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Autore Discussione: Gian Antonio STELLA -  (Letto 185756 volte)
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« Risposta #75 inserito:: Maggio 20, 2009, 03:41:27 pm »

In un rapporto le cifre sulla competizione per la manodopera altamente qualificata.

I laureati stranieri snobbano l’Italia

Ne arrivano di più in Turchia

Sono lo 0,7% dei paesi Ocse. Molti di più i nostri «cervelli» andati all’estero


Xenofoba non per razzismo ma per pi­grizia, clientelismo, gelosia accademica e professionale. Risultato: su 20 milioni di laureati dei paesi Ocse che arricchisco­no i paesi nei quali si sono trasferiti, quelli che hanno scelto l’Italia sono lo 0,7%. Meno di quanti hanno scelto la Tur­chia. Un dato umiliante. Che emerge da un dettagliatissimo rapporto che animerà sabato a Pisa il convegno «Brain Drain and Brain Gain» (un gioco di parole sui cervelli in fuga e cervelli guadagnati) or­ganizzato alla Scuola Superiore «Sant’An­na » dalla fondazione Rodolfo Debenedet­ti con la partecipazione, tra gli altri, di Maria Stella Gelmini. Intitolato «La batta­glia dei cervelli: come attrarre i talenti» e curato da ricercatori di vari paesi (Her­bert Brucker della IAB, Simone Bertoli dell’Istituto Universitario Europeo, Gio­vanni Facchini della Statale di Milano), Anna Maria Mayda della Georgetown University e Giovanni Peri della califor­niana University of Davis), il rapporto esamina «le conseguenze della competi­zione internazionale per la manodopera altamente qualificata dal punto di vista dei paesi che ricevono i talenti». E i nu­meri, che sono sì del 2001 (ultimo censi­mento disponibile) ma sono inediti per­ché elaborati in questi mesi, ci fanno ar­rossire. Vi si spiega infatti che, a causa dell’«at­tuale sistema a quote» che «non mira a selezionare i lavoratori più qualificati», gli stranieri laureati che vivono da noi «sono il 12% del totale, di cui solo l’1,8% possiede anche una specializzazione post-laurea».

Si tratta della percentuale più bassa tra i paesi dei quali sono dispo­nibili i dati del censimento. Di più: «Gli stranieri che arrivano nel nostro Paese sono mediamente più istruiti degli italia­ni, ma meno degli immigrati che si diri­gono in altri Paesi europei, soprattutto in quelli che adottano politiche di immi­grazione selettive». Qualche esempio? In Italia ogni cento laureati nazionali ce ne sono 2,3 stranieri contro una media Oc­se di 10,45. Negli Usa ce ne sono 11 ab­bondanti, in Austria 12, in Svezia 14, in Olanda e Gran Bretagna 16, in Nuova Ze­landa 21, in Canada 25, in Irlanda 26, in Australia addirittura 44. Va da sé che il rapporto fra «cervelli» che esportiamo e importiamo è perden­te. I laureati italiani che se ne sono anda­ti a lavorare nei 30 paesi Ocse sono 395.229. Quelli che hanno fatto il percor­so inverso 57.515. Con un saldo negati­vo di 337.714 «dottori». Saldo che, an­che ad aggiungere gli 84.903 laureati arri­vati da paesi non Ocse, resta altissimo: ci mancano 252.811 «teste». Gente che, mentre importavamo mungitori di muc­che pakistani e raccoglitori di pomodori nigeriani, ha regalato intelligenza, prepa­razione, fantasia a università e istituti di ricerca e aziende e sistemi professionali meno arroccati dei nostri. Certo, non siamo i soli ad avere un sal­do in rosso. Anche la Francia per esem­pio, rispetto al panorama import-export all’interno dell’Ocse, è sotto di circa 70mila «cervelli».

La Spagna di 43mila, l’Olanda di 84mila, la Germania addirit­tura di 370mila. Ma tutte queste grandi nazioni (tran­ne la Gran Bretagna, sulla quale pesa la storica emorragia verso l’ex colonia ame­ricana) non solo attirano molti ma molti più laureati di noi ma recuperano con l’immigrazione qualificata dai paesi non Ocse fino ad andare in attivo. Peggio di noi stanno solo la Corea, il Messico e la Polonia. Quanto ai poli di attrazione, fanno in­vidia il Canada (che tra immigrati laurea­ti di paesi Ocse e non Ocse va in attivo di due milioni e 200 mila unità), l’Australia (in attivo di un milione e 520mila) e gli Stati Uniti, capaci di attrarre complessi­vamente quasi dieci milioni di «dottori» stranieri. Una forza d’urto intellettuale, scientifica, professionale impressionan­te. Che straccia ogni confronto. E che proprio in momenti di crisi quale questo rischia di pesare come l’enorme differen­za tra loro e noi. Con le nostre università piene di mogli, figli e cognati. I nostri istituti di ricerca asfissiati da conti­nui tagli di bilancio. Le nostre azien­de familiari dove il padre preferi­sce passare al figlio, magari un po’ «mona», piuttosto che affidar­si a «forestieri». I nostri Ordini sbarrati con i catenacci verso i giovani «intrusi».

Certo, quelle degli altri sono società «multietniche». Che qualcuno, da noi, guarda con fa­stidio. Ma ce la possiamo per­mettere una società ermetica­mente chiusa e protetta non so­lo dalle motovedette ma anche dai vigilantes degli orticelli scientifici e professionali in un mondo in cui, come spiegava l’al­tra settimana sul «Sole 24 ore» Giorgio Barba Navaretti, i lavoratori immigrati sono «uno ogni quattro in Australia, ogni sei negli Usa, ogni nove in Gran Bretagna e ogni quindici in Ita­lia »? Certo è che i risultati sono lì, nella tabella del rapporto di Pisa: dei 20.426.737 «cervelli» del gruppo Ocse che si sono sparpagliati per il mondo con­tribuendo alla ricchezza dei paesi prescel­ti, più della metà sono finiti negli Usa, un settimo nel Canada, un dodicesimo in Au­stralia. E solo 7 su mille (sette su mille!) hanno scelto la penisola di Leonardo Da Vinci, Antonio Meucci, Enrico Fermi che non a caso forse se n’erano andati loro pure all’estero. Fate voi i conti: di questo immenso patrimonio umano e intellet­tuale mondiale siamo riusciti ad attinge­re sette gocce: la metà della Svizzera, un quarto della Francia, un settimo della Germania, un nono della Gran Bretagna. E meno male che abbiamo il sole, Vene­zia, Capri, la pizza, il prosecco...

Gian Antonio Stella

20 maggio 2009
da corriere.it
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« Risposta #76 inserito:: Maggio 21, 2009, 10:13:48 am »

Verso il voto Le Europee / I protagonisti

La (strana) campagna di Sicilia Centrodestra contro il «suo» Lombardo

Le rilevazioni danno il Pdl oltre il 50. Dispetti e liti con il leader dell’Mpa

di Gian Antonio Stella

 
«Bedda matri, chi cavuruuu!», sbuf­fa un ciccione nella pubblicità di una rivendita di congelatori: «Madonna, che caldo!». E fa caldo davvero, in Sici­lia. Caldissimo. Tutta colpa dello scon­tro incandescente che, con la sinistra mogia mogia a fare da spettatrice, è esploso tra Raffaele Lombardo e il Po­polo della Libertà che lo ha eletto. Scon­tro definito dagli stessi protagonisti co­me «una guerra termonucleare». Al ter­mine della quale il governatore teme addirittura di fare una brutta fine... Per capirci qualcosa, bisogna parti­re dall’inizio. Cioè da quel giorno del 2005 in cui, sull’ultima trincea delle comunali di Catania, dopo una prima­vera elettorale segnata da una catena di sconfitte disastrose, il centrodestra berlusconiano trovò nel baffuto medi­co catanese che aveva lasciato la segre­teria regionale dell’Udc per mettersi in proprio col Movimento per l’Autono­mia, il «mago» capace di bloccare l’avanzata del centro-sinistra. Grandi feste, complimenti, impegni di allean­ze sempre più strette. Finché, al mo­mento di andare al rinnovo del gover­no regionale dopo l’azzoppamento giudiziario di Totò Cuffaro, il Cavalie­re pagò la cambiale. Scelta vincente: don Raffaele passò a valanga, con 35 punti di vantaggio su Anna Finocchia­ro. E la destra inondò l’Ars con 62 de­putati contro 28 del centro-sinistra.

Un trionfo. Proprio lì, però, sarebbero comin­ciati i guai. Troppa abbondanza. Troppa sicurezza. Troppi appetiti. Diventati sempre più insaziabili col progressivo smottamento della sini­stra e l’inesorabile dilagare della de­stra nei sondaggi. Al punto che l’ulti­mo di Demopolis, pubblicato ieri da La Sicilia, dà il Pd al 18%, Di Pietro al 5%, Rifondazione all’1,5%, Sinistra e Li­bertà all’1,7% (totale: poco più del 26%!) e il Popolo della Libertà oltre il 50%, con un margine di miglioramen­to tale da poter sognare il 55%. Quan­to basterebbe ai berlusconiani per fare a meno non solo dell’Udc (data al 10%) ma anche dell’Mpa. Certo, le Eu­ropee non dovrebbero avere effetto sulle giunti locali. Ma perché spartire con altri se si potrebbe farne a meno? Fatto sta che di giorno in giorno i ge­sti di ostilità intestini si sono moltipli­cati. Soprattutto dal momento in cui, qualche settimana fa, il Pdl ha scelto come coordinatore regionale Giusep­pe Castiglione, cioè l’ex europarlamen­tare e attuale presidente della Provin­cia di Catania (toccò alla Cassazione di­chiararlo decaduto per incompatibili­tà dalla carica a Strasburgo perché non trovava il tempo di dimettersi...) che il presidente regionale considera come il suo avversario numero uno. Da quel momento, botte da orbi. Accuse reciproche di lottizzazione, oc­cupazione delle poltrone, sfacciato clientelismo. «Furti» ripetuti di depu­tati regionali e consiglieri comunali e assessori provinciali altrui. Guerri­glie nei comuni con esodi di massa. Fino allo scontro totale. Di qua Casti­glione che mentre ribadiva la «leale alleanza» con l’Mpa spiegava però che dopo le Europee («puntiamo al 51%») sarà «opportuna una verifica per rafforzare il governo regionale» poiché è l’Ars, controllata dal Pdl, il «vero motore della politica siciliana» dato che «ha varato più di 35 leggi, la maggior parte di iniziativa parlamen­tare e non governativa». Di là Lom­bardo a ribattere colpo su colpo bol­lando quelli che lo hanno piantato in asso per transitare nel Pdl, quale il suo ex-pupillo Salvatore Lentini, co­me uno «stigghiularu». Cioè un ven­ditore ambulante di budella. Fino al caos. «Questo è il peg­giore governo degli ultimi quindici anni», attacca il presi­dente berlusconiano dell’Ars Francesco Cascio, invelenito per il dispetto di Lombardo che gli aveva abbattuto il «suo» pre­sidente dello Iacp. «Su Cascio po­tremmo dire verità sgradevoli», ribatte velenoso il governatore. «Lancio un concorso internazio­nale di idee per il superamento del 'cuffarismo' come sinoni­mo di clientelismo», affonda per­fido Totò Cuffaro: «Come dimo­stra la leggina che distribuiva a piog­gia 78 milioni di euro, la politica clien­telare la fa Lombardo». «Eh no!», salta su l’accusato: «Quel­la leggina non è mia: l’ha votata l’Ars, alle otto di mattina, dopo due notti in­sonni. C’erano dentro delle cose serie, ma altre regalie no. Il mio governo ave­va presentato una legge stravolta in commissione come quella sui nuovi dirigenti. La guerra nucleare col presi­dente dell’assemblea Cascio è dovuta anche a questo. Siccome il commissa­rio dello Stato ha impugnato quella leggina, lui voleva che io ricorressi contro quella impugnazione davanti alla Corte costituzionale. Io gli ho ri­sposto: no, no, no». Botta di Cascio: «Stiamo valutando dopo il commissariamento dello Iacp, se ci sono le condizioni per denuncia­re Lombardo alla Procura della Repub­blica per abuso di potere». Risposta del governatore: «Credo che nel Pdl stia facendosi strada un delirio di on­nipotenza. Chi conosce la psichiatria sa bene di che cosa parlo. Basta legge­re i giornali. Io a Cascio l’ho detto: rac­cogliete le firme e buttatemi giù». Ne è convinto: «Dietro tutto c’è la guerra alla riforma sanitaria fatta dall’assesso­re Massimo Russo. Il dimezzamento delle Asl. La fine del sistema dello sfondamento dei budget. Dicono che il mio è il peggior governo degli ulti­mi 15 anni? Per i padroni dei laborato­ri, degli ambulatori, dei centri analisi «convenzionati» della sanità che era­no oltre 1.800 il mio è il peggior gover­no degli ultimi cinquant’anni. E così per i furbi che facevano pagare i vacci­ni per la prevenzione del virus del pa­pilloma oltre cento euro invece che 43 come adesso. E per quelli che voleva­no fare i soldi con le pale eoliche...».

