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6031  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / Adriana Comaschi - Pisapia: “Non si può fare nulla di sinistra senza il Pd” inserito:: Dicembre 02, 2016, 06:17:50 pm
Focus
Adriana Comaschi   · 30 novembre 2016
Pisapia: “Non si può fare nulla di sinistra senza il Pd”


Cuperlo: “Dopo il referendum urgente un congresso tematico”
Cosa succederà il 5 dicembre, nel day after del referendum, al centrosinistra italiano? Sinistra Dem ne ha discusso ieri a Milano con Gianni Cuperlo, l’ex sindaco Giuliano Pisapia, il senatore Pd Sergio Lo Giudice di ReteDem. Un interrogativo affrontato a partire dal primo paletto, posto con decisione da Pisapia: «Non sono del Pd, ma credo che abbiamo moltissimo in comune e che oggi in Italia non si possa fare nulla di sinistra senza il Pd, chiaramente con i cambiamenti che sono necessari».

A cui Cuperlo fornisce il proprio contraltare: «Il vertice del Pd deve avere l’umiltà di capire che da soli oggi non ce la facciamo». Questo insegnano del resto le ultime amministrative, «a Milano vinci, perdi invece dove non abbiamo fatto un allargamento, verso una sinistra che può anche essere critica nei nostri confronti» ma che rimane un orizzonte ineludibile. Parte insomma non a caso sotto la Madonnina, emblema di una sinistra di governo capace di vincere nelle urne, la “caccia “alle basi di una rinnovata unità del centrosinistra, una volta superata una campagna che ha gettato lo scompiglio dentro e fuori il Pd.

E se Papa Francesco ha da poco messo fine alla frattura con i luterani, le divisioni sulla riforma all’interno della sinistra possono ricomporsi allo stesso modo, «e certo non possiamo aspettare cinquecento anni» ammonisce Barbara Pollastrini, promotrice dell’incontro.

Da dove ripartire, allora? Nessun “modello Milano” da esportare secondo Pisapia, «si tratta di fare buona politica e questa è già diffusa nei territori. Ma bisogna ragionare in un’ottica che non è elettorale: mi piacerebbe che tutti gli amministratori di centro-sinistra, o sinistra-centro, facessero partire dal basso un movimento che può accompagnarci verso un percorso unitario. Così da non rendere più indispensabile allearsi col Ncd per governare». Movimento dal basso che poi potrà anche rendersi riconoscibile alle urne delle prossime politiche: non lo esclude Pisapia, quando lo sollecitano su una possibile lista con lui e Zedda, a sinistra e a sostegno del Pd.

«La sinistra non può permettersi il lusso di dividersi – riassume Cuperlo – quando lo ha fatto non si è svegliata più forte». Oggi poi deve affrontare la sfida inedita di una destra che vince, da Trump al fronte pro Brexit, «ben diversa da quella degli anni 90» e pronta a rappresentare bisogni sociali drammatici e inediti, quelli di una classe media e lavoratrice colpita dagli effetti del lato oscuro della globalizzazione.

Il centrosinistra deve insomma ritrovare una sintonia con una società che non vi si riconosce più: un nodo reso ancora più stringente per il Pd ora che è al governo. E allora, avverte Lo Giudice, «dobbiamo essere quelli che guardano al futuro, riconosciamo a Renzi di avere messo al centro una radicale innovazione: ma cambiando rotta», per dare voce a nuovi disagi. Stando attenti a non inseguire i grillini sul terreno degli anti casta, ma sapendo che «oggi tanti giovani aderiscono a M5s sulla base di idee di sinistra come partecipazione, trasparenza, ambiente. Sul legalità e lotta alla corruzione, eppure proprio questa è la strada che può portarci fuori dalla crisi».

Tutte sfide che Cuperlo vorrebbe far echeggiare anche al prossimo congresso Pd, anche prima della fine del 2017: «Dopo il referendum diventa urgente un congresso tematico, straordinario, per discutere di cosa è oggi un partito e sulle sue forme di partecipazione. Che non possono limitarsi a primarie indette ogni sei mesi».

Da - http://www.unita.tv/focus/pisapia-non-si-puo-fare-nulla-di-sinistra-senza-il-pd/
6032  Forum Pubblico / MONDO DEL LAVORO, CAPITALISMO, SOCIALISMO, LIBERISMO. / Roberto NAPOLETANO Il Professore, la “profezia” di Barbara Bush e la nuova... inserito:: Novembre 30, 2016, 09:00:02 pm
Il Professore, la “profezia” di Barbara Bush e la nuova Bretton Woods

    –di Roberto Napoletano 27 novembre 2016

In questi giorni di sbornia americana post-trumpiana mi viene in mente una battuta di Romano Prodi di qualche tempo fa a Bologna, a tavola, dopo una mattinata passata a discutere di manifattura made in Italy, di filiere e territori, i primati della meccanica strumentale e di precisione, packaging di qualità e abiti sartoriali dell’industria italiana globalizzata. Ricordo la faccia del Professore, prima ancora delle parole, quando qualcuno dei commensali gli chiede insistentemente se la Clinton riuscirà ad arginare la pressione populista e l’insofferenza dell’anima profonda americana coagulatesi intorno a Trump. Ricordo quel sorriso divertito, fintamente bonario, che balena tra gli occhiali e il naso, e la “sua” sentenza di forte apprezzamento ma dura come un sasso: «Hillary è persona di altissimo livello intellettuale e di grande carattere, ma, nel linguaggio emiliano, l’abbiamo definita anni fa una donna di classe e una chioccia fredda che non ha il calore sufficiente per trasformare le uova in pulcini. Concludevamo, quindi, che poteva essere una grande presidente, ma avrebbe avuto difficoltà altrettanto grandi nella campagna elettorale».

E così il Professore a modo suo, senza pronunciarsi, anticipava in “linguaggio emiliano”, come dice lui, e in tempi non sospetti, l’esito delle elezioni americane: entrava dentro quell’anima profonda in subbuglio tra storie personali mai rinnegate di clan politici e familiari, dove tutto e il contrario di tutto è possibile proprio per la straordinaria unicità del sogno americano diventato realtà pur tra mille contraddizioni di ieri e battute d’arresto di oggi. Il solco aperto tra politica e società dal carico crescente delle diseguaglianze, il conto fatto pagare al mondo da una finanza malata e il primato globale dei mercati e delle sue regole, la cultura della severità per chi le viola e una genuina “religione” della concorrenza, il senso profondo di una scuola dove stanno insieme il gioco di squadra e la sana, gioiosa competizione sportiva, quella fatta di valori e di merito.

Prodi ha voglia di scavare nei ricordi, e butta lì: «Per capire che cosa è davvero la società americana e come si muove la politica, anche se molte cose stanno cambiando, ho sempre davanti agli occhi un viaggio in macchina a fine ’98 con Bush padre e la moglie Barbara e, soprattutto, la scena di lei che siede dietro con Flavia e dice a voce alta: “io ho due figli appassionati di politica e non so ancora quale dei due diventerà presidente degli Stati Uniti”. Quando scendiamo dalla macchina, Flavia mi dà un colpetto e domanda: “Romano, ho capito bene? Non vorrei che non avessi afferrato l’inglese perché corre troppo con le parole”. No, Flavia, hai capito proprio bene. Ha detto esattamente così, non sa ancora quale dei due farà il presidente degli Stati Uniti». Il bello, poi, è che la profezia in macchina si è pure avverata. Misteri della democrazia americana.

Chiedo al Professore di Trump, e mi risponde con un’altra battuta, questa volta fulminante: «Ascoltando le sue parole, salvo le americanate, è un perfetto leader populista europeo». Sottinteso: è un figlio della rivoluzione francese dei nostri giorni, globale e diffusa, dove facciamo i conti quotidianamente con lo scontro tra i “sans-culottes” e le élite che cambiano di Paese in Paese, una protesta viscerale contro tutto ciò che è diverso, tutto ciò che è percepito a torto o a ragione come élite. È amico di Putin, Trump, che cosa vuol dire? Anche qui Prodi ha la risposta pronta: «Mi disse Gorbaciov, all’inizio della sua ascesa, che quest’uomo, Vladimir Putin, nonostante il suo curriculum, era l’unico in grado di tenere la Russia unita e legata all’Europa, poi le cose sono andate diversamente per gli errori di entrambe le parti. Resta il fatto che questa divisione è un danno certo per loro e per noi». Poi, però, alza lo sguardo al cielo il Professore, e diventa terribilmente serio: «Stiamo morendo tutti di iniqua distribuzione del reddito, i giovani dei Sud del mondo non hanno lavoro e vivono abbandonati senza speranza come cani randagi, il flusso della paura non si interrompe, ti accorgi che soprattutto in Europa non hai strumenti per distribuire il reddito, non capisci perché la politica non batta un colpo».

Appunto, la politica, quella che non si nutre di sondaggi, ma sa ascoltare la coscienza e la pancia degli elettori, per rispondere ai bisogni e guidare il cambiamento, non per assecondare la deriva. Quella politica che avrebbe dovuto scrivere da tempo una nuova Bretton Woods perché le ragioni del governo del mondo e dell’economia tornino a incontrarsi in nome della cooperazione e, in casa, avrebbe dovuto riscrivere da tempo le regole di ingaggio del patto europeo. Questa politica non si è vista, latitano le leadership, ma guai a perdere la speranza che torni a battere un colpo. Vorrebbe dire che la deriva non è più arginabile.

© Riproduzione riservata

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2016-11-27/il-professore-profezia-barbara-bush-e-nuova-bretton-woods-110310.shtml?uuid=AD2lsi2B
6033  Forum Pubblico / MONDO DEL LAVORO, CAPITALISMO, SOCIALISMO, LIBERISMO. / Enrico MARRO - Cinque passaggi per cancellare ogni traccia di te su internet inserito:: Novembre 30, 2016, 08:57:28 pm
Identità digitali
Cinque passaggi per cancellare ogni traccia di te su internet

Di Enrico Marro 30 novembre 2016

A fronte dei miliardi di esseri umani che vogliono essere presenti su internet, e dei milioni che vorrebbero “correggere” la loro immagine digitale, non è raro trovare qualcuno che dal world wide web vuole semplicemente scomparire. Per varie ragioni, più o meno nobili. Non è un caso che si stiano affermando piattaforme digitali, studi legali e agenzie di comunicazione che sono specializzate proprio in questo: la cancellazione di ogni traccia del cliente in Rete. Senza più profili social, immagini, video, pubblicazioni, citazioni, caselle e-mail. Nulla.

