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Autore Discussione: MICHELE AINIS.  (Letto 129422 volte)
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« Risposta #120 inserito:: Settembre 26, 2012, 03:45:29 pm »

ECCESSI DI UN DECENTRAMENTO

I pachidermi delle regioni

Lo scandalo che travolge la giunta Polverini non è certo un buon motivo per abolire la Regione Lazio. Né la Lombardia o la Sicilia, dopo le peripezie di Formigoni e di Lombardo. Ma sta di fatto che le Regioni sono diventate molto impopolari; e il popolo è pur sempre sovrano. Di più: nei termini in cui le abbiamo costruite, le Regioni sono un lusso che non possiamo più permetterci. Non solo in Italia, a dirla tutta. Ne è prova, per esempio, il no di Rajoy alla Catalogna, che reclamava una maggiore autonomia fiscale. Ma è qui e adesso che il decentramento dello Stato pesa come una zavorra. È qui che la spesa regionale è aumentata di 90 miliardi in un decennio. Ed è sempre qui, nella periferia meridionale dell'Europa, che i cittadini ne ottengono in cambio servizi scadenti da politici scaduti.

Sicché dobbiamo chiederci che cosa resti dell'idea regionalista, incarnata nei secoli trascorsi da Jacini, Minghetti, Colajanni, Sturzo. Dobbiamo domandarci se quell'idea abbia ancora un futuro e quale. Intanto ne conosciamo, ahimè, il passato. L'introduzione degli enti regionali costituì la principale novità della Carta del 1947, ma poi venne tenuta a lungo in naftalina, perché la Democrazia cristiana non voleva cedere quote di potere al Partito comunista. Quando tale resistenza fu infine superata - all'alba degli anni Settanta - le Regioni vennero al mondo zoppe, malaticce. Da un lato, il nuovo Stato repubblicano aveva occupato ormai tutti gli spazi; dall'altro lato, i partiti politici avevano occupato lo Stato. Ed erano partiti fortemente accentrati, dove i quadri locali prendevano ordini dall'alto. Le Regioni si connotarono perciò come soggetti sostanzialmente amministrativi, dotati di competenze legislative residuali e senza una reale autonomia.

Poi, nel 2001, grazie alla bacchetta magica del centrosinistra, scocca la riforma del Titolo V; ed è qui che cominciano tutti i nostri guai. Perché dal troppo poco passiamo al troppo e basta; ma evidentemente noi italiani siamo fatti così, detestiamo le mezze misure. E allora scriviamo nella Costituzione che la competenza legislativa generale spetta alle Regioni, dunque il Parlamento può esercitarla soltanto in casi eccezionali. Aggiungiamo, a sprezzo del ridicolo, che lo Stato ha la stessa dignità del Comune di Roccadisotto (articolo 114). Conferiamo alle Regioni il potere di siglare accordi internazionali, con la conseguenza che adesso ogni «governatore» ha il suo consigliere diplomatico, ogni Regione apre uffici di rappresentanza all'estero. Cancelliamo con un tratto di penna l'interesse nazionale come limite alle leggi regionali. E, in conclusione, trasformiamo le Regioni in soggetti politici, ben più potenti dello Stato.

I risultati li abbiamo sotto gli occhi. Non solo gli sprechi, i ladrocini, i baccanali. Non solo burocrazie cresciute a dismisura e a loro volta contornate da un rosario di consulte, comitati, consorzi, commissioni, osservatori. Quando il presidente Monti, nel luglio scorso, si mise in testa di chiudere i piccoli ospedali, il ministro Balduzzi obiettò che la competenza tocca alle Regioni, non al governo centrale. Negli stessi giorni la Corte costituzionale (sentenza n. 193 del 2012) ha decretato l'illegittimità della spending review , se orientata a porre misure permanenti sulla finanza regionale. Costituzione alla mano, avevano ragione entrambi, sia la Consulta sia il ministro; ma forse il torto è di questa Costituzione riformata.

La Costituzione ha torto quando converte le Regioni in potentati. Quando ne incoraggia il centralismo a scapito dei municipi. Quando consegna il governo del territorio alle loro mani rapaci, col risultato che il Belpaese è diventato un Paese di cemento. Quando disegna una geografia istituzionale bizantina (sul lavoro, per esempio, detta legge lo Stato, ma i tirocini sono affidati alle Regioni). Quando mantiene in vita anacronismi come le Regioni a statuto speciale. Quando pone sullo stesso piano il ruolo delle Regioni virtuose (per lo più al Nord) e di quelle scellerate (per lo più al Sud). Infine, ha torto quando nega allo Stato il potere di riappropriarsi di ogni competenza, se c'è una crisi, se la crisi esige un'unica tolda di comando.

C'è allora una lezione che ci impartiscono gli scandali da cui veniamo sommersi a giorni alterni. Vale per le Regioni, vale per i partiti. Perché viaggiamo a cavalcioni d'un elefante, ecco il problema. E l'elefante mangia in proporzione alla sua stazza. Quindi, o mettiamo a dieta il pachiderma o montiamo in sella a un animale più leggero. Quanto alle Regioni, vuol dire sforbiciarne le troppe competenze. Se non altro, gli incompetenti smetteranno di procurarci danni.

Michele Ainis

22 settembre 2012 | 8:19© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_settembre_22/pachidermi-delle-regioni-ainis_7b6a31c0-047c-11e2-ab71-c3ed46be5e0b.shtml
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« Risposta #121 inserito:: Ottobre 06, 2012, 09:42:53 pm »

IL FALLIMENTO DELLA SECONDA REPUBBLICA

L’eterno vuoto delle riforme

Le conseguenze della riforma del Titolo V che ha trasformato le regioni in staterelli


C’è un nesso fra la Grande abbuffata dei consiglieri regionali e il sovraffollamento delle carceri? E cos’hanno in comune queste due vicende con la rissa fra politica e giustizia che ci ammorba da vent’anni? In apparenza, nulla: sono pur sempre spine, ma di fiori distinti. E invece no, perché la semina è la stessa, e coincide puntualmente con una riforma sciagurata. Anche se c’è voluto tempo per misurarne gli effetti, anche se ce ne accorgiamo solo adesso, quando il tempo ormai è scaduto. È il caso, innanzitutto, della riforma del Titolo V, battezzata dal centrosinistra nel 2001. Quella che ha trasformato le regioni in altrettanti staterelli, ciascuno in grado di legiferare sull’universo mondo, ciascuno armato d’una politica estera al pari dello Stato sovrano, ciascuno addirittura libero di scegliere la propria forma di governo. Sicché il Molise ha più poteri della California, e i risultati, ahimè, li conosciamo: un’orgia di sprechi e di spreconi. Poi, certo, si può obiettare che la responsabilità è delle persone, non delle istituzioni. Se è per questo, c’è chi pensa che il fascismo fosse buono, il cattivo era soltanto Mussolini. Ma non si può entrare in polemica con i fatti: hanno la testa dura, come diceva Lenin. Ed è un fatto, anzi un misfatto, che la spesa regionale sia cresciuta di 90 miliardi nel decennio successivo alla riforma.

E c’è poi il pozzo nero delle carceri, con 21 mila detenuti in più dei posti letto, con un record di suicidi, di atti d’autolesionismo, di gesti disperati. Tanto da trasformare la pena in un delitto, per usare il titolo di un libro curato da Franco Corleone e Andrea Pugiotto. Questa scandalosa condizione dipende dall’abuso del diritto penale, che ci ha inondato con 35 mila fattispecie di reato, e che s’accanisce nei confronti dei più deboli (gli stranieri formano il 36,7% della popolazione carceraria) senza peraltro migliorare la sicurezza dei cittadini. Ma dipende altresì dalla riforma del 1992, che ha riscritto la Costituzione imponendo la maggioranza parlamentare dei due terzi per varare un provvedimento di clemenza. Sicché l’amnistia è diventata impraticabile, anche se la sollecita il capo dello Stato, come è successo pochi giorni addietro.