«Questa poi: Lombardo moralizzato­re! », ridacchiano i nemici, sbarrando l’ipotesi d’un governo istituzionale con le parole usate pochi mesi fa da Anna Finocchiaro: «Lombardo è temi­bilissimo perché ha costruito un siste­ma di potere clientelare spaventoso che ha riportato la Sicilia al Medioe­vo ». Lui, don Raffaele, nega furente: «Abbiamo toccato troppi interessi. Ec­co la verità. Troppi. Ma vado avanti. Non c’è alternativa. L’alternativa è il baratro». E spiega: «La nostra grande colpa è di batterci, a differenza degli ascari della mia stessa maggioranza, per l’autonomia della Sicilia. La Sicilia ai siciliani, diceva Antonio Canepa. Fu osteggiato, denigrato e alla fine ucci­so. Non escludo possa succedere an­che a me...».


21 maggio 2009
da corriere.it
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« Risposta #77 inserito:: Maggio 29, 2009, 12:23:39 pm »

DAL TRIONFO AL NON GOVERNO

L'assurda faida della Sicilia


«Mi sto di­verten­do mol­to », ri­dacchia Raffaele Lombar­do. Certo si divertono me­no gli sbigottiti elettori del centrodestra. Che si chiedono: com’è possibi­le che proprio lì, nell’iso­la del mitico «cappotto» alle politiche del 2001 (61 parlamentari a 0), delle 9 province su 9 oggi in pu­gno ai «moderati», del trionfo (65%) alle ultime regionali, sia scoppiata nella coalizione, a pochi giorni dalle Europee, la «guerra termonucleare»? Perché così è stato defi­nito dai suoi stessi prota­gonisti lo scontro che sta squassando la traboccan­te maggioranza (61 seggi contro 29) che potrebbe dominare incontrastata l’Assemblea Regionale Si­ciliana: una «guerra ter­monucleare ». Dove da settimane i protagonisti si scambiano insulti d’ogni genere, da «slea­le » a «farabutto», da «de­lirante » a «stigghiularu», venditore ambulante di budella. Dove velenosi di­spetti avevano esclusi dal ricevimento in onore di Napolitano in visita perfi­no il presidente del Sena­to Renato Schifani e il Guardasigilli Angelino Al­fano. Dove un sotto-se­gretario alla presidenza del Consiglio, Gianfranco Miccichè, in rotta coi ver­tici del Pdl, arriva a dire: «Mi dovranno sparare per fermarmi».

Per non parlare dello stesso governatore che, vittima anni fa dell’intimi­datoria affissione di ma­nifesti listati a lutto, si è spinto a evocare la lonta­na e oscura uccisione del­l’indipendentista Anto­nio Canepa: «Non esclu­do di fare la stessa fine». Parole che, in una terra segnata da una spavento­sa catena di delitti «politi­ci », non vanno prese troppo metaforicamente. Cosa succede? Il nodo, forse, è proprio nell’ec­cesso di sicurezza d’una coalizione che da tempo, anche a causa di una sini­stra via via evaporata in un lamento vittimista («perché i siciliani non ci capiscono?») e ridotta qua e là a numeri di testi­monianza, vince ogni ele­zione a mani basse. E non sembra avere ormai altri avversari che se stes­sa. La rivendicazione del rapporto esclusivo con Roma. La voglia di affer­mare un tasso più alto di combattività sicilianista. Gli appetiti insaziabili di notabili che controllano ettari di territorio, bloc­chi di contrade, pezzi di partito, pacchetti di voti. Scommettiamo: anche per il Cavaliere sarebbe meglio un’opposizione più forte che una guerra tra galli per il dominio di un pollaio.

«Zucchero non guasta bevanda», ha detto mesi fa il sindaco uscente di un paese agrigentino con un «comunale» ogni 13,7 abitanti, spiegando che se avesse potuto avrebbe assunti altri dipendenti ancora. Ecco: può darsi che a ricandidare uomini così si possano vincere le elezioni. Ma poi? Non ba­sta vincere e neppure stravincere: poi occorre governare. Questa è la le­zione che arriva da Paler­mo. E in un momento di difficoltà come questo in cui più acute si fanno le gelosie dei «lumbard» sui soldi «dovuti» al Nord e di Lombardo per quelli «dovuti» al Sud, lo spettacolo indecente of­ferto dalla insanabile fai­da dentro la trionfante ma litigiosissima destra isolana, al di là delle ra­gioni e dei torti, esige una risposta. Che non va data solo ai siciliani.

Gian Antonio Stella
29 maggio 2009

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« Risposta #78 inserito:: Giugno 08, 2009, 11:02:41 am »

La «Presa del Veneto» era l’obiettivo del Carroccio

«Abbiamo espugnato Codognè»

La notte del Grande Sogno leghista

Esultanza dopo i primi risultati. La battaglia per la guida della Regione


«Espugnata Codognè!». I leghisti lo sanno bene che forse non basterà aspettare le ore piccole della notte per sapere se si realizzerà o meno il Gran­de Sogno: la Presa del Veneto. Sanno che non basta quel punto o punto e mezzo in più a livello nazionale per ca­pire se il Carroccio sia riuscito nelle «missioni» additate da Bossi di sorpas­sare il Pdl nelle terre di San Marco, ri­conquistare antiche roc­caforti perdute e rompe­re gli argini che fino a ie­ri gli impedivano di di­lagare nelle «terre infe­deli » a sud del Po. Basta un piccolo dettaglio, pe­rò, per seminare l’entu­siasmo: «Primi dati da Codognè, vicino a Cone­gliano: eravamo più o meno alla pari con i berlusconiani. Adesso siamo il doppio!!!». Esulta Luca Zaia, esulta Gian Paolo Gobbo, esulta Flavio Tosi: e vai!!! Co­me finirà è da vedere.

Ma in ogni caso la scommessa di otto anni fa, per Um­berto Bossi, pare questa notte vinta. «La Lega è ormai una forza agli sgoc­cioli, un movimento che va verso il dissolvimento. Non lo dico io, lo dico­no i numeri», sentenziava Marco For­mentini subito dopo la botta presa dal Carroccio alle Politiche del 2001. E' passata una manciata di anni, da allora. Eppure, questa sera, via via che arrivano i primi risultati, pare passato un millennio. La scelta bossiana di ab­bandonare l'isolamento secessionista per tornare ad allearsi con quel Silvio Berlusconi che solo poco tempo prima aveva marchiato come «quel brutto mafioso che guadagna i soldi con l'ero­ina e la cocaina» pareva non essere sta­ta digerita affatto dagli elettori. Frane in Lombardia, smottamenti in Piemonte, sfaldamenti in Liguria. Posizioni di trincea sempre più deboli nelle grandi città: da Genova a Torino, da Venezia a Milano. Perfino le rocca­forti storiche avevano ceduto di schianto: dalla maggio­ranza assoluta a meno del 30% in Val Bremba­na e in Val Seriana, 18 mila voti persi soltanto nella bergamasca Zo­gno, traumatico dimez­zamento in tutta la pro­vincia orobica: dal 43 al 21%. Perfino Pontida, là dov’era il «prato sacro» del giuramen­to, aveva «tradito» il Carroccio: da ol­tre il 50 al 28%.

Per non dire del Nordest. Dov’era nata, con la Liga Veneta del «Leòn che magna el teròn», la Madre di tutte le Leghe. Quindicimila voti persi nel so­lo collegio di Treviso-Mogliano consi­derato fedelissimo, 25 mila a Thiene, 21mila a Bassano, 22 mila ad Arzigna­no. Un disastro. Costato alla Lega il mancato raggiungimento del quorum del 4%. Umiliante. Non era facile, per Bossi, tenere la barra diritta sulla rotta che aveva scelto e pareva averlo porta­to sulle secche. La tenne: «Da oggi in avanti si gioca una partita importantis­sima. Ho scommesso sul cambiamen­to e ho pagato un prezzo tremendo. Non posso permettermi passi falsi». Otto anni dopo, ecco la rivincita. Che nella notte pare profilarsi più net­ta proprio in quel Veneto che ha avu­to spesso con il leader del Carroccio un rapporto tormentato, di grandi amori e grandi delusioni, sfoghi di ge­losia e ritorni di fiamma.

Non è stato semplice, per l’Umberto, «domare» la Liga che rivendicava la primogenitura delle battaglie identitarie, le prime conquiste di seggi comunali, la prima elezione di due parlamentari a Roma. Baruffe, scissioni, accuse velenosissi­me al Senatur («Ormai è come Hitler nel bunker con Erminio 'Obelix' Bo­so al posto di Eva Braun. Certo, Boso non ha la stessa femminilità ma ama il Capo con la stessa 'vis amandi'» si­bilò Franco Rocchetta). Non è stato semplice far digerire ai veneti l'egemo­nia politica dei varesotti e dei berga­maschi, riequilibrata solo da qualche carica più o meno onorifica a Stefano Stefani. Non bastasse, dopo aver vinto il braccio di ferro interno, Bossi si era ri­trovato a battersi col più ostico degli amici-nemici. Quel Giancarlo Galan che in questi anni, pur governando il Veneto con lo scomodo e irrequieto appoggio leghista, non ne ha rispar­miata una alla Lega. Basti ricordare gli scontri innumerevoli con Giancarlo Gentilini, come quello dopo l’incita­mento dello «sceriffo» trevisano a pro­cedere a una «pulizia etnica dei culat­toni ». I veleni contro Roberto Calderoli, reo di averlo liquidato come un gover­natore che «preferisce dedicarsi alla pesca del tonno»: «La storiella di me che passo il tempo a pescare i tonni è vecchia di circa vent'anni. Ad inventar­la sono stato io allo scopo di evitare i fastidi e le idiozie della politica dei vuoti a perdere e dei politici sconditi, senza nemmeno cioè un granello di sa­le ». Il rifiuto di appoggiare la battaglia «padana» per la Malpensa: «E' impen­sabile che un turista arrivi fino a Vare­se per venire a Venezia».

S’innesta lì, la battaglia tra Pdl e Le­ga per la supremazia nel Veneto, ante­prima della battaglia per la conquista della guida della Regione: nel duello che va avanti da anni tra il Carroccio e il Governatore azzurro. Il quale ha pre­so talvolta le parti del Carroccio perfi­no contro il proprio partito (come quando liquidò la scelta del candidato scelto per le Comunali di Verona: «Sia­mo pazzi? Meocci è un ottimo candida­to, Tosi è splendido») ma da tempo si batte sullo stesso terreno («Ho scosso per anni il pero da solo, i leghisti han­no colto i frutti») cercando di strappa­re spazi e quattrini e potere a Roma per proprio conto. Fino a teorizzare la fondazione, un paio di anni fa, di un partito territoriale sul modello della Csu bavarese, una specie di Forza Ve­neto. Fino ad attaccare recentemente lo stesso esecutivo berlusconiano sui soldi dati a Catania, a Roma o a Paler­mo: «Questo governo si sta meridiona­lizzando ». E fino a lanciare contro i le­ghisti, come ha fatto nel libro «Il Nor­dest sono io» sfogandosi con Paolo Possamai, accuse pesantissime per un alleato: «Usano a volte toni e parole di volgarità indegna, inaccettabile, a trat­ti bestiale». E' lì, ha confidato più vol­te agli amici in questi anni, che non si sente capito dai suoi. «Se i miei non capiscono — aveva confidato l'anno scorso a Possamai — la volta prossi­ma voterò Lega pure io».

Gian Antonio Stella
08 giugno 2009

da corriere.it
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« Risposta #79 inserito:: Giugno 09, 2009, 10:36:44 am »

Oltre la Padania L’onda di piena del Carroccio

La Lega Nord supera i «confini celtici»


«Sono un medico e da medico so che se la cancrena avanza occorre amputare l'arto: mi fermerei a Pesaro. Un colpo di forbice, e non necessariamente sterilizzata ».
Così Roberto Calderoli teorizzava anni fa i confini della Padania. Oggi, scommettiamo, non lo direbbe più. Tanto più che quello che pareva impossibile è successo: alle Europee l’onda di piena della Lega Nord ha cominciato ad allagare l’Emilia, la Romagna, la Toscana, le Marche e a bagnare perfino l'Umbria, l’Abruzzo, il Lazio. Umberto Bossi, in verità, aveva scommesso sulla conquista di Roma nel lontano ottobre 1993, quando Silvio Berlusconi non aveva ancora annunciato la discesa in campo. Riempì la sala convegni dell’Hotel Nova Domus e avvertì: «Abbiamo già la maggioranza in almeno dieci regioni italiane». Quindi annunciò: «Entro tre anni Roma sarà nostra ». Perché tre? «Perché è un bel numero ». Esulta oggi Calderoli: «Questo risultato elettorale rappresenta il record storico per la Lega Nord che supera persino la percentuale ottenuta nelle Politiche del 1996 e che va oltre il raddoppio dei voti rispetto alle precedenti Europee del 2004».