Qualche mese fa furono i Radiohead a provare l’ebbrezza di scomparire dal web. Proprio alla vigilia del lancio dell’atteso nono album della band britannica, all’improvviso l’account ufficiale Twitter diventò muto, seguito a ruota da quello Facebook (con i suoi 12 milioni di “like” caduti nel nulla), e dal sito radiohead.com, diventato a sua volta una pagina vuota. Per la prima volta nella storia del web, una grande rock band aveva provato a “suicidarsi” su internet.

Ma è davvero possibile scomparire dal web? «In teoria sì - spiega uno studio legale specializzato di Londra - ma non è qualcosa che si riesce a fare in fretta, soprattutto nel caso dei personaggi pubblici». Possono essere necessari mesi di duro lavoro e tenaci negoziazioni per cancellare migliaia di immagini, facendo leva ora sul copyright, ora sulla privacy, ora sul diritto all’oblio. «In alcuni casi abbiamo lavorato anche un anno per cancellare singoli clienti dal web».

È facile sparire dal web per chi non è stato un personaggio pubblico? Diciamo che è meno difficile, ma comunque arduo, in particolare se si desidera una cancellazione il più possibile completa. I passaggi principali sono cinque. Vediamoli uno alla volta.

Facebook sospende la condivisione di dati con WhatsApp. Ecco che cosa cambia per gli utenti

1. Cancellarsi dai social network. Il primo passo è abbastanza semplice: basta seguire le istruzioni dei diversi social per cancellarsi (Facebook, Twitter, Linkedin, G+ e così via). Attenzione alla differenza che c’è - per esempio su Facebook - tra “disattivare” ed “eliminare” un account, poiché nel primo caso il diario scompare ma solo perché “congelato”, ed è riattivabile in ogni momento. Quando viene eliminato l’account, l’azzeramento di tutti i contenuti pubblicati - come foto, aggiornamenti di stato o altri dati memorizzati sui sistemi di backup - richiede fino a 90 giorni di tempo. Nell’eliminazione dell’account G+, attenzione a non cancellare l’eventuale casella Gmail (la posta elettronica è infatti l’ultima da eliminare nel processo di addio al web).

2. Cancellarsi da tutto il resto. Dopo i social, bisogna procedere all’eliminazione del proprio profilo da tutti gli altri “contenitori” dov’è finito: forum, Paypal, Amazon, eBay, Skype, YouTube, eventuali siti di dating, gambling, e-commerce e così via. Può non essere così semplice, perché i dati personali sono un asset che vale denaro per le società che operano su internet.

3. Individuare foto, video e citazioni. Qui il lavoro diventa più difficile. Bisogna infatti fare una ricerca approfondita su tutti i motori di ricerca conosciuti (non solo Google) di ogni informazione su di voi, provando diverse stringhe: non solo nome e cognome, ma anche luoghi di nascita e di residenza, aziende in cui avete lavorato e così via. Bisogna poi prendere nota di tutto in vista del quarto, difficilissimo passo.

Caccia ai pirati digitali che hanno attaccato Twitter, eBay e Netflix. L'ombra di Wikileaks

4. Chiedere l’eliminazione dei dati. Ora viene il difficile: bisogna contattare ogni singola società, webmaster, ente o blogger chiedendo la rimozione di tutti i dati su di voi. Molti di loro ignoreranno la vostra richiesta, rendendo necessaria l’adozione di vie legali, particolarmente complesse perché spesso ricadono sotto giurisdizioni di altri Paesi. In casi estremi, si può chiedere di intervenire direttamente sui server. Poi bisogna farsi cancellare dalle banche dati che raccolgono informazioni personali per rivenderle a scopo di marketing, in questo caso magari con l’aiuto - a pagamento - di società specializzate (per esempio DeleteMe). Per i più pignoli, c’è anche la complicata richiesta di cancellazione da Wayback Machine, il colossale archivio di internet, che raccoglie trilioni di pagine web.

5. Il tocco finale è l’addio alla mail. Se siete arrivati fino a questo punto, siete stati molto bravi e soprattutto tenaci. Manca solo un passo per scomparire dal mondo digitale: la cancellazione della casella e-mail. Praticamente una passeggiata, rispetto al lavoro fatto. Il premio finale è il perfetto anonimato in Rete, e la cancellazione della propria identità digitale (almeno quella vecchia). A questo punto potete fare due cose: o costruirvi un’identità internet nuova di zecca, oppure spegnere il computer. E andare a fare una lunga passeggiata fuori.

© Riproduzione riservata

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/tecnologie/2016-11-29/cinque-passaggi-cancellare-ogni-traccia-te-internet-183516.shtml?uuid=ADV7vC4B
6034  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / Morya Longo. Dietro le quinte dello spread: ecco chi specula contro l’Italia inserito:: Novembre 30, 2016, 08:54:26 pm
Dietro le quinte dello spread: ecco chi specula contro l’Italia

Di Morya Longo 30 novembre 2016

Un misto di speculazione internazionale e di indifferenza italiana. Di hedge fund ribassisti e di investitori nazionali ormai meno nazionalisti. C’è un po’ di tutto dietro la turbolenza dello spread. Il Sole 24 Ore, incrociando testimonianze e dati, è in grado di rivelare i retroscena dell’attacco all’Italia.
Il referendum è solo il pretesto: nella realtà lo spread si è allargato fino a quota 190 (e ieri bruscamente ristretto) per una concomitanza di motivi. La Bce, con i suoi acquisti di BTp, è riuscita solo a mitigare la speculazione. Ma - per la prima volta da quando Draghi ha avviato il quantitative easing - non ad annullarla. Ecco, numeri e testimonianze alla mano, perché.

    Italia 30 novembre 2016

Acquisti sui bond, il BTp torna sotto il 2%
Hedge fund ribassisti
A pesare sui BTp è innanzitutto la speculazione internazionale, ad opera principalmente degli hedge fund. I gestori di questi fondi hanno infatti individuato nel debito pubblico italiano (e nelle banche) la gallina dalle uova d’oro con cui fare un po’ di utili in vista del referendum: basta puntare sul ribasso dei prezzi e sul rialzo dei rendimenti sfruttando l’incertezza generale. E così, soprattutto attraverso i futures, il tiro a segno sui BTp è diventato di moda almeno da ottobre.

Secondo Alok Modi, capo della sala di trading di bond governativi di Morgan Stanley, su una scala da uno a 10 gli hedge fund sono ribassisti sui BTp ad un livello di nove. O meglio: questa era la loro posizione fino a settimana scorsa. Ieri è verosimile - come ipotizza Mattia Nocera che segue i fondi di fondi del gruppo Banca del Ceresio - che siano scattate un po’ di ricoperture: per questo il mercato è rimbalzato così velocemente. Ma il trend resta quello ribassista: come si vede nel grafico a fianco, è da ottobre che gli hedge fund montano posizioni «corte» (cioè ribassiste) sui BTp.

Alla speculazione opportunistica del momento, poi, si è associato un tono prudente degli altri investitori internazionali. Anche quelli non speculativi: banche, assicurazioni, fondi di lungo termine. Nell’incertezza pre-referendaria (incertezza, non attesa di catastrofi), in tanti hanno ridotto o limato l’esposizione sull’Italia. «In fondo il mondo è grande, non abbiano alcun motivo per esporci sui titoli di Stato italiani in un momento così delicato...» confessa il responsabile mercati di una grande banca internazionale. Morale: dall’estero tanti speculano contro i BTp e tanti altri si tengono alla finestra. Il saldo finale è quindi negativo per i nostri titoli di Stato.

    La giornata dei mercati 29 novembre 2016
Milano (+2,1%) si riscatta con le banche. Rimbalza Mps, cala la tensione sullo spread

Manca il sostegno domestico
Nelle passate crisi dello spread, a partire da quella del 2011, a fronte di una forte speculazione internazionale aveva fatto da contrappeso una altrettanto forte risposta da parte del sistema finanziario italiano. Tutti, cioè banche, assicurazioni e risparmiatori, avevano comprato BTp a quei tempi. Dal novembre 2011 (quando scoppiò la crisi dello spread) all’ottobre 2012 le banche italiane hanno per esempio acquistato titoli di Stato italiani per un ammontare di circa 140 miliardi di euro. E un comportamento analogo l’avevano avuto le assicurazioni.

Ora, invece, le banche italiane non sono più così interventiste. Anzi: gli ultimi dati di Bankitalia (aggiornati solo a settembre) dimostrano che stanno lievemente vendendo: se a giugno 2016 avevano in bilancio titoli di Stato italiani per 414 miliardi, a settembre la posizione era stata ridimensionata a 394 miliardi. Secondo le testimonianze che arrivano dal mercato, anche le assicurazioni italiane sono oggi meno disposte a sostenere i BTp. Per molteplici motivi. E un discorso analogo si può fare per i piccoli risparmiatori, ormai - a causa di tassi d’interesse bassi - disaffezionati ai titoli di Stato. Le loro scelte si stanno dirottando più sui fondi, che investono sempre più su mercati esteri. Bene inteso: gli investitori italiani restano “stabilizzatori” fondamentali per i BTp. Ma sono meno interventisti di un tempo. E questo pesa.

A confermarlo è Target 2, cioè il grande “registratore di cassa” che monitora i movimenti di capitali tra un Paese e l’altro dell’area euro. L’Italia ha infatti su Target 2 un passivo record di 354 miliardi di euro. Il motivo principale è tecnico, perché legato alle modalità di esecuzione del «quantitative easing». Ma secondo molti esperti, dietro il tecnicismo c’è anche una reale uscita di capitali dall’Italia ad opera principalmente di investitori italiani: «I soldi stampati da Draghi con il Qe sono stati usati dagli italiani per comprare soprattutto titoli all’estero», spiega Fabio Balboni, economista di Hsbc, osservando Target 2. Morale: la speculazione internazionale è arrivata in un momento in cui gli investitori italiani - per vari motivi - non sostengono più i titoli di Stato della Penisola come facevano un tempo.

Il possibile rimbalzo
Gli acquisti della Bce hanno ovviamente mitigato la speculazione. Infatti lo spread è ben lontano dai livelli del 2011 e del 2012. Eppure, per la prima volta da quando esiste il quantitative easing, Draghi non è riuscito ad annullarla del tutto. Questo deve far riflettere. E, forse, anche far bene sperare: perché la speculazione ribassista non può durare in eterno, soprattutto - come accaduto ieri - se la Bce fa sentire la voce più forte.