Mentre rimane praticabile (pure troppo) qualsiasi riforma della Carta, dato che in questo caso basta la maggioranza assoluta. Sempre in quel torno d’anni, sull’onda di Tangentopoli, venne emendato l’articolo 68 della Carta, indebolendo le immunità parlamentari. Col senno di poi, un’altra riforma sbagliata. Perché ha sbilanciato il rapporto fra politica e giustizia, in danno della prima. E perché tutti i tentativi della politica d’ottenere una rivalsa (dalla Bicamerale di D’Alema al lodo Alfano), hanno soltanto incrudelito gli animi, senza mai giungere in porto. D’altronde anche questa legislatura è costellata da riforme mancate. Quella del fisco venne promessa da entrambi i contendenti prima delle elezioni. Sulla giustizia gli annunci risalgono al giugno 2008. Cinque mesi dopo il ministro Calderoli promise la correzione del bicameralismo. Quanto alla legge elettorale, poi, non ne parliamo, anche perché abbiamo consumato ogni parola. Da qui, a volerla ascoltare, una lezione. Se la Seconda Repubblica è fallita, è perché sono fallite le riforme da cui era stata generata. Se stiamo per celebrare i funerali di un’altra legislatura inconcludente, è perché le riforme necessarie non hanno mai visto la luce. C’è insomma un cordone ombelicale fra cattiva politica e cattive riforme. O lo spezziamo, o si spezzerà il Paese.

Michele Ainis

3 ottobre 2012 | 10:00© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_ottobre_03/l-eterno-vuoto-delle-riforme-michele-ainis_633040b4-0d18-11e2-93be-2a3b0933ba70.shtml
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« Risposta #122 inserito:: Ottobre 17, 2012, 10:08:57 pm »

L'ETÀ DELLA FRAMMENTAZIONE

E di semplice non restò nulla


Questa legislatura si era consegnata al mondo sventolando una bandiera: semplificazione. Cinque soli partiti in Parlamento, quando il governo Prodi ne riuniva 11 attorno al proprio desco. Fuori le estreme, dalla Destra di Storace a Rifondazione comunista, ghigliottinate dalla soglia di sbarramento. Fusione in un unico cartello di An e Forza Italia (il Pdl), Ds e Margherita (il Pd). Un'idea di riforma costituzionale condivisa, per sfoltire i ranghi (mille parlamentari), per recidere i doppioni (due Camere gemelle). All'epoca venne persino inventato un ministro per la Semplificazione: Calderoli, buonanima.

Forse non dovremmo mai voltarci indietro, perché la vita è un treno che corre dritto sul binario. Ma sta di fatto che adesso la locomotiva attraversa un paesaggio di città fortificate, l'una contro l'altra. L'unità del Pdl è come un ricordo dell'infanzia: bene che vada, gli subentrerà una federazione con due gambe, o magari con tre. Nel Pd Renzi e Bersani non incarnano una sfida tra diverse esecuzioni d'uno stesso spartito; no, suonano musiche opposte, il rock and roll e il liscio romagnolo. C'è insomma lo spartito, non c'è più il partito. O meglio ce ne sono troppi, dalla sinistra di Vendola al movimento di Grillo, che ovviamente non ha nessuna voglia di mescolare le sue truppe con quelle guidate da Di Pietro. E senza contare i nuovi commensali: Italia futura, la lista dei sindaci, quella di Giannino.

In questo specchio infranto si riflettono anche le nostre istituzioni. L'officina del diritto è affollata di meccanici: dettano norme gli atenei, le autorità portuali, i consigli di quartiere. L'attività amministrativa è a sua volta frantumata, sicché - per dirne una - sui nostri 13.503 acquedotti vegliano 5.513 enti. Il controllo del territorio viene affidato a 6 forze di polizia nazionali e a 2 locali. Ma i custodi sono ormai un esercito, anche se per lo più sparano a salve: al capezzale di mamma tv, per esempio, sgomitano la Vigilanza, l'Autorità per le comunicazioni, il ministero, l'Antitrust. Un tempo avrebbe potuto metterci ordine la legge, ma anche la legge è diventata un condominio dove s'accalcano 2 Camere, 20 Consigli regionali e 2 provinciali, Trento e Bolzano. Insomma, siamo passati dalla separazione alla disgregazione dei poteri. E giocoforza questi poteri disgregati trascorrono i loro giorni a litigare sulle rispettive competenze. In questo momento davanti alla Consulta pendono 6 conflitti tra poteri dello Stato, 12 tra Stato e Regioni, 126 ricorsi sulla spettanza della potestà legislativa.

Potremmo interrogarci a lungo se questa diaspora sia il riflesso, o piuttosto la causa, delle fratture che solcano la società italiana. Dove armeggiano corporazioni e camarille, ordini e collegi, correnti giudiziarie e sindacali, disputandosi il terreno palmo a palmo. Anche in questo caso non c'è un popolo, come non c'è uno Stato. C'è viceversa una serie di tribù, e guai a te se ne rimani fuori: ci rimetteresti la carriera. Eppure è esattamente questa l'urgenza di cui dovrebbe farsi testimone la politica. C'è bisogno d'unità, non di ulteriori divisioni. C'è bisogno d'istituzioni unificanti, quando fin qui soccorre soltanto il Quirinale. Significa sbarazzarsi di tutti gli enti, portenti e accidenti che ci teniamo sul groppone. Ma significa altresì recuperare l'interesse nazionale quale limite alle leggi regionali, come ieri ha ribadito Galli della Loggia. E significa introdurre un sistema elettorale che scoraggi la frammentazione. Dopotutto la semplicità reca almeno una virtù: non ti complica la vita.

Michele Ainis

17 ottobre 2012 | 8:31© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_ottobre_17/e-di-semplice-non-resto-nulla-ainis_ac73760e-1819-11e2-a20d-0e1ab53dafde.shtml
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« Risposta #123 inserito:: Dicembre 19, 2012, 05:42:00 pm »

Opinione

Governo laico, una chimera

di Michele Ainis

Monti, inflessibile con gli italiani, è stato sempre molto attento ai desiderata del Vaticano. L'ultimo esempio è il divieto di fecondazione assistita. Ma già sull'Imu e sulla scuola privata non ha avuto il coraggio di invertire la rotta

(19 dicembre 2012)

Ora che il governo Monti sta per esalare l'ultimo respiro possiamo confermare l'idea che ne abbiamo avuto fin dall'inizio: inflessibile con gli italiani, troppo attento a non urtare i vaticani. Tanto da ricevere a ogni festa comandata l'incenso delle gerarchie ecclesiastiche («Presidente, la Chiesa la sostiene»: Bertone a Monti, 21 marzo). Gli osanna dei loro giornali ("Civiltà cattolica", 7 febbraio: «Basterebbe un decimo del suo programma per doverlo ringraziare»; "Avvenire", 9 dicembre: «Ecco uno che ci rispetta davvero»). Un'udienza-lampo dal pontefice due mesi dopo il giuramento (invece al cattolico Prodi toccò aspettare cinque mesi). E pazienza se in cambio questo esecutivo ha dovuto litigare con mezza magistratura, anche fuori dai confini nazionali.

D'ALTRONDE C'E' SEMPRE qualche santa causa da difendere, come il divieto di fecondazione assistita. Bastonato per 19 volte dai giudici italiani ed europei, in ultimo (il 28 agosto) dalla Corte di Strasburgo; dopo di che il governo ha traccheggiato per tre mesi, ma all'ultimo minuto dell'ultimo giorno utile (il 27 novembre) si è appellato alla Grande Chambre. Un appello contro la logica, oltre che contro la decenza. Perché la legge italiana impedisce la diagnosi preimpianto alle coppie portatrici di malattie genetiche, ma non impedisce poi l'aborto. Dunque se soffri di fibrosi cistica (il caso incriminato) delle due l'una: o metti al mondo un infelice o uccidi l'infelice prima che venga al mondo.

E la baruffa con il Consiglio di Stato? Questa volta c'è di mezzo l'Imu, una tassa che offende la suscettibilità del Cupolone, anche perché senza quattrini non si canta messa. I fatti: 4 ottobre, i magistrati amministrativi bocciano il regolamento del governo; troppi sconti a Santa Romana Chiesa. Ma il 2 novembre sbuca fuori un emendamento alla legge sugli enti locali, che permette l'esenzione dall'Imu per le attività senza fine di lucro svolte anche «in via indiretta»; in sintesi, se la Caritas compra una banca, zero Imu per la banca. Il governo benedice, poi – davanti allo sdegno generale – è costretto al dietrofront. Però il nuovo regolamento (19 novembre) è un monumento all'arzigogolo, uno sberleffo ai consigli del Consiglio.

