LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. => Discussione aperta da: Admin - Marzo 11, 2008, 09:14:40 am



Titolo: MICHELE AINIS.
Inserito da: Admin - Marzo 11, 2008, 09:14:40 am
11/3/2008
 
Il diavolo nella par condicio
 
MICHELE AINIS

 
Da ieri è par condicio. O meglio, la ferrea regola sui minuti dei politici in tv entra nella fase 2: la vendetta. Perché con la presentazione delle liste elettorali il controllo sulle telecamere diventa più assiduo, più stringente. E perché cambia il parametro, la frontiera tra il lecito e l’illecito. Durante la prima fase lo spazio dei partiti era commisurato al loro rispettivo peso nel Parlamento uscente; viceversa lungo quest’ultimo tratto del percorso ogni forza politica avrà la stessa voce, basta che sia presente in almeno un quarto dei collegi elettorali. Saranno contenti i piccoli, verrebbe da pensare. Nemmeno per idea. Contro la distribuzione delle facce nel carosello dei tg tuona la sinistra estrema (Bertinotti) non meno della destra estrema (Storace). Perfino due tipi pacifici e paciosi come Boselli e Casini lasciano in diretta gli studi televisivi dov’erano stati invitati, per protesta contro il sopruso di giornata. Senza dire dei partiti maggiori, a cominciare da quello guidato da Silvio Berlusconi, che tutti i sondaggi accreditano del successo finale. Lui, d’altronde, ce l’ha sempre avuta con la par condicio come il fumo agli occhi, e almeno in questo non ha mai cambiato idea.

C’è una ragione se una disciplina che ha per stella polare l’eguaglianza, in Italia genera l’eguale contumelia dei diversi. C’è una ragione se quella stessa disciplina, che negli Usa mira all’equal time fra i candidati per restituire trasparenza alla competizione elettorale, nelle nostre latitudini si trasforma in un fattore d’opacità, se non proprio in un trucco messo in pista con tutti i crismi del diritto. E questa ragione è alla fine la medesima che ci impedisce di risolvere la tragedia dei morti sul lavoro, di venire a capo dell’evasione fiscale, o più in generale d’assicurare alla giustizia gli autori dei reati. Troppo diritto, ecco il problema. Troppe regole pedanti e cavillose, il cui stesso numero offusca la luce dei principi cui ogni regola dovrebbe dare fiato. Troppi dettagli, quando si sa per esperienza che il diavolo s’annida nei dettagli. Di più: almeno qui in Italia il diavolo è il dettaglio, è il demone classificatore che pretende di codificare ogni respiro, col risultato che poi in ultimo ciascuno fa come gli pare.

Le prove? Abbiamo in circolo non uno bensì due angeli custodi sulla par condicio (la Commissione di vigilanza e l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni), sicché la prima impresa è metterle d’accordo. A propria volta, i due garanti devono applicare un castello normativo formato da 6 leggi e da 4 decreti, che peraltro Corrado Calabrò - presidente dell’Agcom - dichiara inadeguato. Per svolgere il loro compitone, i nostri garanti approvano un doppio regolamento alla vigilia di ogni turno elettorale. Insomma, norme su norme: e infatti il testo licenziato dall’Agcom il 4 marzo scorso scodella 16 articoli, suddivisi in 2 titoli e 3 capi. Eccone un brano: «Ai programmi di comunicazione politica, come definiti dall’art. 2, comma 1, lettera c), del codice di autoregolamentazione di cui al decreto del Ministro delle comunicazioni 8 aprile 2004, che le emittenti televisive e radiofoniche locali intendono trasmettere nel periodo di vigenza della presente delibera si applica quanto previsto dall’art. 7 della delibera 33/08/CSP, garantendo la parità di condizioni ai soggetti politici di cui all’art. 2, comma 1 della presente delibera».

Chiaro? No, oscuro. E pazienza per i conduttori di talk show, vorrà dire che s’iscriveranno in massa in qualche facoltà di legge. L’importante è che rispettino il divieto d’abbordare temi di «evidente rilevanza politica» (dunque la monnezza a Napoli è tabù?); che trasmettano i calendari anche a mezzo fax utilizzando il modello MAG/3/EN (come dispone, con maniacale precisione, il regolamento); che ogni informazione venga sottotitolata per i non udenti (peccato, almeno in questo caso l’handicap poteva essere un vantaggio); che le domande dei giornalisti non sforino i 30 secondi (pena il licenziamento in tronco?). Fra tutte queste regole, però ne manca una. L’unica regola non scritta nel paese del diritto scritto: quella del buon senso.

micheleainis@tin.it
 
da lastampa.it


Titolo: Liste, lacrime e paura questione di famiglia
Inserito da: Admin - Marzo 12, 2008, 10:48:22 pm
12/3/2008 (7:39) - IL CASO

Liste, lacrime e paura questione di famiglia
 
MATTIA FELTRI


ROMA
C’era Gianni Rivera che ha dovuto compilare ventisei moduli e poi l’hanno lasciato fuori dalla squadra dell’Ucd-Rosa Bianca. C’era Luigi Casero, del Pdl, che ha dovuto litigare per delle mezzore con gente che in lista, al numero trentasei, non ci voleva stare: almeno al ventotto o al trentatré, ché in caso di autobomba al Senato si mantengono possibilità di sostituire i defunti. C’era Silvio Berlusconi che a una tirata del genere, a far notte perché i conti quadrassero, non si vuole sottoporre più. C’erano i poveracci senza nome incolonnati davanti alle stanze delle somme decisioni, sedicenti portatori di decine di migliaia di voti, e messi alla porta sbrigativamente. Estenuante e drammatico. Il povero Guido Crosetto è svenuto due volte mentre trattava pugni sul tavolo con Sandro Bondi per conservare i piemontesi candidati in Piemonte, e mentre lo rianimavano, e gli chiedevano se servisse l’ambulanza, mormorava: no, e che si sappia quanto mi sono battuto.

Una cosa così, mai più. Sciagura se sei dentro, sciagura se sei fuori. Gerardo Bianco, escluso coi suoi fedeli da quelli di Pierferdinando Casini, ieri aveva un filo di voce: «Lo hanno fatto per mettere dentro il nipote di De Mita». E cioè Giuseppe, passato dal Pd al centro per seguire lo zio. «Sono stato ingannato. Hanno prevalso le logiche dei pretoriani», ha detto l’ex capogruppo in commissione finanze dell’Udc, Maurizio Eufemi. Ma bisognerebbe mettersi nei panni della povera Daniela Cardinale, ventisei anni, figlia di Salvatore, ministro delle Telecomunicazioni con Giuliano Amato. «Non mi sono mai occupata di politica», ha detto dopo essere stata prescelta dal Pd, ma la politica la pratica da quando, aveva cinque anni, vide sventolare le bandiere della Dc. Tutti le hanno riso dietro. Lei ha pianto per un po’ finché un’amica non le ha detto: «E piantala. Sempre meglio figlia di che amante di».

Sono i dolori del rinnovamento. Marianna Madia, pure ventiseienne, capolista nel Lazio con Walter Veltroni, comincia ad assaporarli. Le si attribuiscono altolocate storie d’amore, e quando la intervistano - è successo in un servizio della Rai durato tre quarti d’ora - poi mandano in onda un minuto e mezzo perché lei, programmaticamente, si propone di salvare il mondo. E perché, sorridendo stupefatta, indica in Walter il suo modello fra i modelli. Colpe dell’inesperienza. E a Maurizio Gasparri viene naturale mettere in pista il suo lato più ruspante: «Il Pd candida sciampiste». La Madia si offende. «Che male c’è?», si chiede impermalita Donatella Poretti, nel Pd in quota radicale, per avere trascorsi nel ramo come rappresentante di prodotti per parrucchieri. E’ vero: per le donne è peggio. Si prenda Pina Picierno, altra ragazza di ventisei anni, bella figlia della Campania dove Veltroni l’ha messa capolista; anche qui si parla di nepotismo perché lo zio Raffaele è sindaco di Teano, il padre Salvatore è stato segretario della Margherita di Sessa Aurunca, ma soprattutto il padrino fu Ciriaco De Mita sul cui eloquio, sportiva e spiritosa, la ragazza ha redatto la tesi di laurea. La Picierno incassa meglio delle colleghe e va avanti spedita a dire che gli incontri elettorali coi giovani sono «una metafora dell’idea di cambiamento». Che è un po’ quello che si coglie davanti a Piera Levi Montalcini, 63 anni, in corsa in Piemonte e nipote di Rita. I noveri dei parenti (Colaninno Jr, Merloni jr, la moglie di Fassino e quella di Bassolino) sono stati proposti un po’ ovunque. Giancarlo Lehner, giornalista e scrittore, voluto in lista da Berlusconi, ha un imperativo: «Basta favorire, a danno di chi merita, figli, mogli, concubine, comparielli, suocere, nipoti, nipotine e cognati. Vaffanculo i parenti!». I quali, naturalmente, stanno anche dalla sua parte. Fallito il tentativo di piazzare una vecchia e bella amica - Katia Noventa - Paolo Berlusconi è riuscito a soddisfare, e per la seconda volta, almeno l’ex moglie, madre dei suoi figli, Mariella Bocciardo. E se Licia Ronzulli non risulta essere la massaggiatrice di Silvio, ma una stimata professionista della fisioterapia, nel Parlamento venturo ci saranno anche Mariella Rizzotti, che si occupa, fra l’altro, delle rughe del capo, ed Elena Centemero, ex insegnate del Berlusconi più giovane, Luigi.

E’ inutile: si risolve tutto in famiglia, nel bene e nel male, e la famiglia oggi più lacerata è quella radicale. Emma Bonino, in tour europeo, non risponde al telefono a Marco Pannella. Il quale continua il suo sciopero della sete - contro la lingua biforcuta di Veltroni e per la pace in Medio oriente - ma nel disinteresse generale e interno. L’altra sera è andato dai socialisti con due simboli: Radicali italiani per Cappato presidente e Lista Bonino per Pannella presidente. Enrico Boselli ha sorriso e ringraziato. Pannella è tornato a casa mogio e ieri, al partito, c’era lo stato maggiore. Erano tutti contro il vecchio babbo radicale, per un partiticidio e parricidio imperfetto.

da lastampa.it


Titolo: MICHELE AINIS Aspettando la riforma dei talenti
Inserito da: Admin - Settembre 02, 2008, 03:39:15 pm
2/9/2008
 
Aspettando la riforma dei talenti
 
 
 
 
 
MICHELE AINIS
 
Un diluvio di riforme s’annuncia per questo mese: giustizia, federalismo, legge elettorale, poteri del governo. Resta però invisibile la riforma più essenziale, quella dei talenti. Eppure l’incapacità di riconoscerli, di stimolarli, di compensarne adeguatamente l’operato è la palla al piede della nostra società. Per l’Ocse, fra il 2001 e il 2006 in Italia la produttività del lavoro è cresciuta dell’1 per cento, 40 volte meno che in Estonia. Il Global Competitiveness Index 2006-2007 ci situa al 42º posto, perfino dietro le Barbados. Al contempo un vestito di gesso blocca la mobilità sociale, inchiodando i figli al medesimo destino dei propri genitori. Secondo una ricerca di Schizzerotto, quest’eredità pesa da 3 a 5 volte in più rispetto agli Usa, mentre per un operaio la probabilità di far carriera è del 3,2%, contro il 14,3% in Svezia.

Da qui la paura del futuro (i giovani italiani sono i più pessimisti d’Europa, racconta un’indagine Gallup realizzata il mese scorso). Da qui la caccia alle spintarelle (in un caso su due sono indispensabili per trovar lavoro, secondo una rilevazione Isfol del 2006). Da qui, più in generale, la scarsa fiducia nelle regole, l’arsenale di trucchi e di sgambetti coi quali ogni italiano sfanga la giornata. Sicché il cerchio si chiude: la questione meritocratica traligna in questione morale, e insieme all’efficienza s’inabissa la legalità del nostro vivere (in)civile.

Questa malattia tutta italiana è stata diagnosticata a più riprese: basta leggere i libri di Floris, Stella e Rizzo, Abravanel, solo a considerare i più recenti. Ma alla diagnosi non segue mai la terapia. Perché? Innanzitutto per una resistenza culturale, che una volta tanto unisce la destra e la sinistra, i preti e i mangiapreti. Sta di fatto che il solidarismo cattolico e l’egualitarismo ereditato dalla tradizione comunista hanno in sospetto ogni processo selettivo, in nome di un malinteso sentimento d’inclusione verso gli ultimi, verso chi uscirebbe fuori gara. Bella carità, quella di chi per aiutarti ti nega ogni riscatto sociale. E in secondo luogo sta di fatto che i privilegiati votano, e il loro voto è ormai più numeroso del voto degli esclusi, dei senza privilegio. Sarà per questo che i programmi elettorali di Prodi e Berlusconi non hanno speso neanche un rigo sull’abolizione degli ordini professionali. Una vergogna nazionale, un tappo alla libertà di concorrenza inventato dal fascismo, che l’Unione europea ci chiede a giorni alterni di riporre nel cestino dei rifiuti. Senza successo, dato che i loro iscritti - stando a un rapporto Censis del 2007 - sono ormai un milione e 90 mila. E dato altresì che fra tali iscritti milita il 31,4% dei parlamentari.

Sicché la meritocrazia rimane una parola in voga nei convegni, o al più in qualche sparuto editoriale. L’unico a metterci le mani fin qui è stato Brunetta, col suo progetto di cacciare i fannulloni. Ma i fannulloni non basta licenziarli: il vero problema è non assumerli. Per quest’impresa tuttavia dovremmo rivoltare l’Italia come un calzino usato, depurandola dalle incrostazioni delle lobbies, dal nepotismo, dalle connivenze fra commissari e candidati, dai conflitti d’interesse, dalla presa rapace dei partiti su ogni ganglio della nostra società. Dovremmo aprire una grande discussione sull’ingiustizia che non premia i meriti e non premia neppure l’eguaglianza: dopo gli Usa e il Regno Unito siamo infatti il Paese più diseguale di tutto l’Occidente, dice l’Human Development Report 2006. E in conclusione dovremmo liberarci della massima di Antifonte: «Tutti gli uomini sono eguali, perché tutti respirano col naso». Sarà pur vero, ma non ci impedisce di misurare i nasi. Sempre che, ovviamente, la politica disponga d’un buon metro. Ma dopotutto è questa la Bicamerale di cui davvero c’è bisogno: una Bicamerale dei talenti.

michele.ainis@uniroma3.it
 
da lastampa.it


Titolo: MICHELE AINIS. Chi scalpella il Quirinale
Inserito da: Admin - Settembre 23, 2008, 02:35:49 pm
23/9/2008
 
Voglia di ordine
 

MICHELE AINIS

 
L’Italia come una caserma?
Lo fa temere una litania di fatti, che stanno rovesciando molte nostre abitudini sociali. Te n’accorgi alla partita di pallone, con i divieti di trasferta decretati dal ministro Maroni, e con la tolleranza zero negli stadi. Nelle relazioni con domestici e badanti, da quando sempre Maroni espelle gli immigrati a brutto muso, smantella i campi nomadi, confisca gli appartamenti in affitto ai clandestini. A scuola, dopo il ritorno del 7 in condotta stabilito dal ministro Gelmini. Al mercatino, perché il ministro Scajola ha dichiarato guerra a chi acquista griffe contraffatte. Camminando nei quartieri periferici, dove il ministro La Russa ha inviato ronde di soldati. In fila allo sportello, dal giorno in cui il ministro Brunetta ha cominciato a licenziare gli impiegati troppo lavativi. Nei rapporti di lavoro, come mostra la mano dura del ministro Sacconi con i sindacati di Alitalia. Perfino nei costumi sessuali, giacché il ministro Carfagna ha deciso d’arrestare su due piedi lucciole e clienti.

Questo atteggiamento muscolare, quest’indirizzo delle maniere forti si propaga per cerchi concentrici, come l’onda sollevata da un sasso sulla cresta del lago.
Ha origine in un atto del governo, viene poi subito emulato da tutti gli altri apparati dello Stato. Dalla polizia stradale, che ha iniziato a prendere sul serio le norme contro l’alcolismo. Dalla magistratura, che senza l’altolà di Alfano avrebbe processato la Guzzanti per aver spedito all’inferno il Santo Padre. Da 8 mila sindaci travestiti da sceriffi, che in nome del decoro urbano proibiscono l’accattonaggio (Assisi), il tramezzino in pubblico (Firenze), le massaggiatrici in spiaggia (Forte dei Marmi), la sosta in panchina per più di due persone (Novara), le effusioni in auto (Eboli), le bevande in vetro nelle ore serali (Genova). Ma il giro di vite risponde a una domanda ormai corale da parte di chiunque sia investito di qualche responsabilità sulla nostra vita collettiva: è un ritornello, un tic. L’ultima proposta viene dal presidente della Lega calcio Matarrese, che reclama celle negli stadi, anche perché le patrie galere hanno esaurito i posti a sedere.

Fosse successo appena l’anno scorso, non si sarebbero contati gli scioperi, i sit-in, i presidi antifascisti. Invece tutti zitti, contenti e applaudenti. Il vento dell’autoritarismo gonfia le vele del governo, trasforma la sua navigazione in gara solitaria, senza scogli, senza avversari: l’ultima rilevazione di Euromedia gli assegna un gradimento record del 67,1%. C’è in questo l’unanime condanna del lassismo, che fin qui ci sommergeva. C’è in secondo luogo il lascito del biennio Prodi, una reazione di rigetto contro la chiacchiera elevata ad arte di governo, contro lo stallo, la non decisione. C’è in terzo luogo il tarlo dell’insicurezza, che rode le nostre esistenze individuali. Insicurezza anzitutto economica, con l’impoverimento della classe media e con l’affamamento dei ceti popolari; ma l’incertezza sul futuro si traduce in un bisogno d’ordine, scarica pulsioni intolleranti, imputa al maghrebino che raccoglie pomodori tutta la colpa se il lavoro è poco. E c’è in quarto luogo l’espulsione dalle assemblee parlamentari delle due sole tradizioni politiche schiettamente antiautoritarie, quella liberale e quella della sinistra libertaria e anarchica. A fare opposizione dura e pura resta Di Pietro, però il suo movimento non ha mai osteggiato l’uso del manganello sulla testa degli indisciplinati.

Questi elementi non bastano tuttavia a spiegare il nuovo clima che ha attecchito sui nostri territori. Perché tale fenomeno s’accompagna a una mutazione antropologica, e perché è stato l’uomo nuovo a generare il nuovo clima, non il contrario. Riecheggia a questo riguardo la lezione d’uno psicologo nazista, Jaensch, poi rilanciata da Fromm e Adorno: ogni governo autoritario ha bisogno di una «personalità autoritaria», ossia d’un popolo zelante verso i superiori, sprezzante nei confronti dei più deboli.

Non è forse questa la chiave di lettura del razzismo che soffia come un mantice sulla società italiana? E non sgorga da qui la doccia di gesso che ha spento le vampate d’odio sulla Casta? Improvvisamente la nostra società si è risvegliata docile, addomesticata. Alla cultura del conflitto, il sale dei sistemi liberali, abbiamo sostituito tutt’a un tratto il culto del potere, delle gerarchie, dell’ordine. E il centro-destra si è limitato a intercettare questo sentimento, a dargli sfogo, sia pure riesumando fossili come le case chiuse o la verga del maestro. L’obbedienza non è più una virtù, diceva nel 1965 don Milani. Infatti: quarant’anni dopo, si è tramutata in vizio.

michele.ainis@uniroma3.it
 
da lastampa.it


Titolo: MICHELE AINIS. Chi scalpella il Quirinale
Inserito da: Admin - Ottobre 06, 2008, 06:25:16 pm
6/10/2008
 
Chi scalpella il Quirinale

 
 
MICHELE AINIS
 
Serve ancora alla Repubblica italiana un presidente della Repubblica italiana?
Domanda impertinente, se non fosse che la politica ci sta recando in pasto un ultimo frutto avvelenato; e il veleno goccia a goccia intossica la nostra più alta istituzione. Perché scalfisce i suoi poteri, ne diminuisce il peso. Senza attacchi frontali, senza una lapidazione in piazza come sperimentarono Scalfaro e Cossiga. No, l’avvelenamento piuttosto si consuma svuotando il ruolo che ricoprì per primo Enrico De Nicola, sottoponendolo a un processo d’erosione, di neutralizzazione progressiva.

In questo, la vicenda del quindicesimo giudice costituzionale suona quantomai eloquente. Manca da un anno e mezzo, ma in Parlamento non si trovano mai i numeri per eleggere il successore del dimissionario Vaccarella. Uno scandalo istituzionale, che ha indotto Napolitano a un pubblico richiamo, dopo lo sciopero della sete inaugurato da Marco Pannella. Tuttavia lo scandalo dipende dal fatto che maggioranza e opposizione vogliono saziarsi entrambe, e allora temporeggiano in attesa che il menù raddoppi. Succederà a febbraio, con la scadenza del giudice Flick.

A quel punto uno a te, uno a me. Da qui il gioco delle coppie, perché il successo di ciascun candidato si lega al profilo del candidato proposto dallo schieramento avverso: un tecnico tira la volata a un tecnico, un uomo di partito s’accompagna giocoforza a un uomo di partito.

Niente di nuovo, la politica ci ha ormai resi avvezzi a questi mercatini. Peccato tuttavia che il successore di Flick non lo designi il Parlamento, bensì il Capo dello Stato. Se i partiti ne contrattano la nomina, se i vari candidati fanno capriole e giravolte per ottenere la benedizione dei partiti, con ciò stesso oltraggiano le prerogative del nostro Presidente. Ma c’è qualcuno che ancora si rammenti del galateo istituzionale? Nessuno, né a destra né a sinistra. Almeno in questo caso, l’oltraggio non chiama in causa un unico imputato.

