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6001  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / Gianni RIOTTA - Le dimissioni di Renzi, la caduta di Roma inserito:: Dicembre 08, 2016, 06:38:18 pm
Le dimissioni di Renzi, la caduta di Roma
Gli italiani hanno bocciato i grandi cambiamenti immaginati da Matteo Renzi ma potranno vivere senza lavoro, crescita e riforme?

Pubblicato il 07/12/2016
Ultima modifica il 07/12/2016 alle ore 18:03
Gianni Riotta

Gli italiani hanno abbandonato il loro quarto primo ministro nel giro di cinque anni, essendosi sbarazzati del magnate della televisione, Silvio Berlusconi nel 2011, del tecnocrate Mario Monti, dell’ex democristiano Enrico Letta e adesso dello sfacciato rottamatore in persona, Matteo Renzi.

In un referendum che doveva decidere il destino di una serie di riforme costituzionale - Renzi cercava di eliminare alcuni dei meccanismi più dubbiosi della politica italiana – gli elettori sono riusciti a infliggere una dura sconfitta mortale all’ex boy scout fiorentino. Renzi, che entrò in carica da infaticabile outsider, promettendo che avrebbe distrutto i vecchi modi di fare a Roma, si è lasciato annegare nella palude.

Solo due anni fa, alle elezioni europee, Renzi ha vinto con il 40% dei voti al suo Pd, quando era al governo da pochi mesi. La dimensione di questa vittoria, insieme all’energia di Renzi sembravano annunciare una nuova epoca di rinnovamento politico a un’Italia fossilizzata e gerontocratica. Il suo grido di battaglia allora era: “Rottamazione!”, eliminare la vecchia classe dirigente. All’epoca, quella classe dirigente sembrava paralizzata, la destra non riusciva a liberarsi di Berlusconi mentre il centro-sinistra non riusciva a trovare un erede all’ex primo ministro Romano Prodi. Renzi, invece, è entrato a Palazzo Chigi con la promessa di far passare una riforma al mese.

E ha fatto dei progressi, almeno all’inizio. Una volta al comando, Renzi ha adottato le prime riforme economiche: ha cercato di ravvivare il mercato del lavoro italiano, bloccato dal 2008, quando scoppiò la crisi economica. Ha dichiarato la guerra contro lo status quo, coinvolgendo una generazione più giovane in politica e costringendo i vecchi cavalli come l’ex primo ministro Massimo D’Alema e l’ex ministro della Cultura Walter Veltroni ad andare in pensione. Persino Berlusconi sembrava sbalordito dalla sua energia, la sua sagacia mediatica e la sua eloquenza, appoggiando per un periodo il suo governo con il cosiddetto «Patto del Nazareno», che prende il suo nome dall’antico vicolo romano dove il patto è stato siglato.

Ma in breve tempo Renzi ha iniziato a perdere il tocco magico. Invece di rimanere concentrato sulle urgenti riforme economiche - non c’è stata crescita nel Paese per una intera generazione, la disoccupazione è ancora alle stelle e il debito ha raggiunto il 133% del Pil, una cifra sconcertante – ha mandato la sua coalizione incerta fatta da Pd e da una variopinta combriccola di berlusconiani sulla strada pericolosa della la riforma costituzionale, un’impresa che forse era destinata a fallire sin dall’inizio.

Renzi aveva ragione: le strutture governative dell’Italia hanno un forte bisogno di essere riformate. Nel 1946, i padri fondatori della repubblica hanno approvato volutamente un sistema scomodo di pesi e contrappesi, per evitare la concentrazione di potere dopo vent’anni di fascismo. Nonostante le loro nobili intenzioni, hanno portato a uno stato attuale nel Paese in cui governare richiede uno sforzo kafkiano. Potenziali leggi si mandano avanti e indietro tra la Camera dei Deputati e il Senato; una proposta di legge deve essere votata almeno due volte dai deputati e dai senatori, a prescindere della sua importanza, finché il testo approvato è identico fino all’ultima virgola.

Grazie a una tattica astuta e una grande dose di fortuna, è riuscito a superare questo caos facendo passare le sue proposte per una riforma costituzionale; grazie anche a un’opposizione di centrodestra indebolita dall’assenza di Berlusconi impegnato a fare servizio civile, scontando una pena per truffa e sottoponendosi a un’operazione a cuore aperto. Il ministro delle riforme Maria Elena Boschi, razionale giovane avvocato, è stata fondamentale in questo impegno, persuadendo la vecchia classe parlamentare a passare le leggi; una leader emergente di cui l’Europa non ha ancora visto la fine.

Ma una volta passate le sue riforme dal Parlamento, l’astuzia tattica è stata seguita da una strategia fallimentare: Renzi non ha creato un fronte unito per la campagna del referendum. Salvo la Boschi, il suo astuto ministro degli esteri, Paolo Gentiloni e il suo sagace portavoce, Filippo Sensi, il premier è rimasto completamente solo nel tentativo di convincere gli italiani a votare per il Sì – e si è apparentemente illuso di essere capace di portare avanti il Paese da solo.

Nonostante ciò, Renzi aveva forse ancora la possibilità di sopravvivere a una sconfitta del referendum. Ma non appena le riforme sono state approvate, il primo ministro ha commesso il peccato capitale della superbia. Il giovane leader, che una volta era stato così magicamente in sintonia con i cittadini, ha fatalmente proclamato al sua decisione di dimettersi se le sue riforme costituzionali non fossero state approvate. Questo era Renzi per antonomasia, un giocatore d’azzardo che scommetteva la sua carriera politica come nessuno ha mai fatto nel continuo gioco delle sedie musicali (un gioco dove la musica suona e appena si spegne tutti i bambini devono sedersi, che non riesce è fuori) che rappresenta Roma. A lui però gli veniva spontaneo.

Da giovane, Renzi ha partecipato al celebre quiz televisivo La Ruota della Fortuna. Un filmato che gira ancora su YouTube mostra il “Campione” – cosi lo chiamava il famoso presentatore Mike Buongiorno – che dopo aver vinto vari giri consecutivi, si faceva fregare da una risposta data con troppa fretta. La sua impazienza lo aveva tradito. Questa settimana, la sua passione per l’azzardo e la sua presunzione gli si sono ritorti contro di nuovo.
Beppe Grillo, fondatore del Movimento populista Cinque Stelle che ha vinto le recenti elezioni comunali a Roma e Torino, è stato il primo a sentire l’odore del sangue. Presto, gli altri squali hanno iniziato a girare intorno. Con Renzi distratto dai suoi sforzi di riforme destinati all’insuccesso, il Pd si è immerso nelle stesse lotte interne che hanno afflitto la sinistra italiana per decadi. Gli ex primi ministri D’Alema e Monti hanno fatto una dura campagna per convincere gli elettori a rifiutare le riforme, violando la fedeltà al partito e al gabinetto, martellando Renzi per la sostanza delle riforme in questione. L’ex segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, si è aggiunto a loro, nonostante avesse votato la nuova legge ben tre volte in due anni di dibattito parlamentare. La Cgil, insieme a studiosi di legge guidati dall’autorevole giudice Gustavo Zagrebelsky, si sono uniti in una coalizione bizzarra, con il partito anti-euro e anti-immigrati della Lega Nord, i neo-fascisti, i Berlusconiani e i Grillini. L’ex presidente Giorgio Napolitano e Prodi hanno cercato di mantenere la calma, appoggiando il Sì, ma senza successo.

Il giorno del voto, La Stampa ha pubblicato una ricerca di Catchy, un gruppo di analisti di big data (di cui io faccio parte). La ricerca ha rivelato, con straordinaria chiarezza, che durante la campagna, il Paese non discuteva le riforme né dibatteva gli aspetti cruciali dell’eliminazione del Senato. Il voto di domenica sarebbe sempre stato, nello stile dei gladiatori romani, un’approvazione o disapprovazione brutale su Matteo Renzi, tanto amato in passato.

Va riconosciuto il fatto che il primo ministro ha lottato con forza, affrontando i suoi tanti nemici da solo. Ma alla fine si è arreso. La scorsa domenica, cercava di trattenere le lacrime mentre ammetteva la sua sconfitta, congratulandosi con i suoi avversari, chiamando la sua base a non mollare e a non disperare ed elogiando le passioni democratiche delle Patria. Poi si è dimesso. Resterà al potere solo nominalmente per passare le leggi di bilancio – per poi lasciare l’ufficio in teoria per sempre.

La decisione di Renzi di fare del referendum una questione personale – invitando i cittadini a usare il loro voto come un mezzo per dare il loro verdetto sul suo governo – è stata alla base della sconfitta. È stato un errore, è vero – ma questa spavalderia è una caratteristica innata della sua personalità. Il suo più grave e fatale errore che non si spiega così facilmente, è stato quello di distogliere lo sguardo dalle riforme economiche, in un momento quando gli elettori erano arrabbiati a causa della corruzione e affamati di lavoro, crescita e facilitazioni. Ha lasciato da parte il ruolo di rottamatore per recitare il ruolo di razionale leader della classe dirigente, cercando in vano di ottenere concessioni dai maestri dell’austerity della Commissione Europea con i visi freddi e inespressivi. Così facendo, ha sottovalutato il fervore populista che si espandeva dal Regno Unito fino agli Stati Uniti, alla Francia e adesso l’Italia.

È da mesi ormai che nei salotti romani si cerca di capire chi sarà il nuovo primo ministro, il quinto in cinque sfortunati anni. Sarà l’autorevole economista Pier Carlo Padoan che potrebbe stabilizzare i mercati? O l’ex procuratore nazionale anti-mafia Pietro Grasso? Oppure l’amato ministro della cultura, Dario Franceschini? Il compito di scegliere sta nelle mani di un discreto professore di diritto diventato presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Un vedovo tranquillo, Mattarella, è entrato in politica solo dopo che la mafia ha ucciso suo fratello, un politico siciliano. Odia essere sotto i riflettori ma adesso dovrà farlo per forza.