Primo: niente Imu per gli enti assistenziali e sanitari della Chiesa, se il costo delle prestazioni non supera la metà dei «corrispettivi medi». Siccome nessuno conosce la media dei prezzi, è una norma scritta sull'acqua (santa?). E oltretutto inventa l'ineffabile categoria del lucro a metà, come ha osservato Marco Politi. Secondo: le scuole cattoliche non pagano l'Imu se la retta copre una frazione dei costi del servizio.
Ma quanto costa il servizio? Vattelappesca. Sappiamo tuttavia che in giugno il ministro dell'Istruzione, Profumo, ha firmato due nuove intese con Bagnasco per rafforzare l'insegnamento del cattolicesimo. E sappiamo inoltre che i 26 mila docenti di religione, grazie al Concordato, intascano una busta paga più pesante rispetto a chi insegna matematica o latino.

C'E' ALLORA UNA PREGHIERA da rivolgere al governo in preghiera. Quella che ogni medico sussurra ai suoi pazienti: «Dica trentatré».
Come l'articolo della Costituzione che autorizza le scuole private, purché «senza oneri per lo Stato». Oppure, per risparmiare fiato, basterebbe dire tre. Come quell'altro articolo che custodisce il principio d'eguaglianza, «senza distinzione di religione».
Ma il gabinetto Monti, non meno dei suoi predecessori, ha preferito viceversa un silenzio incivile sui diritti civili: testamento biologico, divorzio breve, coppie di fatto, omofobia. Ha mantenuto in vigore la truffa dell'otto per mille (1.148 milioni nel 2012), così come gli sconti per le finanze vaticane (50 per cento sull'Ires), i regali (l'acqua gratis da parte dell'Acea), i benefit di Stato (190 mila euro l'anno per il Gran capo dei cappellani militari).

Domanda: ma ce l'avremo mai in Italia un governo finalmente laico? Difficile sperarlo, anche per chi abbia il dono della fede. Più facile che al Quirinale, dopo Napolitano, venga eletto il papa.
Michele.Ainis@uniroma3.It

 
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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/governo-laico-una-chimera/2196549
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« Risposta #124 inserito:: Dicembre 29, 2012, 07:48:00 pm »

IL VOTO DECIDERÀ IL MODELLO VINCENTE

Le cinque democrazie


Le prossime elezioni? Una competizione fra programmi, interessi sociali, leader. Come sempre, del resto. Ma stavolta c'è una novità, anche se fin qui non ci abbiamo fatto caso. Perché nell'urna si misureranno non soltanto linee politiche, bensì modelli di democrazia. E i modelli in gara sono almeno cinque, quanti le dita d'una mano. Certo, la democrazia risponde pur sempre a un unico criterio: è un sistema dove si contano le teste, invece di tagliarle. Però se il voto rappresenta lo strumento di legittimazione del potere, le tonalità di quest'appello al voto esprimono altrettante concezioni del potere legittimo. E adesso tali concezioni s'elidono a vicenda, come i cinque protagonisti sulla scena.

Primo: Bersani. Vanta un'investitura iperdemocratica, perché è l'unico leader scelto attraverso le primarie. Anche le primarie, tuttavia, possono declinarsi in varia guisa. Se sono troppo chiuse s'espongono alla critica formulata nel 1953 da Duverger, dato che il loro esito verrà orientato giocoforza dalla burocrazia interna del partito. Nel caso di specie il Pd ha alzato gli steccati per evitare inquinamenti, e il timore non era campato per aria. Però al secondo turno è stato respinto il 92% delle richieste d'iscrizione. Dunque Bersani è portavoce d'un modello di democrazia innervata dai partiti, che in qualche modo fa coincidere i partiti con le stesse istituzioni.

Secondo: Berlusconi. Quando ha aperto bocca, l'estenuante discussione sulle primarie del Pdl è subito caduta nel silenzio. Perché in lui s'incarna il potere carismatico, nel senso indicato da Max Weber. Quindi un rapporto diretto fra il leader e i suoi elettori, che scavalca il partito e offusca qualunque altro potere dello Stato. Da qui una lettura verticistica del principio di sovranità popolare. Da qui, in breve, la metamorfosi di ogni elezione in referendum: o con me o contro di me.

Terzo: Monti. Un professore prestato alla politica, che fa politica senza dismettere la toga. Anzi: è proprio quell'abito a riassumerne l'offerta elettorale. Un'offerta che perciò riecheggia un modello di governo aristocratico: i re-filosofi di cui parlò Platone, gli ottimati dei comuni medievali. Però tale modello può anche convertirsi nel suo opposto. La legittimazione attraverso le competenze significa difatti il rifiuto della politica come professione, significa insomma che ciascun cittadino può ambire al governo della polis.

Quarto: Grillo. Lui le primarie le ha convocate in Rete, e d'altronde per il suo movimento il web costituisce pressoché l'unico canale di mobilitazione, di comunicazione, di elaborazione. Si chiama democrazia digitale, definizione coniata fin dagli anni Ottanta, quando a Santa Monica fu battezzato il primo esperimento. Ora con Grillo approda anche in Italia; ma resta da vedere come si concili la vena anarchica del web con la vena autoritaria del suo apostolo.

Quinto: Ingroia. E insieme a lui Di Pietro e De Magistris, ex magistrati entrambi. Più che un partito giustizialista, un partito giudiziario. La sua cifra democratica? Potremmo definirlo il governo dei custodi. D'altronde anche negli Usa i giudici sono eletti dal popolo. Siccome però siamo in Italia, applichiamo un criterio rovesciato: qui gli eletti sono giudici.

Michele Ainis
michele.ainis@uniroma3.ir

29 dicembre 2012 | 7:41© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_dicembre_29/ainis-editoriale-cinque-democrazie_3b1332f4-5182-11e2-8bb1-ca1f42d86ebf.shtml
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« Risposta #125 inserito:: Gennaio 18, 2013, 11:45:15 pm »

STESSI NOMI, CIRCOSCRIZIONI DIVERSE

Pluricandidati? Scelgano prima


Gli elettori sono tutti uguali («one man, one vote»), gli eletti no. L'eguaglianza dei votanti è una conquista della Rivoluzione francese: nei sistemi arcaici si praticava infatti il voto plurimo, sicché i suffragi dei notabili valevano il doppio rispetto ai comuni mortali. Come d'altronde nella Russia di Stalin, dove gli operai pesavano più dei contadini. La diseguaglianza dei votati è invece una conquista del Porcellum. Ossia il ventre infetto dal quale sbucherà fuori il nuovo Parlamento, c'è ancora qualcuno che se ne ricorda?

In realtà di questa legge elettorale non parla più nessuno. Ci siamo rassegnati, come succede per un lutto. Errore: è anche da qui, dal modo in cui i partiti si fanno vellicare dal Porcellum, che dovremmo giudicarne la credibilità. E tale sistema offende la Costituzione non soltanto per le liste bloccate, che sequestrano la libertà degli elettori. Non solo perché distribuisce un premio di maggioranza senza soglia minima, trasformando il responso delle urne nel quiz di Mike Bongiorno («Lascia o raddoppia?»). C'è una terza perla custodita nel forziere: la possibilità d'esporre lo stesso candidato in più circoscrizioni, come una ballerina in tournée .

Diciamolo senza troppi giri di parole: è un insulto alla democrazia. Perché il pluricandidato reca sempre sul petto una medaglia, che gli assegna di diritto un posto in zona Champions nella lista. E perché quindi è destinato a convertirsi in plurieletto. Siccome però nessuno può posare i propri glutei contemporaneamente su più di una poltrona, a urne chiuse dovrà scegliere: o di qua o di là. E la sua scelta finirà per decretare l'elezione di chi gli viene appresso nella lista. Da qui un ossimoro consacrato dal Porcellum : è l'eletto che elegge, non già l'elettore. Anzi un doppio ossimoro, perché in questo caso l'elezione avviene dopo l'elezione. E il popolo votante? Non può selezionare i candidati, dato che riceve un elenco telefonico, prendere o lasciare. E con il trucco delle pluricandidature non sa nemmeno per chi vota. Sicché viene negata in ultimo non tanto la libertà, quanto la stessa facoltà del voto. Una vergogna, o meglio una plurivergogna.