Molti addetti ai lavori non sarebbero infatti sorpresi se dopo il referendum, anche in caso di vittoria del «no», dopo un’iniziale turbolenza il mercato dei BTp rimbalzasse: perché, seguendo il motto «buy on rumor sell on news», molti hedge fund potrebbero chiudere o ridimensionare le loro posizioni ribassiste. Ieri già c’è stato un assaggio di rimbalzo. Certo, il «day after» dipenderà molto dall’aumento del Montepaschi e da cosa farà la Bce l’8 dicembre. Ma Brexit e Trump una cosa l’hanno insegnata: la speculazione è mutevole.

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2016-11-29/dietro-quinte-spread-ecco-chi-specula-contro-l-italia-223955.shtml?uuid=ADK4363B
6035  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / FEDERICO RAMPINI. Attacco campus Ohio, polizia: "Non escludiamo pista terrorismo inserito:: Novembre 30, 2016, 08:53:18 pm
Attacco campus Ohio, polizia: "Non escludiamo pista terrorismo"
L'assalitore ha colpito con modalità che ricordano assalti avvenuti in Paesi europei: vittime investite con l'auto, altre accoltellate. I network tv ora intitolano i notiziari sulla pista jihadista, una sorta di "benvenuto" al presidente-eletto Donald Trump, che del pericolo fece un cavallo di battaglia in campagna elettorale

Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI
28 novembre 2016

NEW YORK - "Gli dava la caccia con la sua auto, investendo pedoni sui marciapiedi, poi li aggrediva con un coltello da macellaio". È la descrizione dei primi testimoni, come la riferisce alla Cnn il presidente dell'Ohio State University, Michael Drake, sull'attacco che ha sconvolto stamattina quel campus universitario: il bilancio è di dieci feriti, tra cui uno in gravi condizioni. L'assalitore è morto, ucciso dalle forze dell'ordine, e "il campus ora è sicuro", secondo le autorità locali. "Se non avete un'arma da fuoco usate un coltello, o un'automobile".

Quelle "istruzioni" dell'Isis ai jihadisti su come colpire l'Occidente, vengono rievocate ora dalla polizia dell'Ohio. "Le indagini non escludono la pista terrorista", dice la portavoce della polizia. L'aggressore viene descritto dalla stessa polizia come un giovane di origini somale: secondo fonti anonime raccolte da Nbc avrebbe avuto regolare permesso di soggiorno, ma a suo tempo accolto come rifugiato. Ha colpito con modalità che ricordano alcuni attacchi avvenuti in Paesi europei: alcune vittime le ha investite con la sua auto, altre accoltellate.

La città di Columbus ospita una vasta comunità di rifugiati dalla Somalia. Tra i primi testimoni, studenti che hanno visto da vicino la scena dell'attacco, nessuno però ha sentito l'aggressore rivendicare o spiegare il suo gesto. Uno di questi studenti, Jacob Bower, ha detto alla Cnn: "Era silenzioso, ma aveva uno sguardo da folle. Il poliziotto che lo ha abbattuto ha dovuto sparare tre volte per fermarlo".

Tutti i network tv ora intitolano i notiziari sulla pista terrorista e di colpo l'attacco può apparire come una sorta di "benvenuto" al presidente-eletto Donald Trump, che del pericolo del terrorismo islamista fece un cavallo di battaglia in campagna elettorale. Dall'inizio delle primarie fino al voto, l'America subì due attacchi terroristici a San Bernardino (California) e Orlando (Florida), e fu anche sconvolta dall'eco delle stragi di Parigi e Bruxelles. Trump attaccò Barack Obama e Hillary Clinton per la loro reticenza a usare il termine di "terrorismo islamico".

© Riproduzione riservata
28 novembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2016/11/28/news/ohio_rampini-153040500/?ref=HREA-1
6036  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / DOMENICO QUIRICO - Carolina Invernizio, dissepolta e viva inserito:: Novembre 30, 2016, 08:52:13 pm
Carolina Invernizio, dissepolta e viva
Autrice di 130 romanzi, bollata da Gramsci come “onesta gallina della letteratura popolare”, a cent’anni dalla morte rivela una sorprendente modernità nel metterci in guardia dalle insidie della bontà e dell’ottimismo
Carolina Invernizio (Voghera 1851 - Cuneo 1916)

Pubblicato il 28/11/2016 - Ultima modifica il 28/11/2016 alle ore 01:30
Domenico Quirico

È ormai matura l’ora di rileggere (anche) Carolina Invernizio? Me ne danno spunto alcune foto della alluvionale romanziera dell’Italietta fin de siècle, della autrice preferita da servette e casalinghe tra Crispi e monarchia borghese; e pazienza se Gramsci la fulminava come «onesta gallina della letteratura popolare». Come poteva sapere, l’incauto, cosa sarebbe seguito, di ben più letterariamente disonesto, nelle rastrelliere di supermercati autogrill e aeroporti? 

Me le mostrano, le foto un po’ virate dal tempo, nell’anniversario dei cent’anni dalla morte, le gentilissime signore della biblioteca del Castello di Govone, residenza sabauda che l’analfabetismo culturale delle amministrazioni locali ha rassegnato a sconcio villaggio di Babbo Natale, tra casupole finta Lapponia e oggetti di un consumismo accattone. Nei saloni dove Carlo Felice meditava su fragili Restaurazioni e Carlo Alberto su ancor più contorti Risorgimenti, torme di marmocchi dilagano come innocenti coribanti di un sabba natalizio del Kitsch. È l’umiliante trasposizione di una moda imbecille che vuole l’opera d’arte, le pietre del Passato piegate alla necessità di giustificare la sopravvivenza con il rendere palanche, al prostituirsi per fare denaro…

Chissà che trama avrebbe inventato in questo sfondo infernale e di cattivo gusto che le era congenialissimo la «Madamin» che proprio nel nobile paesello del marito cavalier Quinterno mitigava la canicola all’ombra di alberi oraziani, tessendo con furore da catena di montaggio, dumasiano, una letteratura-monstre fitta di sepolte vive, incesti e malmaritate! Le foto la mostrano in grande uniforme di signora borghese, insieme a lobbie maschili e femminei cappelli a larghe falde, davanti alla scalinata d’onore del Castello.

Tra Voghera e Govone 
Govone delle vacanze, la nativa Voghera, Cuneo dove riceveva in un delocalizzato ma dicono apprezzato salotto letterario… Che strane, intriganti periferie per una odissea letteraria!

 
Prendo nella biblioteca che custodisce le sue prime edizioni un testo verrebbe da dire «classico»: La sepolta viva. Comincio a leggerne le prose con una sorta di devozionale raccapriccio. Non oso dire che scrive male, tenendo conto dei lustri passati e anche della media nazionale contemporanea, ma tuttavia… Il suo marchio di fabbrica è facilmente riconoscibile, lo stesso da cui nasce la discontinua potenza del linguaggio popolare: l’iperbole. In questa arcaica figura retorica la fantasia plebea del suo pubblico celebrava una sua libertà estetica.

Tutto qui? È dunque la Invernizio animale tra i più bizzarri e riluttanti ai recuperi e alle resurrezioni, parola perfetta vista una delle sue trame-ossessione, della nostra letteratura recente? Chissà: i giochi non son fatti. Forse nella sua storia questo è un momento delicato e difficile. E se nei suoi 130 romanzi, 130!, ci fosse qualcosa che accanto al respingerci cominciasse ad affascinarci? Ci troviamo forse ad assister, un po’ renitenti, alla commovente metamorfosi di uno scrittore in moderno o addirittura in contemporaneo, a un subitaneo scatto nella macchina del tempo?

Suvvia! Basterebbe, visti i tempi, la spintarella di una serie televisiva, o un intrigante e nobilitante accostamento biografico, che so: sapete che Tarantino la leggeva estasiato schiacciando i brufoli dell’adolescenza? Se non è vero, viste le comuni perverse sticomitie, gli eventi esemplarmente rovinosi, le scoperte di fatali e vergognosi segreti, è verosimile. E il gioco sarebbe fatto!

Trame zeppe di cadaveri 
Mi viene l’idea che ci siano altri modi di leggerla che la attenzione alla trama, spesso così fitta di cadaveri che una apposita parente-contabile provvedeva a tenere il conto dei trapassati evitando resurrezioni non volute dalla distratta e impietosa inventrice. Sublime! Ad esempio: Perché nessuno ha pensato alla qualità epifanica dei titoli della Invernizio, che equivale alla valenza poetica del catalogo delle navi di Omero e delle genealogie bibliche? lo diceva lei stessa: un bel titolo equivale alla metà del successo di un romanzo popolare. È la fede innaturale, innaturale quanto è innaturale l’intera letteratura, nel valore esorcistico, magico, cerimoniale delle parole. Proviamo dunque a recitare il catalogo infinito: La bastarda, La maledetta, Anime di fango, I misteri delle soffitte, L’impiccato delle cascine, Odio di donna, Il bacio di una morta, Satanella, Amori maledetti, La figlia del mendicante, Il treno della morte, La peccatrice, La vendetta di una pazza… e giù giù fino a Odio di araba, che negli anni del giolittiano «Tripoli bel suol d’amore» vaticinava già erotici addentellati del problema islamico.

Attenzione! Non vi suona a indizio la coesistenza della «madre e moglie esemplare» con la menade che si ritira nello studio e comincia a disegnare debosce e ingorghi di scuri irriferibili orrori, impuberi viziose e vendicativi carnefici? Pedigree letterariamente assai moderno, altro che Belle Epoque!

Ma sento le proteste di chi ancora rilutta, di chi ha ancora l’orecchio aduggiato dai dialoghi insieme languidi e presuntuosi, armature fittizie di orrori e travisamenti, sardanapalesche eroticità, un linguaggio che più repulsivo non potrebbe essere, tanto da far pensare, perché no?, a una operazione volontaria. 

Inventrice di inferni 
Eppure quando la trama prende fiato e comincia smaniare in riconoscimenti incesti materne ferocie, ecco: la macchina da romanzo, professata con accanita devozione, è esperta a destare disonesti e immaginosi terrori, è una fantastica inventrice di inferni, al centro dei quali ha collocato la solitaria femmina brutalizzata. C’è chi vi ha visto una fiancheggiatrice delle contemporanee suffragette, lei che teneva anche progressistici sermoni alle operaie della nascente questione sociale… mah! Forse è troppo. Delibando immondezze, indugiando retoricamente su ogni sorta di liquame sessuale e non, con una lingua monodica torbida e sordida, più semplicemente la scrittrice di Voghera leva una efficiente difesa contro ogni insidia dell’ottimismo e della bontà. E questo, purtroppo, è davvero moderno.

