IL FUTURO DEI DEMOCRATICI
Il rischio di chiudersi e di dividersi ancora
Il Lingotto di Torino ha rispecchiato lo sforzo di un Pd che tenta di aprirsi ai problemi dell’Italia ma sembra condannato a scaricare all’esterno le contraddizioni e i limiti della propria azione
Di Massimo Franco
Il Lingotto di Torino ieri è stato il palcoscenico della metamorfosi del Pd, prima ancora che del suo rilancio. Ha rispecchiato lo sforzo di un partito che tenta di aprirsi ai problemi dell’Italia ma sembra condannato a scaricare all’esterno le contraddizioni e i limiti della propria azione; e a far coincidere la propria identità e la propria strategia con quella di un leader colpito dalla sconfitta referendaria del 4 dicembre, eppure tuttora insostituibile e vincente: almeno all’interno dei giochi congressuali. Il risultato, almeno per quanto si sta vedendo, è quello di una cavalcata senza ripensamenti del segretario uscente. L’ambizione, lodevole, rimane quella di discutere di tutto, di <fare le pulci> agli ultimi tre anni, e di iniettare un po’ di collegialità nelle decisioni. Ma è difficile che sia soddisfatta pienamente.
Le parole dette ieri pomeriggio da Matteo Renzi tendono a riproporre la vittoria ormai lontana alle Europee del 2014 come biglietto da visita. Attaccano il Pd dei predecessori, da Walter Veltroni a Pierluigi Bersani, teorici del <partito leggero> e del <partito pesante>, opposto al renziano <partito pensante>. Il tentativo è di riscrivere la storia politica recente liquidando anche i predecessori a Palazzo Chigi come subalterni a un’Unione europea tratteggiata con severità: in parte una conseguenza dell’amarezza per il peggioramento dei rapporti con la Commissione negli ultimi mesi dell’ex premier al governo.
Ne viene fuori un’analisi molto orgogliosa e avara di spunti autocritici: forse perché altrimenti obbligherebbe a una disamina impietosa degli errori commessi. Ma è un approccio comprensibile: una nomenklatura sulla difensiva, proiettata sulle elezioni amministrative di primavera e su quelle politiche del 2018, non può concedere più di tanto agli avversari.
Dovrebbe rivoluzionare la propria strategia, mentre finora lo schema è stato quello della «linea giusta» guastata da qualche errore e dall’ostilità della minoranza. Per questo, è bene seguire la tre giorni torinese con occhi freddi; e capire che si inizia un’altra fase di passaggio, per il Pd. Bisogna dunque contemplare la possibilità di assistere a un dibattito calibrato sul «modello Leopolda»: su logiche di adesione quasi acritica alle indicazioni del leader. Non bastano i «tavoli di lavoro» sugli argomenti più disparati e suggestivi a cancellare questa sensazione di fedeltà a una politica che non consente deviazioni.
È possibile perfino un indurimento di fronte alle critiche, dal momento che secondo Renzi «chi spara contro il Pd indebolisce l’argine del sistema democratico». Che il partito di maggioranza lo sia è indubbio. Ma la scissione e la difficoltà a capire quanto è accaduto col referendum, e l’appoggio altalenante a Paolo Gentiloni e al suo governo, rischiano di infragilire questo argine: sebbene ieri l’appoggio al premier sia apparso più convinto e determinato del solito. Per il momento in cui cade la kermesse renziana, non si può chiedere molto di più.
La frattura tra i Dem, le inchieste della magistratura che lambiscono la cerchia dell’ex premier, l’asprezza della discussione con gli altri due candidati alla segreteria, non sono le premesse ottimali di un dibattito aperto. Quasi per forza di inerzia non può che prevalere il «serriamo le fila», e un attacco agli avversari comprensibile per la fase convulsa che il renzismo vive. Risultato: più che un’«Arca di Noè» inclusiva e aperta, si delinea un Pd incline a imitare la «testuggine romana». Si tratta di una formazione di fanti magari non troppo grande ma compatta e pronta alla mischia.
Rimane il dubbio che tutto questo possa ricostruire il ruolo del Pd di qui alle urne come perno politico del Paese. È come se il partito faticasse ancora a vedere quanto negli ultimi mesi gli sia diventato difficile espandersi e attirare elettori; e quanto, invece di unire, rischi di chiudersi a riccio e di dividersi ancora, anche al proprio interno. C’è da sperare in un cambio di passo tale da non farlo diventare terreno di caccia dei movimenti populisti, e serbatoio dell’astensionismo.
Al di là delle parole d’ordine ufficiali, dal Lingotto potrebbe riemergere un Pd che non segue una logica maggioritaria e aggregante. Diventa invece il campione involontario del ritorno al sistema proporzionale, che pure critica. Eppure, Renzi e i suoi non hanno rinunciato all’idea di una vittoria sul Movimento 5 Stelle. Né si può pensare che si preparino solo a arrivare in Parlamento con una forza omogenea e fedele, decisa a trattare e a far pesare i suoi deputati e senatori, tanti o pochi che siano.
Sarebbe ingiusto imputare questo minimalismo a un Renzi tuttora corazzato di certezze. Molti lo hanno assecondato e continuano a seguirlo perché non riescono a vedere un’alternativa, e ritengono che sia l’unico segretario in grado di garantire loro la sopravvivenza, se non nuove vittorie. Il virus della divisione, tuttavia, è insidioso. Sarebbe un dramma se da Torino arrivasse la vulgata che l’unico Pd è quello ubbidiente a Renzi. Significherebbe incubare, presto o tardi, altre fratture; e ridurre la «testuggine romana» a un guscio sottile: in termini di contenuti, prima che di voti. Sicuramente, non è l’obiettivo che il gruppo dirigente si prefigge.
10 marzo 2017 (modifica il 10 marzo 2017 | 21:59)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Da -
http://www.corriere.it/cultura/17_marzo_11/massimo-franco-9e7d34fc-05ce-11e7-882a-48a6b14b49a6.shtml