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Autore Discussione: Gian Antonio STELLA -  (Letto 185761 volte)
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« Risposta #105 inserito:: Gennaio 19, 2010, 08:34:25 pm »

Rastrellati il 16 ottobre 1943, uno solo tornò

I sorrisi dei bambini prima del lager

Un ossario digitale per 288 storie

Le foto scattate prima che fossero caricati sui treni per Auschwitz in una specie di sacrario virtuale


C'è un ossario digitale di bambini ebrei, da questa mattina, online: le foto di Fiorella e Samuele, Roberto e Giuditta e tutti gli altri piccoli, coi fiocchi tra le trecce e il triciclo e il vestito da marinaretto, scattate prima che fossero caricati sui treni per Auschwitz. Dal solo ghetto di Roma ne portarono via 288: quelli che passarono per il camino furono 287. E intanto gli opuscoli del Terzo Reich incoraggiavano le mamme germaniche: «Offrite un bambino al Führer ché ovunque si trovino nelle nostre province tedesche gruppi di bambini sani e allegri. La Germania deve diventare il Paese dei bambini».

Ferma il respiro, rileggere quelle righe propagandistiche della dispensa Vittoria delle armi, vittoria del bambino o i proclami nel Mein Kampf di Adolf Hitler («Lo Stato razzista deve considerare il bambino come il bene più prezioso della nazione») mentre riaffiorano su internet quelle immagini di piccola felicità familiare e domestica. Per questo, 66 anni dopo la retata del 16 ottobre 1943 e dieci dopo l’istituzione nel 2000 del Giorno della memoria, il Cdec, il Centro documentazione ebraica contemporanea, ha deciso di metterle online. È sulla rete, inondata di pattume razzista, che si trovano migliaia di rimandi a siti che strillano «L’olocausto, una bufala di cui liberarsi» e «Il diario di Anna Frank: una frode» o arrivano a sostenere che ad Auschwitz c’era una piscina «usata dagli ufficiali delle SS per guarire i pazienti». È sulla rete che siti multilingue di fanatici sedicenti cattolici («Holywar»: guerra santa) si spingono a indire un «giorno della memoria» per ricordare «l’olocausto comunista perpetrato dalla mafia razzista ebraica responsabile dello sterminio di 300 milioni di non ebrei». È sulla rete che sono approdate canzoni naziskin come quella dei «Denti di lupo» che urlano «quelle vecchie storie / sui campi di sterminio / abbiamo prove certe / son false e non realtà» e «Terra d’Israele, terra maledetta! / I popoli d’Europa, reclamano vendetta!» e ancora «Salteranno in aria le vostre sinagoghe / uccideremo tutti i rabbini con le toghe...». Ed è sulla rete, perciò, che doveva essere eretto questa specie di sacrario virtuale che ci ricorda come l’ecatombe successe solo una manciata di decenni fa. Un battere di ciglia, nella storia dell’uomo.

Sono le fotografie che i parenti scampati al genocidio consegnarono via via, a partire dalla liberazione di Roma, al Comitato ricerche deportati ebrei (Crde) che tentava in quegli anni di ricostruire il destino degli italiani marchiati dal fascismo con la stella gialla e mandati a morire nei lager: «Questa è mia sorella Rachele...» «Questo è mio fratello Elio con sua moglie...» «Questi sono i miei nipotini Donato e Riccardo...». Quelli del Crde raccoglievano le immagini, le pinzavano su un cartoncino azzurro, ci scrivevano i nomi e inserivano le schede al loro posto, negli archivi dell’orrore. Furono rarissimi, ad avere la fortuna di veder tornare un loro caro. Dei 1.023 ebrei rastrellati quel maledetto «sabato nero» dell’ottobre ’43, rientrarono vivi a Roma solo in 17. E tra questi, come dicevamo, solo un bambino dei 288 che erano stati portati via. Una strage degli innocenti. Uguale in tutta l’Italia. Il dato più sconvolgente della strage, scrivono appunto Lidia Beccaria Rolfi e Bruno Maida ne Il futuro spezzato: i nazisti contro i bambini, è «l’altissimo numero delle vittime più giovani, dei bambini e dei ragazzi ebrei: complessivamente i morti, da zero e 20 anni, ammontano a 1.541». Di questi, i figlioletti con pochi mesi o pochi giorni di vita furono 115.

Fatta salva una mostra organizzata a Milano per ricordare la Liberazione, le foto di quei piccoli, accanto a quelle di distinti signori con il panciotto come Enrico Loewy, floride matrone come Lucia Levi, ragazze nel fiore della bellezza come Laura Romanelli, famigliole intere come quella di Benedetto Bondì, sono rimaste per anni e anni dentro un faldone dell’archivio del Cdec. Riaprire oggi quel faldone, per far vedere a tutti i volti di quegli italiani schiacciati sotto il tallone dai nazi-fascisti, non è solo un recupero della memoria. Restituire a quegli ebrei una faccia, un nome, un cognome, qualche briciola di storia personale, come già aveva fatto ad esempio ne Il libro della memoria — Gli ebrei deportati dall’Italia quella Liliana Picciotto di cui è in uscita L’alba ci colse come un tradimento. Gli ebrei nel campo di Fossoli 1943-1944, vuol dire strappare ciascuno di loro all’umiliazione supplementare. L’essere stati uccisi come anonimi. Riconoscibili l’uno dall’altro, come il bestiame, solo per i numeri marchiati a fuoco sul braccio. Ed ecco il passato restituirci bambini, bambini, bambini. Come Fiorella Anticoli, che aveva due anni e due grandi nastri bianchi tra i boccoli. Graziella Calò, che in piedi su una sedia pianta le manine sul tavolo per non cadere. Olimpia Carpi, infagottata in un cappottino bianco. E Massimo De Angeli che dall’alto dei suoi quattro o cinque anni bacia il fratellino Carlo appena nato. E poi Costanza e Franca ed Enrica il giorno che andarono al mare a giocare col tamburello sulla battigia. E Sandro e Mara Sonnino, un po’ intimoriti dalla macchina fotografica mentre la mamma Ida sprizza felicità. Sono 413, gli ebrei delle foto messe in rete all’indirizzo www.cdec.it/voltidellamemoria. Quelli tornati vivi furono due: Ferdinando Nemes e Piero Terracina. Tutti gli altri, assassinati. Buona parte lo stesso giorno del loro arrivo ad Auschwitz, come il 23 ottobre 1943 la romana Clelia Frascati e i suoi dieci figli, il più piccolo dei quali, Samuele, aveva meno di sei mesi. «Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo, che ha fatto della mia vita una lunga notte e per sette volte sprangata», ha scritto ne La notte lo scrittore e premio nobel Elie Wiesel, «Mai dimenticherò quel fumo. Mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini di cui avevo visto i corpi trasformarsi in volute di fumo sotto un cielo muto. Mai dimenticherò quelle fiamme che bruciarono per sempre la mia Fede».

Sono in troppi, ad aver fretta di dimenticare. O voler voltar pagina senza riflettere su quello che è successo. A rovesciare tutte le colpe sui nazisti. Quelle foto, due giorni dopo l’amaro riconoscimento del Papa su quanti restarono indifferenti, ci ricordano come andò. E magari è il caso di rileggere, insieme, qualche passo di quel libro di Lidia Beccaria Rolfi e Bruno Maida. «I bimbi ebrei sono anche vittime di una ulteriore piaga che infuria nei mesi dell’occupazione nazista, quella della delazione: secondo la sentenza emessa dalla corte di assise di Roma nel luglio 1947, un gruppo di sei spie italiane che agiscono nella capitale vendono i bambini ebrei a mille lire l’uno e i militi italiani si distinguono in dare loro la caccia, come l’appuntato dei carabinieri che arresta nel febbraio 1944 a La Spezia Adriana Revere, di nove anni...».

Gian Antonio Stella

19 gennaio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #106 inserito:: Febbraio 19, 2010, 04:24:25 pm »


E la depressione tocca il modello veneto

Scritto da: Gian Antonio Stella

«Vorrei fare un film su un' idea: quella di un piccolo imprenditore così infognato nel lavoro che non riesce ad andare ai funerali di suo padre. È troppo assurda?». Antonio Albanese, che ha un fiuto spesso straordinario per ciò che accade nella società, tastò così anni fa, telefonando agli amici, l' ipotesi di girare «La fame e la sete». Il bello è che quella cosa che temeva fosse esageratamente irreale era già successa. Nel mitico Nordest. Ci sono stati anni in cui fabbriche e fabbrichette e laboratori del Veneto e del Friuli Venezia Giulia giravano con ritmo tale che il virus della «lavorite» impedì sul serio a un piccolo imprenditore della zona di Castelfranco, impegnato com' era a fare una consegna urgente, di partecipare ai funerali del papà: «Mi ha cresciuto lui. Sono sicuro che da lassù mi ha capito». Non c' è poi da stupirsi, quindi, se proprio nell' area nord-orientale che per anni ha vissuto il lavoro come baricentro di tutto, i contraccolpi della crisi degli ultimi due anni sono stati più pesanti. Troppi funerali. Di imprenditori, artigiani, operai. L' ha ricordato un convegno organizzato a Padova da Camera di commercio, comune, provincia, sindacati e Usl. Titolo: «La persona, la società, la crisi». Se ne era già occupato, nei mesi scorsi, uno studio (The public health effect of economic crisis and alternative government policy responses in Europe) dell' Università di Oxford e della London School of Hygiene pubblicato su Lancet. Studio dal quale era emerso che «per ogni aumento dell' uno per cento del tasso di disoccupazione si ha in media un incremento dello 0,8 per cento nei suicidi fra persone di età inferiore ai 65 anni. Peraltro, anche il numero di omicidi aumenta dello 0,8 per cento, mentre le vittime del traffico diminuiscono dell' 1,4 per cento. In termini assoluti, ciò corrisponderebbe a un eccesso di suicidi nell' Ue pari a 1740 casi e in un eccesso di morti correlate all' abuso di alcol pari a 3500 casi». Va da sé che nel Nordest, come ha spiegato Paolo Santonastaso, direttore della clinica psichiatrica dell' azienda ospedaliera, le cose sembrano essere andate perfino peggio. Nel solo 2009, i suicidi in più causati in Veneto dalla crisi sarebbero stati almeno una ventina. Tanto da spingere il presidente della Camera di commercio euganea, Roberto Furlan, a dire che «alla ripresa economica, sarà necessario anche il recupero del capitale umano che è il vero patrimonio delle nostre imprese». Per il «modello veneto», passato dal priapismo all' esaurimento nervoso, dalla ganassite («semo i meio») alla depressione, sarebbe un ripensamento positivo, dopo gli anni della delocalizzazione, degli investimenti (insensati) sul cemento dei capannoni lasciati vuoti, della corsa al brivido dei titoli finanziari. In fondo a cosa fu dovuto il boom del Veneto se non ai veneti in carne e ossa?

