politiche ed economiche lo autorizzano a sentirsi svincolato, liberato da ogni responsabilità che vada oltre la sua sfera personale, perché nessuno gli chiede più conto degli altri, che dunque non lo interpellano e per conseguenza non gli interessano. Inconsapevolmente, per questa strada sconosciuta arriviamo a un passo dal luogo in cui Caino diede la sua risposta: “Sono forse io il custode di mio fratello?”.
 
Mentre la società si rompe, una parte si inabissa lentamente e ne perdiamo nozione e coscienza. Non li vediamo più, non hanno una classe che li raccolga, una storia che li racconti, un partito che li rappresenti, non proiettano un’ombra sociale, non lasciano un’impronta politica. Non fanno nemmeno più paura, non sono niente. La stessa parola “povero” non rappresenta la spoliazione identitaria cui stiamo assistendo, sembra di un’altra epoca perché indica una scala di riferimento comune, in cui l’alto e il basso in qualche modo si tengono, c’è ancora una dialettica sociale, siamo dentro il rapporto di forza tra capitale e lavoro. Qui invece siamo fuori da ogni campo di forza, da ogni schema culturale, da ogni ipotesi politica. Qui si va a fondo da soli, invisibili e impronunciabili. Vergognosi. Morgantini prima di partire con il suo refettorio laico a Bologna è andato a vedersi un po’ di mense popolari in giro per l’Italia e alla fine ha deciso di organizzarsi con tavoli da sei posti e un facilitatore che gira tra i “clienti” e li spinge a parlare, proprio perché si è accorto che più le mense sono grandi più il povero è intimidito: entra, tiene la testa china sul tavolo, mentre mangia guarda solo il piatto e poi se ne va. Invisibile com’è, vuole che lo vedano ancora meno.
 
Lo capisce chi va in via Capriolo 16 a Torino, a Borgo San Paolo, ex quartiere operaio, e attraversa la soglia con la scritta “Spazio d’angolo”. Potrebbe essere un negozio o anche uno studio di design dentro un grande caseggiato che ai tempi della città fordista — dove tutto si teneva — era l’istituto tecnico dei Fratelli delle scuole cristiane e adesso è una delle cinque mense serali di Torino. Pareti gialle e arancioni, sedie rosse, «perché chi arriva qui ha bisogno di calore e abbiamo evitato il bianco», dice Pierluigi, il direttore della Caritas che ha organizzato la mensa insieme con la cooperativa Arco. In fondo alla stanza, Andrea stasera cena da solo: «Vengo qui da due anni. Nel 2013 ho chiuso la cartoleria. Fallito. Sa cosa significa? Glielo dico io: mi sono mangiato tutto. Arrivo verso le cinque di sera, la cena la servono alle cinque e mezza. Non c’è molto spazio per parlare, bisogna avere il tempo per finire e uscire in modo da arrivare al dormitorio pubblico prima delle sette. Altrimenti rischi di dormire fuori».
Ma non è nemmeno qui il grado zero della disperazione, qui dove in fila coi barboni si sono aggiunti ex impiegati, capicantiere e la scorsa settimana un ingegnere. «La crisi», spiega Pierluigi, «non si misura solo coi cinquemila pasti forniti dalle mense dei poveri, ma nella dimensione privata, invisibile delle migliaia di famiglie che negli ultimi cinque anni hanno cominciato a far richiesta quotidiana di pacchi pasto. Nella sola zona di corso Umbria, a Torino Nord, le famiglie assistite con il pacco pranzo sono cinquecento. Gente che non ce la fa ad arrivare a fine mese ma non ha il coraggio di presentarsi alla mensa pubblica». Perché la povertà è terribile, ma per gli ex poveri ritornare a esserlo dopo un giro fuori è insopportabile.
Noi ne sappiamo poco o nulla, tutto finisce trasformato in percentuali e quozienti nelle statistiche del pil, dei consumi e dell’occupazione. Ma è così che salta sotto i nostri occhi quello che gli studiosi chiamano il tavolo di compensazione dei conflitti, capace di tenere insieme i vincenti e i perdenti della mondializzazione. Su quel tavolo, oltre che l’equilibrio della modernità occidentale stava anche la carta d’identità della sinistra, che rischia di volare per aria, perché come spiega il premier francese Valls, l’emancipazione oggi è la sua vera missione. Tutto per aria. E poi? È la stessa domanda che l’operaio in tuta pronuncia in una vignetta del sommo Altan: “E adesso?”. “Facciamo una colletta”, gli risponde Cipputi, “e affittiamoci un uomo della Provvidenza”.
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Bologna: Elena e Alessandra, volontarie delle Cucine popolari.

"Il progetto era nato con Lucio Dalla", racconta Roberto Morgantini. "Poi lui è morto. Allora, a settant'anni, ho sposato la mia compagna e per regalo di nozze abbiamo chiesto soldi. Con quelli è partita la prima mensa".
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Gli immigrati
FINCHÉ ARRIVA L’ULTIMA SFIDA A SORPRESA, quella del neo-nazionalismo conservatore di Theresa May, la nuova premier inglese, quando arringa i suoi: “Ascoltate come molti politici e commentatori parlano dell’opinione pubblica. Considerano il patriottismo del popolo disgustoso, la preoccupazione per l’immigrazione provinciale, l’atteggiamento verso la criminalità illiberale, la sicurezza del posto di lavoro fastidiosa”. È vero, è un ritratto della sinistra? Un po’ sì. «Abbiamo appena perso Monfalcone consegnandola alla Lega», dice uno dei giovani quadri della sinistra friulana, Federico Pirone, ventotto anni, assessore a Udine, «perché non sappiamo parlare di immigrazione. Eppure abbiamo la politica più a sinistra di tutto il continente, sia nei confronti dell’Europa che nei confronti dei profughi, Renzi in questo ha ragione. Ma dobbiamo anche chinarci sulle paure e le inquietudini dei nostri paesi. Sbagliate? Diciamolo. Ma non ignoriamo le preoccupazioni degli anziani, delle persone sole, dei sindaci che ricevono l’ordine dal prefetto di ospitare una dozzina di profughi, poi lo Stato si ritira e con la gente devono vedersela loro, e sono soli».
 
Eccola la strada dell’inquietudine di Monfalcone, via Sant’Ambrogio: osterie giuliane e botteghe tradizionali sono scomparse, i vecchi abitanti se ne sono andati, i trecento metri pedonali sono tutti delle famiglie bengalesi con i loro negozi e con le donne dal volto velato e tra poco le luminarie e le stelle di Natale incorniceranno a festa le insegne straniere. Non ci sono stati problemi evidenti, qui. Ma c’è una prima elementare tutta di immigrati perché i genitori italiani hanno portato i figli nelle scuole di paesi vicini per non affrontare la convivenza, dice Pietro Comelli del Piccolo, ad agosto è morto annegato un pakistano di venticinque anni che viveva accampato con altri profughi sulle rive dell’Isonzo ed era entrato in acqua per lavarsi. La vera questione riguarda il tessuto sociale che il monfalconese anziano non riconosce più. E poi si aggiunge il rapporto di odio-amore con Fincantieri che ha assicurato lavoro a generazioni e oggi assicura la sopravvivenza degli stranieri, mentre molti ragazzi del posto sono disoccupati. Concorrenza sul lavoro, rivalità intorno a un welfare che si riduce sempre più, spaesamento dei luoghi, nel timore di perdere identità, di smarrire il filo di esperienze condivise. Sono le paure che gonfiano il Nordest, scese fino al delta del Po con la protesta di Gorino e dei suoi pescatori di vongole per le dodici donne immigrate inviate dal prefetto e bloccate per strada. “Qui non c’è niente nemmeno per noi”, gridavano i dimostranti dietro i blocchi stradali, “che vengono a fare?”.
 
Un pezzo di Nordest (e anche di sinistra) si accontenta di non vederli, come se questo fosse il problema. A Trieste il tabù riguarda il vecchio silos, l’ex granaio della Coop vicino alla stazione. La città non è affatto in emergenza, ospita ottocento migranti in piccole case-famiglia gestite dalla Caritas o dal consorzio di solidarietà. Ma quando le case sono piene, come adesso, gli immigrati finiscono vicino alla stazione, occupano l’ingresso del Porto Vecchio e quando i vigili li fanno sgomberare vanno a dormire nel silos, svuotato due volte, con trentacinque denunciati, fino a diventare il luogo simbolo dell’immigrazione. Adesso il sindaco Dipiazza ha deciso di non pagare più i duecentocinquantamila euro l’anno che il Comune spende per i minori senza famiglia, ospitati nell’ostello vicino al castello di Miramare, e la Lega ha alzato i toni nell’ultima campagna elettorale: anche in una città multietnica e multiculturale come Trieste che perde qualcosa come mille abitanti all’anno e nel 2014 ha visto emigrare all’estero sette dei suoi ragazzi su mille. Silenziosamente. Finché il silenzio si rompe e Beppe Sala, sindaco di Milano, chiede l’esercito nel quartiere multietnico di via Padova, “per non lasciare l’intera questione in appalto alla destra”.
 
Per la destra la presenza dei profughi è fisica e fantasmatica insieme, e il corpo del profugo diventa immediatamente propaganda perché parla da solo con il colore della pelle, la sua disperazione, la sua diversità, i segni dell’apocalisse che si porta addosso. La riduzione del migrante a puro corpo, pura quantità, presenza materiale d’ingombro, nuda esistenza che chiede di continuare a vivere ha qualcosa di sacrilego e di estremo, perché mette fuori gioco la politica, abituata a occuparsi di persone, di cittadini con diritti e doveri. E infatti le risposte sono tutte fisiche, materiali: ruspe, muri, respingimenti, fili spinati. Ma la sinistra sente che mentre la destra sceglie di vendersi l’anima commerciando con le paure lei, proprio lei e lei soltanto, è dentro una grande tenaglia. Ha il dovere democratico di rispondere con umanità e solidarietà a chi chiede soltanto libertà e sopravvivenza, e ha contemporaneamente il dovere opposto di rispondere al riflesso di insicurezza che attraversa la fascia più debole delle nostre popolazioni, uomini e donne anziani, soli, che vivono nei piccoli centri, non sono mai usciti dai confini del Paese e adesso quando vanno coi nipotini al giardinetto si trovano il mondo rovesciato sotto casa. Queste persone chiedono rassicurazione. Se non la ricevono dallo Stato, la cercano quasi naturalmente nell’antistato dei venditori di paura. Potremmo dire che il conflitto sospeso sopra i nostri paesi è tra gli ultimi e i penultimi.
 
È una tenaglia infernale per la sinistra, costretta a portare per intero il peso e la contraddizione della democrazia occidentale: tradisce se stessa se chiude gli occhi davanti al corpo nudo del migrante che chiede di vivere, qualcosa di sacro che arriva a noi dal profondo dei secoli; ma tradisce nello stesso tempo i cittadini se si tappa le orecchie davanti alla loro richiesta di sicurezza, che è alla base del patto di rappresentanza e di sovranità moderna. La sinistra è investita pienamente perché la destra si chiama fuori, si chiama contro. E anche perché questa è la prova della tenuta dei valori democratici dell’Occidente che oggi sono la sua carta dei valori e entrano in tensione, al bivio come sono tra l’universalità con cui li professiamo in astratto e la parzialità con cui li pratichiamo, consumandoli principalmente per noi stessi.
 
Recuperato dal primordiale, riviviamo il confronto-scontro tra i cittadini del mondo e i dannati della Terra, con i primi che troppo spesso pensano di poter fare a meno dei secondi, non vogliono vederli e scelgono il “bando” come unica politica. E la sinistra, che fa? «Prima facciamo, poi teorizziamo», dice Giusi Nicolini, sindaca di Lampedusa. «Altrimenti ci spaventeremmo e finiremmo paralizzati davanti all’emergenza. Le cifre dicono che la nostra è una follia. Siamo l’isola più lontana dall’Italia, venti chilometri quadrati, seimila abitanti, l’acqua che fino a due anni fa arrivava solo con la cisterna, nemmeno un ospedale, solo l’elicottero del 118. Quando ti arrivano settecento profughi, all’epoca delle primavere arabe venticinquemila tunisini, raccogli in acqua dovunque gente nuda senza niente, quasi morta, che grida verso di te, allora ti ricordi che siamo gente di mare e la comunità sostituisce lo Stato. È andata proprio così. Un po’ di incoscienza, un po’ di coraggio, la natura della nostra gente ha fatto il resto. L’idea dell’invasione è una creatura della politica, sono muri, fili spinati, cancelli che danno l’idea di assedio. Rinchiudono nell’ansia chi li costruisce. Se governi questi fenomeni con la tua gente, spieghi che sono un prodotto della storia che può essere gestito, tagli le gambe alla paura e puoi farcela. Guardi qui: Lampedusa poteva finire dannata, e invece ha guadagnato in reputazione per la sua accoglienza, ha migliorato i servizi sanitari e sa una cosa? Quest’anno il turismo è cresciuto del trentadue per cento».
 