Licenza Creative Commons
Alcuni diritti riservati.

Da - http://www.lastampa.it/2016/11/28/cultura/carolina-invernizio-dissepolta-e-viva-OG8YpPWbHMuKNJu6LprOUM/pagina.html
6037  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / Giuseppe Salvaggiulo. Gustavo Zagrebelsky: “Costituzione indifesa come a Weimar inserito:: Novembre 30, 2016, 08:50:50 pm
Gustavo Zagrebelsky: “Costituzione indifesa come a Weimar. Fermiamo gli apprendisti stregoni”
«Parlamento illegittimo, non poteva cambiare la Carta. Ma i garanti tacciono Mourinho direbbe: riforma zero tituli. Col proporzionale torna la politica»
Gustavo Zagrebelsky Presidente emerito della Corte Costituzionale, è presidente onorario dell’associazione Libertà e Giustizia

Pubblicato il 29/11/2016
Giuseppe Salvaggiulo
Torino

Il professorone che non t’aspetti. Nel pieno di una campagna incarognita, Gustavo Zagrebelsky sfoggia autoironia. Ride della «sublime imitazione di Crozza» e fa ammenda degli eccessi accademici in tv. Ma cala anche un argomento pesante contro la riforma: la violazione del primo pilastro della Costituzione, la sovranità popolare. Tra Platone e Mourinho, Weimar e De Gregori. 

Che cos’è in gioco, la Costituzione più bella del mondo? 
«Questa è un’espressione sciocca che non ho mai usato. Le Costituzioni non si giudicano dall’estetica, ma dai valori che esprimono e dal contesto che li può far vivere».

Cosa intende per contesto? 
«Tra il ‘46 e il ‘48 c’erano i postumi d’una guerra civile, ma la Costituzione fu lo strumento della concordia nazionale. Oggi, al contrario, la riforma divide. Siamo in balia di apprendisti stregoni che ignorano quanto la materia sia incandescente. A chi vuol metterci mano, può prendere la mano. Non si sa dove si va a finire. Questa riforma, con annesso referendum, rischia il disastro. Chiunque vinca, perderemo tutti».

La riforma non tocca i principi, la prima parte della Carta. 
«Davvero si tratta solo di efficienza dell’esecutivo e non anche di partecipazione di coloro che a quei principi sono interessati? A proposito: a me pare che sia stato violato proprio l’articolo 1».

In che modo? 
«La riforma è stata approvata da un Parlamento eletto con una legge incostituzionale. Fatto senza precedenti».

 
Però la sentenza della Consulta sul Porcellum dice che il Parlamento resta in carica. 
«La prima parte della sentenza dice che la legge è incostituzionale perché ha rotto il rapporto di rappresentanza democratica tra elettori ed eletti. La seconda che, per il principio di continuità dello Stato, il Parlamento non decade automaticamente. Bisognava superare il più presto possibile la contraddizione. Invece il famigerato Porcellum, che tutti aborrono a parole, non è affatto estinto: vive e combatte insieme a noi perché il Parlamento che abbiamo è ancora quello lì. La riforma costituzionale è stata approvata con i voti determinanti degli eletti col premio di maggioranza dichiarato incostituzionale. Ma i garanti della Costituzione fanno finta di niente e tacciono».

Chi sono i garanti? 
«Dal presidente della Repubblica ai singoli cittadini. La Repubblica di Weimar, nella Germania degli Anni 30, implose anche per l’assenza di un “partito della Costituzione” che la difendesse oltre gli interessi contingenti dei partiti. Oggi accade lo stesso». 

Perché è violato l’articolo 1? 
«L’articolo 1 dice che la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. Ebbene, questo Parlamento non è stato eletto secondo le forme ammesse dalla Costituzione. C’è stata un’usurpazione della sovranità popolare. La riforma è viziata ex defectu tituli».

Professore, così diamo nuovo materiale a Crozza. 
«Allora citiamo Mourinho: è una riforma “zero tituli”».

Ora, però, decide il popolo. 
«Pensare che il referendum sia una lavatrice democratica che toglie ogni macchia è puro populismo. Anche perché è stato trasformato in un Sì o No a Renzi, e la povera Costituzione è diventata pretesto per una consacrazione personale plebiscitaria. Qualcuno s’è fatto prendere la mano».

Che cosa imputa a Renzi? 
«Nulla. Però non c’è saggezza nel legare la sorte d’un governo al cambio di Costituzione. Non appartiene alla cultura liberale e democratica. La Costituzione non deve dipendere dal governo né viceversa. Sono su piani diversi, il governo sotto».

Qual è la concezione che Renzi ha del governo, del potere democratico? Perché lo contesta? 
«In un dialogo del suo periodo tardo, “Il Politico”, Platone distingue il governante “pastore di uomini”, che conduce il popolo come un gregge, dal governante tessitore. Un sistema in cui il popolo, come si dice con enfasi, la notte stessa delle elezioni va a letto sapendo chi è il Capo nelle cui mani s’è messo, appartiene alla prima concezione. La democrazia è cosa molto più complicata».

Però questa riforma nasce dallo stallo politico del 2013, dalla rielezione di Napolitano. Renzi è venuto dopo. 
«Il presidente della Repubblica rappresenta l’unità nazionale. Nel suo discorso d’insediamento al momento della rielezione, davanti a tanti parlamentari commossi e grati a chi li definiva incapaci, inconcludenti, nominati, corrotti e pure ipocriti (da riascoltare quelle parole!), riprese in mano il tema della riforma, trattandolo come un terreno di unità. Ma la storia ha dimostrato che non lo era affatto».

 Ha ripensato al confronto in televisione con Renzi? 
«Non mi sono mai sentito tanto a disagio. Sono cascato, per leggerezza, dal mio mondo in un altro. Non è stato un vero confronto. La comunicazione contro il tentativo di argomentare, surclassato dal diluvio verbale. Si è parlato, non dialogato. L’indomani mi ha telefonato un amico assennato, dicendomi “sei stato te stesso”. Cos’altro avrei dovuto essere?».

Lo rifarebbe? 
«Mah! Cercherei comunque di non essere professorale: peccato gravissimo! D’altra parte, è difficile prevedere i colpi bassi e gli argomenti a effetto lanciati nell’etere senza alcuna verosimiglianza, anzi con molto cinismo. Come quello sui malati di cancro avvantaggiati dal Sì, che ricorda analoghe promesse berlusconiane».

Preparerebbe carte a sorpresa? 
«Certo che no. I foglietti sottobanco sono stati la cosa peggiore, una meschinità che non mi sarei aspettata da un uomo delle istituzioni. Un’abitudine da talk show della peggior specie, dove ciò che conta non è chiarire, ma colpire».

 C’è rimasto male per l’imitazione di Crozza? 
«Tutt’altro! Quando l’ho vista la seconda volta, ho riso più della prima. Gli occhiali, la stilografica, i libri, il fazzoletto, il dittongo, il munus: davvero eccellente. Gli ho telefonato per farci altre quattro risate».

Che succede se vince il Sì? 
«Non si apre la strada a una dittatura, ma alla riduzione della democrazia e all’accentramento del potere in poche mani. Non possiamo tuttavia sapere, oggi, quali saranno le poche mani di domani».

E se vince il No? 
«Si potrà ricominciare a “fare politica”. La responsabilità sarà dei partiti e dei movimenti. Altrimenti, si correrà il rischio dell’affacciarsi dei cosiddetti governi tecnici o istituzionali.

E il salto nel vuoto evocato da Renzi? E i timori dei mercati? 
«Agitare queste paure può essere controproducente: il sistema finanziario che adombra sciagure non è visto come benefattore dei popoli. Il referendum è lo strumento per scuotersi dal giogo della finanza. Decidano i cittadini e, come canta De Gregori, viva l’Italia che non ha paura».

Bisognerà riscrivere la legge elettorale. 
«Molte ragioni militano per il ritorno al sistema proporzionale, quello che meno dispiace a tutti e mi pare più conforme all’attuale sistema multipartitico. Da lì si potrà, se si saprà, ricominciare a parlare di riforme anche costituzionali».

Che cosa farà il 5 dicembre? 
«Questa campagna è stata estenuante. Non vedo l’ora che finisca. Mi sveglierò tranquillo perché il sole sorgerà ancora, comunque vada».

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Da - http://www.lastampa.it/2016/11/29/italia/politica/gustavo-zagrebelsky-costituzione-indifesa-come-a-weimar-fermiamo-gli-apprendisti-stregoni-QmYOxUHupZCaNFAlbY5rYI/pagina.html
6038  Forum Pubblico / AUTORI - Firme scelte da Admin. / Chicco Testa Quando crescono? Ma l’ossessione di Travaglio e del M5S è ... inserito:: Novembre 30, 2016, 08:48:24 pm
Opinioni
Chicco Testa   - @chiccotesta
· 30 novembre 2016

Quando crescono? Ma l’ossessione di Travaglio e del M5S è un’altra
Fare i conti con trasparenza e coerenza sembra essere per i pentastellati un’impresa difficile


Marco Travaglio nel suo quotidiano editoriale partiva ieri con una domanda che faceva ben sperare: «Ma i 5 Stelle quando vogliono diventare grandi? Vogliono crescere davvero oppure invecchiare senza diventare adulti?». Una domanda che ci facciamo in tanti perché, come nota Travaglio, i 5 Stelle sono diventati per dimensione e peso una cosa seria e potrebbero trovarsi al governo del Paese.

Anzi già vi si trovano, visto che amministrano città come Roma e Torino. Purtroppo però lo svolgimento è deludente. Mi sarei aspettato che Travaglio chiedesse ai 5 Stelle di chiarire alcuni punti fondamentali per la loro ipotetica agenda. Per esempio con chi pensano di allearsi, che cosa vogliono veramente fare dell’euro e dell’Europa e come, quale è la loro soluzione per le banche italiane in difficoltà, se intendono proporre un’altra riforma costituzionale, quali sono le prime misure di politica economica che prenderebbero, quale è la loro soluzione ai problemi dell’immigrazione. . .

Insomma una lunga lista di argomenti su cui i 5 Stelle non dicono nulla o dicono tutto e il contrario di tutto. Invece l’unico problema sembra essere per Travaglio quello degli esponenti grillini che, a proposito delle firme false della Sicilia, hanno scelto di non rispondere ai magistrati.