Certo, tredici anni fa, dopo una campagna elettorale incandescente condotta nel nome della secessione («Due Stati, due casse, due monete», tuonava l’Umberto: «Pur di avere la Costituente e il federalismo sono pronto a mandare a picco il Paese») il Carroccio era arrivato conquistare addirittura 3.776.354 voti: quasi 700mila (l’astensione fu allora meno massiccia di sabato e domenica) più di questa volta. Ma a parte il primato percentuale assoluto, la novità che fa gongolare i leghisti, inquieta i pidiellini e toglie il sonno ai democratici, è lo sfondamento oltre i confini tradizionali. Quadruplicati i voti nel Lazio (dallo 0,23 all’1,06%) e in Abruzzo (1, 3%: più della Destra di Storace), il partito del Senatur conquista il 3, 6% (come Sinistra e Libertà, molto più dei radicali) nell’ex «rossa» Umbria e addirittura il 5,5% nelle Marche: più di Rifondazione Comunista. O se volete quanto i vendoliani, i verdi e i pannelliani messi insieme. A parte i risultati in Liguria (9, 9%), Val d’Aosta (4,4%) e Trentino Alto Adige (9,9%) nonostante gli spazi per un partito autonomista siano lì ridotti dalla presenza di partiti di raccolta delle minoranze linguistiche, la grande sorpresa è costituita dall’irruzione sotto il Po. È vero, i leghisti hanno buoni motivi per festeggiare anche il recupero in Piemonte, dove nel 2001 erano ridotti a una forza marginale e oggi stappano bottiglie di spumante per celebrare il 15,7%. Così come hanno buoni motivi per consolarsi con il 17,4% in quel Friuli Venezia Giulia dove la loro Alessandra Guerra aveva perso male sei anni fa la sfida contro Riccardo Illy. Per non dire del 22,7 in Lombardia e dello strabiliante 28,4% nel Veneto.

Il governatore azzurro Giancarlo Galan può a buon diritto sorridere della vittoria sul filo di lana (poco meno di un punto percentuale di distacco) che gli consente di versare sale sulle ferite di quei leghisti come il sindaco di Verona Flavio Tosi («Supereremo il Pdl in modo assai più netto di quanto non si pensi») che si erano più sbilanciati sul sorpasso che avrebbe dovuto preludere alla successiva conquista della presidenza della giunta: «Vi ricordate di quel detto che canta "per un punto Martin perse la cappa"? — chiede sferzante Galan —. Quel punto in più, dalle nostre parti, è andato al Pdl del Veneto, e dunque il commento potrebbe essere: "è la democrazia, bellezza"». Giusto così: le gare si vincono e si perdono. E i numeri dicono che ha vinto lui. Che da tempo cerca di superare per proprio conto un handicap: reggere la sfida nella contrattazione con Roma anche se «ovviamente è molto più credibile sul terreno del federalismo e dell’autonomia un partito territoriale piuttosto che un partito, come per esempio anche Forza Italia, costretto a parlare la stessa lingua da Cefalù a Merano». Quegli stessi numeri veneti, tuttavia, dicono che l’onda di piena leghista ha travolto alcuni comuni con percentuali «bulgare». Che ricordano il record fatto segnare da Riva Valdobbia, la minuscola contrada della Valsesia che alle politiche 2008 vide la Lega raccogliere il 69,34% dei voti che sommati al 14,6% del Pdl portò il totale a uno stratosferico 83,94%. Basti pensare a Chiarano, che ha registrato alle ultime comunali la vittoria del candidato leghista, il senatore Giampaolo Vallardi, con il 76,7% contro il 23,4% del candidato ibrido sul quale avevano concentrato i voti sia i pidiellini sia le sinistre. Un trionfo tale che qualche avversario politico ha ribattezzato sovieticamente il paese, per la «dittatura democratica» leghista, «Chiaranov ». La grande svolta, però, come si diceva, resta l’irruzione in alcune aree che fino a poco tempo fa sembravano impenetrabili.

La Toscana, per esempio. Dove il Carroccio sa oggi d’avere il 4,3% su scala regionale (quanto l’Udc) con punte del 5,2 % a Pistoia, 5,4% a Massa Carrara, 5,7% ad Arezzo, 6% a Lucca e addirittura 6,2% in quella Prato dove più forte sono sentite la crisi e le difficoltà di confronto con la comunità cinese. Ancora più vistosa l'invasione in Emilia- Romagna. Dove la Lega Nord si incunea nella roccaforte rossa dell’Appennino bolognese arrivando quasi al 10% a Porretta Terme, sede ogni anno del celebre festival del jazz al quale spesso partecipato il tastierista del «Distretto 51» Bobo Maroni, al 14,2% a Monghidoro (il paese di Gianni Morandi), al 15% a Savigno, celebre per il tartufo. Ma se la provincia di Bologna riesce a contenere complessivamente l’incursione al 7,3%, molto più permeabili si rivelano i confini delle altre. In particolare quelli di Modena (10, 8%), Reggio Emilia (13,2%), Parma (14,9%) e soprattutto Piacenza. Dove il Carroccio arriva quasi al 17%. Con punte del 20% a Caorso, del 23,3% a Carpaneto, addirittura del 27,2% a Besenzone. Un allargamento che forse i protagonisti della Lega, quando discettavano anni fa su quale fosse la «loro» frontiera («Direi che i confini corrispondono più o meno alla zona in cui esisteva l’area celtica, diciamo da Senigallia a Lucca», sostenne Bossi a Mixer) non osavano neppure sognare. E che ripropone oggi quel tema caro ai cuori leghisti: fin dove arriva, esattamente, la mitica «Padania»? Memorabile resta la risposta che diede Erminio «Obelix» Boso: «Mi pare che Bossi e Borghezio allarghino troppo i confini. Io ho applicato il metodo del fagiolo. Ho fatto così: ho preso un fagiolo borlotto e l’ho messo sulla carta geografica: arrivava fino ai confini dell’Emilia». Macché. Il fagiolo, a questo punto, potrebbe perfino essere più grosso...

Gian Antonio Stella
09 giugno 2009

da corriere.it
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« Risposta #80 inserito:: Giugno 10, 2009, 03:32:20 pm »

Così il pdl non È il primo partito a Strasburgo

I voti smarriti dal centrodestra

Tra i veleni del caso Sicilia

Il rammarico del premier per le liti che gli hanno tolto quasi un milione di consensi.

Poi l'incontro con Lombardo
 

«A mmmia!». Se non fosse un milanese fiero della sua milanesità al punto di dire che «bisogna avere la scighera (nebbia) nei polmoni» e che a palazzo Chigi «l'è un laura' de la madona» e che i politici di professione sono dei «faniguttùn», Silvio Berlusconi potrebbe sintetizzare la sua collera contro i siciliani in due parole: «A mmmia!». Più ci pensa, dicono, più gli monta dentro la rabbia. L'aveva detto chiaro e tondo: voleva fare un figurone, alle elezioni. Testuale: «Dobbiamo dare un drizzone a questa Europa». L'aveva ripetuto nel messaggio video urbi et orbi fatto distribuire in campagna elettorale: «Abbiamo davanti una sfida: dobbiamo diventare il primo gruppo popolare nel Parlamento Europeo per incidere sulle sue decisioni». E com'è finita? I numeri sono impietosi: il gruppo più robusto nel Ppe sarà la Cdu di Angela Merkel con 42 deputati, il secondo sarà l'Ump di Nicolas Sarkozy con 30 e il Pdl non solo sarà terzo (come il Milan in campionato!) ma con un solo parlamentare in più rispetto alla Platforma Obywatelska del polacco Donald Tusk, nonostante alla Polonia spettassero 22 seggi in meno rispetto ai 72 assegnati all'Italia. Seccante.

Di più, aveva chiesto un acquazzone di voti personali: «Se dovessi raccogliere milioni di preferenze avrei ancora più autorevolezza, perché nessun altro leader europeo potrà contare sui voti che immagino di poter avere». E per essere sicuro che tutti capissero aveva precisato: «Non vorrei che gli elettori che hanno intenzione di votarmi si limitassero a barrare il simbolo: per votare Berlusconi va scritto il nome nell'apposito spazio e possibilmente in bella calligrafia». Mettetevi dunque al posto suo, in queste ore in cui ribolle d'ira convinto d'aver fallito i due obiettivi per colpa «di Veronica, di Kakà e della Sicili». La Sicilia! La regione del «cappotto» (61 parlamentari a 0) alle politiche del 2001! Delle 9 province su 9 governate dalla destra! Dei 61 seggi contro 29 all'Ars! Come è possibile, frigge il Cavaliere, che la Sicilia l'abbia tradito regalandogli solo 362mila preferenze e cioè quasi un milione in meno dei voti pidiellini (1.316.000) alle politiche 2008? Com'è possibile che, dopo quelle pubbliche sviolinate che lo mettevano «in imbarazzo», solo il 52% degli elettori isolani del Pdl gli abbia dato domenica la preferenza?

Perfino Rita Borsellino, in proporzione ai voti del proprio partito, lo ha battuto! La Borsellino! Per non dire del fastidio d'avere scoperto che la guerra intestina dentro il partito, combattuta a colpi di preferenze date agli amici e ai compagni di cordata, l'aveva esposto a battersi in quel di Catania, come ha notato Marcello Sorgi, con uno sconosciuto di nome Giovanni Lavia. Ma chi è, 'sto pidiellino che per ore ha osato avere quasi le stesse preferenze di Sua Emittenza? Il fatto è che il Cavaliere seduttore per una volta era stato sedotto lui da mirabolanti promesse. Basti rileggere quanto avevano detto poche settimane fa i potentissimi alfieri locali Carmelo Briguglio e Giovanni La Via, i quali discettavano trionfanti che «le regole della democrazia non consentono a un minuscolo partito, com'è quello del presidente Lombardo, di imporre scelte di governo non condivise» e dunque dopo le Europee si sarebbero fatti i conti dato che «l'unico grande impegno» del partito, data per scontata una schiacciante vittoria, era «quello di raggiungere il 51%». Obiettivo ribadito dal coordinatore regionale Giuseppe Castiglione: «Il Pdl avrà un grandissimo consenso». E confortato da sondaggi spettacolari come quello di Demopolis che due settimane prima del voto sentenziava: «Il nuovo Pdl siciliano, con le sue diverse componenti, ha oggi per le Europee un voto certo del 46%, ma un bacino potenziale senza precedenti, che sfiora il 55%».

Come osava, Lombardo, a mettersi di traverso a un partito del 55%? Macché: 36,6%. Quasi venti punti in meno che nei sogni. E solo 692.340 voti. Cioè oltre seicentomila meno che alle politiche 2008. Col risultato finale che il Pdl, da quell'isola considerata il «granaio azzurro», manderà a Strasburgo la miseria di due parlamentari. Due su sei euro-deputati siciliani. In una terra dov'era convinto di avere oltre la metà dei consensi. Cosa succederà, adesso? C'è chi è pronto a scommettere che Berlusconi, anche se non subito per non acuire le tensioni peggiorando l'immagine di rissosità interna, potrebbe tagliare qualche testa. A cominciare da quella di chi gli aveva fatto credere di avere in pugno un trionfo storico esponendolo nella roccaforte isolana (lui, «col gradimento del 75% degli italiani») alla figura non simpatica di raccogliere la preferenza di un votante siciliano su sei. Molto dipenderà comunque dal modo in cui andrà l'incontro che il leader del Pdl avrà oggi o domani con Raffaele Lombardo. Cioè l'uomo che prima lo ha tolto dai pasticci facendogli vincere le comunali di Catania nel momento in cui Forza Italia e la destra erano in crisi dopo aver perso a ripetizione tutte le elezioni della primavera 2005, poi gli ha fatto stravincere le Regionali dell'anno scorso e adesso lo ha inguaiato, proprio alla vigilia del «drizzone all'Europa», facendo saltare il banco, azzerando la giunta, spaccando il Pdl e buttando fuori i pidiellini legati da quello che Gianfranco Micciché chiama il «patto del pistacchio».