Due anni fa, in un articolo che ho pubblicato su Foreign Policy, ho avvertito Renzi di rimanere concentrato perchè il tempo non era dalla sua parte e le sabbie mobili tipiche in Italia, erano ansiose di ingoiarlo. Non posso dire di essere contento di aver avuto ragione. Mentre i populisti, i fascisti, i comunisti e i grillini festeggiano la vittoria del No, il Paese deve affrontare le turbolenze che si avvicinano senza una mano sicura alla guida. Se il nuovo primo ministro riesce a passare a stento una legge elettorale per tenere lontano dal potere Grillo e il Movimento Cinque Stelle, servirà solo a infiammare ancora di più – questa volta giustamente – la loro rabbia latente e la loro indignazione verso il sistema.

Chiunque vinca, non saranno in programma riforme come quelle che Renzi ha tentato di passare. Lo status quo ha vinto. Il 60% degli italiani ha dimostrato che magari adorano prendersela con i politici mentre sono bloccati nel traffico ma non vogliono un vero cambiamento. Renzi potrebbe svanire presto, prendendo il suo posto nel Museo delle Cere di Leader Italiani Falliti – o potrebbe guardare al 40% che lo ha appoggiato nonostante tutto e considerare la possibilità di salire sul carro ancora una volta. Nel frattempo però, dimenticatevi della crescita, dell’occupazione, delle riforme delle banche, della proposta di legge fiscale, della riduzione del debito e di vedere un raggio di speranza in un Paese che ne ha disperatamente bisogno.

Questo è articolo pubblicato su Foreign Policy. La sua versione in italiano è stata tradotta da Merope Ippiotis. 
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Da - http://www.lastampa.it/2016/12/07/italia/politica/le-dimissioni-di-renzi-la-caduta-di-roma-fKBpADYzqnYLMYai8V1PnM/pagina.html
6002  Forum Pubblico / Gli ITALIANI e la SOCIETA' INFESTATA da SFASCISTI, PREDONI e MAFIE. / MATTEO PUCCIARELLI. Il ponte di Pisapia agita le acque a Milano: sinistra divisa inserito:: Dicembre 08, 2016, 06:08:12 pm
Il ponte di Pisapia agita le acque a Milano: sinistra divisa. E anche il Pd
L'ex sindaco si è detto pronto a riunire il popolo che non si riconosce nel Partito Democratico.
La parte di Sel che aveva appoggiato Balzani dice sì, invece Basilio Rizzo: "Il No al referendum era una scelta di campo, non si può far finta di niente"

Di MATTEO PUCCIARELLI
08 dicembre 2016

La proposta lanciata da Giuliano Pisapia su Repubblica di costruire una sinistra comunque vada alleata del Pd, a Milano, si è già realizzata mesi fa, alle scorse amministrative. Con la partecipazione alle primarie di Francesca Balzani prima e con il lancio di SinistraxMilano poi. Nonostante la forte distanza iniziale tra il candidato di Matteo Renzi (l'allora ad di Expo Beppe Sala) e il mondo della sinistra. Oggi lo schema si riproduce, o si prova a riprodurre, su scala nazionale. E chi ha partecipato a SinistraxMilano (che ebbe un risultato non eccezionale alle urne: 3,8 per cento, quando invece si puntava a ben altre cifre) dà un giudizio parzialmente positivo delle parole dell'ex sindaco.

"Penso che sia un appello importante - dice la consigliera regionale di Sel, Chiara Cremonesi - ho creduto moltissimo nella vittoria del No per salvare la Costituzione e aprire un campo politico nuovo. Cosa che sta accadendo. Sta arrivando ossigeno a un quadro politico in asfissia. Il No è stata una bocciatura al Partito della Nazione". Se non fosse che però Pisapia aveva ampiamento fatto capire che avrebbe votato Sì. "Ma Pisapia ha il nostro obiettivo: interrogarci sulla possibilità per un campo progressista ". Unico distinguo, "non penso però si possa stare con il Pd a prescindere, deve esserci una inversione di tendenza rispetto al renzismo ". Per Paolo Limonta (SxM) "il suo discorso è interessante ma avrebbe dovuto parlare direttamente al Pd: il problema non sono solo Alfano e Verdini, ma alcune leggi varate dal governo come il Jobs Act e la Buona scuola. Bisogna interloquire di più con il Paese reale".

L'ex sindaco di Milano: "Lancio Campo Progressista, un'idea per arrivare al governo"
L'uscita di Pisapia arriva in un momento delicato per la sinistra-sinistra, impegnata con Sel nella costruzione di un nuovo partito: Sinistra Italiana. Dove le tendenze sono due, una che punta alla ricostruzione del centrosinistra anche a livello nazionale e un'altra che invece è interessata a costruire un soggetto di sinistra autonomo. Pisapia è schierato nettamente con i primi, che si riuniranno il prossimo 18 dicembre a Roma. Fra i promotori dell'iniziativa (dove "si incontrerà tutta quella parte della sinistra che ritiene che il Partito democratico non possa che essere suo alleato", secondo Pisapia) c'è anche la segretaria di Sel e consigliera comunale Anita Pirovano.

Un vecchio compagno di Pisapia come Basilio Rizzo invece parte con una battuta: "Ma scusate, Pisapia non aveva detto che smetteva con la politica? Allora non poteva continuare a fare il sindaco?". Quella sinistra lì, che poi ha dato vita alla lista Milano in Comune, ha accolto assai negativamente l'intervista dell'avvocato. La battaglia referendaria è stata vista come un punto di non ritorno: "Il No era una scelta di campo forte contro quella che ritenevamo una distorsione della politica e della sinistra. E la composizione del voto del No dovrebbe aver spiegato alcune cose. Come si fa a uscirsene oggi facendo finta di nulla?". Il ragionamento di Rizzo è: come può chi ha votato Sì pensare di riorganizzare la sinistra che ha scelto il No? La 'sua' sinistra ha un altro appuntamento, sempre a Roma, fissato però per l'11. E anche lì ci saranno molti esponenti di Sel che però non vedono di buon occhio un'alleanza a scatola chiusa con il Pd.

Sembra paradossale, ma anche dalle parti della sinistra interna al Pd si leva qualche voce critica. "Se Pisapia deve costruire un soggetto di sinistra che faccia da foglia di fico a Renzi, e che Renzi utilizzi per depotenziare la sua sinistra interna, allora no, non è un percorso che ci interessa. Non serve una specie di Ala (il partitino di Denis Verdini, ndr) di sinistra", commenta Onorio Rosati, ex segretario della Camera del lavoro e consigliere regionale del Pd che ha votato No al referendum. Carlo Monguzzi (Pd) invece scherza: "Ci ho provato 40 anni a riunire la sinistra, se ci riesce lui sono contento".

Certo è che sono in corso rimescolamenti che potranno sortire effetti al momento inimmaginabili. In primavera 2017, ad esempio, la sinistra nel suo insieme si troverà di fronte al referendum proposto dalla Cgil per il ripristino dell'articolo 18. Cioè contro la riforma principe di Renzi, il Jobs Act. Sarà probabilmente un nuovo spartiacque fra ex compagni di strada oggi posizionati su sponde opposte. Per il pontiere Pisapia, quello dei prossimi mesi si preannuncia un lavoro arduo.

© Riproduzione riservata 08 dicembre 2016

Da - http://milano.repubblica.it/cronaca/2016/12/08/news/il_ponte_di_pisapia_agita_le_acque_a_milano_sinistra_divisa_e_anche_il_pd-153686516/?ref=fbpr
6003  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / MARCELLO SORGI. Così nasce il partito di Matteo inserito:: Dicembre 08, 2016, 06:06:29 pm
Così nasce il partito di Matteo

Pubblicato il 08/12/2016
Marcello Sorgi

Il 7 dicembre verrà ricordato, non solo come il giorno delle dimissioni formali del premier e della fine del suo governo, ma anche del battesimo del Partito di Renzi. Un partito nuovo, nato domenica nelle urne del referendum in cui la riforma costituzionale è stata sconfitta, ma oltre tredici milioni di elettori hanno votato «Sì». Un partito che forse non sarà del 40 per cento, il numero magico che ha accompagnato fin qui la carriera del leader del Pd - dalla sconfitta alle primarie del 2012 contro Bersani, alla vittoria alle Europee del 2014, alla crisi di governo, provocata dall’exploit del «No» al 60 per cento -, ma secondo gli studiosi dei flussi elettorali può puntare tranquillamente al consenso di un italiano su quattro, una percentuale ragguardevole, per giocare nella nuova (o vecchia?) stagione che sta per aprirsi del ritorno al proporzionale e alla Repubblica partitocratica. 

Renzi ha detto che i risultati referendari, a suo giudizio, hanno abbattuto la riforma, il Parlamento che l’aveva votata sei volte e il governo che conseguentemente va a casa. 