Respinta sdegnosamente dai partiti? Macché. Fini è capolista dappertutto, come Ingroia, come probabilmente Berlusconi. Tabacci guida la sua squadra in 10 circoscrizioni. Invece Casini batte Bersani 5 a 3 (quest'ultimo corre in Lombardia, Lazio e Sicilia). Si dirà: il leader deve pur metterci la faccia, dal Nord al Sud della penisola. Ma innanzitutto non è un obbligo: Tony Blair fu sempre eletto nel collegio di Sedgefield. Inoltre il trucchetto viene praticato anche dai sottoleader. Sia nei vecchi partiti, dato che il Pd candida Letta e Marino in due Regioni. Sia nel partito novus, quello di Monti. Dove Ichino e Bombassei pedalano su una doppia bicicletta. E dove la Vezzali è seconda in Campania, prima nelle Marche. Chissà se la nostra campionessa condivide il motto che Plutarco mise in bocca a Cesare: meglio primo in Gallia che secondo a Roma.

Quanto a noi, abbiamo soltanto una preghiera da girare ai pluricandidati. Diteci fin da adesso quale sarà la vostra opzione, quale territorio rappresenterete in Parlamento. Diteci, insomma, per chi andremo a votare. E ai partiti che ancora s'affaccendano nella composizione delle liste: pulitele con un buon detersivo. Se il pluricandidato fosse anche un plurinquisito, ci gettereste nella pluridisperazione.

Michele Ainis

michele.ainis@uniroma3.it18 gennaio 2013 | 7:57© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_gennaio_18/pluricandidati-scelgano-prima-michele-ainis_26d58450-6135-11e2-8866-a141a9ff9638.shtml
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« Risposta #126 inserito:: Gennaio 29, 2013, 10:40:15 pm »

PERCHÉ NON INDICARLI PRIMA?

Il silenzio sui ministri


Gli elettori hanno un difetto: sono curiosi. Vogliono sapere, prima di deporre una scheda nell'urna, quale uso si farà del loro voto.
Ma i politici italiani hanno il difetto opposto: sono muti come pesci. O meglio, non è che si mordano le labbra; se è per questo, parlano fin troppo. Però usano parole reticenti sui programmi, silenzio di tomba sui programmatori. Quali facce esporrà la squadra di governo prossima ventura?

Eppure il dubbio non è di poco conto. Specie con questa legge elettorale, che proibisce al popolo votante di scegliere il popolo votato.

Anzi: che gli impedisce perfino di sapere per chi vota, dato che il giochino delle pluricandidature consegna all'eletto il potere di decidere l'eletto. E l'elettore? Da lui pretende un atto di fede, una delega in bianco. Possiamo anche firmarla, ormai ci siamo avvezzi.
Possiamo esprimere la nostra preferenza basandoci sulla fotografia del leader, sul suo eloquio in tv, sui suoi motti di spirito.
Ma certo non ci spiacerebbe qualche ulteriore informazione. A cominciare dai ministri in pectore , perché no? Dopotutto le idee camminano sulle gambe degli uomini.

Per esempio: nel caso, fin qui probabile, che il Pd vinca le elezioni, verrà apparecchiato un posto a tavola per Vendola? Probabile anche questo, ma al momento è un segreto di Stato. E quale posto, poi? Altro è offrirgli in subappalto il dipartimento per le Pari opportunità, altro l'Economia: in quest'ultima evenienza cambierebbe la linea politica, non soltanto la poltrona del politico. Senza dire dei grandi esclusi, che hanno fatto un passo indietro in omaggio al rinnovamento delle liste. Quanti di loro, usciti dalle porte girevoli di Montecitorio, rientreranno dalle finestre di Palazzo Chigi? Il più illustre di tutti - Massimo D'Alema - si è già dichiarato disponibile, se arrivasse una chiamata.
Ma se la chiamata giungesse prima del voto potremmo misurare anche la nostra disponibilità, oltre che la sua.

D'altronde a destra è pure peggio: in caso di successo, non sappiamo nemmeno se Berlusconi farà il ministro di Tremonti o viceversa. Sicché non ci rimane che puntare qualche fiche sul totoministri (11.300 risultati interrogando Google, fra i più gettonati Fassina e Tabacci). Leggere appelli disperati come quello promosso da un gruppo d'operatori turistici («Fuori il nome del prossimo ministro del Turismo», 23 mila fan su Facebook). Scommettere, oltre che sui nomi, sui numeri del prossimo governo (una legge del 1999 limita i dicasteri a 12, ma nessun esecutivo l'ha mai rispettata). E intanto prepararci ad ascoltare le obiezioni che la politica dispensa ai ficcanaso. Una su tutte: da che mondo è mondo tali faccende vengono decise dopo il voto, non prima. Perché c'è da pesare il risultato, e perché c'è da mettersi d'accordo con gli alleati di governo.

Errore: ogni partito punta alla vittoria solitaria, e infatti presenta un programma e un candidato premier. Poi può ben darsi che sia costretto a un matrimonio, ma intanto s'offre al voto quand'è scapolo, non dopo le nozze.

Errore doppio: altro sono le cariche arbitrali (come la presidenza del Senato), su cui nessuno dovrebbe esercitare un monopolio; altro quelle politiche.

Errore triplo: secondo l'articolo 92 della Costituzione, è il presidente del Consiglio incaricato che detta la lista dei ministri, mentre l'incarico lo conferisce il capo dello Stato. Invece abbiamo in lizza una quantità di autoincaricati, che però tacciono sugli autoministri.

Errore quadruplo: questa è la Seconda Repubblica, non la Prima. Una volta ti guadagnavi i galloni da ministro con il pieno di preferenze nelle urne, adesso (ahimè) deve preferirti il Capo.

Errore quintuplo: funziona più o meno così negli altri sistemi parlamentari. In Germania, il leader socialdemocratico Steinbrück s'appresta a presentare la sua pattuglia di governo in vista delle elezioni di settembre. Nel Regno Unito, il governo ombra si trasferisce pari pari a Downing Street, se l'opposizione vince la sfida elettorale; mentre la maggioranza sceglie i ministri nel congresso di partito che precede il voto.

E in Italia? L'ultima speranza sta nella buona educazione: chiedere è lecito, rispondere è cortesia.

michele.ainis@uniroma3.it

Michele Ainis

29 gennaio 2013 | 8:28© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_gennaio_29/silenzio-ministri-voto-Ainis_33f9e0a4-69dc-11e2-9ade-d0fed6564ad7.shtml
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« Risposta #127 inserito:: Febbraio 06, 2013, 05:59:30 pm »

LIBERA SCELTA E CALCOLI ELETTORALI

Il rompicapo del voto utile

Sui cieli della campagna elettorale volteggiano promesse, favole, miraggi. Normale: non si raccontano mai tante bugie come prima delle elezioni, durante una guerra e dopo la caccia, diceva Bismarck. Ed è altrettanto normale, in questi casi, che ciascuno punti l'indice contro la menzogna altrui. Ma c'è invece un assioma che trova sempre d'accordo almeno un paio fra i contendenti. E non si tratta più di blandire l'elettore, quanto piuttosto d'intimargli un altolà. Voto utile, ecco il suo nome di battaglia. Insomma, attento a dove metti la tua croce sulla scheda, altrimenti sprecherai la scheda. Così ripetono all'unisono Bersani e Berlusconi, nemici nell'urna, alleati nell'assioma.
Lì per lì, non fa una grinza. Specie con questa legge elettorale, dove chi ha un voto in più dell'avversario s'accaparra il 54% dei deputati. Perché disperdere le forze, perché sciupare fieno per il cavallo zoppo, quando a sinistra come a destra corre un unico cavallo che può tagliare i nastri del traguardo? Sennonché c'è una trappola logica dietro questo imperativo logico. Anzi due, anzi tre, anzi quattro.

Primo: l'imbalsamazione del passato. Siccome nel Parlamento uscente c'erano due partiti a farla da padroni, spadroneggeranno per tutti i secoli a venire. Ma le elezioni servono per decidere il futuro, non per scattare un'istantanea sul passato. Secondo: la santificazione dei sondaggi. Non è forse vero che Pdl e Pd viaggiano in testa per tutti gli istituti demoscopici?