Vale a dire l'accordo anti-lombardiano stretto a Bronte, il cuore dell'«oro verde», da Renato Schifani e Giuseppe Castiglione. Il governatore siciliano l'ha già detto: «Non cederò di un millimetro». E tanto per non concedere spazio a equivoci, non lascia passare giorno senza sparare a zero sul governo. Prima sfogandosi con Famiglia Cristiana: «Si rende conto che, mentre il Sud è in ginocchio, viene sollevata la questione del Nord come unica questione nazionale? Ma siamo impazziti?». Poi infilzando il coltello là dove il Premier è più sensibile: «Il ponte di Messina? Ma come potrà essere posta la prima pietra se manca il progetto esecutivo? Basta con la politica degli annunci nei confronti del Sud!». Poi denunciando che «il Mezzogiorno è scomparso dall'agenda del governo» e avvertendo che darà vita a un «Partito del Sud» perché «è il momento di pensare solo al Mezzogiorno». Tutte parole che, dopo i trionfi della Lega al Nord, rischiano di gonfiare nuvoloni neri sul futuro della destra nonostante i larghissimi numeri parlamentari. Tema: è possibile accontentare insieme Lombardo e i Lumbard?



Gian Antonio Stella
10 giugno 2009

da corriere.it
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« Risposta #81 inserito:: Giugno 12, 2009, 07:19:25 pm »

Il popolo, le sedie e la democrazia


Più sedie per tutti! Invitato «dar rettore d’a Sapienza» Luigi Frati, in «roma­nesc-english» con auto-traduzione simulta­nea, a spiegare cos’è l’essenza della democra­zia, Sua Altezza Serenissima Muammar Gheddafi ha vinto l’immensa noia che pare­va inchiodarlo per concedere il suo pensiero. Punto primo, basta partiti: «Il partitismo è un aborto della democrazia». In realtà «il popolo si vuole sedere sulle sedie ». Faceva un caldo beduino, alle due del pomeriggio, nell’aula magna dell’ateneo romano. Aria pesante, effluvi di sudore, camicie appiccicaticce, cravatte slacciate. Telefonate impazienti al Senato: «Allora?». Niente. «Allora?». Niente. «Allora?». Niente. E via via che scorreva il tempo, si affollavano gli incubi. Mai stato puntualissimo, il Colonnello. C’è chi ricorda l’attesa inflitta a re Abdallah di Giordania, lasciato lì ai piedi della scaletta dell’aereo sotto un sole furibondo.

Chi le tre ore e mezzo in sala d’attesa imposte a Oriana Fallaci, che ne ricavò furente l’idea che Gheddafi «oltre ad essere un tiranno è un gran villanzone». Chi le cinque ore irrogate a Ilaria D’Amico. Per non dire del «bagnomaria » al quale fu sottoposto quattro anni fa il ministro degli Esteri spagnolo Miguel Ángel Moratinos: dieci ore. E tutti a boccheggiare: dieci ore! Ma ecco che, con due ore soltanto di ritardo, in mezzo a una folla di decine di guardie del corpo, mentre nell’aula arrivano gli echi delle contestazioni all’esterno, il Raìs libico si materializza. Ampia veste gialla, capelli prodigiosamente neri, gesti lenti. L’hanno chiamato a tenere una «lectio magistralis»? Il figlio dell’appuntato dei carabinieri che, come scoprì un giorno Francesco Cossiga, era in servizio alla caserma di Zuara, non si sottrae. Anzi. Spiega che bisogna riscrivere i libri di storia per tutti gli studenti occidentali. Che «in Libia ogni famiglia ha avuto un parente ucciso, ferito, deportato». Che «il terrorismo è condannabile perché fa vittime innocenti ma occorre chiedersi: qual è il motivo? I residui del colonialismo ». Ricorda lo scontro sulle vignette su Maometto: «Cosa c’entrava la Scandinavia con Maometto? Se credi in Gesù devi amare Maometto perché Gesù disse: dopo di me verrà Maometto. Ed ecco che è spuntato il terrorismo». Un momento, dirà qualcuno: non sono venuti «prima» delle vignette gli attacchi alle Torri Gemelle e gli attentati a Madrid e quelli a Londra? Dettagli. «L’Europa ha colonizzato l’Africa, ha rapinato l’oro, i diamanti, il rame, la frutta... ».

Per questo, dice, il mondo occidentale dovrebbe seguire l’esempio dell’Italia: «Chiedere scusa e restituire quello che ha preso». Questo vuole dai grandi del G8: «Avete pompato tanti soldi nelle banche? Pompateli in Africa». Luigi Frati gongola, annuisce, consente. E porge infine la parola agli studenti. Si alza uno dall’aspetto perbenino e rassicurante. Macché, va diritto sugli immigrati respinti sui barconi: «Come vengono rispettati, in Libia, i loro diritti?». L’interprete: «Quali diritti?». «I loro diritti». «Quali diritti?». «I diritti!», gridano due o tre in sala: «I diritti politici». L’interprete si china sul Raìs, che si scuote: «Quali diritti?». E si avvita a spiegare che, per carità, la domanda fa onore a chi l’ha posta ma «gli africani sono degli affamati, non dei politici, gente che cerca cibo». E i dittatori? «Non ci sono dittatori, in Africa... La dittatura c’è quando una classe sta sopra un’altra. Se sono tutti poveri...». Stringe gli occhi a fessura e affonda: «Volete un milione di rifugiati? Ne volete venti? Cinquanta? Sarebbe una grande cosa...». Ma ecco una studentessa che dice d’aver letto il libretto verde. Plaude: «So che fate tanto, per le donne». Ah, dice il Raìs: grandi spazi! E invita a farsi avanti le «amazzoni » bellocce e grintose che gli fanno da body-guard. Ammazza!, sbotta er rettore: «Le abbiamo apprezzate molto! Purtroppo c’è qui mia moglie e...». Il massimo, però, arriva quando gli chiedono cosa pensa della democrazia e quando in Libia, finalmente, ci saranno libere elezioni. Risposta: «La democrazia è una parola araba che è stata letta in latino ».

Ma come, non viene dal greco demos (popolo) e kratos (potere) come studiamo da secoli? No: «Demos in arabo vuol dire popolo e crazi vuol dire sedia. Cioè il popolo si vuole sedere sulle sedie». Testuale sbobinato: «Se noi ci troviamo in questa sala siamo il popolo, che si siede su delle sedie, e questa andrebbe chiamata democrazia, cioè il popolo si siede su delle sedie. Se noi invece prendessimo questo popolo e lo facessimo uscire fuori, se avessimo invece preso dieci persone e le avessimo fatte sedere qua, scelte dalla gente che stava fuori, e loro invece sono seduti qua, quei dieci, questa non sarebbe da chiamarsi democrazia. Questa si chiamerebbe diecicrazia. Cioè dieci sulle sedie. Non è il popolo a sedersi sulle sedie, questa è la democrazia. Finché il popolo non si siederà tutto sulle sedie, non ci sarà ancora democrazia». Quindi? «L’alternanza del potere vuol dire che c’è gente che si prende e si trasmette il potere tra di loro. Se ci fosse democrazia non ci sarebbe un’alternanza di potere. La democrazia significa il popolo che detiene il potere. Come fa a consegnarlo a uno?». Quindi perché mai i libici, che hanno già quella democrazia piena di sedie, dovrebbero «regredire » al sistema occidentale? «Auguriamo che la raggiunga anche il popolo italiano...». Grazie, Colonnello. Troppo buono.

Gian Antonio Stella

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« Risposta #82 inserito:: Giugno 24, 2009, 10:39:39 pm »

Tuttifrutti

Quel rischioso gusto della battuta

Il ruolo istituzionale prevalga sull'istinto guascone



Si sarà mangiato la lingua in questi giorni, Silvio Ber­lusconi, ripensando alla battuta fatta sulla Freccia Rossa nel viaggio inaugurale da Milano a Roma. A un certo punto, come scrisse Tommaso Abate sul Riformista poi ripreso senza smentite da «Dago­spia», si avvicinò con una piccola corte al seguito all’allora primo cittadino di Firenze Leonardo Domenici che era ac­canto a Vasco Errani: «Adesso facciamo divertire il sinda­co ». Si toccò il berrettino con la visiera col quale sarebbe apparso il giorno dopo su tutti i giornali e ammiccò: «Allo­ra, vi piace il presidente ferroviere?». E, mentre quelli ab­bozzavano una risposta, li fulminò con una risata: «Io inve­ce preferisco il presidente puttaniere». Parole che, a rileggerle adesso...

Per carità, era solo una battuta. Forse un po’ greve e scalo­gnata, visto il seguito, ma una battuta. E può darsi che, a dispetto di Domenici che sorridendo conferma tutto, il Ca­valiere si possa affrettare ora a smentire. Sono passati tre mesi? Niente paura. «Le smentite non hanno scadenza» dis­se qualche anno fa Gianfranco Fini negando a distanza qua­si di un decennio di aver mai detto alle Iene non solo che «Mussolini è stato il più grande statista del secolo» ma an­che che Berlusconi «per egua­gliare il Duce dovrà pedalare parecchio...». «Una smentita è una notizia data due volte» spiegava Giulio Andreotti: in genere lui preferiva lasciar per­dere. Il fatto è che il premier, que­sto suo amore per le battute do­vuto a un carattere che Gianni Baget Bozzo definiva «gioco­so », l’ha già pagato caro più volte. Basti ricordare le polemi­che seguite alle sue parole a Martin Schulz: «Signor Schulz, so che in Italia c'è un produt­tore che sta montando un film sui campi di concentramen­to nazisti. La suggerirò per il ruolo di kapo». Polemiche che liquidò, infischiandosene delle riprese televisive che mo­stravano lo sconcerto degli europarlamentari, dicendo: «Era solo una battuta per cui è scoppiato a ridere l'intero Parlamento».

Per non dire di altre sortite quali quella sui suoi sforzi per portare a Parma l’authority alimentare: «Ho rispolvera­to le mie doti di playboy con il presidente finlandese Tarja Halonen». Spiritosaggine seguita ancora da polemiche ro­venti: «Purtroppo c'è in giro una generale mancanza di umorismo». È possibile che lo dica di nuovo. È difficile però dissenti­re da quanto scrisse Giuliano Ferrara, che lo stima e gli vuo­le bene, dopo la battuta su Obama abbronzato: «Dovrebbe più spesso subordinare l'istinto guascone al proprio ruolo istituzionale, sedimentato sull'esperienza personale e sul consenso di chi lo ha votato perché faccia il premier e non il battutista. Quando insomma il Cavaliere la smetterà di credersi al di sopra della cretineria, sarà un vantaggio per lui e per tutti».

Gian Antonio Stella
24 giugno 2009

da corriere.it
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« Risposta #83 inserito:: Luglio 09, 2009, 12:20:05 pm »

Il caso

Nel dossier Usa sette righe su Silvio

Nel kit ai cronisti americani: pagine di biografie per ogni leader ma non per Berlusconi


Laggiù, a Washington, qualcuno non lo ama. Ricordate lo sfregio dell’anno scorso, quando le note consegnate ai giornalisti americani al G8 in Giappone traboccavano di accuse, malignità e veleni al punto da costringere la Casa Bianca a scusarsi? Bene: qualche cosa, al Silvio Berlusconi, è andata storta anche stavolta. Proprio nel giorno in cui incassava i sorrisi e l'abbraccio di Barack Obama, portato in maniche di camicia tra le macerie di questa città così bella e gentile, il malloppo di fogli dato ai giornalisti Usa per «infarinarli» intorno ai protagonisti del viaggio presidenziale rifilava al Cavaliere una nuova stilettata. Sette-righe-sette di micro biografia. Data e luogo di nascita, nazionalità, professione, ultima vittoria elettorale, data d'inizio del nuovo governo. Fine.


Uno sberleffo, in rapporto allo spazio dato a tutti gli altri. Certo, la massima sintesi a volte può essere un segnale di sobrietà. Basti ricordare come Eugenio Montale, coprendo automaticamente di ridicolo tanti suoi colleghi che descrivevano le proprie piccole faccende con sdiluvianti ricostruzioni di pagine e pagine quasi avessero da raccontare le gesta di Alessandro il Grande, riassunse se stesso sulla «Navicella» parlamentare: «Montale Eugenio. È nato a Genova il 12 ottobre 1906 e risiede a Milano. Dottore in lettere, giornalista, scrittore, poeta, premio Nobel per la letteratura nel 1975». Questa asciuttezza ha un senso, però, se è scelta dal protagonista. Non se viene usata da una manina altrui per marcare maliziosamente un distacco. Per tentare di capirci qualcosa occorre appunto ripartire dall'anno scorso. Quando il «Press kit» preparato dall'ufficio stampa della Casa Bianca (con impresso in copertina il sigillo del presidente) a uso dei giornalisti americani al seguito di George Bush al G8 di Hokkaido, in Giappone, era piuttosto «inusuale» nel mondo ovattato dei vertici internazionali. Diceva infatti che il premier italiano «è uno dei leader più controversi nella storia di un Paese conosciuto per la corruzione e il vizio del suo governo». Lo liquidava come «un dilettante della politica che aveva conquistato la sua carica importante solo mediante l'uso della sua notevole influenza sui media nazionali», ricordava che era stato accusato di «corruzione, estorsione e altri abusi di potere che lo costrinsero a dimettersi nel 1994», rideva degli anni giovanili quando «aveva cominciato a fare soldi organizzando spettacoli di burattini a pagamento» e «faceva i compiti di scuola ai compagni di studi in cambio di denaro». Per non dire della iscrizione alla «sinistra loggia massonica P2 che aveva creato uno Stato dentro lo Stato». Parole pesanti. Soprattutto rispetto agli assai più moderati profili di certi presidenti africani al potere da decenni. Come il ritratto dedicato nel «Press kit» attuale all'uomo forte dell'Angola Josè Eduardo Dos Santos, di cui si racconta asetticamente che si è laureato in ingegneria petrolifera nell'Urss, che è diventato presidente dell'Angola dopo la morte di Agostino Neto nel 1979 (trent'anni fa: in un Paese martoriato dalla guerra civile...) e che è sposato con "lady Anna Paola dos Santos" che gli ha dato tre figli... Ma sproporzionate soprattutto rispetto a quello che era allora il capo della Casa Bianca, quel George W. Bush che aveva con l'«amico Silvio» un rapporto speciale. «I sentimenti espressi nella biografia non rappresentano il punto di vista del presidente, del governo americano o del popolo americano», si precipitò a scrivere Tony Fratto, il vice portavoce della Casa Bianca, riconoscendo che quel profilo usava «un linguaggio che insulta sia il premier Berlusconi che il popolo italiano».