Ma non lui, che solo temporaneamente si fa da parte per prepararsi alle prossime elezioni, portando il bilancio dei suoi mille giorni, le riforme fatte e non fatte, il miglioramento delle condizioni del Paese, che magari avrebbe voluto più consistente ma considera non trascurabile. Va da sé che Renzi, anche se non lo ha detto esplicitamente, considera irrimediabile la frattura aperta dalla minoranza del suo partito schierandosi con il «No»; e per definire i contorni della sua iniziativa guarda al popolo del «Sì» e alla linea di fondo che ha accompagnato il suo lavoro a Palazzo Chigi, «più diritti e meno tasse»: sarà questo lo slogan con cui si ripresenterà presto davanti agli elettori. Guardando, a sinistra, non ai suoi avversari interni, che sdegnosamente non ha neppure citato, ma al progetto dell’ex sindaco di Milano Pisapia: mirato, tra molte difficoltà, a riunire in Italia le possibili frange di uno schieramento frastagliato, dentro e fuori il Pd, con la sola discriminante di volersi impegnare in una prospettiva riformista, e non nella serie infinita di vendette che animano il partito dalla sua fondazione. L’addio a D’Alema, Bersani, Speranza e agli ex comunisti del «No» non potrà certo essere stabilito nei termini di uno sfratto: ma è ormai consumato, e Renzi, sforzandosi di non mostrare rancore, ha fatto capire che non intende tornare indietro. Del resto, bastava guardare sotto la sede del Nazareno la folla degli iscritti divisa in due schiere che stavano per venire alle mani, per capire che la separazione tra le due anime del Pd, che dev’essere ancora formalizzata al vertice, nella base è già avvenuta.

 

Resta ancora da capire quali saranno le conseguenze della svolta di ieri sulla crisi. Renzi non parteciperà neppure alle consultazioni, al Presidente della Repubblica ha spiegato che è disposto ad appoggiare un nuovo governo, per il tempo breve necessario all’approvazione della nuova legge elettorale, solo se anche gli altri partiti di opposizione saranno disposti a condividerne la responsabilità. In altre parole, pur rispettoso delle prerogative del Capo dello Stato, si dichiara indisponibile a pagare il conto presentato dagli elettori a Bersani nel 2013, dopo che il centrodestra era passato all’opposizione e il peso delle scelte del governo Monti era ricaduto per intero sulle spalle del centrosinistra.

Il Quirinale avvia oggi le consultazioni: ma a parte Berlusconi, che non s’è pronunciato chiaramente, Salvini, Meloni e Grillo hanno già detto che vogliono il voto. Se non ci saranno novità, dunque, a Mattarella non resterà che decidere se mandare in Parlamento un governo del Presidente, tecnico o istituzionale, a cercarsi la maggioranza, oppure, a sorpresa, in assenza di alternative, chiedere a Renzi di fare il bis.

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Da - http://www.lastampa.it/2016/12/08/cultura/opinioni/editoriali/cos-nasce-il-partito-di-matteo-xB6eIiF5SsrPLD4C8mdEtN/pagina.html
6004  Forum Pubblico / I.C.R. Immaginare Conoscere Realizzare. "Le TERRE DI RANGO" e "Le TERRE DI FANGO". / DAVIDE LESSI L’ultima sfida del Veneto: “Dialetto anche a scuola e posti ... inserito:: Dicembre 08, 2016, 06:05:01 pm
L’ultima sfida del Veneto: “Dialetto anche a scuola e posti riservati nel pubblico”
Via libera dalla Regione alla legge sulla minoranza.
Uno dei sindaci promotori: “Più risorse”

Pubblicato il 08/12/2016
DAVIDE LESSI
VENEZIA

Qualcuno già parla di Venexit, facendo il verso all’uscita della Gran Bretagna dall’Europa. Ma nelle intenzioni dei promotori il modello è un altro: il Sud Tirolo e l’autonomia del Trentino Alto Adige. Fatto sta che a Venezia il Consiglio regionale ha votato una proposta di legge per il riconoscimento del popolo veneto come «minoranza nazionale». Una norma votata a maggioranza: 27 favorevoli (Lega, Lista Zaia e tre consiglieri tosiani), 16 contrari e cinque astenuti.

«Miriamo a vedere riconosciuti ai veneti gli stessi diritti assicurati agli altoatesini o ai trentini, ai quali sono garantiti dallo Stato italiano risorse e mezzi per tutelare le minoranze di cultura tedesca, ladina, cimbra», esulta il relatore leghista Riccardo Barbisan. Il provvedimento, che per molti ha forti dubbi di costituzionalità, non riguarda solo il bilinguismo. Oltre alla possibilità del rilascio di un patentino di veneto e all’ipotesi della cartellonistica in due lingue, la legge 116 apre la strada all’insegnamento del dialetto anche a scuola. Altro non sarebbe che l’applicazione della Convenzione quadro europea per la tutela delle minoranze, come i rom. Ma c’è dell’altro: «Mezzi di comunicazione ad hoc come giornali e tv e posti riservati nella pubblica amministrazione», sostiene Loris Palmerini, presidente dell’istituto di lingua veneta ed estensore materiale della proposta di legge votata martedì sera da Palazzo Ferro Fini. Posti negli uffici pubblici in base alla «veneticità», dunque? «Sì, il modello è quello del Sud Tirolo», rivendica Palmerini, che nella relazione allegata alla proposta di legge parla anche di «controllo dei flussi migratori» (sic, ndr). «Il senso è che un prefetto non può fare quello che gli pare – spiega ancora Palmerini - se sta colonizzando un territorio con decine di migranti, i sindaci devono rivendicare i loro diritti di minoranza nazionale discriminata». Sia chiaro: questo provvedimento resta sulla relazione allegata, ma ben inquadra lo spirito in cui nasce. 
 
“Noi paghiamo e non riceviamo nulla” 
Per capire cosa s’agita a Nord-Est vale la pena ascoltare le parole di Riccardo Szumski, sindaco di Santa Lucia, uno dei quattro Comuni (Grantorto, Resana e Segusino gli altri) che hanno formalmente proposto la legge al consiglio regionale. «Guardi, poche balle, la situazione è questa: la mia comunità paga 33 milioni di Irpef e Iva che vanno allo Stato, in cambio non riceviamo niente, o quasi». Sembra di risentire il mantra di Matteo Renzi contro l’Europa. Solo che lo scontro qui è tra Veneto e l’odiata burocrazia romana. Insomma, il bilinguismo sembra c’entrare poco. «Il problema non è insegnare la lingua veneta a scuola, quello è un atto simbolico – spiega ancora il sindaco -. La verità è che siamo in mezzo a due regioni autonome, Friuli e Trentino, e chiediamo anche noi più competenze e potenzialità di sviluppo per il nostro territorio».

 Il sacco del Nord-Est 
«Il tema della ripartizione delle risorse c’è, ma lo strumento della lingua è il modo sbagliato per rivendicarlo». Stefano Allievi, professore di sociologia all’Università di Padova, ne è convinto. «A un veneto l’idea di pagare per i forestali siciliani giustamente non va giù», dice e cita il «Sacco del Nord», libro di Luca Ricolfi sulla giustizia territoriale. «Ma quella della lingua è una pura follia anche perché un solo dialetto scritto non esiste: basta fare un giro in giornata tra Padova e Belluno per capire che le differenze sono enormi». Nessun bisogno di tutelare il veneto, dunque? «Macché, qui è già parlato dalla maggior parte dei cittadini. E non mi sembra siano dei panda, una minoranza in via di estinzione». 
 
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6005  Forum Pubblico / Gli ITALIANI e la SOCIETA' INFESTATA da SFASCISTI, PREDONI e MAFIE. / Manovra, il governo accelera: mercoledì il voto di fiducia al Senato inserito:: Dicembre 08, 2016, 06:02:45 pm
Renzi: governo istituzionale e voto
Manovra, il governo accelera: mercoledì il voto di fiducia al Senato
Ma le opposizioni: «Via le marchette»
Il Pd punta ad archiviare velocemente la legge di Bilancio per consentire a Renzi di «scongelare» le dimissioni.
Lega, FI e M5S: se restano le mance elettorali non votiamo

Di ALESSANDRO SALA


Le indiscrezioni si sono rincorse per tutta la giornata. Alla fine di un martedì convulso per la politica italiana l’ultima ipotesi che è emersa è la seguente.
Secondo quanto apprende il Corriere, Renzi starebbe lavorando all’apertura a un governo di responsabilità nazionale che coinvolga tutti i partiti, che faccia la legge elettorale in breve tempo e porti gli italiani al voto a primavera. Ovviamente le incertezze sono legate ai vari attori in gioco in una partita che è molto complessa anche in relazione ai tempi di realizzazione. Soprattutto nella misura in cui sembra difficile coinvolgere in questo progetto sia la Lega di Salvini che i Cinque Stelle. Mercoledì è prevista l’assemblea del Pd alle 17.30 che si preannuncia piuttosto complicata e che dovrà decidere, tra le varie cose, anche su questo.
Il presidente Mattarella in giornata ha chiesto al premier Renzi di «congelare» per qualche giorno le proprie dimissioni per condurre in porto la manovra economica ed evitare l’esercizio provvisorio di bilancio. E il Pd, nonostante le proteste delle opposizioni, intende portare a termine il compito il più velocemente possibile. Senza riaprire il testo. E ponendo la questione di fiducia. L’obiettivo dell’esecutivo è di arrivare al voto in aula entro mercoledì sera. Le dichiarazioni di voto cominceranno alle 12 e la prima chiama è prevista alle 14,30. La decisione è stata presa dalla Conferenza dei capigruppo di Palazzo Madama che si è conclusa dopo circa un’ora e mezzo di dibattito. Il voto sul calendario è avvenuto a maggioranza e quindi dovrà essere confermato in Aula. Al momento resta convocata per mercoledì pomeriggio anche la direzione nazionale del Pd, che dovrà fare il punto politico sugli effetti della vittoria dei no.