Controdomanda: e allora che votiamo a fare? Tanto varrebbe sostituire ai 40 milioni d'elettori i mille italiani costantemente intervistati, risparmieremmo tempo e denaro. Terzo: l'abolizione dei candidati. Fino a prova contraria, la scelta elettorale dipende dai programmi dei partiti, però dipende al tempo stesso dalle facce dei signori di partito. E se nel nostro collegio si presentasse una faccia da schiaffi?
È sempre un voto utile quello dispensato al candidato inutile?

Tuttavia la spina più pungente è ancora un'altra, e punge l'elettore, oltre che la logica. Per osservarla non c'è bisogno di scomodare Euclide: difatti se esiste un voto utile, specularmente esiste un voto inutile, e dunque un elettore inutile. Non proprio il massimo di rispetto verso il popolo votante. Tanto più di questi tempi, ora che gli anni d'oro del bipolarismo sono ormai un ricordo dell'infanzia. Ma la proliferazione delle liste è un effetto del disorientamento del corpo elettorale, e di ciò portate voi la colpa, non noi. Voi che avete difeso il Porcellum con le unghie, fingendo di volerlo cambiare. Sicché non possiamo scegliere gli eletti, e a quanto pare nemmeno i partiti. Ci scoraggiate a praticare il voto disgiunto, che è un altro modo per esercitare la nostra libertà di scelta. Facciamo così: andateci voi a votare al posto nostro, sarà un pensiero in meno.

E c'è infine un'ultima questione. Il voto utile è per definizione un voto contro: contro il nemico, ma altresì contro l'amico. Perché mette in guardia l'elettore contro la sua prima scelta, perché lo invoglia al male minore, altrimenti si beccherà il male maggiore. Dunque trasforma l'opzione elettorale in un atto d'inimicizia, o quantomeno di sfiducia: ti voto solo perché non ho fiducia che vinca il mio partito.

Ma non può esserci speranza in una scelta disperata, in un voto sequestrato dalla paura del nemico.


michele.ainis@uniroma3.it

Michele Ainis

6 febbraio 2013 | 8:43© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_febbraio_06/rompicapo-voto-utile-ainis_59c12466-7024-11e2-8bc7-4a766e29b99e.shtml
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« Risposta #128 inserito:: Febbraio 17, 2013, 09:12:56 pm »

L'INCUBO DELLE CAMERE BLOCCATE

Il regno di Amleto


Il miglior regalo per i prossimi parlamentari? Un vaccino antinfluenzale. Guai ad ammalarsi, infatti, ed anzi guai a distrarsi, con i numeri che si profilano al Senato. Dove tutto lascia immaginare un revival del 2006, quando Prodi governava (si fa per dire) sorreggendosi al bastone dei senatori a vita. O del 1994, quando Scognamiglio strappò a Spadolini la presidenza di palazzo Madama per un solo voto (e il governo Berlusconi durò 8 mesi appena).

Ma nel 2013 c'è il rischio di scavare una doppia trincea: alla Camera, oltre che al Senato. Perché lì il premio garantisce, è vero, una super-maggioranza a chi vince le elezioni; però non gli assicura affatto il controllo dell'attività legislativa. Non quando l'Aula venga presidiata da una super-minoranza, come quella che sta per imbucarvi Grillo. Non se quest'ultima rifiuti ogni stretta di mano, minacciando viceversa il calcio in bocca più letale: l'ostruzionismo. Nel 1976 la Camera venne sequestrata da una pattuglia di quattro radicali; figurarsi cosa potranno combinare un centinaio di deputati del Movimento Cinque Stelle, senza contare gli uomini di Ingroia, ammesso che raggiungano il quorum.

Intendiamoci: l'ostruzionismo non è un crimine. Viene permesso dalle regole, benché le stiri come un elastico fino al punto di rottura. Fu allevato nella culla della democrazia parlamentare: negli Usa fin dal 1841, in Inghilterra dal 1877, per mano della «brigata irlandese», che rivendicava l'autonomia dell'isola. E qui in Italia ha servito non di rado buone cause, come il filibustering praticato nel 1899 contro le misure liberticide del governo Pelloux. Altre cattive, come l'ostruzionismo contro l'adesione al Patto Atlantico (1949) o contro la riforma regionale (1967). Ma le cause per lo più sono opinabili, perché la politica è il regno di Amleto, è un rompicapo dove manca la risposta.

Contano allora gli strumenti, le tecniche parlamentari. Curioso: in origine l'ostruzionismo mirava a sveltire le discussioni, accompagnando gli oratori troppo prolissi con un saluto collettivo di sbadigli, scalpiccii, clamori. In seguito s'avvalse viceversa di maratone oratorie per bloccare questa o quella decisione, e ancora si cita il record di Marco Boato (18 ore filate nel 1981, guadagnandosi l'epiteto di «vescica di ferro»). Poi i regolamenti parlamentari hanno posto un limite di tempo agli interventi, ma restano praticabili altre strategie: emendamenti a pioggia, continue richieste di verifica del numero legale, raffiche di votazioni per appello nominale. Sicché il nuovo Parlamento ben difficilmente emulerà le imprese del vecchio, che ha saputo battezzare alcune leggi in una settimana (sui referendum nel 2009, il salva-liste nel 2010, la manovra del 2011). Anche perché la bozza Quagliariello-Zanda, che avrebbe accelerato l' iter legis , non è mai uscita dal suo bozzolo. Tanto per cambiare.

Ma l'ostruzionismo cambia eccome, se a condurlo è una legione, invece d'un drappello di soldati. Perché a quel punto può sparare l'arma atomica: il ritiro della truppa. Facendo mancare il numero legale, e impedendo perciò ogni deliberazione. Chiunque vinca, farà bene a metterci subito rimedio. Come? Con la politica che s'usa in ogni condominio. Concedendo qualche posto al sole agli avversari, anziché accaparrarsi fino all'ultima presidenza di commissione. Varando finalmente uno statuto dell'opposizione, di cui si parla a vanvera da un decennio almeno. Evitando l'abuso dei voti di fiducia, il muro contro muro. O la legislatura s'aprirà con una tregua, o conteremo i morti sul campo di battaglia.

Michele Ainis

16 febbraio 2013 | 8:05© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_febbraio_16/il-regno-di-amleto-michele-ainis_cec5b384-77fa-11e2-add6-217507545733.shtml
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« Risposta #129 inserito:: Febbraio 27, 2013, 11:51:17 pm »

Tre grandi minoranze impotenti

Sui cieli della Repubblica italiana s'addensa un uragano. Di più: una tempesta perfetta, quella che non ti lascia scampo. Stallo politico, con tre grandi minoranze (Pd, Pdl, M5S) che parrebbero impotenti a generare qualsiasi maggioranza. Stallo istituzionale, senza né un governo né un capo dello Stato nella pienezza dei poteri, mentre dei loro eredi fin qui non s'intravede neanche l'ombra. Stallo democratico, perché avremmo urgenza di riannodare il filo tra popolo e Palazzo, e invece la paralisi rischia di reciderlo del tutto. Insomma una situazione di blocco, dove però mancano i poteri di sblocco.

Nel frattempo va in scena una litania di paradossi. Il vincitore (ossia il Partito democratico) coincide in realtà con lo sconfitto.
Le tre liste nuove di zecca (Scelta civica di Monti, Fare di Giannino e Rivoluzione civile di Ingroia), allestite in fretta e furia alla vigilia di queste ultime elezioni, finiscono come scarpe vecchie nel cestino dei rifiuti elettorali. Mentre il Porcellum , concepito per assicurare la governabilità - e sia pure a scapito della rappresentatività del Parlamento - ci lascia sgovernati.
Ecco, la legge elettorale. Per tutto il 2012 Pdl e Pd hanno imbastito il gioco del cerino, promettendo agli italiani di cambiarla ma intanto sollevando ostacoli e pretesti pur di mantenerla. Perché sotto sotto pensavano di cavarne un utile, invece intascano un risultato inutile.
Anzi dannoso, e non soltanto in vista della formazione del governo. Quale legittimazione avranno le prossime assemblee legislative, ancora una volta nominate anziché elette? Quale consenso potrà mai circondarle, quando un elettore su 4 ha disertato l'appuntamento con le urne (record negativo della storia repubblicana), quando le schede bianche e nulle sono state ben oltre 2 milioni? E con quale autorità il Partito democratico governerà la Camera, se al suo 54% dei seggi corrisponde meno del 30% dei suffragi?