Con Laura Montanari arriviamo in Toscana cercando un’altra strada della metamorfosi italiana. Via Pistoiese a Prato è una linea retta che va da Porta San Domenico, non lontano dal vecchio ospedale dismesso, verso la periferia. È l’asse portante e il cuore di Chinatown, una sventagliata di case basse senza palazzoni, negozi e laboratori che formano il distretto tessile, cresciuto dentro le vecchie fabbriche. Oggi la via è fatta di rosticcerie, supermercati etnici, agenzie di viaggi, naturalmente capannoni, negozi di parrucchieri e di massaggi, slot machine, laboratori pronto-moda e ristoranti, tutti con le insegne in doppia lingua, italiana e cinese: “Whezou”, “Zheng Shi Shou”, “Ciao”, “Ravioli Liu”. Corrono auto di grossa cilindrata tra le biciclette e i furgoncini, tra gli aromi di spezie orientali e di fritto, gli ideogrammi verniciati sui capannoni, il rumore delle macchine taglia-e-cuci che va avanti fino a tardi di sera, anche oggi che è domenica.
È un circuito chiuso, le stoffe provengono direttamente dalla Cina, magliette, cappotti, camicie e vestiti finiscono in buona parte sui banchi ai mercati, gli ambulanti che vendono ai cinesi gli ortaggi li hanno comprati da contadini cinesi che affittano i campi nella piana di Prato. Circuito chiuso, irregolarità, sfruttamento, concorrenza. Come si governa questa vecchia immigrazione che crea un mondo parallelo e separato, con trentacinquemila abitanti nati fuori Prato su centonovantamila e con diciottomila cinesi ufficiali (più almeno dodicimila irregolari) e insomma la più grande comunità cinese d’Europa dopo Parigi, con la differenza che a Prato tutto è sotto gli occhi di tutti?
 
Bisogna prima di tutto decidere che la sinistra non può lavarsene le mani, e non deve, spiega Matteo Biffoni, sindaco di Prato. «A Chinatown facciamo otto controlli al giorno, tutti i giorni, perché questa cosa regge se monitoriamo la sicurezza nel lavoro e la regolarità delle aziende, anche per garantire una concorrenza con i no- stri imprenditori il più possibile corretta. Se la tua gente vede che l’immigrazione è regolata, si incanala nel lavoro e nelle regole, non nascono tensioni. Nel 2009 il Pd ha perso la città proprio sulla questione cinese, nel 2014 l’abbiamo ripresa con questa politica. Ce la stiamo facendo. Ma quando il prefetto ti scarica un gruppo di migranti in piazza e ti dice pensaci tu, nascono i problemi, perché tutto passa sulla testa dei sindaci e dei cittadini». Per questo Biffoni, che è anche presidente dell’Anci toscana, ha scritto una lettera al governo che dice calma, la nostra regione doveva prendere dodicimila migranti nelle quote di ripartizione, ne ha già tredicimila, per il momento fermiamoci e vada avanti qualcun altro. «Siamo di sinistra ma non siamo ciechi», spiega il sindaco. «Dobbiamo salvare le persone, dar loro accoglienza e lo facciamo, anzi il sistema toscano è tra i migliori, nei Centri non entrano più di quattordici persone e il quartiere le assorbe. Ma bisogna che i sindaci abbiano il potere di governare questa emergenza senza subirla e bisogna che come noi tutte le regioni facciano la loro parte prendendosi la loro quota, come si fa in un condominio. Se no tutto diventa paura, e nella paura la sinistra perde la sua gente, non la ritrova più. Io sono orgoglioso dell’accoglienza ai profughi del mio Paese, Renzi ha ragione. Ma voglio che i cittadini siano orgogliosi anche della sicurezza che dobbiamo garantire, guai se non pensiamo anche a loro e non rispondiamo ai loro timori. Quelli li catturano, e non li trovi più».
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Torino: il negozio di taralli pugliesi a piazza Foroni.

L'ondata dei migranti stringe la sinistra in una tenaglia infernale. La sindaca di Lampedusa: "Ci vuole un po' di follia ad accoglierne tanti. Ma l'abbiamo fatto, ed è andata bene. E' persino cresciuto il turismo".
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Il populismo
“QUELLI” SONO I POPULISTI, DI OGNI RAZZA. Hanno semplificato la realtà man mano che per il cittadino si complicava, offrendo un paradossale rifugio nella loro visione da fine del mondo. Hanno ridotto la politica all’osso — tutti ladri, tutti corrotti, tutti incapaci — schiacciandola su una visione unidimensionale. Hanno cancellato qualsiasi intermediazione, illudendo il cittadino che ogni governance si può fabbricare in casa, perché nel nuovo inizio non occorre sapere, basta sostituire. Hanno annullato ogni deposito di conoscenza, tecnica, esperienza, annunciando l’esperienza del trapianto permanente di civiltà. Hanno schiacciato ogni distinzione, invitando a fare di ogni erba un fascio, il mucchio selvaggio, perché tutti sono compromessi solo per essere venuti prima e nessuno è quindi innocente. Hanno scarnificato il linguaggio, rifiutando ogni elaborazione, ogni riflessione, ogni spiegazione, cercando il cortocircuito emotivo nel rancore e nell’insofferenza. Hanno modificato un costume politico, attaccando le persone per le loro caratteristiche fisiche pensando che siano difetti e che come tali vadano additati al pubblico ludibrio. Hanno puntato sulle sensazioni più che sulle cognizioni, trasportando in politica la cifra dei social network, dove un pensiero di Habermas e la battuta di un blogger sono condannati a vivere insieme il resto dei loro giorni, senza un segno distintivo che li separi, li gerarchizzi, avverta almeno di maneggiare con cura. Anzi, per la politica odierna Habermas si può buttare, è sterile, complesso e deperibile. La battuta no, va salvata: oggi ha mercato, è poco impegnativa ma cavalca tra i follower. È ciò che funziona.
 
La sinistra è naturalmente spiazzata. Ha passato il secolo cercando di coniugare il sapere con la politica per realizzare l’emancipazione dei più deboli attraverso la conoscenza, l’esperienza collettiva, la condivisione di un’avventura civile pedagogica per tutti. “Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza”, diceva il motto gramsciano dell’Ordine Nuovo.
Non è soltanto un giro retorico che si smarrisce, un’espressione del pensiero. È la forma della politica come cultura, dunque come conquista e sperimentazione del sapere, la sua dimensione più profonda, ciò che resta perché è ciò che dura, in quanto è ciò che vale. Il riconoscimento di un deposito culturale e di un orizzonte valoriale, che àncora le generazioni e crea una traccia che dura nel tempo.
 
Il populismo crede invece nella cabala dello zero. Zero compromessi, zero intese, zero pazienza, zero attese. Tutto ciò di cui è fatta la politica viene smontato e centrifugato nell’opposizione a tutto ciò che veniva prima del populismo. Persone, funzioni e istituzioni vanno insieme demoliti, perché manca la coscienza che dietro di loro ci sono storie, tradizioni, passioni insieme con gli errori, cioè tutto quello che fa muovere le bandiere della politica, insieme con i valori e con gli interessi legittimi da tutelare: e infatti da noi (con partiti che sono nati tutti mercoledì scorso) le bandiere politiche sono flosce perché non c’è vento, come sulla Luna.
Naturalmente se il populismo prospera è perché i tempi sono propizi. Gli errori evidenti della politica, l’inefficienza delle istituzioni, la corruzione sovrana gli hanno spianato la strada. La dimensione dei problemi (la più lunga crisi economica del secolo, l’assalto dello jihadismo islamista omicida, l’ondata migratoria) sovrasta ogni dimensione di governo tradizionale e annichilisce il cittadino, dandogli l’impressione che il mondo sia fuori controllo e che qualunque pretesa di governance sia inadeguata. In questa alba da
day after, in cui tutto però deve ancora accadere, il cittadino si sente esposto e dunque cerca di scambiare quel poco di politica che incontra con quel molto di paura che cresce in lui. Scambio illusorio ma confortevole. Il populista ha ricette per ogni paura. Basta dare un calcio al sistema.
Il fatto è che il sistema non funziona per ragioni di spazio, di tempo, di luogo, tutte insieme: perché il mercato è più largo della sovranità, la società vive nel tempo reale e la politica coi suoi meccanismi decisionali e la regola della maggioranza si muove nel tempo differito, perché i giovani abitano nella rete virtuale e la politica nella rete territoriale, con incursioni continue nel vintage televisivo che sembrano sempre più auto-rassicurazioni di esistere, in un gioco di specchi appannati.
 
In più il populismo, radendo al suolo il passato, crea un suo tempo “anti-genealogico” senza eredità, senza trasmissione, senza passaggio generazionale: senza il senso della storia, potremmo dire, inclinandola tutta sull’anno zero, in quello che il filosofo tedesco Peter Sloterdijk nel suo ultimo libro chiama l’”iper-presentismo”.
Tempo perfetto per il populismo dove tutto è estemporaneità, interpretazione, con la politica ridotta a performance e la rappresentanza sostituita dalla rappresentazione.
La sottile linea rossa Viaggio in Italia cercando la sinistra
Torino: il mercato di piazza Foroni. La piazza, che in passato è stata ribattezzata piazza Cerignola a causa della grande presenza di immigrati dal sud Italia, si trova nel quartiere "Barriera di Milano", storica periferia operaia nella zona nord della città.

La seconda Chinatown d'Europa è a Prato, riconquistata dal Pd due anni fa. Come? "Facciamo otto controlli al giorno", dice il sindaco, "se la gente vede che l'immigrazione è regolata non nascono tensioni".
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Gli sceriffi
UN TEMPO MALEDETTO PER LA SINISTRA, come l’abbiamo conosciuta. E se invece cambiasse? Se invece di arginare il populismo cedesse alla tentazione e addentasse l’ultima mela che come sappiamo ha due facce, una di destra e una simmetrica, o almeno mimetica? A ben guardare, forse è già successo. Al Sud la pianta rachitica della sinistra ha avuto un innesto con una cultura leaderistica, personale, autonoma che l’ha portata a vincere e poi ha attecchito ramificandosi come un rampicante dovunque, a Palermo con il sindaco Leoluca Orlando e con il governatore Rosario Crocetta, a Bari con il presidente della Regione Michele Emiliano, a Napoli con un’altra coppia di governatore e sindaco, Vincenzo De Luca e Luigi de Magistris.
Come chiamarli, cos’hanno in comune oltre alla capacità di acchiappare voti e di governare? “Sceriffi”. L’immagine mi viene in mente mentre con Conchita Sannino percorriamo quel chilometro di cubetti di pietra lavica, quei 1100 metri del potere che a Napoli separano Palazzo Santa Lucia, sede della Regione, da Palazzo San Giacomo, il Municipio, fermandoci proprio nel luogo delle antiche sfide elettorali, piazza Plebiscito. Sceriffi: sono soggetti alla legge generale della sinistra — ammesso che ce ne sia una — ma in città e in regione conta solo la legge della loro stella di latta, che indica un potere sempre più autoreferenziale, nato nel Pd ma poi cresciuto e confiscato in autorità personale, conosciuto e rispettato in tutto il territorio, al punto da diventare polemico con Roma, col governo, col partito, tracciando un’altra linea rossa, tra gli sceriffoni e il Pd.
 
De Luca, magniloquente nella sua perfidia chirurgica, ha trasformato un feudo in un principato, trasferendo il potere che si era costruito dopo vent’anni da sindaco di Salerno in comando su tutta la regione, senza perdere naturalmente il controllo sulla città: dove da quando Lucio Dalla finì l’ultimo concerto della sua campagna elettorale cantando
Attenti al lupo, tutti lo chiamano a mezza voce così, perché azzanna: “il lupo”. Credo non gli dispiaccia, visto il carattere e la ferocia con cui è saltato addosso a Rosy Bindi nell’ultimo furioso attacco. Intanto è stato eletto con 987mila voti e rotti, arrivando al 41,15 per cento, incrociando gli elettori di sinistra con quelli di Cosentino e Verdini, e con i demitiani. Poi ha fatto eleggere a Salerno il suo ex vice, Vincenzo Napoli, e quello gli ha nominato il figlio assessore al Bilancio. Quindi si è fatto allestire gli studi di Lira Tv nel palazzo del Genio Civile, e dagli schermi mette a posto tutti: il “finto ambientalismo”, la “palude burocratica”, la “sottocultura che mummifica il territorio”, la “volgarità politica”, la “cafoneria istituzionale”, le “nullità amministrative”, i “dieci pinguini che pensano di far cultura vedendosi in un salotto”.
Lupi e pinguini in lotta alla Regione, il “Che” in municipio. Poi non dovremmo parlare di populismo? “Che Guevara” è l’autodefinizione che de Magistris dà di se stesso nei suoi fluviali post su Facebook, soprattutto quando nel giugno scorso andava a caccia dei 186mila voti poi raccolti in una città dall’astensionismo record, arrivando al 66,85 per cento al ballottaggio. Il suo è un populismo lirico (“Napoli stupenda e magica, intrisa di umanità, ricca di popolo di tutto il mondo, Napoli amore mio”) e insieme di guerra, che ha scelto Renzi come nemico: “Premier, devi avere paura, Napoli deve tornare capitale, Granducato di Toscana dietro, Napoli davanti”. Guerra e lirismo si fondono nel gran finale: “Renzi, ti devi cagare sotto”.
 
La sinistra che c’entra? Intanto questa è una sua mutazione, e con gradazioni diverse gira per tutto il Sud. E poi a Napoli la sinistra tradizionale è ai minimi storici, col Pd all’undici per cento. Quei video coi voti per le primarie pagati in alcune periferie bruciano ancora sulla pelle del partito, e spiegano tante cose. Da Roma, sulla spinta della vergogna più ancora che della sconfitta, avevano promesso di scendere a Napoli con il lanciafi
6067  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / Paolo Flores d'Arcais La contro-riforma putiniana di Renzi, Boschi e Verdini inserito:: Novembre 22, 2016, 05:44:45 pm
La contro-riforma putiniana di Renzi, Boschi e Verdini

   Di Paolo Flores d'Arcais, da Repubblica

Amici lettori, pensate davvero che la “riforma” costituzionale Renzi-Boschi-Verdini non costituisca un pericolo per le vostre libertà? Provate a ragionare su questi ineludibili dati di fatto.