18/02/2010
da laderiva.corriere.it
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« Risposta #107 inserito:: Marzo 16, 2010, 10:35:16 am »

Fuga dalle responsabilità


Che succede con l’utero in affitto in Kerala e nel Rajasthan? L’inquietante interrogativo potrebbe dominare domenica la trasmissione «Report» di Milena Gabanelli. La quale, non potendo trasmettere gli altri servizi nel cassetto perché finiscono sempre per toccare la politica (qui c’è un deputato o un senatore, qui un ministro o un assessore…) non se la sente di mandare in onda reportage su semafori, datteri o colibrì. Ci sono le elezioni: non si parla di politica.

Il Consiglio di amministrazione della Rai, invitato dal presidente della Commissione di vigilanza parlamentare Sergio Zavoli a prendere atto della sentenza del Tar e a sospendere il regolamento varato dall’Autorità garante per le comunicazioni che «interpreta» la legge sulla par condicio (70ª interpretazione in dieci anni) vietando tutti i talk show, da «Porta a Porta» ad «Annozero», ha restituito la palla: diteci voi cosa fare. Il tempo di riunirsi e forse, chissà, la palla sarà ridata al Cda. Che potrebbe chiedere lumi al Tar. E questi, vedi mai, al Consiglio di Stato. E da qui di anno in anno alla Cassazione. Alla Corte costituzionale. E su su fino alla Corte europea dei diritti dell’uomo. All’Onu.

Nel frattempo, forti della sentenza citata, le tivù private potranno mettere in cantiere tutti i talk show che riterranno utili. Purché rispettino, ovvio, un minimo di buonsenso e accortezza nella distribuzione delle diverse opinioni. E se non la rispetteranno? Si vedrà. Quale sia la realtà, bollata come «squilibrata» dalla stessa autorità di garanzia, lo dicono i dati dell’Osservatorio di Pavia. Che ha visto nel 2009 non solo i tiggì Mediaset (record al Tg4: 81% contro il 12,5) ma anche quelli del servizio pubblico (tolto il Tg3) dedicare la stragrande maggioranza dei servizi al governo e al centrodestra e spazi assai ridotti all’opposizione. C’è chi dirà: è sempre andata così. Con indignazioni a targhe alterne. Verissimo. Il Tg ammiraglio Rai, per dire, si è spinto ad appiccicare applausi finti (sbertucciati da «Striscia») non solo al Cavaliere all’Onu. Né si possono dimenticare episodi come le sei-interviste- sei a esponenti dell’Ulivo in uno stesso tiggì. Era giusto? Lasciamo la risposta allo stesso Berlusconi quando aveva tre tivù tutte sue ma era all’opposizione: «Con un terzo dello spazio al governo, uno alla maggioranza, uno alla minoranza la sinistra finisce per aver spazi doppi: è una prepotenza».

Aveva ragione. Ed è un peccato che non se ne sia ricordato in questi giorni, mentre certe intercettazioni, forse penalmente irrilevanti, consigliavano a maggior ragione un via libera alla sfida aperta dei dibattiti tivù. Gli italiani hanno in media 43 anni. Immaginare che non sappiano pesare Vespa e Santoro, Floris e Paragone, non è solo assurdo: è un po’ offensivo. E in ogni caso l’intervento diretto del Cavaliere fa cadere una volta per tutte il velo sulla promessa iniziale: «Alla Rai non sposterò nemmeno una pianta per non dare l'impressione di voler favorire i miei affari». Non è andata così. Quanto agli uomini «di garanzia» piazzati ai vertici della Rai e della Commissione di Vigilanza, continuino pure a passarsi la palla. Ma se secondo loro il blocco dei talk show è davvero una menomazione alla democrazia che richiama addirittura il «filo spinato» (così si è avventurato a dire Zavoli) come possono rimanere al loro posto un solo minuto in più?

Gian Antonio Stella

16 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it
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« Risposta #108 inserito:: Marzo 18, 2010, 04:10:07 pm »

Membri della lega invocano metodi da SS contro gli immigrati.

Senza strascichi giudiziari

La condanna beffa nel Paese degli insulti

Sentenza (e appello) da record per aver detto "vergogna" a una giunta leghista.

Accade in provincia di Treviso


Su col morale: la giustizia sa essere velocissima. In una regione come il Veneto in cui la prima udienza di 44 processi civili è stata fissata dalla Corte d’Appello di Venezia nel 2017 (pazienza, pazienza...) un pubblico ministero di Treviso ci ha messo tre-giorni-tre a presentare appello contro l’assoluzione di una signora che aveva osato dire agli assessori comunali di Vittorio Veneto la parola «Vergognatevi!». Ai milioni di processi che impantanano i tribunali si aggiungerà anche lo strascico di questo. Quali siano gli esempi arrivati in questi anni dall’alto, li ricordiamo tutti. Una rinfrescatina? Oscar Luigi Scalfaro, all’epoca capo dello Stato, fu liquidato da Vittorio Sgarbi in piazza Montecitorio come «una scorreggia fritta». Roberto Maroni spiegò che «Bossi ce l’ha duro, Berlusconi ce l’ha d’oro, Fini ce l’ha nero, Occhetto ce l’ha in (censura) ».

Gianni Baget Bozzo tuonò in diretta televisiva che «il popolo deve molto a Berlusconi. E col cazzo che questa è adulazione». Il leghista Enrico Cavaliere si avventurò dai banchi della Camera a dire: «C’è puzza di merda in questo posto». Alessandra Mussolini mandò una lettera pubblica al Senatur in cui diceva: «Si’ proprio nu chiachiello e nun tien’ manch’e palle p’ffa na vera rivoluzione». Massimo D’Alema bacchettò Carlo Ripa di Meana con il suo tipico garbo: «Dice solo cazzate». Romano Prodi sibilò a Enrichetto La Loggia, in pieno dibattito parlamentare, l’invito «Ma vaffan... » seguito da un’interrogazione parlamentare dell’offeso: «Risponde al vero che lei mi ha mandato fanculo?». Quanto ai tempi più recenti, va ricordato almeno Silvio Berlusconi, che dopo aver precisato di avere «troppa stima per
l’intelligenza degli italiani per pensare che ci possano essere in giro così tanti coglioni che possano votare a sinistra», se l’è presa con chi «sputtanando il premier sputtana anche l’Italia». E poi Antonio Di Pietro, che ad Annozero ha detto «col massimo rispetto, Berlusconi è un delinquente » per incitare successivamente a «buttar fuori Minzolini a calci in culo ». E ancora Gianfranco Fini («Chi dice che gli stranieri sono diversi è uno stronzo...») e Roberto Calderoli: «È stronzo anche chi li illude».

Per non dire di Tommaso Barbato e Nino Strano che, il giorno della caduta del governo Prodi, urlarono al Senato contro Nuccio Cusumano: «Pezzo di merda, traditore, cornuto, frocio!» e «Sei una checca squallida!». E via così: potremmo andare avanti per ore. Bene: in questo contesto, in cui una parte del Paese accusa l’altra d’avere le mani lorde di sangue dei crimini staliniani e l’altra metà risponde imputando agli avversari di essere golpisti e goebbelsiani, la signora Ada Stefan si è spericolatamente spinta a contestare una decisione urbanistica della giunta comunale leghista di Vittorio Veneto. La scelta di non demolire un complesso edilizio che avrebbe dovuto diventare un «polo sportivo d’interesse nazionale » con due campi di calcio, un impianto di pattinaggio a rotelle, tribune, foresterie, palestre, parcheggi e un sacco di altre cose compresi un po’ di «spazi commerciali accessori». Una cosa grossa. Edificata su un terreno per il quale il piano regolatore prevedeva fossero «ammessi solo gli impianti per il gioco, gli spettacoli all’aperto e le attrezzature sportive».

Scelta giusta o sbagliata? Non ci vogliamo manco entrare: non è questo il punto. Il fatto è che, essendo state costruite solo le strutture commerciali e non quelle sportive, un gruppo di abitanti della zona aveva chiesto alla giunta di smetterla con le deroghe e, dato che il progetto originale era stato stravolto e dunque risultava tutto abusivo, di procedere con le ruspe. Al che l’amministrazione aveva risposto che «l’esigenza del ripristino della legalità non è sufficiente a giustificare la demolizione richiesta, occorrendo comparare l’interesse pubblico alla rimozione con l’entità del sacrificio imposto al privato». Parole discutibili. Tanto più alla luce di una serie di sentenze di sette o otto Tar (veneto compreso) e del Consiglio di Stato presentate dal legale degli abitanti della zona, Daniele Bellot, tutte molto chiare: in casi del genere l’abuso va abbattuto. Ma neppure questo è il punto. Il punto è che, durante un consiglio comunale, esasperata dalle resistenze della maggioranza all’idea di demolire il complesso, la signora Ada Stefan sbottò: «Vergognatevi! ».

Un’offesa gravissima, secondo Mario Rosset, già segretario e consigliere della Lega. Al punto di meritare una denuncia. Denuncia finita sul tavolo di un magistrato trevisano. Il quale, incredibile ma vero, decise di emettere un decreto penale che condannava la signora «per avere offeso l’onore e il prestigio del consiglio comunale di Vittorio Veneto dicendo ad alta voce, rivolta al loro indirizzo, "Vergognatevi"». Un verdetto sconcertante. Che Ada Stefan decise di non accettare chiedendo di andare a processo. Processo aperto e chiuso giorni fa nel giro di pochi minuti: per il giudice Angelo Mascolo la signora andava assolta «perché il fatto non costituisce reato, ai sensi dell’art. 129 c.p.p.». Faccenda chiusa? Macché: tre giorni dopo (tre giorni: in un Veneto in cui i magistrati sono sommersi di arretrati e, stando alla relazione della stessa presidente Manuela Romei Pasetti, «trascorrono mediamente 272 giorni tra la sentenza di 1˚ grado e l’arrivo alla Corte d’Appello») il sostituto procuratore Giovanni Cicero impugnava l’assoluzione. Il processo andrà avanti: la signora Stefan, secondo lui, va castigata. Il tutto in una provincia come Treviso.