Non è un oltraggio viceversa la proposta del governo - anticipata da Ghedini - di dividere il Csm in due, sottraendone la presidenza al Quirinale.
Non un oltraggio, ma un errore di grammatica (costituzionale). Perché il Presidente ha un ruolo di cerniera fra i diversi poteri dello Stato. Perché presiedendo il Csm evita di conseguenza che la magistratura divenga un corpo separato. Perché infine nel 1947 i costituenti gli assegnarono il compito di moderare le tensioni fra politica e giustizia, e chissà come potrebbe mai provarci rimanendo fuori della porta. Dice Ghedini: ma con la nostra riforma Napolitano nominerà un terzo dei futuri componenti. E allora? Pure il Consiglio supremo di difesa viene presieduto dal Capo dello Stato, che però volta per volta ne decide altresì la composizione, invitando altri ministri in aggiunta a quanti vi fanno parte di diritto. Dovremmo perciò togliergli anche tale presidenza? Senza dire che la pressione dei partiti impedisce nomine serene. Ma forse il disegno sotterraneo è proprio questo: regaliamo pure al Presidente un’altra nomina, purché per interposto partito.

C’è poi il capitolo dei decreti legge, dove l’abuso si è ormai trasformato in un sopruso. Dall’avvio della legislatura le Camere hanno approvato la miseria di due leggi: il rinnovo dell’Antimafia e il lodo Alfano. Il resto del tempo è andato via per convertire 12 decreti del governo, senza contare quelli che s’aggiungono al paniere (5 nel solo mese di settembre). Una prepotenza contro il Parlamento, come è stato denunziato da più voci. Ma anche contro il Presidente, cui vengono confiscati i poteri di controllo in sede di promulgazione. Infatti i decreti scadono dopo 60 giorni, le assemblee legislative li convertono sempre all’ultimo minuto, e dunque se il Presidente rinviasse la legge di conversione al Parlamento provocherebbe la decadenza dei decreti, finendo alla berlina come traditore della Patria.

E la moral suasion? Napolitano ha già alzato la voce contro la pioggia di decreti, contro lo stallo alla vigilanza Rai, contro la rissa quotidiana fra i partiti. Semplicemente non gli danno retta. D’altronde sono caduti nel vuoto anche gli appelli su una riforma costituzionale condivisa. C’è forse chi abbia visto un testo, un’ipotesi, un progetto? L’aria che tira è questa: ossequio formale, irriverenza sostanziale. Il Quirinale resta l’istituzione più popolare fra la gente, ma nel Palazzo è come il cavaliere inesistente di Calvino.

michele.ainis@uniroma3.it
 
da lastampa.it


Titolo: GIORGIO NAPOLITANO Decreti, vigilerò con rigore
Inserito da: Admin - Ottobre 07, 2008, 12:53:12 pm
7/10/2008
 
Decreti, vigilerò con rigore
 
 
 
GIORGIO NAPOLITANO
 
Gentile Direttore,
ho vivamente apprezzato il senso delle istituzioni cui era ispirato l'articolo di Michele Ainis (pubblicato su La Stampa di ieri), e la sua preoccupazione per ogni erosione delle prerogative e degli equilibri costituzionali.

In Italia si governa - come in tutte le democrazie parlamentari - con leggi discusse e approvate dalle Camere nei modi e nei tempi previsti dai rispettivi Regolamenti, e solo «in casi straordinari di necessità e di urgenza» con decreti (cioè «provvedimenti provvisori con forza di legge») che al Parlamento spetta decidere entro sessanta giorni se convertire in legge. Continuerò a esercitare a questo proposito - nessuno ne dubiti - con rigore e trasparenza le prerogative attribuitemi dalla Costituzione.

In quanto alla mancata elezione, da parte del Parlamento, del giudice costituzionale chiamato a sostituire il prof. Vaccarella dimessosi dalla carica nell’aprile 2007, il professor Ainis ricorda di certo come nella storia della Repubblica accadde più di una volta che si ritardasse a lungo nel colmare simili vacatio per l’assenza di un accordo tra maggioranza e opposizione. Ma non accadde mai che la soluzione venisse trovata attraverso la contestuale «contrattazione» della nomina di un giudice costituzionale che debba succedere ad uno dei cinque nominati dal Presidente della Repubblica. Non accadrà neppure questa volta: stia certo il professor Ainis che considero semplicemente ingiuriosa l’ipotesi che il Presidente possa piegarsi ad una simile, impropria e prevaricatoria, contrattazione tra partiti.
 

da lastampa.it


Titolo: MICHELE AINIS. Il Parlamento non decide? Perda un turno
Inserito da: Admin - Ottobre 20, 2008, 12:29:33 pm
20/10/2008
 
Il Parlamento non decide?

Perda un turno
 
 
 
 
 
MICHELE AINIS
 
C’è un modo per uscire dallo stallo, dal gioco di reciproci dispetti e di veti incrociati che sta paralizzando le due Camere? C’è una soluzione tecnica all’impasse della politica? Sì che c’è, e andrebbe sperimentata con urgenza. Perché sta di fatto che il Parlamento è moribondo. Pensavamo d’aver scoperto l’assassino, dopo il monito del Capo dello Stato contro l’abuso dei decreti, ospitato sulle colonne di questo giornale. Ma non è colpa del governo lo spettacolo che è poi andato in scena nei giorni successivi. Non è un caso d’omicidio quello cui assistiamo da dietro le vetrate del Palazzo. No, si tratta piuttosto di suicidio. E la 19ª fumata nera per eleggere il successore di Vaccarella alla Consulta, nonché il blocco prolungato sul presidente della Vigilanza Rai, ne offrono la prova più eloquente.

Insomma il Parlamento non sa più fare le leggi (soltanto 6 in 6 mesi, ma 4 per ratificare trattati internazionali stipulati dal governo) e non sa decidere le nomine, pur costituzionalmente doverose. Sicché muore d’inedia, come un corpo che rifiuti gli alimenti. Oltretutto, non è neppure un suicidio dignitoso. Le Camere da giovedì scorso convocate a oltranza, ma sconvocate venerdì. Sempre giovedì, sciami di parlamentari che ondeggiano contro il bancone della presidenza, supplicando d’annullare la terza votazione, perché coincide con la cena. I trolley accatastati uno sull’altro nel guardaroba di Montecitorio, dato che il giorno dopo c’è uno sciopero dei voli. Gli sms di Cicchitto e Gasparri sui cellulari dei peones, per invitarli a disertare il voto. Le 87 anime presenti in aula venerdì mattina, meno del 10% di tutto il Parlamento. Lo striscione dei radicali, con il vicepresidente della Camera Leone che chiede per due volte di rimuoverlo e l’altra vicepresidente Bonino che s’oppone, finché non intervengono i commessi. E sullo sfondo l’improprio baratto fra la Consulta e la Rai, fra l’acqua santa e il diavolo.

Per salvare il moribondo, e per salvare inoltre ciò che resta del comune senso del pudore, la terapia può essere una sola: poteri sostitutivi. Formula ermetica, che tuttavia ricorre già nella Costituzione italiana così come in altri sistemi federali. In sintesi, significa che quando una regione o qualche ente locale rimanga inerte circa un particolare adempimento, lo Stato vi provvede al posto suo. La macchina pubblica, difatti, non può arrestarsi solo perché il conducente di turno schiaccia un pisolino. In questi casi si cambia conducente. E allora perché non dovremmo togliere il volante pure al Parlamento? Quando s’incarta sulle nomine basta fissare un tempo massimo, oppure un massimo di votazioni a vuoto: facciamo 10, benché la metà sarebbe già abbastanza.

Semmai il problema è individuare il sostituto, senza ledere la dignità delle assemblee legislative, senza inventarci un salvatore della Patria.
Ma non è affatto un problema insormontabile. Rispetto al quindicesimo giudice costituzionale potremmo farlo scegliere ai 14 che hanno già un ufficio alla Consulta: è il sistema della cooptazione, in uso per il Senato dell’antica Roma. Oppure potrebbe entrare in gioco il Capo dello Stato, anticipando la sua futura nomina salvo poi restituirla la volta dopo alle due Camere; in questo modo gli equilibri costituzionali non verrebbero alterati. Più arduo rimediare alla paralisi quando si tratta d’eleggere il presidente della Vigilanza Rai, così come di qualsiasi altra commissione formata in Parlamento. Qui ogni soccorso esterno suonerebbe come un’invasione dell’autonomia parlamentare, dunque la soluzione va trovata dentro le mura della stessa commissione. Potremmo assegnare la poltrona al commissario più anziano, come del resto avviene in occasione della prima riunione delle Camere, presieduta per l’appunto dal decano; ma l’età non è mai un segreto, e sapendo come andrà a finire ci sarebbe sempre un partito cui conviene lo stallo. Meglio il sorteggio, quindi, meglio una puntata ai dadi. Dopotutto nell’antica Grecia le cariche pubbliche erano quasi sempre sorteggiate, fu con questo sistema che la democrazia diffuse i suoi primi vagiti.

Usiamolo di nuovo, trasformiamo il moribondo in un neonato.

michele.ainis@uniroma3.it
 
da lastampa.it


Titolo: MICHELE AINIS. Solo una dea bendata ci salverà
Inserito da: Admin - Novembre 09, 2008, 04:56:40 pm
9/11/2008
 
Solo una dea bendata ci salverà
 
 
 
MICHELE AINIS
 
All’università telefoni bollenti. Smistare il traffico era già un’impresa prima, con 4 professori da eleggere in ciascuna commissione di concorso, e con 4.020 posti da assegnare; ora che c’è da eleggerne il triplo, chi ci guadagna è di sicuro la Telecom. Ma ci guadagna altresì la trasparenza, l’imparzialità, la regola del merito nel reclutamento dei docenti. Non solo perché s’allarga la platea dei commissari potenziali, quanto piuttosto perché sarà un sorteggio a decidere i signori dei concorsi. Ne eleggi 12, infili i loro nomi dentro un bussolotto, ne tiri fuori 4 a caso. Insieme col membro designato dall’ateneo che ha pubblicato il bando, in commissione saranno sempre in 5 a giocare la partita delle cattedre; ma per quattro quinti spetterà alla dea bendata assegnare i posti in tavola.

E dunque stop alle cordate, alle scalate, agli scambi di posti e di favori. Via il potere dei gruppuscoli (ce n’è in ogni disciplina) che passano tutto il tempo a tessere concorsi mentre gli altri frequentano convegni. Potenza del sorteggio, giustamente auspicato da Gavazzi in un fondo del 3 novembre sul Corriere della Sera, ma anche da chi scrive in un elzeviro ospitato il 19 ottobre dalla Stampa. Perché il sorteggio soddisfa un’esigenza che altrimenti rimarrebbe inappagata - l’esigenza di rendere ogni singola scelta il più possibile neutrale, di liberarla dal sospetto d’intrallazzi, combine, favoritismi. Sia pure a scapito - almeno in questo caso - della celerità.


Nella Atene di Pericle
Qualche ritardo si sconterà per forza, dato che in molti raggruppamenti concorsuali non esistono abbastanza professori per riempire tutte le caselle; sicché c’è da attendersi un’elezione suppletiva, e magari un’altra ancora, attingendo dai raggruppamenti affini. E allora meglio un unico concorso nazionale, purché sia celebrato tirando in aria i dadi.

D’altra parte non è affatto un caso se il sistema dei sorteggi venne impiegato in lungo e in largo nell’epoca di Pericle, quando la democrazia diffuse i suoi primi vagiti. Nel V secolo ad Atene era formato per sorteggio il Consiglio dei Cinquecento, cui spettava l’iniziativa delle leggi, la gestione delle finanze pubbliche, il controllo dell’esercito, le relazioni estere, la sicurezza cittadina. Gli arconti, che via via assorbirono le prerogative degli antichi re, venivano anch’essi estratti a sorte in ragione di uno per tribù. Erano parimenti sorteggiati i magistrati, quantomeno nel loro maggior numero. E infatti Aristotele, nella Retorica, definisce la democrazia come il regime nel quale le cariche si distribuiscono col sorteggio; mentre nella Politica aggiunge che quando le magistrature vengono elette, anziché sorteggiate, c’è allora un’aristocrazia. Questo medesimo concetto, del resto, affiora già nella Repubblica di Platone, dove il sorteggio si lega all’idea dell’eguaglianza fra tutti i cittadini.


Un sistema già sperimentato
Insomma per coltivare il nuovo seme c’è bisogno di un po’ di terra antica. Ma sul fronte dei concorsi l’esperimento non è del tutto inedito, neppure all’università. Fino agli anni Novanta del secolo trascorso il sorteggio funzionava con una procedura variabile a seconda che fossero messi in palio posti da ordinario o da associato: o s’eleggeva un numero doppio di professori, sorteggiandone successivamente la metà; oppure ne veniva sorteggiato il doppio, e in seguito si procedeva a elezione fra i docenti sorteggiati. Dopo di che il sorteggio è andato per molti anni in naftalina, con le nefaste conseguenze che sappiamo. Sempre il sorteggio decideva un tempo le commissioni per selezionare i dirigenti ospedalieri: la legge n. 148 del 1975 stabiliva infatti che vi sedesse un professore universitario estratto a sorte dagli elenchi nazionali, tre primari della materia anche loro sorteggiati, un medico ministeriale e un rappresentante dell’amministrazione locale. Sarà stato anche questo un effetto della sorte, ma da quando il sistema dei sorteggi non c’è più la politica si è impadronita delle nomine, lottizzando camici e pigiami.

Si tratta allora d’estendere la regola in questione, di renderla sempre vincolante quando un’amministrazione vara un bando di concorso. La sorte sarà pure cieca, avrà pure le sembianze d’una dea bendata e capricciosa, ma qualche volta è meglio non vederci anziché vedere soltanto i propri cari.

michele.ainis@uniroma3.it
 
da lastampa.it


Titolo: MICHELE AINIS. Villari e l'elettore schiavo
Inserito da: Admin - Novembre 25, 2008, 12:36:11 pm
25/11/2008
 
Villari e l'elettore schiavo
 
MICHELE AINIS

 
Tutto sommato dovremmo essergli grati. Non tanto per aver resuscitato Kafka in Parlamento, come ha detto il presidente del Consiglio; benché in quei corridoi qualche lettura in più, diciamo così, non guasterebbe. Quanto perché la strenua resistenza del senatore Villari ci fa spalancare gli occhi su un buco nero della nostra vita pubblica. Lui magari avrà tutte le ragioni, deve pur esserci un limite all’arroganza dei partiti, che prima ti fanno papa e il giorno dopo vorrebbero degradarti a sagrestano. Ha dalla sua pure il vocabolario, che contempla la voce «mi dimetto», ma non anche quella «ti dimetto». La sua elezione a presidente della Vigilanza Rai è stata assolutamente regolare, nel pieno rispetto delle forme e delle procedure. Infine il regolamento della commissione, pur dopo le tre modifiche approvate dopo il 1975, non menziona le dimissioni coatte del presidente eletto.

E dunque perché mai l’eletto dovrebbe liberare la poltrona, solo perché glielo domanda l’elettore?

Ecco, è esattamente in questo punto che s’allarga il buco nero. Ed è questa voragine che ingoia i nostri poteri d’elettori, ogni volta che siamo chiamati a esercitarli. Vale per i parlamentari, come dimostra per esempio il caso Mele, che nessuno ha potuto schiodare dal suo seggio pur dopo aver scoperto come il moralista pubblico fosse in privato un immorale. Ma vale altresì per il rettore, per il presidente d’un Rotary club, per il rappresentante dei genitori in consiglio di classe. Tu lo voti, lì per lì ti dà fiducia, poi il minuto dopo lui rovescia ogni promessa nel suo opposto. Oppure dà di matto, e di nuovo tu non ci puoi far nulla. Sicché ti risuona nelle orecchie la sentenza di Rousseau: «Il popolo inglese crede di essere libero, ma si sbaglia. È libero soltanto durante l'elezione dei membri del Parlamento; appena questi sono eletti, il popolo diventa schiavo, non è più niente».

Eppure un anticorpo ci sarebbe: la revoca, la mozione di sfiducia. Ipotesi dichiarata «irresponsabile» dai capigruppo Pdl, in una lettera ospitata ieri dal Corriere della sera. Se oggi fosse praticata contro Villari - si legge in quella lettera - domani potrebbero restarne vittima gli stessi presidenti di Camera e Senato. Ma irresponsabile è in realtà il potere senza responsabilità, il potere che non deve rispondere a nessuno delle proprie decisioni, perché ha rotto il cordone ombelicale con il popolo votante. E d’altronde la Costituzione italiana tiene quel cordone teso sia verso il governo (che ha l’obbligo di dimettersi dopo un voto di sfiducia delle Camere), sia verso il Capo dello Stato (attraverso l’impeachment). Perché mai la regola che governa i piani alti del nostro ordinamento dovrebbe eclissarsi ai piani bassi? Perché mai se cambio idea posso revocare l’avvocato, ma non anche il deputato?

Insomma viva Villari. Perché il suo caso, comunque si concluda, può impartirci una lezione. E a sua volta la lezione riguarda un pubblico più vasto dei segretari di partito, dei loro delegati dentro la commissione di Vigilanza Rai. Ci coinvolge tutti, e coinvolge la nostra vita associativa. Sicché delle due l’una: o la libertà dell’elettore, oppure quella dell’eletto. O la reversibilità delle scelte elettorali, oppure un tram senza ritorno. O un matrimonio rinnovato di ora in ora, oppure la negazione del divorzio. Ma dopotutto al divorzio fra moglie e marito siamo già arrivati. Ora non sarebbe male conquistarsi il divorzio dagli eletti.

michele.ainis@uniroma3.it
 
da lastampa.it


Titolo: Colloquio con Michele Ainis La laicità come principio giuridico
Inserito da: Admin - Dicembre 01, 2008, 03:07:45 pm
La laicità come principio giuridico

Colloquio con Michele Ainis

di Marina Vincenti 21/05/2008


Biografia
Michele Ainis insegna Diritto pubblico all’Università “Roma Tre”. Oltre all’impegno accademico, svolge un’intensa attività di editorialista de La Stampa. Tra i suoi ultimi volumi, Se 50.000 leggi vi sembran poche (Mondadori, 1999), La legge oscura. Come e perché non funziona (Laterza 2002), La libertà perduta (Laterza, 2003), Le libertà negate. Come gli italiani stanno perdendo i loro diritti (Rizzoli 2004), Vita e Morte di una Costituzione (Laterza, 2006), Stato Matto. L’Italia che non funziona e qualche proposta per rimetterla in moto (Garzanti, 2007).

Abstract
Il conflitto normativo sul piano costituzionale come punto di partenza dei problemi legati alla definizione giuridica di laicità; la separazione tra diritto e fattore religioso come antitesi al ruolo attivo dello Stato; il “principio pattizio” sancito dalla Costituzione e la “neutralità” del diritto; la collocazione costituzionale del fenomeno religioso; i rapporti tra l’articolo 7 della Costituzione ed i principi di laicità e di uguaglianza religiosa; definizione giuridica di “laicità”.
Professor Ainis, lei parla di conflitto normativo a livello costituzionale, che si riflette nella prassi, come punto di partenza dei problemi pratici della laicità, dunque in materia di rapporti tra la Chiesa e lo Stato. In particolare, l’articolo 7 della Costituzione definisce lo Stato e la Chiesa cattolica, ciascuno nel proprio ordine, come indipendenti e sovrani, prevedendo, altresì, che i loro rapporti siano regolati dai Patti Lateranensi, per le cui modifiche non è richiesto dalla nostra Carta Fondamentale alcun procedimento di revisione costituzionale. Dove emerge nella Costituzione tale conflitto normativo?

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La contraddizione più vistosa nasce dal secondo comma dell’articolo 7 della Costituzione, che introduce un regime speciale per la Chiesa cattolica, a dispetto del principio di laicità e di quello d’eguaglianza religiosa. Del resto già Salvemini osservava come ogni concordato è sempre un privilegio per le autorità ecclesiastiche e per i cittadini di fede cattolica; ma il riferimento ai Patti lateranensi nel testo della Costituzione italiana trasforma questo privilegio in un rompicapo per gli interpreti.

La separazione tra diritto e religione (sancita nel primo comma dell’articolo 3 della Costituzione1) è contraddetta dal ruolo attivo dello Stato (imposto dal secondo comma dello stesso articolo2).

Come nasce questa prima antitesi e come si riflette nella sfera individuale e collettiva?

L’articolo 3 della Costituzione vieta discriminazioni fondate sul fattore religioso: tutti i cittadini sono eguali «senza distinzione di religione», recita per l’appunto questa norma. Ne deriva che l’ordinamento rimane indifferente rispetto all’appartenenza religiosa; in altre parole, ne deriva che l’appartenenza religiosa è giuridicamente irrilevante. Dunque per l’articolo 3 la religione non ha significato giuridico, e non ce l’ha perché diritto e religione abitano sfere separate. D’altronde questa separazione riecheggia il primo e più fondamentale connotato dell’idea di laicità, che a sua volta accompagna la genesi degli Stati nazionali. Come ha mostrato Böckenförde, lo Stato nasce laico, o altrimenti non sarebbe nato. Nasce quando il potere politico divorzia dal potere religioso, attraverso un processo storico che ha origine nella Lotta delle Investiture, e viene poi codificato dalla Costituzione francese del 1791, quando la libertà di fede sancisce la definitiva emancipazione dello Stato rispetto alla cura degli affari religiosi. Come diceva Locke, la salvezza delle anime non ricade fra i compiti dello Stato.

Insomma dopo il secolo dei lumi la laicità implica l’irrilevanza della dimensione religiosa nel campo del diritto, e per l’appunto di questa irrilevanza è specchio il primo comma dell’articolo 3.