Oggi in Italia vi sono tre schieramenti che ottengono grosso modo il 25/30% dei voti (il resto si disperde tra forze minori). Poiché ormai un terzo degli italiani non va a votare (e il fenomeno è in crescita), con la “riforma” suddetta e la concomitante nuova legge elettorale (sia nella versione Italicum che, forse ancora peggio, in quella “corretta Cuperlo”), chi rappresenta solo il 17/20% dei cittadini otterrà una schiacciante maggioranza assoluta in Parlamento (di nominati, dunque fedeli al Capo “perinde ac cadaver”), il controllo della Corte Costituzionale, del Consiglio Superiore della Magistratura (da cui dipendono tutte le nomine ai vertici di Procure Tribunali e Cassazione), la scelta del Presidente della Repubblica (e la possibilità di facile impeachment nel caso non piacesse più e non si “allineasse”), il controllo della Rai, tutte le nomine delle Authority di “garanzia” (Consob, Privacy, ecc.), oltre ovviamente al governo.

Potrebbe vincere Renzi, potrebbe vincere Grillo, potrebbe vincere la destra-destra (in declinazione Berlusconi/Salvini o Berlusconi/Parisi, a seconda degli umori di Arcore). Io voterò M5s, come faccio già da tempo, ma avrei paura se a questa forza andassero i poteri previsti dalla contro-riforma (chiamiamola col suo nome, vivaddio!) Renzi-Boschi-Verdini. E ne avrebbero anche i “cinquestelle”, responsabilmente, visto che hanno proposto una legge elettorale “proporzionale corretta” (tipo Spagna e in parte Germania) e sono impegnati per il No.

Perché con la contro-riforma costituzional-elettorale (le due cose sono inscindibilmente intrecciate proprio nel disegno dei promotori), un leader da 17/20% di consenso dei cittadini avrebbe un potere che sfiora quello di Putin e di Erdogan, senza necessità di ricorrere alla galera e alla violenza. E, ripeto, chi sia questo leader dipenderebbe da spostamenti minimi di voti (nel caso del turno unico saremmo addirittura alla roulette). Davvero questa prospettiva non vi gela il sangue?

Se non vi fa paura vuol dire che avete superato in atarassica serenità zen il più “disincarnato” dei monaci orientali, il che sarà magari ottimo per la vostra psiche e le vostre future reincarnazioni, ma per il funzionamento di una democrazia è micidiale. In ogni democrazia fondamentale è il rispetto delle minoranze, le garanzie per i bastian-contrari, i diritti civili e gli spazi di comunicazione reale di quella minoranza delle minoranze che è il singolo dissidente. Niente di tutto questo resta in piedi con le contro-riforme Renzi-Boschi-Verdini.

Vi flautano nelle orecchie: ma è il prezzo da pagare per l’efficienza, per la velocità del processo legislativo. Davvero ci siete cascati? Non l’avete ancora letto l’articolo 70 controriformato? Claudio Santamaria lo ha recitato in pubblico, alla manifestazione indetta da MicroMega con Maltese, Rodotà, Zagrebelsky, Carlassare, Ovadia e tanti altri, lo ha letto come si conviene a un grande attore e come esige la punteggiatura di quella pagina e mezzo (attualmente l’articolo 70 è di una riga): un incomprensibile labirinto mozzafiato di commi e sottocommi, su cui i giuristi hanno già dato una dozzina di interpretazioni diverse, una sbobba procedurale che garantirà ricorsi su ricorsi fino alla Corte Costituzionale. Santamaria ha detto che sembrava scritta da Gigi Proietti in uno dei suoi momenti satirici di grazia. Forse, ma certamente con la collaborazione del notissimo e manzoniano dottor Azzeccagarbugli.

Vi sventolano davanti agli occhi lo specchietto per le allodole dei costi della politica che diminuiscono, davvero ve la siete bevuta? Qualche decina di milioni in meno: costa assai di più ogni settimana semplicemente tener in vita l’ipotesi del Ponte sullo Stretto (se poi, con il Sì nelle vele, lo costruiranno davvero, saremmo a una tragedia da piangere per generazioni). E se i senatori saranno un pochino di meno, in compenso i politici regionali e comunali che andranno in quegli scranni godranno del premio più ambito per i troppi politicanti che della politica fanno mercimonio e profitto: l’amatissima immunità. I costi della politica si tagliano in radici riducendo a zero le migliaia e migliaia di consigli di amministrazioni delle “partecipate”, le migliaia e migliaia di consulenze di nomina politica, il groviglio ciclopico di enti inutili, e insomma i milioni di persone che “vivono di politica”, e lautamente, per meriti che con il merito hanno ben poco a che fare.

Millantano che con il Sì combatterete la Casta, ma la Casta sono loro, ormai, il giglio magico e le sue infinite propaggini, l’indotto di nuovi piccoli satrapi messo in moto dalle Leopolde, le incredibili mediocrità assurte a posizioni apicali, le imbarazzanti nullità innalzate nell’Olimpo dell’intreccio affaristico-politico, che ormai fanno apparire uno statista perfino Cirino Pomicino.

Col No, il No che conta, vince invece la società civile di questo quarto di secolo di lotte. Che ha come programma l’unica grande riforma necessaria: realizzare la Costituzione, che i conservatori di sempre hanno bloccato, edulcorato, sfigurato, avvilendola nella camicia di forza della “Costituzione materiale”, democristiana prima, del Caf (Craxi Andreotti Forlani) poi, infine di Berlusconi (che con le sue televisioni ammicca al Sì e a chiacchiere sta col No, il solito piede in due scarpe), e oggi del suo nipotino Renzi.

Se col tuo voto vincerà il No, amico lettore, non ci sarà nessuna instabilità, semplicemente diventerà inevitabile un governo di coerenza costituzionale, e si aprirà la strada per l’unico rinnovamento di cui l’Italia ha bisogno, quello che porta scritto “giustizia e libertà” e come stella polare ha l’eguaglianza incisa nella Costituzione repubblicana nata dalla Resistenza.

(21 novembre 2016)

Da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-contro-riforma-putiniana-di-renzi-boschi-e-verdini/
6068  Forum Pubblico / "ggiannig" la FUTURA EDITORIA, il BLOG. I SEMI, I FIORI e L'ULIVASTRO di Arlecchino. / Arlecchino. Da ... FB del 22/11/2016 inserito:: Novembre 22, 2016, 05:37:14 pm

S. R.

Ho una domanda esistenziale che preme per ottenere risposta, una domanda necessaria, che fino a ieri proprio impaziente mi si è riproposta tipo peperonata, bolo indigesto. Ero felice, in effetti, di quella felicità chimica provocata dalla soddisfazione di una dipendenza in corso, ma la domanda puntava al fianco, il fastidio cresceva e niente, sono stata costretta a raddoppiare la dose della mia personale droga per metterla a tacere, per limare un poco il fastidio, per non abbassare il livello di felicità appena sfiorato. La domanda è questa: perché diavolo bar, pasticcerie, tisanerie deliziose dall'estetica retrò (dove mi infilo io di solito, ché faccio già una selezione a monte, non aspettandomi di certo di trovare altrove, in luoghi più dinamici e per gggiovani, certe condizioni), dicevo, perché diavolo tengono la radio sparata a tutto volume, stile discoteca, raduno evil metal, concerto estivo, festa di universitari sbronzi, giungla di frequenze impazzite? Ora, io non dico il silenzio assoluto, ma ecco, un minimo di tranquillità sonora per scambiare due parole con chi ci accompagna, o per leggere qualche pagina di libro in santa pace, non sarebbe mica male, eh. Per calmare la stizza di ieri, mentre consumavo la mia merenda quotidiana (la droga a cui accennavo) in una garbata luccicante pasticceria bomboniera, non ho potuto fare altro che ordinare, oltre al marocchino con cioccolata e panna, anche un piccolo vassoio di paste. Ma niente, la musica martellava. Abbiate pietà delle nostre orecchie, oh voi proprietari e gestori di tali ritrovi golosi, se proprio non potete stare senza sottofondo musicale, almeno non lasciate correre libera la radio, scegliete un cd, selezionate, non somministrate certe schifezze auditive insieme alla vostre leccornie, e abbassate il volume. Ingrasso infelice sennò, e non va bene.


D. P. Parole sante. Io evito questi locali. Ce ne sono tanti, che non sparano musica a palla, fortunatamente. (Sui motivi dello sparare musica a palla, ci vorrebbe un bravo psico-sociologo per spiegarceli).


Gianni Gavioli I motivi? Chiamali se vuoi "sciatteria"! Da piccolo andavo in "osteria" con mio nonno, lui giocava a carte con altri nonni io mangiavo un panino con mortadella e bevevo una spuma. Ogni tanto i nonni alzavano la voce, tra loro, per una carta scartata nel momento sbagliato. Ricordo quei pomeriggi all'osteria come momenti sereni e di pace. Ed eravamo poveri. Ciaooo

Da FB del 22-11

6069  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / BARDELLI. Il PD si spacca contro Renzi e crea Il NO di chi vuol bene all'Italia inserito:: Novembre 21, 2016, 11:47:13 am
Gli stati generali
Referendum costituzionale

Il PD si spacca contro Renzi e crea “Il NO di chi vuol bene all’Italia”

Beatrice Bardelli
20 novembre 2016

E’ arrivato poche ore fa questo appello, preoccupato ed accorato, di moltissimi iscritti al Partito Democratico che si schierano a viso aperto, con tanto di nome e cognome, a difesa del testo vigente della Costituzione e contro la riforma/deforma costituzionale imposta dal governo Renzi. Ecco il loro comunicato:

«Il NO di chi vuol bene all’Italia». In questi giorni, in tutto il Paese, si moltiplicano documenti e appelli di iscritti ed elettori del PD per il No al referendum sulla riforma costituzionale. Dopo i Democratici per il No da Roma, c’è stato Milano e poi l’Umbria, Modena, e altre decine di appelli locali con l’ obiettivo di portare alla luce le ragioni di chi, iscritto ed elettore convinto del PD, ritiene con altrettanta convinzione che la Riforma proposta a Referendum vada nella direzione sbagliata, non migliori il funzionamento delle istituzioni e insistendo con il centralismo dello Stato e la supremazia del Governo sugli altri poteri democratici, prepari il terreno per l’affermazione della destra populista. I promotori di questo messaggio, “Il NO di chi vuol bene all’Italia”, si inseriscono in questo movimento, vengono da molte province d’Italia, sono impegnati a diversi livelli nel PD o ne sono elettori esigenti ed informati. E, soprattutto, pensano al PD come un partito inclusivo e pluralista. Sono di sinistra, stanno nelle associazioni, nei sindacati, nel volontariato. Tutti pensano che il PD debba continuare a governare il paese, che la Costituzione sia pensata per i tempi lunghi della vita dell’Italia e per tutti i suoi cittadini, soprattutto per quelli che verranno. Pensano che le scelte sulla Costituzione vadano separate dai destini di un Governo e di un leader. Tutti si aspettano che il cinque di dicembre, comunque vada, meglio se dopo un No del popolo ad una riforma sbagliata, il PD pensi al molto che non va nella società italiana, a riformare le riforme sbagliate e a ricostruire un centrosinistra nuovo che convinca il paese.”

Di seguito il testo del documento:
I primi 300 promotori:

Serena Spinelli (FI) Gessica Allegni (FC) Cecilia Carmassi (LU) Rosa Dello Sbarba (PI) Bruna Dini (LU) Andrea Ferrante (PI) Patrizio Mecacci (FI) Nicola Palombo (CB) Tea Albini (FI) Angelo Capodicasa (AG) Paolo Fontanelli (PI) Filippo Fossati (FI) Maria Grazia Gatti (PI) Tiziano Alessandrini (FC) Tito Barbini (AR) Luigi Bianchi (MS) Alessandro Biggi (SP) Marco Caglioni (BG) Leonard Conforti (LI) Riccardo Conti (FI) Matteo De Capitani (BG) Francesco De Vanna (PR) Silvia Fringuello (TR) Giacomo Galazzo (PV) Antonella Golinelli (RA) Federica Paganelli (SP) Carlo Porcari (PV) Paolo Rappuoli (SI) Paolo Trande (MO) Simone Accardo (PV) Susanna Agostini (FI) Roberto Albertin (PV) Lucia Albonetti (FC) Alfio Alvia (SP) Diana Arban (FI) Bruno Ascoli (FC) Adam Atef (PV) Antonio Auriemma (FC) Albana Bagni (FI) Mauro Bagni (FI) Piero Bagni (PI) Fabio Baldi (FI) Gabriele Baldi (FI) Antonella Baldini (PI) Paola Balestri (PI) Mattia Balzani (FC) Giorgio Balzano (FI) Antonio Bandino (FI) Giuseppe Barbugli (FI) Stefano Baroncini (FI) Antonella Baroni (PI) Luciano Bartolini (FI) Gino Bartolozzi (FI) Massimo Basetti (FI) Alice Bassi (SP) Pino Basso (SP) Gianni Battaglia (RG) Carmelo Belardo (MO) Franco Belli (FI) Massimiliano Belli (FI) Renato Belli (FI) Renato Belli (FI) Vladimiro Bertaccini (FC) Sandro Bertagna (SP) Marinella Besussi (PV) Daniele Bettarini (FI) Luca Biagi Mozzoni (FI) Benvenuto Bianchi (BG) Emanuela Bianchi (LU) Margherita Bianchi (SP) Leandro Bianco (TP) Grazia Biancu (CA) Davide Bizzi (SP) Mario Bizzi (SP) Cinzia Bogino (PI) Silvana Bonari (FI) Lorenzo Boncinelli (FI) Giovanni Borrini (SP) Vittorio Bragazzi (SP) Maria Rosa Buggea (FI) Aldo Burresi (PV) Antonio Cagianelli (PI) Cristina Cagianelli (PI) Claudio Calore (FI) Ornella Caltabiano (SP) Andrea Canali (FC) Filippo Cancarè (EN) Luciana Canese (SP) Salvatore Capizzi (FI) Sara Cappelletti (FI) Alessandro Caprili (LU) Milena Carassale (SP) Themi Carassale (SP) Marcello Carlà (FI) Pierluigi Carofano (PI) Carlo Carretti (FI) Damiana Caruso (PI) Marzia Casadei (FC) Roberto Caserini (PV) Marta Casoli (FI) Francesca Castagna (SP) Michele Edoardo Castaldi (SP) Nicolina Cavallaro (FI) Antonio Cavallaro (PV) Vinicio Ceccarini (SP) Vinicio Cellerini (FI) Piero Centonze (PV) Riccardo Ceriani (BG) Alessandro Cerrai (LU) Elio Ceruti (BG) Maria Checchi (FI) Ilario Chesi (FI) Carlo Chioatero (FI) Antonella Cimatti (FC) Domenico Cingari (FI) Stefania Collesei (FI) Franco Convito (FI) Katia Daniela Corsetti (LU) Giovannantonio Cossu (PI) Tommaso Costa (PI) Gabriella Crovara (SP) Monica D’Imporzano (SP) Federico De Paola (PI) Nicola De Rosa (PV) Mario De Socio (FC) Tobia Del Vecchio (PV) Marcello Delfino (SP) Antonio Dell’Omodarme (PI) Juri Dell’Omodarme (PI) Alberto Di Cintio (PV) Antimo Di Matteo (PV) Maria Cristina Dominici (FI) Martina Draghi (PV) Cecilia Fabbian (PV) Roberto Fabbri (FC) Antonio Fantini (FC) Sonia Fantozzi (FI) Giovanni Felice (FC) Delio Ferrari (PV) Grazia Ferraro (FI) Oriella Ferrini (FI) Aldo Fontana (PV) Marcello Fornai (FI) Giuseppe Franco (ME) Piero Fratelli (BG) Michele Fucci (PV) Paola Fungheri (PI) Iuri Furiesi (FI) Mario Furiesi (FI) Bruno Gambone (FI) Massimo Gaspari (FC) Luca Gazzano (SP) Rosalba Geraci (PV) Aldo Giacchè (SP) Dino Giacchè (SP) Angelo Giani (PV) Cesare Giglioli (FI) Roberto Gionfra (SP) Silvia Gionfra (SP) Alessandro Gori (FI) Ambrogio Guasconi (PV) Barbara Guerrazzi (PI) Shala Herta (PI) Giuliana Iari (FI) Nino Lorenzo Ietro (FI) Franca Landi (SP) Luca Lanzoni (FI) Aldo Lasagna (LU) Denise Latini (FI) Giovanni Latini (FI) Maurica Lazzoni (SP) Filippo Lo Bocchiaro (FI) Eloisa Lo Presti (FI) Filippo Lobocchiario (FI) Onelia Loisi (FI) Leonardo Lombardi (FI) Francesco Lombardi (FI) Giovanni Losinno (PI) Donatella Lotzniker (PV) Graziella Lucii (FI) Luigi Maccioni (GE) Paolo Maccioni (CA) Titina Maccioni (PI) Stefano Maestrelli (LU) Paolo Maglioni (SI) Claudia Magnani (PV) Alice Magni (BG) Mario Mallia (AG) Giuliana Maltoni (FC) Claudia Mambrini (FC) Mauro Manetti (FI) Paolino Mangano (CT) Francesco Mangone (FI) Libero Mannucci (FI) Claudio Marabini (FC) Giulio Marabini (FC) Icilio Maraffini (PV) Bruno Marcelli (FI) Maurizio Marchesoni (PV) Andrea Marchetti (PI) Sara Marchetti (PI) Roberto Marchini (FC) Gianfranco Marinaro (SP) Ilva Marini (FI) Paolo Mariotti (SP) Salvatore Marrano (PV) Antonio Marrucci (FI) Anna Martano (SR) Maria Carla Massarenti (FI) Cinzia Materossi (PV) Marina Mauriello (SP) Daniele Mazzola (BG) Luigi Miccoli (FC) Federica Migliavacca (PV) Fausta Minotti (FC) Andrea Misuri (FI) Nicola Molea (PI) Manuela Montanari (FC) Tito Mora (PR) Maura Mori (FI) Giacomo Moro (PV) Ferrera Mugnai (FI) Manuela Musina (FI) Marina Nanni (FC) Rober Nanni (FC) Lamberto Nepi (FI) Yurj Neri (FI) Francesca Pacini (PI) Doriano Pagliai (FI) Antonio Pagliazzi (FI) Barbara Pallanti (FI) Giuseppe Palumo (PV) Luisella Papalini (FI) Silvano Papini (LU) Gianni Parigi (FI) Marta Parigi (FI) Gian Paolo Pazzi (FI) Paola Pelanti (FI) Nadia Pellacani (PV) Paola Pelosini (PI) Alessandro Perdercini (BG) Ferdinando Perrucci (PV) Francesco Piccione (FI) Filippo Picone (FI) Pierluigi Pierattini (FI) Sergio Pini (LU) Maria Cristina Pinzani (FI) Lucia Pisculli (SP) Rosanna Pittiglio (SP) Camillo Pizzocaro (PV) Colomba Plebani (BG) Cristina Poggi (FI) Emiliano Poli (FI) Paolo Pucci (SP) Pietro Puccio (PA) Corinna Pugi (FI) Gigi Pugliese (PV) Paolo Putrino (SP) Maria Cristina Ravaioli (FC) Eddis Ricci (FC) Giuseppe Ricciardi (SP) Francesco Rizzo (BG) Antonio Romei (FI) Alessio Rossi (FI) Graziella Rossi (FI) Teresa Rotondo Dottore (PI) Valter Ruzza (PV) Simonetta Sacchi (PV) Giuseppe Saglia (PR) Luisella Salimbeni (FI) Giuliano Sarchielli (FI) Innocenzo Satta (PV) Paolo Savelli (SP) Cinzia Saviotti (PV) Tina Savitteri (FI) Roberta Scandellari (PR) Giuliano Scapazzoni (SP) Settimo Scatena (SP) Silvio Scuglia (PI) Dario Secchi (FI) Martina Secchi (FI) Egidio Siciliano (BG) Lucia Solaro (SP) Rosauro Solazzi (FI) Luisa Sommariva (PV) Paolo Sordi (FI) Antonio Spedicato (PV) Egidio Srocco (PI) Stefania Staglianò (FI) Pietro Stinziani (FC) Michele Stortini (MO) Lorenzo Taboni (BG) Giuliano Talini (PI) Massimo Talini (FI) Stefano Tamberi (SP) Enrica Tanzini (FI) Andrea Toncelli (PI) Cristiana Torti (PI) Costanza Tortù (FI) Marcello Tringali (CT) Brunella Turci (FC) Maurizio Tursini (FI) Sergio Valassi (PV) Franco Valtriani (SP) Valerio Vannetti (FI) Luca Vanni (SP) Sandro Vanni (PI) Clara Vella (FI) Andrea Veneranda. (FI) Daniele Venturi (FI) Francesco Verdianelli (PI) Carla Vivoli (LU) Lodovico Zanetti (FC) Danila Zanoni (PV) Marzio Zogno (PV).

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6070  Forum Pubblico / AUTORI. Altre firme. / ILVO DIAMANTI - L'elogio della mediazione. La democrazia rappresentativa al ... inserito:: Novembre 21, 2016, 11:41:29 am
L'elogio della mediazione
Le mappe.
La democrazia rappresentativa al tempo dei social

Di ILVO DIAMANTI
21 novembre 2016

NON E' da oggi che, non solo in Italia, si accentuano le spinte verso un presidenzialismo di fatto. Verso una democrazia immediata, più-che-diretta, che rimpiazza ogni mediazione rappresentativa con i media. Ne ho scritto altre volte in passato. E non solo io. Ma oggi, in Italia, questa tendenza si è accelerata.

Fra meno di due settimane si voterà a un referendum, per decidere - anzitutto ma non solo - di ridimensionare i poteri del Senato. E, dunque, il bicameralismo paritario. Per rendere i processi decisionali più rapidi. Più diretti. Più immediati. Il referendum stesso è un metodo di democrazia immediata. Che affida la scelta e la decisione al "popolo sovrano". Ma la posta in palio di questo referendum va ben oltre la riforma costituzionale, peraltro, importante. Chiama in causa, in modo diretto, anzi, immediato, il premier, Matteo Renzi. Il quale, per primo, ha attribuito al referendum una finalità "politica" e "personale". Annunciando che, nel caso non fosse stato approvato dal voto popolare, si sarebbe dimesso. Così, per citare Gianfranco Pasquino, il referendum si è trasformato in un plebiscito. In un'investitura o, al contrario, una dis-investitura. Diretta. Anzi im-mediata. Questa "piega" è divenuta esplicita nelle ultime settimane. Perché, al di là di tutto e di tutti, il confronto pone, ormai, di fronte il Capo e il Popolo sovrano. Al quale Renzi si è rivolto. Saltando ogni mediazione. Così sarà difficile, in caso di approvazione, mettere in discussione i suoi poteri. La sua legittimità. Riconosciuta dal Popolo sovrano. Direttamente. Così, nei prossimi giorni, il premier si rivolgerà direttamente ai cittadini. Inviando ad ogni famiglia un opuscolo che spiegherà le ragioni del Sì. Al tempo stesso, Renzi ha denunciato "l'accozzaglia di tutti contro una sola persona". Lui. Solo. Di fronte ai nemici che operano contro di lui e contro la riforma.

Al tempo stesso, Renzi ribadisce che, se il referendum non venisse approvato, il governo seguirebbe il destino del premier. Cioè, le dimissioni. Ripeto e metto in fila cose note. A tutti. Perché espresse e comunicate pubblicamente. Tuttavia, non mi interessa tanto entrare nei contenuti del dibattito sul referendum. Ma, piuttosto, ragionare sulle dinamiche del rapporto fra società e politica che emergono in questa fase. In particolare, sulla rapida riduzione delle distanze fra autorità e cittadini. Insieme alla personalizzazione della politica e delle istituzioni. Oggi, infatti, ma non solo da oggi, il governo e i partiti sono personalizzati, in modo sempre più estremo. In Italia in particolare, il Pd, partito di maggioranza e di governo, appare iper-personalizzato. Direi quasi personale, com'era Forza Italia. Anche se Renzi ha "conquistato" democraticamente la guida del partito, attraverso le primarie. Tuttavia, anch'egli ha centralizzato decisioni e poteri. Si è circondato da una cerchia di persone fedeli e amiche. Ha, di fatto, rimpiazzato i congressi con la convention "personale" alla Leopolda. La stazione di Firenze vicino a casa. Sua. Per questo ho ri-definito il Pd: PdR. Partito di Renzi. D'altronde, Renzi interpreta in modo esemplare il tempo della "democrazia im-mediata". Oppure, per citare Nadia Urbinati, "in diretta". Certo, come Berlusconi, sa comunicare efficacemente attraverso i media tradizionali. Per prima la televisione. Ma, più e meglio di altri, utilizza i social media. Twitter e Facebook. I canali della "comunicazione im-mediata". Che bypassano ogni "mediazione". E mettono in relazione diretta, anzi, im-mediata, il Capo con il suo popolo. Non è un caso e non è per caso che il principale soggetto politico di opposizione sia il M5S. Fondato e guidato da Beppe Grillo, ispirato da Gianroberto Casaleggio. Il M5S ha utilizzato la rete come una nuova Agorà. Dove i cittadini possono deliberare direttamente sulle questioni di maggiore interesse pubblico. Come nell'Atene di Pericle. Il M5S: un soggetto e un progetto di democrazia diretta. Meglio: im-mediata. Senza mediazioni. Anzi: contro ogni mediazione e ogni mediatore. E, dunque, contro i "media" e i giornalisti. Visto che al tempo del digitale ogni cittadino può e dovrebbe discutere e decidere sulle questioni di interesse comune. Nell'Agorà digitale.

I canali e gli attori tradizionali della mediazione, d'altronde, si sono rarefatti. I partiti per primi, sempre più personalizzati e abbandonati dagli iscritti. Intorno a noi vediamo leader senza partiti e partiti senza società e senza territorio. Così i leader si rivolgono direttamente ai cittadini. Senza mediazioni. D'altronde, le mediazioni sono sempre più difficili da proporre e da imporre. Perché i cittadini appaiono, a loro volta, più soli. Visto che non solo i partiti, ma anche le associazioni tradizionali si stanno indebolendo. Il sindacato, le organizzazioni di rappresentanza degli interessi: hanno perduto la loro base sociale. E, insieme, la fiducia dei cittadini. Ormai, meno del 20% delle persone, in Italia, esprime fiducia nei sindacati. Mentre, fra le istituzioni, mantengono un buon grado di credibilità solo le Forze dell'ordine, il presidente della Repubblica. E Papa Francesco. Sintomi e segni della diffusa domanda di sicurezza. E di "fede". In qualcuno. In qualcosa.

Per questa ragione, in questi tempi di democrazia im-mediata, attraversati e interpretati da uomini soli al comando, chiamati a decidere subito e senza mediazioni, in rete o attraverso i referendum popolari, mi sento un po' a disagio. D'altronde, Evgenij Morozov ha insegnato a diffidare della visione ottimista di internet, (non sempre) canale di promozione democratica. E ha mostrato il "lato oscuro della rete". Così a volte provo un po' di nostalgia. Dei (buoni) partiti. Capaci di rappresentare la società. Capaci di indicare percorsi futuri, perché hanno un passato, una storia. E ammetto la mia preferenza per la democrazia rappresentativa. Per la "buona" mediazione, realizzata da "buoni" mediatori.