E proseguiva: «Ci scusiamo con l'Italia e col premier Berlusconi per questo spiacevole errore». Il Cavaliere accettò le scuse: pietra sopra. Tutto poteva immaginare, quindi, tranne il nuovo sgarbo di ieri. Che è tutto nel confronto coi ritratti degli altri protagonisti e comprimari del viaggio di Barack Obama a l'Aquila, a Roma e in Ghana. Una pagina e mezza viene dedicata al presidente della Commissione dell'Unione africana Jean Ping, del quale si ricorda che si è laureato a Parigi in scienze economiche, che ha lavorato all'Unesco ed è stato ministro delle poste del Gabon. Due al presidente algerino Abdelaziz Bouteflika. Due abbondanti al successore di Mandela alla guida del Sudafrica Jacob Zuma, quasi due e mezzo al turco Recep Tayyp Erdogan, due al brasiliano Luiz Ignacio Lula da Silva, tre al cinese Hu Jintao e all'egiziano Hosny Mubarak, compresa la lista delle medaglie, delle decorazioni militari e delle lauree ad honorem ricevute in giro per il mondo. Due al presidente del Ghana John Atta Mills, nel quale si specifica che è originario di Ekumfi Otuam, che si è diplomato alla scuola secondaria Achimota, che ha studiato a Stanford e pubblicato una dozzina di libri tra cui «L'esenzione dei dividendi dalla tassazione sul reddito: una valutazione critica». E Berlusconi? Come dicevamo: sette righe. Contro le tre pagine di Giorgio Napolitano. Con la precisazione, vagamente offensiva, che quelle poche note sono tratte da BBC News e da un'agenzia della Associated Press. Come se l'anonimo autore della schedina non si fidasse del sito Internet ufficiale di palazzo Chigi (dove l'epopea berlusconiana viene ripercorsa, diciamo così, record dopo record) neppure sulle date. Dirà forse il Cavaliere, facendo buon viso a cattivo gioco: sono così famoso da non avere bisogno di piccole biografie. Sarà. Ma anche il Papa è abbastanza noto. Eppure il «Press kit» ha ripreso integralmente quattro pagine biografiche del sito ufficiale vaticano: dalla madre cuoca alla tesi di laurea ("Popolo e casa di Dio nella dottrina della Chiesa di Sant'Agostino"), dalla fondazione della rivista di teologia "Communio" alla laurea ad honorem del College of St. Thomas in St. Paul in Minnesota...

Gian Antonio Stella
09 luglio 2009

da corriere.it



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RICORDATE.

LETTERA DEL PORTAVOCE del presidente: «uno sfortunato errore»

Gaffe Usa: «Berlusconi? Politico dilettante in un Paese corrotto». Poi Bush si scusa

Nel kit stampa della Casa Bianca «materiale insultante nei confronti del premier e degli italiani»

 

ROMA - Una gaffe senza precedenti al G8. Tanto che George W. Bush è stato costretto a porgere le sue scuse a Berlusconi e al popolo italiano. Per quale motivo? Per capirlo, basta leggere la biografia del presidente del consiglio pubblicata nel 'press kit' che la Casa Bianca ha distribuito ai giornalisti al seguito del presidente americano.

LA BIOGRAFIA - «Il premier italiano è stato uno dei più controversi leader nella storia di un paese conosciuto per corruzione governativa e vizio - si legge nel profilo -. Principalmente un uomo d'affari con massicce proprietà e grande influenza nei media internazionali. Berlusconi era considerato da molti un dilettante in politica che ha conquistato la sua importante carica solo grazie alla sua notevole influenza sui media nazionali finché non ha perso il posto nel 2006». La biografia pubblicata sul 'press kit' non si ferma qui: «Odiato da molti ma rispettato da tutti almeno per la sua 'bella figura' (in italiano nel testo) e la pura forza della sua volontà - afferma la biografia - Berlusconi ha trasformato il suo senso degli affari e la sua influenza in un impero personale che ha prodotto il governo italiano di più lunga durata assoluta e la sua posizione di persona più ricca del paese». La biografia di Berlusconi, che cita anche il fatto che da ragazzo «guadagnava i soldi organizzando spettacoli di marionette per cui faceva pagare il biglietto di ingresso», ricorda che il futuro premier italiano mentre studiava legge a Milano «si era messo a vendere aspirapolvere, a lavorare come cantante sulle navi da crociera, a fare ritratti fotografici e i compiti degli altri studenti in cambio di soldi». La Casa Bianca avrebbe prelevato la biografia di Berlusconi dalla 'Encyclopedia of World Biography' che risulta aggiornata al mese scorso.

LE SCUSE - In serata, il portavoce della Casa Bianca, Tony Fratto, ha inviato una lettera nella quale si scusa a nome della Casa Bianca: «Scrivo - si legge nella lettera - in relazione a certi documenti di background che sono stati distribuiti ai giornalisti in viaggio sull'Air Force One per il vertice del G8 che si tiene in Giappone. Una biografia non ufficiale del primo ministro italiano Berlusconi, inclusa nel materiale stampa, utilizza un linguaggio insultante sia nei confronti del primo ministro Berlusconi che del popolo italiano. I sentimenti espressi nella biografia non rappresentano le vedute del presidente Bush, del governo americano e degli americani. Ci scusiamo con l'Italia e con il primo ministro per questo errore davvero sfortunato. Come tutti coloro che hanno seguito il presidente Bush, il presidente ha per il premier Berlusconi e per tutti gli italiani la più alta stima e riguardo».

«ITALIA SI AUTOFLAGELLA» - Scuse accettate dal premier, a quanto pare. Tanto che il giorno dopo Berlusconi ha archiviato la gaffe sottolineando che l'Italia è un Paese che ama «autoflagellarsi» dando pubblicità a questo genere di cose. Nel corso di una conferenza stampa a margine del G8 in Giappone, sollecitato da un cronista, il presidente del Consiglio ha derubricato con un gesto della mano la faccenda aggiungendo solamente che l'Italia «è un Paese che ama flagellarsi e illustrarsi malamente» proprio dando spazio a queste cose.


07 luglio 2008(ultima modifica: 08 luglio 2008)
da corriere.it
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« Risposta #84 inserito:: Luglio 10, 2009, 06:28:16 pm »

IL CASO

Maschere, spaghetti e mafia

I (pre)giudizi sul Cavaliere

La stampa estera e quei luoghi comuni buttati addosso all'Italia
 
 
«Perché mai il Cielo invia tali ricchezze a gente così poco in grado di apprezzarle?», si chie­deva Donatien- Alphon­se- François marchese de Sade. Oltre due secoli dopo, quel sen­timento di sottile pregiudizio verso gli italiani, di ammirazio­ne sempre smorzata da una cer­ta incredula ironia, di amicizia venata da un pizzico di diffiden­za, continua a riaffiorare anche dietro i giudizi degli stranieri su Silvio Berlusconi.

Intendiamoci: le critiche al Cavaliere, anche le più dure, so­no legittime. E i lettori sanno che questo giornale non ha mai fatto sconti. Ed è vero che qual­che volta lui stesso se le va a cer­care. Un esempio? L'invito agli imprenditori americani a inve­stire da noi perché c'è il sole e «oltre al bel tempo e alla bellez­za dell'Italia, abbiamo anche bellissime segretarie». Per non dire dell'insistenza sul nostro essere «i più simpatici del mon­do». Nessuno sceglie un dentista o un chirurgo perché è «simpa­tico ». E così il socio in un gros­so investimento industriale.

Detto questo, perfino gli av­versari più critici avrebbero buoni motivi per essere infasti­diti dal costante riemergere, at­traverso il berlusconismo, di vecchi, rancidi, insopportabili stereotipi che hanno fatto soffri­re e arrabbiare i nostri padri, i nostri nonni, i nostri bisnonni. Lo ammise tempo fa, proprio sul «Corriere», anche l'ex diret­tore dell'Economist Bill Em­mott: «Non vediamo l'ora di tro­vare una scusa per riproporre i soliti pregiudizi e luoghi comu­ni sull'Italia e gli italiani. Voglia­mo parlare di sesso e belle don­ne, e della mania italiana per il calcio. (...) gongoliamo addirit­tura se si tratta di menzionare la mafia».

Donne, sesso, calcio, mafia. Non c'è argomento usato con­tro il Cavaliere che non sia sta­to automaticamente buttato ad­dosso a tutti gli italiani, compre­si quanti berlusconiani non so­no. Ed ecco Der Spiegel fare una copertina sul leader della destra col titolo «Der Pate» (il Padrino) e bollarlo come «Al Ca­fone ». Ecco la Bbc dedicare un documentario all'Italia berlu­sconiana con la colonna sonora del film di Francis Ford Coppo­la.

Ecco Eva Erman, sul quoti­diano svedese «Dagens Nyhe­ter», scrivere che «la saga ma­fiosa di oggi, con Don Berlusco­ni nel ruolo principale, non ha lo stesso pathos nel racconto. Costui è semplicemente un 'pa­drinowannabe', un aspirante padrino. (...) Don Corleone per costruire il suo impero e proteg­gere la sua famiglia violava spesso la legge e corrompeva i politici, se non li ammazzava. Creava delle proprie regole e una propria morale. Don Berlu­sconi invece modifica la legge. Se è sotto processo per falso in bilancio fa modificare la legge sui tempi di prescrizione».
Conclusione: «Forse è davve­ro giunto il momento di un par­ricidio per cercare di fare entra­re un po' di aria fresca nello sti­vale dell'Europa e togliere l'odo­re del più puzzolente sudore del piede».

Puzza che il premio Nobel José Saramago avverte ancora più forte: «Ma nella ter­ra della mafia e della camorra, che importanza può avere il fat­to provato che il primo mini­stro sia un delinquente?» Va da sé che il giudizio sul Cavaliere ricade su chi lo ha messo in sel­la. «Ci sono Paesi che non si me­ritano i loro governanti. Quasi nessuno. Però l'Italia, per poco che stimi la politica, dovrebbe comportarsi più degnamente», accusa un giorno Antonio Gala su «El Mundo». Conclusione? «Impossibile credere in un po­polo che vota un simile mostro. A meno che non lo abbia eletto per scherzo...». «El País» concorda. E come titola un servizio sul nostro Paese? Tirando in ballo la pa­sta, i maccheroni, gli spa­ghetti. Titolo: «La espague­ti- democracia». Occhiello: «L'Italia rivive la sua leg­genda di anomalia euro­pea».

D'altra parte, cosa aspettarsi da un Paese che ha prodotto Pulcinella e Arlecchi­no e tante maschere che hanno reso grandi la nostra comme­dia, i nostri teatri dei pupi, la nostra letteratura? «Dobbiamo ammettere che i nostri scandali mancano di brio rispetto a quel­li dei nostri vicini. Per esempio noi potremmo cercare invano un personaggio così pittoresco come Berlusconi», spiega Ge­rard Dupuy su «Liberation» do­po il primo trionfo elettorale. Certo, ammette che «è un vez­zo francese quello di fare la mo­rale e guardare gli altri dall'alto. Il classico complesso di superio­rità. Lo facciamo anche con al­tri Paesi». Ma «con l'Italia è più facile, dato il personaggio al go­verno ». Qual è dunque l'aggetti­vo scelto anni dopo dal Times per schiaffeggiare il Cavaliere? «Buffone».