Tuttavia il secondo comma afferma ciò che il primo comma nega: l’appartenenza religiosa può ben tradursi in un fattore di discriminazione sociale, che perciò reclama interventi compensativi in nome del principio di eguaglianza sostanziale. Al pari del sesso o della razza, anche la fede quindi scivola dal piano dell’irrilevanza a quello della rilevanza giuridica se osservata con le lenti dell’eguaglianza formale ovvero di quella sostanziale. Questa disciplina pone allo Stato l’obbligo di definire l’appartenenza religiosa, di regolarla, di qualificarne gli ambiti. È un vincolo logico, ancor prima che giuridico.

Se la Costituzione garantisce la libertà di culto, i poteri pubblici non potranno trattare una chiesa o una moschea come un qualsiasi altro edificio, né assimilare una celebrazione sacra ad un comizio. Se le confessioni religiose hanno il diritto di stipulare intese con lo Stato, quest’ultimo dovrà quantomeno individuare il titolare del diritto.

Ma che cos’è una confessione religiosa? Lo è per esempio Scientology, un’organizzazione a metà del guado fra religione e psicanalisi, con una rigida gerarchia al suo interno e l’uso di tecniche di marketing all’esterno? Sta di fatto che non solo l’Italia, ma vari altri ordinamenti hanno dovuto prendere partito su Scientology, così come sul concetto di religione. Ma questo compito costringe le istituzioni pubbliche ad un’alternativa (è il caso di dire) diabolica: se in nome del principio di autonomia delle confessioni religiose lo Stato si limita a recepire le autodefinizioni dei singoli gruppi, esso rischia d’offrire una patente religiosa anche ad organizzazioni come quella fondata negli Usa durante gli anni Ottanta, dove si diventa ministri di culto spedendo 25 dollari per posta alla coppia fondatrice; se viceversa lo Stato forgia una definizione vincolante, dovrà usare giocoforza i materiali che gli propone l’esperienza, rischiando di cucire un vestito su misura per le vecchie religioni, e perciò di discriminare quelle nuove.

Come si concilia il principio pattizio3 con la pretesa “neutralità” del diritto in uno Stato laico? In particolare, Professore, cosa si intende per “neutralità” dello Stato, ed in che senso uno Stato può e deve essere “neutro”?

Ne parlavamo poc’anzi. In via generale, la laicità si risolve in un’indicazione puramente negativa, che vieta all’ordinamento di farsi contaminare da valori religiosi. Evoca il «muro» fra Stato e chiese cui si riferiva Thomas Jefferson, e ripete in qualche modo il verso di Montale: «codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». Ne deriva che il suo terreno di coltura risiede nell’eguaglianza formale, nella garanzia di non discriminare i cittadini in base all’appartenenza religiosa. Perciò il diritto laico è neutro, avalutativo rispetto alle questioni della fede: ai sensi dell’articolo 49 della Costituzione può ben esserci una «politica nazionale», ai sensi dell’articolo 8 della Costituzione non esiste una religione nazionale. Perciò, in conclusione, le garanzie offerte dallo Stato laico sono garanzie formali; per meglio dire, la laicità è garanzia di un’unica forma, di un’unica procedura applicata senza tener conto della differenza religiosa. Tuttavia il principio pattizio innerva il diritto pubblico di elementi sostanziali, perché esso integra le chiese nello Stato, e a propria volta l’integrazione è veicolo di contaminazione dei valori religiosi nel tessuto formale del diritto.

Il fenomeno religioso ha una duplice collocazione nella nostra Costituzione: culturale ed istituzionale. Quale aspetto ritiene essere prevalente, anche sulla base dell’evoluzione storico-sociale del nostro Paese?

Intanto chiariamo la premessa. Se la fede è un tassello del concetto di cultura, essa ricade nello spettro normativo dell’articolo 9 della Costituzione: dunque lo Stato ha il dovere di promuoverla, oltre che di garantirne la libera espressione. Se viceversa la religione entra a comporre l’architettura istituzionale, essa giocoforza viene attratta nella sfera della politica, e deve sottostare alle sue regole. Non è una differenza da poco: in campo politico la decisione è governata dal principio di maggioranza, sicché lo spazio giuridico di ogni confessione religiosa dipenderebbe in questa ipotesi dal numero dei propri fedeli; ma in campo culturale il successo di pubblico non è mai garanzia di qualità (o di “verità”, potremmo dire nel caso di specie), ed anzi è spesso prova del contrario. Questo perché – diceva Adorno – non esiste una pura immediatezza della cultura, se non quando il prodotto culturale si presenti in realtà come bene di consumo; eppure nel nostro paese il seguito maggioritario del cattolicesimo è stato utilizzato in innumerevoli occasioni per giustificare i privilegi della Chiesa. Senza accorgersi che questo tipo di argomenti finisce per spogliare l’esperienza mistica dei suoi connotati culturali, e finisce in conclusione per trattare le confessioni religiose alla stessa stregua dei partiti. Ciò nonostante, e soprattutto a causa dell’attivismo politico delle gerarchie ecclesiastiche, il secondo aspetto risulta di gran lunga prevalente, nell’evoluzione socio-politica del nostro Paese. Ma nella Carta costituzionale no, è vero casomai il contrario.

Come si giunse alla formulazione dell’articolo 7 della Costituzione? E quali problemi pone il disposto del secondo comma di detto articolo4 con il principio di laicità dello Stato e dell’uguaglianza religiosa?

Anche a questo abbiamo già accennato. Il fatto è che nel marzo 1947 l’Osservatore romano aveva ammonito a più riprese che il mancato richiamo dei Patti nella nuova Costituzione avrebbe minacciato la pace religiosa; e in un Paese traumatizzato dalla guerra, lacerato dal referendum tra monarchia e repubblica di qualche mese prima, incerto sul proprio orizzonte politico e sulle alleanze internazionali, l’articolo 7 venne concepito come una garanzia di stabilità, come un’assicurazione contro ulteriori fratture sociali. Sicché la questione vaticana fu rinviata a tempi migliori, come traspare dalla stessa formula costituzionale, quando essa allude alle future «modificazioni» dei Patti lateranensi; ma a prezzo di riprodurre la frattura all’interno della Carta.

Da cosa si evince il carattere eccezionale e, pertanto, derogatorio dell’articolo 7 della Costituzione? Nonché il suo carattere di norma provvisoria, che ha condotto alla tesi della “costituzionalizzazione provvisoria dei Patti”? Lei ha definito l’articolo 7 della Costituzione come “un frammento dello specchio, un’immagine parziale”. Si contrappone, dunque, al pluralismo religioso sul piano costituzionale?

Diciamo innanzitutto che il capoverso dell’articolo 7 esprime una norma particolare: il suo raggio d’escursione non investe tutte le confessioni religiose, ma soltanto quella cattolica. Il luogo della generalità, del pluralismo, è altrove, abita nell’articolo 8. E in quello stesso luogo abita pertanto la nostra identità. Perché l’identità è sintesi, non separazione. Questo vale per gli individui non meno che per i gruppi organizzati. Ciascuno di noi somma un’identità sessuale, politica, anagrafica, razziale. L’insieme di queste varie identità riflette la nostra immagine allo specchio. E l’immagine è una sola, a meno che lo specchio non sia infranto. In questo senso, l’articolo 7 è solo un frammento dello specchio, è un’immagine parziale, particolare per l’appunto. Si riferisce all’unica intesa già siglata nell’immediato dopoguerra, e le fa spazio tra i principi costituzionali. Come se i costituenti, dopo l’articolo 49 sui partiti politici, avessero scritto un articolo 50 sulla Democrazia cristiana. L’articolo 7 è dunque una specificazione dell’articolo 8, e questo connotato ne evidenzia la qualità di deroga, intesa come fattispecie contenuta all’interno di un’altra e più estesa fattispecie normativa: l’eccezione ha un oggetto particolare, la regola ha un oggetto generale, o almeno più generale rispetto all’eccezione.

Professore, può definire in termini giuridici i concetti di laicità e libertà religiosa?

Diciamo che rappresentano le due facce della stessa medaglia. La laicità implica la libertà di fede, e a propria volta la garanzia costituzionale che permette ad ogni individuo di coltivare una fede, o anche di non coltivarne alcuna, costituisce l’abito laico delle istituzioni pubbliche.

In base a tale concetto costituzionale di “laicità”, qual è, o quale dovrebbe essere, dunque, secondo lei, il ruolo dello Stato nei rapporti con le confessioni religiose?

Sostanzialmente si tratta d’un ruolo suppletivo rispetto alla diseguaglianza dell’offerta religiosa. Questo ruolo è illuminato dal principio d’eguaglianza sostanziale, e ha per orizzonte il pluralismo. Poiché infatti la Costituzione italiana accoglie una democrazia sostanziale, e non solo procedurale, la laicità impone una giustizia di risultato. In altre parole, impone di alimentare il pluralismo religioso prestando l’ausilio pubblico in soccorso delle confessioni minoritarie o marginali, per impedire che esse vengano schiacciate dalla religione dominante. Tuttavia ciò non significa auspicare l’istituzione di un dicastero per gli affari religiosi, competente a dettare una sorta di programma di governo verso i culti. Lo Stato laico deve rimanere muto rispetto ai valori coltivati dalle singole fedi. Ma può e deve intervenire per assicurare ad ogni confessione l’eguaglianza nei punti di partenza, affinché tutte le voci religiose siano udite. Che poi siano anche ascoltate, questo dipende dalla libera scelta dei fedeli.

1 Articolo 3, primo comma, della Costituzione: “ Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.

2 Articolo 3, secondo comma, della Costituzione: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

3 E’ il principio in base al quale lo Stato e la Chiesa cattolica, nelle materie di comune interesse e nella regolamentazione dei loro reciproci rapporti, non procedono unilateralmente, bensì sulla base di accordi e intese bilaterali.

4 Articolo 7 della Costituzione: “Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani.

I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale”.

da www.sintesidialettica.it


Titolo: MICHELE AINIS. Le riforme (non) possono attendere
Inserito da: Admin - Dicembre 09, 2008, 03:29:00 pm
9/12/2008
 
Le riforme (non) possono attendere
 
MICHELE AINIS

 
Come Alessandro Del Piero, il gabinetto Berlusconi esibisce un doppio passo. Svelto e deciso se si tratta d’apprestare le regole per i cittadini; lento e molle, quando non proprio fermo al palo, sulle regole di governo. In questi sette mesi di legislatura non c’è emergenza che non abbia ricevuto il suo tampone, dal blocco dei rifiuti all’Alitalia, dall’immigrazione clandestina alle tasse sulla casa, dalla sicurezza in città alla crisi dei mercati. Tuttavia il decisionismo evapora assieme alle buone intenzioni se c’è da chiamare i muratori sulle fondamenta del sistema, sulla governance complessiva di questo Paese, che pure reclamerebbe non meno urgenti correzioni.

Quanto all’edificio istituzionale, l’elenco ha più capitoli dei grani d’un rosario. Il bicameralismo? Con due assemblee gemelle per composizione e per funzioni è diventato più un intralcio che una garanzia, ma intanto l’intralcio è sempre lì, come una carcassa sui binari. I poteri del premier? Prodi non poteva revocare i suoi ministri, né può farlo Berlusconi. La sfiducia costruttiva? Calderoli l’ha promessa il mese scorso, da qualche parte dev’esserci una bozza di riforma, però così segreta che non ne sanno nulla neppure gli agenti segreti. Le procedure con cui decide il Parlamento? Qui invece il testo c’è, e c’è dal 1º luglio, con la proposta di modifica dei regolamenti parlamentari depositata dai capigruppo Pdl; ma è rimasto chiuso in un cassetto, nonostante le polemiche contro la pioggia dei decreti, e benché due Camere efficienti smonterebbero l’alibi dietro al quale si ripara ogni governo, quando abusa per l’appunto dei decreti.

Senza dire della legge elettorale, impresentabile eppure - a quanto pare - inemendabile, dato che la maggioranza non è riuscita a correggere neanche quella con cui voteremo alle prossime europee. O senza chiamare in causa la riforma dei partiti, le oscure modalità con cui avviene la selezione della loro classe dirigente, i poteri degli iscritti, le storture del finanziamento pubblico. O il governo dei giudici, che non è cambiato d’una virgola benché sia stato annunziato già da tempo il progetto di un nuovo Csm. O infine la riforma delle Authority, che sono troppe, e si pestano i piedi a vicenda. E il federalismo fiscale? Sin qui una nebulosa in cui si smarrirebbe perfino un astronauta. E l’abolizione delle province? Sì, o meglio nì, vediamo, non c’è fretta.

Si dirà: ma le riforme istituzionali chiedono tempo, vanno ben ponderate. Giusto, però trent’anni possono bastare, giacché cadeva il 1979 quando Craxi pose per primo la questione. Inoltre se tutti gli altri governi non sono stati fulmini di guerra, su questo fronte l’inerzia del governo Berlusconi è più grave, più vistosa. Sia in rapporto alla velocità supersonica con cui l’esecutivo in carica ha preso di petto ogni altra faccenda. Sia rispetto all’investimento che vi ha operato fin dal suo battesimo, raddoppiando i ministri delegati alle riforme. Questi due ministri (Bossi e Calderoli) sono entrambi della Lega, sicché l’impasse è fonte d’imbarazzo innanzitutto per questo partito. Ma in qualche misura dovrà pur imbarazzare la stessa opposizione, se è vero che le regole del gioco vanno condivise da tutti i giocatori, e se è vero inoltre che il centrosinistra fa muro perfino quando la maggioranza accoglie i suoi suggerimenti (è accaduto per il decreto Gelmini).

Però il vuoto di riforme non danneggia unicamente la credibilità dei partiti. Ci danneggia tutti, perché l’Italia soffre di cattivo rendimento (49º posto, dietro il Portorico e le Barbados, secondo il Global Competitiveness Index 2008-2009), nonché di scarso ricambio nelle classi dirigenti (con il record europeo di settantenni, come attesta il Rapporto Luiss 2008). A tale riguardo le riforme istituzionali sono la prima pietra, tuttavia non certo l’ultima. C’è bisogno di una nuova governance che impedisca per esempio d’incontrare rettori in carica da 25 anni (a Brescia) o da 22 (a Napoli). C’è bisogno, in una parola, di governi forti e rinnovati a ogni livello. Perché il pesce, come dicono al Sud, puzza sempre dalla testa.

michele.ainis@uniroma3.it
 
da lastampa.it


Titolo: MICHELE AINIS. Diritti celebrati ma poco applicati
Inserito da: Admin - Dicembre 12, 2008, 03:42:05 pm
12/12/2008
 
Diritti celebrati ma poco applicati
 
MICHELE AINIS
 

Se c’è una festa, siamo sempre i primi della fila. Mercoledì la «Dichiarazione universale dei diritti umani» ha spento 60 candeline e in tutta Italia è stato un via vai di celebrazioni. A Torino il Gruppo Abele, insieme con altre associazioni di volontariato, ha chiesto ai cittadini di presentarsi con una fetta di torta. A Barletta il Club Unesco ha curato la pubblicazione d’un volume. A Milano l’Ares ci ha imbastito sopra un bel convegno, alla presenza del sindaco Moratti. Trento festeggerà oggi con un concerto per i diritti umani. A Parma seduta congiunta del consiglio comunale e provinciale. A Rieti un opuscolo distribuito in 30 mila copie dalla prefettura. E poi l’Arci, con la sua Maratona dei diritti. Amnesty International, con un cd dove 17 cantautori raccontano i diritti negati. Le scuole d’ogni ordine e grado. Le massime autorità della Repubblica, con un profluvio di dichiarazioni e di messaggi.

Non che sia male ricordare il seme da cui sono germogliati i nostri diritti collettivi. Anzi: in un paese come l’Italia, senza identità e senza memoria, si tratta di un esercizio salutare. Anche perché la storia della «Dichiarazione» è a suo modo esemplare. Nata da un’idea del presidente Truman, fu inizialmente molto contrastata, tanto che gli Stati si divisero perfino sul nome da assegnare al documento (c’era chi proponeva la stesura d’una Convenzione, ossia un trattato vincolante). Fu necessario trovare un codice comune fra individui delle più diverse razze, dal cinese Chang al francese René Cassin (Nobel per la Pace nel 1968), dal cileno Santa Cruz all’americana Eleanor Roosevelt, presidente del comitato di redazione. Ma infine i contrasti vennero appianati, sicché la notte del 10 dicembre 1948 - a Parigi - il testo fu approvato senza nessun voto contrario e appena 8 astensioni. Un epilogo tutt’altro che scontato, se s’osserva che la guerra fredda già divideva in due come una mela la faccia del pianeta. Ma quest’epilogo fu reso possibile dal trauma della guerra, da una comune reazione di rigetto contro ogni mortificazione della libertà, della dignità, dell’eguaglianza di ogni essere umano. È infatti la persona l’asse su cui ruota la «Dichiarazione», ha detto giustamente il Capo dello Stato.

Il guaio è che questa «Dichiarazione» molto celebrata, risulta poi ben poco applicata. Non solo in alcune lande disgraziate, in Congo, nel Darfur, a Gaza, nel nord dello Sri Lanka, dove si consumano in questi stessi giorni esodi biblici e stermini di massa. Succede, sia pure in modo assai meno drammatico, sul nostro stesso suolo. E allora ronza il sospetto che questa celebrazione collettiva della «Dichiarazione dei diritti» fornisca dopotutto un alibi per la sua rimozione collettiva. Qualche esempio, fra i molti che potrebbero elencarsi.

La «Dichiarazione» vieta la tortura, il nostro ordinamento non contempla il reato di tortura. Enunzia il diritto alla sicurezza sociale, che per metà degli italiani rimane una chimera. Aggiunge il diritto di partecipare ai benefici della scienza, su cui Santa Romana Chiesa accende il rosso del semaforo. Ma forse la prova più eloquente del suo avaro destino si legge fra le righe della giurisprudenza costituzionale. In oltre mezzo secolo di vita, solo in 6 circostanze è capitato alla Consulta d’occuparsene. E salvo un caso (nel 2002) ha sempre dichiarato la questione inammissibile, trattando i diritti della Carta Onu come diritti di carta, fiato senza parole.

In questa cattiva stella della «Dichiarazione» gioca senza dubbio la sua scarsa efficacia sul piano del diritto, secondo l’intenzione con cui essa venne espressamente concepita. Quel testo spiega un’autorità politica e morale, piuttosto che giuridica. Però la sua stessa esistenza, nonché la popolarità che lo circonda (262 mila pagine in italiano su Google), indicano un orizzonte, una direzione verso cui è giusto marciare. Non senza qualche successo, tanto che nel 1981 è stato replicato attraverso la «Dichiarazione islamica universale dei diritti dell’uomo». E in entrambi i casi la lezione sta tutta nell’aggettivo: «universale». Perché i diritti sono di tutti, o altrimenti sono un privilegio.

michele.ainis@uniroma3.it
 
da lastampa.it


Titolo: MICHELE AINIS. L'amaro fuori legge
Inserito da: Admin - Dicembre 16, 2008, 11:11:58 am
16/12/2008
 
L'amaro fuori legge
 
MICHELE AINIS
 

La commissione Trasporti della Camera sta per trasportarci nel paradiso degli astemi. Il tasso alcolico consentito per chi impugna un volante già ora è troppo basso: 0,5 per cento, due bicchieri di vino. Dall’anno prossimo la tolleranza scende ulteriormente a 0,2 per cento. Significa che se pasteggi ad acqua minerale, ma poi chiudi la cena con un goccio d’amaro, come minimo ti viene sequestrata la patente. Sicché approfittane, è l’ultimo Natale. Dopo sarà sempre Quaresima.

No, la commissione Trasporti vuole trasportarci nell’inferno dei reietti. Perché dopotutto è questa la stazione d’arrivo dell’ultima idea bipartisan (a proposito, ma destra e sinistra non erano come cane e gatto? Si vede che quando c’è da mettere al muro gli italiani scatta un’assonanza d’amorosi sensi). E il mezzo di locomozione è sempre lo stesso da decenni: la Gazzetta Ufficiale. Le cronache registrano un caso di pedofilia? La politica triplica le pene per i pedofili. A Napoli la monnezza lievita come panna montata? Altra legge, altro castigo. Gli incidenti stradali del week-end? Un tratto di penna del legislatore e verranno cancellati. Tanto varrebbe aggiungere nella prossima Gazzetta Ufficiale che d’ora in poi gli uomini possono volare, così magari ci svegliamo con un paio d’ali piumate sulle spalle.

Di fronte a questa peste legificatrice non serve impiccarsi sui dettagli. Come le statistiche falsate da soglie alcoliche prossime allo zero, che puntano l’indice contro l’ubriachezza quando l’incidente deriva da ben altre cause. O come la trovata bislacca (e a sua volta bipartisan, come sbagliarsi?) che vorrebbe incrudelire le sanzioni per i trentenni, lasciando indenni gli ottantenni. Ma il guaio, o per meglio dire la tragedia, è che un’idea così suona insieme arbitraria e velleitaria. È arbitraria, perché l’amaro dopocena è un rito un po’ per tutti gli italiani, e perché se tutti sono colpevoli allora nessuno è colpevole davvero. Anzi: sarà colpevole chi incrocia un poliziotto senza compassione, chi ha la faccia antipatica, chi si fa prendere dai nervi gonfiando il palloncino.