© Riproduzione riservata 21 novembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/11/21/news/l_elogio_della_mediazione-152437425/?ref=HRER2-1
6071  Forum Pubblico / Gli ITALIANI e la SOCIETA' INFESTATA da SFASCISTI, PREDONI e MAFIE. / Renzi Chi vota No è un’accozzaglia? Mi scuso se ho offeso, ma non è ... inserito:: Novembre 21, 2016, 11:38:29 am
Renzi: “Chi vota No è un’accozzaglia? Mi scuso se ho offeso, ma non è un’alternativa”
Il premier a In Mezz’ora accusa Landini: «Siete per la casta».
La replica: «Non è vero»


Pubblicato il 20/11/2016
Ultima modifica il 20/11/2016 alle ore 16:19

«Non sto dicendo che è un’accozzaglia chi non vota come me o per me. Sto dicendo come può un’accozzaglia di persone e forze politiche totalmente diverse che non la pensano allo stesso modo, costruire un’alternativa a questo governo. Se ho offeso qualcuno mi scuso, ma io intendevo fare un complimento». Lo dice il premier Matteo Renzi a In Mezz’ora.
“Non fatevi fregare, con No non si cambia più” 

«Vi stanno cercando di fregare, i senatori saranno eletti dai cittadini. Il punto è che non prenderanno lo stipendio e i rimborsi. Nessun pericolo per la democrazia» ha aggiunto Renzi. «I cittadini devono decidere se farsi fregare da chi dice che c’è una non ben definita pecca nell’ingranaggio. Se vince il No non cambierà più niente, nessuno nella prossima legislatura ridurrà i parlamentari».

Renzi: “Siete per la Casta”. Landini: “Non è vero” 
«Ho il sospetto che la riforma non l’abbia letta, Landini. Glielo dico con rispetto. Bisogna cambiare le cose, non difendere la Casta come fate voi» spiega il premier. “Non è vero, la Cgil era per un Senato vero delle autonomie, questa cosa invece è un animale bicefalo che non si capisce se verrà eletto. Io sono contro il doppio lavoro sempre e non capisco come si possa fare il sindaco o consigliere e il senatore. Questa riforma è malfatta», ribatte Maurizio Landini. 

“Impensabile difendere il Cnel” 
Lo scontro va avanti a lungo. «Capisco la solidarietà tra colleghi sindacalisti, ma difendere il Cnel è impensabile per chiunque», attacca Renzi. «Sul Cnel non ho problemi ma la Costituzione non può essere cambiata all’ingrosso, siete voi a far votare 40 articoli insieme», replica il leader Fiom. «Non dica che la procedura legislativa è incomprensibile perché basta leggerla», afferma il premier. «Avevamo proposte perché non siamo perché le cose rimangano come adesso. I titoli sono giusti, il problema è lo svolgimento», dice Landini.

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Da - http://www.lastampa.it/2016/11/20/italia/politica/renzi-chi-vota-no-unaccozzaglia-mi-scuso-se-ho-offeso-ma-non-unalternativa-ToD3AD9E5lIrQv7IyeLdvO/pagina.html
6072  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / CAZZULLO. Bottura: Io, salvato da mio figlio. Referendum, se vince il No avrei.. inserito:: Novembre 21, 2016, 11:35:54 am
LO CHEF
Bottura: «Io, salvato da mio figlio Referendum, se vince il No avrei voglia di andarmene»
Lo chef: «È un ragazzo colpito da una rara sindrome genetica, mi insegna i veri valori. La dote degli italiani è saper maneggiare l’irrazionalità»


Di Aldo Cazzullo, inviato a Modena

«A volte non riconosco più il mio Paese. Persone che si azzuffano per un parcheggio. Risse al bar per il cappuccino. Una tensione pronta a esplodere in ogni momento. Giovani che non hanno fiducia in se stessi e nel futuro», dice lo chef Massimo Bottura. «Poi incontro gli allevatori, i contadini, i pescatori: gli eroi del nostro tempo. Mi rendo conto di essere seduto su secoli di tradizione, su un territorio unico al mondo; e posso fare come Ai Wei-Wei, che manda in pezzi un vaso di duemila anni, per poi ricostruirlo. Mi considerano un avanguardista; in realtà faccio la cucina più tradizionale che ci sia». Qualche dato oggettivo: quest’anno Massimo Bottura è stato designato il più grande cuoco del mondo. La rivista del New York Times, sotto il titolo «The Greats», annuncia le interviste a Michelle Obama, Lady Gaga, e a lui. In copertina c’è lui.
Gli inizi
«Mio padre commerciava petrolio. Una vita d’inferno. Ore a discutere per guadagnare una lira su un carico di cherosene. Sono l’ultimo di cinque figli: ingegneri, commercialisti. Io dovevo fare l’avvocato. Con papà fu una rottura insanabile. Mia madre capì che dovevo seguire le mie passioni: la musica, l’arte. La cucina. La prima trattoria l’ho comprata da un ex elettrauto, in campagna; mamma veniva a preparare le tagliatelle e le torte. Poi mi sono preso una pausa e sono andato a New York». «Un giorno entro a Soho al “Caffè di nonna”, un locale aperto da un italoamericano, Roy Costantini, un ex parrucchiere. Vedo che manca personale e mi offro: “Si comincia domani” è la risposta. Il giorno dopo, l’8 aprile 1993, al bancone trovo un’altra neoassunta, un’attrice dai capelli rossi che deve arrotondare i magri introiti del teatro: Lara. Ora è mia moglie. Abbiamo due figli, Alexa, che studia a Washington, e Charlie, che mi ha salvato». «È Charlie che mi aiuta a stare con i piedi per terra. Nostro figlio ha una sindrome genetica rarissima. Non sappiamo cosa sia. Disformismi, difficoltà di apprendimento. Passo dopo passo sta crescendo, sta imparando tante cose. Anche a fare i tortellini a mano, in un’associazione di Modena che si chiama appunto il Tortellante, dove le nonne insegnano ai ragazzini. Per anni ho sognato che al telefono mi dicesse: “Ciao papà, come stai?”. Ha fatto molto di più. Quando mi hanno proclamato il migliore al mondo, al telefono mi ha detto: “Papà, sarai anche il numero uno, ma per me sei sempre un gran babi”, il mio fessacchiotto. È Charlie che mi insegna ogni giorno i veri valori della vita».
La politica e l’Expo
«Il referendum è una questione culturale prima che politica. Se vince il No, mi viene voglia di mollare tutto e andare all’estero: ringrazio il mio Paese che mi ha dato moltissimo, chiudo e riapro a New York. Il punto non è Renzi, o Grillo. È la logica per cui “in Italia non si può fare”. Se passa questa logica, è finita. Purtroppo molti giovani si arrendono prima di combattere. Abbiamo detto no alle Olimpiadi, rinunciando a due miliardi di dollari del Cio. Se è per questo, volevamo dire no pure all’Expo». «Io all’Expo sono andato, a recuperare gli scarti e cucinarli. Un’esperienza bellissima. Ho voluto ripeterla a Rio, durante i Giochi. Sono venuti sia Alexa sia Charlie, che la sera girava a offrire hamburger ai bambini di strada. Abbiamo aperto un gigantesco ristorante per i poveri di Lapa, un quartiere dove i ragazzi girano con la pistola alla cintola. Volevamo fare cultura, non carità. Non regalare gli avanzi, ma insegnare ai giovani volontari brasiliani a recuperarli. Ho dovuto trovare la forza di violentarmi e mettermi a loro disposizione, non il contrario. Il giorno dell’inaugurazione non avevamo né acqua né luce né gas. Sono scappato e sono andato a farmi un tatuaggio sulla spalla destra. Eccolo qui: “No more excuses”; basta scuse. Al mio ritorno abbiamo trovato l’acqua tastando il muro con lo stetoscopio, è arrivato un camion con il generatore di corrente, abbiamo acceso i fornelli con le bombole a gas».
Il metodo
«Dovevo fare una carbonara per duemila persone, ma avevo bacon per due porzioni. L’ho tagliato a fettine sottilissime e le ho stese sulla teglia. Poi ho preso delle bucce di banana. Le ho sbollentate, grigliate, tostate in forno. Alla fine erano affumicate, croccanti. Le ho fatte a cubetti, ricoperte di un altro strato di bacon e rimesse in forno: il bacon si è sciolto; le bucce di banana parevano guanciale». Diranno che lei rifila ai poveri le bucce. «Applico la stessa idea qui nel mio ristorante: uno strato sottilissimo di porcini, e poi tuberi, radici, zucca, castagne: il ceviche d’autunno. E le lenticchie possono avere lo stesso sapore del caviale, anzi migliore, se cotte nel brodo d’anguilla». Il metodo Bottura è sintetizzato dall’opera di Joseph Beuys all’ingresso del ristorante: un limone, una spina, una lampadina. «Natura, tecnologia, poesia. La materia prima, la tecnica, la creatività. Come diceva Beuys: la rivoluzione siamo noi. Musica, arte, letteratura, filtrate da un cervello contemporaneo. I quadri possono diventare piatti, anche le combustioni di Burri, che traduco in cucina bruciando l’acqua di mare disidratata». La ricetta che la rappresenta meglio? «Forse le cinque consistenze di parmigiano. Un paesaggio masticabile. All’inizio le consistenze erano solo tre. Le ho inventate per Umberto Panini, il re delle figurine che aveva aperto una fattoria biologica, ora in mano ai figli. Mi disse: “Il piatto è ottimo, ma stai pensando a te stesso, non al parmigiano”. Così l’ho rifatto. Aveva ragione: la tecnica deve essere al servizio della materia prima, non del cuoco. Ora le consistenze sono cinque. Il parmigiano di 24 mesi diventa un demi-soufflé, quello di 30 una spuma, quello di 36 una salsa, quello di 40 una galletta croccante, quello di 50 una nebbia. È un piatto che restituisce il lento scorrere del tempo in Emilia. Come l’aceto balsamico, che abbiamo messo da parte nel 1981, e ora ha vinto la medaglia d’oro».
I cuochi in tv
«Il dolce che preferisco si chiama “Ops! Mi è caduta la crostata al limone”. Una crostata rotta è diventata un’icona della cucina internazionale. La ricostruzione perfetta dell’imperfezione. Come il nostro Sud: che è l’imperfezione assoluta, eppure è il posto più bello del mondo; perché un posto bello come la Valle dei Templi o come Capri non esiste in nessun altro Paese. Anche se tendiamo a dimenticarcelo». MasterChef? Hell’s Kitchen? «Non mi piacciono i talent. La cucina è un atto d’amore, è un lavoro intellettuale; non è una gara. In tv non vado volentieri. Troppo superficiale. Al limite la tv viene da me. Così Cracco ha portato i suoi concorrenti all’Ambrosiana di Milano, dove abbiamo un altro progetto sociale. Sono molto amico di Carlo». Anche se ha fatto la pubblicità alle patatine nei pacchetti? «Ha capito di aver sbagliato. Del resto, così ha salvato il ristorante. Non è facile per noi far quadrare i conti. Qui alla Francescana ho 45 dipendenti per 28 coperti. Ma non è un’azienda. È un laboratorio di idee, che genera conoscenza, quindi coscienza, quindi senso di responsabilità». Bottura, lo sa cosa dicono di lei, vero? «Certo. Dicono che sono pazzo». E lei cosa risponde? «Che saper maneggiare l’irrazionalità è la più grande dote di noi italiani».

19 novembre 2016 (modifica il 20 novembre 2016 | 14:42)
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Da - http://www.corriere.it/cronache/16_novembre_19/io-salvato-mio-figlio-bottura-bbfe5722-ae94-11e6-a019-c9633cc39a91.shtml
6073  Forum Pubblico / AUTORI. Altre firme. / ADRIANO SOFRI - Benedetto Croce, Trump e noi inserito:: Novembre 21, 2016, 11:33:12 am
Opinioni

Adriano Sofri   
· 20 novembre 2016

Benedetto Croce, Trump e noi

Usa2016   

L’altro giorno a Palazzo Strozzi, all’Istituto di Studi sul Rinascimento a Firenze, veniva presentato il bel volume delle opere di Benedetto Croce dedicato a “Etica e politica”, curato da Alfonso Musci (Bibliopolis Edizioni)

Era inevitabile che negli interventi si evocasse la rappresentazione che Croce diede del fascismo come una «malattia morale», una «parentesi» nella continuità della storia civile d’Italia. Quella interpretazione, come si sa, sollevò molte e sentite obiezioni. Si rimproverò a Croce di aver voluto, minimizzando il legame fra il fascismo e la parzialità dello Stato liberale che l’aveva preceduto, minimizzare sulla propria personale indulgenza verso il primo fascismo. All’opposto della tesi sul fascismo come una parentesi era stata l’idea di Piero Gobetti: per lui il fascismo (delle origini, dal momento che scriveva nel 1923 e sarebbe morto venticinquenne nel 1926) era stato una rivelazione della storia d’Italia, l’autobiografia di una nazione che non aveva conosciuto una vera rivoluzione, nella Riforma cristiana né nel Risorgimento.

Croce aveva impiegato la metafora della parentesi nel momento in cui il regime fascista cominciava a disfarsi. Più tardi, in un clima politico meno militante, parecchi studiosi hanno sottolineato come Croce avesse fatto ricorso a quelle immagini (il morbo morale, la parentesi) negli interventi giornalistici e politici più che nei più meditati scritti storici, col fine di riabilitare il ruolo dell’Italia nel mondo del dopoguerra e di tutelarla da una umiliazione esorbitante da parte dei vincitori, e intanto di avvertire come il fascismo fosse stato un fenomeno internazionale. Croce aveva infatti sostenuto la sua tesi per la prima volta sul New York Times, il 14 ottobre 1943: “Il fascismo come pericolo mondiale”.