Dove il sindaco leghista Giancarlo Gentilini ha ordinato «la pulizia etnica contro i culattoni» ed è arrivato a invocare «il linciaggio in piazza». Dove il senatore leghista Piergiorgio Stiffoni si è spinto a dire: «Gli immigrati? Peccato che il forno crematorio del cimitero di Santa Bona non sia ancora pronto» aggiungendo che «l’immigrato non è mio fratello, ha un colore della pelle diverso». Dove il consigliere comunale leghista della città capoluogo Pierantonio Fanton ha teorizzato che «gli immigrati sono animali da tenere in un ghetto chiuso con la sbarra e lasciare che si ammazzino tra loro». Dove un altro consigliere leghista, Giorgio Bettio, è sbottato tempo fa urlando che occorreva «usare con gli immigrati lo stesso metodo delle SS: punirne dieci per ogni torto fatto a un nostro cittadino». Il tutto senza particolari strascichi giudiziari. E sarebbe un reato dire «vergognatevi»? Messa così lo diciamo anche noi: vergognatevi.

Gian Antonio Stella

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« Risposta #109 inserito:: Marzo 21, 2010, 11:09:58 am »

Il caso -

L’esempio della Sicilia, che chiuse l’Assemblea da Natale a Carnevale

La lunga Pasqua dei politici: 42 giorni di ferie in Abruzzo

Il consiglio regionale tornerà a riunirsi dopo l’anniversario del sisma


Ancora trentadue. I consiglieri regionali abruzzesi, come quei turisti che dopo un po’ che stanno sdraiati al sole delle Maldive sospirano sui giorni che scivolano via, hanno preso a contare quanti ne mancano alla fine delle «loro» vacanze pasquali: 32. Direte: trentadue giorni di vacanze pasquali? No, di più: le hanno cominciate 10 giorni fa. Totale: 42. E tutti i problemi aperti? Amen. E le cose indispensabili in questi tempi di crisi? Amen. E gli interventi per la ricostruzione dopo il terremoto? Amen.

Si dirà che non è una novità assoluta. Vero. Agli sgoccioli del 2001 i deputati (guai a chiamarli consiglieri: si offendono) della leggendaria Assemblea Regionale Siciliana, stremati da un anno pesantissimo sia pure con una lunga pausa per le elezioni politiche e una lunga pausa estiva e alcune sedute particolarmente stressanti come quella del 30 ottobre (9 minuti, ma che fatica...) decisero infatti che era giunto il momento di avere un po’ di relax. E così, chiusi i defaticanti lavori il 21 dicembre, avevano congiunto il Natale al Capodanno, il Capodanno alla Befana, la Befana alla Settimana bianca, la settimana bianca al Carnevale. E si erano riconvocati per il 12 febbraio successivo. Una cosa che fece gridare allo scandalo un deputato della Margherita, Sebastiano Gurrieri, che spese quasi 10 mila euro per comprare degli spazi pubblicitari sul Giornale di Sicilia e altri quotidiani locali e denunciare «la scandalosa chiusura dell’Ars da Natale a Carnevale». Per rafforzare la denuncia, spiegò che l’acquisto di quelle pagine, finanziariamente, non lo aveva svenato affatto. Rompendo fino in fondo l’omertà, dimostrò infatti che al di là delle finzioni sul reddito imponibile, un deputato regionale come lui guadagnava («lo dico con imbarazzo», mormorò) quasi 10 mila euro al mese più altri 4mila per il portaborse o l’attività politica. Prebende che da allora, sembrerà impossibile, sono addirittura cresciute. Anche all’assemblea regionale d’Abruzzo non se la cavano male. Basti dire che un consigliere semplice (rari come i leopardi dell’Amur, visto che un po’ tutti hanno qualche incarico supplementare) può arrivare a mettersi in tasca, stando alle tabelle ufficiali dell’organismo che riunisce i consigli di tutta l’Italia, fino a 10.925 euro al mese. Che salgono di un altro migliaio di euro nel caso dei capi-gruppo, ruolo che riguarda anche i cinque rappresentanti dei monogruppi Comunisti italiani, Sinistra- verdi-sd, Movimento per le Autonomie Abruzzo, Rifondazione comunista e Rialzati Abruzzo: ciascuno capogruppo di se stesso.

Quanto lavorano? Da stramazzare di fatica, risponderanno. Dice il sito Internet della stessa assemblea, per capirci, che nel 2009 l’aula si è riunita in ben 29 sedute. Di cui una «solenne» e sette «straordinarie pomeridiane». Vale a dire che in totale i giorni in cui i consiglieri sono stati chiamati a presentarsi nell’emiciclo, tra mattina e pomeriggio, sono stati 22: uno ogni due settimane abbondanti. Per l’esattezza uno ogni 16 giorni e mezzo. Due volte al mese. Mettetevi al posto loro: neanche il tempo di respirare. E così, come ha spiegato la cronaca di Lilli Mandara nell'edizione abruzzese del Messaggero, il parlamentino regionale (dominato dal Pdl con 25 seggi contro i 7 del Pd o i 6 dell'IdV) dopo essersi riunito un’ultima volta il 9 marzo tra i fischi dei dipendenti del gruppo Villa Pini d’Abruzzo (millecinquecento persone rimaste senza stipendio da un anno dopo il tracollo della struttura sanitaria che apparteneva a Vincenzo Angelini, l’imprenditore che scatenò lo scandalo sulla sanità abruzzese portando alla caduta della giunta di centrosinistra di Ottaviano Del Turco) tornerà a riunirsi il 20 aprile prossimo. Lo hanno deciso i capigruppo. I quali hanno stabilito che «ai sensi dell’articolo 1, quarto comma, della legge regionale n.32/1996, sono sospesi i termini per i pareri che le commissioni consiliari devono esprimere sui provvedimenti della giunta regionale. I lavori riprenderanno mercoledì 7 aprile 2010». Cioè il giorno dopo l’anniversario del sisma che sconvolse le terre abruzzesi. Quanto al consiglio regionale «terrà la prima seduta il 20 aprile 2010». Ma si vota, in Abruzzo? No: le regionali, che videro diventare governatore il berlusconiano Giovanni Chiodi, ci sono già state nel dicembre 2008. E allora? C’è il voto alle Provinciali dell'Aquila, le elezioni nel resto dell'Italia, la Pasqua, la Pasquetta... Insomma, un ponte tira l'altro. Totale: un ponte di 42 giorni a sei campate domenicali.

Gian Antonio Stella

19 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #110 inserito:: Marzo 29, 2010, 11:33:51 pm »

Il ministro e lo show

Leggi bruciate e incomprensibili

L'orrenda pira di Calderoli

Via i «detriti» burocratici, ma restano norme confuse e deliranti. I decreti del governo equivalgono a 124 tomi


MILANO - L'aspirante dannunziano Roberto Calderoli ha fatto un miracolo: denunciata la presenza di 29.100 leggi inutili, ne ha bruciate in un bel falò 375.000. Fatti i conti, lavorando 12 ore al giorno dal momento in cui si è insediato, più di una al minuto: lettura del testo compresa. Wow! Resta il mistero dell’ingombro di quelle appena fatte. Stando al «Comitato per la legislazione» della Camera, i soli decreti del governo attuale hanno sfondato la media di 2 milioni di caratteri l’uno: 56 decreti, 112 milioni di caratteri. Per capirci: l’equivalente di 124,4 tomi di 500 pagine l’uno. Dicono le rappresentanze di base dei vigili del fuoco che quella del ministro è stata «una sceneggiata degna del Ventennio». E c’è chi sottolinea che i roghi di carta, in passato, hanno sempre contraddistinto i tempi foschi. Per non dire delle perplessità sui numeri: se la relazione della commissione parlamentare presieduta da Alessandro Pajno e più volte citata da Calderoli aveva accertato «circa 21.000 atti legislativi, di cui circa 7.000 anteriori al 31 dicembre 1969», come ha fatto lo stesso Calderoli a contarne adesso 375.000?

Al di là le polemiche, tuttavia, resta il tema: fra i faldoni bruciati ieri nel cortile di una caserma dei pompieri (lui avrebbe voluto fare lo show a Palazzo Chigi ma Gianni Letta, poco marinettiano, si sarebbe opposto...) c’erano soltanto antichi reperti burocratici quali l’enfiteusi o anche qualcosa di più recente? Prendiamo l’articolo 7 delle norme sul fondo perequativo a favore delle Regioni: «La differenza tra il fabbisogno finanziario necessario alla copertura delle spese di cui all’articolo 6, comma 1, lettera a), numero 1, calcolate con le modalità di cui alla lettera b) del medesimo comma 1 dell’articolo 6 e il gettito regionale dei tributi ad esse dedicati, determinato con l’esclusione delle variazioni di gettito prodotte dall’esercizio dell’autonomia tributaria nonché dall’emersione della base imponibile...». Il ministro Calderoli concorderà: un delirio. Il guaio è che non si tratta di una legge fatta ai tempi in cui Ferdinando Petruccelli della Gattina scriveva «I moribondi del Palazzo Carignano». È una legge del governo attuale, presa mesi fa ad esempio di demenza burocratese da un grande giornalista non certo catalogabile fra le «penne rosse»: Mario Cervi. Direttore emerito del Giornale berlusconiano. Eppure c’è di peggio.

Calderoli e il rogo delle leggi inutili Calderoli e il rogo delle leggi inutili    Calderoli e il rogo delle leggi inutili    Calderoli e il rogo delle leggi inutili    Calderoli e il rogo delle leggi inutili    Calderoli e il rogo delle leggi inutili    Calderoli e il rogo delle leggi inutili    Calderoli e il rogo delle leggi inutili

Nel lodevolissimo sforzo di rendere più facile la lettura e quindi il rispetto delle leggi, il governo approvò il 18 giugno 2009 una legge che aveva un articolo 3 titolato «Chiarezza dei testi normativi». Vi si scriveva che «a) ogni norma che sia diretta a sostituire, modificare o abrogare norme vigenti ovvero a stabilire deroghe indichi espressamente le norme sostituite, modificate, abrogate o derogate; b) ogni rinvio ad altre norme contenuto in disposizioni legislative, nonché in regolamenti, decreti o circolari emanati dalla pubblica amministrazione, contestualmente indichi, in forma integrale o in forma sintetica e di chiara comprensione, il testo...». Insomma: basta con gli orrori da azzeccagarbugli. Eppure, ecco il comma dell’articolo 1 dell’ultimo decreto milleproroghe del governo in carica: «5-ter. È ulteriormente prorogato al 31 ottobre 2010 il termine di cui al primo periodo del comma 8-quinquies dell’articolo 6 del decreto-legge 28 dicembre 2006, n. 300, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2007, n. 17, come da ultimo prorogato al 31 dicembre 2009 dall’articolo 47-bis del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 2008, n. 31». Cioè? Boh...