La repressione di massa trasforma giocoforza il potere dell’autorità in capriccio. Ed è velleitaria perché maschera l’inefficienza dei controlli sotto la falsa efficienza delle norme. In Italia s’esegue ogni anno un milione di alcol-test, contro i 10 milioni in Francia. Sempre in Italia, se vai sotto processo te la cavi quasi sempre con una prescrizione (a Napoli, nel 2007, un reato estinto ogni 13 minuti). La vera emergenza è l’incertezza della pena, ha detto ieri il capo della Polizia. Appunto.

michele.ainis@uniroma3.it
 
da lastampa.it


Titolo: MICHELE AINIS. Eluana e i guardiani ubbidienti
Inserito da: Admin - Dicembre 18, 2008, 10:42:18 am
18/12/2008
 
Eluana e i guardiani ubbidienti
 
MICHELE AINIS
 
Ileghisti l’avranno presa male, anche se al momento non c’è traccia di reazioni ufficiali. E così i federalisti, di cui trabocca la nostra scena pubblica. Perché l’editto di Sacconi, l’atto con cui il ministro pretende di chiudere a Eluana le porte d’ogni clinica pubblica o privata, è innanzitutto questo: un diktat per le Regioni, nonché per le Province di Trento e di Bolzano. È insomma la mascella volitiva dello Stato, che detta legge agli enti decentrati. Ma come, non siamo già immersi mani e piedi in uno Stato federale?

Non c’è alle viste il federalismo fiscale, che renderà totale l’immersione? Evidentemente no. In Italia funziona così, c’è spazio solo per un federalismo dei giorni dispari, nei giorni pari ciascuno torna al suo vecchio mestiere.

Ma la questione si misura essenzialmente in punta di diritto. Come d’altronde fin qui è sempre accaduto, in questa guerra di carte bollate e di sentenze combattuta su un corpo senza coscienza, senza volontà. Tuttavia l’ultimo episodio registra un miracolo giuridico: la resurrezione del defunto. Il provvedimento di Sacconi riesuma difatti la funzione d’indirizzo e coordinamento, con cui lo Stato ha regolato per trent’anni l’attività delle Regioni. Lo faceva in nome dell’interesse nazionale, una formula magica ospitata nel vecchio testo della Costituzione. Ma a condizione che l’atto d’indirizzo venisse espressamente previsto in una legge, che fosse adottato dall’intero Consiglio dei ministri, che la Conferenza Stato-Regioni avesse manifestato il proprio assenso. Come stabiliva l’art. 8 della legge Bassanini (n. 59 del 1997), che entrò in vigore quando la funzione d’indirizzo e coordinamento era ormai agonizzante, incolpata non a torto d’aver affossato l’esperienza regionale.

Nessuna di queste tre condizioni ricorre nel provvedimento solitario di Sacconi, che dunque suona illegittimo perfino rispetto al vecchio ordine giuridico. Ma nel 2001 la riforma del Titolo V ha soppresso ogni riferimento all’interesse nazionale e ha soppresso perciò le basi su cui poggiava il potere d’ingerenza del governo. Non solo: l’art. 8 della legge La Loggia (n. 131 del 2003) ha poi ulteriormente precisato, a scanso d’equivoci, che gli atti d’indirizzo e coordinamento sono vietati nel campo della sanità. Sicché l’atto firmato da Sacconi è due volte incostituzionale: sia per il passato remoto che per il futuro prossimo. Anzi tre volte: perché oltre a offendere le competenze regionali calpesta la sovranità del Parlamento (soltanto una legge statale di principio può intervenire in materia sanitaria), e perché viola le attribuzioni del corpo giudiziario (sul caso Eluana c’è ormai una sentenza definitiva della Cassazione).

Insomma questo provvedimento non vale nulla, è come una legge promulgata dal direttore delle Poste. E allora a cosa serve? Semplice: serve a intimidire gli ospedali, a ricattarli minacciando di togliergli i quattrini, se non addirittura la licenza. E perché Sacconi, che è persona seria, ci ha messo in calce la sua firma? Ri-semplice: perché ha agito sotto dettatura. Non è il primo caso, non sarà purtroppo l’ultimo. È appena successo con i fondi per le scuole private, dopo la protesta a squarciagola della Cei: 120 milioni spariti e subito riapparsi con un emendamento in Finanziaria. Succede con la pillola del giorno dopo, la cui vendita al pubblico viene rinviata di anno in anno, con gran soddisfazione del Vaticano.

Diciamolo: c’è un Antistato dentro il nostro Stato. Le sue sentinelle, i suoi stessi generali, sono ormai i generali dello Stato italiano. Da qui l’impotenza della cittadella burocratica, da qui la complicità della politica: l’una e l’altra ormai espugnate dall’interno, e senza neanche la fatica di fabbricare un cavallo di Troia. Da qui la strage della nostra civiltà giuridica, pur sempre figlia del secolo dei Lumi, quando l’Antistato ha in odio le carte settecentesche dei diritti, l’etica del dubbio, la separazione dei poteri. Prima di consegnarci prigionieri, c’è però un Dio laico cui possiamo chiedere soccorso. È un giudice, e magari qualche volta può sbagliare. Ma giudica con la stessa toga ministri e cittadini. E nessuno ministro, così come nessun cittadino, ha il potere di rovesciarne le sentenze.

michele.ainis@uniroma3.it
 
da lastampa.it


Titolo: MICHELE AINIS. La libertà di non partecipare
Inserito da: Admin - Gennaio 06, 2009, 11:36:18 am
6/1/2009
 
La libertà di non partecipare
 
 
MICHELE AINIS
 

A Lecco una giovane donna, Eluana Englaro, attende ormai da diciassette anni di venire liberata da una vita che è la caricatura della morte. A Milano e a Catanzaro due giudici agguerriti (Forleo e De Magistris) subiscono il castigo di un trasferimento d’ufficio per mano del Csm. A Roma il Vaticano si duole per una flessione delle firme sull’8 per mille. In Abruzzo un elettore su due non ha votato alle regionali di dicembre. Che cosa hanno in comune questi diversi avvenimenti? C’è un’unica pagina sotto le pagine del vecchio calendario, quello che abbiamo sfogliato l’anno scorso? All’apparenza no, sono vicende incomparabili. Ma gratta gratta sì, c’è una sola storia dentro tutte queste storie. Vi si racconta un rifiuto, un’opposizione. Il rifiuto d’esercitare diritti o libertà di cui trabocca il nostro generoso ordinamento. Ma il rifiuto viene rifiutato a propria volta, nel senso che non provoca mai effetti concreti. Sicché la stessa libertà diventa una prigione: ti è permesso entrarci, ti è proibito uscirne. Una libertà coatta, un diritto che si converte in obbligo.

Sprezzo del diritto, da Eluana all’8 per mille
Cominciamo da Eluana, sul cui povero corpo si misura ormai il perimetro del diritto alla salute. Fu proprio la Costituzione italiana la prima in Europa a tutelarlo, al di là di qualche cenno conservato nella Carta di Weimar del 1919. Significa cure gratuite agli indigenti, come vuole l’art. 32. Significa perciò libertà effettiva di curarsi. Ma il rifiuto no: a Eluana - o a chi ne fa le veci - non è concesso, benché lo riconosca una sentenza passata in giudicato. Come non fu concesso a Welby, come non spetterà ai futuri Welby cui il Parlamento nega il sussidio del testamento biologico. Ma se è per questo, nega a noi tutti anche la libertà di rifiutare le terapie ufficiali, per avvalerci di medicine non convenzionali. Serve un bollo, un’autorizzazione. La stessa che ancora fa difetto per mettere in commercio la pillola abortiva Ru486. Aspettiamo, però non c’è da essere troppo fiduciosi. Pare che il Vaticano sia di parere opposto.

E a proposito di Santa Romana Chiesa. Il sostegno al clero è il risvolto attivo della libertà di religione, ne permette in concreto l’esercizio. E a sua volta la libertà di culto ha anticipato la stessa libertà di pensiero, dopo secoli di guerre e persecuzioni religiose nel ventre dell’Europa. Guai a scalfirla, dunque. Però l’appoggio finanziario muove dal consenso, e il consenso non può essere né estorto né presunto. Viceversa l’8 per mille funziona con un marchingegno giuridico che calcola pure la scelta dei contribuenti che non scelgono. Quando la Chiesa si lamenta - com’è appena accaduto - è solo perché le cade di tasca qualche spicciolo. La torta di un miliardo di euro l’anno resta comunque assicurata. Con sprezzo della logica, oltre che del diritto. Perché la libertà di fede dovrebbe garantire pure chi non ha fede, così come la libertà d’associarsi comprende giocoforza la libertà di non associarsi.

Quella pagina in sospeso nel nostro calendario
Ecco, le associazioni. O meglio le lobbies, le correnti, le corporazioni. Nei casi di Forleo e De Magistris si tratta soltanto d’un sospetto, però un doppio sospetto descrive un mezzo fatto. È una coincidenza che la prima non abbia mai militato nei partiti giudiziari? O che il secondo si sia dimesso dall’Associazione nazionale magistrati, denunziando con una lettera di fuoco la deriva correntizia? Peggio per loro, giacché sul loro scalpo tutte le correnti si sono ritrovate - per una volta - unite nella lotta. Peggio per noi, perché in Italia non hai alcuna speranza di vincere un appalto, d’ottenere un avanzamento di carriera, di guadagnare posti o incarichi se non fai parte della cordata giusta. Le associazioni vennero represse durante tutto l’Ottocento, a partire dalla legge Le Chapelier del 1791. Oggi a quanto pare sono obbligatorie.
E l’Abruzzo? C’entra qualcosa il non voto alle ultime elezioni? E non è forse vero che il suffragio universale costò la vita ai nostri nonni? Vero, tant’è che la Costituente eletta a suffragio universale lo ha innalzato a «dovere civico». Tuttavia a questo dovere aggiunse l’obbligazione degli eletti a comportarsi «con disciplina e onore». Se manca la seconda, cade pure il primo. Ma il rifiuto del voto è un’arma sterile, senza munizioni in canna. Eppure in astratto ci sarebbero. Uno su due non vota? Allora dimezziamo i consiglieri regionali, tagliamo a metà i loro poteri, decurtiamogli la paga. Magari la volta prossima si daranno un po’ da fare.
Sì, c’è questa pagina in sospeso nel nostro calendario. È la libertà di non fare, dopo quella del fare. E ciascuno può aggiungervi a sua volta un rigo: per esempio la libertà di non sposarsi, in una società che tassa a oltranza i single per punirli del loro rifiuto. Se sapremo scriverla, avremo completato la libertà degli individui. Li renderemo autonomi, anziché copie fotostatiche, replicanti d’una folla senza nome.

michele.ainis@uniroma3.it

da lastampa.it


Titolo: MICHELE AINIS. La Repubblica diseguale
Inserito da: Admin - Gennaio 27, 2009, 09:49:35 am
27/1/2009
 
La Repubblica diseguale
 
MICHELE AINIS
 

Negli ultimi anni la produttività del lavoro in Italia è cresciuta 40 volte meno che in Estonia. Non sappiamo correre, fatichiamo persino a camminare. Ma è difficile tenersi in equilibrio quando hai una gamba zoppa e l’altra troppo muscolosa. Quando giorno dopo giorno si divarica la distanza fra i primi e gli ultimi della scala sociale, fra giovani e vecchi, precari e garantiti, meridionali e settentrionali, stranieri e cittadini. La disuguaglianza, ecco la più grande questione nazionale. Ma il nostro sguardo collettivo non la vede, la nostra voce pubblica rimane silenziosa. Con l’eccezione di qualche personalità fuori dal sistema dei partiti: Ciampi e Montezemolo, in questi ultimi tempi. Con l’ulteriore eccezione di Veltroni, le cui denunce vengono tuttavia ignorate dai suoi stessi compagni del Pd. E con l’indifferenza di un po’ tutti i partiti, assorbiti da faccende più serie, più pressanti: la presidenza della Vigilanza Rai, il figlio dell’onorevole Di Pietro, la poltrona di sindaco a Napoli o a Bologna.

Nel frattempo siamo sempre più divisi. Perché crescono i poveri, come accade un po’ dovunque in tempi di crisi economica globale; però nella Penisola crescono più che altrove. Tanto che il Rapporto Euristat 2005 ne contava 11 milioni, il 15% dell’intera Europa; mentre nel 2008 la Caritas li ha misurati in 15 milioni. Perché in secondo luogo in Italia le retribuzioni medie sono più basse del 20% rispetto agli altri Paesi industrializzati, secondo una stima Ocse diffusa nel luglio scorso. Perché in terzo luogo c’è una faglia sotterranea a dividere l’Italia, dal momento che il Pil di Milano è 3 volte quello di Crotone. Ma soprattutto perché la forbice tra gli uni e gli altri s’allarga fin dagli Anni 80, quando già l’1% della popolazione possedeva il 10,6% del patrimonio nazionale (oggi ne possiede il 17,2%). Col risultato che dopo Usa e Regno Unito la società italiana è la più ineguale di tutto l’Occidente, secondo l’Human Development Report 2006. Un dato ribadito dal Rapporto Growing Inequal? del 2008, dove s’attesta che in Italia la disuguaglianza tra le classi sociali è cresciuta del 33% dopo gli Anni 80, contro una media generale del 12%.

Questa frattura non nuoce unicamente all’efficienza del sistema. Non si limita a offendere il nostro senso di giustizia, o almeno quel po’ che ne rimane. Reca altresì un effetto disgregante, arma i diseredati contro lorsignori, mina l’unità del popolo italiano. Infine tradisce la promessa più solenne conservata nella Carta del 1947: quella che assegna alla Repubblica il compito di rimuovere gli «ostacoli di fatto» verso l’eguaglianza. Ma la Repubblica è a sua volta sbilanciata, a sua volta disuguale. O meglio lo è diventata dopo gli Anni 80, e non è affatto un caso questa coincidenza temporale fra disuguaglianza sociale e istituzionale. Al sistema di pesi e contrappesi, alla separazione dei poteri disegnata 60 anni fa dai padri fondatori è via via subentrata la concentrazione del potere, il suo esercizio solitario. Le assemblee parlamentari hanno perso la capacità di rappresentare gli elettori; e infatti 15.546.289 italiani (il 33% dell’elettorato) non sono rappresentati da questo Parlamento, per una scelta astensionista o a causa della soglia di sbarramento. Ma in realtà sono rimasti orfani pure gli altri 30 milioni, dato che con la nostra legge elettorale i rappresentanti più che eletti devono ritenersi nominati. Un Parlamento debole è preda del governo: da qui l’abuso dei decreti, i maxiemendamenti, la raffica dei voti di fiducia. Un esproprio istituzionale, ma altresì una distorsione che penalizza soprattutto gli ultimi, gli esclusi. Perché ogni società disuguale è frastagliata per definizione, e perché nelle stanze del governo - quale che sia - risuona un’unica voce, quella della sua maggioranza. Insomma l’eclissi delle Camere ha oscurato l’eguaglianza, e insieme ad essa la coesione e l'efficienza del Paese.


michele.ainis@uniroma3.it
da lastampa.it


Titolo: MICHELE AINIS. La lumaca e l'elefante
Inserito da: Admin - Febbraio 06, 2009, 09:58:57 am
6/2/2009
 
La lumaca e l'elefante
 
MICHELE AINIS
 

A quanto pare, il decreto legge per Eluana non vedrà mai la luce. E allora sia detto senza enfasi: lo stop del Capo dello Stato ripristina la legalità costituzionale, o almeno quel poco che ne rimane in circolo. Perché ciascuno nutre le proprie convinzioni, in questo caso che divide le coscienze, che ci interroga sul significato stesso della vita. E ogni opinione è lecita, nessuna ha il monopolio della verità. Ma via via il conflitto etico ha debordato in conflitto tra poteri, in una malattia delle nostre istituzioni. Tanto da scomodare la Consulta, che l’autunno scorso ha già dovuto pronunziarsi in ordine al conflitto tra Parlamento e Cassazione su questa medesima vicenda. L’arma del decreto avrebbe sparato l’ultimo colpo, quello letale. Anzi un doppio colpo, contro il potere legislativo e contro il potere giudiziario. Togliendo al primo la libertà di discutere nel merito la nuova legge sul testamento biologico. Privando il secondo dell’autorità del giudicato, giacché sul caso Englaro c’è una sentenza ormai definitiva.

Ma questo delitto tentato, benché non consumato, ci impartisce pur sempre una lezione. E la lezione mette a nudo i vizi della politica italiana, le sue miserie, le sue fragilità. A partire dallo scarso rispetto delle regole, e perciò a partire dalla regola fondante delle democrazie, la separazione fra i poteri dello Stato. Quando un potere ruba il mestiere all’altro, quando l’esecutivo si fa al contempo legislatore e giudice, s’apre una deriva autoritaria, al di là delle più nobili intenzioni. Sennonché l’anomalia italiana sta nel fatto che la prepotenza si sposa all’impotenza, che strappi e scippi provengono da un pugile suonato.

La trovata del decreto legge per Eluana ne offre l’ennesima conferma. Quanto tempo hanno bruciato le due Camere senza riuscire a licenziare una disciplina sulle volontà di fine vita? A occhio, tutta la legislatura trascorsa, tutto questo scampolo della legislatura inaugurata nel 2008. Sicché per una volta la lumaca giudiziaria è stata più veloce dell’elefante parlamentare. Da qui l’urgenza, da qui il decreto. E d’altronde ormai la legge è sempre legge di conversione d’un decreto, l’urgenza è diventata permanente. Al pari della dichiarazione d’emergenza, che fu usata per esempio dal governo Prodi (nel 2006) per restaurare il David di Donatello danneggiato durante l’alluvione di Firenze (nel 1966).

Il guaio è che urgenza ed emergenza dipendono dal medesimo soggetto che dovrebbe poi mettervi riparo. Il guaio inoltre è che la pezza finisce per essere peggiore del buco. Perché un atto legislativo su una singola persona è un provvedimento odioso, una legge personale. Perché nella fattispecie avrebbe pure assunto le sembianze d’un provvedimento strampalato, dato che non era all’ordine del giorno del Consiglio dei ministri, sicché il governo avrebbe dovuto fargli spazio nel decreto sulla rottamazione delle lavatrici. Perché infine avrebbe innescato senza dubbio un altro ricorso dinanzi alla Consulta, come se fin qui non ne avessimo contati già abbastanza, di pasticci che si trasformano in bisticci.

E c’è poi un secondo fattore di debolezza, che chiama in causa la laicità delle nostre istituzioni. Se la politica fin qui si è rigirata i pollici senza provvedere, se in ultimo ha tentato la mossa disperata del decreto, è perché subisce i venti che soffiano sopra il cupolone. Curioso: le gerarchie vaticane sono diventate pervasive, ed anche più aggressive, da quando le chiese sono vuote di fedeli. Anche le gerarchie partitiche gonfiano i muscoli da quando le sedi dei partiti sono vuote d’iscritti e militanti: basta rievocare il sistema con cui ci hanno costretti al voto nelle due ultime elezioni, espropriandoci della libertà di scegliere i nostri rappresentanti in Parlamento. Questa doppia debolezza, questa doppia prepotenza, confisca la nostra vita pubblica. Ma può accadere che venga a sua volta confiscata dalla resistenza d’un singolo individuo: il cittadino Englaro, il cittadino Napolitano.

michele.ainis@uniroma3.it
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Titolo: MICHELE AINIS. Se il 4 per cento vi sembra troppo
Inserito da: Admin - Febbraio 16, 2009, 10:06:40 am
16/2/2009
 
Se il 4 per cento vi sembra troppo
 
MICHELE AINIS
 

La legge con cui voteremo alle Europee introduce una soglia di sbarramento del 4%. Almeno nel testo timbrato dalla Camera, ma tutto lascia credere che il Senato rilascerà copia conforme. Per i partiti maggiori questa legge ci mette in riga con l’Europa. Per i partiti minori è una nuova legge truffa.

Chi ha ragione? I piccoli, verrebbe da dire. Un po’ per simpatia verso i deboli, un po’ per le intenzioni e i tempi con cui le nuove regole sono state licenziate. Proviamo tuttavia a osservare la questione dal lato degli elettori, anziché da quello degli eletti. Dopotutto i veri utenti dei sistemi elettorali sono i primi, non i secondi.

Da questa angolatura è irrilevante che la legge venga approvata all’ultimo minuto. Non sposta un solo voto. E d’altronde, se le vecchie regole fossero state modificate nell’autunno 2004, ai primi vagiti della legislatura europea, ci saremmo tenuti sul groppone per un quinquennio una rappresentanza delegittimata. Dice: ma le stanno cambiando solo adesso perché i numeri politici giocano in loro favore, tanto da fargli mangiare in un boccone i piccoli partiti.

E allora? In passato Rifondazione comunista era in favore della soglia, oggi non più, dopo la sberla alle ultime elezioni. Ogni partito ragiona sul proprio tornaconto, però non è detto che ci veda sempre bene. Magari succederà che gli elettori di sinistra, sganciati dal ricatto del voto utile per il governo nazionale, solleticati dalla sfida che reca il 4%, indispettiti da Veltroni, tornino a votare i loro vecchi partiti. Quando si scrivono le regole servirebbe un velo d’ignoranza, sostiene il filosofo John Rawls. Nella vita vissuta non accade quasi mai, ma per fortuna scatta quasi sempre l’eterogenesi dei fini.
Ne sa qualcosa Berlusconi, che nel 2005 mise in soffitta il Mattarellum per sbarrare il passo a Prodi. Se l’avesse mantenuto, l’anno dopo avrebbe rivinto le elezioni, invece vinse Prodi.