Là scriveva che i miti in voga al trapasso fra Ottocento e Novecento, superomismo e nostalgia assolutista e rivoluzionarismo marxistico, non avevano avuto la forza «di turbare il senno e l’equilibrio politico italiano /…/ e nessuno di essi sarebbe prevalso se non fosse intervenuta la guerra del 1914, che fornì il materiale umano, o, come si dice, la “massa di manovra” al fascismo, e ne preparò le condizioni politiche propizie». Dunque era stata la grande guerra a far deragliare il senno italiano, e a incubare nel fascismo «non un morbus italicus, ma un morbo contemporaneo che l’Italia per prima ha sofferto e sul quale può istruire gli altri popoli con le sue dolorose esperienze».
È curioso che in questo primo scritto la metafora della parentesi venisse applicata da Croce non al fascismo ma alla guerra: «Certo la parte eletta dei combattenti non si comporto a questo modo, e, chiusa la lunga parentesi della guerra, ripigliò con fervore gli studi interrotti, le opere cominciate e gli uffici ai quali aveva atteso da giovane, e similmente i contadini che tornarono ai loro campi…».

Intervenendo nel luglio 1947 all’Assemblea Costituente per rifiutare la firma a un trattato di pace ritenuto inutilmente punitivo, Croce ribadiva che «cosa affatto estranea alla sua /dell’Italia/ tradizione è stata la parentesi fascistica, che ebbe origine dalla guerra del 1914, non da lei voluta, ma da competizioni di altre potenze, la quale, tuttoché essa ne uscisse vittoriosa, nel collasso che seguì dappertutto, la sconvolse a segno da aprire la strada in lei alla imitazione dei nazionalismi e totalitarismi altrui».

L’esorcismo della storia messa fra parentesi

Nel dopoguerra la controversia si inasprì piuttosto che attenuarsi, perché la tesi della parentesi ora non riguardava più solo né tanto la continuità fra l’Italia liberale prefascista e il fascismo, ma, all’altro capo, la continuità fra il regime fascista e l’Italia repubblicana. Si capisce: una parentesi può indicare qualcosa di grave, magari gravissimo, e tuttavia inessenziale, qualcosa che si apre e che si chiude. (A scuola avevamo sempre un compagno che non si ricordava mai di chiudere le parentesi e diventava la dannazione dell’insegnante). Parentesi chiusa, si dice: e così si intendeva che fosse del fascismo. Non poteva contentarsene l’antifascismo più rigoroso e consapevole delle radici profonde e illese che l’illibertà fasciste aveva nella società e soprattutto nell’apparato statale italiano. Però in quella formula della parentesi c’era e c’è un’accezione più generica e condivisa, un desiderio, un auspicio intimo e consolatorio, che la parte ripudiata della storia, pur tradotta in un lungo dominio –un ventennio, nel caso del fascismo- fosse e sia estranea al vero corso della storia, al suo senso, dunque destinata a esserne finalmente superata e accantonata.

“Non praevalebunt”, era l’esortazione di fondo di Croce, ha ricordato nella discussione fiorentina il professore di politica, oggi parlamentare democratico, Carlo Galli. Non praevalebunt, aggiungo, è un altro modo, incoraggiante appunto, di ammettere che intanto hanno prevalso, stanno prevalendo: gli altri, gli avversari, i nemici, quelli del morbo morale o dell’autobiografia di una nazione incompiuta.

Lo stesso Croce, abbiamo visto sopra, aveva menzionato con naturalezza “la parentesi della guerra”, che a sua volta avrebbe imposto di stabilire se fosse stata una parentesi o una rivelazione della storia d’E u ro p a e del mondo. Croce ne era così persuaso, quanto all’Italia, che aveva fermato al 1915 la sua Storia d’Italia dal 1871 al 191 5 , concedendole un anno supplementare rispetto al 1914 della “cesura drammatica della prima guerra mond i a l e”, di cui recita il risvolto della ristampa Adelphi.

La parentesi berlusconiana e quella trumpiana

Ora noi siamo abituati a mettere fra parentesi, a condannare alla reclusione fra due parentesi, ciò che temiamo, detestiamo e sentiamo come pressoché inspiegabile e insensato tanto delle nostre vite personali –le malattie soprattutto, appunto- quanto delle nostre vicende collettive. Noi, se non siamo stati berlusconiani, al contrario, diciamo: “la parentesi berlusconiana”. Lo dicevamo quando era ancora aperta e, come quella dello scolaro renitente, nessuno avrebbe saputo dire se e quando si sarebbe richiusa. La parentesi berlusconiana è durata anche lei molti anni –con intermittenze, le parentesi dei governi Prodi e poco più, ma in questo caso parentesi voleva dire proprio la durata breve e pressoché incidentale, e così ci prepariamo a parlare della parentesi Renzi.

La parentesi berlusconiana è stata vissuta per lo più dai suoi avversari non come un fenomeno di alternanza politica e governativa, ma come l’irruzione di un corpo estraneo nella normalità politica, come una recidiva malattia morale. Lo era stata già il Partito Socialista di Bettino Craxi, benché la formazione di lui fosse la più tradizionalmente politica, della politique politicienne, che si potesse richiedere. Con Berlusconi il corpo estraneo si fece estraneo fino alla caricatura e, complementarmente, all’oltraggio.

Senonché la politica e la vita pubblica in generale non fanno altro che riprodurre corpi e modi estranei, di durata e successo alterno e comunque capaci di prendere il campo. Dopo il Craxi così inteso («un cinghiale entrato nella vigna del Signore», come diceva Leone X di Martin Lutero nella sua Bolla di scomunica) e Berlusconi, è venuto il corpo estraneo di Beppe Grillo –a non voler considerare i numerosi attori e pagliacci minori, pure per lunghi momenti in grado di far la faccia dell’orco e spaventare i bambini. Davanti al successo esoso dei 5 stelle ci si è chiesti, chi non inclinava a imbarcarvisi, «quanto sarebbe durata la parentesi dei grillini».

Ce lo si è richiesto a Roma dopo il trionfo della sindaca Raggi: «Quanto durerà la parentesi della sindaca Raggi?» –qualcuno si è illuso che potesse durare un mesetto sì e no, poi è sceso il silenzio. Adesso tutto ciò ha preso una portata mondiale: “La parentesi Donald Trump”. Un corpo più estraneo di così era difficile da immaginare, tuttavia qualcuno l’aveva immaginato, e soprattutto si era immaginato lui. Noi no, noi non abbiamo voluto. Non erano i sondaggi a sbagliare, eravamo noi. «Non ci posso credere!», è questa la reazione di noi, quelli dalla parte normale della storia, dalla parte del senso e della ragione, dentro le strade, fuori dalle parentesi. Trump ha prevalso, dunque è di nuovo il momento di dire: «Non praevalebunt!». È una parentesi, è incredibile che si sia aperta, prima o poi si chiuderà. E potremo ricominciare da dove eravamo arrivati. Heri dicebamus… Ma dove eravamo arrivati? Che cosa cazzo dicevamo ieri?

La Brexit, Trump e i prossimi casi di ubriachezza molesta

Ho fatto qualche osservazione del genere, quasi per scherzo, all’incontro dell’altro giorno su Benedetto Croce e l’edizione critica di Etica e politica. Oltretutto l’ambiente si prestava. Era la sala adiacente al salone più grande in cui si leggono e consultano i libri della Biblioteca del Rinascimento, al terzo piano di Palazzo Strozzi. Uno di quei posti meravigliosi e poco frequentati di cui l’Italia e perfino Firenze è ancora piena, dove si può andare, specialmente se piove, gratis, e sfogliare riviste, arrampicarsi lungo gli scaffali, o semplicemente guardare fuori dall’alto dei secoli.

Gli oratori del nostro incontro erano seduti davanti a una pala di Cosimo Rosselli raffigurante la Madonna col Bambino e Santi, e insomma tutto sembrava dar ragione alla scommessa di Croce sull’Italia turbata bensì da improvvise deflagrazioni magari importate da fuori ma alla lunga salda sul senno e l’equilibrio della sua storia civile. Un luogo in cui anche l’arredamento vale a riscattare uno spirito di élite mortificato da una cronaca becera. Del resto non è forse questa la discussione che furoreggia dopo l’elezione di Trump?

Se si sia così rivelata una vera e sommersa anima americana appena scalfita dalla parentesi di Barack e Michelle Obama, o se si tratti piuttosto di un sia pur colossale incidente, un po’ come per la Brexit nel Regno Unito, una di quelle sventatezze che prendono un popolo, o la sua maggioranza regolamentare, verso un certo giorno, e il giorno dopo lo costringono a svegliarsi con la testa pesante e il cuore pentito? Noi italiani, un po’ per il senno e l’equilibrio, un po’ per la parentesi berlusconiana, siamo i meglio piazzati per soccorrere i tramortiti americani. E infatti il giorno dopo un editoriale sul New York Times firmato da Luigi Zingales spiegava “Il modo giusto per resistere a Trump”: «Ora che Trump è stato eletto presidente, il parallelo con Berlusconi può offrire una lezione importante su come evitare che una vittoria di stretta misura si trasformi in un guaio ventennale».

“A two-decade affair”. Un’altra parentesi di vent’anni, prima che il mondo ricominci a girare nel verso giusto, quello della storia, il nostro. È come con le guerre, che per definizione sono delle parentesi, anche le più tragiche: cominciano, anzi scoppiano, come i temporali, e bisogna aspettare che finiscano, come i temporali. Delle parentesi nella storia pacifica del genere umano. Ogni tanto, quando fra una guerra e la prossima l’intervallo è troppo breve, la storiografia si rassegna a cambiare passo e la chiama come un’unica lunghissima guerra europea, con l’intervallo di una pace precaria, in cui la guerra interrotta nel ‘18 ha un ventennio per incubare la guerra prossima. Revisioni della storiografia a parte, noi continuiamo a dirci che la storia ci ha fatto un altro tiro mancino, ha aperto una nuova parentesi, e comunque passerà. Prima o poi. Non praevalebunt.

I più attempati di noi, fra sé e sé, si dicono che, salvo un impeachment o un altro imprevisto, dopo aver visto arrivare la parentesi di Trump non avranno il tempo di vederla chiudersi. Nel breve periodo siamo morti. «Noi italiani, che abbiamo nei nostri grandi scrittori una severa tradizione di pensiero giuridico e politico, non possiamo dare la nostra approvazione allo spirito che soffia in questo dettato /il trattato di pace/, perché dovremmo approvare ciò che sappiamo non vero e pertinente a transitoria malsania dei tempi: il che non ci si può chiedere» (così Benedetto Croce). Ci sono anche dei momenti in cui noi, “noi”, ci chiediamo se forse non siamo noi, la nostra parte, il nostro senso della storia, a trovarci sempre più stretti dalla transitoria malsania dei tempi dentro una parentesi che si vuole chiudere. Ci vuole chiudere.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/trump-e-noi-fra-parentesi/
6074  Forum Pubblico / LA CULTURA, I GIOVANI, La SOCIETA', L'AMBIENTE, LA COMUNICAZIONE ETICA, IL MONDO del LAVORO. / LAZZARETTI, David. - Di Franco Pitocco inserito:: Novembre 21, 2016, 11:31:02 am
LAZZARETTI, David

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 64 (2005)