È questo il punto: che senso c’è a incendiare un po' di scatoloni di detriti burocratici che parlano di «concessioni per tranvia a trazione meccanica» o di «acquisto di carbone per la Regia Marina» se poi gli spazi svuotati da quelle regole in disuso vengono riempiti da nuove norme ancora più confuse, deliranti, incomprensibili? La risposta è in un prezioso libretto curato dal preside della facoltà di lettere e filosofia di Padova Michele Cortellazzo. Si intitola: Le istruzioni per le operazioni degli uffici elettorali di sezione tradotte in italiano. Sottotitolo: Omaggio al ministero dell’Interno. Non fosse una cosa seria, potrebbe essere scambiata per satira: se le regole elettorali fossero comprensibili, perché mai dovrebbero essere «tradotte in italiano»? Anche negli armadi impolverati delle legislazioni straniere esistono mucchi di leggi in disuso. Un sito internet intitolato «gogna del legislatore scemo» ne ha steso un elenco irresistibile. In certi Stati del Far West americano è proibito «pescare restando a cavallo». Nell’Illinois chi abbia mangiato aglio può essere incriminato se va a teatro prima che siano trascorse quattro ore. A Little Rock dopo le 13 della domenica non si può portare a spasso mucche nella Main Street. Ogni tanto, senza farla tanto lunga, i legislatori svuotano i magazzini.

Magari cercando di non fare gli errori sui quali, nello sforzo di fare in fretta, era incorsa la "ramazza" di Calderoli, la quale, come via via hanno segnalato i giornali consentendo di rimediare alle figuracce, aveva spazzato via per sbaglio anche il trasferimento della capitale da Firenze a Roma, l’istituzione della Corte dei Conti o le norme che consentono a un cittadino di non essere imputato per oltraggio a pubblico ufficiale se reagisce ad atti arbitrari o illegali. Ciò che più conta, però, è fare le leggi nuove con chiarezza. Se no, ogni volta si ricomincia da capo. Qui no, non ci siamo. E a dirlo non sono i «criticoni comunisti» ma il Comitato parlamentare per la legislazione presieduto dal berlusconiano Antonino Lo Presti. Comitato che due mesi fa spiegò che i decreti del governo Prodi, già gonfi di parole, numeri e codicilli, contenevano mediamente 1 milione e 128 mila caratteri. Quelli del governo Berlusconi, a forza di voler tener dentro tutto, hanno superato i 2 milioni. E sarebbe questa, la semplificazione? Ci siamo liberati delle ottocentesche norme sulla «riproduzione tramite fotografia di cose immobili» per tenerci oggi astrusità come i rimandi «all’articolo 1, comma 255, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, può essere prevista l’applicazione dell’articolo 11, comma 3, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, e dell’articolo 1, comma 853...»? Ma dai...

Gian Antonio Stella

25 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #111 inserito:: Marzo 31, 2010, 05:55:29 pm »

IL CASO

Brunetta e quei 9 mila voti spariti nell'agguato (elettorale) in laguna

La misteriosa differenza del risultato leghista tra le consultazioni Regionali e Comunali


In attesa del toro, hanno arrostito il torello. C'è chi dirà che no, non è vero che i leghisti abituati a festeggiare ogni promozione di
Luca Zaia con uno spiedo di tori hanno infilzato apposta Renato Brunetta nella sua corsa a sindaco di Venezia. Dirà che è stato solo un dannato equivoco. Ma i numeri sono numeri. E dicono che con quei 9 mila voti bossiani misteriosamente svaniti alle Comunali rispetto alle Regionali, il ministro non sarebbe stato buttato fuori al primo turno dalla «sua» città. Lui, il rosolato, fa mostra di averla presa con filosofia. E anche se passa per avere un caratterino fumante («Sono passionale e determinato ma buono come un pezzo di pane», ha spiegato giorni fa a Manuela Pivato, della Nuova Venezia, «Magari sono un po' incazzoso però sono un pezzo di pane») ieri pomeriggio si è astenuto dal dardeggiare fulmini e saette contro i traditori. E si è messo alla scrivania per spiegare con un piccolo dossier a Berlusconi come mai lui, uno dei ministri di punta, abbia mancato l'obiettivo che pareva a portata di mano: fare filotto. Strappando alla sinistra il capoluogo di una provincia di destra, di un Veneto di destra, di una Padania di destra che proprio a Venezia, dalla famosa discesa del Po del 1996, celebra ogni settembre la sua padanità leghista.

Che il Cavaliere ci contasse, lo aveva ripetuto anche nell’ultima telefonata in diretta fatta un attimo prima che si chiudesse la campagna elettorale: «Caro Renato, ti avevo promesso che sarei venuto lì, ma sono stato bloccato dai troppi impegni. E pensare che stavo per comprare casa a Venezia ma non volevo mettermi nelle mani di un sindaco rosso e non l'ho più comprata». Risate in sala. «Però adesso che tu vincerai potrò venire in una terra non più ostile». Conclusione: «Invito tutti a commettere un peccatuccio: andate a riscoprire le vecchie fidanzate e convincetele ad andare a votare. Vi auguro di realizzare tutti i vostri sogni. Viva Venezia, viva l'Italia, viva la libertà». Prima ancora del capo supremo, come ricordò quella sera lo stesso Brunetta con una spolveratina al suo orgoglio, erano venuti a dare il loro appoggio la bellezza di nove ministri: da Giulio Tremonti ad Angiolino Alfano, da Ignazio La Russa ad Altero Matteoli, da Sandro Bondi a Roberto Maroni, da Andrea Ronchi a Maurizio Sacconi fino allo stesso Umberto Bossi. Che nella veste di indiscusso monarca del Carroccio lo aveva incitato, sul palco di Mestre: «Caro amico, ti sto aspettando, mancate solo voi». Al che il protagonista della battaglia contro i fannulloni aveva risposto solenne: «La Lega è l’alleato più fedele e altrettanta lealtà avrà da me. L’apprezzamento della Lega nei miei confronti è quasi più alto di quello del Pdl». Bum!

Si mangerebbe la lingua oggi, Renato il rosolato, per aver detto quelle parole. Fatti i conti, allo spoglio finale, al ministro della Funzione pubblica sono mancati circa 9 mila voti che i leghisti di Venezia, Mestre e Marghera, andando a votare domenica e lunedì, hanno dato a Luca Zaia e non a lui. Quanto basta perché l’amica Giustina Destro, già sindaco di Padova e oggi parlamentare berlusconiana, sbotti gridando al tradimento: «Mi piacerebbe sentire come se lo spiegano il caso del Comune di Venezia gli amici della Lega così straboccanti di felicità per le "loro" vittorie, che tutte loro non sono, ma altrettanto pronti a scomparire quando si tratta di eleggere un sindaco non loro. Caro Berlusconi, ma sei proprio sicuro che la Lega sia un alleato affidabile?». «Complimenti e un abbraccio affettuoso all’amico Brunetta, colpito da fuoco amico», è l’epitaffio di Fabio Gava, deputato pdl e già assessore regionale. Un caso? Un disguido? Uno sventurato infortunio? Per niente.

La prova è a una settantina di chilometri da Venezia, a Portogruaro. Dove il berlusconiano Angelo Tabaro, segretario regionale alla Cultura, si sentiva ieri mattina già sindaco della cittadina. Come avere dei dubbi? Gli stessi identici elettori votando negli stessi identici giorni negli stessi identici seggi avevano dato a Zaia (non in una provincia come Treviso dove la Lega ha oggi il 49% contro il 15 del Pdl ma in quella di Venezia, la più avara di voti al «Governador») la bellezza del 56%. Al quale andavano aggiunti sulla carta i voti dell'Udc e di un altro paio di liste. Mettetevi al posto suo: si sentiva in una botte di ferro. Sapete com'è finita? I leghisti che alle Regionali erano il 24% sono evaporati alle Comunali riducendosi a un misero 8%. Col risultato che, sorpresa sorpresa, ha vinto al primo turno il candidato del centrosinistra Antonio Bertoncello. Va da sé che, dopo aver telefonato la mattina all’amico Luca felicitandosi per il successo alle Regionali, Brunetta non è che si aspettasse che il nuovo presidente facesse una telefonata a lui nel pomeriggio. Sarebbe stata imbarazzante, dopo l’apertura dei seggi delle Comunali con quel risultato clamoroso che dava la vittoria al primo turno all'avversario Giorgio Orsoni. Però, se non altro per cortesia tra ministri dello stesso governo... Certo è che fino alle sette di sera la telefonata non era ancora arrivata. «Io il mio l'ho fatto, ho la coscienza tranquilla», ripete a tutti il responsabile della Funzione pubblica, «il Pdl e la mia lista hanno preso alle Comunali intorno al 30%. Sei punti in più che alle Regionali. Quelli che mi sono mancati sono i voti della Lega. È una cosa sulla quale bisognerà riflettere. Mettiamola così: l'elettorato della Lega è egoista, se ha un candidato suo lo vota, sennò si distrae... Certo è che se avessi avuto i voti leghisti che ha avuto Zaia avrei vinto al primo turno». Ci riproverà una terza volta, dopo aver già subito due delusioni nei tentativi di diventare sindaco della sua città? Neanche a parlarne. Troppo cocente, questa batosta. Arrivata in controtendenza in questi giorni di festa della destra. Resta il tema che già si era profilato ieri dopo i trionfi leghisti in Piemonte e soprattutto in Veneto: davvero un animale politico come Umberto Bossi, avendo alle spalle una storia personale, politica e partitica che dice il contrario, se ne starà buono buono senza passare all'incasso per sfruttare il momento magico? E la metafora del toro davvero lascia dormire tranquillo Silvio Berlusconi? Per ora, con l'aspirante sindaco di Venezia e l'aspirante sindaco di Portogruaro, i leghisti hanno già passato sui carboni ardenti, come dicevamo, un torello e un capretto sacrificale. Ma lo spiedo che prediligono, sia chiaro, è un altro. E una volta accese le braci...

Gian Antonio Stella

31 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #112 inserito:: Aprile 19, 2010, 04:53:53 pm »

Società

Bambini prima affidati e poi tolti

L'Italia dei genitori «usa e getta»

Spesso sono solo un «parcheggio» temporaneo.

Raccolta di firme per cambiare la legge


MILANO — Ma vengono prima, per la legge, i diritti dei bambini abbandonati o quelli degli aspiranti genitori? È quello che ti domandi leggendo sul sito dell'associazione «La Gabbianella» la testimonianza di Claudio e Cinzia che, come scrivono, sono stati «trafitti a tradimento da una brutta storia di affido». Al centro di questa storia c'è una piccola, Micha, dalla vita travagliata: i primi due mesi (disastrosi) coi genitori naturali, poi in ospedale per denutrizione, poi in «parcheggio d'urgenza» presso una famiglia finché, al sesto mese, viene data in affido a Claudio e a sua moglie. Coi quali resterà per quindici mesi. Felici. A un certo punto, un giudice del Tribunale dei minori, evidentemente informato di come sta crescendo la piccola, chiede ai due se abbiano pensato all'adozione. Claudio e Cinzia sanno di avere qualche anno in più rispetto a quelli previsti dalla legge per chi adotta figlioletti così piccoli. Ma il giudice spiega loro che «si potrebbe procedere verso una adozione speciale/nominale».