Il blocco delle opposizioni
Ma le opposizioni si mettono di traverso. «Non ci sono le basi per l’approvazione rapida della legge di bilancio al Senato a meno che il governo non elimini immediatamente tutte le marchette pre-elettorali inserite prima del voto di domenica - annunciano i capigruppo della Lega Nord, Massimiliano Fedriga e Gian Marco Centinaio -. Non vogliamo prolungare l’agonia per ripagare gli endorsement ricevuti da Renzi in campagna elettorale». Stessa posizione per il M5S. In mattinata la linea l’aveva data il senatore Vito Crimi: «Se la legge di Bilancio dovesse essere blindata e il governo non dovesse consentire nessuna modifica mettendo la fiducia, prima scongeliamo questo governo e se ne va a casa, meglio è. Scongeliamo il più presto possibile Renzi». Anche i capigruppo di Forza Italia, Paolo Romani e Renato Brunetta, avevano ieri messo le mani avanti condizionando qualunque apertura sulla manovra presuppone «che vengano stralciate tutte quelle parti che riguardano piccoli e grandi finanziamenti di mero sapore elettorale che oggi compongono il testo della legge». «Non si era mai visto - ha commentato Tito di Maggio del gruppo Conservatori e Riformisti - che un governo dimissionario chiedesse la fiducia.».

«Al voto subito» (e chi dice no)
Il via libera alla manovra permetterà a Renzi di rendere effettiva la remissione del proprio mandato nelle mani del Capo dello Stato, decisa dopo il flop del referendum confermativo della riforma costituzionale. E a quel punto si apriranno la procedura istituzionale in capo al Quirinale, ovvero le consultazioni alla ricerca di una possibile soluzione parlamentare, come previsto dalla Costituzione; e i giochi politici nelle segreterie di partito. Il segretario del Pd ha tutto l’interesse ad accelerare il ritorno alle urne, per evitare un logoramento eccessivo ad opera della minoranza interna e per non dare modo agli avversari di organizzarsi. Ma resta il nodo della legge elettorale per il Senato, al momento mancante. In assenza di un testo specifico il rischio è di votare alla Camera con l’Italicum e al Senato con il Consultellum, ossia un proporzionale di risulta fatto dai rimasugli del vecchio Porcellum depurato dalle parti che la Consulta aveva giudicato incostituzionali. Nel centrodestra premono per andare al voto Fratelli d’Italia e Lega, disponibili ad accettare qualunque sistema di voto pur di andare al più presto alle urne. Non ha invece fretta Silvio Berlusconi che vorrebbe più tempo per riorganizzare le fila di Forza Italia e impedire a Salvini di esercitare la leadership della coalizione. Pronto al voto il M5S: il partito di Grillo suggerisce di introdurre una piccola modifica all’Italicum affinché possa essere utilizzato, su base regionale, anche per l’elezione dei senatori. «Prima si vota meglio è. Il Pd che ne pensa? La voce del suo segretario conta ancora qualcosa? Basta chiacchiere e battute. Siate chiari davanti agli italiani. Aspettiamo una rispostai» scrive sul suo blog e su Twitter Beppe Grillo.

6 dicembre 2016 (modifica il 6 dicembre 2016 | 19:47)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da -  http://www.corriere.it/referendum-costituzionale-2016/notizie/manovra-testo-chiuso-scontro-pd-m5s-lega-600add96-bbaa-11e6-a857-3c2e3af6f0b6.shtml
6006  Forum Pubblico / Gli ITALIANI e la SOCIETA' INFESTATA da SFASCISTI, PREDONI e MAFIE. / Alessio Ciampini Il partito ricominci da noi inserito:: Dicembre 08, 2016, 05:40:51 pm
   Opinioni
Alessio Ciampini   @aleciampini
8 dicembre 2016

Il partito ricominci da noi

Il risultato è stato inequivocabile nei numeri, lo è meno nelle valutazioni che stanno dietro a quei numeri

No, io non mi arrendo. Lo dico oggi con la certezza che tante cose dovranno ancora essere dette, scritte e fatte. Lo dico oggi di fronte ad una sconfitta, convinto che le battaglie sono giuste anche se si perdono. Lo dico oggi per rispetto verso tutte quelle persone che si sono mobilitate e hanno fatto questo pezzo di strada insieme a noi e oggi sono preoccupate, arrabbiate, confuse.

Per non arrenderci dobbiamo però anche interrogarci su cosa non ha funzionato. Il risultato è stato inequivocabile nei numeri, lo è meno nelle valutazioni che stanno dietro a quei numeri.

Faccio un passo indietro. Io, con altre persone, ho deciso di intraprendere, ormai molti mesi fa, l’avventura del referendum.

Ci siamo registrati online, ci siamo riuniti, poi abbiamo raccolto le firme nelle strade e nelle piazze della nostra Livorno, abbiamo atteso la data della votazione, ci siamo auto tassati (più di una volta). Poi a settembre abbiamo deciso di affittare per due mesi un fondo (sempre a nostre spese) nel centro della città, con la finalità semplice di creare una sede fisica di incontro e discussione. Lo abbiamo tenuto aperto tutti i giorni tra mille peripezie, il lavoro e le famiglie in primis.

Abbiamo stampato volantini tramite un sito online, organizzato volantinaggi, tenuto una conferenza stampa, fatto alcune iniziative in libreria e teatro. Non sono mancati post Fb, telefonate e tutto il resto.

Provenivamo da diverse esperienze pregresse, ci siamo incamminati nella stessa direzione. Tutto questo di per sé è sufficiente per non arrendersi: dare un senso alla quotidianità che vada oltre se stesso, valorizzare il nostro essere “animali sociali”. Però abbiamo perso ed il come apre ai vari perché. Ci sono letture politologiche e identitarie.

Vengono contrapposti un 60% eterogeneo contro un 40% omogeneo, la conservazione contro il cambiamento, un populismo riformista contro un populismo sovversivo, la mitizzazione della Costituzione come ultimo elemento di identificazione di un popolo contro la ricerca di efficientamento e aggiornamento delle istituzioni, la ricerca di consenso di un leader tramite la personalizzazione contro l’antipatia che questa personalizzazione può produrre. C’è un po’ di verità in tutte queste cose, soprattutto se cerchiamo di capire le ragioni dell’altro.

Come ha fatto il regista Michael Moore quando ci ha messi tutti in guardia sulla possibile vittoria di Trump indicando come chiave di lettura quelle che sono le «ragioni degli altri». Per noi incomprensibili, ma per chi le ha, assolutamente decisive, tanto da fare la differenza tra vittoria e sconfitta. E se è vero che il Sì ha vinto solo tra gli over 55 e a votare No sono stati, oltre ai giovani, il sud ed i disoccupati, penso che le ragioni degli altri vadano indagate.

Certamente di quegli “altri” che hanno ragioni sensate, non quelle dei provocatori o degli urlatori ammantati di semplice odio. Ed io un’idea me la sono fatta. Si chiama povertà ed esclusione sociale, come ci dice il rapporto Istat di ieri. Si chiama disoccupazione, soprattutto tra i giovani e al sud. Si chiama sete di futuro. Perché quando si è in difficoltà e le cose non vanno bene, si è più facilmente preda di pulsioni da scaricare contro il governo di turno, si è più inclini ad un voto politico e meno di contenuto.

Non è un caso che negli ultimi giorni Beppe Grillo abbia fatto appello al voto di pancia. Per cui, la strada è chiara. Il governo Renzi ha fatto molto bene su tante riforme e oggi, nonostante la sconfitta, il Pd si vede consegnata un’agenda precisa per ritrovare l’empatia con il paese che vada oltre i numeri, che comunque non sono così insufficienti per elezioni politiche: continuare sul tema della crescita, agendo con più forza ed incisività su sostegno alla povertà, lotta all’esclusione e rilancio di una seria politica industriale.

Renzi ha l’intelligenza per capirlo e le capacità per farlo, candidandosi alle elezioni per la guida del paese. E così, per inciso, superiamo la storiella del Presidente del Consiglio non eletto dal popolo. Ma dopo questa tornata referendaria, in tanti ci siamo appassionati di nuovo alla nostra Carta, per cui, scompariranno molte storielle da social network.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/il-partito-ricominci-da-noi/
6007  Forum Pubblico / I.C.R. Immaginare Conoscere Realizzare. "Le TERRE DI RANGO" e "Le TERRE DI FANGO". / Il Referendum, del 4 dicembre ci obbliga, ma obbliga soprattutto "il Potere"... inserito:: Dicembre 07, 2016, 11:50:58 am
Il Referendum, del 4 dicembre ci obbliga, ma obbliga soprattutto "il Potere", alla considerazione che gli "Ultimi" non possono seguitare a rimanere tali, ai livelli cui siamo arrivati oggi.

Siamo ad un punto in cui gli Ultimi sono cresciuti, arrivando ad una misura tale e con una estensione nei vari segmenti del sociale, che paralizza la razionale ricerca delle ragioni del convivere.

Il Referendum ha battuto "l'indifferenza"! Adesso tocca al Potere discernere, "rovistando tra l'accozzaglia" dei NO (ironizzo), per non commettere l'errore di dare a quei NO significati nebulosi, annebbiati dalla peggiore tifoseria, o addirittura rendendolo pericoloso strumento nelle mani di incapaci o peggio.

La Democrazia è difficile da vivere ma non dobbiamo farne fare un uso distorto di corto respiro.

La CULTURA deve avere la forza di mettersi alla testa degli Ultimi come motore di Rinascita e Nascita di una società diversa e più giusta. I Piccoli Editori Indipendenti, anche loro tra Ultimi (perché poveri, ma non incapaci) sono l'avanguardia coraggiosa di una Dignità Nazionale, da dissotterrare, da liberare da chi l'ha sepolta, da rilanciare nel Mondo. Ciaooo

Da FB del / dicembre 2016
6008  Forum Pubblico / ECONOMIA e POLITICA, ma con PROGETTI da Realizzare. / Enrico Rossi@rossipresidente. Comunque vada io ci sarò inserito:: Dicembre 05, 2016, 04:59:49 pm
Opinioni

Enrico Rossi   @rossipresidente
· 3 dicembre 2016

Comunque vada io ci sarò

A partire dal 5 dicembre dovremo essere capaci di ricomporci, di ritrovarci come comunità che condivide anzitutto un’idea di società che mette al centro il lavoro, la protezione sociale e la lotta alle disuguaglianze e che costruisce ogni giorno il futuro

Siamo arrivati alla fine di una campagna referendaria non bella, alla vigilia di un voto per cui è doveroso un solenne silenzio. La storia della democrazia italiana è infatti anzitutto storia della partecipazione popolare. Il Partito comunista italiano è stata in questo senso una grande scuola.