Di Franco Pitocco

LAZZARETTI (Lazzeretti), David. - Nacque il 6 nov. 1834 ad Arcidosso, sulle pendici del monte Amiata, da Giuseppe e da Faustina Biagioli.
Stando alla tradizione, la nascita di colui che sarebbe stato soprannominato il "Messia dell'Amiata" avrebbe avuto tratti non comuni, tali da far presagire da subito una vita straordinaria per il neonato. Sarebbe infatti nato fornito di "doppia lingua" e "doppi occhi", a indicare il suo futuro destino di profeta e di veggente.
Di là dalla leggenda, comunque, egli costruì quel destino gradatamente e con costanza, riplasmando la sua vita reale nel tempo, lungo tutto l'arco dell'esistenza, attraverso un continuo lavorio di selezione e dilatazione del significato di innumerevoli esperienze di Sogni e visioni (tale era il titolo di una sua pubblicazione edita a Prato nel 1871). E fu il risultato di un lento processo psicologico e culturale, frutto del clima sociale e religioso in cui viveva. Ma anche progetto di vita attivo, ricercato e adattato, volta a volta, nelle diverse situazioni.
Il suo stesso nome mostra, in parte, ma in modo esemplare, la trama di questo processo. A un certo momento, il nome anagrafico originario Lazzeretti, che compariva nelle sue prime pubblicazioni, fu mutato in Lazzaretti. E tale fu poi sempre, dopo un importantissimo viaggio in Francia nel 1873. In questa lieve modifica vanno letti, probabilmente, un'allusione al Lazzaro del Nuovo Testamento e certo l'influsso della lettura di un romanzo di G. Rovani, Manfredo Pallavicino (I-IV, Milano 1845-46), allora molto popolare, in cui il L. trovò un Lazzaro Pallavicino (cui nel romanzo si attribuiva una parentela con i re di Francia) nel quale credette di poter individuare un antico antenato. Una discendenza, questa, attraverso la quale egli si sentì erede del "sangue di Pipino" e, ricollegandosi all'immaginario leggendario dei reali di Francia, poté fondare e legittimare le sue aspirazioni messianiche.
Ma la costruzione della sua vita messianica era iniziata già nell'adolescenza, come mostra il primo episodio di Sogni e visioni, di cui resti diretta testimonianza.
Aveva solo 14 anni, quando, nella primavera del 1848, dovette affiancare il padre nel lavoro in Maremma. In località Macchia Peschi rimase solo, con il compito, assai gravoso, di caricare legna su due giumenti. Si trattava di un luogo isolato dal mondo abitato, "deserto", e quel 25 aprile era uno di quei giorni nebbiosi capaci di accentuare un forte senso di solitudine e di smarrimento. Fu allora che dal folto del bosco il L. vide uscire un vecchio frate, destinato a ripresentarsi più volte nella sua vita (e a rivelarsi finalmente per s. Pietro), con un annuncio sorprendente per lui: "la tua vita è un mistero".
Il L. rimase a lungo scosso da quella visione e ne conservò sempre un vivo ricordo, anche se per anni dovette sembrargli solo un sogno, senza particolari conseguenze nella vita reale. La sua vita, in effetti, continuò a svolgersi secondo le linee tradizionali della vita di un giovane montanaro: con un lavoro da eseguire (faceva il barrocciaio, dedito, soprattutto, a trasportare terra di Siena, anche verso luoghi lontani da Arcidosso, fino a Siena e a Roma), con una famiglia da costruire (nel 1856 sposò una donna che gli diede cinque figli), ma anche con il bisogno di vivere le passioni civili e politiche del tempo (nel 1859 entrò nella cavalleria di E. Cialdini e nel 1860 combatté contro le truppe pontificie).
Tuttavia, il 25 apr. 1868, esattamente vent'anni più tardi, il vecchio frate gli apparve ancora, all'interno di un sogno corrusco e drammatico, denso di movimenti e di figure tratte dal bestiario medievale e apocalittico.
Di nuovo gli annunciò cose "misteriose" e lo incitò a recarsi dal papa per "esporgli la sua missione"; quindi a "ritirarsi in un convento della provincia di Roma, presso Montorio Romano". Là avrebbe incontrato un "religioso" al quale avrebbe dovuto annunciare: "Io sono il mandato di Colui che regna in tutti i luoghi".
In effetti, alla fine di quell'anno, dopo un deludente viaggio a Roma con l'intenzione di incontrare il papa, il L. iniziò una lunga quaresima da eremita in Sabina, rinchiuso in un convento abbandonato, detto la "grotta di S. Angelo".
È questo il momento decisivo della sua carriera di "uomo del mistero". Recluso in un ambiente murato all'esterno, con solo un pertugio da cui ricevere un tozzo di pane dal religioso (un vecchio eremita tedesco) che vi risiedeva, egli scoprì le ossa di quell'"avo" romanzesco che gli consentì di richiamarsi al "sangue di Pipino". Ebbe nuove visioni e "conferenze" con personaggi misteriosi, "divini", e qui, ancora, tornò a lui il "santo vecchio" per imprimergli sulla fronte il segno della sua missione messianica: quel "marchio" delle due C rovesciate con la croce nel mezzo (a significare "Cristo in prima e seconda venuta"), destinato a diventare il simbolo della sua futura Chiesa giurisdavidica.
Quando, dopo un altro soggiorno eremitico nell'isola di Montecristo, tornò tra le popolazioni della montagna con il suo nuovo ruolo di "uomo santo", il L. godeva ormai di un ampio e profondo prestigio sociale. Numerosi fedeli si raccolsero intorno a lui, per ascoltare la sua predicazione e seguire i suoi consigli. Si aprì allora un periodo fecondo di vita religiosa, sostenuto anche dalla Chiesa che vedeva in lui lo strumento per una resistenza culturale, popolare, al nuovo Stato italiano. Furono quelli gli anni in cui il L. creò il suo movimento, espansione sociale della sua "missione" religiosa, fondando tra il 1870 e il 1872 i tre istituti che costituiscono i principali riferimenti organizzativi di carattere religioso, sociale ed economico della comunità lazzarettista.
La Santa Lega o Fratellanza cristiana, istituita nel 1870, aveva finalità essenzialmente di carattere sociale e umanitario. Il Pio Istituto degli eremiti penitenzieri e penitenti si proponeva come una sorta di "nova religio". La sua organizzazione e le sue finalità furono illustrate per la prima volta dal L. alla vigilia della sua partenza per il ritiro nell'isola di Montecristo, il 14 genn. 1870. Le regole furono stampate nel 1871 a Montefiascone, con il permesso delle autorità ecclesiastiche. La Società delle famiglie cristiane, attiva dall'inizio del 1872, costituì, per i suoi contenuti sociali ed economici, l'esperienza più importante e clamorosa del movimento. Somigliava a una delle tante società di mutuo soccorso del tempo, ma era essenzialmente ispirata al "comunismo" della Chiesa primitiva, con la sua messa in comune dei beni, l'organizzazione sociale del lavoro, la ripartizione dei proventi.
Alcuni tratti di questo insieme organizzativo hanno fatto pensare spesso, ma vanamente, a contatti diretti del L. con il mondo socialista. In realtà i tre istituti fanno tutti riferimento a un sostrato teologico assai lontano dall'esperienza politica del socialismo. Non a caso si ripromettevano, ciascuno, di realizzare una specifica "virtù cristiana": il Pio Istituto era collocato sotto il simbolo della fede, la Santa Lega sotto il simbolo della carità, la Società delle famiglie cristiane sotto il simbolo della speranza.
Nella loro ispirazione gli istituti vivevano dei tratti di un messianismo antico, impastato di Vecchio e Nuovo Testamento, e soprattutto dell'eredità gioachimita. Probabilmente, in effetti, il L. trasse figure e personaggi per l'ultima fase del suo progetto escatologico proprio da un testo di tardo ambiente gioachimita, dalle apocrife Lettere di s. Francesco di Paola, di cui egli stesso procurò una ristampa (Napoli 1873). Di là provengono figure come il grande monarca e le milizie crocifere, intorno alle quali egli costruì il ruolo finale per sé e per i suoi fedeli, nell'annuncio del futuro regno dello Spirito Santo. Gli istituti erano, insomma, un tentativo di anticipare aspetti di un'ampia visione escatologica, che si apriva sotto la pressante attesa di un "secondo diluvio", predisposto da Dio a punizione dei peccati degli uomini e dell'infedeltà della Chiesa. Ma anche a premessa di un'età nuova.
L'elaborazione di questa visione, nelle sue varie articolazioni, mise in allarme le autorità ecclesiastiche e civili. Nel novembre 1877 la S. Sede rifiutò l'approvazione delle Regole dell'Ordine crocifero dello Spirito Santo e all'inizio del 1878 il S. Uffizio condannò le dottrine del L. come eretiche; le sue opere furono poste all'Indice. Da parte sua il ministero dell'Interno, preoccupato per l'ordine pubblico, dava disposizione agli organi di polizia di sorvegliare il L. e i suoi seguaci.
Intanto il L. operava una riplasmazione della società e dello spazio in cui agiva. Il monte Labbro, chiamato a ospitare gli edifici dei tre istituti, venne ribattezzato monte Labaro. Sulla sua cima fu edificata una chiesa, e, a secco, senza calce, una torre tortile, simbolo della nuova Chiesa.
Nel 1877, ne La mia lotta con Dio ossia Il libro dei Sette Sigilli (Arcidosso), si era aperta l'immagine finale dell'operazione escatologica del L.: il monte Labaro si trasfigurò nel "magnifico, forte e maestoso monte", o "Città della nuova beata Sionne e Turrisdavidica, il Santuario dei santuari, la Rocca Santa di Dio, la Città Celeste". Qui sarebbe sorta la prima fra le sette "città eternali" destinate a realizzare il Regno messianico, PiamiatangelicA, "ossia Città del Sole".
La torre che ancora oggi, sbocconcellata, resiste sulla cima del monte, acquista qui, all'interno di PiamiatangelicA, tutto il suo splendore ideale: "basata in grande e colossale edifizio", sta "la prodigiosa e meravigliosa piramide", "il più sacro e misterioso monumento della terra", "depositario del segno vivo di Dio e di altre preziose reliquie in una settima parte dei Martiri delle Milizie Crocifere". Essa è l'arca della Nuova Alleanza, "nella quale si dovea salvare la famiglia eletta da Dio dalla inondazione di un secondo diluvio di fuoco e di sangue", in cui "erano racchiusi tutti i tesori della terra" e "tutte le leggi sante della vera giustizia".
Da questo fantastico monte, il 18 ag. 1878, il L. e tutta la sua gente, vestita negli abiti delle sue figure escatologiche, scesero processionalmente ad annunciare al mondo l'avvento del regno dello Spirito Santo. A valle uno sparuto gruppo di militi guidati da un delegato di polizia pose fine al sogno del L. colpendolo alla fronte con una palla di fucile.
Da più di un secolo il L. gode di una ricca bibliografia, mai esausta, e sempre pronta a ripetere le sue prove. E di varia natura: dalla storiografia alla psichiatria, alla sociologia, al romanzo. Da C. Lombroso ad A. Gramsci, a E.J. Hobsbawm si è cercato di codificare i nessi che in lui si stabiliscono tra esperienza psicologica individuale, società, politica e religione. Ma quasi sempre nel vano tentativo di ridurli a una gerarchia causale: a guidare quella complessa struttura culturale è stata chiamata ora la "follia", ora l'"eresia", ora la "rivoluzione". Per questa via, in buona sostanza, la storia del L. è rimasta prigioniera delle prime interpretazioni che ne furono date, negli stessi giorni in cui si diffuse la notizia della morte del "Messia".
In realtà una lettura sociologica era già stata avanzata, nel suo nucleo essenziale, dall'Illustrazione italiana del 1° sett. 1878, che aveva definito il L. "un avanzo del passato smarrito là in un lembo di terra che è della gentile Toscana, ma che per maremme e per monti rimane quasi diviso dalla grande corrente della nuova vita italiana". Così come il nesso tra eresia e politica era stato abbozzato dai giornali cattolici, come L'Unità cattolica del 22 ag. 1878, la quale aveva scritto che "la storia di David Lazzaretti è quella di tutti gli eretici, che furono e sono rivoluzionari ad un tempo: non vogliono solo riformare la Chiesa, ma anche rovinare il Governo".
Non diversamente il legame tra esperienza religiosa e inconsapevole azione di protesta sociale (o, addirittura, rivoluzionaria) che ha caratterizzato tanta parte della storiografia del dopoguerra, fortemente segnata dal marxismo, era già implicito nello stesso processo del 1879. I 23 lazzarettisti, che, arrestati dopo la morte del L., giunsero il 24 ott. 1879 innanzi ai giudici della corte d'assise di Siena (qualcuno era morto durante il durissimo anno di prigionia), si erano infatti sentiti recitare questo pesante atto di accusa: "Attentato contro la sicurezza interna dello Stato, per aver commessi atti esecutivi diretti a rovesciare il Governo ed a mutarne la forma, non che a muovere la guerra civile ed a portare la devastazione ed il saccheggio in un Comune dello Stato".
Dal "monomaniaco" di Lombroso, al "rivoluzionario primitivo" di Hobsbawm, sempre è andato perduto esattamente ciò che fa lo specifico del fenomeno: la circolarità e la "totalità" delle varie esperienze del L. e del movimento. Talché accade ancor oggi che lo studioso che si avvicina a questa storia sia quasi inevitabilmente condannato a restar prigioniero delle motivazioni che portarono alla morte del "Messia" e delle interpretazioni offerte dai primi giornali che si occuparono dei fatti di Arcidosso, tutte segnate dal "primato della politica". Eppure già a un anno da quei fatti, il pubblico ministero si era convinto della insostenibilità delle tre accuse. Egli riconobbe che gli imputati non avevano voluto "rovesciare il governo e mutarne la forma", pur conservando l'accusa relativa al progetto di scatenare "guerra civile", "devastazione e saccheggio", e l'altra della resistenza alla forza pubblica. E a conclusione del dibattimento la giuria emise un verdetto che assolveva interamente gli accusati. Negò anche che gli imputati avessero agito "nello stato di chi non ha coscienza dei propri atti o libertà di coscienza", l'attenuante richiesta nel caso di riconosciuta colpevolezza.
Altri scritti del L.: Il risveglio dei popoli: preghiere, profezie, sentenze, s.l. 1870 (trad. fr., Lyon 1873); Avviso profetico alle nazioni e ai monarchi d'Europa, Prato 1871; Le livre de fleurs célestes, Lyon 1876 (trad. it., Grosseto 1950); Manifeste de D. L. aux peuples et aux princes chrétiens, Arcidosso 1876; Rivelazioni, Milano 1881; Ultimi scritti: i 29 editti, Follonica 1921.
Fonti e Bibl.: La documentazione archivistica relativa alla storia del movimento del L. è amplissima. Il materiale più ricco è conservato negli Archivi di Stato di Siena e di Grosseto (Atti del processo e carte relative all'inchiesta), Città del Vaticano, Arch. della Congregazione per la Dottrina della fede, Fondo Santo Officio, Stanza storica: Processo contro D. L. e fautori (1878), e soprattutto presso l'Archivio Giurisdavidico della Comunità lazzarettista di Arcidosso e il Centro studi David Lazzaretti del Comune di Arcidosso. Importanti anche gli "oggetti" conservati presso il Museo di arti e tradizioni popolari di Roma.
Quanto alla bibliografia storica (si veda pur sempre L. Graziani, Studio bibliografico su D. L., profeta dell'Amiata, con saggi critici di F. Sapori e P. Misciattelli, Roma 1964), ci si limita qui a sottolineare il valore esemplare di qualche studio: A. Verga, D. L. e la pazzia sensoria, Milano 1880; P. Nocito - C. Lombroso, D. L., in Arch. di psichiatria, antropologia criminale e scienze penali, I (1881 [1880]), 1-2; G. Barzellotti, D. L., Milano 1885 (poi, con il titolo Monte Amiata e il suo profeta, ibid. 1910); E. Rasmussen, Ein Christus aus unseren Tagen, Leipzig 1909 (ed. originale danese del 1904); E. Lazzareschi, D. L.: il messia dell'Amiata, Bergamo 1945; A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, I-IV, Torino 1975, ad ind.; E.J. Hobsbawm, Primitive rebels. Studies in archaic forms of social movement…, Manchester 1959, ad ind.; G. Fatini, D. L., Siena 1963; A. Moscato - M.N. Pierini, Rivolta religiosa nelle campagne: il movimento millenarista di D. L., Roma 1965; A. Petacco, Il Cristo dell'Amiata. La storia di D. L., Milano 1978; D. L. e il monte Amiata: protesta sociale e rinnovamento religioso. Atti del Convegno, Siena- Arcidosso… 1979, a cura di C. Pazzagli, Firenze 1981; E. Tedeschi, Per una sociologia del millennio. D. L.: carisma e movimento sociale, Venezia 1989; G. Filoramo, Metamorfosi del tempo apocalittico nel movimento di D. L., in Millenarismo e New Age. Apocalisse e religiosità alternativa, Bari 1999, pp. 133-154; H. Multon, Les marges du christianisme au XIXe siècle: l'exemple de D. L., prophète du monte Amiata (1834-1878), in Mélanges de l'École française de Rome, Italie et Méditerranée (MEFRIM), 2001, vol. 113, 1, pp. 369-423; Id., Prophétesses et prophéties dans la seconde moitié du pontificat de Pie IX (1859-1878). Entre défense du pouvoir temporel et Apocalypse hétérodoxe, in Dimensioni e problemi della ricerca storica, 2003, n. 1, pp. 132, 146 s., 158 s.
ArcidossoComune della prov. di Grosseto (93,4 km2 con 4220 ab. nel 2007) ai piedi del versante occid. del monte Amiata.Ximènes, LeonardoXimènes, Leonardo. - Scienziato (Trapani 1716 - Firenze 1786); gesuita (1731). Geografo e matematico del granduca di Toscana (1761) e prof. nell'univ. di Firenze, fece progetti di bonifica della Maremma. Fondò l'osservatorio astronomico di S. Giovannino a Firenze (oggi Osservatorio ximeniano); restaurò ...
millenarismo Nella