Atteggiamento che Travaglio stigmatizza, perché non coerente con la ricerca della verità. E possiamo anche essere d’accordo, aggiungendo che fare i conti con trasparenza e coerenza sembra essere per i pentastellati un’impresa difficile. Ma ho i miei dubbi che sia questo il punto che li farebbe entrare nella maggiore età. Piuttosto sembra un’ossessione adolescenziale. Dei 5 Stelle e di Travaglio

Da - http://www.unita.tv/opinioni/ossessione-travaglio-m5s-adulti/
6039  Forum Pubblico / Gli ITALIANI e la SOCIETA' INFESTATA da SFASCISTI, PREDONI e MAFIE. / Carlo Bertini. Rimpasto di governo con l’orizzonte al 2018. inserito:: Novembre 30, 2016, 08:45:56 pm
Rimpasto di governo con l’orizzonte al 2018.
La strategia se vince il Sì
Renzi chiederà subito un voto alle Camere per il veto Ue


Pubblicato il 30/11/2016
Ultima modifica il 30/11/2016 alle ore 12:32

Carlo Bertini
Roma

Se è vero come si sente dire nelle stanze del potere, che «il Sì è in ripresa, anche se sempre sotto», non sorprende l’interrogativo che circola nei Palazzi con più frequenza di qualche giorno fa: cosa farebbe Renzi in caso di vittoria? Consultando i suoi collaboratori emergono una serie di passaggi ben cadenzati, su tre fronti: governo, partito ed Europa. Sul fronte interno, rilancio e rimpasto, con un orizzonte al 2018, più lungo di quanto credano i più. 

Tanto per cominciare, se dovesse vincere, Renzi andrà al consiglio europeo del 15 dicembre con il vento in poppa: prima di partire ha già deciso che chiederà al Parlamento di poter mettere il veto al bilancio europeo se non si risolve la questione immigrazione. Ma la partita con Bruxelles è un tassello di una lunga campagna elettorale che nelle intenzioni del premier dovrà culminare a fine 2017 con il taglio dell’Irpef, cui il premier tiene più di ogni altra cosa. Una campagna che non si fermerà dunque a marzo dell’anno prossimo: anche perché gli interlocutori che hanno più dimestichezza con gli umori del Colle, ripetono in coro che se pure Renzi volesse capitalizzare il successo referendario per andare al voto nella primavera 2017, troverebbe forti resistenze al Quirinale. Che non vedrebbe ragioni per mandare il paese a votare, se il governo passasse indenne la prova sulle riforme costituzionali. 

Battere tutti i record 
«Matteo ci tiene molto al record di durata, il suo governo è quarto e lui vuole andare avanti a tutti i costi nella classifica», spiega poi chi lo conosce bene. E dunque pensa di più ad un rilancio del suo esecutivo attuale, al classico nuovo inizio. Un governo rinnovato per affrontare l’ultimo anno di legislatura e soprattutto le elezioni 2018. Una volontà, quella del rimpasto, fatta circolare dal premier in questi giorni, allo scopo di smuovere tutti alla pugna, sia gli aspiranti ministri, sia i titolari, per aumentare l’impegno in campagna elettorale. Se si domanda quali siano i nomi emergenti con speranze ministeriali, spuntano sia evergreen come Anna Finocchiaro, sia giovani leve come Anna Ascani; e vengono ipotizzate promozioni per big come Tommaso Nannicini. Ma se la maggioranza sarà la stessa con Verdini dentro, è da escludere che il capo di Ala possa far entrare qualcuno dei suoi al governo. Inoltre, fanno notare i più avveduti, per evitare un Renzi bis che faccia ripartire da zero il pallottoliere, il premier non può lanciarsi in un rimpasto corposo ma deve limitare i cambi di poltrona.

Ossatura di un nuovo Pd 
Renzi potrebbe poi voler mettere mano al partito. E a sentire i suoi, l’esperienza della campagna per il Sì consegna l’ossatura di «un partito più contemporaneo». Tradotto, tutte le energie messe in campo in questi mesi non saranno buttate via, tanto più che a Renzi e ai suoi colonnelli sono sembrate più efficaci le reti esterne al Pd nel mobilitare categorie e professioni, che quelle interne. In ogni caso, che vinca il Sì o il No, sarà convocato il congresso subito: e il timing potrebbe essere quello dei congressi regionali da tenere a febbraio, per fare quello nazionale ad aprile-maggio. Con Renzi in quel caso candidato forte appoggiato da una vasta maggioranza. In caso contrario, è tutto da vedere.

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Da - http://www.lastampa.it/2016/11/30/italia/speciali/referendum-2016/rimpasto-di-governo-con-lorizzonte-al-la-strategia-se-vince-il-s-FowPV5JHxSFQ76QzMBX1uJ/pagina.html
6040  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / LUCIA ANNUNZIATA - La rivoluzione rimasta incompiuta inserito:: Novembre 28, 2016, 08:50:21 pm
La rivoluzione rimasta incompiuta

Pubblicato il 28/11/2016
Lucia Annunziata

Hasta la Victoria, Fidel. Peccato che non sia mai davvero stata raggiunta. E’ un po’ amaro da dire per chi ci ha creduto, ma è certamente il più realistico omaggio che si possa fare a Castro. 

La Cuba di oggi ci racconta che la più irresistibile e trasversale narrazione della rivoluzione del secolo appena passato, è stata un bel mito, un fatto culturale di estremo impatto - ma se per rivoluzione intendiamo la creazione di un mondo di uguali, come ci veniva detto, a Cuba non è mai arrivata. 

Fa impressione sentire oggi i toni di celebrazione quasi sentimentali che i governi di tutto il mondo, incluso il Papa latinoamericano Bergoglio, dedicano a Castro. Fa impressione perché in questi decenni il fallimento dell’Isola caraibica era evidente: la povertà annidata nei bassi di L’Avana, il patetico sforzo di rammendo per far durare i pochi beni materiali rimasti, sogni di libertà finiti in galera, prostituzione dilagante, fughe per il mare di migliaia di persone sulle precarie balzas, nella speranza di essere raccolti dalle vedette costiere Usa prima del cattivo tempo. Nel frattempo Fidel faceva innamorare il mondo con il sogno della salvezza mondiale per la prima generazione globale dell’Occidente, il ’68, spendendo risorse per medici in Africa, e spedizioni rivoluzionarie nel Terzo mondo. 

Una grande macchina narrativa del neoromanticismo delle colpe dell’Occidente, servita però soprattutto - vista col poi - a rinnovare anche il ruolo di una Unione Sovietica macchiata durante la Guerra Fredda dalle stragi, dai gulag, dalla fame. 

All’epoca si faceva distinzione netta fra la concezione castrista e quella stalinista del potere. Ma in realtà le due erano necessaria all’altra, e non solo in termini ideali. La bella narrazione di Castro era possibile grazie ai soldi, al petrolio, e agli aiuti militari di Mosca, senza i quali l’isola non sarebbe durata. E infatti la sua epoca eroica finisce, come in tutti i Paesi sovietici, nel 1990, insieme al Muro. In questo senso, ai fini della storia, si può dire che Castro sia morto in quell’anno, perché da allora comincia la costruzione della Cuba di oggi. 

Il pendolo del potere si sposta all’Avana, dal 1990, a favore dei militari e dei servizi, guidati da Raul Castro, fratello di Fidel. Raúl, ministro della Difesa, invia ufficiali di alto rango in giro per il mondo per negoziare nuovi aiuti economici (telefonia, operazioni in aree free- tax, forniture di petrolio, in cui il Venezuela di Chavez avrà un ruolo fondamentale) e per formarsi essi stessi come manager. Raccoglie dentro il dipartimento delle industrie militari un numero maggiore di business, dal consorzio commerciale, a hotel, ristoranti, proprietà immobiliari, e naturalmente zucchero e i sigari. Il genero di Raúl, il generale Luis Alberto Rodriguez, è a capo di queste attività; il figlio di Raúl, Alejandro Castro Espin, viene preparato per un ruolo politico futuro. 

Nasce un nuovo regime, di natura oligarchia, fondato sull’intreccio fra appartenenza politica e denaro, controllato dai militari e da un pugno di famiglie di cui i Castro sono la principale. Nessuna novità: tutto questo è già successo in Russia, in Cina, nei Paesi del blocco socialista, prima del Muro, ma anche dopo il Muro. E’ questa oligarchia che apre al dialogo con Obama e con la Chiesa, frutto migliore della necessità della Rivoluzione di sopravvivere. Eccetto che la Rivoluzione a Cuba non è mai esistita. 

Il mistero, tra i tanti, che Fidel porta con sé nella tomba, è se il Líder Máximo nei suoi ultimi anni abbia capito questo stato di cose. Il suo destino personale infatti è quello di essere in qualche modo sopravvissuto a se stesso, di aver vissuto troppo a lungo per non avere qualche dubbio sulla sua Gloria. 

Direttore Huffington Post, Italia 
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6041  Forum Pubblico / LA CULTURA, I GIOVANI, La SOCIETA', L'AMBIENTE, LA COMUNICAZIONE ETICA, IL MONDO del LAVORO. / Paolo Legrenzi Cinquanta sfumature di né vero né falso inserito:: Novembre 28, 2016, 08:47:42 pm
Cinquanta sfumature di né vero né falso

    –di Paolo Legrenzi 26 novembre 2016

L’Oxford Dictionary si arricchisce ogni anno di una nuova parola. Nel 2016 ha scelto «post-truth», un termine che descrive il nuovo mondo del «dopo-verità». Il termine non allude alle panzane dei politici. Da sempre, in occasione di uno scontro acceso, volano molte frottole. Stefano Pivato ha ricostruito nel saggio Quando i comunisti mangiavano i bambini la storia di quella che probabilmente è l’invenzione più riuscita della propaganda anti-comunista nelle elezioni del 1948. Nel manifesto un bimbo indifeso si rivolge al padre: Papà salvami!