Ricordo quando i vecchi di casa mia si alzavano presto per andare al seggio, per evitare che nel corso della giornata qualunque imprevisto potesse impedirlo. Personalmente ho nostalgia di quel sentimento popolare e di quella volontà unitaria che è mancata in questi mesi. Ad ogni modo la sovranità appartiene al popolo, «che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione».

Io, fin da tempi non sospetti, mi sono pronunciato per il Sì sostenendo la necessità storica di un Senato dei territori, di un regionalismo differenziato e del superamento del bicameralismo paritario. Resto anche convinto che buttare via due anni e mezzo di lavoro in un infinito gioco dell’oca sarebbe rischioso per il Paese. Sin dall’inizio ho però sempre testimoniato il mio massimo rispetto anche per i sostenitori del No, invitando più volte Matteo Renzi ad ascoltarne le ragioni, per rendere il Partito davvero una casa comune. Alla vigilia del voto voglio dunque aggiungere solo poche altre riflessioni.

Innanzitutto, qualunque sia l’esito del referendum, penso che Renzi debba continuare ad essere Presidente del Consiglio, senza colpi di testa, fughe in avanti o personalismi, ma restando al servizio della Repubblica con senso di responsabilità e impegno fino alla naturale conclusione del suo mandato.

Qualunque sia il risultato del voto, pur non cambiando la Costituzione nella prima parte fondamentale, il Paese si troverà comunque diviso sulla Carta che dovrebbe unire i cittadini quanto più possibile. Ci sarà quindi da ricostruire e ricucire un senso di appartenenza comune, per evitare che rivendicazioni o interessi di parte facciano pesare il loro impatto negativo. Anche nel PD le lacerazioni si faranno sentire. Il nostro partito e la sinistra ne usciranno comunque feriti, e nostro compito sarà quello di evitare fratture insanabili.

A partire dal 5 dicembre dovremo essere capaci di ricomporci, di ritrovarci come comunità che condivide anzitutto un’idea di società che mette al centro il lavoro, la protezione sociale e la lotta alle disuguaglianze e che costruisce ogni giorno il futuro. Comunque vada, io ci sarò.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/comunque-vada-io-ci-saro/
6009  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / Emanuela Minucci. Lagioia: “Al Salone di Torino verranno anche gli autori ... inserito:: Dicembre 05, 2016, 04:58:11 pm
Lagioia: “Al Salone di Torino verranno anche gli autori degli editori assenti”

Il direttore svela i suoi piani per l’edizione del 2017
Pubblicato il 03/12/2016

Emanuela Minucci

Sulla scrivania bianca, all’ombra di un ficus, qualche foglio di appunti, un’agenda e un computer. Al cospetto di pareti disadorne solo tre libri: Lettere e sogni di James Joyce, Io vedo me stesso di David Lynch e la Trilogia di Holt di Kent Haruf. In questa dozzina di metri quadri al secondo piano di una palazzina del centro di Torino si rifugia quindici ore al giorno Nicola Lagioia. Maglione mélange e jeans neri, si muove fra i corridoi della Fondazione con l’aria sbarazzina dello stagista. Ma quando chiude la porta e comincia a raccontare il Salone del Libro che verrà, il discorso del direttore diventa lucido e affilato, quasi una lectio.

Com’è andato il battesimo del fuoco con gli editori? 
«Sto cercando di incontrarli tutti. Ho visto gli Amici del Salone a Francoforte (da Sellerio, a e/o, a Instar, a Iperborea), sono andato a Milano da Adelphi, Feltrinelli, Baldini&Castoldi, a Firenze da Giunti, ho incontrato Stefano Mauri e i vertici di Einaudi. Il risultato è che tutti gli editori manderanno a Torino i propri autori. L’affetto per il Salone è tale che non solo qui, ma anche a Napoli o a Roma, mi fermano per strada per sapere come va e poi mi danno appuntamento al Lingotto. È un sentimento frastornante: cercheremo di restituirlo alle persone, perché il Salone ha scandito non solo la loro vita culturale, ma in certi casi anche quella affettivo».

A proposito di legami forti, con Einaudi come è finita? 
«Mi è difficile immaginare che l’Einaudi volti le spalle a Torino, e a tutti torinesi che vedono nella casa editrice di Cesare Pavese, Primo Levi, Beppe Fenoglio anche una parte della propria storia. Queste cose contano ancora, nel sistema di valori di tanti lettori. Mi fa invece un enorme piacere che si sia aperto un dialogo molto bello con la Scuola Holden».

Ci parli del programma. È vero che per la prima volta i librai di «Portici di Carta» e i bibliotecari avranno un ruolo cardine nel Salone? 
«Certo, la loro partecipazione sarà significativa e darà un’impronta molto nuova e ambiziosa. Provo a spiegargliela. Consideri la pianta del Lingotto. Lungo i lati costruiremo una libreria divisa in quattro parti che risulterà uno specchio aumentato del programma, gestito da librai, biblioteche civiche e consulenti. La libreria sarà ispirata a tre protagonisti del Novecento che possono farci da guida anche per l’inizio del 21° secolo. Il primo è lo storico dell’arte Aby Warburg, rampollo di una facoltosa famiglia di ebrei tedeschi che a 13 anni cedette al fratello il diritto di primogenitura in cambio della realizzazione di un desiderio: comprare tutti i libri che voleva. Alla sua morte lasciò ad Amburgo una meravigliosa biblioteca (poi trasferita a Londra) divisa in quattro aree tematiche. I libri sono disposti al suo interno secondo la logica del “buon vicinato”, cioè per affinità...».

Diceva che questa libreria proverà a ispirarsi anche ad altri due grandi personaggi. 
«Sì, il secondo è Umberto Eco. Chi non ricorda la biblioteca de Il nome della rosa? In quel caso si trattava di uno spazio chiuso, che a un certo punto crolla sotto la pretesa di essere un luogo per iniziati. Quel crollo è il segno di un cambiamento epocale. Il terzo grande personaggio è Jorge Luis Borges. Fu lui a immaginare La biblioteca di Babele nel celebre racconto di Finzioni. Quant’è vicino (nel bene e nel male) quel modello alla costellazione sterminata della Rete? Ecco, provi ora a formare un acronimo dalle iniziali di Warburg, Eco, Borges: WEB. Saranno loro ad accompagnarci, in modo umano, nella grande rete del 21° secolo».

Volando più basso, ci saranno ancora i dibattiti, gli autori superstar? 
«Certo, ma gli autori che mettono in fila la gente saranno invitati in quanto portatori di contenuti, non solo di autografi. Faremo firmare pure quelli, ma ci interessano le loro idee. Fra le novità ci sarà la possibilità di ospitare da parte di una casa editrice un editore straniero a condizioni di favore. E di questa internazionalità beneficerà anche l’International Book Forum».

Se le diciamo Fiera del Libro di Milano, qual è il suo primo pensiero? 
«Non ho cattivi sentimenti verso di loro. Il dialogo è la mia bussola. Soprattutto di questi tempi, molto meglio costruire ponti che innalzare muri. Sono tra l’altro molto amico di Chiara Valerio, e penso che un salto in fiera lo farò».

Come sarà il Salone by night, quando chiuderà il Lingotto? 
«Porteremo i grandi autori in piazza, organizzeremo reading, concerti, faremo una notte bianca dedicata al libro. Saremo a maggio, farà caldo, sarà una grande festa. Gli autori stranieri che non sono mai stati a Torino, quando ci mettono piede per la prima volta “scemuniscono”: non sono preparati a una città così bella, e quando tornano nei loro paesi sono i migliori ambasciatori all’estero che il possa immaginare».

Ha più parlato con il ministro Franceschini dopo la rottura con Milano? 
«L’ho visto l’altro ieri a Milano, a un convegno organizzato da Laterza. Mi ha detto: “in bocca al lupo”. Gli ho risposto “speriamo che non morda”!». 
 
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Da - http://www.lastampa.it/2016/12/03/cultura/lagioia-al-salone-di-torino-verranno-anche-gli-autori-degli-editori-assenti-JSiJtdG8SuI5v6mMYSjnKN/pagina.html
6010  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / LUCIA ANNUNZIATA - No per ridare voce agli italiani inserito:: Dicembre 05, 2016, 04:56:55 pm
No per ridare voce agli italiani

Pubblicato: 02/12/2016 21:58 CET Aggiornato: 02/12/2016 22:12 CET

COSTITUZIONE
Lucia Annunziata

Nel novembre 2011, in nome della stabilità del paese, viene buttato alle ortiche Silvio Berlusconi, a favore di Mario Monti, senza elezioni. Nell'aprile 2013 si va alle elezioni e Mario Monti non supera l'esame elettorale, senza che però l'incarico di premier vada a nessuno dei due quasi vincitori, né a Bersani né a Grillo. Entra invece Enrico Letta, che non è il campione uscito dalle urne, ma appare più adatto degli altri due ad assicurare la stabilità. La stabilità però è una Musa Inquieta e nel febbraio 2014 butta alle ortiche anche Letta. Entra Matteo Renzi, un politico che al voto parlamentare nazionale non si è mai sottoposto, che passa direttamente da sindaco di Firenze a presidente del Consiglio. In 5 anni 4 premier, di cui 3 mai votati. Cifra da Prima Repubblica.

Se era Stabilità che volevamo abbiamo in realtà prodotto il suo contrario.