Ma la vera obiezione ha a che fare con lo scopo dei sistemi elettorali. Mirano a garantire due valori, rappresentanza e governabilità. Questi valori sono in reciproco conflitto, come la libertà e la sicurezza: più avvicino il primo, più perdo contatto col secondo. Si tratta di contemperarli, di fissare un punto d’equilibrio. Sennonché il Parlamento europeo non ha le chiavi del governo: la sua funzione principale è di rappresentare gli elettori. Se c’è una soglia per accedervi, molti elettori rimarranno fuori della porta. L’argomento a prima vista è irresistibile, benché si scontri con le scelte operate oltre confine: otto paesi europei stabiliscono una soglia del 5%, in due paesi è al 4%, senza contare la soglia implicita (e ben più elevata) che altrove scatta per la dimensione delle circoscrizioni elettorali. Ma l’obiezione all’obiezione muove dall’interesse del votante, piuttosto che del votato. Anzi: le contro-obiezioni sono cinque, come le dita d’una mano.

Primo: nessuna cartina stradale è grande quanto la città che rappresenta. Per orientarmi devo vederci chiaro, anche a costo di non leggervi i nomi scritti sui citofoni. Secondo: regole plurime disorientano e confondono. Se alle politiche voto con la soglia, è meglio che la soglia sia prevista pure alle europee. Terzo: se intendo costituire una società commerciale, il notaio mi chiede di depositare in banca un fondo cassa a garanzia dei miei rapporti. E allora pretendo dai partiti la stessa serietà; che si presentino solo quelli che hanno un minimo di radicamento e di organizzazione. Quarto: alle Europee 2004 il Partito dei pensionati ha ottenuto in rimborsi elettorali 180 volte le somme investite. Non ho nessuna voglia di ripetere il regalo. Quinto: ridurre il numero dei partiti significa sforbiciarne gli apparati. Significa perciò togliere di mezzo un po’ di professionisti della politica, quanti vivono «di» e non «per» la politica, come diceva Weber. È un’esigenza moralizzatrice, anche se non è questa l’esigenza da cui nasce l’introduzione della soglia. Ma vale pur sempre l’eterogenesi dei fini.

michele.ainis@uniroma3.it
 
da lastampa.it


Titolo: MICHELE AINIS. Chi s'è arreso alle armate del Papa
Inserito da: Admin - Febbraio 21, 2009, 06:49:29 pm
21/2/2009
 
Chi s'è arreso alle armate del Papa
 
MICHELE AINIS
 

Cadono gli anniversari: l’11 febbraio, 80 anni dal vecchio Concordato, siglato da Mussolini; il 18 febbraio, 25 anni dal nuovo Concordato, quello con la firma di Craxi. Ma cade inoltre, dalla memoria collettiva, il ricordo delle scelte che li accompagnarono, che li resero possibili. Cade la percezione d’un clima nei rapporti fra Italia e Vaticano che oggi non sapremmo neanche immaginare. Altri uomini, altre regole. Ecco perché il documento pubblicato lunedì su questo giornale è un bene prezioso: ci aiuta a ricordare, al contempo ci dimostra che c’è stata una Chiesa rispettosa delle nostre istituzioni. E se c’è stata, può esserci di nuovo. Dipende dalle autorità religiose, ma soprattutto dalle autorità politiche della Repubblica italiana. Quel documento è una nota riservata del vescovo Riva, indirizzata a Moro nel gennaio 1976. Quindi 8 anni prima degli accordi di Villa Madama, ma la nota già ne anticipa il contenuto più essenziale. A partire dall’affermazione secondo cui la Chiesa «si sottopone alle leggi dello Stato».

La stessa affermazione, tradotta in norma vincolante, che apre il nuovo Concordato, dove la Santa Sede s’impegna al «pieno rispetto» della sovranità statale. Ma in quella nota c’è di più: una doppia ammissione che a leggerla adesso ti fa saltare sulla sedia. Perché c’è scritto che le gerarchie ecclesiastiche non reclamano privilegi dallo Stato italiano. Perché vi si mette a nudo la ferita più bruciante, che all’epoca fu inflitta dalla legge sul divorzio. L’emissario di Paolo VI continua a dolersi per la legislazione divorzista; ma aggiunge che la Santa Sede «non si propone di insistere in una richiesta pregiudiziale del ristabilimento della situazione quo ante». Insomma pazienza per la sacralità della famiglia, quantomeno allora era più forte la sacralità dello Stato. Come ha potuto rovesciarsi questo atteggiamento? Quando comincia l’invasione delle truppe pontificie (titolo di Le Monde) sul suolo italiano? Da dove nasce l’intransigenza, e insieme la prepotenza sfoderata attorno al caso Englaro? Semplice: da un doppio referendum. Quello che nel 1974 la Chiesa ha perso sul divorzio; quello che nel 2005 ha vinto sulla procreazione assistita. Ma se è questa la lezione della storia, significa che lo spazio della Chiesa nella nostra vita pubblica dipende principalmente da noi stessi. È uno spazio politico, e la politica ha orrore del vuoto. Se il trono rimane vacante, al suo posto sorgerà un altare. Se gli elettori pensano che la laicità sia questione da filosofi, la filosofia imperante sarà quella religiosa. Se i politici italiani sono libertini in privato ma genuflessi in pubblico, perché la Chiesa dovrebbe fare un passo indietro? C’è almeno un tratto di continuità fra l’arrendevolezza vaticana sul divorzio e l’inflessibilità sul testamento biologico: il pragmatismo, virtù molto terrena che sa adattarsi ai tempi, cogliendo l’opportunità del giorno dopo. Tutto l’opposto del rigore dottrinale, della parola scolpita sulla Bibbia. Eppure non è che lo Stato italiano si sia del tutto arreso alle armate vaticane. O meglio si è arreso il governo, si è arreso il Parlamento. Tuttavia di tanto in tanto resiste qualche giudice.

La Cassazione ha riconosciuto il buon diritto di Beppino Englaro. Successivamente la Consulta ha riconosciuto il buon diritto della Cassazione. E sempre la Suprema Corte questa settimana ha assolto il magistrato Tosti, che rifiutò di tenere udienza davanti al crocefisso, in nome della laicità della Repubblica. Evidentemente ai nostri giudici difetta il pragmatismo.

michele.ainis@uniroma3.it
da lastampa.it


Titolo: Fannulloni per decreto
Inserito da: Admin - Marzo 11, 2009, 09:28:09 am
11/3/2009
 
Fannulloni per decreto
 
 
MICHELE AINIS
 
Se la fantasia costituisce la prima qualità degli uomini politici, il nostro presidente del Consiglio ne ha da vendere. Il Parlamento va a rilento? È appesantito da troppe votazioni? Le votazioni regalano talvolta brutte sorprese a chi ha il timone del governo? Bene, facciamo votare solo i capigruppo e non pensiamoci più. Ricetta semplice, e probabilmente quantomai efficace. Magari un poco ruvida, un po’ eccessiva per quel migliaio di anime rinchiuse nei palazzi delle due assemblee legislative, che passerebbero così dalla catena di montaggio delle leggi all’ozio più assoluto. Ma che importa, conta solo il risultato. Peccato che questo risultato sia impossibile. Peccato che s’infranga contro i principi che reggono la nostra democrazia costituzionale. Peccato che strida col buon senso.

Anche perché questa soluzione suona ben più drastica del voto ponderato, in uso presso varie istituzioni. A cominciare dall’Unione europea, dove il voto di Germania, Italia, Francia e Regno Unito vale 29 punti, mentre un piccolo Stato come Malta pesa 3 punti appena. Ma in questo caso non c’è alcun esproprio del diritto di voto, non c’è un silenziatore alla voce dei più piccoli. Non c’è nemmeno una ferita al principio d’eguaglianza, perché tale principio - come stabilì Aristotele - s’applica agli eguali, non ai diseguali.

È evidente che gli Stati più popolosi rappresentano un numero più alto di cittadini europei, sicché misurarli secondo il loro peso demografico effettivo evita di sovradimensionare il voto dei maltesi. Ma c’è un’élite di rappresentanti più rappresentativi in Parlamento? C’è un deputato il cui collegio elettorale coincide con l’intera Lombardia, mentre il suo vicino di banco è stato eletto dai soli cittadini di Ragusa? Non c’è, non ci può essere; altrimenti gli elettori verrebbero discriminati a propria volta.

Qui allora viene in gioco un altro cardine delle democrazie costituzionali: l’eguaglianza del voto e dei votanti. In passato qua e là si praticava il voto plurimo, per esempio quello del capofamiglia, che esprimeva un valore superiore all’unità. Ma la Rivoluzione francese lo ha confinato tra i relitti della storia, da quando la Dichiarazione dei diritti del 3 settembre 1791 introdusse il principio del suffragio universale. Poi, certo, ce n’è voluto per tradurre il principio nella prassi. In Italia fino al 1882 votava appena il 2 per cento della popolazione. Nel 1912, mezzo secolo dopo l’unità, fu Giolitti a estendere a tutti i cittadini maschi il diritto di partecipare alle elezioni. Infine nel 1946 venne la volta delle donne, e a quel punto la traiettoria si è compiuta. Imporre una sordina ai parlamentari significa imporla agli elettori, significa perciò riportare indietro le lancette della storia.

E c’è poi un altro punto dolente nella ricetta che propone Berlusconi. Anzi due, anzi tre, anzi quattro. In primo luogo stabiliremmo una gerarchia fra i parlamentari, offendendo la norma conservata nell’art. 67 della Costituzione, secondo cui ogni membro del Parlamento rappresenta - ebbene sì, lui solo - la Nazione. In secondo luogo, anche ad ammettere che le sue personali convinzioni si riflettano come in uno stampo con le convinzioni del suo capogruppo, offenderemmo il principio della personalità del voto, racchiuso a propria volta nell’art. 48 della Carta. In terzo luogo svuoteremmo la regola del voto segreto, che i regolamenti parlamentari prescrivono ad esempio sulle questioni di coscienza, per tutelare l’autonomia di senatori e deputati. In quarto luogo, come mai faremmo noi elettori a valutare l’operato di chi ci rappresenta in seno alle due Camere? La mancata rielezione è l’unica arma che ci rimane in mano rispetto ai voltagabbana, ai traditori delle promesse elettorali, ai fannulloni; ma se diventano tutti fannulloni per decreto, tanto varrebbe privarci del diritto di votare.

Insomma l’epilogo non piacerà al presidente del Consiglio. Non piacerà neppure a chi ritiene che il Parlamento sia un ingombro di cui l’Italia dovrebbe sbarazzarsi. E allora rifugiamoci nell’autorità di Montesquieu: le lungaggini parlamentari, le procedure talora estenuanti della democrazia, sono il prezzo che paghiamo per la nostra libertà.

michele.ainis@uniroma3.it
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Titolo: MICHELE AINIS. Scandalosi controllori controllati
Inserito da: Admin - Marzo 18, 2009, 10:42:08 am
18/3/2009
 
Scandalosi controllori controllati
 
 
MICHELE AINIS
 

C’era una volta il conflitto d’interessi di Silvio Berlusconi. Non c’è più, chi ancora ne parla suscita sbadigli. Ma forse a qualche lettore interesserà sapere che c’è tutto un sistema che ha elevato il conflitto d’interessi, o se si vuole il connubio d’interessi fra controllore e controllato, a regola suprema di governo. Vale per i segretari comunali: tutori della legalità degli atti firmati dal sindaco, ma al contempo - dopo la legge Bassanini che ha introdotto lo spoils system (n. 127 del 1997) - nominati e revocati dal sindaco medesimo. Vale per i giudici ordinari, dato che nessuna norma impedisce a un magistrato che tiene udienze a Napoli di fare l’assessore a Napoli. Vale per il difensore civico - che dovrebbe tutelare i cittadini nei casi di maladministration - perché ancora una volta è assurdo che il controllato, ossia il Consiglio regionale o comunale, designi il proprio controllore. Vale a maggior ragione per la pletora di autorità indipendenti, che dagli Anni Novanta hanno preso posto nel nostro ordinamento: i cui membri sono nominati dai presidenti delle Camere (e dunque dalla maggioranza di governo) oppure eletti dal Parlamento con voto limitato (e dunque, nella sostanza, lottizzati fra i partiti).

Ma se c’è un settore dove gli interessi si miscelano, dove controllore e controllato vestono l’identica casacca, questo è il settore della giustizia amministrativa. Dovremmo poter dire che è uno scandalo, se la parola non fosse ormai abusata. Perché lo scandalo aggredisce la funzione giurisdizionale, sentinella dei diritti. Perché la trasforma da guardiano indipendente dell’amministrazione a protettore degli amministratori. Perché infine disegna un’area d’impunità sul potere più elevato, il potere di governo. Ne è testimonianza la composizione del Consiglio di Stato, dove un quarto dei membri è di nomina governativa (legge 27 aprile 1982, n. 186), benché questa magistratura costituisca il più alto grado di giudizio contro gli abusi del governo. Ne è testimonianza la composizione della Corte dei conti, dove il governo nomina 39 consiglieri (d.P.R. 8 luglio 1977, n. 385), benché i giudici contabili vigilino sulle spese del governo. Col risultato che quest’ultimo, oltre a beneficiare di guardiani spesso compiacenti, se ne serve non di rado come una discarica per liberarsi dei personaggi più ingombranti.

Valgano a mo’ d’esempio la nomina in Consiglio di Stato di Nicolò Pollari, dopo la sua rimozione da capo dei servizi segreti per una gestione alquanto disinvolta delle intercettazioni (gennaio 2007); nonché la nomina alla Corte dei conti di Roberto Speciale - nomina poi rifiutata dall’interessato - dopo che il governo stesso lo aveva licenziato con gravissime accuse dal comando generale della Guardia di finanza (giugno 2007). Ma almeno in questo la seconda Repubblica coincide con la prima. Negli Anni 70 un esecutivo Andreotti fece un’infornata di 17 consiglieri di Stato, per lo più parlamentari trombati alle elezioni; tanto che un giurista prudente come Mortati parlò di situazione patologica. Senza dire dei pareri obbligatori del Consiglio di Stato ai ministeri, dove però c’è sempre un consigliere distaccato a capo di gabinetto del ministro. Più che un parere, una strizzatina d’occhio.

Ma la stravagante regola che mette il giudice in mano all’imputato non funziona solamente nei palazzi romani. Funziona dappertutto, dalle isole alle Alpi. In Sicilia il Consiglio di giustizia amministrativa ospita un giudice designato dal ministro dell’Interno e 9 scelti dal presidente della Regione siciliana (decreto legislativo 24 dicembre 2003, n. 373). In Trentino Alto Adige 2 giudici su 6 del Tribunale amministrativo regionale vengono nominati dal Consiglio provinciale di Trento, mentre a Bolzano c’è una sezione autonoma dove il governo nazionale nomina 4 giudici e il Consiglio provinciale di Bolzano gli altri 4 (d.P.R. 6 aprile 1984, n. 426). Nelle sezioni regionali della Corte dei conti siedono 2 magistrati rispettivamente designati dal Consiglio regionale e dal Consiglio delle autonomie locali (legge 5 giugno 2003, n. 131). Insomma non c’è male: chi pensa che il rapporto fra politica e giustizia sia troppo lacerato, e che la lacerazione provochi un formidabile complesso per le nostre istituzioni, potrà rassicurarsi. Almeno per la giustizia amministrativa, il complesso si è trasformato in un amplesso.


michele.ainis@uniroma3.it
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Titolo: MICHELE AINIS. Idratazione forzata
Inserito da: Admin - Marzo 26, 2009, 10:34:08 am
26/3/2009 - BIOTESTAMENTO
 
Idratazione forzata
 
 
MICHELE AINIS
 

Ieri il Senato ha messo in minoranza Aldo Moro. È successo alle 11 e 30, minuto più minuto meno. C’era già stato il voto sulla nutrizione e l’idratazione artificiale, la soluzione di compromesso del Pd era stata respinta senza troppi complimenti. Nessun rifiuto del sondino, nemmeno in casi eccezionali, nemmeno se l’hai lasciato scritto con la vernice rossa sui muri di casa. Applausi dai banchi di destra, rumori, sospensione dei lavori. Alla ripresa il senatore Marino evoca per l’appunto Moro, e illustra un emendamento che riecheggia pressoché alla lettera quanto lui disse in Assemblea Costituente, durante la seduta del 28 gennaio 1947: «Ogni trattamento sanitario può venire rifiutato». Questo perché, aggiungeva Moro, viene qui in gioco una questione di libertà individuale, e dunque un limite al potere coercitivo dello Stato. Questione diversa dal caso aperto sessant’anni dopo attorno al corpo di Eluana Englaro: riguarda gli ammalati, non i moribondi.

E soprattutto riguarda uomini e donne in piena coscienza, capaci d’intendere e volere. Riguarda la possibilità di rifiutare un’aspirina così come un’amputazione, un elettrocardiogramma così come il trapianto del cuore. I costituenti dettero ragione a Moro, e scrissero l’art. 32 della Costituzione; i senatori ieri gli hanno dato torto, con 148 no, 116 sì, 10 astenuti.

Che cosa è mai accaduto nelle nostre istituzioni, quale mutazione antropologica ne colpisce gli attuali inquilini, se perfino il cattolicesimo democratico viene espulso dalla Repubblica italiana? Se questa Repubblica, qui e oggi, rinnega i valori con cui a suo tempo venne battezzata? Perché è questa la prima conseguenza della legge in dirittura d’arrivo al Senato: una patente d’incostituzionalità. La legge sul testamento biologico offende il diritto alla libertà personale iscritto nell’art. 13 della Carta, che significa anzitutto diritto di proprietà sul nostro corpo, potere di disporne. Offende il diritto alla salute sancito dall’art. 32, che a sua volta implica il rifiuto delle cure. Offende la dignità umana menzionata nell’art. 3, perché ciascuno dev’essere libero di scegliere dove si situi la misura di un’esistenza dignitosa. Con questa legge, viceversa, d’ora in poi chi disgraziatamente si trovasse nelle condizioni di Eluana dovrà restare appeso al suo sondino per tutti i secoli dei secoli. Di più: il voto altrettanto disgraziato su Aldo Moro rischia di trasformare le corsie d’ospedale in altrettante carceri, i pazienti in detenuti. Si dirà che lo stesso art. 32 riserva tuttavia alla legge il potere di disporre trattamenti sanitari obbligatori. Errore: la legge può farlo quando sussiste un interesse pubblico, un bisogno della collettività. Può stabilire d’internare i folli o i malati contagiosi, può imporre la vaccinazione obbligatoria, ma quale pericolo reca al proprio prossimo chi s’oppone alla nutrizione artificiale?

No, non c’è giustificazione alla cultura del divieto che soffia come un vento sulle nostre esistenze, sbattendole come panni stesi ad asciugare sul balcone. È un vento potente, tal quale la parola del cardinal Bagnasco: che il Parlamento faccia presto, ha detto lunedì. Eccolo accontentato. E dunque no alla ricerca sulle staminali, no ai matrimoni gay, no alla morte dignitosa, no - perfino - ai preservativi per difendersi dall’Aids. Non c’è scampo, né in camera da letto né in camera mortuaria. È la volontà del popolo che s’esprime attraverso questa selva di divieti? Se così fosse, potremmo quantomeno rassegnarci a un primato democratico. Ma proprio ieri un sondaggio di Repubblica ha rivelato che il 73,5% degli italiani è in disaccordo con Benedetto XVI quanto all’uso dei preservativi; e d’altronde non è affatto un caso se le chiese sono vuote, se la popolarità del Vaticano precipita più di Piazza Affari. Non precipita però la sua influenza, perché quest’ultima s’allunga non sui fedeli bensì sugli apparati, su chi sa che per ottenere un posto in Parlamento, una poltrona in Rai, una carica nei Cda che contano in Italia serve l’acqua santa. Per l’appunto: idratazione forzata.

michele.ainis@uniroma3.it
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Titolo: MICHELE AINIS. Ritorno al futuro
Inserito da: Admin - Aprile 02, 2009, 03:55:12 pm
2/4/2009
 
Ritorno al futuro
 
 
MICHELE AINIS
 
La giustizia risponde in tempi biblici. Tanto più rispetto al ritmo nevrotico e febbrile che segue la politica, e perciò l’agenda parlamentare.

Ma può succedere che questi due tempi si ricongiungano, s’incrocino entrambi nel presente. Può succedere che nel 2009 una sentenza costituzionale bocci una legge del 2004, varata da un altro governo Berlusconi, due legislature fa. E può succedere che questa medesima sentenza sbatta come un pugno sul tavolo nelle decisioni che il Parlamento s’appresta a formulare. Perché ieri sera la Consulta ha azzoppato la legge sulla fecondazione assistita, ma in qualche modo pure la legge sul testamento biologico fin qui approvata dal Senato. E perché, sempre ieri, i giudici costituzionali hanno restituito qualche grammo di libertà alle donne, ma in prospettiva a tutti gli italiani. Per coniugare queste due vicende, c’è bisogno innanzitutto di descrivere la doppia censura d’incostituzionalità sulla quale si è abbattuta la mannaia della Consulta. In primo luogo, cade la norma che impediva di creare un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario «ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre». Una norma crudele, perché il divieto d’impiantare più di tre ovociti per ciclo, e insieme l’obbligo di trasferire tutti gli embrioni ottenuti con l’inseminazione, costringevano ogni donna a ripetere ad oltranza la stimolazione ormonale, esponendosi al rischio di contrarre malattie incurabili; e la costringevano inoltre ad accettare che l’embrione malato attecchisse nel suo corpo, semmai decidendo successivamente di abortire, e sottoponendosi pertanto a una doppia sofferenza. Come scrisse a suo tempo Michela Manetti, c’è in questa legge, in questo specifico passaggio normativo, una visione punitiva nei confronti della donna. E la punizione disposta dalla legge non si attaglia tanto all’illecito, quanto piuttosto al sacrilegio; non alla violazione di norme giuridiche, ma alla disobbedienza verso le leggi di natura. Ma c’è (c’era) anche un oltraggio nei confronti della scienza medica, dell’autonomia che spetta al medico. Questo perché il limite di tre embrioni da impiantare risulta in alcune circostanze troppo alto (determinando il pericolo di gravidanze plurigemellari), in altre troppo scarso. E perché inoltre il divieto di crioconservazione degli embrioni aumenta la necessità di ripetere la stimolazione ormonale, che tuttavia non si può ripetere vita natural durante senza mettere in pericolo la salute della donna. Insomma con quella norma l’eventualità che la terapia si concludesse con successo era un azzardo, una puntata ai dadi; non a caso vi si è subito innescato il fenomeno del turismo procreativo.