La post-verità è altra cosa. Abbiamo a che fare con la creazione di un fatto preciso che si presume accaduto e documentabile. Ma è post-vero, nel senso che è solo verosimile. A nessuno importa controllare se è falso. In questo senso il post-vero è inattaccabile perché è anche post-falso. Un caso recente mostra come funzionano le cose. La storia inizia a Austin, in Texas, quando Eric Tucker, alle 8 di sera del 9 novembre, mette su Twitter la foto di un autobus e commenta: «Le proteste anti-Trump non sono così spontanee come sembra. Ecco l’arrivo dei partecipanti». In quel momento solo 40 persone seguono i messaggi di Tucker. Sapendo della protesta nella sua città, e trovata una foto su Google, Tucker suppone (in buona fede, dice lui) che l’autobus sia quello usato dai dimostranti (in realtà si tratta di partecipanti a una conferenza). Il giorno dopo, alle 12.49, l’immagine compare sul sito di Trump. In poco tempo la notizia rimbalza 16mila volte su Twitter e 350mila volte su Facebook. La compagnia degli autobus smentisce. Eric Tucker, interpellato dai giornalisti, spiega: «Ero rimasto colpito dall’immagine degli autobus e sapevo delle proteste». Ammette però: «Non ho visto le persone con i miei occhi». Trump commenta: “Molto scorretto. I professionisti della protesta incitati dai media”. A quel punto Tucker toglie la notizia dal suo sito. Troppo tardi. La valanga procede. A mezzanotte Tucker rimette sul sito la foto con la scritta: FALSO. Riceve solo 29 risposte. Nessuno gli bada più. Dopo una settimana i suoi seguaci sono diventati 980 e Tucker, ingenuo, confessa: «Cercherò in futuro di fare affermazioni meglio documentate «. Tucker non conosce le regole con cui funziona l’attenzione, selezionata dall’evoluzione naturale per essere risucchiata da aspettative e schemi già predisposti.

In questa storia si manifesta tutta la nuova potenza della rete, ma ci sono anche tracce d’antico. Gaetano Kanizsa, il fondatore dell’istituto di psicologia di Trieste, nel 1952 presenta a 23 studenti di una scuola di assistenti sociali un test che consiste nel tracciare uno scarabocchio senza mai staccare la matita dal foglio. Si dice che la forma dello scarabocchio permette una diagnosi di personalità. In realtà Kanizsa presenta la stessa descrizione di personalità a tutti i partecipanti. È uguale, ma è fatta bene, in modo apparentemente circostanziato: la maggioranza dei partecipanti vi si ritrova. Paolo Zordan, nel 2000, ripete l’esperimento con 28 studenti del quinto anno di una facoltà di psicologia. Tutti gli studenti, tranne uno, credono che la diagnosi sia aderente, non inventata. Credono perché desiderano credere. E desiderano credere perché vogliono diventare psicologi clinici. Questo meccanismo di auto-inganno, per lo più inconsapevole, oggi riesce a nutrirsi delle miriadi d’informazioni presenti in rete. Una persona sceglie quelle che le danno ragione e può capitarle di innescare gruppi di seguaci.

La quintessenza dell’incapacità di pensiero critico, la totale mancanza di buona logica.

Chiamato in causa, il co-fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, risponde: «Non siamo arbitri della verità!» (come fare con 1.8 miliardi di utilizzatori?).

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6042  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / MAURIZIO MOLINARI Cercando la nuova ricetta per le sfide del Mediterraneo inserito:: Novembre 28, 2016, 08:45:15 pm

Cercando la nuova ricetta per le sfide del Mediterraneo
Pubblicato il 28/11/2016

Maurizio Molinari

Il convergere su Roma di alti rappresentanti di 55 Paesi per affrontare le sfide del Mediterraneo suggerisce la possibilità dell’Italia di trasformarsi in un laboratorio dei drammatici cambiamenti regionali in atto. Se Mosca e Washington, Baghdad e Teheran, Doha e Tunisi individuano nei «Dialoghi del Mediterraneo» che si aprono venerdì un’occasione di incontro ed interazione è perché nel mondo che accelera si percepisce la necessità di affrontare con pragmatismo e responsabilità un’agenda di eventi che sfida le previsioni degli analisti come l’immaginazione collettiva. 

L’orrenda ecatombe di civili in Siria e l’impellenza di debellare lo Stato Islamico del Califfo jihadista Abu Bakr al Baghdadi celano la necessità di scongiurare l’implosione di altri Stati arabo-musulmani così come l’incontenibile marea di migranti, che da Asia ed Africa si riversa sulle coste europee di Italia e Grecia, evidenzia l’urgenza di una innovativa ricetta di sviluppo che accomuni l’intera regione del Mediterraneo. Se la realpolitik diventa un’opzione per affrontare tale temibile orizzonte è perché l’elezione del nuovo presidente degli Stati Uniti, Donald J. Trump, è una scossa che apre la possibilità ad un riassetto di equilibri e responsabilità coinvolgendo Russia, Unione Europea e partner mediterranei. Sebbene la nuova amministrazione Usa si insedierà solo il 20 gennaio, quanto uscirà dai «Dialoghi del Mediterraneo» può gettare le basi per una nuova stagione di realpolitik sul maggiore scenario di crisi ed opportunità del Pianeta.

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6043  Forum Pubblico / ESTERO fino al 18 agosto 2022. / Silvio Pons: “Fidel Castro, un giocatore al tavolo della guerra fredda” inserito:: Novembre 28, 2016, 08:44:04 pm
Interviste

Andrea Romano   @andrearomano9
· 27 novembre 2016

Silvio Pons: “Fidel Castro, un giocatore al tavolo della guerra fredda”
Mondo   

Intervista al direttore della Fondazione Istituto Gramsci e storico del comunismo italiano e internazionale

“L’alone mitologico che circonda la figura di Castro dev’essere dimensionato al suo profilo storico più autentico, nel quale si incrocia la realtà di un ruolo globale effettivamente svolto tra gli anni Sessanta e Settanta insieme all’incapacità di comprendere i cambiamenti che si realizzarono in America Latina e nella comunità internazionale dagli anni Ottanta in avanti”. Con Silvio Pons, presidente della Fondazione Istituto Gramsci e tra i principali studiosi italiani di storia globale del XX secolo, discutiamo di una figura centrale della storia e dell’immaginario del Novecento.

Cosa intendiamo davvero quando parliamo di «castrismo»?
Il castrismo nasce all’incrocio di tre direttrici del tutto diverse. Da una parte il contesto di lungo periodo del nazionalismo latinoamericano di matrice antistatunitense, che precede largamente la presa del potere del 1959 e che è privo di connotazioni marxiste o comuniste. Dall’altra la grande ondata politica e culturale del terzomondismo, ovvero l’idea che il cambiamento principale che seguì la fine della Seconda Guerra Mondiale fosse rappresentato dalla fine del colonialismo declinato in chiave di ideologia antimperialistica. Il terzo contesto è quello della Guerra Fredda, dentro la quale la rivoluzione cubana si trova a muoversi oscillando tra i due magneti del nascente movimento dei non allineati e dell’attrazione verso il polo sovietico.

L’incrocio tra queste tre direttrici produce una evoluzione radicale della rivoluzione cubana, promossa da un gruppo dirigente dove in origine il marxismo era un elemento marginale (rappresentato ad esempio da Guevara) che trasforma in movimento comunista quello che inizialmente era solo un movimento nazionalista.

Tra le principali tappe della vicenda storica della Cuba di Castro la cosiddetta «crisi dei missili» del 1962 ha un posto di primissimo piano.

Sì, perché quella crisi appare ancora oggi un momento fondamentale nella storia della Guerra Fredda. Ricordiamo che Castro si avvicina a Mosca in base a considerazioni di Realpolitik: dopo il tentativo di invasione statunitense del 1961 alla Baia dei Porci, Fidel cercò immediatamente la protezione militare sovietica. E al contempo utilizzò la disponibilità dell’Urss a dislocare batterie missilistiche nucleari per enfatizzare il ruolo di Cuba come perno di una rivoluzione anticoloniale globale e avanguardia della lotta antimperialista contro gli Stati Uniti. Mosca, d’altra parte, vi vide la possibilità di un vantaggio strategico su Washington in anni cui l’Unione Sovietica si trovava in una condizione di grande inferiorità militare e industriale. In quelle settimane Nikita Kruscev giocò una doppia scommessa, rivelatasi poi fallimentare: aprì un braccio di ferro con gli Stati Uniti che avrebbe potuto comportare un conflitto nucleare che lo stesso Kruscev non voleva (avrebbe rotto con Mao Zedong perché convinto che il socialismo non avesse bisogno di una terza guerra mondiale per trionfare, come invece sosteneva il leader comunista cinese) e fu poi costretto a fare marcia indietro, ritirando missili che Castro voleva fortemente nonostante la rigida risposta statunitense. In quei mesi Mosca e l’Avana furono vicini alla rottura, mentre Castro si sentì utilizzato come una pedina nel grande gioco della Guerra Fredda proprio come prima di lui era capitato alla Jugoslavia di Tito subito dopo la Seconda Guerra Mondiale. Alla fine Castro si adeguò alla cautela di Mosca, senza rinunciare a perseguire un suo disegno internazionalistico dapprima in America Latina e poi in Africa.

Possiamo dunque sostenere la Cuba castrista provò a giocare un ruolo globale in proprio dentro la partita più grande della Guerra Fredda?

Certamente sì. Il primo tentativo si realizzò in America Latina, con l’esportazione del modello guevarista di gruppi armati impegnati a far sollevare le masse contadine. Un tentativo dapprima osteggiato dai partiti comunisti locali, fedeli a Mosca, e poi risoltosi in un fallimento generale perché i contadini non ne volevano proprio sapere di seguire i gruppi armati. La scommessa riuscita fu invece quella africana, in particolare in Angola subito dopo la fine della dittatura portoghese nel 1974 e il crollo dell’ultimo impero coloniale europeo. Castro scelse di inviare decine migliaia di soldati in sostegno del movimento guerrigliero marxista MPLA (oggi sappiamo che i sovietici non ne furono informati) e contribuì in modo determinante alla sconfitta delle truppe sudafricane che avevano invaso l’Angola. Andò invece diversamente nel Corno d’Africa nel 1976-1977, dove d’intesa con i sovietici i cubani intervennero per sostenere la sanguinaria dittatura rossa di Menghistu. Negli anni Settanta Castro riesce ad assegnare a Cuba un ruolo globale assai più grande della dimensione reale del suo regime, marcando spesso un’autonomia da Mosca attraverso l’uso politico dell’internazionalismo antimperialista.

Eppure il rapporto con Mosca si incrina proprio quando l’Unione sovietica prova a riformarsi
La perestrojka segna una frattura profonda tra Mosca e Cuba, perché Castro non riesce a leggere i cambiamenti in atto nel mondo e nella stessa Unione sovietica. Per lui Gorbaciov è solo un revisionista che abbandona la fondamentale battaglia internazionalista (l’incontro tra i due leader all’Avana nell’aprile 1989 fu dominato dal gelo), mentre il grande cambiamento democratico in atto in America Latina lo coglie del tutto impreparato. Non è un caso che proprio in quei mesi la repressione del dissenso interno raggiunga un nuovo apice (si ricordi il processo farsa contro il Colonnello Ochoa), proprio come avveniva nei paesi dell’Europa centrorientale più conservatori come la Ddr e la Cecoslovacchia. Castro diventa definitivamente, già allora, il testimone di un’epoca definitivamente conclusa.

