Mio padre Pio La Torre
Di ATTILIO BOLZONI
La mattina avevano ucciso Pio La Torre e la sera arrivò in Sicilia il generale più famoso dell'Arma dei carabinieri. Era il 30 aprile del 1982. Nominato prefetto di Palermo, Carlo Alberto dalla Chiesa - che quattro mesi dopo sarebbe stato anche lui assasinato - fu circondato dai giornalisti che gli chiesero: «Generale, perché secondo lei hanno ammazzato Pio La Torre?». Rispose il generale: «Per tutta una vita».
Quella vita ce la racconta Franco La Torre, uno dei figli (l'altro è Filippo) di un uomo - ci piace riprendere le parole di Vincenzo Consolo - che è stato “orgoglio di Sicilia”.
Figlio di contadini, nato nella borgata palermitana di Altarello di Baida, sindacalista e capopopolo negli anni infuocati del separatismo e delle occupazioni delle terre, deputato alla Camera per tre legislature, Pio La Torre è stato ucciso trentasei anni fa quando era da appena sette mesi segretario regionale del Partito comunista italiano. Un ritorno nell'isola, un ritorno in quella «città dove si fa politica con la pistola». La sua Palermo.
Il figlio Franco ricorda il padre fra dimensione pubblica e pieghe private. La passione politica e l'incontro con Giuseppina che sarebbe diventata sua moglie, le Botteghe Oscure e le vacanze di famiglia in Polonia e a Panarea, la detenzione nel carcere dell'Ucciardone e la battaglia contro i missili a Comiso, le "attenzioni” che gli avevano riservato i servizi segreti italiani (lo sospettavano una spia di Mosca) e la Commissione parlamentare antimafia, il partito e gli amici. Fino a quel 30 aprile, fino alla morte.
In mezzo c'è la straordinaria esistenza di un personaggio che ha segnato la storia d'Italia con le sue idee e la sua azione. Sempre dalla parte dei deboli. Sempre contro i poteri criminali.
La legge che porta il suo nome (insieme a quello del ministro dell'Interno del tempo, Virginio Rognoni) e che dal settembre del 1982 introduce nel codice penale il reato di associazione mafiosa e la confisca dei beni ai boss è un confine, è semplicemente il prima e il dopo della lotta alla mafia nel nostro Paese.
La storia di Pio La Torre è stata ricostruita in questi ultimi anni dai suoi familiari nei libri “Sulle ginocchia” (edizioni Melampo) ed "Ecco chi sei” (San Paolo Edizioni). Poi hanno scritto Francesco Tornatore ("Ecco perché”, Istituto Poligrafico Europeo), Vito Lo Monaco e Vincenzo Vasile ("Pio La Torre”, Edizioni Flaccovio), Paolo Mondani e Armando Sorrentino ("Chi ha ucciso Pio La Torre?”, Edizioni Castelvecchi), Carlo Ruta ("Pio La Torre, legislatore contro la mafia”, Edizione di Storia e Studi sociali). Ed è appena arrivato sugli scaffali, a firma di Giuseppe Bascietto e Claudio Camarca, "L'uomo che ha incastrato la mafia” della Compagnia Editoriale Aliberti.
Nonostante questa preziosa e abbondante produzione di saggi ho voluto chiedere a Franco una testimonianza sul padre perché credo che non sia mai abbastanza far conoscere la sua figura, soprattutto ai più giovani che in quel 1982 non erano ancora nati.
Alla fine della scrittura Franco La Torre si chiede chi abbia davvero «proseguito con lo stesso impegno le sue battaglie», parla di gesti sinceri ma anche di tanta ipocrisia e di tanto opportunismo, di un'eredità raccolta e ostentata - dalla politica (compreso qualcuno del partito dal quale suo padre proveniva) e da associazioni - con una propaganda non sempre disinteressata. Un simbolo che ha fatto molto comodo a imbonitori, spacciatori di pozioni magiche e pure a qualche ladruncolo. Ma stiamo parlando d'altro, già stiamo parlando delle maschere dell'antimafia.
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