Ma adesso la Consulta ripristina la dignità dei medici, e insieme quella delle donne. È questo, dopotutto, anche il filo conduttore della seconda dichiarazione d’incostituzionalità (tecnicamente un’«additiva»), dove entra in gioco la norma che imponeva l’immediato trasferimento degli embrioni non impiantati al momento della fecondazione per causa di forza maggiore. No, ha detto ieri la Consulta: pure in quest’ipotesi il trasferimento va effettuato senza pregiudicare la salute della donna. E chi, se non il medico, ha in tasca gli strumenti per assumere tale decisione?

Poi, certo, leggeremo le motivazioni, quando la Corte le avrà depositate. Però intanto la doppia incostituzionalità della Legge 40 ci impartisce fin da adesso una doppia lezione, e soprattutto la impartisce ai nostri legislatori. In primo luogo, nessuna legge può trasformare i medici in altrettanti megafoni di un’ideologia politica, né tanto meno religiosa. In secondo luogo, nessun valore può farsi tiranno sugli altri valori che attraversano la nostra esistenza pubblica e privata. I valori vanno piuttosto compensati, bilanciati. È il caso della tutela dell’embrione rispetto alla salute della donna. Ma è anche il caso della libertà di decidere la morte, rispetto alla tutela della vita. Se il Parlamento se ne rammenterà, prima di licenziare quest'altra legge sul testamento biologico, potrà quantomeno risparmiare alla Consulta la prossima fatica.

michele.ainis@uniroma3.it

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Titolo: MICHELE AINIS. L'Istat? Molto meglio l'oroscopo
Inserito da: Admin - Aprile 19, 2009, 05:13:42 pm
19/4/2009
 
L'Istat? Molto meglio l'oroscopo
 
MICHELE AINIS
 
Questa è una storia di lassismo burocratico, di governi complici, di leggi scritte sulla carta però allegramente disattese. Tal quali le leggi antisismiche crollate all’Aquila insieme al terremoto. D’altronde pure questa storia deflagra il 6 aprile, benché nessuno fin qui ci abbia prestato caso. E anch’essa lascia almeno un morto sotto le macerie. Non - per fortuna - un morto in carne ed ossa. Ma la vicenda è analoga, sia pure con la differenza che separa la tragedia dalla farsa. E la vittima reca a sua volta un nome illustre: la statistica, o almeno la statistica ufficiale. La più inesatta fra le scienze esatte, dice chi non le vuol bene. Tuttavia una disciplina coltivata fin dall’antico Egitto, a Roma sotto Augusto imperatore, nella Cina dei Ming. Perché costringe i governi a ragionare sulle cifre, e perché dunque rappresenta il faro delle politiche pubbliche. Fu Leibniz il primo a proporre la creazione di un ufficio nazionale di statistica. In Italia la sua idea venne realizzata nel 1861, perfezionata nel 1926, quando sorse l’Istat.

La settimana scorsa ne abbiamo decretato i funerali, senza esequie di Stato, senza neppure un necrologio.

Tutto comincia nel giugno 2007, quando un direttore dell’Istat dichiara candidamente a Panorama che ogni anno 350 mila questionari inviati alle imprese e ai cittadini restano senza uno straccio di risposta. L’ennesima prova dello scarso senso civico del popolo italiano, verrebbe da pensare. Solo che in questi casi - in Italia come altrove - la risposta è (era) obbligatoria; e a propria volta l’Istat ha (aveva) l’obbligo di perseguire i colpevoli, applicando una sanzione pecuniaria. Vi ha mai provveduto? Macché. Alle nostre latitudini le leggi sono come le raccomandazioni della suocera, nessuno le prende mai sul serio. Sennonché il sindacato Usi/RdB, fatti due calcoli, denuncia i vertici dell’Istat per danno erariale; e la procura della Corte dei conti lo quantifica in 191 milioni di euro, di cui 95 da scucire al presidente Biggeri. L’udienza si terrà il 12 ottobre prossimo.

Nel frattempo però scattano le operazioni di soccorso. Il governo Prodi, fra un rantolo e un lamento, trova le forze per varare l’«indulto statistico», infilando nel decreto milleproroghe (febbraio 2008) una norma che non proroga un bel nulla, anzi chiude i conti col passato. Come? Inventando la risposta non risposta. Il Dio degli azzeccagarbugli sarà saltato sulla sedia: con questa norma rischia la multa solo chi mette per iscritto la sua volontà di sottrarsi ai questionari Istat, solo chi risponde di non voler rispondere. Ovviamente non lo fa nessuno, anche perché sarebbe come denunciarsi. Sarebbe come stabilire che gli evasori fiscali d’ora in avanti verranno castigati a condizione che dichiarino al fisco d’essere evasori. Una capriola logica e insieme un ossimoro giuridico: l’obbligo non obbligatorio.

Fine? Per il passato sì, ma c’è da preoccuparsi del futuro, dato che l’indulto statistico non vale dal 2009 in poi. Qui allora arriviamo al governo Berlusconi, arriviamo per l’appunto al 6 aprile: quando la Gazzetta Ufficiale pubblica un decreto che restringe da 144 a 29 le indagini statistiche a risposta obbligatoria. Ci si potrà più fidare delle rilevazioni Istat? Se già in passato Eurostat (l’ufficio statistico della Commissione europea) le prendeva con le pinze, da domani varranno meno d’un oroscopo tracciato sui segni zodiacali. Senza un martello da piantare sulla testa ai renitenti, da domani l’Istat non sarà più in grado d’offrire statistiche attendibili e complete. Anche perché le materie depennate non sono affatto marginali: c’è dentro il turismo, l’agricoltura, i trasporti, l’ambiente, i consumi delle famiglie, il tasso d’occupazione nelle piccole imprese, la sicurezza, gli aborti, le malattie infettive. C’è tutto il capitolo delle costruzioni, proprio adesso che cadono una addosso all’altra come un castello di tarocchi. C’è infine la giustizia, e magari è un bene per l’immagine consunta del Paese, così nessuno potrà più misurare i tempi biblici dei nostri processi. Ma dopotutto non c’è scandalo: in Italia l’informazione, al pari della legge, non è una cosa seria.

michele.ainis@uniroma3.it
da lastampa.it


Titolo: MICHELE AINIS. Democrazia con l'elmetto
Inserito da: Admin - Aprile 30, 2009, 09:48:20 am
30/4/2009
 
Democrazia con l'elmetto
 
 

MICHELE AINIS
 
Nel condominio delle nostre istituzioni si sta aprendo una stagione di conflitti. Le avvisaglie sono chiare, benché ancora nessuno abbia sparato il primo colpo di fucile. Sono altrettanto chiari i due fronti contrapposti su cui si dispongono i condomini: da un lato gli organi di garanzia; dall’altro lato gli organi politici. Sul primo fronte è acquartierata, da Tangentopoli in avanti, la magistratura; e infatti il rapporto fra politica e giustizia indica un nodo irrisolto della nostra vita pubblica. Ma più di recente vi si è aggiunto il tribunale costituzionale, dopo la sentenza che ha preso a morsi la legge sulla fecondazione assistita. Senza troppi giri di parole, la maggioranza ha salutato questa decisione come una ferita alla democrazia. Se è così, avremo altre ferite da medicare nel prossimo futuro, quando la Consulta s’occuperà del lodo Alfano o del testamento biologico. Anche perché al suo fianco va prendendo posizione un organo di garanzia politica qual è il presidente della Camera, che a giorni alterni spedisce un altolà al governo. E soprattutto si profila una maggiore intransigenza del Capo dello Stato. Dopo il caso Englaro, Napolitano ha moltiplicato le critiche contro l’uso troppo disinvolto dei decreti, contro l’eccesso dei voti di fiducia, in ultimo - nel discorso di Torino - contro un rischio autoritario nel nostro orizzonte collettivo. Certo, l’esecutivo può reagire minimizzando, facendo orecchie da mercante: per l’appunto la strategia esibita in quest’ultima occasione. Tuttavia il presidente può a sua volta trasformare la moral suasion nell’esercizio specifico e puntuale dei propri poteri di veto, per esempio rinviando alle Camere le leggi di conversione dei decreti. E allora i contendenti avranno un elmetto da indossare, dalle buone maniere passeranno alle maniere forti.

Un oroscopo infausto? Dipende dal giudizio sulla vecchia idea di Montesquieu: quella di separare i poteri e le funzioni, di distinguere la decisione dal controllo. In Italia è un’idea in crisi ormai da tempo, da quando alla separazione si è via via sostituita l’integrazione delle competenze. Ci ha messo del suo pure la Consulta, elaborando il canone della «leale collaborazione» fra i diversi attori della cittadella burocratica. Ovviamente c’è del giusto, perché un aereo cade a picco se il pilota non dialoga con il copilota. Ma c’è anche un pericolo, in primo luogo perché se tutti fanno tutto non saprai mai a chi chiedere conto dei misfatti. E in secondo luogo perché la logica dell’integrazione può risolversi - e spesso si risolve - nel predominio del più forte. È accaduto con l’esperienza regionale, e sta proprio in ciò la causa del suo fallimento. Nel 1947 i costituenti scolpirono un modello che divideva con un colpo d’accetta le attribuzioni statali e regionali. Nel 1970, quando finalmente le regioni si presentarono ai nastri di partenza, trovarono il circuito già occupato dalle autoblu ministeriali. Furono perciò costrette a montare sul sedile posteriore, e da allora in poi si sprecano i progetti di riforma. Ma è accaduto, per fare un altro esempio, riguardo al potere di grazia. Per sessant’anni esercitato in condominio dal Capo dello Stato e dal governo, anzi riservando al primo un ruolo puramente notarile. Finché Ciampi non ha sollevato un conflitto dinanzi alla Consulta, che a propria volta ne ha sancito definitivamente le ragioni.

Ecco, i conflitti. La logica dell’integrazione - delle competenze e dei poteri - porta in ultimo alla sedazione dei conflitti. E infatti non c’è più distinzione né frizione tra il legislativo e l’esecutivo, l’uno è protesi dell’altro. Non c’è laicità, non c’è separazione tra sfera pubblica e sfera religiosa, da quando è crollato il «muro» fra Stato e chiese di cui parlava Thomas Jefferson. Non c’è neppure un referendum oppositivo in mano ai cittadini, da quando l’astensionismo lo ha disinnescato. Ma i conflitti sono il sale delle democrazie, sono la via obbligata per restituirvi responsabilità e chiarezza. Non a caso l’istituto del conflitto fra i poteri è un asse portante dello Stato di diritto. E d’altronde l’alternativa si chiama organicismo, si chiama populismo, consiste nell’unità fittizia della cittadinanza che parla solo attraverso la voce del suo Capo. No, non dobbiamo aver paura dei conflitti. Preoccupiamoci piuttosto di non prendere troppi sedativi.

michele.ainis@uniroma3.it
 
da lastampa.it


Titolo: MICHELE AINIS. Referendum ho firmato non voterò
Inserito da: Admin - Maggio 11, 2009, 09:41:27 am
11/5/2009
 
Referendum ho firmato non voterò
 

MICHELE AINIS
 
Confesso: io il referendum elettorale l’ho firmato.
È accaduto nella primavera del 2007, quando altri 820 mila italiani presero la stessa penna fra le dita. Confesso di nuovo: l’ho pure promosso. D’altronde carta canta, sarebbe impossibile negare: il mio nome figura al terzo posto nell’elenco dei 179 membri del comitato promotore, subito dopo i nomi di Guzzetta e Segni. Capricci dell’ordine alfabetico, non è il caso di farne un’aggravante. Ma adesso mi accingo alla terza confessione: non voterò questo referendum, o meglio voterò no sul quesito principale.
Prima d’essere infilzato dai partigiani di ambedue gli schieramenti, prima che mi iscrivano d’ufficio nell’albo nazionale dei pentiti, detto a futura memoria queste note.

No, non ho cambiato idea sull’importanza dei referendum elettorali. Sono l’unica leva in mano ai cittadini quando il bunker della politica si chiude a doppia chiave.
 
Del resto la seconda Repubblica è nata in questo modo, attraverso un doppio referendum (nel 1991 e nel 1993). Il guaio è che le leggi elettorali non scaldano mai il cuore.

Per lo più non ci facciamo neanche caso, come non ci s’accorge del motore rinchiuso dentro il cofano. E quasi nessuno capisce il meccanismo dei pistoni, pur capendo vagamente che da lì dipenderà il suo viaggio. Ma allora un referendum elettorale può vincere soltanto se intercetta un’energia politica, una spinta al cambiamento in qualche modo esterna e precedente alla formulazione dei quesiti, come avvenne durante Tangentopoli. Nel 2007, mentre andava in scena lo spettacolo del governo Prodi (102 fra ministri e sottosegretari, 11 partiti a dividersi il boccone, 2 senatori a vita decisivi per la sua sopravvivenza), questa energia s’accumulava, premeva sulla società italiana cercando un punto d’eruzione. L’ha trovato in un libro, La casta di Stella e Rizzo. Per una stagione l’ha trovato in un comico, Beppe Grillo. Infine se ne è impadronito Berlusconi. Dopo le politiche del 2008 quel vento ha smesso di soffiare per la semplice ragione che il cambiamento c’era già stato: piaccia o non piaccia (ai più piace), la palingenesi è il governo Berlusconi, metodi e stile opposti rispetto al suo predecessore.

Insomma corre un’era geologica, non 24 mesi appena, tra quel tempo e il nostro tempo.
Quando cominciammo a scrivere l’agenda del comitato promotore, né il Pd né il Pdl erano stati battezzati. La nostra iniziativa puntava a coagulare le anime sparse del Palazzo, per semplificare la politica, per renderla meno incomprensibile. Ma in ultimo la politica si è rimessa in movimento, senza attendere la mannaia del referendum. Questo vale altresì per la seconda lama forgiata dai referendari: quella che taglia la testa ai pluricandidati, e dunque ai plurieletti, che optando per l’uno o per l’altro collegio decidono la sorte di chi si trova in coda nella lista. Nel 2006 un terzo dei parlamentari fu scelto per graziosa concessione; nel 2008 soltanto qualche dozzina. Potremmo trarre una lezione da queste vicende elettorali. Dovremmo farlo specialmente noi italiani, convinti come siamo che tutti i mali del sistema derivano dalle regole, dalla Costituzione. No, è la politica a decidere sui fatti e sui misfatti; è la politica a dettare il tempo del nostro vivere comune.

Ecco, il tempo. Nessuna legge elettorale è mai per tutti i secoli a venire. Né sussiste un primato sempiterno del maggioritario sul proporzionale, o viceversa.
Dipende dal contesto, dalle stagioni della storia. Ieri avremmo potuto votare il referendum, sia pur turandoci il naso (avevo scritto così, sulla Stampa del 24 aprile 2007: un argomento per i miei avvocati). Oggi rischieremmo di non aver più nulla da annusare. Perché sul nostro calendario non c’è più troppo pluralismo, bensì troppo poco. Perché una soglia di sbarramento impervia, coniugata a un superpremio per un superpartito, oggi finirebbe col pietrificare la politica, trasformando in statue di sale gli elettori.

Perché nel frattempo pure la Consulta (sentenza n. 15 del 2008) ha segnalato gli «aspetti problematici» del premio di maggioranza. E perché infine, nonostante la generosità istituzionale di Segni e Guzzetta, oggi il referendum è diventato generoso con i ricchi, avaro con i poveri.

michele.ainis@uniroma3.it
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Titolo: MICHELE AINIS. Le riforme basta volerle
Inserito da: Admin - Maggio 22, 2009, 11:55:11 am
22/5/2009
 
Le riforme basta volerle
 
 
 
 
 
MICHELE AINIS
 
Nell’arco d’un solo pomeriggio il presidente del Consiglio ha attaccato due poteri su tre: comunisti i magistrati, fannulloni i deputati. Più che un’opinione, un anatema, un doppio affondo contro il corpo giudiziario e contro il Parlamento. Si salva, guardacaso, unicamente il potere esecutivo, anche perché altrimenti Berlusconi avrebbe dovuto bisticciare con se stesso.

È il caso di menare scandalo? Sì, è il caso. Non tanto in nome del galateo costituzionale, una pagina ormai ingiallita della nostra vita pubblica; anche se le nazioni muoiono di impercettibili scortesie, diceva Giraudoux. Neppure in nome del linguaggio edulcorato che un tempo usavano i notabili Dc; dopotutto la franchezza è una virtù, benché nella seconda Repubblica le parole dei politici siano diventate altrettanti corpi contundenti. Ma quando il politico di turno è il leader del nostro maggior partito, quando ha in pugno il timone del governo, s’apre allora una duplice questione: di metodo e di merito. Circa il metodo, rimbalza la domanda sollevata dallo stesso Berlusconi: non vale forse per il premier la libertà di manifestazione del pensiero di cui godono tutti gli italiani?

Non allo stesso modo, non in tutti i casi. Nei manuali di diritto si distingue tra manifestazione ed esternazione del pensiero, riferendo quest’ultima al Capo dello Stato, ai presidenti delle assemblee parlamentari, o per l’appunto al premier. Insomma la prima è una libertà, la seconda un potere. E il potere d’esternazione incontra limiti più netti, più stringenti, rispetto alle parole che viaggiano nei nostri discorsi collettivi. Perché è un potere che s’accompagna all’esercizio d’un potere - quello di rappresentare la nazione, di guidare i lavori delle Camere, d’orientare l’attività amministrativa. E perché in uno Stato di diritto nessun potere vive in solitudine, deve rispettare i territori altrui, senza invaderli nemmeno verbalmente.

Qui allora viene in gioco il merito, il contenuto dell’esternazione con cui Berlusconi ha salutato la platea di Confindustria. È vero o no che il Parlamento è un treno a vapore, che basterebbero 100 deputati come negli Usa (in realtà sono 435, presidente), che a propria volta l’esecutivo ha ricevuto in dotazione un fucile scarico dai nostri padri fondatori? Sì e no. Quanto ai parlamentari, effettivamente 945 sono troppi, quando si pensi che i costituenti erano poco più della metà (556), e che in un anno e mezzo scrissero la legge delle leggi. Ma sulla cura dimagrante concorda altresì l’opposizione: e allora passate dalle parole ai fatti. Quanto ai poteri del governo, di nuovo l’opposizione concorda su qualche aggiustamento, ma di nuovo la riforma sin qui è rimasta avvolta in una nuvola verbale.

È falso tuttavia che la democrazia italiana, sia pure con tutti i suoi difetti, indossi una camicia di gesso, sia insomma come paralitica. Il quarto governo Berlusconi ha varato 35 decreti legge, dei quali 34 convertiti dalle Camere. Nel suo primo anno di vita a Prodi ne vennero convertiti 19; eppure le istituzioni sono rimaste tali e quali, evidentemente è cambiato lo stile di guida del pilota. Quel medesimo pilota ha posto per 18 volte la questione di fiducia: dunque le regole in vigore non escludono le maniere forti. Ma se è per questo, non escludono neppure le maniere rapide. Tanto per dire, nel luglio scorso il lodo Alfano è giunto in porto dopo appena un mese di navigazione, mentre in aprile la legge che ha spostato il referendum al 21 giugno ha ottenuto il via libera di Camera e Senato in una settimana. Nell’uno e nell’altro caso c’era una forte volontà politica a mettere benzina nel motore. E allora coraggio, usiamola per fare le riforme. Possibilmente senza innescare incendi.

michele.ainis@uniroma3.it
 
da lastamnpa.it


Titolo: MICHELE AINIS. La sicurezza grandine di parole
Inserito da: Admin - Maggio 28, 2009, 09:55:14 am
28/5/2009
 
La sicurezza grandine di parole
 
MICHELE AINIS
 
Passi per il lodo Alfano, o lodo Mills, lodatelo un po’ come vi pare. Dopotutto, pazienza se 4 italiani su 60 milioni vengono posti dalla legge al di sopra della legge, se possono al limite stuprare le vecchiette, con un salvacondotto stampato a caratteri di piombo sulla Gazzetta Ufficiale. Però, a noialtri rei e reietti, qualche grammo di coerenza renderebbe più lieve la giornata. Se l’indulgenza è il nuovo indirizzo di governo, che almeno sia plenaria, Urbi et Orbi.

E invece no, due pesi e due misure. Negli stessi giorni in cui il tribunale di Milano sparava a salve contro il premier, Brunetta bastonava con 5 anni di galera i medici che rilasciano false attestazioni ai dipendenti, e gli stessi dipendenti se si fanno timbrare il cartellino da un collega. Ossia se scimmiottano i pianisti, nome di battaglia di quei parlamentari che votano in luogo del compagno di partito assente, magari perché questo è in missione, così la diaria entra in busta paga. La settimana scorsa erano 47 i missionari della Camera, i pianisti al Senato chissà quanti, tanto non rischiano la galera, al massimo un rimbrotto. Sempre la Camera ha appena inasprito le pene detentive (fino a 3 anni) per il gioco online senza autorizzazione. E soprattutto ha licenziato il decreto sulla sicurezza, un diluvio di 29.150 parole scagliate come pietre sulla testa del popolo italiano.