Sempre lì si finisce. Sui buffo­ni, le maschere, gli spaghetti, la mafia, il sole, il mandolino o se volete la chitarra di Apicella... E poi l'italiano furbo e magari a volte genialoide ma inaffidabile come quando Montesquieu scri­veva che «ognuno non pensa che a ingannare gli altri, a men­­tire, a negare i fatti». E poi Ro­dolfo Valentino e l'italiano ga­lante e l'italiano donnaiolo immer­so in una società ipocrita e corrotta come ai tempi in cui Flaubert mette­va nero su bianco che le donne napole­tane «sono sempre in eccitazione, fotto co­me un asino sbarda­to ».

E la mamma? Niente sull'Italia il Paese mam­mone, di cocchi di mam­ma e di mamme che «so­lo per te la mia canzone vola»? Ma certo: non ci è stato fatto mancare neppure questo. Ci pensò sei anni fa il New Yorker: «Nella letteratura ufficiale, que­sta straordinaria ascesa è trasfi­gurata, nella visione di Silvio, come la creazione di un mondo sicuro e libero per Rosella (...) Lei è l'emblema della mamma italiana. Spunta pressappoco in ogni conversazione con gli uo­mini della sua cerchia intima, una donna dalle omelie così im­probabili che potrebbe essere la June Allyson dei malinconici anni Cinquanta...». Di più: «Se è vero il cliché che le più dure­voli istituzioni dell'Italia - la Ma­fia e la Chiesa ne sono ovvi esempi - debbano il loro succes­so al prototipo della grande, au­toritaria famiglia italiana, piena di minacce e pietismi, allora do­vete guardare all'Italia di oggi come alla 'eredità di Rosella Berlusconi'».


Gian Antonio Stella
10 luglio 2009

da corriere.it
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« Risposta #85 inserito:: Luglio 11, 2009, 04:07:49 pm »

Bilanci

Il successo non cancella stizza e amarezza

Il Cavaliere e l’arte di saper vincere


«Ho fatto fare un figurone a tutti gli italiani. Compreso Franceschini. E perfino Di Pietro». E’ un peccato che chiudendo i lavori del G8 Silvio Berlusconi non abbia detto sorridendo una battuta del genere. Il suo successo sarebbe stato completo.

L’uomo era in grado di farlo. Anche se un giorno ammiccò ridendo a un complimento che «il più grande battutista in circolazione è D’Alema» (che ricambiò dicendo che il Cavaliere era «umanamente proprio simpatico») i suoi stessi avversari sanno che a volte, con una battuta, sa spiazzare tutti. Di più: forse nessun altro, nella politica italiana, è in grado di sdrammatizzare anche la situazione più tesa con due parole giuste buttate lì al momento giusto. E’ la sua arte. Mica per altro chi lo ama lo chiama il Grande Comunicatore. Capace anche di spiritose auto-ironie.

Come la volta che, stufo di critiche, disse: «Faccio come zia Marina, che ha 80 anni e siccome nessuno le dice che è bella un giorno si è messa davanti allo specchio con un vestito a fiori e si diceva: Marina, cume te se bela!» Ecco: dopo i giorni dell’Aquila, lui non aveva alcuna necessità di dirsi «cume te se bel!». Commenti favorevoli, salvo eccezioni, su un po’ tutti i giornali italiani e stranieri. Immagini sorridenti in tutti i telegiornali del mondo. Massima attenzione planetaria sulle macerie dell’Abruzzo. Complimenti pressoché unanimi (e meritati) per il modo in cui, con la sponda di «San» Guido Bertolaso e dei suoi giovanotti della Protezione Civile, era riuscito in poche settimane a trasformare una grande caserma della Finanza in una struttura capace di ospitare al meglio un vertice internazionale. Per non parlare del più spettacolare dei «colpi» messi a segno: la sciolta disinvoltura con cui, nel giro di poche ore, si era trasfigurato da grande amico di George W. Bush in prezioso alleato di Barack Obama, generoso con lui di lodi oltre ogni attesa.

Insomma: meglio di così forse non poteva andare. E non c’è italiano che, per come si era messa nelle settimane scorse, non debba oggi sentirsi sollevato. Di più: fiero della prova di orgoglio e professionalità fornita, tutti insieme, all’Aquila. E questo al di là di ogni opinione: come disse anni fa Giuliano Amato denunciando i rischi di esporre il nostro Paese ai ceffoni internazionali in nome della polemica politica intestina anti-berlusconiana, «guai se cominciano a trattarci come un materasso su cui saltare, perché in quel materasso ci siamo anche noi». Tutti.

Per questo è un peccato che il Cavaliere non abbia saputo godersi fino in fondo, senza quelle piccole stizze, il momento di trionfo personale. Diranno i suoi amici: più che comprensibile, dopo tutto quello che gli era stato scaraventato addosso... Può darsi. Come è comprensibile che abbia apprezzato in conferenza stampa certe domande al miele, come quella di Franco Gizzi, per pura coincidenza fratello del capo- ufficio stampa della Regione pidiellina, così entusiasta della scelta aquilana («favolosa intuizione», «ci ha fatto sognare », «grazie per dedicare a noi in agosto le sue preziose ferie...») da essere amabilmente punzecchiato dallo stesso presidente: «E’ sicuro di essere un giornalista?».

Fatto sta che, quando un collega dell’Ansa gli ha chiesto se i risultati del vertice «che lei stesso ha definito eccellenti possano aiutare a rilanciare la politica estera del governo e se a partire da questi risultati si possano gettare le basi per riannodare il dialogo con l’opposizione in politica estera e in politica interna », Berlusconi ha deciso l’affondo. E dopo avere liquidato la sinistra («se cambiamo l’opposizione certamente sì...») e rivendicato una serie di risultati, ha chiuso: «Se questo vi sembra un governo che ha bisogno di un rilancio, è un giudizio che si distacca dalla realtà oggettiva. Vi consiglio di leggere meno giornali».

Ed è stato lì che, rifiutando quel minimo di garbo, generosità e allegria che altri vincitori avrebbero concesso nel momento dell’esultanza agli avversari (veri o presunti), il Cavaliere ha deciso di tenersi il successo aquilano tutto per sé. Peccato. Se oltre a Erasmo da Rotterdam («come diceva lui le decisioni più rappresentative sono spesso frutto di una lungimirante follia») avesse riletto anche Polibio, vi avrebbe trovato una traccia di antica saggezza: «Coloro che sanno vincere sono molto più numerosi di quelli che sanno fare buon uso della loro vittoria».

Gian Antonio Stella
11 luglio 2009

da corriere.it
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« Risposta #86 inserito:: Luglio 12, 2009, 04:38:58 pm »

La storia

Il tarantino Cito promise di «prendere a calci Bossi» e lo sfidò perfino a Milano

Da Finocchiaro Aprile a Mastella

L’eterno ritorno della «Lega meridionale»



Cosa c’entrano Raffaele Lombardo, Gianfranco Miccichè e Agazio Loiero col signor Salvatore Marino aspirante governatore alle Regionali abruzzesi per la lista «Maschio 100% — Lega Sud Ausonia» nata «contro i partiti insulsi di destra e di sinistra» e i «servi del nazi-omosessualismo»? Niente. Ma questo è il nodo: tutti e tre i politici, qualunque cosa abbiano in mente (insieme, divisi o addirittura l’uno contro l’altro) sono chiamati a un’impresa: smentire una lunga tradizione di partiti e partitini e gruppuscoli e clan e molecole meridionalisti troppo spesso così estemporanei tra risultare bizzarri o addirittura ridicoli.

Dice Lombardo che «stavolta sta nascendo una cosa seria». Che vuole «riequilibrare il peso schiacciante della Lega Nord». Ricorda che «Bossi difendendo gli interessi settentrionali fa il suo mestiere. Solo che è ora che nasca una forza che difenda fino in fondo gli interessi del Sud». Quindi? «Abbiamo 2 senatori e 8 deputati. Pochi. Ma non voteremo più un solo provvedimento che danneggi il Mezzogiorno. Mai più. Saremo intransigenti. C’era un patto con Berlusconi: non è stato mantenuto. Non tradiremo la maggioranza, ma difenderemo il Sud metro per metro». Rivela che anche Miccichè «sta mettendo su due gruppetti parlamentari, alla Camera e al Senato, con lo stesso obiettivo: riequilibrare il peso del Nord».

E assicura: «Non saremo soli. Anche Loiero, nel centrosinistra...». Poche anime inquiete? Ridacchia: «Quello che sta accadendo è rivoluzionario ».

Come andrà a finire? Boh... Certo l’ostacolo più grande, per quanti accarezzano il sogno d’una specie di Lega Sud, è che di «Leghe Sud» ne sono già nate negli anni a bizzeffe. Destinate l’una a essere risucchiata da un’altra. A scontrarsi in tribunale per il possesso del nome. A scatenare risse intestine meschinelle nel segno della guerra ai busti di Garibaldi, degli appelli a rimuovere le piazze Cavour, delle invettive contro Costanza d’Azeglio, rea d’avere esclamato contro l’annessione del Sud: «Qu’allons nous faire de ces gens-là, cosa faremo di quella gente? Confesso che penso con terrore alla fatica di ripulire quelle stalle d’Augia ».

Sono passati decenni, dal giorno in cui un cinegiornale della Settimana Incom spiegò: «Il movimento indipendentista siciliano ha presentato due liste per la costituente. Il presidente Finocchiaro Aprile ha inaugurato a Catania la campagna elettorale. Il leader viene portato in trionfo al teatro Sangiorgi. La decorazione del palcoscenico raffigura l’emblema della Trinacria. Il discorso di Finocchiaro Aprile è di netta opposizione. In esso si dichiara che i siciliani amano l’Italia e se vogliono dissociarsi da lei per creare la nuova Confederazione Mediterranea ciò non deve suonare offesa. In un’intervista concessa dal nostro inviato Finocchiaro Aprile ha accennato al programma che porteranno alla costituente. "Noi difenderemo" ha detto "un progetto di confederazione di Stati italiani sul tipo Nord americano. Ciascuno Stato potrà governarsi liberamente da se. alla Sicilia si sta già promettendo l’autonomia. Non ci basta. Vogliamo l’indipendenza».

Sono passati decenni e, dal tramonto di quella stagione, si è visto di tutto. La nascita nel 1984 a Palermo del «Movimento d’Azione Autonomista». La fondazione a Napoli, intorno a una pizza marinara («non la Margherita che, nata in onore dell’omonima regina, è sabauda») di un Movimento culturale fondato da Riccardo Pazzaglia, scrittore e giornalista celebre come «filosofo» di Quelli della notte, per «ristabilire la verità sul Regno delle Due Sicilie».

Il battesimo all’hotel Midas nel ’90 della Lega meridionale Centro- Sud-Isole (diffidata a sua volta per vie legali da un’altra «Lega Meridionale ») che si presentò offrendo la candidatura a Vito Ciancimino (che declinò) e Licio Gelli, che mandò un affettuoso augurio a «quanti si riconoscono nell’ideale di ricostruire un’Italia democratica, onesta, pulita per un suo futuro di prosperoso benessere». Lo sbocciare di «Noi Siciliani», capace di portare un deputato (Nino Scalici) all’Assemblea regionale grazie anche al peso del nome di Teresa Canepa, figlia di quell’Antonio che aveva fondato l’Esercito volontario per l’indipendenza della Sicilia andando incontro a una fine tragica e misteriosa.

«Il Sud è una polveriera che può esplodere da un momento all’altro» tuonava allora Clemente Mastella: «Il clima è preinsurrezionale! Stanno togliendo le pensioni di invalidità in modo indiscriminato! ». Di più: «Io invoco la ribellione del Sud. La ribellione morale. Questi del Nord ci vogliono sotterrare, ci vogliono umiliati e servi. Dai cento lire all’Irpinia ed è scandalo, copri d’oro il Trentino ed è tutto giusto! Basta!». Di qui un annuncio in coppia con Francesco D’Onofrio: «Potremmo fondare la Lega meridionale. Abbiamo già pronto il nome: Unione Sud».

Al Mezzogiorno ci penso io, replicò l’irruento Giancarlo Cito. E dopo aver preso Taranto e tentato di sbarrare la marcia secessionista sul Po salendo con un manipolo di arditi fino a Chioggia («sono venuto a prendere Bossi a calci nel culo ») si candidò alla conquista del capoluogo lombardo alle comunali del ’97 alla testa della sua Lega d’Azione Meridionale con uno slogan indimenticabile: «Voglio tarantizzare Milano. Voglio che questa città diventi come Taranto, la Svizzera del Sud». I milanesi (chissà mai perché...) non lo apprezzarono.