Né meglio è andata negli stessi anni in paesi ben più strutturati del nostro. La stabilità invocata, richiesta, organizzata dalle classi dirigenti dell'Occidente come risposta alla crisi montante delle democrazie non ha avuto nessun successo. Lo tsunami di una gigantesca disaffezione e rivolta che attraversa l'Europa, la Brexit Inglese e la vittoria di Trump ne sono la prova inconfutabile. Eppure nessun paese, nessun leader, nessuna classe dirigente ne ha preso finora atto. Men che meno l'Italia.

Al referendum sulla riforma Costituzionale voterò No.

Per spiegare le ragioni di questo No evito di proposito di entrare nel merito delle questioni costituzionali, perché questo voto è innanzitutto un passaggio politico, e non solo italiano. E io sono contraria alle soluzioni che ci vengono proposte. Deboli perché inefficaci.

Alla crisi fra classi dirigenti e cittadini, che serpeggia da anni nelle nostre democrazie, la ricetta che i governi propongono è quella di tentare di limitare le aree dello scontento, di stringere un cordone intorno al dissenso, usando il peso delle relazioni di classe, il peso degli interessi economici, la forza delle strutture pubbliche e, infine, a volte, anche la limitazione del ricorso al voto o, quando è il caso, al referendum, come in Inghilterra e, prima, in Grecia. Nel nome di una bandiera: la stabilità innanzitutto.

Finora la esperienza ci ha detto che questa soluzione non funziona. Eppure, ora che tocca al nostro paese, l'Italia in maniera ostinata e per me sorprendente si è incamminata sulla stessa strada: al No è stato attribuito il solito valore distruttivo, al Sì la funzione positiva, della continuità e della forza istituzionale. In questo senso, come ormai anche chi sostiene il Sì ammette, il referendum è un passaggio squisitamente politico - a dispetto di tutte le discussioni sul contenuto della riforma costituzionale, su cui appunto è quasi inutile a questo punto entrare - il risultato delle urne sarà un giudizio a favore o contro il governo. Una "deviazione" dell'istituto referendario su cui non si può essere d'accordo. Ma che era quasi inevitabile, vista la nostra storia recente.

Nella battaglia contro il "populismo" l'Italia ha, come ricordavo all'inizio, una storia ormai di qualche anno. Dalla caduta di Berlusconi, la classe dirigente del nostro paese ha giocato con il fuoco delle crisi risolte sul filo della soluzioni non istituzionali. Il voto popolare, e la scelta dei premier, come dicevo, sono dal 2011 fuori dalle mani dei cittadini. Questa gestione delle istituzioni non solo ha però aumentato il risentimento popolare contro la politica, ha anche indebolito tutti i premier. Incluso il più forte, il più abile, e spregiudicato dei suoi predecessori, Matteo Renzi, che per arrivare a Palazzo Chigi ha accettato comunque il compromesso di arrivarci senza voto popolare.

All'inizio si è probabilmente illuso che quell'entrata fatta per vie brevi sarebbe stata dimenticata presto a fronte dei suoi successi; e invece, a riprova che le istituzioni contano, la mancanza di elezione popolare ha viceversa intaccato i suoi successi. Quel condizionamento iniziale ha pesato sulle condizioni generali del suo governo: Renzi si è trovato a lavorare con un Parlamento e un potere centrale non scelti insieme a lui, e di conseguenza ha fatto in una maniera esponenziale scelte sempre più irregolari. Ha fatto ricorso a maggioranze occasionali, costruite di volta in volta. Ha dovuto forzare e personalizzare quasi tutti gli appuntamenti più tradizionali, dalle molte fiducie alle scadenze elettorali, dal Jobs Act alle elezioni europee o amministrative, ogni appuntamento ribaltato in un referendum sulla sua persona e sulla forza del suo governo, fino all'ultimo referendum in cui con lui si gioca la testa anche l'Italia.

La debolezza del mancato passaggio elettorale si è riversata infine sulla riforma Costituzionale che giudicheremo. I dubbi di chi dice No oggi in Italia sono fondati nella dinamica delle cose: davvero un lavoro così rilevante come la riscrittura di parte rilevante della nostra Carta può essere fatta nelle condizioni che conosciamo, con maggioranze variabili, forzature, trattative di scambio, in un Parlamento in cui i partiti si sono sgretolati e il cambiamento di casacca è stato sfacciato? Di sicuro si può dire che far fare una riforma Costituzionale a un premier eletto avrebbe assicurato un percorso di scrittura della riforma più trasparente, più corretto, e sicuramente più solido. Evitando il sospetto che essa serva solo a rafforzare qui ed ora il futuro elettorale dello stesso premier.

In altre parole, viviamo da cinque anni in un profondo squilibrio istituzionale, ma invece di affrontarlo, si preferisce, oggi soprattutto per volontà del premier, andare avanti con successive forzature. Nella convinzione, o la speranza, che le prove di forza prima o poi possano piegare lo scontento dei cittadini, o il dissenso.

La formula di questi anni, appunto. Al fianco del Premier infatti è tornata a scendere la classe dirigente di sempre sollevando la paura di sempre - l'instabilità. Juncker e Schaeuble, due che amano Renzi come i bambini le vaccinazioni e che comunque lo difendono, i grandi giornali finanziari, Financial Times e Wall Street Journal, e se una voce sola, l'Economist, dissente si grida al complotto delle forze oscure europee. Quella stessa Europa che però ha aperto una nuova linea di credito all'Italia pur di aiutare il governo. Arrivano, poi, insieme ai mercati, i manager - con Marchionne il 95 per cento dei manager del nostro paese. Per finire con Romano Prodi, che per non mancare all'appello dell'Europa infine si schiera con un premier che pure critica. A proposito di Casta ed Elite, intorno a Matteo Renzi non manca nessuno. È uno schieramento imponente che probabilmente regalerà al Sì la vittoria. Ma aiuterà il paese a fare un passo avanti davvero, come si promette?

La vittoria del Sì darà sicuramente un premier più forte, ma non un paese più solido. Non solo perché la battaglia prima delle urne è stata lacerante, ma soprattutto perché una vittoria ottenuta sulla paura e sulle forzature, come si diceva, aggrava la distanza fra classi dirigenti ed elettori. La vittoria del Sì assicurerà dunque un Renzi più forte, ma non una maggiore stabilità. È questo il "meraviglioso" paradosso che spiega come mai la formula non abbia finora funzionato, in nessun paese dove è stata applicata.

C'è bisogno invece di fermare questa deriva, risettare le priorità e riportare l'Italia a una discussione seria, partecipata, e comunemente accettata, sul suo futuro.

C'è bisogno di un segnale che, accendendosi, indichi che un limite non può essere superato. Questo segnale è solo il No.

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/voto-no-per-ridare-voce-agli-italiani_b_13378350.html?1480712356&utm_hp_ref=italy
6011  Forum Pubblico / Gli ITALIANI e la SOCIETA' INFESTATA da SFASCISTI, PREDONI e MAFIE. / Sergio Staino intervista Michele Serra: ... inserito:: Dicembre 05, 2016, 04:54:47 pm
Interviste

Sergio Staino    @SergioStaino
· 3 dicembre 2016

“Se vince il No non so come andrà avanti il Paese”. Parla Michele Serra
Sergio Staino intervista Michele Serra: “Impensabile che questo esecutivo cada per la riforma del Senato”

Michelino, ti ricordi quando eravamo bambini e aspettavamo il giorno di Natale e quel 25 dicembre non arrivava mai mai? Ecco, questo 4 dicembre mi ha fatto lo stesso effetto?

«Sì, anche io ho avuto la tua stessa sensazione. La differenza è che quando arrivava Natale eravamo sicuri che saremmo stati molto contenti. Con il 4 dicembre manco questo. Non è che ci si arriva col sorriso. Almeno io…»

Come ci arrivi, Michele? Con la smorfia?
«Ci si arriva molto stanchi perché è stata una campagna elettorale interminabile. E poi con un po’ di amarezza: il clima non è amichevole, non è neanche un clima di discussione politica vera, è un clima molto segnato da un isterismo diffuso. Prima ci si incazzava per passioni grandi, adesso in assenza di passioni grandi si potrebbe evitare di essere ostili. Le passioncine tutto sommato modeste di un referendum sui meccanismi istituzionali si sarebbero potute affrontare in un modo più leggero, anche con qualche sorriso».

Ma questa mancanza di un sorriso caratterizza un po’ il nostro tempo, il tempo dei populismi. Noi, nel ’68, eravamo arrabbiati, volevamo la rivoluzione, volevamo spazzar via i borghesi, ma allo stesso tempo sapevamo ridere. La grande satira contemporanea nasce lì. Adesso, invece, abbiamo una incazzatura triste, rancorosa, che non sa ridere

«È vero c’è una grande prevalenza della tristezza. C’è un malumore che riesco a capire e poi c’è un malumore che, invece, mi sfugge. Hai presente la differenza tra il freddo vero e quello percepito? Ecco, mi sembra la stessa cosa. È vero, non è un periodo facile: si vedono ragioni di disagio sociale e disagio economico. Se dovessi giudicare il clima dai talk show televisivi c’è una buriana spaventosa. Io trovo ci sia una forbice tra il disagio reale e quello percepito, quasi che il disagio sia diventato una sorta di vezzo, una moda. E a me le mode non sono mai piaciute tanto».