Neanche il tempo di sperarci e arriva la doccia fredda: Micha andrà in adozione a un'altra famiglia. I due non capiscono: «Il pediatra si arrabbia quando lo informiamo, dice che dobbiamo prendere un avvocato, questa bimba ha già sofferto tanto nella sua breve vita, ora ha raggiunto un equilibrio, un ulteriore passaggio in un'altra famiglia sarebbe distruttivo. Dice che, se veramente le vogliamo bene, dobbiamo fare di tutto affinché Micha resti dov'è». Portando a sostegno varie testimonianze, cercano di spiegare al presidente del tribunale che la cosa non ha senso e potrebbe danneggiare la bimba: Risposta: «Vi ringraziamo per quello che avete fatto, l'adozione speciale è prevista in casi particolari, questa bambina ha migliori opportunità di vita, ci sono coppie che hanno una domanda di adozione da tre anni quindi con più diritti di voi». Ma come: i diritti di una coppia che desidera un figlio, per quanto diritti legittimi, vengono prima di quelli della creatura che è in ballo? Per carità, magari l'inserimento della piccola si rivelerà alla lunga positivo (l'inizio, a leggere Claudio e Cinzia, è stato traumatico), ma il tema resta: andava privilegiato il bene della bambina o i diritti degli aspiranti genitori? E non sarebbe opportuno un po' di buon senso, in casi come questi, per evitare questi traumi ai piccoli? Il guaio è che di casi così ce ne sono diversi.

Prendiamo quello di Mathias raccontato da Daniela Assembri: «Durante le feste di Natale del 2005, sono passata dagli uffici dei Servizi sociali del Comune della mia città ed ho chiesto se c'era un bambino che avesse bisogno del calore di una casa, per Natale. Avevo già avuto due esperienze di affido e in quegli uffici mi conoscevano. L'assistente sociale mi ha subito proposto un bambino nato da pochi giorni e ancora ricoverato nel reparto maternità dell'ospedale. La giovane famiglia aveva dei problemi. Ho detto di sì con entusiasmo. Mi avrebbero fatto sapere. A metà gennaio 2006 mi confermano l'affido. E così due operatrici dell'Ufficio minori mi portano a casa Mathias, avvolto in una copertina; mi danno alcuni ragguagli sul latte e sugli incontri da fare con i genitori e se ne vanno». Da quel momento, per due anni abbondanti (i due anni fondamentali per la vita di un bambino, quelli in cui impara a camminare, parlare, mangiare, giocare...) lo Stato mostra di fidarsi ciecamente della donna, che è single e vive da sola, senza un marito o un compagno. Una delega piena, totale: «Le assistenti sociali non sono mai venute a casa mia, non hanno mai visto l'ambiente di Mathias, il suo gatto, i suoi giochi, le persone che mi hanno aiutato ad allevarlo (in particolare mio fratello) o che lo hanno tenuto con tanta attenzione e affetto (i miei cari amici)». Finché il giudice decide che il bimbo «parcheggiato» dalla signora Daniela (la quale per lui ha fatto mille rinunce adattandosi all'incertezza burocratica: «Gli compro già il lettino o basterà la carrozzina? E il box? E il girello? E un seggiolino più grande per l'auto? E un nuovo passeggino? E le vacanze? E il mio ritorno al lavoro dopo la maternità? E l'eventuale iscrizione all'asilo?») va dato in adozione. A Daniela? Neanche a parlarne: Mathias le sarà anche affezionato e lei si sarà spesa l'anima per essere una buona mamma, ma santo cielo: non è sposata! Non ha un marito! Per lo Stato va bene come parcheggiatrice, non di più. Ha tirato su lei il bambino e passato lei le notti in bianco quand'era malato e gli ha insegnato lei a dire «mamma» e gli ha mostrato lei la prima volta la luna? Stia al suo posto! E poi tutte quelle domande alle assistenti sociali: cosa sarà del bambino? Dove andrà? La nuova mamma e il nuovo papà sono a posto? Gli vorranno bene? Diamine: non son mica fatti suoi! Conclusione: il piccolo viene tolto a quella che fino a quel momento è stata sua mamma praticamente senza un passaggio delle consegne: «Non ho mai incontrato la famiglia adottiva, pare che sia stata la famiglia stessa a non volermi conoscere».

È giusto così? Vale per Daniela la single, vale per famiglie tradizionali in senso pieno. Come quella, racconta il sito della Gabbianella (www.lagabbianella.org) che accolse la piccola A. e i suoi fratellini: una coppia con «ben cinque figli naturali, che per undici anni ha accolto in affidamento dei bambini, accompagnandoli poi verso altre famiglie adottive o nella loro stessa famiglia naturale». Anche questi genitori «usa e getta»: utilizzati dallo Stato per parcheggiare i tre fratellini e poi scartati per l'adozione di A. (affidata loro quando aveva meno di due mesi) nonostante il parere contrario del Tutore dei minori e del neuropsichiatra, entrambi schierati perché la bimba non venisse spostata dall'ambiente in cui era cresciuta. Per questo «La Gabbianella» presieduta da Carla Forcolin, autrice di più libri sul tema (uno per tutti: Io non posso proteggerti) ha avviato una raccolta di firme per chiedere ai parlamentari un ritocco, messo a punto dall'avvocato Lucrezia Mollica, alla legge 184/83 che regola la materia: «Qualora l'affidamento di un minore si risolva in un'adozione, a causa del mancato recupero della famiglia d'origine, vanno protetti i rapporti instauratisi nel frattempo tra affidati e membri della famiglia affidataria. Va quindi favorita la permanenza del bambino nella famiglia in cui egli già si trova; ove ciò non sia possibile, va comunque tutelato il mantenimento di un rapporto affettivo con la famiglia affidataria, nelle forme e nei modi ritenuti più opportuni dagli operatori, dopo aver ascoltato la famiglia affidataria stessa e la futura famiglia adottiva». Buon senso. Solo buon senso.

Gian Antonio Stella

19 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #113 inserito:: Aprile 27, 2010, 12:02:20 pm »

Nel 2016 gli over 70 saranno quanto i lombardi.

C’è chi ha fiutato l’affare

Il business milionario del nonno finisce quotato in Borsa

Se tutte le badanti se ne andassero a casa, lo Stato dovrebbe investire in nuovi ospizi 169 miliardi di euro


MILANO - Investire sui giovani? Meglio sui vecchi. O almeno così la pensano i tanti che vanno puntando sempre più sul «business del nonno». Un affarone gigantesco. Due numeri dicono tutto: se domani mattina tutte le badanti se ne andassero a casa, lo Stato dovrebbe investire in nuovi ospizi per accogliere gli anziani lasciati soli 169 miliardi di euro. E assumere, per l’assistenza, oltre 900 mila persone. Onestamente: come ne usciremmo? Il problema di domani, in realtà, potrebbe essere ancora più serio. Stando ai calcoli dell’Istat nel 2016, cioè fra sei anni, gli ultrasessantenni saliranno a 17.459.984, pari a tutti gli abitanti di Liguria, Lombardia, Veneto, Friuli-Venezia Giulia e Trentino-Alto Adige messi insieme. Gli ultrasettantenni a 9.549.242, come tutti gli abitanti della Lombardia. Gli ultraottantenni a 4.080.881, come tutti gli abitanti dell’Emilia Romagna. Gli ultranovantenni a 769.914, come tutti gli abitanti dell’Umbria. Quanto agli ultracentenari (che un tempo alla centesima candelina richiamavano i fotografi ma oggi nel solo comune di Milano sono oltre seicento) dovrebbero essere 23.029.

Certo, moltissimi saranno in forma. L’aspettativa di vita si è allungata oltre ogni più rosea speranza, i problemi di salute che falciavano i nostri nonni si sono nettamente ridotti (uno studio sui veterani dell’esercito americano ha stabilito che un secolo fa l’80% dopo i 60 anni sviluppava una malattia cardiaca, oggi neanche la metà) ed è sempre più facile trovare vecchi com’era Bartali nei ricordi di Gianni Mura: «Una delle ultime volte l’ho visto a Milano, dove si presentava un libro su Brera, in un’osteria. Uno degli organizzatori aveva allertato un autista pensando: verso mezzanotte sarà stanco e vorrà andare a dormire. Esattamente alle 3.55, dopo aver raccontato non so quale corsa a Fabio Capello, Gino disse: "O ragazzi, qui o salta fuori un mazzo di carte o me ne vo a letto"». È fuori discussione però, purtroppo, che molti non saranno più autosufficienti. Cosa che ripropone in maniera assai più acuta il tema che sollevava trentatré anni fa il buon Domenico Modugno: «E il vecchietto dove lo metto / dove lo metto non si sa / mi dispiace ma non c’è posto / non c’è posto per carità». È vero che in Giappone, come scriveva anni fa Donald MacDowell, «esistevano un tempo le " ubasuteyama", ovvero "montagne dove abbandonare la nonna", in cui si lasciavano morire di fame e di freddo le signore anziane». Ma non sono cose ipotizzabili, grazie a Dio, neppure in una società ferocemente egoista come la nostra dove non c’è spazio per i giovani ma allo stesso tempo la figura del vecchio è stata culturalmente rimossa.

È quindi il caso di fare un po’ di conti. In questo preciso momento, secondo i dati dell’Inps, ci sono in Italia circa 700 mila «badanti» (brutta parola, che come ha scritto l’ex vescovo di Vicenza Pietro Nonis segnala un andazzo, dato che «si bada agli animali») in regola. Più quelle irregolari. Per un totale che, stando a una stima concorde dell’Istituto nazionale di previdenza, della Caritas e della Bocconi, dovrebbe essere intorno a un milione e 300mila. Probabilmente di più. Il che significa che almeno altrettante persone non sono in grado di badare da sole a se stesse. E potrebbero in tempi più o meno brevi pesare sul bilancio non delle famiglie ma dello Stato, o meglio delle regioni, aggiungendosi a quelle che già sono assistite in una casa di riposo o addirittura, dove queste sono pochissime (per insipienza o per calcolo scellerato vista la differenza delle rette: dieci a uno), nei reparti geriatrici ospedalieri. Dicono le statistiche che nel 2007 i «ricoveri per anziani» in Italia erano 4.626 (contro i 3.608 del 2001) per un totale di 222 mila (176 mila nel 2001) ospiti. Ma sono numeri che non vogliono dire niente, perché comprendono sia le strutture modello sia certi baracconi di sfruttamento del business come quelli che ogni tanto vengono smascherati e si rivelano dei veri e propri lager. In ogni caso sono pochi. Pochissimi. Basti ricordare che la stessa Lombardia, cioè una delle regioni che ha affrontato meglio il problema, ha oggi 55.112 posti letto contro un milione e 280 mila ultrasettantenni. Dei quali, secondo la Bocconi, almeno 386 mila non autosufficienti.