«L’ora della storia batte sull’orologio del Sud» proclamò anni dopo Giulio Tremonti. Macché, risposero via via le regioni meridionali buttandosi una dopo l’altra a sinistra. Fu allora, in un momento di sconfitte azzurre a ripetizione, che spuntò nella riccioluta capa di Gianfranco Micciché l’idea di «una specie di sottogruppo parlamentare che tenga gli occhi aperti su tutto ciò che avviene alle Camere intorno ai temi cari al Mezzogiorno che faccia da contraltare a questa immagine di un governo attento prima di tutto agli interessi del Nord». Un progetto non così dissimile, pare di capire, da quello di oggi. Titoli sui giornali: «Nasce Forza Sicilia».

Insomma: fuochi d’artificio tanti, sbocchi politici pochi. Fino a una riunione, la prima in assoluto, a Cosenza, nel gennaio di quest’anno, con la benedizione di Lombardo, di un folto gruppo di gruppetti: dai Centri di azione agraria a Noi Meridionali, da Uniti per la Puglia a Uniti per Matera, dal Partito del Sud a Sicilia Libera, da Lega Sud Ausonia a Unione federalista meridionale fino a Uniti per Castrovillari o Noi Borbonici. Obiettivo: «Dare vita insieme a una ’"Lega del Sud"».

Risultati concreti? Zero, pare. Un pizzico di nervosismo a destra, tuttavia, sembra segnalare che, sotto sotto, qualcosa cova. Purché non vada tutto a finire come in un leggendario spot elettorale finito su YouTube. Quello di Giovanni Bivona, un tappetto mezzo calvo e dal capello lungo che col simbolo di «Patto Sicilia» avanza verso la telecamera strillando: «La politica è triste, facciamola diventare allegra. Protestate con me. Sto arrivando. Io sono qui per dirvi che dobbiamo votare tutti insieme, tutti per uno e uno per tutti perché non se ne può più di tutte queste cose che manca il lavoro, manca il turismo, l’edilizia, manca la serenità della gente in famiglia, nun si vuoli sposari più nisciuno pecché manca ’u travagliu così non ci saranno neanche produzione umana... Protestiamo. Protestiamo. Protestiamo».

Gian Antonio Stella
12 luglio 2009

da corriere.it
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« Risposta #87 inserito:: Luglio 16, 2009, 11:57:46 am »

Grillo: che fastidio sentirmi definire ostile.

Se non mi volete non mi iscrivo più

«Questo Pd è la polizza-vita del premier Ma al congresso vi farò una sorpresa»

Il comico respinto dal Pd: «Ho votato Di Pietro: è sempre stato con noi condividendo i nostri obiettivi»

   
«Se io fossi stato al posto loro...». Se fosse stato al posto loro? «Avrei detto: caro Grillo, lascia perdere, non possiamo tesserarti perché sono anni che ci prendi per il culo. Però se vieni al congresso sei un ospite gradito. Vieni e ci dici la tua. Sarebbe stata una risposta politica. Avrebbero fatto bella figura. Ma tirare in ballo il paragrafo tre dell'articolo nove! Quella non è una risposta politica: è burocrazia. Allora la politica non serve a niente. Basta un apparato con dei regolamenti. Boh...». Fallito l'assalto alla segreteria del Pd, Beppe Grillo affonda con appetito la forchetta in un piatto di gnocchetti sardi alla bottarga: «Perché ci ho provato? Perché mi fa rabbia vederli così...». «Glielo dico io perché», irrompe ridendo la moglie: «Beppe era in spiaggia, si annoiava, pensava e ripensava. Era una domenica. A un certo punto fa: quasi quasi mi candido a segretario dei democratici... Così è andata». Lui ride, e torna ad affondare la forchetta con l'allegria impiegata ad affondare il coltello nelle piaghe del Partito democratico.
Ma alle elezioni per chi ha votato?
«Domanda imbarazzante. Io sono un non votista. Vorrei che resettassimo un po' la nostra mente. Cos'è la destra, cos'è la sinistra? Parole. Cambiamole, queste parole».
L'ha votato mai, il Pd?
«Mai. Ma il punto non è questo. Di questa sceneggiata la cosa che mi ha dato più fastidio è sentire che io sarei a capo di un movimento ostile. "Ostile" è una brutta parola. Io non sono per niente "ostile" al Pd».
Il «Giornale» dice che ha lanciato addirittura un'Opa ostile per conto di Di Pietro.
«Io? Per conto di Tonino? Ma dai... Per dire che uno è ostile devi vedere il suo programma. Il mio programma qual è? L'acqua pubblica, le energie rinnovabili, la mobilità, il Wi-Fi gratuito, la raccolta differenziata... Questa, per loro, è l'ostilità. Perché il loro programma sono le discariche, il cemento, l'acqua privatizzata, gli inceneritori che fanno venire il cancro...».
Tornando alla candidatura...
«È nato tutto nel gennaio 2005, col mio blog. Adesso siamo tra i primi al mondo ma all'inizio non sapevo neanche che cosa fosse. Scrivevo una roba, cercavo di far parlare su questo argomento della gente... Ho cominciato a capire. La Rete è la grande trasformazione di questo secolo».
Eppure aveva cominciato spaccando il computer...
«E continuo a spaccarne. Ma perché mi fa rabbia quando non funzionano. I virus, i problemi... Non perché io sia un luddista. La Rete è fantastica. Sullo stesso argomento economico puoi far parlare un Nobel come Stiglitz e un operaio dell'Italsider. Da lì siamo partiti. Poi abbiamo deciso di calare le idee nel concreto. Renderle fisiche. Per attuare sul territorio le cose teorizzate sul blog. Parliamo di 560 gruppi. Circa 90mila ragazzi... Siamo in Australia, America, Giappone... Da lì è nato il V-Day. Voi dei giornali non ve siete neanche accorti».
Questa poi! Era su tutte le prime pagine...
«"Io" sono finito su tutte le prime pagine. E dopo, non prima: "dopo". Solo io e non il milione e mezzo di persone nelle piazze che hanno raccolto 350.000 firme per le nostre proposte di legge popolare: via i parlamentari condannati, non più di due legislature, voto di preferenza come base della democrazia. È stata la più grossa manifestazione degli ultimi trent'anni. E la sinistra, che cosa ha fatto?»
Vi ha dato dei qualunquisti.
«Esatto. Qualunquisti. Populisti. Demagoghi... Io non ho mica capito. Perché invece non ci ha abbracciato? Cosa c'era di sbagliato nelle nostre idee contro i pregiudicati, per una politica più pulita, per le preferenze, per una legge sul conflitto di interessi, per una riforma delle regole finanziarie? Un partito sveglio avrebbe dovuto capire. Purtroppo c'era Veltroni... Topo Gigio... Di politica non c'è più niente là dentro. Io ho cercato di riempire il nulla con un programma».
Cacciari dice che lei voleva solo sputtanare il Pd.
«Come fai a sputtanare una cosa che non esiste? Torniamo all'"ostile": come potrei essere ostile agli elettori del Pd? Il mio obiettivo era semplice: andare al congresso e parlare. Esporre il nostro programma. Dire: "Venite fuori, trentenni con le palle. Mandate via tutti quelli che non hanno più niente da dire"». E adesso? «Andiamo avanti. Facciamo le nostre primarie online invece che con la carta e la matita. Andiamo avanti con le nostre liste "cinque stelle". Dove i nostri sono entrati, prendendo dal 3 al 10%, hanno cambiato il modo di fare politica. Immagini solo cosa vuol dire trasmettere in diretta sul Web un consiglio comunale dove i cittadini vedono cosa dice Tizio, cosa vuole Caio... Questo è il controllo democratico. Se hai delle idee buone, sensate, a bassi costi, sono costretti a seguirti. Loro non hanno idee. Destra, sinistra... Non hanno più idee. Ma dicevo: io sono ostile a sei, sette, dieci persone».
Cioè?
«I soliti. D'Alema, Rutelli, Latorre, Fassino... I soliti che vediamo da anni. E che sono un tappo che frena le energie. Ci sono milioni di elettori nel Pd che condividono le nostre battaglie. Mi hanno votato in 270.000, sul Web».
Eppure anche la Serracchiani...
«All'inizio diceva d'essere d'accordo, poi deve aver avuto una telefonatina. Cosa vuole, è una suora in un bordello».
Non ha messo nell'elenco Bersani e Franceschini.
«Ma sì, anche loro... Come fai a votare Franceschini? Cosa vuole Franceschini? Qual è il programma di Franceschini? Non ce l'hanno, un programma. Io sono un comico ma un programma che l'ho. Degli obiettivi ce li ho».
Ma se lei voleva distruggere i partiti, perché tentare la scalata a una segreteria? Non è un'incoerenza?
«I partiti si sono distrutti da soli. Mica li ho distrutti io. Non hanno più senso. Nella democrazia della Rete, la democrazia dal basso, il partito non rappresenta più nessuno».
Anche Gheddafi dice che non è questa la democrazia, che è inutile eleggere un Parlamento...
«Lui è un despota. Dice che la democrazia non esiste: "La democrazia sono io". Io non dico questo. Dico che la democrazia rappresentativa è finita ed è cominciata la democrazia partecipativa. In Svizzera fanno dei referendum su ogni cosa, decidono i cittadini ed è fatta».
Sta teorizzando il rapporto diretto tra il leader e il popolo attraverso la rete senza l'ingombro del Parlamento? Un rischio mortale...
«No, no. Sulla Rete non puoi imbrogliare. Se non hai credibilità e reputazione ti massacrano. Ci vogliono le palle per reggere, in Rete. Parlo anche per me. Per questo Berlusconi non si sogna di affacciarsi online. Ci ha provato Clemente Mastella, a fare un blog contro di me. Ne è uscito con le ossa rotte. Lo hanno subito clonato con un blog quasi identico ma irresistibile: "Demente Mastella". Poveraccio...».
Fatto sta che questo rapporto diretto online tra il leader e il popolo...
«Cerchi di capirmi, Obama cosa fa? Prima di fare una legge la mette online per sentire cosa ne pensano i cittadini».
E sarebbe questa la nuova democrazia?
«Democrazia... Libertà... Parole. Sbandierate spesso da chi non ci crede più. Probabilmente la democrazia come la conosciamo è finita. Ci sarà qualche altra forma. Quando hanno messo in onda Annozero su YouTube la gente interveniva in diretta. Non puoi raccontare balle, online».
Oddio, magari ne puoi raccontare ancora di più...
«Ma vieni subito smascherato. Sta cambiando il mondo. E loro (loro) non l'hanno capito. Fanno ancora le primarie coi foglietti di carta. Fondano le televisioni coi soldi pubblici e non sanno cosa farne. Sono vecchi. Come è vecchio lo psico-nano».
Cioè Berlusconi?
«Murdoch, che è molto più bravo e ha dei figli più svegli, sta già investendo sulla rete. Compra "MySpace". Ha capito. Lo psico-nano insiste invece col digitale terrestre. Roba già morta prima ancora di essere diffusa. È come il Pd, il digitale terrestre. Ma lei ha visto cos'è successo alle Europee? Abbiamo eletto Sonia Alfano con 160.000 voti senza neanche un'apparizione televisiva. Fatto trionfare De Magistris. Raddoppiato i voti a Di Pietro...».
Perché dice «noi»?
«Perché Sonia Alfano appartiene un po' ai "grillini". Anche De Magistris ha ringraziato la Rete... Anche Di Pietro, quando con un po' di sforzo ha capito...».
E allora perché lei non ha investito sull'Italia dei valori, invece che sul Pd?
«Il partito di Di Pietro insiste sulla figura di Di Pietro...».
Insomma: lei ha votato lui?
«Sì. È sempre stato con noi, fin dalla nostra nascita, condividendo i nostri obiettivi».
Allora perché il Pd?
«È il secondo partito del Paese. Ma è guidato da fossili che non danno risposte su niente. Vogliono l'acqua pubblica o quella privatizzata? La raccolta differenziata o gli inceneritori? Il nucleare o l'energia rinnovabile? Rispondano. Io mi rivolgo ai giovani che sono dentro il Pd. Sono loro che devono impossessarsi del partito. Sono stato alla fiera di Verona del "solare", la più grande d'Europa dopo Monaco. Fantastica. Non c'era un politico. Erano tutti a inaugurare l'inceneritore di Acerra. Roba vecchia».
Fatto sta che la tessera non gliela danno. «Eh già...». Quindi non si iscrive più. «Non posso andare dove non mi vogliono. Prendo atto che per loro io sono un movimento ostile. Il fatto è che questi qui, quando tornano a casa, si tolgono i baffi, si tolgono i capelli e sono uguali a Berlusconi».
È quello che dicono i democratici: cosa viene a fare con noi se pensa che siamo tutti uguali?
«Allora lo ripeto: non ho detto che gli elettori del Pd e del Pdl sono uguali. Ho detto che sono uguali i dirigenti, la parte sinistrorsa del comitato d'affari nazionale. Io ce l'ho con quei dieci che guidano il partito, che le hanno perse tutte e sono la polizza-vita di Berlusconi. Il quale, finché ci sono loro, sta tranquillissimo. Io voglio non rinnovare più quella polizza. Sarebbe già morto, politicamente, con un'opposizione diversa. A partire da tutti gli errori di Veltroni. Un uomo solo aggettivi e sostantivi». Con Bersani sembra meno duro...
«Ma per carità... Ha fatto il ministro del tutto. Le farmacie... I tassisti... Basta. Non volete me? Benissimo. Ma pigliatevi dei giovani. Gio-va-ni. Basta con questa gente laureata trent'anni fa. Obama ha 46 anni e si circonda di ragazzi... Ci sono consiglieri delle banche online che hanno 15 anni! Quindici! Questi qui non hanno la sinapsi».
Prego?
«Sono lenti! Lenti! Lenti! Se non si libera di gente così, il Pd è morto. Pace. Noi andiamo avanti. Continueremo a presentare liste... A organizzare il terzo V-day per il 4 ottobre... A chiederci come fanno quelli del Pd a non capire».
Andrà lo stesso congresso?
«Ma no... Come fai ad andare dove non ti vogliono? Mi inserirò in contemporanea, online, mentre sta parlando Bersani...». Come un hacker? «Come un ologramma. Mah... Poveretti... Vorrei tanto consolarli. Offrire loro la mia spalla. Come si fa coi vecchi che non ci si raccapezzano più. Spiegargli con gentilezza: dai, non fare così, vieni via... È finita. Andiamo a casa...».