Ecco, le parole. Poiché il diritto è intessuto di parole - diceva Adolf Merkl - la lingua rappresenta un po’ il portone attraverso cui la legge penetra le nostre esistenze collettive. E che lingua parla la nuova legge? Proviamo a farne un’analisi testuale. Il termine «pena» vi ricorre 44 volte, quasi sempre in compagnia di locuzioni come «la pena è aumentata», o altrimenti raddoppiata, triplicata. In altri 26 casi si contemplano «sanzioni», ora amministrative ora pecuniarie (vietate però quelle corporali). La parola «reclusione» rimbalza per 36 volte su e giù lungo quel testo. Le «aggravanti» vengono citate 9 volte, le «attenuanti» 4 (ma per escluderle). Per 5 volte risuonano «misure di sicurezza» del più vario conio. Infine tracima un lago di «delitti» (34) e di «reati» (89), come se non ne avessimo già abbastanza sul groppone.

Già, ma quante sono le fattispecie di reato sulle quali ogni italiano può inciampare? Qualche anno fa gli addetti ai lavori azzardavano una stima: 35 mila. Roba da stacanovisti del crimine: se dedichi un’ora a ciascun tipo di reato, ci metterai 4 anni prima di completare il giro. Eppure questa stima non è mai stata confutata, forse perché viziata per difetto. D’altronde il solo governo Berlusconi, nel primo anno della legislatura, è intervenuto 90 volte sul sistema penale. A propria volta i sindaci, con la benedizione del governo, hanno cucinato quasi 700 ordinanze per servirci un fritto misto di divieti. E tuttavia non basta, non basta mai. Il decreto sulla sicurezza menziona per 81 volte il codice penale, per 33 volte quello di procedura penale. Trasforma il disagio sociale in una questione d’ordine (non per nulla parla di «ordine» in 23 casi), istituendo per esempio il registro dei barboni presso il ministero dell’Interno. Infine dà libero sfogo alla fantasia punitiva dei signori della legge, introducendo - per fare un altro esempio - l’aggravante notturna per chi guida in stato d’ubriachezza dopo l’ora del tramonto. Domani sarà la volta dell’aggravante festiva per chi parcheggia in doppia fila di domenica, dell’aggravante anagrafica per chi sorpassa in curva sotto i quarant’anni. Anzi no, quella esiste già: l’ennesima invenzione del decreto-sicurezza.

Per ripararci dalla grandine, potremmo fare affidamento sulla proverbiale inefficienza dei controlli. Dopotutto questo rimane il Paese del «severamente vietato», dove però gli automobilisti hanno lo 0,1% di possibilità d’incontrare una volante, dove le verifiche sugli intermediari finanziari toccano lo 0,3% della categoria, dove chi affitta casa riceve la visita del Fisco nello 0,14% dei casi. Magra consolazione, tuttavia; anche perché la salvezza dipende unicamente dal capriccio della sorte. Chi invece si salva di sicuro sono i parlamentari. Hanno trasformato l’insindacabilità per le opinioni espresse nella licenza d’ingiuriare il prossimo: la Camera stoppa i giudici 92 volte su 100, il Senato 95 su 100. Ed è questo doppio registro, questa schizofrenia legislativa, il più incommestibile boccone. Speriamo che ci salvi uno psichiatra.

michele.ainis@uniroma3.it
 
da lastampa.it


Titolo: MICHELE AINIS. A chi s'appella l'appellante
Inserito da: Admin - Giugno 02, 2009, 11:35:47 am
2/6/2009
 
A chi s'appella l'appellante
 
 
 
 
 
MICHELE AINIS
 
Manifestare significa rovesciarsi nelle piazze, percorrerle in corteo, urlare slogan col ritmo d’un tamburo. Ma c’è chi manifesta restandosene in poltrona a gambe accavallate. Questo privilegio tocca a una speciale fauna umana, comunemente nota con l’ambiguo epiteto di intellettuali. Per loro - soltanto per loro - manifestare significa firmare manifesti, pronunciamenti collettivi, appelli.

Ecco, gli appelli. Non fai in tempo a girarti e te ne cade sul groppone una secchiata. Appelli contro il supermanager ai Beni culturali (associazione Bianchi Bandinelli, 7 mila adesioni). Contro il ponte sullo Stretto (l’iniziativa è di Liberazione). Contro il ritorno al nucleare (Legambiente). In difesa della Costituzione (Libertà e giustizia). Per non lasciare gli extracomunitari senza cure (Federazione dei pediatri, 90 mila firme). Contro il referendum, o altrimenti in favore, oppure per organizzare l’astensione. Ma corrono in rete anche appelli per fermare la produzione dei cacciabombardieri JSF, o di solidarietà al movimento animalista in Austria. Pare infatti che oltralpe sia in corso una violenta repressione, magari staranno usando l’aeronautica.

C’è un mutamento antropologico dietro questi fenomeni inflattivi. Un tempo l’appello seguiva fatti eccezionali, e sanciva inoltre una rottura fra la cultura e la politica, fra gli intellettuali e i signori della legge. Aveva queste due caratteristiche il suo più celebre antenato, l’appello diffuso il 15 gennaio 1898 per la revisione del processo Dreyfus, due giorni dopo la pubblicazione del «J’accuse» di Zola. Oggi no, non è questa la regola. Perché appelli e petizioni non servono al convento, servono ai frati. «Chi non firma si rafferma», titola un paragrafo del libro che Oliviero Beha ha appena dedicato alla metamorfosi degli intellettuali (I nuovi mostri, Chiarelettere, 279 pagg., 13,60 euro). Un libro caustico e dolente, che punta l’indice contro la scomparsa dei cavalieri solitari, sostituiti dai pifferai di questo o quel partito.

La vera libertà è la libertà di non schierarsi, diceva a propria volta Adorno. Ma a quanto pare non interessa più nessuno. Precisamente a questo mirano gli appelli: sono ormai uno specchio collettivo, da un lato per celebrare l’autostima, dall’altro lato per farsi riconoscere dal branco. E dunque a chi s’appella l’appellante? Ma a se stesso, ovvio. Il nuovo appello è l’appello di Narciso.

michele.ainis@uniroma3.it
 
da repubblica.it


Titolo: MICHELE AINIS. Referendum al capolinea
Inserito da: Admin - Giugno 13, 2009, 09:26:28 am
13/6/2009
 
Referendum al capolinea
 
MICHELE AINIS
 
C’è una partita politica dietro le quinte del referendum elettorale, e il 22 giugno ne conosceremo gli esiti. Quanto pesa il controcanto di Gianfranco Fini rispetto all’asse Berlusconi-Bossi, quanto pesa la scelta referendaria di Franceschini rispetto ai mal di pancia del Pd: è diventato questo il vero oggetto dei quesiti, il tema su cui s’esercitano previsioni, retroscena, analisi. Ma c’è anche una partita istituzionale, ben più importante della prima; eppure nessuno ci fa caso. Qui la posta in gioco non tocca gli equilibri interni di partiti e coalizioni, non tocca nemmeno la fisionomia della legge elettorale. No, il responso delle urne deciderà la sopravvivenza stessa del referendum, della seconda scheda che i costituenti posero in mano agli italiani. Dal 1997 in poi abbiamo consumato 21 referendum, ma hanno fatto cilecca l’uno dopo l’altro. Niente quorum, niente messa nella chiesa vuota di fedeli. Se adesso si ripeterà la diserzione, la prossima messa servirà per celebrare un funerale, quello dell’unico strumento di democrazia diretta contemplato nel nostro ordinamento.

Come ha attecchito questa malattia degenerativa? C’entra senza dubbio l’anoressia degli elettori, il rifiuto ormai di massa del pasto elettorale. Il partito del non voto è diventato il primo partito nazionale: 15 milioni di astenuti volontari, ha calcolato Ricolfi. Ovvio che in questa condizione il quorum si trasformi in un salto con l’asta. Faremmo meglio a rapportarlo al numero effettivo dei votanti nell’ultima consultazione elettorale: l’Italia del 2009 non è più quella del 1948, quando votavano perfino i vecchietti sulla sedia a rotelle. Ma c’è anche, più sottile e velenosa, un’altra causa scatenante. È la musica suonata dai pifferai dell’astensione, da quanti furbescamente s’aggiungono al partito del non voto per far naufragare il referendum, invece di contrastarlo in mare aperto. Giochino facile, eppure un tempo non usava: nel 1974 il fronte divorzista fece campagna per il no, poi si mise in fila davanti ai seggi elettorali (19 milioni di no contro 13 milioni di sì). Fu sconfitta la Dc, Fanfani ci rimise la poltrona, ma il referendum ne uscì sano e salvo.

Potremmo domandarci quale istinto masochista ci spinga a rinunziarvi, quando lo strumento ottiene viceversa un successo crescente in tutto il mondo (dei circa 1.500 referendum fin qui celebrati a livello nazionale, oltre la metà si è svolta negli ultimi 25 anni). Quando nel Regno Unito Gordon Brown sta per indirne uno allo scopo di far scegliere ai suoi concittadini la nuova legge elettorale. Quando non abbiamo altri megafoni per parlare di persona (se è per questo, non ci è data neanche l’opportunità di parlare per interposta persona, dato che non possiamo scegliere i nostri rappresentanti in Parlamento). Ma dopotutto è ancora un’altra la questione, e investe la legalità del nostro vivere comune. Perché il voto è un «dovere civico», dice a chiare lettere la Costituzione; e senza distinguere fra elezioni e referendum. Perché in quest’ultimo caso l’astensione organizzata si risolve in un trucchetto, come già aveva denunziato Bobbio, nel giugno 1990, sulle colonne della Stampa. Perché il trucco viene addirittura castigato con pene detentive, da due norme (art. 98 del testo unico delle leggi elettorali per la Camera; art. 51 della legge che disciplina i referendum) che fino a prova contraria sono ancora in vigore.

Insomma se il singolo elettore - pur non offrendo certo un esempio di civismo - può disertare il voto, chi organizza l’astensione si pone al di fuori della legalità costituita. Eppure gli appelli non si contano, dalla Lega al Comitato per l’astensione (dove ahimé spicca un corteo d’intellettuali). Ci sarebbe allora da aspettarsi una reazione, anzitutto da quei partiti che lamentano ogni giorno lo scempio del diritto, come i Radicali o Italia dei valori. Perché non sempre il silenzio è d’oro.

michele.ainis@uniroma3.it
 
da lastampa.it


Titolo: MICHELE AINIS. Cinque toppe da cucire
Inserito da: Admin - Giugno 23, 2009, 02:39:29 pm
23/6/2009
 
Cinque toppe da cucire
 
MICHELE AINIS
 
Alla fine della giostra, il referendum abrogativo ha abrogato il referendum. Quando 8 elettori su 10 disertano le urne, quando i 3 quesiti elaborati da Guzzetta vanno a ramengo come i 21 che li hanno preceduti, quando insomma da 14 anni nessun referendum riesce a scavalcare il quorum, tanto vale fargli un bel funerale.

Il referendum è morto, ne parleranno semmai i libri di storia, né più né meno dei plebisciti che a metà ’800 scandirono l’unità d’Italia. O almeno è morta la creatura che negli Anni 70 ci consegnò divorzio e aborto, che negli Anni 80 ci tolse il nucleare, che negli Anni 90 - con altri due referendum sulle leggi elettorali - chiuse la prima Repubblica, inaugurando la seconda. Sicché, prima di ogni riflessione sul (non) voto, c’è subito un appello da rivolgere ai partiti: tirate fuori dalla tomba questo strumento di democrazia diretta, riscrivetene le regole, restituiteci la seconda scheda che nel 1947 i costituenti donarono al popolo italiano.

Appello temerario, perché proprio i partiti hanno fin qui indossato i panni del carnefice. In primo luogo tenendolo per 22 anni in quarantena (la legge istitutiva è del 1970): chi nasce malaticcio, difficilmente diventerà un atleta. In secondo luogo frodando a più riprese i risultati, come accadde nel 1993 per il referendum sul finanziamento pubblico ai partiti: abrogato dal 90% dei votanti, ma immediatamente riesumato sotto falso nome («rimborso elettorale»). In terzo luogo - e questa è storia più recente - organizzando l’astensione: siccome c’è un 20% d’italiani che non va mai a votare, basta convincerne un altro 30% e il gioco è fatto. Ma davvero in questo gioco vince a mani basse il sistema dei partiti? No, nessuna democrazia - nemmeno la più partitocratica - può stare in piedi senza un popolo. E il popolo italiano di questi tempi non rifiuta solo i referendum, rifiuta per esempio le elezioni provinciali (55% d’astenuti ai ballottaggi), rifiuta governo e Parlamento (con un tasso di sfiducia 4 punti più alto rispetto alla media europea: Eurostat 2007), rifiuta in blocco anche i partiti (se ne sente rappresentato il 14,1% appena: Eurispes 2008).

Ecco perché è diventato urgente ricucire il dialogo fra la politica e la società civile. Con la riforma del bicameralismo, con il federalismo, con tutti gli ismi che vi pare, ma altresì con un’iniezione di democrazia diretta. E non ci venite a raccontare che stavolta i quesiti erano troppo tecnici, troppo sofisticati. Nel 1993 lo era altrettanto il referendum Segni sulla legge elettorale del Senato, ma ottenne l’82% dei consensi. Non diteci che le iniziative referendarie hanno successo solo se incrociano un tema che scalda le coscienze, quando nel 1995 il 57% degli elettori votò sulle rappresentanze sindacali e sul soggiorno cautelare. Trovate piuttosto gli strumenti per sconfiggere il clima di disillusione, se non di frustrazione, che segna la nostra vita collettiva. E tra questi strumenti non dimenticate il referendum, «gemma della Costituzione» (la definizione è di Norberto Bobbio). Ha bisogno d’un vestito nuovo, o almeno di qualche rattoppo. Anzi: le toppe necessarie sono cinque, come le dita d’una mano.

Primo: via la possibilità d’abrogare singole parole, spezzoni di frasi, segni di punteggiatura. Ne vengono fuori quesiti incomprensibili, non era questa l’intenzione dei costituenti. Torniamo al modello del referendum oppositivo, e perciò abrogativo di un’intera legge, o quantomeno dei suoi singoli articoli. Secondo: affianchiamogli il referendum propositivo, dato che l’iniziativa legislativa popolare è carta straccia, destinata ai cestini delle Camere. È per questa lacuna che ha preso piede la moda dei referendum fatti con le forbici, per incanalare un’energia di cambiamento che altrimenti non ha sfogo. Terzo: anticipiamo il giudizio della Consulta prima che si raccolgano le firme, ma anticipiamo pure il calendario dei referendum, perché in caso contrario voteremo proposte fabbricate nella notte dei tempi, com’è appena accaduto. Quarto: blindiamo il risultato per una legislatura almeno, basta con i raggiri e le furbate. Quinto: teniamoci pure il quorum, ma ridimensionato, collegandolo al numero effettivo dei votanti nelle ultime elezioni. Sempre che, ovviamente, ci sia ancora qualcuno che ha voglia di votare.

michele.ainis@uniroma3.it
 
da lastampa.it


Titolo: MICHELE AINIS. L'ossessione della sicurezza genera insicurezza
Inserito da: Admin - Luglio 04, 2009, 12:21:51 pm
4/7/2009
 
L'ossessione della sicurezza genera insicurezza
 
MICHELE AINIS
 
All’indomani del nuovo reato d’immigrazione clandestina, alla vigilia del prossimo reato d’intercettazione malandrina, resta in sospeso una domanda: quanti ancora vogliamo sbatterne in galera? Africani itineranti, giornalisti intraprendenti, e poi a seguire drogati impenitenti, automobilisti imprudenti, mendicanti e postulanti, perfino chi ha una casa da affittare, se putacaso sbaglia l’inquilino. Ma questa domanda se ne tira dietro una seconda: c’è in Italia un pozzo così largo e profondo da ospitare i rifiuti umani che gettiamo via dalla cucina?

No, non c’è. C’è piuttosto un intero paese chiuso a chiave dentro il Belpaese. È grande quanto L’Aquila prima del terremoto, supera la popolazione di Teramo e Rovigo, ha il doppio d’abitanti rispetto a Enna, Aosta, Nuoro, Belluno, ma non dispone degli stessi chilometri quadrati. Vive in stanze dove si fanno i turni per dormire, talvolta in compagnia di qualche topo, talvolta sottoterra come a Favignana. È il paese dei galeotti: 63.460 residenti a giugno, 70 mila entro il prossimo dicembre, dato che le new entries sono mille al mese. Significa due volte e mezzo la popolazione carceraria del 1990, significa una cifra mai più raggiunta da quando Togliatti nel 1946 firmò la prima amnistia della Repubblica. Ma siccome la capienza dei nostri penitenziari (peraltro spesso fatiscenti) è di 43 mila posti, significa altresì che 20 mila detenuti sono in soprannumero, con un tasso d’affollamento che tocca il 160% in Lombardia, Friuli, Veneto, Sicilia, nonché il 193% in Emilia Romagna.
Questo trattamento da sardine in scatola pone in primo luogo una questione di decenza, perché è indecente trattare i carcerati peggio delle bestie, quando le sevizie agli animali sono punite dalla legge. Pone in secondo luogo una questione d’ordine, perché col caldo la situazione finirà per surriscaldarsi ulteriormente, mentre gli agenti penitenziari sono 5 mila meno dell’organico. Pone in terzo luogo una questione di legalità, che a propria volta si traduce nell’offesa a tre principi dichiarati dalla Carta. Primo: il «senso di umanità» cui deve corrispondere la pena. Secondo: la presunzione d’innocenza, che evidentemente non vale per quel 52% di detenuti in attesa d’una sentenza definitiva di condanna. Terzo: l’eguaglianza «senza distinzione di razza», dato che la carcerazione preventiva colpisce il 43% degli italiani, ma il 58% degli extracomunitari. D’altronde vorrà pur dire qualcosa se nelle ultime due settimane sia il Capo dello Stato, sia il presidente della Corte costituzionale hanno manifestato il loro allarme. E d’altronde perfino in California - dove le galere sono le più gonfie al mondo - nel febbraio scorso una Corte federale ha imposto a Schwarzenegger di liberare un terzo dei detenuti entro il prossimo triennio.

Sicché serve a ben poco baloccarsi con l’idea delle celle galleggianti, o fantasticare su un piano d’edilizia carceraria che aggiungerebbe 17 mila posti entro il 2012, come ha promesso il governo a inizio anno. Staremmo comunque sotto il necessario, e oltretutto fin qui ogni nuovo carcere ci ha messo non meno di 10 anni prima che gli operai togliessero il disturbo. Meglio, molto meglio, cancellare quel comma della legge Fini-Giovanardi sulle droghe che tiene dentro il 40% dei detenuti, perché non distingue fra consumo e spaccio. Meglio allargare le misure alternative al carcere, dato che nel 2008 la recidiva ha toccato soltanto lo 0,45% dei casi. Meglio infine smetterla con l’abuso dei delitti e delle pene. Anche perché, se diventiamo tutti criminali potenziali, il questurino o il giudice potrà mettere in galera chi gli sta meno simpatico. E infine l’ossessione della sicurezza avrà generato la più acuta insicurezza.
michele.ainis@uniroma3.it

da lastampa.it


Titolo: MICHELE AINIS. Se la forma diventa sostanza
Inserito da: Admin - Luglio 17, 2009, 05:08:20 pm
17/7/2009
 
Se la forma diventa sostanza
 
 
MICHELE AINIS
 
La promulgazione delle leggi è l’atto più rituale del nostro ordinamento. Nel caso della legge sulla sicurezza, Napolitano lo ha consumato nel modo più irrituale, accompagnandolo con una lettera carica di dubbi e di riserve. Da qui un diluvio di reazioni, dal plauso del presidente della Camera Fini al biasimo dell’ex presidente del Senato Pera. Ma da qui anche una doppia questione: di metodo e di merito, giuridica e politica. E almeno questa volta il metodo giuridico precede il merito politico, la forma condiziona la sostanza.

Cominciamo allora da una domanda in punta di diritto: esiste la promulgazione con riserva? No, non esiste. Se il Presidente ha qualche riserva sulla legge che dovrebbe promulgare, non ha che da rinviarla al Parlamento, imponendo un nuovo voto, e magari talune correzioni. In altri termini, la riserva presidenziale si traduce nel rinvio, e dunque nel rifiuto di promulgazione.

Infatti il rifiuto - a differenza del consenso - è sempre accompagnato da un messaggio motivato alle due Camere, come vuole l’articolo 74 della Costituzione. Significa perciò che nella circostanza Napolitano ha usato in modo distorto i suoi poteri? La risposta è un altro no, per almeno due specifiche ragioni.

In primo luogo, le regole costituzionali hanno uno stampo diverso da quelle del codice stradale. Nella fattispecie l’automobilista è la politica, sicché la regola deve riflettere l’elasticità della politica, per calzarle come un guanto. Non per nulla negli ultimi anni si contano vari precedenti di promulgazioni accompagnate da una lettera presidenziale al governo e al Parlamento. È successo durante il settennato Ciampi, è successo in altre tre occasioni durante questo settennato. Dunque la regola si è via via innervata d’una prassi che la rende meno rigida, meno perentoria. Come d’altronde è già accaduto in sorte all’altro garante delle nostre istituzioni, la Consulta. Dovrebbe pronunziare unicamente sentenze d’accoglimento o di rigetto delle questioni che le vengono sottoposte; ha forgiato viceversa un intero arsenale di strumenti processuali, dalle sentenze manipolative a quelle monitorie, che fanno salva la legittimità costituzionale delle leggi, ma aggiungono un monito al legislatore affinché rimedi ai propri errori. Come ha fatto, per l’appunto, il presidente.