Il ministro Roberto Calderoli, nel luglio scorso, ricordano le agenzie, la buttava in caciara: «Chi l’ha detto che ci sono 500mila badanti e colf irregolari in Italia? La maggior parte sono badanti del sesso e della droga». Ma i numeri sono numeri: se domani mattina tutte le badanti straniere se ne andassero e le regioni fossero costrette a dotarsi di una rete di residenze per accogliere tutti i non autosufficienti lasciati soli, l’economia italiana rischierebbe il collasso. Ogni posto letto in «ricovero» (acquisto del terreno, costruzione dell’edificio, impianti, dotazione dei servizi, arredamento...) costa infatti oggi, mediamente, 130mila euro. Il che significa che, per ospitare tutti, l’investimento necessario sarebbe appena inferiore, come dicevamo, a 170 miliardi. Ma non basta. A quel punto bisognerebbe assumere gli addetti necessari all’assistenza quotidiana. Spiega Roberto Volpe presidente dell’Unione regionale istituti per anziani la quale raccoglie quasi tutte le 263 strutture del Veneto ( 28.000 ospiti, dei quali 23.500 non autosufficienti), che «se la struttura è così grossa da risparmiare sulla parte amministrativa-gestionale ne bastano 70 per ogni 100 ospiti, sennò ce ne vogliono 80».

Tanto per capirci: in condizioni ottimali dovrebbero essere assunti infermieri, cuochi, fisioterapisti, inservienti, assistenti sociali per un totale di 910mila persone. Le quali, se fossero pagate quanto paga, ad esempio, l’Opera Immacolata Concezione, una delle organizzazioni più grosse nel Nord est, peserebbero sui bilanci per 26.250 euro ciascuna. Totale: quasi 24 miliardi di euro. L’anno. E parliamo di oggi, con una quota di anziani altissima ma più bassa di quella che ci ritroveremo domani. C’è chi dirà: ipotesi estreme. Può darsi. Ma anche se i numeri fossero dimezzati, come potremo farcene carico? Risposta: ovvio, ricorrendo ai privati. Tanto è vero che il « business del nonno» sta attirando sempre più investitori. Che cominciano ad andare anche in Borsa. Ma la domanda vera è: può essere davvero conciliabile «l’affare» e un’assistenza decorosa? Roberto Volpe dice di no. Che con le rette pagate dalle regioni, che già hanno l'acqua alla gola, «ci vogliono 40 anni per rifarsi dell’investimento iniziale, edificio, strutture, arredamento». Per non dire della gestione: «Se il 70% dei costi se ne va per il personale e un altro pezzo per l’ammortamento, che cosa dai poi da mangiare agli ospiti? I nostri già sono contenti se arrivano al pareggio...». È sempre lì si torna, alla domanda amara che faceva sorridendo Domenico Modugno: «Il vecchietto dove lo metto?».

Gian Antonio Stella

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« Risposta #114 inserito:: Maggio 03, 2010, 06:34:25 pm »

I rischi del federalismo demaniale

Il patrimonio tagliato a fette

Pareva tutto facile, sulla carta. Chi mai poteva opporsi all’idea di usare meglio tanti beni statali a volte abbandonati passandoli a Regioni, Province e Comuni? È vero o no, come spiegò Giulio Tremonti, che «c’è un enorme patrimonio ed è una pazzia che sia gestito da un ufficio a Roma dove non sanno quanto vale» e dunque «è giusto che lo Stato abbia beni nazionali e simbolici ma non che faccia la mano morta al contrario su beni che hanno senso se gestiti localmente»? Macché: il «federalismo demaniale» sta incontrando obiezioni maggiori del previsto. E non solo delle opposizioni, degli ambientalisti o dei guardiani di quello che Croce chiamava «il volto della patria».

Alcuni si chiedono fino a che punto lo Stato possa trasferire agli enti locali spiagge, caserme, stazioni, terreni o edifici vari senza intaccare quel patrimonio che è la vera garanzia di «ultima istanza» per l’immenso debito pubblico. Altri, come uno studio del Servizio bilancio della Camera, confermando il rischio di «affievolire gli strumenti di garanzia dello Stato», segnalano che il passaggio «a titolo non oneroso» di tanta ricchezza immobile potrebbe impedire di destinare all’abbattimento del debito i proventi delle dismissioni visto che lo Stato è obbligato a farlo ma gli enti locali no. Altri ancora, come il direttore dell’Agenzia del demanio Maurizio Prato, ammettono scetticismo sui tempi: è plausibile che entro 30 giorni ogni amministrazione dica esattamente quali beni vuole mantenere e che entro 180 giorni arrivi il primo decreto della presidenza del Consiglio con l’elenco dettagliato di questi beni da «restituire», dicono i leghisti, al territorio? Per non dire dei contrasti tra le Regioni, che vorrebbero rastrellare tutto e redistribuire, e gli altri enti che vorrebbero al contrario che questa «restituzione» fosse diretta e senza intermediari. Insomma: un caos. Sul quale ha gioco facile chi chiede, sia a sinistra sia nella maggioranza, di veder bene i conti prima di sbagliare il passo.

Al di là degli aspetti tecnici, sui quali Calderoli è convinto di trovar la quadra («Se il debito degli enti locali rientra nel debito pubblico generale, allora anche il patrimonio degli enti locali rientra nel patrimonio pubblico») c’è qualcosa di fondo che non è chiaro: siamo sicuri che non saranno tolti al demanio certi gioielli di famiglia? Certo, il governo ha giurato che non verranno smistati i beni culturali. Ma resta quel dubbio sottolineato dal presidente stesso del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici Franco Karrer al Sole 24 Ore: «Finora, valorizzare ha voluto dire dismettere » . Cosa che Vittorio Emiliani ha tradotto brusco così: i Comuni, «indebitati dalla demagogica soppressione dell’Ici sulla prima casa, saranno portati a vendere il prima possibile».

Una forzatura polemica? Sarà... Ma è difficile immaginare un Comune con l’acqua alla gola che, potendo dire «questo lo voglio, questo no», si faccia carico di un pezzo di patrimonio da valorizzare investendo soldi che non ha. Più facile che punti a prendere tutto ciò che può sfruttare o vendere per fare cassa. La domanda chiave è: sfilati al demanio statale, tutti quei beni resteranno inalienabili e cioè di proprietà dei cittadini italiani per essere dati solo «in gestione» agli enti locali? O potranno essere ceduti anche a «fondi comuni di investimento» in cui gli enti locali possono essere soci di minoranza di privati che cercano solo l’affare? Le risposte finora non sono state nette. E finché il nuovo testo non sarà definito, come dice Italia Nostra, «è difficile scartare i peggiori sospetti».

Gian Antonio Stella

03 maggio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_maggio_03/stella_734869ae-5672-11df-ae23-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #115 inserito:: Maggio 17, 2010, 06:48:21 pm »

Gli annunci mirabolanti di Calderoli il tagliatore


E dovremmo esultare?
A leggere le mirabolanti proposte di Roberto Calderoli di un taglio del 5% dell'indennità di parlamentari e ministri come segno di compartecipazione alle sofferenze di un Paese esposto, probabilmente, a una manovra pesante, c'è da restare stupiti. Sia chiaro: ogni segnale di consapevolezza delle difficoltà è benvenuto. E non c'è dubbio che un taglio reale nelle buste paga di quelli che Einaudi chiamava «i Padreterni» sarebbe indispensabile prima che il governo infligga nuovi sacrifici ai cittadini. La proposta del ministro leghista, però, è in contraddizione così clamorosa con una lunga serie di scelte opposte da apparire, salvo radicali integrazioni, uno specchietto per le allodole. Ad esempio: il taglio del 5% (peraltro sei volte più basso di quello chiesto da una parlamentare della sinistra) va inteso sull’indennità in senso stretto o sulla busta paga vera, che comprende una serie di diarie, rimborsi, prebende? La differenza, dimostrò l’onorevole rifondarolo Gennaro Migliore facendosi fotografare con la sua prima cedola, è sostanziale: da poco più di 5 mila a 14.500 euro netti.

Se il taglio fosse, come par di capire, sull’indennità pura, il risparmio reale ottenuto con la sforbiciata su tutti i deputati e senatori (una volta tolte le tasse, che finirebbero comunque allo Stato) sarebbe di 4.800.740 euro. Una briciola, rispetto ai costi del Palazzo. Per non dire della sforbiciatina alle retribuzioni dei ministri, che sono solo integrazioni allo stipendio parlamentare: 53.040 euro. Il costo di 7 ore di volo degli aerei blu. Che come è noto, dopo la stretta in seguito alle polemiche infuocate sulla gita di Clemente Mastella col figlio a Monza, sono ripresi con un andazzo che appare perfino superiore al 2005, quando quegli aerei volarono mediamente per 37 ore al giorno costando complessivamente 65 milioni di euro. E scriviamo «appare» perché la già scarsa trasparenza su quei voli è stata totalmente abolita. Ben vengano, tagli veri alle indennità. Ma vogliamo ricordare i numeri che contano sul serio? Prendiamo il Senato. Con la proposta del ministro, resterebbero nelle casse pubbliche 1.742.860 euro. Cioè meno di un quarto di quanto Palazzo Madama costerà quest’anno in più rispetto al 2009. La scelta del Quirinale e di Montecitorio di rinunciare all’adeguamento dell’inflazione dell’1,5%, lì, non è passata. Morale: la camera alta, che pesava sui bilanci per 420 milioni 940mila euro nel 2001, ha pesato l’anno scorso per 594 milioni e 500 mila. Un’impennata complessiva in nove anni del 41,23%. Sono dati pesanti. Accompagnati da altri «dettagli» che sconcertano. Come l’inarrestabile dilagare degli spazi. Sapete quanti sono oggi, scusate il bisticcio, i palazzi di Palazzo Madama? Undici. Più i garage e i magazzini. Per un totale di 90 mila metri quadri, 280 per ogni senatore. Domanda: è vero che è interesse degli italiani che i loro rappresentanti vengano messi in condizione di lavorare al meglio, ma non saranno troppi nove ettari di uffici, buvette, emicicli, affreschi, stucchi?