Il fatto è che le leggi elettorali sono come un abito di sartoria: conta la stoffa, ma la misura dipende dal corpo che dovrà indossarlo, non dall'abilità del sarto. Difatti il proporzionale puro ha ben vestito il sistema multipolare operante durante i 45 anni della prima Repubblica. Mentre il Porcellum calzava indosso a un corpo politico bipolare, come quello espresso dalla società italiana nei vent'anni della Seconda Repubblica. In quella condizione, il premione di maggioranza si traduceva in un premietto, giacché ogni coalizione viaggiava attorno al 40% dei consensi. Ora però siamo cascati mani e piedi in un sistema tripolare, con tre forze politiche più o meno equipollenti. Da qui la distorsione, ma da qui pure lo stallo. Perché adesso servirebbe il doppio turno, che invece non c'è. E perché la logica dei sistemi tripolari imporrebbe un accordo di governo fra due poli a scapito del terzo, o al limite una grande coalizione. Nel nostro caso, viceversa, a ciascuno prende l'orticaria solo a sentir nominare l'altro.

In astratto una soluzione ci sarebbe: nuove elezioni. Dopotutto nella primavera scorsa i greci hanno votato per due volte in un mese, tirandosi fuori dalle secche. Ma in Italia questo rimedio è impraticabile, perché abbiamo un presidente della Repubblica in scadenza. Art. 88 della Costituzione: Napolitano non può sciogliere le Camere durante l'ultimo semestre del proprio settennato, a meno che lo scioglimento non coincida con l'ultimo semestre della legislatura. Qui però siamo al battesimo d'una nuova legislatura, che potrà interrompere soltanto il nuovo presidente. Mentre il vecchio, nel frattempo, dovrà pur conferire un incarico di governo, e saranno dolori. Dolori doppi, dato che alla frattura politica s'accompagna una frattura geografica, con tre regioni del Nord (Lombardia, Piemonte, Veneto) legate dalla Lega per slegarle dal Paese. E una frattura generazionale, che ci cadrà sotto gli occhi quando i trentenni del Movimento 5 Stelle prenderanno posto in Parlamento.

C'è una via d'uscita? Sì che c'è, ma spetta alla politica. Se le istituzioni sono in stallo, è anche perché le forze politiche fin qui hanno cercato d'appropriarsene, di sequestrarle come si fa con un ostaggio. Invece le istituzioni sono la casa di tutti, dove si può vivere pure da separati in casa, come due vecchi coniugi uniti in un matrimonio senz'amore. Purché ciascuno abbia la sua stanza, e a nessuno sia vietato l'uso degli spazi comuni. La proposta formulata ieri a mezza bocca da Bersani - cedere la presidenza della Camera al Movimento 5 Stelle - è un buon viatico su questo cammino. Ora cerchiamo di non perderci per strada.

Michele Ainis

27 febbraio 2013 | 11:09© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_febbraio_27/ainis-tre-grandi-minoranze_dd5704c2-809f-11e2-b0f8-b0cda815bb62.shtml
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« Risposta #130 inserito:: Marzo 05, 2013, 05:01:01 pm »

TRA REGOLE E NECESSITÀ

L'ingorgo delle scelte

Un vecchio regolamento ferroviario del Kansas innalzava un monumento alla prudenza: «Quando due treni s'incrociano sul medesimo binario devono fermarsi entrambi, e nessuno dei due può ripartire se non sia prima ripartito l'altro». Eccola qui, in questa norma paradossale e assurda, la fotografia dello stallo in cui ci siamo ficcati. Ma il paradosso investe pure il capostazione, non soltanto noi viaggiatori immobili. Perché è a lui, Giorgio Napolitano, che tocca dirimere l'ingorgo; e perché il Quirinale è a sua volta intrappolato in un ingorgo, dato che a metà aprile le Camere si riuniranno per eleggere il nuovo presidente. Qualora viceversa il nuovo coincidesse con il vecchio, tireremmo un respiro di sollievo; ma difficilmente il Parlamento ci farà questo regalo.

Da qui, allora, una domanda: e se fosse il successore di Napolitano a cresimare il premier battezzato dal suo predecessore? Situazione inedita, ma niente affatto impossibile. Per metterla a fuoco, osserviamo l'orologio della crisi: 12 o 15 marzo, prima convocazione delle Camere. A quel punto bisognerà eleggerne i rispettivi presidenti, e non sarà una passeggiata; poi costituzione dei gruppi, delle commissioni, delle giunte. Diciamo che la settimana dopo, a essere ottimisti, sul Colle può iniziare il valzer delle consultazioni. Quali? Quante?
A occhio e croce, c'è da aspettarsi un triplo giro. Prima quelle di Napolitano coi partiti, e con le personalità di cui reputerà utile il consiglio. Ma se i partiti gli dipingeranno un quadro politico ostaggio dei veti incrociati (probabile, se non proprio sicuro), al presidente non resterà che conferire un mandato esplorativo, per favorire la decantazione della crisi. D'altronde Napolitano ne ha già fatto uso: nel gennaio 2008, quando si rivolse a Marini, all'epoca presidente del Senato.

Dunque nuove consultazioni dell'esploratore, questa volta ristrette all'essenziale. Poniamo che riesca il gioco di prestigio, che un coniglio sbuchi fuori dal cilindro: c'è un personaggio che ha buone chance d'ottenere la fiducia, sicché riceve l'incarico di formare il gabinetto. Lui si riserva d'accettare, perché così vuole la prassi; e intanto verifica i numeri con un altro giro di consultazioni. E tre. Dopo di che torna al Quirinale per sciogliere la riserva, decidere i ministri, prestare giuramento; ma salendo le scale del palazzo, può capitargli di venire accolto da un nuovo padrone di casa. Come una fanciulla promessa in matrimonio, la quale - giunta ai piedi dell'altare - scopra che lo sposo è un altro uomo rispetto al fidanzato.

Disse una volta Bobbio: «La nostra storia costituzionale si è svolta attraverso un continuo alternarsi di crisi di governo (spesso molto lunghe) e di governi in crisi (spesso molto brevi)». Lui si riferiva alla Prima Repubblica, segnata da 50 crisi di governo in cinquant'anni; ma quella diagnosi può forse valere anche per la Terza, di cui scorgiamo nel frattempo un'alba livida, spettrale. Dove i fantasmi s'inseguono l'un l'altro senza mai riuscire ad acciuffarsi: il Pdl stringerebbe un accordo col Pd, che invece lo stringerebbe con il M5S, che invece si divincola. Da qui l'oroscopo sulla durata della crisi: toccammo il record nel 1996, dopo la caduta del governo Dini (125 giorni), e magari stavolta lo supereremo. Ma da qui, inoltre, il rischio d'uno slalom del nuovo premier fra due capi dello Stato.

Diciamolo da subito: non sarebbe una tragedia. Perché le istituzioni sono abitate da persone, però al contempo sono anonime, spersonalizzate. Le persone passano, le istituzioni restano. E perché Napolitano, quando conferirà un mandato, non potrà certo scegliere in base alle proprie simpatie. No, dovrà indicare chi sia in grado di coagulare attorno a sé una maggioranza; e tale qualità dipende dal mandatario, non dal mandante. Semmai il paradosso deriva da una regola del galateo istituzionale, fin qui sempre rispettata (l'unica eccezione risale al 1849). Quella che impone all'esecutivo di dimettersi dopo il giuramento del capo dello Stato, che a sua volta respinge poi le dimissioni. Sicché il nuovo governo dovrà bussare comunque alla porta del nuovo presidente, dovrà ottenerne la benedizione; e sia pure a costo di spegnersi e riaccendersi come un fiammifero. Ma il problema è tutto lì: trovare un cerino, e dargli fuoco.