Ora va molto di moda l’insulto via web. . .
«Sì, ci sono stati casi di giustizia sommaria da entrambe le parti. Il voto per il Sì, in particolare, è stato penalizzato subito dal sospetto di opportunismo politico. Una cosa veramente ridicola. Ma che convenienza volete che abbia Benigni a votare Sì al superamento del bicameralismo perfetto? Come si può pensare che esistano ragioni di opportunismo, di vantaggi per il fatto che, tutto sommato e senza neanche entusiasmo, appoggi la riforma? Io voto Sì ma non mi sono neanche sognato di pensare che chi vota No è pagato dai servizi segreti russi, nemmeno Grillo. Penso che avrà le sue ragioni. Detto questo penso che ci sia una zavorra, un malumore per principio, un po’patologi co. Sergio, rispetto ai nostri anni: c’erano bombe, ammazzamenti, c’era una violenza fisica che non rimpiango. Invece qui c’è una sorta di mediocre diffidenza, sospetto. E ho molta paura di questo sospetto. Mi sembra meschino».

Meschino e pericoloso. La vignetta di Altan l’hai vista?
“Testa o pancia. Turarsi il naso o tapparsi il culo? ”.

Tu cosa scegli?
«Vignetta meravigliosa. In un certo senso ci toccheranno tutti e due. Che poi alla fine quello che rimane sul campo è la frase di Obama “Il sole sorge” e anche che ci sveglieremo nello stesso paese».

Chi ha testa ha scelto di turarsi il naso, come Prodi, penso.
«Turarsi il naso è meno doloroso, è leggermente più ipocrita, ma è meno doloroso. Mentre andare allegramente allo sbaraglio mi pare peggiore come opzione. Dopo di che un giorno o l’altro mi piacerebbe trovarmi a votare entusiasticamente per il meglio. Si vede che questa è l’epoca del meno peggio, dell’adeguarsi; ci sono periodi della storia in cui ci si accorge che bisogna mettere a posto la cantina. Con gli anni che passano cambia lo spirito, diventi più saggio, forse più moderato. Penso di essere ancora in grado di distinguere una causa eroica. Quando la vedrò sarò entusiasta di battermi per quella. Nel frattempo non trovo così disgustoso battermi per piccole cause. Un referendum sui meccanismi istituzionali di un paese non può essere una questione così deflagrante, così clamorosa. Io capisco che i costituzionalisti si acciglino, ma è una cosa più tecnica che politica. I cambiamenti di un Paese avvengono su base economica, sociale, non se la seconda Camera rappresenta o no le Regioni. Il modo in cui si vive nel Paese, ci si parla, ci si confronta è molto più importante. La politica è quella, la Polis è quella. Ci si sta scannando ma a me la legge Cirinnà ha dato molta più emozione, i diritti, l’inclusione sociale. Questa roba qui è un’enorme provocazione per votare pro o contro il governo Renzi».
Per un regolamento di conti.
«Io sono sicuro al 100 per cento che vincerà il No. Quando giochi 4 giocatori contro 25 è difficile vincere. Dopo di che voglio vedere cosa succede, come si arriverà a mandare avanti il Paese. Cosa si diranno? Speriamo che finisca 49 a 51».

In quel caso politicamente vincerebbe Renzi. Senti, tu dopo la caduta del Muro di Berlino andavi a Montecchio canticchiando “C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones”. Domani cosa fischietterai mentre vai alla cabina?

«La caduta del Muro di Berlino era la storia, questa non mi sembra la storia e quindi non canterò nulla».

Vai triste?
«Sergio, sì. Un po’ malinconico. Me lo sarei evitato volentieri. Ci fosse stata un po’di compostezza da parte di tutti sarebbe stato meglio. Purtroppo non c’è stata. Un governo che cade sulla legge Cirinnà o sulla legge sul lavoro, beh, uno se ne fa una ragione. Dovesse cadere il governo perché non passa la riforma del Senato o la soppressione del Cnel, mamma mia, mi sembrerebbe sproporzionato l’impatto di una cosa del genere».

Comunque io ti tiro su: io sono sicuro che vince il Sì, me lo sento nel profondo.

«Spero che tu abbia ragione. Ma tu ci prendi?»
Mai azzeccato. Ma per una volta la statistica mi dovrà dar ragione.

«Se per caso avessi ragione e vincesse il Sì dovresti dire al Segretario del tuo partito di gestire la vittoria con molta temperanza e di parlare con gli altri, di parlare e di capire».

E se non riesco a parlarci, chi mandiamo come ambasciatori? Cuperlo o Pisapia?
«Mi pare una buona accoppiata di una sinistra Attack, di gente che attacchi i cocci del partito con l’Attack».

Da - http://www.unita.tv/interviste/serra-se-vince-il-no-non-so-come-andra-avanti-il-paese/
6012  Forum Pubblico / Gli ITALIANI e la SOCIETA' INFESTATA da SFASCISTI, PREDONI e MAFIE. / Walter VELTRONI. - Le riforme necessarie inserito:: Dicembre 05, 2016, 04:51:05 pm
Opinioni
Walter Veltroni   @veltroniwalter

· 4 dicembre 2016

Le riforme necessarie
Questa campagna è stata segnata da distorsioni della realtà che sono il vero obiettivo della cosiddetta “semplificazione”


Io spero che molti cittadini vadano a votare. Da quando sto al mondo sono sempre andato alle urne, non ho mai accettato inviti all’astensione, neanche in occasione del referendum sulle trivelle. Votare è bello. E, in queste settimane, la politica è tornata nelle discussioni delle famiglie, ci si è fermati a riflettere sul proprio paese, sul nostro futuro collettivo. Ma, nonostante questo, è stata la più brutta campagna elettorale che io ricordi. I toni, la violenza delle parole, la rimozione del contenuto oggetto del referendum, tutto ha finito col trasformare questa consultazione in qualcosa di diverso dal suo merito. Si voterà su altro: sul governo, sulla politica europea, sui migranti. Su ogni cosa possibile, meno che sul merito. Ma, al di là di questo, mi ha molto colpito, come ha ben notato Michele Serra, il tono delle parole, il senso di odio e di contrapposizione che trasudava da esse, fino all’accusa preventiva di brogli. «Ciò che oggi provoca angoscia è lo sfarinamento del tessuto del Paese, la fatica di immaginare un futuro e la delegittimazione violenta di chiunque non sia o non la pensi come noi. È tale la canea che le persone più ragionanti, pacate e positive sono ormai tentate di chiudersi nel privato, di non impegnarsi in nulla che sia pubblico e sperare che passi la bufera. È tempo per gladiatori e si fatica ad immaginare schiarite all’orizzonte», così ha giustamente descritto questi mesi il direttore di Repubblica Mario Calabresi. Ho sentito manipolazioni della realtà di ogni specie. E, attenzione, la manipolazione sta diventando un virus terribile e maledetto delle società contemporanee. Trump ha sconfitto la Clinton accusandola di essere l’espressione del potere finanziario. Si guardi il governo che sta componendo: militari e banchieri. Il populismo sembra immune alla verità e tutto ad esso sembra consentito, anche il contraddirsi in modo pacchiano, tradendo tutti gli impegni presi. Questa campagna è stata segnata da distorsioni della realtà che sono il vero obiettivo della cosiddetta “semplificazione”. Tra queste segnalo, ad esempio, il mettere sullo stesso piano la riforma approvata dal centro destra e quella che, per tre volte, il centrosinistra unito ha varato in questa legislatura.

In quella di Berlusconi, solo per fare un esempio, era previsto che il premier potesse sciogliere le camere e nominare e revocare i ministri, prerogative del capo dello stato che restano inviolate dalla legge oggi al giudizio degli italiani. E, l’ho scritto domenica scorsa, per indicare una contraddizione dei sostenitori del sì, si è cercato di far credere che fosse riferito al superamento del bicameralismo un giudizio durissimo che tutti noi demmo invece quando Berlusconi, nel 2009, disse che la Costituzione era filocomunista, si propose di limitare l’autonomia dei giudici, voleva avviare il presidenzialismo, ciò che peraltro ha ribadito di voler fare oggi. La campagna è stata fatta tutta così, allucinante. O, come ha detto giustamente Napolitano, «aberrante». La realtà è che, per me, questa riforma non è né la panacea di tutti i mali, come non Renzi ma qualche pasdaran del sì ha sostenuto, né, certamente, la deriva autoritaria ventilata, in modo poco responsabile, da certi sostenitori del no. L’autoritarismo vero lo vediamo alle porte dell’Europa dove, nel silenzio di tutti, accade che chi si oppone al governo venga sistematicamente sbattuto in galera. Cerco di ragionare, in questo clima da rissa da saloon: il superamento del bicameralismo perfetto, la riduzione del numero dei parlamentari, la certezza dei tempi per l’approvazione delle leggi, la revisione del titolo V sono misure che, seppure in modo non sempre organico, vanno nella direzione che, almeno la sinistra, auspica da tempo e anche per questo io mi auguro vinca il sì. E credo sia la stessa ragione che ha mosso la analoga scelta di Romano Prodi. Vorrei ricordare che le tesi dell’Ulivo del 1996 erano ben più radicali: «Nessun cambiamento della forma di governo può assicurare davvero coerenza ed efficacia all’azione governativa, se non si organizza adeguatamente la struttura stessa del governo, oggi caratterizzata da segmentazione (i vari ministeri come “repubbliche” autonome), e da debolezza della guida centrale. Il nostro programma istituzionale si incentra sul rafforzamento della figura del Primo ministro al quale devono essere riconosciuti espressamente : – il potere di scegliere i ministri e di proporne al Capo dello Stato la revoca in caso di dissenso rispetto all’indirizzo governativo; – il potere di dirigere e coordinare effettivamente la politica generale del governo, essendo pienamente informato dell’attività dei singoli ministri, potendo sospendere i loro atti e devolvere la decisione al consiglio dei ministri; guidando direttamente l’azione delle rappresentanze italiane presso le istituzioni europee; disponendo di un’unica struttura tecnica centrale deputata all’elaborazione di tutti i progetti di legge governativi, degli emendamenti governativi ai progetti di legge in discussione al parlamento, dei regolamenti governativi; – il potere di condizionare l’organizzazione dei lavori delle camere per assicurare la tempestiva discussione delle proposte governative; – il potere di opporre un veto alle iniziative ed agli emendamenti parlamentari tendenti ad accrescere la spesa, sia in sede di discussione delle leggi di bilancio e finanziarie, sia in sede di discussione delle leggi di spesa. Deve essere ridotto il numero dei ministri che partecipano al consiglio dei ministri senza escludere l’introduzione di figure di ministri “juniores” con compiti delimitati, che non partecipano al consiglio. Va abolita la necessità di organizzare le funzioni governative e amministrative centrali attraverso ministeri, rendendo possibile la creazione di strutture di governo flessibili e di strutture amministrative poste sotto la guida di dirigenti professionali scelti dal governo e resi responsabili dell’impiego delle risorse e dei risultati della loro azione.»