C’è chi dirà: due di questi palazzi, quello di largo Toniolo e quello dell’istituto Santa Maria in Aquiro, non sono ancora a disposizione. Peggio. Infatti il primo, comprato dalla società di un senatore in carica (sic!), alla fine costerà 22 milioni ed è tuttora in ristrutturazione. Il secondo, in restauro da altri sette anni a spese dei contribuenti per 25 milioni, resterà alla fine di proprietà dell’istituto religioso che dal 2003 già incassa 400 mila euro l’anno di affitto. Ne valeva la pena? E in ogni caso: a fronte di spese così forti, è proprio normale che l’assemblea si sia riunita quest’anno in 47 giorni su 136? Certo, poi ci sono le commissioni, le missioni, tante altre attività. Ma possibile che mai una volta (mai) ci sia stata una seduta di lunedì e mai (mai) di venerdì?

In un’intervista a La Stampa, Roberto Calderoli dice: «Bisogna che cominci a pagare chi non ha mai dato o chi ha preso troppo. Le cicale, anzi le cicalone». «E cosa aspettate?» gli chiede Ugo Magri. «Stiamo già facendo. A gennaio abbiamo segato qualcosa come 50 mila poltrone negli enti locali. Poi abbiamo tagliato gli stipendi dei consiglieri regionali». Spiccioli? «Macché, in certi casi sono stati ridotti a un quinto. Arrivavano a prendere 25 mila euro mensili, ora al massimo 5 mila 400». I dati ufficiali pubblicati dalla Conferenza dei presidenti delle assemblee legislative delle regioni e le province autonome dicono una cosa diversa. Dicono che rispetto a due anni fa, quando infuriava la polemica sui costi della politica, l’unico taglio netto risulta essere quello del governatore pugliese Nichi Vendola. Tutto il resto è rimasto come prima. Quanto alle poltrone tagliate, ha già risposto l’Anci: ridurre consiglieri comunali che prendono 4 euro di gettone a seduta non risolve nulla. Quelli che pesano, piuttosto, sono i 38 mila stipendiati (a volte lussuosamente) che secondo la Corte dei conti e l’Unioncamere, siedono nei consigli di amministrazione delle società pubbliche o in qualche modo partecipate dallo Stato. Cosa è stato toccato su quel fronte e su quello delle Authorithy recentemente salite a dieci con 2500 dipendenti? Per non dire di quanti accumulano poltrone, tra i quali il recordman è Daniele Molgora, deputato, sottosegretario e presidente della provincia di Brescia. Leghista. Ben vengano, le sfuriate contro «i capoccioni vari, manager pubblici, presidenti delle authority... Gente che prende il doppio del presidente del Consiglio». Il tetto ai loro stipendi, però, c’era: circa 290 mila euro lordi. E chi fu ad abolirlo, con una serie di deroghe che lasciano spazio a tutto, se non il governo di chi oggi invoca una svolta?

Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella

17 maggio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_maggio_17/gli-annunci-mirabolanti-di-Calderoli%20il-tagliatore-sergio-rizzo-gian-antonio-stella_3b2536ca-617a-11df-a380-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #116 inserito:: Maggio 22, 2010, 10:44:35 pm »

Manovra e risparmi

La casta e le sforbiciatine


L’idea di stampare in arabo, nel 2002, una sorta di guida della Camera con tanto di copertina verde islamica sarà stata forse una botta di genio. Ma Dio sa quanto sarebbe utile una traduzione dei bilanci della politica italiana in italiano. Questa sarebbe, la vera svolta epocale. Intendiamoci, sarebbe insensato non apprezzare il taglio alle buste paga dei parlamentari e dei ministri. Tanto più dopo che Tremonti ha detto che sarà assai più netto della sforbiciatina proposta da Calderoli, quel 5% di limatura alle indennità che, mettendo al riparo la polpa delle diarie, dei rimborsi e delle prebende varie, era stato bollato anche dai giornali non ostili al governo come una «elemosina».

In un libro appena edito dalla Bocconi, «Classe dirigente - L’intreccio tra business e politica», Antonio Merlo della Pennsylvania University ha confrontato la retribuzione dei parlamentari italiani e americani. Scoprendo che durante la Prima Repubblica i nostri «risultano sottopagati rispetto ai loro colleghi» ma dal ’94 capita il contrario grazie a un aumento dal 1948 al 2006 del 9,9% l’anno. Performance strepitosa. Non accompagnata, però, da un parallelo impegno sui banchi. Ieri mattina, a «Radio24», il senatore leghista Sandro Mazzatorta ha spiegato che occorre «sfatare alcuni luoghi comuni. Si è parlato di un parlamento che lavora poco. Noi saremo un’eccezione ma arriviamo il lunedì sera e al giovedì sera siamo ancora qua». Giudichino i lettori. Dicono: ma ci sono commissioni, missioni, mille altre attività... Anche in America.

Ma il senato Usa si riunisce in assemblea 180 giorni l’anno. Il nostro, nel 2009, 114. Mai (mai) di lunedì, due volte (due!) di venerdì. Toccando in aprile il record: 7 ore d’aula. Quanto alle presenze, da decenni il tasso d’assenteismo medio d’un senatore yankee è del 3,1%, dei nostri il decuplo. Insomma, un taglio alla busta paga dei parlamentari e dei grandi manager «prima » che il governo tocchi gli stipendi e le pensioni degli italiani non è solo opportuno: è obbligatorio. Su un punto, però, quanti strillano contro «le sparate demagogiche » hanno ragione: non sarà quel taglio, per quanto sensibile, a risanare le casse. È doveroso, non risolutivo. È sul costo della politica e del suo indotto che si gioca la partita vera.

È normale, in questi tempi di vacche magre, che la Camera continui a costare un miliardo? Che il Senato abbia 11 palazzi più magazzini per un totale di 9 ettari e abbia assunto 35 nuovi commessi per rimpiazzare colleghi andati in pensione poco più che cinquantenni 15 anni dopo la riforma Dini? Che un presidente regionale guadagni fino a 175 mila euro netti contro una media dei governatori Usa di 88.523 lordi? Che i partiti ricevano fino a 300 milioni di rimborsi elettorali l’anno anche negli anni senza elezioni? Che si rastrellino voti distribuendo posti e consulenze e appalti messi in carico alla collettività? Che i costi dei voli blu siano segreti oggi inespugnabili?

Per questo, mentre Cameron a Londra insiste per rinunciare perfino alla scorta, la trasparenza «vera » dei bilanci, che spesso sembrano studiati per nascondere invece che spiegare ai cittadini come vengono spesi i soldi, sarebbe il segnale giusto... Ricorda ironico Tito Boeri che nel film «La classe dirigente» Peter O’Toole solleva un tavolo con la sola forza del pensiero e «non ci aspettiamo certo miracoli del genere». La trasparenza sì, però, ce l’aspettiamo. La trasparenza sì.

Gian Antonio Stella

21 maggio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_maggio_21/la_casta_e_le_sforbiciatine_gian_antonio_stella_07da7b26-6496-11df-ab62-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #117 inserito:: Maggio 27, 2010, 04:31:34 pm »

Il partito dei riottosi


A tutti gli italiani chiamati a stringere la cinghia, Pier Carmelo Russo fa ciao ciao: come dimostra il sito livesicilia.it, è andato in pensione da dirigente della Regione Sicilia con 6.462 euro netti al mese. A 47 anni. Grazie a una leggina isolana: doveva badare al papà infermo. Cosa che non gli ha impedito giorni dopo d’assumere il gravoso incarico di assessore all’Energia.
Mille chilometri più a Nord, i sindaci trentini, fallito il tentativo di avere la pensione, si apprestano ad avere un aumento in busta paga del 7% e i loro colleghi altoatesini non hanno alle viste alcun taglio: quello di Appiano prende 9.400 euro, cioè più di Letizia Moratti a Milano, quello di Lana 7.000, più di Rosa Russo Iervolino a Napoli. Quanto alla giunta comunale di Gorizia, ha appena tentato di autoridursi le indennità ed è stata bloccata dalla Regione: non potete farlo. Cosa c’entra con la manovra da 24 miliardi? C’entra. Come ha spiegato lo stesso Giulio Tremonti raccontando della necessità di non dare denaro, di questi tempi, a enti come il Comitato per il centenario del fumetto italiano e ad altri 231 dai profili talora improbabili, «i grandi numeri si fanno anche con i piccoli numeri». E non c’è dubbio che parallelamente ai tagli dolorosi presentati ieri, tagli che hanno guadagnato l’apprezzamento al governo delle autorità europee ma anche l’immediata rivolta delle sinistre, di una parte del sindacato, dei magistrati e altri ancora, ci son pezzi di questo Paese riottosi all’ipotesi di condividere i sacrifici.
politica e da quello che ruota intorno. Prova ne sia che la svolta più radicale, il dimezzamento dei rimborsi da un euro a 50 centesimi per ogni elettore, pare essere stato ridimensionato: forse si sforbicerà il 20%, forse il 10. Così come pare essere stato accantonato un altro segnale importante, e cioè il ripristino dei controlli della ragioneria dello Stato sui conti di Palazzo Chigi e della Protezione civile. E le misure sulle stock-options dei banchieri. Il punto è che provvedimenti coraggiosi, ustionanti e in buona parte condivisibili (vedi la lotta dichiarata all’evasione) come quelli varati, che chiedono agli italiani, dopo anni di rassicurazioni ottimistiche, di farsi carico d’una situazione pesante, richiedono la massima trasparenza. La storia ci dice che il nostro è un Paese che nei momenti più difficili sa dare il meglio. Ma deve crederci. E per crederci ha bisogno di essere rassicurato su un punto: che pagheranno davvero tutti. Nel modo più giusto.
E questa limpidezza non deve essere neppure sfiorata dal sospetto che, dietro le migliori intenzioni, si nascondano tentazioni inconfessate. E che tutta la parte «etica», inserita per dimostrare ai cittadini più colpiti che questa volta non ci sono figli e figliastri, venga goccia a goccia svuotata. Perché forse esagera il Consiglio nazionale degli architetti nel diffidare delle smentite sulla sanatoria fino a denunciare «sconcerto per il nuovo condono che incentiva l’abusivismo edilizio». Ma sarebbe insopportabile se all’ultimo secondo, in piena estate, un attimo prima di un voto di fiducia finale in Parlamento, per iniziativa di qualche misteriosa «manina», spuntasse fuori di nuovo il solito condono.

Gian Antonio Stella

27 maggio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_maggio_27/stella-partito-riottosi_781ac87a-694e-11df-a901-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #118 inserito:: Giugno 03, 2010, 04:37:07 pm »

SOLO PICCOLI TAGLI AI RIMBORSI MILIONARI

I partiti mai a dieta


E’nero su bianco: il mondo della politica sempre più bulimico e obeso non ce la fa proprio a impegnarsi in una dieta radicale. Neanche in momenti come questo. Basta leggere il decreto pubblicato dalla Gazzetta ufficiale. Certo, molti paletti in più per arginare abusi e megalomanie, soprattutto nelle periferie, ci sono. E nel faticosissimo groviglio di commi e codicilli che ridicolizza i proclami sulla semplificazione, par di capire che finalmente (salvo ripescaggi durante l’iter parlamentare…) quella leggina che anno dopo anno versava ai partiti i rimborsi elettorali per l’intera legislatura anche se questa era defunta, sarà rimossa. Bene..