Michele Ainis

5 marzo 2013 | 7:37© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_marzo_05/l-ingorgo-delle-scelte-michele-ainis_8efc61c6-8556-11e2-b184-b7baa60c47c5.shtml
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« Risposta #131 inserito:: Marzo 28, 2013, 10:51:21 am »

UN PAESE ALLA PARALISI

Il bersaglio immobile

Ho fatto un sogno. Bersani torna al Colle (meglio tardi che mai) e ci torna a mani vuote. Senza un «sostegno parlamentare certo» al proprio tentativo, come gli aveva invece chiesto il presidente. Sicché quest'ultimo lo accompagna alla porta, sia pure con rammarico; e si prepara a sparare un secondo colpo di fucile. Subito, perché di gran consulti ne abbiamo visti troppi, e perché di tempo non ce n'è. Dunque Napolitano individua un nuovo vate, ma nel mio sogno pure lui incespica sui veti, pure lui torna al Quirinale senza voti.

Perciò arriviamo più o meno al 5 aprile, quando mancano quaranta giorni all'insediamento del prossimo capo dello Stato. Ma intanto il vecchio presidente non ha più cartucce da sparare, né tantomeno può usare l'arma atomica, lo scioglimento anticipato delle Camere. Non può perché è in semestre bianco; il colpo di grazia, semmai, spetterà al suo successore. E nel frattempo? Stallo totale, blocco senza vie di sblocco. I partiti si danno addosso l'uno all'altro, mentre i mercati infuriano, le cancellerie s'allertano, le imprese fuggono, i disoccupati crescono, le piazze rumoreggiano. L'Italia si trasforma in un bersaglio mobile (anzi no, immobile). Il mio sogno si trasforma in incubo.

No, quaranta giorni così non li possiamo proprio vivere. Sarebbe da pazzi, un suicidio nazionale. Ma sta di fatto che il seme della follia ha ormai attecchito nella nostra vita pubblica. Il Pdl accetta patti col Pd se quest'ultimo patteggia il Quirinale: lo scambio dei presidenti. A sua volta, Bersani inaugura una singolare forma di consultazioni: le consultazioni al singolare. Ossia con singoli individui (Saviano, Ciotti, De Rita), oltre che con il Club alpino e il Wwf. Nel frattempo il suo partito discetta sull'ineleggibilità di un uomo politico (Silvio Berlusconi) già eletto per sei volte. La minuscola pattuglia di Monti viene dilaniata da lotte intestine: la scissione dell'atomo. Il Movimento 5 Stelle disdegna tutti i partiti rappresentati in Parlamento: l'onanismo democratico. E per sovrapprezzo il ministro dimissionario d'un governo dimissionario (Terzi) si dimette in diretta tv: le dimissioni al cubo.

Come ci siamo ridotti in questa condizione? Quale dottor Stranamore ha brevettato il virus che ci sta contagiando? Perché il guaio non è più tanto d'essere un Paese acefalo, senza un governo sulla testa. No, la nostra disgrazia è d'aver perso la testa, letteralmente. Stiamo in guardia: come diceva Euripide, «quelli che Dio vuole distruggere, prima li fa impazzire». Eppure in Italia non mancano intelligenze né eccellenze. C'è un sentimento d'appartenenza nazionale che non vibra unicamente quando gioca la Nazionale. C'è una domanda di governo che sale da tutti i cittadini. E a leggere i programmi dei partiti, i punti di consenso superano di gran lunga quelli di dissenso, come la legge sul conflitto d'interessi: sicché basterebbe lasciarla in quarantena per un altro po' di tempo, in fondo la aspettiamo da vent'anni.

Una cosa, però, dovrebbe essere chiara. Se fallisce il governo dei partiti (quello incarnato da Bersani), c'è spazio solo per un governo del presidente, votato in Parlamento ma sostenuto dall'autorità di Giorgio Napolitano. Anche se quest'ultimo a breve lascerà il suo incarico, anche a costo di sperimentare l'ennesima anomalia istituzionale: il governo dell'ex presidente.

Michele Ainis

28 marzo 2013 | 7:46© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_marzo_28/il-bersaglio-immobile-ainis_36a46278-976f-11e2-8dcc-f04bbb2612db.shtml
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« Risposta #132 inserito:: Aprile 02, 2013, 12:35:28 pm »

 Consultazioni, Michele Ainis costituzionalista: "La commissione dei saggi è un espediente per prolungare la fase di decantazione del governo"

Ansa  |  Di Eva Bosco Pubblicato: 01/04/2013 16:21 CEST  |  Aggiornato: 01/04/2013 16:48 CEST


"La strategia di Napolitano non è incostituzionale. Lo sarebbe se ci fosse una maggioranza, i leader fossero pronti a formare un governo e lui non desse l'incarico; e se, viceversa, non ci fosse una maggioranza e il Capo dello Stato non usasse il potere di scioglimento, che Napolitano, però, ora non può esercitare. La sua misura è inedita, ma lo è anche la situazione. Quella delle commissioni di saggi può apparire una messa in scena, ma l'alternativa era la scena vuota". E' l'analisi del costituzionalista Michele Ainis, alla luce delle critiche mosse a Giorgio Napolitano, in particolare dal Pdl, di aver adottato una strategia non aderente alla Costituzione.

"Dal punto di vista costituzionale, la norma è laconica - spiega Ainis - e dice che il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio. La situazione in cui siamo, di per sé - prosegue il giurista - è quella classica di scioglimento anticipato. Il parlamento ha due compiti: fare le leggi e dare o revocare la fiducia ai governi. Si possono però creare scenari di blocco. Uno di questi si ha quando il parlamento non revoca la fiducia al governo, ma è impotente a legiferare: è quello che è accaduto nell'ultima fase del governo Berlusconi e infatti si discusse di sciogliere anticipatamente le Camere. L'altro è quello in cui il parlamento le leggi le fa, ma non riesce a dare la fiducia al governo. In altre parole, in questo caso, si produce un blocco e il Capo dello Stato ha il potere di sblocco nello scioglimento anticipato. Ma Napolitano non può farlo: è a fine mandato e nel semestre bianco il presidente non può sciogliere le Camere. Può farlo solo il suo successore. La nomina dei saggi, quindi, è un espediente per prolungare la fase di decantazione del governo, nella speranza di un accordo tra i partiti".

E' vero che il Capo dello Stato aveva altri strumenti: "Poteva dimettersi, probabilmente con la conseguenza di una tempesta sui mercati. Oppure poteva dare l'incarico a un soggetto istituzionale: quel governo avrebbe potuto gestire le elezioni, la vera partita che si aprirà a breve. Probabilmente Napolitano non ha voluto correre il rischio che le Camere poi negassero la fiducia". Nel Pdl c'è chi profila la possibilità che il Parlamento preferisca ora ammutinarsi di fronte ai provvedimenti che il governo andrà ad adottare. "Ma il Parlamento - fa notare Ainis - si è già ammutinato, sennò esprimerebbe la fiducia a un governo. Quella dell'ammutinamento è una minaccia".

Un altro quesito riguarda i poteri attuali del governo Monti e gli atti che può compiere: "La risposta non è automatica - spiega Ainis - perché nessun testo sacro stabilisce cosa sia l'ordinaria amministrazione. Certo è un depotenziamento dei poteri di indirizzo politico del governo, non un suo azzeramento. Si può dire che nell'ordinaria rientra la straordinaria amministrazione: se ci fosse un terremoto, un governo sfiduciato o dimissionario dovrebbe o no tamponare l'emergenza? Il giudizio su cosa sia emergenza è politico. Un'emergenza istituzionale è legata al fatto che sarebbe un disastro votare con questa legge elettorale. Per votare in condizioni meno insane, Monti potrebbe fare un decreto di due righe con cui stabilisce che abroga il porcellum e rivive il mattarellum".