Come spiega la tenacia del mito castrista presso alcune parti della sinistra europea?
La forza del mito è legato alla stagione del terzomondismo internazionalista, e dunque all’illusione di un comunismo più movimentista. La sua resistenza, giunta perfino a giustificare l’autoritarismo di Chavez, non tiene però conto dei grandi cambiamenti avvenuti dal 1989 in avanti ovunque in America Latina.

Da - http://www.unita.tv/interviste/fidel-castro-un-giocatore-al-tavolo-della-guerra-fredda/
6044  Forum Pubblico / AUTORI. Altre firme. / ADRIANO SOFRI - Gli eroi non muoiono vecchi inserito:: Novembre 28, 2016, 08:41:53 pm
Opinioni
Adriano Sofri    26 novembre 2016

Gli eroi non muoiono vecchi
Un uomo sopravvissuto a se stesso, che si è tramutato in un monarca con successione dinastica

Bisogna morire giovani per essere amati con tutto il cuore. Come Camilo Cienfuegos, come il Che, che tanto giovane non era più. Fidel si è tenuto alla sua vecchiaia, e anche noi che gli sopravviviamo, e siamo tentati di rinfacciargliela. Quando desiderammo la rivoluzione ci sembrò di dover scegliere fra due modi, uno cinese, maniaco del metodo, e uno cubano, votato all’irregolarità. Teorizzarono ambedue la guerra di guerriglia, ma i cinesi erano glabri come porcellane e i cubani irsuti di barbe.

I rivoluzionari del Terzo mondo oscillarono fra gli uni e gli altri. Il modello cubano era spartito a sua volta fra due immagini: un eroe morto e un padre della patria vivo. Il Che non diventò mai un padre della patria, restò sempre un figlio, il beniamino. Un cubano di adozione, dunque il più cubano dei cubani, tuttavia sempre uno venuto dall’Argentina e incontrato in Messico e andato a farsi ammazzare in Bolivia. La superficie glabra dei ritratti cinesi sembrava confermare il luogo comune dell’impenetrabilità orientale.

Erano barbudos i cubani, nella loro foggia selvatica, in memoria della sierra e la selva. Barba e baffi sono così decisivi per Guevara che li taglia per travestirsi, all’ingresso in Bolivia, e somiglia così a un anonimo viaggiatore di commercio. Si capisce che, anche quanto a capigliature e vestiario, i giovani degli anni ’60 prediligessero i cubani. La rivoluzione, scrisse Sciascia, può fare a meno delle barbe, la contestazione no.

L’Unione Sovietica era fuori causa, esempio di rivoluzione tradita e di imperialismo mascherato di socialismo. I socialismi “non allineati”, ammesso che fossero presi in conto, sapevano di mezze misure e i rivoluzionari detestano le mezze misure. Fu molto amato il Vietnam di Ho Chi Min e di Giap, e i giovani arrivarono anche in Europa a immaginare di partire per battersi al loro fianco, come avevano fatto i (pochi) loro padri in Spagna, ma era una situazione troppo distante e singolare per diventare un modello. Restava la scelta: Cuba o Cina. La Cina aveva rotto con l’Urss, denunciava il rinnegamento del Marxismo-leninismo e i Partiti comunisti legati a Mosca, a cominciare dal Pci. In Europa, i suoi legami si riducevano, oltre che ai tremendi partitini emme-elle rossi e neri, alla Romania di Ceausescu e all’Albania di Enver Hoxha. Una tirannia brutale e grossolana, e un’altra che aveva serrato il suo paese in una galera disseminata di bunker. Cuba appariva libertaria, scanzonata e avventurosa, oltre che avventurista. L’avventura era il cuore del sogno rivoluzionario dei giovani occidentali fra gli anni ’60 e ’70. Si detestavano i ruoli predestinati, era passato poco tempo da una guerra mostruosa ma sembrava già abbastanza per prendersela con una pace ipocrita e una generazione di padri accomodati nella vita sazia. C’era lo scandalo per la fame e l’umiliazione degli ultimi della terra, che sempre deve ferire le nuove generazioni. C’erano altre guerre, tenute a distanza: il Congo, l’Angola, il Mozambico, infamie degli ultimi colonialismi, e l’Indocina prima francese poi americana. L’America era il nemico principale, anche per gli odiatori dell’Urss: cui si imputava anche che non combattesse abbastanza gli Stati Uniti. C’entrava anche la convinzione che con l’America e con le democrazie “borghe – si”in genere la partita fosse aperta, mentre la tirannide sovietica sulla Russia e i satelliti sembrava incrollabile se non dopo che si fosse scosso l’occidente. Insomma: Cuba e Cina. Cioè Mao e Fidel… Anzi no: perché Cuba era stata ed era ancora Fidel o il Che. Una eccentrica reincarnazione della sfida di Stalin e Trotsky. Niente di paragonabile quanto al sangue versato, né quanto alla furia ideologica.

Le guerre per un paragrafo o per una traduzione che decimarono gli apparati bolscevichi non avevano spazio in una dirigenza cubana cresciuta senza vincoli dogmatici e tanto meno marxisti, in cui il comunismo fu un’adesione tarda e condizionata dall’esterno. Rossana Rossanda riferì di aver raccontato lei, con Karol, a Fidel Castro, che Trotsky era stato assassinato su commissione di Stalin, e lui ne fu sbalordito: eppure aveva vissuto al Messico, e Ramón Mercader, l’assassino di Trotsky, visse fra Mosca e Cuba, dove morì nel 1978.

C’è un economista qui? Era stato comunista Raúl, ma fra il Che e Fidel il più marxista caso mai era il primo, mentre il secondo all’origine era un avvocato legalitario e patriota. C’è quell’aneddoto formidabile, sulla riunione dopo la conquista del potere in cui Fidel chiede: «C’è un economista fra voi?», e il Che alza la mano e viene nominato sui due piedi direttore della Banca Centrale di Cuba. All’uscita il Che chiede a Fidel: «Ma come ti è venuto in mente di mettermi a capo della Banca?» e Fidel: «Ho chiesto se c’era un economista», e il Che: «Ma io avevo capito un comunista!». Il Che era la rivoluzione ininterrotta e la sua esportazione internazionale, Fidel il socialismo in un piccolo paese solo e il realismo politico addobbato di retorica. Una divisione dei compiti, o piuttosto una divergenza che ne avrebbe separato i destini e per Guevara sarebbe finita nel mattatoio della Higuera.

Il Che era il romanticismo rivoluzionario (così argentino!) combinato del resto con un militarismo guerrigliero spietato lugubre e anche compiaciuto. Recitano le righe finali del messaggio alla Tricontinental di Algeri, 1967, «Creare due, tre, molti Vietnam: in qualsiasi luogo ci sorprenda la morte, sia essa benvenuta, purché questo nostro grido di guerra giunga a un orecchio sensibile e un’altra mano si tenda per impugnare le nostre armi e altri uomini si apprestino a intonare il canto funebre con il crepitio delle mitragliatrici e nuove grida di guerra e di vittoria». Il Che delle magliette e di un filone letterario e cinematografico di gran successo ha finito per diventare una specie di hippy poetico e sentimentale, che non era affatto.

E se è vero che un vibrar di chitarra si accompagna sempre alla voce dei rivoluzionari cubani e latinoamericani, bisogna affiancargli quel canto funebre e quel crepitio di raffiche, se non si vuole tradirne la verità. Tanto più che, pur nell’eclettismo che caratterizza i cubani, il Che fu il più impegnato nel tentativo di dare una sistemazione alle loro esperienze, dalla teorizzazione del “fuoco” guerrigliero al tentativo di elaborare rapporti economici più indipendenti dagli interessi e dagli incentivi individuali, al tempo in cui dirigeva la Banca di Cuba e ne firmava le banconote… A questa complicazione della figura del Che appartiene anche la più famosa e venerata delle sue espressioni: «Bisogna indurirsi senza perdere la propria tenerezza». L’accento batteva sulla seconda metà: senza perdere la propria tenerezza. Rassicurava chi si vergognasse della tenerezza come di una debolezza piccolo-borghese.

La durezza invece, ci si sarebbe vergognati di metterla in dubbio, così come la capacità di odiare il nemico. Autorizzava qualche sentimentalismo –mitra e social club e barbe lunghe e mal curate, la cifra latina in concorrenza con l’impassibile e liscia ideologia asiatica- ma lo riservava ai propri compagni, da ripagare con l’implacabilità verso il nemico. Il Che diventava dunque colui che si era ricordato della tenerezza. Però la frase andava letta anche a ritroso: Bisogna intenerirsi senza perdere la propria durezza. Quando un ragazzo inerme, con un suo sacchetto di plastica, scherzò a costo della vita coi carri armati della Tiananmen il 5 giugno del 1989, segnò un passaggio d’epoca: e con lui il soldato alla guida del tank che rifiutò di travolgerlo.

Cosa resta – Gli eroi non diventano vecchi. Chi diventa vecchio smette piano piano di essere un eroe, e a volte tradisce del tutto la propria gioventù. Ce ne sono stati, di veri eroi, anche da noi: Carlo Pisacane, per esempio. “Sacrificio senza speranza di premio”. Quanto a Garibaldi, sulla cui filigrana tanta parte del mito del Che Guevara si è modellata, seppe tenersi alla larga dal potere costituito e invecchiare accanto al suo sacco di legumi a Caprera. Fidel è sopravvissuto di molto a se stesso, si è tramutato in un monarca, ha voluto una successione dinastica. I suoi sostenitori irriducibili hanno accettato di giustificargli tutto, in nome di una perenne condizione di necessità: l’accerchia – mento, l’embargo yanqui… Ma le rivoluzioni che finiscono nella coda stretta del partito unico, del potere a vita, dell’intolleranza del dissenso e del sequestro di un popolo dentro le frontiere, rinnegano se stesse.