Spiegare ai cittadini, e in particolare ai dipendenti pubblici, che per colpa della crisi è obbligatorio intervenire immediatamente sulle buste paga loro mentre quel taglio alla politica scatterà solo dai prossimi rinnovi del Senato e della Camera (fra tre anni), dell’Europarlamento (fra quattro) e dei consigli regionali (fra cinque, per la maggior parte) non sarà però facile per il governo. Ma come: la situazione è così grave da imporre il blocco di salari coi quali le famiglie faticano a vivere ma non così grave da bloccare i doppi pagamenti a partiti per una legislatura che non c’è più?

Vale per quella leggina, vale per il taglio ai rimborsi. Che non solo scatterà anche in questo caso negli anni a venire, ma è stato ridotto al minimo del minimo. Sia chiaro: i partiti sono tra i pilastri della democrazia. Ed è interesse di tutti che vivano. Magari non è opportuno, se vogliamo buttarla sull’ironia, che si arrivi a registrarne ufficialmente 156. Ma guai a chi li tocca: ne andrebbe della libertà. Detto questo, i nostri si sono gonfiati e gonfiati fino ad allagare la società, le istituzioni, le municipalizzate, l’economia, il calcio, il teatro, le bocciofile, tutto. E a pesare come in nessun altro posto al mondo. Ricordiamolo: ogni francese contribuisce al mantenimento dei partiti con circa 1,25 euro, ogni tedesco con 1,61, ogni spagnolo con 2,58, ogni italiano con 3 euro e 38 centesimi negli anni «normali» come il 2006, addirittura 4 e 91 centesimi negli anni grassi di doppia razione grazie all’infernale meccanismo in fase di soppressione. Un confronto inaccettabile. Tanto più rispetto a paesi come gli Stati Uniti, dove il finanziamento pubblico alle forze politiche è limitato alla campagna presidenziale: 50 centesimi ad americano. Ogni quattro anni.

Bene, se è vero che per curare uno Stato troppo ingordo occorre «affamare la bestia», anche i nostri partiti avrebbero bisogno di essere «affamati»: partiti diversi, politica diversa. Il progetto di Tremonti era ambizioso: un taglio del 50%. Poi è sceso al 30%, poi al 20%, poi al 10%... Una sforbiciata che, ammesso resista a nuovi aggiustamenti in Parlamento (ci proveranno, ci proveranno…) lascerà comunque agli italiani, in questo settore, il primato dei più «generosi ».

Ma un segnale almeno, se proprio il governo non può metter becco nei bilanci di organismi come Quirinale, Camera, Senato, poteva essere dato: l’abolizione di quell’indecente regoletta che consente a chi regala soldi a un partito di ottenere sgravi fiscali fino a 51 volte superiori a quelli che avrebbe donando il denaro a chi si occupa della ricerca sul cancro o della cura di bambini leucemici. Non era una questione di soldi: di principio. È rimasto tutto com’era.

Gian Antonio Stella

03 giugno 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_giugno_03/I-partiti-mai-a-dieta-editoriale-gian-antonio-stella_c6c2274a-6ece-11df-bfef-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #119 inserito:: Giugno 12, 2010, 11:17:33 am »

Il rischio di distruggere il Belpaese

Se il cemento seppellisce i limoni

Gela il sangue, la lettura de «La colata», il reportage collettivo edito da Chiarelettere da oggi in libreria


«Conosci la terra dei limoni in fiore, / dove le arance d’oro splendono tra le foglie scure, / dal cielo azzurro spira un mite vento, / quieto sta il mirto e l’alloro è eccelso, la conosci forse?», chiedeva estasiato Wolfgang Goethe. No, quell’Italia lì non la conosciamo più, rispondono gli autori di «La colata». Troppo cambiata, devastata, violentata.

Dai grandi speculatori, dalla cialtroneria egoista di milioni di singoli individui decisi a fare ciascuno il proprio abuso nell’indifferenza per le regole, dal cinismo di migliaia di amministratori locali disposti a svendere anche il più bel paesaggio del pianeta in cambio di un pugno di voti. Gela il sangue, la lettura de «La colata», il reportage collettivo edito da Chiarelettere da oggi in libreria e firmato da Andrea Garibaldi («Corriere della Sera»), Antonio Massari («Il Fatto»), Marco Preve («Republica»), Giuseppe Salvaggiulo («La Stampa») e Ferruccio Sansa, lui pure de «Il Fatto». Gela il sangue perché, certo, riconosce che certe aree sottoposte a tutela hanno faticosamente conservato la loro meravigliosa fisionomia e che qua e là si battono per «il bello» migliaia di comitati, associazioni, gruppi e singoli cittadini generosi e ostinati, ma dimostra anche un dato incontrovertibile. L’assalto forsennato, bulimico, insaziabile al territorio. E l’estrema arrendevolezza davanti al business (di ogni dimensione: grandi regioni / grande business, piccoli comuni / piccoli business) di governatori, assessori regionali, presidenti provinciali, sindaci, segreterie, uffici tecnici di ogni colore. Terroni e polentoni. Berlusconiani, bersaniani, bossiani..

Dalla Sicilia che ha ereditato il cosiddetto «sistema Siino» («tutto funziona alla perfezione: Cosa nostra incassa la metà delle tangenti su ogni opera. Gli imprenditori si muovono in "cartelli" in modo da pilotare gli appalti col minimo ribasso e da aggiudicarseli a rotazione. La mafia è l’epicentro di ogni mossa: cura i rapporti con la politica, con gli imprenditori, si occupa delle forniture di calcestruzzo e a volte anche dei subappalti») alla senese Sovicille (Suavis locus ille: quel luogo soave, in latino) che «circondata di storia, boschi e campagna si appresta a dare il via libera a un piano strutturale per un milione di metri cubi di costruzioni» la cui fetta più grossa, circa 830.000 metri cubi, se la mangia una variante per l’area industriale di Bellaria dove si trova lo stabilimento Novartis. Si, proprio quello del famoso vaccino contro l’influenza suina». Dagli orrori (con risvolti camorristici) di Monterusciello, la prima e sgangherata «new town» italiana, tirata su a Pozzuoli dopo il bradisismo del 1983, alla Modena di stampo rosso-emiliano: «L’architetto ed ex dirigente comunale Ezio Righi ha denunciato che oltre un milione e mezzo di metri quadrati di territorio agricolo dislocati nella zona sud, fino all’autostrada, sarebbero passati di mano recentemente e a prezzi non rapportati all’attuale destinazione d’uso. I compratori — ha detto Righi durante un convegno di Italia Nostra—sarebbero imprese legate alla Lega delle cooperative, imprese collegate ai consorzi edili privati e singoli artigiani».

Tema: non è insensato esaltare tutti i giorni il fascino dell’Italia e insieme insistere sul cemento, sui condoni edilizi, sulla politica del «laissez-faire» lasciando distruggere quotidianamente un pezzo del nostro paese? Dicono i numeri che il turismo rappresentava non molto tempo fa quasi il 12˚ del Pil e dava lavoro a 2 milioni e mezzo di persone. Ma la nostra quota, che nel 1970 ci vedeva primi al mondo, è via via scesa sotto il 5% del mercato mondiale. La classifica dell’Organizzazione Mondiale del Turismo ci ha visti nel 2009 (annus horribilis) piazzati a 43,2 milioni di arrivi contro i 50,9 della Cina, i 52,2 della Spagna, i 54,9 degli Stati Uniti e i 74,2 della Francia. C’è di peggio: secondo il Travel & Tourism Competitiveness Report 2009 del World Economic Forum, la nostra competitività turistica, rispetto dell’immenso patrimonio culturale, paesaggistico, enogastronomico, ci vede solo al 28˚ posto, dopo paesi come l’Estonia o Cipro che quel che hanno lo sanno sfruttare meglio. Sono gli altri che non ci capiscono o siamo noi che stiamo buttando via, anche esagerando col cemento (si pensi alla bella provincia vicentina nell’ultimo mezzo secolo: +32% gli abitanti, +324% la superficie urbanizzata) quelle ricchezze naturali e artistiche che ci eravamo ritrovati in dono?

Questo è l’allarme che lanciano Garibaldi, Massari, Preve, Salvaggiulo e Sansa: «Se non si ferma la colata di cemento l’Italia non sarà più il Belpaese. I danni saranno irreversibili ». Un incubo eccessivo? Non pare, a leggere il capitolo dedicato alle interpretazioni del Piano casa da parte di tante Regioni italiane, di destra e di sinistra. O quello che ricostruisce una ad una le megalomanie di quelle amministrazioni disposte a sventrare anche la campagna più ricca per costruire un nuovo circuito automobilistico o motociclistico al quale agganciare una nuova speculazione edilizia. O ancora quello dove si racconta del modo in cui una notte, a Sanremo «una zona di 72 ettari che era stata classificata come "frana attiva" da Alfonso Bellini, uno dei geologi piu noti d’Italia, con un tratto di colore diventa edificabile» nonostante tutti avessero ancora «negli occhi le immagini di via Goethe, a due passi dal municipio, trasformata dalle piogge in un fiume di fango e pietre». Un solo voto contrario, di un leghista: «Per la redazione dei piani di bacino la Provincia si rivolge a professionisti privati. Bravi, bravissimi, per carità, ma sono gli stessi che poi magari progettano operazioni immobiliari o porti turistici...». Indimenticabile il commento dell’Udc Luigi Patrone: «Io voto sì, ma da quelle parti i bambini non ce li porto nemmeno a giocare». Ecco il nodo: l’aggressione non viene solo dall’abusivismo fuorilegge. Viene anche da politiche urbanistiche suicide votate a maggioranza, «regolari», con le «pezze d’appoggio».

Ne vale la pena? Ne vale davvero la pena? Prima di rispondere, merita di essere riletta la relazione della commissione incaricata nel 1966 dal Comune di Napoli di studiare il sottosuolo: «Una lava di case ha sommerso Napoli, incredibilmente. Le colline sono state aggredite, il verde distrutto, i luoghi sconvolti dalla speculazione edilizia. A chi viene dal mare la città si presenta ormai come un grottesco presepe di cemento, aggrappato a una brulla dorsale tufacea». Per quanti pezzi di Italia si potrebbero oggi scrivere le stesse parole?

Gian Antonio Stella

11 giugno 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/cronache/10_giugno_11/Se-il-cemento-seppellisce-i-limoni-amati-da-Goethe-gian-antonio-stella_401a9cbe-751c-11df-b7f2-00144f02aabe.shtml
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