Quanto al durata del governo Monti, "rimarrà fino a quando non verrà eletto il nuovo Presidente della Repubblica, che potrà sciogliere le Camere. Certo, non credo che questo sarà il primo atto del prossimo Capo dello Stato, che prima farà delle verifiche, perché potrebbe esserci un clima diverso: non dimentichiamo che dovrà pur determinarsi un accordo tra le forze politiche per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica, e quell'accordo potrebbe anche supportare un nuovo governo.

da - http://www.huffingtonpost.it/2013/04/01/consultazioni-michele-ainis_n_2992490.html?ref=topbar
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« Risposta #133 inserito:: Aprile 15, 2013, 11:56:06 am »

ALCUNE IDEE ORIGINALI, ALTRE INESATTE


Ora la poltica deve decidere
I nostri dieci saggi si sono trasformati in dei saggisti. Nel senso che hanno generato un saggio, e nemmeno tanto breve: 83 pagine la parte scritta dal gruppo di lavoro sull'economia, 29 pagine quella firmata dal gruppo sulle riforme istituzionali. Ne valuteremo (pardon, ne saggeremo) a mente fredda le proposte, dove indubbiamente non manca qualche buona idea, specie sulla crescita, sulla concorrenza, sul lavoro. Quanto alle istituzioni, s'incontrano alcune idee esatte e altre originali. Peccato che le idee esatte non siano originali, mentre quelle originali suonino inesatte.


È il caso, per dirne una, dell'intenzione di rinvigorire il referendum, in modo che i cittadini possano contare davvero. Come? Elevando il numero delle sottoscrizioni necessarie per indirlo. Idem sulle leggi popolari, tanto per raffreddare gli entusiasmi. È il caso, per dirne un'altra, del progetto d'istituire la quarta Bicamerale, come se tre flop di fila non fossero abbastanza. È infine il caso delle sanzioni disciplinari ai magistrati: qui i saggi propongono una Consulta bis, disegnata e designata con i medesimi criteri. Dopo di che ci sarà un bel derby da giocare.


Quanto al resto, il gruppo di lavoro ha brevettato una nuova Camera: la Camera dell'ovvio. E dunque via al processo breve, come se qualcuno lo desiderasse lungo. Stop al sovraffollamento carcerario, riducendo le pene detentive. Una legge sui partiti, peraltro già suggerita da don Sturzo nel 1958. Un'altra sulle lobby, sollecitata invano da 40 progetti finora depositati in Parlamento. Robuste sforbiciate al numero dei parlamentari, così come alle competenze regionali (silenzio, però, sulle Province). Superamento del bicameralismo paritario. Pensose riflessioni sul troppo diritto che ci portiamo sul groppone. E la forma di governo? Qui i 4 saggi si dividono; ma quella parlamentare batte il presidenzialismo per 3 a 1.
Sarà stato per questo, per non alimentare ulteriori divisioni, che sulla legge elettorale il gruppo di lavoro ha scelto di non scegliere. Squadernando sullo scrittoio del presidente tutto il rosario dei modelli: francese, tedesco, spagnolo o altrimenti misto com'era il Mattarellum . Sicché Solone diventa Rigoletto: «Questa o quella per me pari sono». Certo, noi poveri mortali ci saremmo attesi una più netta indicazione. Tuttavia per ottenerla avremmo dovuto prelevare i saggi da Oltreoceano. Oppure anche in Italia, però da una parrocchia sola.


È la nostra tragedia nazionale: non sappiamo più parlarci. Se metti due italiani attorno a un tavolo, tirano fuori tre soluzioni contrapposte. E per conseguenza siamo incapaci di decidere, mentre là fuori il mondo corre veloce come un jet, mentre l'economia reclama risposte rapide, immediate. Anche l'espediente dei due gruppi di lavoro, escogitato da Napolitano per favorire la decantazione della crisi, si è concluso con una messa cantata. Per forza: ogni partito è affetto dal vizio di Narciso, si specchia nella propria immagine riflessa, osserva il proprio ombelico senza curarsi dell'ombelico altrui.
Almeno un risultato, tuttavia, i saggi ce lo hanno consegnato: per la prima volta si legge in un documento ufficiale il ripudio del Porcellum . Sempre ieri, il presidente Gallo ci ha ricordato come il monito della Corte costituzionale sia caduto nel vuoto, rendendo il Parlamento inadempiente. Chissà, forse questo doppio altolà potrà smuovere l'inerzia del governo a provvedere con decreto. Sempre che il governo decida di decidere.
michele.

Michele Ainis
ainis@uniroma3.it

13 aprile 2013 | 8:03
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da - http://www.corriere.it/editoriali/13_aprile_13/ainis-ora-politica-deve-decidere_58db5d66-a3f8-11e2-9657-b933186d88da.shtml
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« Risposta #134 inserito:: Maggio 15, 2013, 11:55:10 am »

UN PERCORSO CON MOLTI DUBBI

La pietanza delle riforme

Legge elettorale, convenzione e sondaggi via web

Chi forma la riforma? Gira e rigira, stiamo sempre attorno a un palo: le procedure, il metodo, prima ancora del merito. E sulle procedure ciascun partito va a zig zag. Vale per la Convenzione, questa creatura mitologica che dovrà allevare le riforme: emersa (nel documento dei saggi insediati da Napolitano), sommersa (dal ministro Quagliariello), riemersa (per bocca del presidente Letta, dopo il buen retiro di Spineto). E vale, a maggior ragione, per l'intreccio tra riforma costituzionale e legge elettorale. Prima la prima, dice il Pdl. No, assecondiamo anzitutto la seconda, replica il Pd. Un dubbio filosofico che ci ha tormentato già nella legislatura scorsa: è nato prima l'uovo o la gallina? Lasciandoci infine a pancia vuota: senza l'uovo, e senza la gallina.

Ma una pietanza bisognerà pur cucinarla, perché è falso che le riforme non diano da mangiare. Succede viceversa che la crisi economica sia aggravata dalla crisi politica, che quest'ultima abbia ormai messo in crisi le nostre istituzioni, e che perciò dobbiamo prendere la crisi istituzionale per le corna, se vogliamo curare sia l'economia che la politica. Potrà saziarci l'ultimo menu allestito dal presidente del Consiglio? Dipende: dai piatti scelti, ma soprattutto dai loro ingredienti. E questa lezione gastronomica s'applica a tutt'e tre le portate che i cuochi stanno per servirci.

Primo: la legge elettorale. Mettiamola immediatamente in sicurezza, ha stabilito Letta. Con una riformina che intanto ci liberi dalle nefandezze del Porcellum , salvo poi tornarci sopra quando (e se) verrà battezzata la riformona costituzionale. Vivaddio, era ora. Una soluzione di buon senso, che chi scrive predica da tempo. Già, ma come? Con una legge di due righe: il primo rigo abroga il Porcellum , il secondo fa resuscitare il Mattarellum . Magari depurato dal meccanismo infernale dello scorporo, che sottraeva a ogni partito i voti dei candidati vittoriosi nei collegi, e che a suo tempo provocò un'inondazione di liste civetta. O corretto per riequilibrare la rappresentanza femminile, come suggerisce Anna Finocchiaro. Invece Letta propone di segare il premio di maggioranza del Porcellum , lasciandolo - quanto al resto - inalterato. Ma il resto è un proporzionale puro, che ci garantirebbe una governabilità impura. Ed è una lenzuolata di parlamentari nominati, anziché eletti nei collegi.

Secondo: la Convenzione. Risulterebbe dalla somma delle commissioni Affari costituzionali di Camera e Senato, dunque una Bicamerale sotto falso nome. Per carità, può rivelarsi utile, anche se i precedenti portano un po' iella. Ma a patto di dotarla di poteri redigenti, altrimenti il Parlamento ne smonterà il lavoro come un Lego. E senza quest'idea bislacca della doppia presidenza: sennò uno frena, l'altro accelera, finiranno per fondere il motore. E il comitato d'esperti che Letta intende istituire? A quanto pare, consiglia la Convenzione, che poi consiglia il Parlamento: un consulto al cubo.

Terzo: gli elettori. Verranno consultati pure loro, e meno male. Con un sondaggio pubblico via web, come d'altronde accade in tutto il mondo. Dall'Islanda (dove la bozza di Costituzione, nel 2011, è stata elaborata in una pagina su Facebook) al Marocco (con una piattaforma informatica cui hanno aderito 150 mila cittadini). Noi, però, gradiremmo venire consultati pure dopo. Con un referendum obbligatorio, successivo alla riforma. Giusto per ribadire che la Costituzione italiana è degli italiani, di tutti gli italiani.

Michele Ainis

15 maggio 2013 | 9:11© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_maggio_15/la-pietanza-delle-riforme-michele-ainis_0b431dca-bd19-11e2-a017-98f938f31864.shtml
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