Quando, a dicembre del 2011, morì il Caro Leader di Pyongyang, Kim Jong Il, il blog di Yoani Sanchez raccontò che a Cuba erano stati indetti tre giorni di lutto e bandiere a mezz’asta, e paragonò il proprio paese a quella grottesca prigione a cielo aperto. Il paragone era troppo duro da sostenere, ma per un momento fu inevitabile giustapporre le formule nordcoreane –il Leader Perpetuo, il Caro Leader, il Leader Supremo- a quella di Castro, che pure voleva suonare di una benignità ironica: il Líder Maximo. Cuba è piccola, ed era proprio questo a segnare un punto per lei nella gara alla leadership rivoluzionaria. Perché la rivoluzione è sempre, al suo inizio, roba di minoranze. C’èuna fierezza speciale nel piccolo David che ogni volta di nuovo affronta Golia. I cubani sono una dozzina di milioni. Erano sì e no sette milioni nel 1956.

Il Granma misurava 18 metri, era progettato per 12 persone, salparono dal Messico in 82, compreso il Che, Raúl Castro e Camilo Cienfuegos: allo sbarco e alla ritirata sulla Sierra sopravvissero solo in dodici. Due anni e mezzo dopo la rivoluzione aveva trionfato. Si capisce che avesse entusiasmato gli animi ribelli di tutto il mondo, e promosso impetuosamente l’idea che tutto fosse possibile, per chi fortemente volesse. “Soggettivi – s m o”, l’avrebbe chiamato il marxismoleninismo ortodosso, “avventurismo. Ho letto da qualche parte: «Un ricciolo strappato al cadavere di Che Guevara da un agente della Cia fu venduto nel 2007 per centomila dollari». Mi auguro che fosse una notizia falsa, o almeno falso il ricciolo. A Cuba i pellegrinaggi politici non sono mai finiti del tutto, ed ebbero sempre anche, a differenza di quelli tetri e reggimentali in altri paradisi comunisti, un versante turistico. C’erano donne, mare, allegria, canzoni, la trasgressione che il regime cubano lascia sopravvivere anche nei momenti più odiosamente repressivi. Più probabilmente è la gente cubana che non viene piegata. È un fatto che Fidel – titolare del raccapricciante record ufficiale di attentati falliti a suo danno: 638 – è stato il meno ortodosso dei capi rivoluzionari. Provate a chiedervi che cosa resti delle leggendarie ore e ore di suoi discorsi, a parte la frase che pronunciò al processo per l’assalto al Moncada nel 1953: «La storia mi assolverà». Del Che gli scritti restano, Fidel è uomo da orali. Restano di lui, a lettere cubitali, degli slogan.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/gli-eroi-non-muoiono-vecchi/
6045  Forum Pubblico / ESTERO fino al 18 agosto 2022. / AA VV “Il rapporto con Putin va cercato a tutti i costi” inserito:: Novembre 28, 2016, 08:40:46 pm
“Il rapporto con Putin va cercato a tutti i costi”
Le reazioni all’intervento del presidente russo sulla Stampa: consensi alla collaborazione contro il terrorismo
Pubblicato il 28/11/2016 - Ultima modifica il 28/11/2016 alle ore 07:19

Raphaël Zanotti, Francesca Schianchi, marco Bresolin, Valeria Robecco

Nel suo intervento su «La Stampa», Vladimir Putin ha voluto presentare una Russia tesa alla collaborazione internazionale contro la minaccia del terrorismo chiedendo al mondo occidentale maggiore fiducia. Ma non ha risparmiato bordate. «In alcuni partner non vediamo l’intenzione di risolvere i problemi internazionali» ha scritto, parlando poi di un necessario superamento di quelle strutture da Guerra Fredda, come la Nato, e dei presunti tentativi di trasformare l’Osce in un ente piegato alla politica estera di qualche Paese. Ha smentito ambizioni di dominio globale: «Non aspiriamo né a questo, né all’espansione, né allo scontro con qualcuno» e ha tagliato corto sull’Europa parlando di «cliché della minaccia». L’Europa ha 300 milioni di abitanti, i Paesi Nato 600, la Russia 146 milioni: «È semplicemente ridicolo parlarne». Per Putin, invece, sarebbe un affare redditizio usare la Russia come spauracchio: «Si possono gonfiare gli stanziamenti bellici dei propri Stati». Ha definito «isteria» l’idea che degli hacker russi abbiano tentato di influenzare la scelta degli americani nelle ultime presidenziali e ha chiesto: «Dove sono i risultati della lotta al terrorismo?» chiedendo maggior collaborazione. 

QUI ITALIA 
Benedetto Della Vedova: «Il rapporto con lui deve essere rinforzato» 

FRANCESCA SCHIANCHI 
Il rapporto tra Ue e Russia va rafforzato. Anche se restano punti di distanza. È la posizione di chi, in Italia, si occupa di esteri e difesa, dopo aver letto l’articolo del presidente russo di ieri.

«Il rapporto con la Russia deve essere ai primi posti dell’agenda internazionale europea», esordisce il sottosegretario agli Esteri, Benedetto Della Vedova. Senza dimenticare però che Putin usa «due pesi e due misure: le esercitazioni Nato nei Paesi baltici sono vendute come atto di ostilità, mentre l’assertivismo russo, dalla Crimea al Donbass, non è mai in discussione». Quindi, «nessuna ostilità preconcetta», ma nemmeno l’atteggiamento «che c’è in Europa, e in Italia da M5S e la Lega, di pensare che un rapporto più solido passi per dare sempre ragione a Putin».

Necessario lavorare a questa relazione anche per il presidente della Commissione esteri al Senato, Pierferdinando Casini: «Al netto della propaganda - che c’è anche nell’articolo di ieri di Putin - non c’è dubbio che il primo problema di Usa e Ue sia rafforzare l’intesa con la Russia». Tenendo a mente gli errori russi - «l’occupazione illegale della Crimea» - e quelli che lui imputa all’Ue: «L’idea dei Paesi baltici di un’Ucraina parte integrante d’Europa è sbagliata: in termini geopolitici, l’Ucraina è un ponte tra Europa e Russia».

 «Quello di Putin nel suo articolo è un punto di vista per molti aspetti non condivisibile - commenta il presidente della Commissione difesa al Senato, Nicola Latorre - ma è vero che non dobbiamo rinunciare a un dialogo: non si può prescindere dalla Russia per stabilizzare il Mediterraneo». Anche se il problema resta la posizione sulla Siria: «Non si può parlare di dialogo e poi agire in modo opposto». Come affrontarlo? «Con un nuovo protagonismo politico-diplomatico di Ue e Usa: altrimenti, Putin continuerà a predicare bene e razzolare male».

 QUI EUROPA 
Ma L’Ue è incerta: «Troppe divisioni» 

MARCO BRESOLIN, INVIATO A BRUXELLES 
«A ottobre la discussione sulla Russia aveva tenuto i leader a discutere in Consiglio fino alle due di notte, ma alla fine erano riusciti a trovare un accordo. A dicembre non so cosa succederà». La battuta di un diplomatico dell’Est Europa - raccolta a Bruxelles - la dice lunga su quanto i 28 siano divisi sull’atteggiamento da tenere nei confronti di Putin.

Un mese fa i capi di Stato e di governo avevano discusso sull’opportunità di «ventilare» l’ipotesi sanzioni a Mosca per i raid in Siria (vinse il fronte del no). Al prossimo Consiglio dovranno decidere se prolungare le sanzioni attualmente in vigore (scadono il prossimo 31 gennaio), legate alla crisi in Ucraina. Le divisioni sembrano essere ancora più accentuate. Lo sa bene Angela Merkel, che pochi giorni fa si è trovata di fatto a smentire la Casa Bianca. Al termine del vertice a Berlino tra Barack Obama e i leader di Italia, Francia, Germania e Spagna, Washington ha fatto filtrare la notizia che l’Ue sarebbe intenzionata a confermare le sanzioni. «Non ne abbiamo parlato» ha invece frenato la Cancelliera, che ben conosce le divisioni. Per i sostenitori del dialogo (oltre all’Italia ci sono Paesi come Ungheria, Slovacchia, Grecia, Cipro, Austria, Spagna e Bulgaria), l’arrivo di Trump alla Casa Bianca è un buon motivo per far valere le loro ragioni. Continuare in questa «sfida» a Putin potrebbe essere controproducente. Ma sul fronte opposto (dai Paesi baltici a quelli del Nord, oltre a Polonia, Regno Unito e Germania) insistono con la linea della fermezza: «Le sanzioni restano legate all’attuazione degli accordi di Minsk», ha detto nei giorni scorsi il presidente del Consiglio Europeo, il polacco Donald Tusk. In tutto questo, a riaccendere il clima, è pure piombata la risoluzione del Parlamento Ue che condanna le «intromissioni» di Mosca in Europa, per le campagne di «disinformazione» e le «sovvenzioni» ad alcuni partiti politici.

QUI STATI UNITI 
Con Trump presidente al via un nuovo corso 

VALERIA ROBECCO 
Con Donald Trump presidente degli Stati Uniti «si assisterà sicuramente ad un nuovo corso dei rapporti con la Russia, su questo non ci sono dubbi»: è perentorio il politologo americano Ian Bremmer, presidente del think-thank Eurasia Group e guru di strategia internazionale. Commentando l’intervento di Vladimir Putin sulle pagine de «La Stampa» Bremmer spiega come sia «vero che i russi sono preoccupati per terrorismo islamico». E Trump «ha sempre detto che vede Putin come qualcuno con cui lavorare». A suo parere «la nuova amministrazione Usa cercherà un modo per cooperare con Mosca sulla lotta all’Isis, portando avanti l’idea che Bashar al Assad non è un problema dell’America». Per il leader del Cremlino il fardello della reciproca sfiducia limita le possibilità di trovare risposte alle sfide odierne, e il politologo è convinto che il messaggio sia indirizzato anche all’Europa: «Vuol dire iniziamo ad essere pragmatici, lavoriamo sull’economia, sul terrorismo, e lasciamo stare dossier come l’Ucraina, che non preoccupa così tanto». Tuttavia il grande cambiamento, per Bremmer, «di sicuro verrà dagli Stati Uniti», anche perché «Trump ha già detto di voler lavorare più strettamente con Putin».

Sulla questione delle presunte interferenze di Mosca nella corsa alla Casa Bianca, definite dal presidente russo un’isteria degli Usa, l’analista è invece convinto che si tratti più che altro di «propaganda di Mosca». «Anche perché - continua - i più alti livelli del governo americano hanno detto che la Russia è dietro gli attacchi hacker, quindi a meno che non si creda che abbiano mentito... si tratta di propaganda». E all’indomani della morte di Fidel Castro, il politologo afferma che un altro aspetto da tenere d’occhio è il dossier cubano: «Sarà interessante vedere se su argomenti come Cuba, o l’Iran, dove la Russia è chiaramente su una sponda opposta, Trump sposerà una prospettiva più pragmatica».

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