Gian Antonio Stella
16 luglio 2009
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« Risposta #88 inserito:: Luglio 28, 2009, 09:29:39 am »

Dal «patto del pistacchio» alla sfida autonomista, ormai è «tutti contro tutti»

Silvio-Carlomagno, ribelli e traditori

In Sicilia va in scena l’opera dei pupi

Alfano e Schifani nel mirino dei «contestatori».

Miccichè guida i rivoltosi. La cautela di Dell’Utri

 
2009 -  Nasce l’alleanza tra Gianfranco Micciché (Pdl) e il governatore della Sicilia Raffaele Lombardo sulla nuova giunta regionale e il partito del Sud 
Chi sia Nofriu e chi Virticchiu, chi Rusidda e chi Peppinino non è facile da stabilire. Perché, certo, Lui­gi Pirandello fa dire al cornuto Ciampa «pupi siamo, caro Signor Fi­fì! Lo spirito divino entra in noi e si fa pupo. Pupo io, pupo lei, pupi tut­ti ». Ma perfino un 'oprante' straor­dinario come Mimmo Cuticchio fa­ticherebbe a calare Lombardo e Mic­ciché, Dell'Utri e Martino e gli altri Paladini di Trinacria in rivolta nel nome del Sud nei panni di questo o quel personaggio. Poche volte, però, la politica sici­liana ha dato l'impressione come oggi di seguire gli antichi copioni della grande opera dei Pupi. Quella dove va in scena 'la più invisibile delle guerre invisibili'.

Dove Beltra­mo e Malagigi, Cladinoro e Gandel­lino, 'agìti' dal puparo che invisibi­le li sorregge, si muovono avanti e indré in un tale strepito di grida e sbattere di spade da spingere gli spettatori a sentirsi 'arizzari li car­ni'. Dove si affollano momenti epi­ci: «Cadde Grandonio / ed or pen­sar vi lasso / alla caduta qual fu quel fraccasso / Levosse un grido tanto smisurato...». Dove non sai mai fi­no a che punto l'eroe sia davvero un eroe e il traditore davvero tradi­tore. L'unica parte certa è quella che i ribelli siciliani di quella che era la Casa delle Libertà hanno cucito ad­dosso a Silvio Berlusconi. La parte di «Carrumagnu cu lu pugnu chiu­su », cioè Carlomagno col pugno chiuso. Onorato sì, perché potentis­simo. Ma avaro. Così tirchio da non volerne sapere di scucire quei famo­si fondi europei per le aree sottosvi­luppare «che spettano al mezzogior­no ». Da avere abolito l'Ici, stando all'accusa dell'economista Gianfran­co Viesti, «togliendo un miliardo e mezzo alle infrastrutture di Sicilia e Calabria». Da avere finanziato tutte le misure anticrisi «togliendo soldi al Sud» per un totale, secondo lo Svimez, di 18 miliardi. Di qui la ri­volta, che non si placa. E che divide il centro-destra isolano come mai prima. Da una parte, additati dai rivolto­si quasi come fossero dei traditori al pari dell'odiato Gano di Magon­za, ecco quelli che dicono che no, non è vero che il governo è succu­bo della Lega Nord e non è proprio il caso di creare problemi e addirit­tura minacciare secessioni. Come Renato Schifani, il presidente del Se­nato che sei anni fa scommetteva su un futuro trionfale ('Nel 2006 consegneremo al Paese un nuovo Mezzogiorno: il Mezzogiorno del benessere') e oggi è così inviso a Raffaele Lombardo da subire a fine maggio l'affronto più insolente: il mancato invito da parte del Gover­natore ('Minchia, m' u scurdai...') alla cena offerta a Napolitano in visi­ta.

O Angelino Alfano, lui pure quel­la sera «dimenticato» (insieme al sindaco Diego Cammarata e al presi­dente dell'Ars Francesco Cascio) ma soprattutto imputato dai ribelli di essere «più vicino ad Arcore che ad Agrigento» fin da quando lasciò trapelare una confidenza che oggi gli viene rinfacciata sulla sera in cui aveva conosciuto il Cavaliere. Il qua­le, per fargli un complimento, gli avrebbe detto: «Ma davvero lei è si­ciliano? La sento parlare in italia­no... ». O ancora il coordinatore del Pdl isolano Giuseppe Castiglione, presidente della Provincia di Cata­nia, che aveva stretto con Schifani e Alfano ('Renatino e Angelino', li chiamano i nemici) il 'patto del pi­stacchio' e non aveva fatto mistero di puntare alle europee alla mitica soglia (poi clamorosamente fallita) del 51%, che avrebbe consentito al partito di mettere in riga Lombardo e perciò bollato da Gianfranco Mic­ciché come «un farabutto che rac­conta minchiate a Berlusconi». Per non dire di Totò Cuffaro, che spara sì contro il Nord dicendo che «Malpensa vale dieci Casse del Mez­zogiorno » e che i fondi per le aree sottosviluppate «sono finiti al Par­migiano e non alla vite», ma si è schierato contro ogni ipotesi del partito del Sud ('Un grande flop') e in ogni caso pare avere oggi un obiettivo solo: farla pagare a Lom­bardo. Reo d'avere detto di volere 'decuffarizzare' la Sicilia. Al che 'Vasa vasa' sibilò gelido: «Non è più mio amico». Dove quel 'più' sottolineava un odio che manco Mandricardo verso Orlando dopo la morte di Manilardo.

Quanto a Silvio «Carlomagno» Berlusconi, i ribelli che si agitano sulla scena con sbatacchiar di spa­de e quelli che se ne stanno appa­rentemente un po' in disparte come Marcello Dell'Utri che forse più di tutti, a ragione o a torto, sembrereb­be adatto alla parte del puparo, pa­re non accettino su tutte due cose. Una è il modo in cui ha liquidato i problemi posti come frutto di in­quietudini di uomini frustrati e in­soddisfatti, una parte che Antonio Martino (che per anni ha sbandiera­to di avere 'la tessera numero 2 di Forza Italia' e oggi appare malinco­nicamente ai margini) e Gianfranco Micciché (il quale aveva a suo tem­po puntato al posto di governatore mettendo per iscritto che 'nessun sogno potrà essere oggetto di tratta­tiva, altrimenti diventa incubo') re­spingono con stizza. L'altra è l'uso di «due pesi e due misure» verso gli alleati. Se il Cavaliere rivendica il di­ritto di decidere a Roma o a Milano come vanno spesi i soldi dei Fas de­stinati al Sud, perché mai la tanto sbandierata bontà del federalismo dovrebbe valere per il Nord leghi­sta e non per il Mezzogiorno? Eppu­re dietro le minacce, gli strappi, le ricuciture, gli avvertimenti, le ma­novre, resta anche agli osservatori più attenti l'impressione di qualco­sa di non detto. Qualcosa che sfug­ge... Come se i protagonisti usasse­ro il 'paccaglio', quel linguaggio in­comprensibile ai non iniziati usato un tempo dai pupari per rappresen­tare storie 'proibite' di ribellione contro lo Stato senza mettere tutti in allarme. Così come sfuggono i 'tempi' di questa strepitosa vicen­da politica e umana che sta andan­do in scena. Il ciclo completo dei 'Paladini', una volta, durava 555 giorni.

Cinquecentocinquantacinque giorni di colpi di scena, passioni, tradimenti, duelli e carneficine. Au­guri. Ma va detto: forse sarebbe più fa­cile capire la «limpidezza cristalli­na » di questa «seria battaglia auto­nomista » se anche di questi tempi non avessero continuato a uscire sui giornali locali notiziole come quella di qualche giorno fa. L'assun­zione da parte della Regione di 160 precari per vigilare 24 ore su 24 il traffico dei quattro sottopassi pedo­nali della circonvallazione palermi­tana: 40 assunti a sottopasso...

Gian Antonio Stella
 
28 luglio 2009
da corriere.it
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« Risposta #89 inserito:: Luglio 30, 2009, 09:14:52 am »

LA LEGA E I DIALETTI

Battaglie giuste e sparate


«Non pubblicare articoli, poesie o titoli in dialetto», diceva una delle direttive ai giornali emanate nel 1931 da Gaetano Polverelli, capo ufficio stampa di Mussolini: «L’incoraggiamento alla letteratura dialettale è in contrasto con le direttive spirituali e politiche del Regime, rigidamente unitarie. Il regionalismo, e i dialetti che ne costituiscono la principale espressione, sono residui dei secoli di divisione e servitù». Un ordine insensato. Uno spreco di ricchezze.

Che Luigi Meneghello, autore di libri straordinari e stralunate filastrocche («potacio batòcio spuacio pastròcio / balòco sgnaròco sogato pèocio») avrebbe potuto disintegrare spiegando dall’alto della sua cattedra all’università di Reading che non solo «chi è padrone del proprio dialetto poi impara meglio l’italiano, l’inglese e pure il tedesco» ma che «"l’uccellino" italiano, con tutto il suo lustro, ha l’occhietto vitreo di un aggeggino di smalto mentre l’" oseléto" veneto che annuncia la primavera ha una qualità che all’altro manca: è vivo». Vale per il dialetto veneto e il siciliano, il sardo e il piemontese. Tutti.

Come dice Ferdinando Camon, lui pure devoto alla lingua davvero materna, i «putei» e i «picciriddi», i «pizzinnu» e i «cit» non sono solo «bambini». Ma qualcosa di più. Per questo è un peccato che una battaglia giusta, quella del recupero anche a scuola delle lingue locali usate da Verga e Pavese, Gadda e Fenoglio oggi stravolte da un impasto di tele- italiano «grandefratellesco», venga svilita in una sparata strumentale buttata lì dai leghisti, con accenti pesantemente anti-unitari, per ragioni di bottega. Come è un peccato che un problema legittimamente posto nel consiglio provinciale di Vicenza, quello delle graduatorie nei concorsi pubblici che al Nord hanno regole più rigide e al Sud più elastiche, venga tradotto in un attacco a tutti i docenti meridionali venato di vecchi rigurgiti razzisti che sembravano (sembravano) accantonati.

La scuola, come sa chi raggela davanti a certe classifiche internazionali che vedono il nostro Paese in drammatico ritardo (con la luminosa eccezione di alcune regioni settentrionali piene zeppe, a sentire il Carroccio, di docenti «terroni »), non ha bisogno di maestri e professori che sappiano recitare «sic sac de hoc sec iè car ac a cà» (sottotitolo per i non bergamaschi: cinque sacchi di legna secca costano care ovunque) ma di maestri e professori che conoscano e sappiano insegnare al meglio la matematica, la fisica, l’inglese, la storia, l’italiano... Ha bisogno, insomma, di un salto di qualità. Che recuperando un forte e comune sentire intorno all'idea della Patria, dell'Unità, del Risorgimento possa permetterci di ricucire senza derive campanilistiche con le nostre lingue di ieri che per Giacomo Leopardi erano le più vicine «all'espressione diretta del cuore».

E chissà che questa nuova scuola, italiana ma rispettosa dei dialetti, consenta ai deputati e ai senatori di domani di essere un po' più preparati di quelli di oggi, visto che ai microfoni delle Jene sono arrivati a collocare Guantanamo in Iraq e a definire il Darfur «un sistema di mangiare veloce», i baschi dell'Eta «un movimento irlandese» e Caino «figlio di Isacco». Per non dire della scoperta dell'America (oscillante tra il 1640 e il 1892) e altre amenità che ogni maestra da Sondrio a Crotone, inorridita, avrebbe segnato con la matita blu.

Gian Antonio Stella
30 luglio 2009

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