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6075  Forum Pubblico / LA CULTURA, I GIOVANI, La SOCIETA', L'AMBIENTE, LA COMUNICAZIONE ETICA, IL MONDO del LAVORO. / Alessandro Quasimodo: Una vita sotto i riflettori inserito:: Novembre 21, 2016, 11:28:38 am
Alessandro Quasimodo: Una vita sotto i riflettori

ALESSANDRO QUASIMODO

Incontriamo il figlio di uno dei più grandi poeti contemporanei, Salvatore Quasimodo.
E’ scrittore, regista e attore, si è diplomato al Piccolo Teatro di Milano e ha frequentato un corso di perfezionamento sotto la direzione di Lee Strasberg (il “padre” formativo di James Dean, Paul Newman, Al Pacino, Robert De Niro)

Di Paolo Paolacci

Una splendida eredità umana e letteraria che cresce quotidianamente verso il futuro della sua memoria.
“Ed è subito sera”. Pensi sia la poesia più rappresentativa di tuo padre? Hai una chiave di lettura del motivo per cui è stata scritta?
“La più rappresentativa certo sì, come per un Ungaretti ‘M’illumino d’immenso’. La circostanza non posso saperla perché non ero neanche nato.  Ti posso dire che fa parte di una poesia intitolata ‘Solitudini’, molto più lunga e gli ultimi quattro versi costituiscono appunto il testo di ‘Ed è subito sera’. Tant’è che per la sua prima raccolta di poesie pubblicata da Mondadori diede tanta importanza a quei versi da usare l’incipit come titolo. Ad oggi questa è sicuramente la sua poesia più tradotta nel mondo ed è utilizzata, e direi abusata, nei titoli dei quotidiani: ed è subito gol, ed è subito calcio, ed è subito casa e potrei citarne infinite varianti”.
Scrittore, regista, attore, letterato cosa si addice di più alla tua persona e alla tua indole? E come ti sei formato per comunicare con i vari tipi di pubblico?
“Ho parecchie frecce al mio arco, una personalità complessa la mia con vari lati a volte anche in contrasto tra loro: uno introspettivo che lavora sulla psicologia dei personaggi ed uno certamente satirico, comico che forse mi viene da mio padre che aveva una carica molto forte di ironia ed autoironia: la capacità cioè di non prendere mai troppo sul serio né le cose intorno a noi né se stessi. Le esperienze che mi hanno formato sono state molte: tanto per dire, quella di avere avuto la possibilità, dopo essermi diplomato attore al Piccolo Teatro di Milano di andare a Spoleto e frequentare un seminario tenuto da Lee Strasberg, fondatore dell’ Actor’s Studio, da dove sono usciti tutti i grandi attori americani come James Dean, Paul Newman, Marilyn Monroe, Al Pacino, Robert De Niro e tanti altri; un’altra importante esperienza è stata di aver affrontato il personaggio di Stanley ne ‘Il compleanno’ di Harold Pinter, grande drammaturgo inglese e  anche lui Premio Nobel. Mi sento molto vicino al teatro inglese contemporaneo, come anche al grande repertorio nordico di Ibsen e di Strindberg.  Quando devo affrontare la regia, nel mio lavoro mi sta a cuore l’approfondimento del testo ma soprattutto il ‘sottotesto’ la parte cioè che l’autore non scrive ma bisogna scoprire tra le righe. Credo che dopo ‘Il mestiere dell’attore’ di Stanislavskij, il metodo sia sempre quello e cioè: quando tu devi rappresentare in scena una situazione di disagio di paura o  anche di contagiosa euforia, devi  rivivere  un episodio che faccia riaffiorare dal tuo inconscio una situazione analoga del tuo vissuto.. Per esempio, nell’interpretare una scena in cui doveva affiorare ansia e timore di non farcela, ho pensato intensamente al mio esame di maturità. Confesso che ancora oggi mi capita  di sognarlo come un incubo… anche i  momenti di gioia devi ricrearli dentro di te come vissuto e non puoi certo inventarteli: risulterebbero falsi”.
Qual è la profondità di un uomo? E la sua leggerezza? E come la porti in scena?
“La cosa importante per coinvolgere gli spettatori è cercare di entrare nella sfera intima dell’autore che tu stai interpretando sia drammaturgo che poeta. Per esempio il 9 novembre scorso, ero a Recanati a recitare Leopardi davanti a un pubblico che considera l’autore cosa propria ed è ipercritico verso gli attori che si cimentano con il grande Giacomo, per questo si deve trovare la chiave che sia rispettosa dell’autore ed è necessario che tu stesso ti sia calato nello stato d’animo del poeta nel momento della creazione… In poche parole: il pubblico dovrebbe avere la sensazione che nel momento in cui sto proponendo una poesia è come se la stessi componendo io in perfetta sintonia con l‘universo creativo leopardiano. Una dote che io ritengo fondamentale e che purtroppo sta diventando sempre più rara, è l’umiltà: l’attore deve mettersi umilmente al servizio dell’autore e del suo testo”.
Mi riesce impossibile non parlare di Maria Cumani e del libro uscito con il tuo contributo,  “Il fuoco tra le dita”. Ce ne parli? Chi è Maria Cumani oltre ad essere tua madre?
“Maria Cumani è una grande donna che sta man mano conquistando quegli spazi che non le sono stati riconosciuti in vita. E’ una donna che diceva di esser nata trent’anni prima del suo vero tempo. E’ stata una pioniera ma, come tutti i pionieri, nel momento che stanno sperimentando una loro creazione, rischiano di non essere capiti. Devo dire però che molti, con il trascorrere del tempo quando vedono qualcosa che arriva  dall’estero (Carolyn Carson o Pina Bausch) dicono:  ‘ma io queste cose le ho già viste portate in scena dalla Cumani’. Tutte idee da ‘fuoco tra le dita’, per citare un suo verso, che all’epoca venivano viste quasi con sospetto.  A Firenze si è aperta il 12 novembre la mostra ‘Le donne protagoniste nel Novecento’, e vedere una sala del museo di Palazzo Pitti dedicata a Maria Cumani, vicino a quella di Eleonora Duse, insieme a tante altre straordinarie testimoni del proprio tempo (c’è anche Patty Pravo!) è stata per me una grande, emozionante gratificazione. Lo scorso anno ho fatto una imponente donazione al Museo del Costume, sia di abiti da sera che di costumi che mia madre ha indossato nei vari spettacoli a cui ha partecipato nel corso del tempo. Mamma aveva anche una particolare abitudine: ad ogni inizio stagione, andava alla Standa o alla Upim, comprava un vestito da poche lire, strappava via tutti i bottoni, ci lavorava sopra e con pochi accorgimenti lo faceva diventare un modello originale non più riconducibile ai grandi magazzini, possedeva infatti, un innato gusto per l’abbigliamento personale e soprattutto si conosceva molto bene. Nella sua vita, sin dall’età di diciassette anni ha tenuto diari, ha scritto poesie, trattati sulla danza; ha seguito anche le traduzioni dei lirici greci di mio padre consigliandolo sulla scelta di alcuni frammenti, ma soprattutto è stata un valido aiuto  per lui nelle traduzioni di Pablo Neruda perché conosceva molto bene lo spagnolo.
Lo spettacolo o l’autore in cui hai più creduto e che più ti rappresenta è lo stesso?
“Direi di sì. Si tratta de ‘Il compleanno’ già ricordato poc’anzi. Il protagonista della commedia di Pinter, è un personaggio molto complesso e a me piacciono le sfide, ho cercato, e ci sono riuscito con un lavorio continuo e instancabile, di entrare nella psiche tormentata del  giovane Stanley che si rifugia in una pensioncina sperduta dell’ Inghilterra. Ma chi è realmente Stanley? E’ questo l’interrogativo che si pongono gli spettatori seguendo la vicenda: è un pianista come racconta lui, oppure è evaso da un manicomio o forse  un pericoloso ricercato dai misteriosi individui che arrivano alla fine a portarlo via?  Lui vive nella pensioncina come recluso in una volontaria prigione, amorevolmente accudito dall’anziana proprietaria. Perennemente  in pigiama, non esce mai e quando è costretto a farlo, lo vediamo vestito di tutto punto con ombrello, giacca e cravatta e la immancabile bombetta: completamente afasico, ridotto allo stato di zombi, un vero e proprio automa, pronto quindi per essere inserito in quella società perbenista e ipocrita che Harold Pinter detestava”.
Da dove parte questa incredibile mancanza di unità così marcata e viscerale? E’ sufficiente accontentarsi delle divisioni storiche? Cosa si potrebbe fare?
“Per esempio in Francia non c’è questa frammentarietà di cui parli, a cominciare dai grandi scrittori, coloro appunto che meglio sono riusciti e riescono ad interpretare il disagio della devastante situazione che siamo costretti a  vivere. Le distanze sociali sono diventate incolmabili. Ad esempio per i 150 anni dell’Unità d’Italia, ho fatto una fatica enorme per mettere in scena  e a trovare le piazze per uno spettacolo intitolato ‘Grazie Mille’ (riferito alla spedizione garibaldina), perché c’è stato un disfattismo diffuso, teso a non voler celebrare la ricorrenza, a voler rendere in qualche modo ancora più complicato parlare di una verità che appartiene alla nostra storia. Sembra incredibile ma mi sono trovato a discutere ancora su Garibaldi, con persone che mettono in dubbio il suo disinteressato eroismo e non dovrebbero nemmeno pronunciare il suo nome, talmente sono disinformate e in malafede. E’ veramente un’indecenza. Il sentirsi figli della Francia è ‘appartenenza’, non nazionalismo: i nostri cugini d’oltralpe sono fieri e orgogliosi di essere francesi, è un sentimento che da noi in Italia è sconosciuto”.
Cosa si può fare per il mondo? Siamo un villaggio globale dove nessuno si salva da solo, forse per il fatto che  ognuno ragiona per sé…
“Non so quale potrebbe essere la ricetta. Non c’è, come già detto, un corpo unitario a cui far riferimento, anche se ci sono in letteratura delle punte di diamante come Anna Maria Ortese  che avrebbe meritato il Nobel o Dacia Maraini, per la narrativa, o Franco Loy, Maria Luisa Spaziani, Patrizia Valduga e Vivian Lamarque, tanto per citare alcuni nomi, nel campo della poesia”.
Programmi futuri?
“Sono sempre in giro qua e là per  recital poetici, come presidente di alcuni importanti premi letterari, presentazioni, letture e via dicendo. Comunque sempre molto itinerante e mi piace perché in fondo gli attori una volta andavano in giro con il carro dei comici e si fermavano nelle piazze, montavano un palco e recitavano davanti a un pubblico decisamente sprovveduto che si radunava incuriosito. Ora le cose per fortuna vanno diversamente. Come pochi giorni fa a Recanati nel bellissimo teatro fatto costruire da Monaldo Leopardi oppure a San Sepolcro la patria di Piero della Francesca dove il comune mi ha invitato, insieme a Mario Cei e al pianista Adalberto Maria Riva, a tenere un recital sul vino proprio nelle cantine della casa di Piero della Francesca. A Firenze poi la grande mostra degli abiti appartenuti alle grandi  donne del novecento che durerà un paio d’anni e che vi invito a vedere. Ne vale la pena”.
Quanto vale e quanto costa avere un cognome così importante e aver vissuto vicino ad una donna stupenda e intelligente?
“Il trauma è stato soprattutto a livello scolastico perché pretendevano da me cose particolari, all’epoca avrei preferito portare un cognome più comune e vivere in un tranquillo anonimato.
E invece mi toccava essere sempre sotto i riflettori: mi chiamavano spesso fuori a leggere ‘I Promessi sposi’ perché leggevo meglio degli altri, e poi se andavo bene era merito esclusivo del babbo (mai successo che mi abbia dato un mano con i compiti!). Se andavo male era perché non mi applicavo abbastanza e: ‘…già si sa che i figli delle persone troppo intelligenti è un miracolo che non siano del tutto andicappati…!’. Devo dire che la presenza di mamma è stata fondamentale per farmi capire dall’interno le cose, per non accontentarmi mai della superficie, la capacità di contare sulle proprie forze, di rimboccarsi le maniche e far le cose di persona: superare se stessi in continuazione e porsi dei traguardi sempre più difficili e tendere verso un impossibile perfezione. Mai sedersi sugli allori. Oggi ho realizzato questa cosa e subito ne inizio una nuova senza soluzione di continuità. Il segreto è ripartire sempre con rinnovato entusiasmo verso altre mete. Andare verso gli altri ed essere disponibili è fondamentale per me”.


by Redazione Gp

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