E quelle della coalizione dell’Unione nel 2006, che , come ricordiamo, teneva insieme Mastella e Rifondazione: «Oltre al sistema elettorale, per assicurare una connessione tra rappresentanza e governabilità riteniamo indispensabili alcune misure che rafforzino il Parlamento e rendano, al contempo più efficace l’azione di governo: – l’attribuzione al Primo Ministro del potere di proporre al Presidente della Repubblica la nomina e revoca di ministri, viceministri e sottosegretari; – una migliore regolamentazione della questione di fiducia, con la previsione di specifici limiti al suo esercizio; – la possibilità di sfiduciare il Primo Ministro solo attraverso una mozione di sfiducia costruttiva, con l’esplicita indicazione di un candidato successore». In tutti e due i documenti era molto presente l’idea di una democrazia fatta del rafforzamento simmetrico del potere di decisione del governo e di quello di controllo del parlamento. E questa è, per me, la strada maestra. Un parlamento che eserciti in forma severa e cogente la funzione di “cane da guardia” dell’esecutivo e un governo che sia messo in condizione di attuare il programma per il quale è stato scelto dagli elettori. La riforma oggi al giudizio degli elettori fa dei passi in avanti in questa direzione.

La democrazia moderna, per resistere alla tempesta in corso deve, sottolineo deve, scegliere un più potente sistema di check and balance tra governo e controllo, il contrario di quel consociativismo, il cui asse era le debolezza reciproca, che tanto ha pesato nel passato. E deve farlo presto perché la tendenza delle società moderne e delle loro emotive opinioni pubbliche è oggi quella di considerare la democrazia con i suoi due pilastri portanti la processualità delle decisioni e la delega- un fastidioso orpello. Il moderno populismo tende a rimuovere tutte le forme di mediazione organizzata della società per stabilire un rapporto unico, quello tra i consumatori di informazione, spesso alimentata dalle balle della post verità, e un leader solitario e magari non scelto da nessuno. Il leader e un click, in mezzo il nulla. Chi ama la democrazia, e non a parole, sa che oggi bisogna fare un passo in avanti nella sua capacità di decidere e di farlo in modo veloce e trasparente. Chi ama la democrazia sa che il volere del popolo non è un pollice su o giù, come al Colosseo, ma che esso deve esprimersi in una nuova rete di democrazia di comunità che responsabilizzi e coinvolga nella complessità i cittadini. Altro che disintermediazione, qui ci vuole una democrazia dal basso fortissima e diffusa.

Chi ama la democrazia sa che il pluralismo vero e la qualità culturale dell’informazione sono presidi della libertà. Chi ama la democrazia sa che, quale che sia l’esito, bisognerà aggredire la drammatica questione sociale, della quale, sono certo, vedremo il segno nei comportamenti degli elettori. Credo anche che si debba mettere mano alla riforma dell’Italicum, e che si sarebbe dovuto tradurre per tempo in articolato di legge l’accordo maturato nel Pd, e penso che , con la sconfitta del sì, si aprirebbe, con la crisi di uno dei pochi governi a guida progressista rimasti, una prospettiva di instabilità politica che è il contrario di quello che la durezza della situazione sociale del paese richiederebbe. Oggi si vota anche in Austria e non resta che sperare che l’onda nera del populismo di destra non prevalga anche lì compromettendo seriamente la stessa unità europea. Quel populismo che non si vezzeggia, non si rincorre, non si imita, ma si combatte con una battaglia culturale a viso aperto e con una forte capacità di innovazione. Ho visto altri referendum nella mia vita. Scontri duri, che chiama vano in causa cose profonde, come nel caso dell’aborto, del divorzio, dell’ergastolo. Come che sia, da domani il paese scoprirà di essere diviso, quasi a metà. Nessuno, se ha testa sulle spalle, potrà prescindere da questo. Chiunque, se ha a cuore il paese, dovrà lavorare per unire. Non ci dovranno essere né scalpi da esibire né gente da cacciare. È il tempo dell’inclusione, in ogni caso. Oggi si vota, è una buona giornata per la democrazia. Votate e, in ogni caso, fatelo non con il fegato, ma con il cervello e con il cuore.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/le-riforme-necessarie-referendum-4-dicembre-veltroni/
6013  Forum Pubblico / "ggiannig" la FUTURA EDITORIA, il BLOG. I SEMI, I FIORI e L'ULIVASTRO di Arlecchino. / Arlecchino. Da FB ... inserito:: Dicembre 05, 2016, 04:44:37 pm
FB 5/12/2016

Le redini sono nelle mani dell'economia mondiali e nella finanza. E' quella che si deve cambiare.
Sulla posizione mia vi manderò il pezzo che ho messo ne LAU a firma Arlecchino

Renzi ha sbagliato nel fare un referendum su una modifica costituzionale fatta male
se avesse eliminato il senato e spezzettato il resto con singole domande avrebbe vinto

ciaooo
6014  Forum Pubblico / "ggiannig" la FUTURA EDITORIA, il BLOG. I SEMI, I FIORI e L'ULIVASTRO di Arlecchino. / Arlecchino. Da FB - Errori ce ne sono stati, in un paese di "tifosi" della ... inserito:: Dicembre 05, 2016, 04:42:05 pm

Errori ce ne sono stati, in un paese di "tifosi" della "pancia" ci si doveva muovere diversamente.
Ma il dato è quello che ho scritto più sopra nessuno ha il 40% dei consensi, Renzi si.
Corretto e insolito il dimettersi dal governo ma anche intelligente come mossa politica. Ciaooo

Da FB del 5/12 post di Anna Tognoli.

Consegni le dimissioni o la patata bollente? Con il 40% di consensi ottenuti, avendo contro tutti anche i sinistri della Sinistra, non si lasciano le cose a meno della metà.
Etico ma soprattutto intelligente dimetterti dal governo (non da segretario del PD) ma il campo lo devi ricomporre tu, anche con nuovi giocatori.
Il CentroSinistra non è la Sinistra-Centro e men-che-meno la sola sinistra.

…..

Non è stata una guerra non occorre fare la pace. Anche perchè fosse stata una guerra non con tutti vorrei fare la pace. E' tempo che si distingua tra ... e tra ... in caso contrario si resterà nel pantano, pur di stare con tutti. Ciaooo


6015  Forum Pubblico / Gli ITALIANI e la SOCIETA' INFESTATA da SFASCISTI, PREDONI e MAFIE. / Alberto Infelise. Così il Pd ha rottamato se stesso inserito:: Dicembre 05, 2016, 04:37:53 pm
Così il Pd ha rottamato se stesso
La vecchia guardia del centrosinistra ha ottenuto il risultato che inseguiva dal 2013: la caduta di chi aveva sottratto loro guida del Paese e del partito

Pubblicato il 05/12/2016
Ultima modifica il 05/12/2016 alle ore 12:59

Alberto Infelise

Il Centrosinistra ha vinto ancora. Per la terza volta è riuscito, con una coraggiosa spallata, a buttare giù un governo di Centrosinistra. Era successo nel 1998 con Prodi. Era risuccesso nel 2008 sempre con Prodi.

Dal giorno stesso in cui Matteo Renzi si era insediato a Palazzo Chigi dopo la non vittoria di Bersani alle Politiche del 2013 e il conseguente governo Letta, gli sconfitti nel Pd, D’Alema e Bersani, hanno lavorato per ottenere il loro risultato: la caduta di chi aveva sottratto loro guida del Paese e del partito. Risultato ottenuto. E infatti ieri notte brindavano, ridevano, si congratulavano. Tutto un darsi pacche sulle spalle e ridere di fronte alle telecamere rivendicando la vittoria contro il segretario del loro partito, avendo almeno il buongusto di non nominare nemmeno la questione referendaria, la vittoria era su Renzi: «Voleva rottamarci, è stato rottamato» esultava garrulo D’Alema.

La sostanza è che il Partito Democratico, al di là di ogni bizantinismo di palazzo, è definitivamente morto, sepolto sotto le macerie di un matrimonio mai veramente avvenuto tra le diverse anime del Centrosinistra. Da subito è stato molto chiaro come il Referendum non fosse sulla Costituzione, ma un plebiscito pro o contro il presidente del Consiglio. Renzi ha giocato l’azzardo: e l’ha sontuosamente perso. Naturale che le opposizioni gli votassero contro, un po’ meno (in un’ottica di sanità mentale) che lo facesse parte del suo partito. Ma tant’è.

Del resto è sempre apparso molto chiaro come per una certa classe politica italiana-europea, diciamo, fosse molto più importante comandare nel partito che governare il Paese. Al Pd servirà probabilmente un ultimo congresso. Per decidere se avere un futuro o restare ai margini a godersi i ricordi delle sue grandi vittorie contro i governi di Centrosinistra.

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Da - http://www.lastampa.it/2016/12/05/italia/speciali/referendum-2016/cos-il-centrosinistra-ha-rottamato-il-pd-i9IhxRDDi9SwRST0uVc2IO/pagina.html
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