In secondo luogo, rendere noti i propri dubbi, illustrare pubblicamente le ragioni del proprio operato, è sempre un elemento di trasparenza della vita democratica. Napolitano ci ha abituato già a questo costume intellettuale, per esempio quando ha spiegato ai giornalisti le sue scelte dopo la crisi del governo Prodi, all’atto di conferire un incarico a Marini. Un’altra prassi irrituale, ma non certo eversiva. Semmai è irrituale la confezione di leggi che si risolvono in altrettanti fritti misti, com’è il caso della legge sulla sicurezza. Tre soli articoli, ma un totale di 128 commi, che a loro volta modificano più di 200 disposizioni normative. Perle giuridiche, come una norma modificata da due distinte norme della legge di modifica. Sanzioni inapplicabili, che in nome della sicurezza generano maggiore insicurezza.

Ecco, è qui che la forma diventa un problema di sostanza. Napolitano lo ha pubblicamente denunciato, pur senza accendere il rosso del semaforo. E la sua denuncia è insieme giuridica e politica. Perché la cattiva forma delle leggi è sempre figlia della cattiva politica.

michele.ainis@uniroma3.it
 
da lastampa.it


Titolo: MICHELE AINIS. Democrazia zoppa d'Italia
Inserito da: Admin - Luglio 31, 2009, 11:41:55 pm
31/7/2009
 
Democrazia zoppa d'Italia
 

 
MICHELE AINIS
 
Ancora qualche giorno, poi il Parlamento andrà in vacanza. Ma in realtà le vacanze dei parlamentari durano dall’avvio della legislatura. Anzi: i nostri rappresentanti non sono in ferie, sono già in pensione. Pensionamento anticipato, come succede nelle aziende in crisi. Perché le due Camere hanno ormai una funzione puramente ornamentale. Non dettano più l’agenda del Paese, semmai la scrivono sotto dettatura. I dati sono fin troppo eloquenti. Per esempio quelli diffusi il mese scorso dall’Osservatorio civico sul Parlamento italiano. Su 4.016 proposte legislative depositate alla Camera e al Senato, soltanto 68 si sono trasformate in legge. Neanche poche, giacché fra i nostri guai c’è il gran numero di leggi e di leggine che abbiamo sul groppone. Ma il guaio maggiore dipende dalla circostanza che fra queste 68 leggi, 61 sono nate su iniziativa del governo: il 90%. Dunque l’officina del diritto ha traslocato, il suo nuovo indirizzo è a palazzo Chigi.

Per conseguenza i parlamentari della maggioranza sono i più assidui nelle votazioni (83% di presenze), quando c’è da mettere un timbro sugli ordini del Capo; diventano altrettanti desaparecidos se si tratta di prendere parola in aula, o d’imbastire a propria volta qualche iniziativa (il Pdl ha il più basso grado d’efficienza: 2,01 in una scala da 0 a 10). Ma in generale solo 24 onorevoli su un migliaio lavorano a pieno ritmo. Colpa loro? Forse. Ma sta di fatto che in Parlamento non c’è più lavoro. Perfino il sindacato ispettivo sul governo è via via sfumato come un ricordo dell’infanzia, se è vero che attualmente sono appena 2 le commissioni bicamerali d’inchiesta: quella sulla mafia e quella sui rifiuti. L’asservimento delle Camere al governo dipende da tre cause. Una originaria: la legge elettorale, che ha trasformato gli eletti in nominati, privandoli d’indipendenza e dignità. Due successive: l’abuso dei decreti legge e dei voti di fiducia. I primi sono ormai una quarantina in questo scorcio di legislatura, benché i costituenti ne avessero immaginato l’adozione soltanto dopo un terremoto. Quanto alle fiducie, fin qui ne abbiamo contate 23, per lo più imposte dall’esecutivo durante la conversione dei decreti, com’è appena accaduto sul decreto anticrisi. Una tenaglia perfetta, stretta alla gola delle assemblee parlamentari in nome dell’urgenza. Ma che cos’è la questione di fiducia? Uno strumento estraneo alla Costituzione, che però il governo sfodera come una sorta di ricatto: o fai come ti dico o tutti a casa. Sicché i parlamentari non votano più misure normative, bensì continue dichiarazioni d’amore verso la carovana dei ministri. Hai fiducia, mi vuoi bene? Dimmelo di nuovo, dimmelo una volta a settimana. Tutto questo sarebbe perfino ridicolo, se non fosse viceversa tragico. In primo luogo perché la smobilitazione delle Camere implica uno sfratto per l’opposizione, dato che quest’ultima ha casa proprio lì, non certo nelle stanze dell’esecutivo. Quando si chiede alle minoranze di collaborare, o almeno d’evitare grida e strepiti, bisognerebbe almeno dire dove si trovi la sede del confronto, quale edificio abbia rimpiazzato il Parlamento.

In secondo luogo perché il nuovo andazzo nega l’attributo basilare delle democrazie: il principio di pubblicità. Le discussioni parlamentari sono per definizione pubbliche, ma chi mai viene a sapere quale mano ha scritto il decreto del governo o il maxiemendamento? E chi potrà appurare di quali occulte trattative siano figli questi testi? In terzo luogo - e soprattutto - perché l’eclissi delle Camere ci restituisce un sistema sbilanciato, dove il potere non ha contropoteri, dove la separazione cara al vecchio Montesquieu gira in subordinazione, in accentramento verticale del comando. No, non c’è da rallegrarsi del nuovo abito che indossano le nostre istituzioni. In quest’ultimo anno è andata in crisi la democrazia rappresentativa, ma altresì quella diretta, dopo il fiasco del referendum elettorale, con un misero 23 per cento di votanti. Significa che la democrazia italiana è zoppa di ambedue le gambe. O chiamiamo di corsa un ortopedico, o altrimenti dovremo rassegnarci alla sedia a rotelle.
michele.ainis@uniroma3.it
 
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Titolo: MICHELE AINIS. Se l'obiezione diventa malattia
Inserito da: Admin - Agosto 11, 2009, 11:24:07 am
11/8/2009
 
Se l'obiezione diventa malattia
 
MICHELE AINIS
 
C’è un’infezione che giorno dopo giorno fiacca il nostro organismo collettivo. E c’è anche un untore, ci sono una mano e un disegno all’origine di questa malattia. La malattia a sua volta può ben essere letale, perché s’esprime nella disobbedienza alla legge, allo Stato, agli istituti della democrazia. Sia pure in nome di nobili principi, così come era nobile la causa di Antigone, murata viva in una grotta da Creonte per essersi ribellata alla giustizia umana, obbedendo alla legge non scritta che alberga nelle coscienze individuali. Obiezione di coscienza, ecco infatti come noi moderni designiamo tale atteggiamento. Ma negli ultimi mesi le obiezioni si moltiplicano, si alimentano l’una con l’altra, con la benedizione dell’oracolo più autorevole e potente: il Vaticano.

Il caso della pillola abortiva - che ha innescato un appello del cardinal Bagnasco ai medici italiani per sabotarne la somministrazione - non è che l’ultimo in ordine di tempo. E d’altronde lo stesso Bagnasco aveva auspicato a più riprese che cresca l’obiezione di coscienza alla legge 194 sull’aborto, anche se abbiamo ormai raschiato il fondo del barile: 70% di ginecologi obiettori nel 2007 (erano il 58% nel 2005). Nel frattempo un centinaio di religiosi (fra i quali l’ex direttore della Caritas) invitano alla disobbedienza contro il reato d’immigrazione clandestina. Domani sarà la volta del testamento biologico, se le nuove norme suoneranno troppo permissive alle gerarchie ecclesiastiche. A meno che la futura legge non preveda espressamente la clausola di coscienza, come è già accaduto nel 1978 per la regolamentazione dell’aborto e nel 2004 per la fecondazione assistita. Tanto ormai l’obiezione sta diventando un fenomeno di massa, sicché il Vaticano fa proseliti pure in campo avverso: il ginecologo radicale Silvio Viale ha appena annunciato un’«obiezione laica» contro le regole che imporrebbero tre giorni di ricovero coatto per assumere la Ru486. Un caso fra i tanti, al pari del farmacista di Fiumicino che il mese scorso ha rifiutato di vendere la pillola del giorno dopo, o al pari delle scuole genovesi che hanno dichiarato obiezione di coscienza contro l’obbligo di denunciare i clandestini.

Naturalmente può ben darsi che una legge sfidi le nostre convinzioni più profonde. In quest’ipotesi è lecito sfidarla a propria volta, o forse è doveroso. Se la legge m’impone di giustiziare ogni ebreo che incontro per strada devo oppormi, anche a costo della vita, come Antigone. Ma cosa rischia il ginecologo che nega assistenza a una coppia sterile o a una donna che ha deciso dolorosamente d’abortire? E dov’è l’evento eccezionale quando l’obiezione di coscienza s’applica alle occasioni più svariate? Dov’è il sentimento individuale se la medesima reazione viene sapientemente organizzata o incoraggiata da un’istituzione terza, che plasma le coscienze dall’alto del Cupolone? Poi, certo, il Vaticano avrà le sue ragioni. Ragioni forti, se durante l’incontro fra Obama e Benedetto XVI quest’ultimo ha chiesto garanzie proprio sull’obiezione di coscienza, definendola «la grande sfida» che attende ogni nazione. Noi però, su quest’altra sponda del Tevere, vediamo soprattutto una sfida allo Stato, alla sua residua autorità. Vediamo il rischio di un’anarchia di massa, in cui ciascuno fa un po’ come gli pare. Tanto una coscienza, buona o cattiva, ce l’abbiamo tutti. Sicché di questo passo dovremo forgiare tante leggi per quante sono le coscienze.

michele.ainis@uniroma3.it
 
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Titolo: MICHELE AINIS. Se si rovescia la grammatica della politica
Inserito da: Admin - Settembre 03, 2009, 05:21:31 pm
3/9/2009

Se si rovescia la grammatica della politica
   
MICHELE AINIS


Passi quando i politici si querelano a vicenda. Negli ultimi tempi è successo per esempio tra Vendola e Gasparri, così come succede a giorni alterni tra Di Pietro e Berlusconi, ora perché il primo accusa il secondo di riempirsi le tasche attraverso gli accordi commerciali con la Libia, ora perché il secondo accusa il primo d’aver scroccato la laurea grazie all’aiuto dei servizi segreti.

In tutti questi casi la querela non è che uno strepito di carte bollate, è un urlo scritto, nemmeno il più assordante nel gran baccanale cui ci ha reso avvezzi la politica. E oltretutto si risolve quasi sempre in una bolla di sapone, tanto parlamentari e consiglieri regionali sono insindacabili per le opinioni espresse, come peraltro sanno fin troppo bene gli stessi interessati.

Ma quando il politico di turno cita in giudizio un organo di stampa, allora no: qui s’apre un fronte di tutt’altro genere. È il fronte su cui si è acquartierato il presidente del Consiglio, sparando le sue cartucce giudiziarie contro Repubblica, El País, Nouvel Observateur, infine l’Unità. Sia detto per chiarezza: Berlusconi non è il primo, e di questi tempi non è neppure il solo. Nel marzo 2008 un altro presidente del Consiglio - Romano Prodi - querelò Il Giornale per diffamazione. Nell’ottobre 1999 Massimo D’Alema - anche lui in quell’epoca al timone del governo - chiese 3 miliardi di lire a Forattini per una vignetta troppo aspra. Marco Travaglio ha incassato querele dal medesimo D’Alema, oltre che da Schifani e vari altri. Ma la querela viaggia ormai sulle rotte periferiche, oltre che su quelle nazionali.


Esposti alla critica, ma pure all’invettiva
Durante l’ultima campagna elettorale per il sindaco di Firenze, il futuro vincitore - Matteo Renzi - l’ha brandita contro due giornalisti dell’Espresso. Il sindaco della Spezia ha appena querelato un giornalista e l’ex direttore del Giornale. Quello di Parma ha sporto denunzia contro tre giovani che lo sbeffeggiavano su Facebook. E via via, l’elenco potrebbe continuare per un libro intero.

Si dirà: forse che i politici non hanno diritto a tutelare la propria onorabilità ferita? Certo che sì, anche se spesso ne inalberano una concezione un po’ eccessiva, un po’ troppo narcisa. Dimenticando per un verso che il loro ruolo pubblico li espone alla critica ma talvolta pure all’invettiva; e d’altronde se un arbitro di calcio dovesse denunziare tutti coloro che gli gridano insulti dagli spalti, non basterebbero le patrie galere. Dimenticando per un altro verso che la reazione giudiziaria contro la carta stampata suona sempre come un’intimidazione, come un altolà dei governanti ai governati, se è vero che la stampa è il cane da guardia della pubblica opinione. Tanto più quando l’istanza di risarcimento colpisce non solo chi rappresenta una testata, bensì singoli giornalisti, scrittori, opinionisti: precisamente come ha fatto Berlusconi verso l’Unità, nomi e cognomi da infilzare in uno spiedo giudiziario.


Un effetto paradossale
E c’è infine, a mo’ di corollario in questa e altre vicende, un effetto paradossale che forse gli stessi protagonisti eviterebbero, se almeno ci riflettessero un po’ sopra. Perché sta di fatto che la politica è potere, ma lo è pure l’informazione, il Quarto potere cui Orson Welles dedicò il suo film più memorabile. Se le loro baruffe sbucano in un’aula di giustizia, significa che volenti o nolenti questi due poteri s’assoggettano al potere giudiziario, ne accettano il primato. Sarà pertanto un giudice a stabilire chi ha torto e chi ha ragione.

Ma qual è mai l’oggetto del contendere? Non il rispetto d’un contratto, non l’imputazione di un crimine violento, non un fatto certo e inoppugnabile. Si tratta di parole, o meglio del tono con cui risuonano le polemiche politiche, del loro timbro generale. Dopotutto è la grammatica del nostro discorso collettivo che così finisce in tribunale, e il tribunale giudica in conclusione sul vocabolario che gli italiani dovranno recitare in pubblico. Sarebbe meglio rivolgersi all’Accademia della Crusca.

michele.ainis@uniroma3.it
da lastampa.it


Titolo: MICHELE AINIS. Inutili toni apocalittici
Inserito da: Admin - Settembre 17, 2009, 05:06:47 pm
17/9/2009

Inutili toni apocalittici
   
MICHELE AINIS


Diciamolo, per una volta, a voce bassa: la sentenza sul lodo Alfano non è affatto un’ordalia, un giudizio di Dio.

La Consulta la dovrà scrivere da qui a un paio di settimane. È soltanto una fra le centinaia di pronunzie che i quindici giudici costituzionali adottano ogni anno (furono 449 nel 2008, quest'anno siamo già a quota 258). Certo, si tratterà di una sentenza sovraccarica d'effetti politici, ma dopotutto nel giudizio sulle leggi l'imputata è sempre la politica, dal momento che la legge costituisce la forma in cui s'esprime la decisione politica. E allora sarebbe molto meglio moderare i toni, recuperare un clima di normalità costituzionale. A cominciare dai diretti interessati.

Speranza vana, se dobbiamo prendere alla lettera un paio di brani apocalittici che figurano nella memoria depositata dall'Avvocatura dello Stato. Vi si legge che in caso di bocciatura subiremmo danni «irreparabili» nel buon funzionamento degli organi elettivi. Si profila addirittura il rischio che il Premier si dimetta. S'evoca il fantasma di Giovanni Leone, che lasciò anzitempo il Quirinale dopo le polemiche sullo scandalo Lockheed. E in conclusione si decanta la specifica virtù del lodo Alfano: un ombrello contro i temporali giudiziari che altrimenti interromperebbero ogni legislatura, dato che «la sola minaccia di un procedimento penale può costringere alle dimissioni».

Ora, a parte il fatto che Leone si dimise per una campagna giornalistica e non per un rinvio a giudizio, a parte il fatto che il presidente Berlusconi ha la scorza dura (in caso contrario si sarebbe già dimesso, trovandosi imputato in vari processi prima che il lodo Alfano diventasse legge), a parte il fatto che con questa logica perversa i giudici non dovrebbero neppure aprire indagini su quanti ci governano, insomma a parte tutto rimane in sospeso una domanda: è normale una difesa così, a spada sguainata? No, non è normale.

Intanto, l'Avvocatura rappresenta il governo dinanzi alla Consulta, ma già Calamandrei osservava che i governi farebbero meglio a non costituirsi, rimettendosi al giudizio della Corte. In secondo luogo, non è detto che l'esecutivo (e perciò l'Avvocatura) debba per forza sostenere la legittimità dell'atto normativo sindacato: di solito succede, ma in qualche caso (sentenze n. 63 del 1966, n. 305 del 1995, n. 233 del 1996 e via elencando) succede anche il contrario. In terzo luogo, l'argomento delle dimissioni innescate da un'inchiesta giudiziaria è un argomento politico, non tecnico; dipende da una scelta discrezionale rispetto alla quale il diritto resta muto, ed è invece sul filo del diritto che corre il sindacato di costituzionalità. No, non c'è bisogno di politicizzare ulteriormente questa decisione, non c'è bisogno d'alzare la posta scaricando sulla Corte la sopravvivenza stessa della legislatura. Meglio tornare ai codici, alle norme, ai precedenti giurisprudenziali. Sarà forse più noioso, ma alla fine della giostra avremo meno danni.

michele.ainis@uniroma3.it
da lastampa.it


Titolo: MICHELE AINIS. Calabria, legge ad personam e contra personas
Inserito da: Admin - Settembre 22, 2009, 11:00:27 am
22/9/2009

Calabria, legge ad personam e contra personas
   
MICHELE AINIS


Sarà pur vero che le leggi personali le ha inventate Berlusconi. Ma c’è chi, a sinistra, ne cavalca l’esempio. Di più: riesce a fondere in un solo atto normativo una legge ad personam e contra personas, oltre che contro le regole più elementari dello Stato di diritto.
Per raccontare questa storia, bisogna immergere lo sguardo nei palazzi del potere calabrese, facendo correre all’indietro l’orologio, fino alla data del 2001. Mentre il mondo inorridisce dopo l’attentato alle Twin Towers, la Calabria approva una legge (n. 25 del 29 ottobre 2001) per assumere i portaborse alle dipendenze del Consiglio regionale, attraverso un concorso «riservato». Qualcuno nei giornali mena scandalo, ma dopotutto la stessa sanatoria si ripete in molte altre regioni. Sicché il concorso viene espletato l’anno successivo, 132 portaborse sono dichiarati idonei, ma solo 85 ottengono in premio l’assunzione. E gli altri? Non c’è più posto, la pianta organica è al completo. Però gli esclusi hanno diritto, in base alla normativa statale e regionale, allo scorrimento della graduatoria, se e quando il Consiglio regionale procederà a nuovi reclutamenti. Gioca qui infatti un principio di economia amministrativa: perché mai armare un altro bastimento concorsuale quando la figura professionale che ti serve ce l’hai già, certificata dalla vecchia commissione di concorso?

Due anni dopo, nuovo concorso
Invece nel 2004 la regione indice una nuova procedura concorsuale: 170 posti. Evidentemente in un paio d’anni si era aperta una voragine in quell’organico zeppo come un uovo. Fanno domanda 48.983 persone, la popolazione d’una cittadina di provincia. E infatti il concorso non si è ancora concluso, benché la Calabria ne abbia affidato la gestione a una società esterna, per risparmiare tempo, non certo per risparmiar denaro. Domanda: ma non era meglio assumere gli idonei del 2002? Sulla carta sì, ma c’è portaborse e portaborse. C’è il parente stretto d’un consigliere regionale, c’è il funzionario di partito, il cui profilo corrisponde quasi sempre agli 85 fortunati vincitori; ma c’è anche il portaborse senza troppi santi in Paradiso, oppure disgraziato, nel senso che è caduto in disgrazia nel frattempo. Tuttavia i disgraziati non s’arrendono: vanno in giudizio, e il tribunale di Catanzaro in 29 casi riconosce il loro diritto all’assunzione. Con quali conseguenze? Un danno erariale di 3 milioni e mezzo di euro, non proprio una bazzecola.
Ecco, è a questo punto della storia che entra in scena Sua Maestà la Legge. Se ne rende anfitrione il presidente del Consiglio regionale, Giuseppe Bova, ex diessino adesso in prima fila nel Partito democratico, nonché titolare d’una pagina su Wikipedia non troppo lusinghiera, per una pioggia di polemiche con il movimento antimafia calabrese e per una condanna della Corte dei conti (penne Montblanc in regalo ai consiglieri). Il rimedio? Una legge retroattiva, che cancelli oggi per allora il diritto allo scorrimento della graduatoria.

La certezza del diritto
Alla faccia degli illuministi, che a suo tempo ne vietarono l’uso perché altrimenti se ne va in fumo la certezza del diritto. E alla faccia della pubblica decenza, dato che la legge in questione (n. 27 del 2009) viene costruita nottetempo e in pieno agosto, come si fa con gli abusi edilizi. Senza uno straccio di relazione illustrativa che dia qualche informazione ai pochi consiglieri in aula. Senza neppure un passaggio in commissione, benché lo statuto della Calabria (art. 29) lo renda obbligatorio. Per intendersi: come se improvvisamente il presidente Fini tirasse fuori un foglietto dalla tasca, chiedendo ai deputati di trasformarlo in legge.
Per la verità, in quella notte del 6 agosto, un consigliere (Demetrio Battaglia) osserva che nessuna assemblea legislativa può cambiare in corso d’opera le regole del gioco. Ma il presidente Bova gli risponde secco: «Per strada, qualcuno che non è il legislatore ha forzato il legislatore». Questo qualcuno è il giudice, che evidentemente a Catanzaro vive sulla strada. Poi c’è qualcuno che doveva cautelarsi dal danno erariale (da qui la legge ad personam). E qualcun altro - i 29 disgraziati - che non doveva prendere servizio (da qui la legge contra personas). Ma dopotutto questa vicenda ci consegna una nota positiva: almeno in Calabria, non è vero che le leggi si disinteressano dei destini personali.

michele.ainis@uniroma3.it
da lastampa.it


Titolo: MICHELE AINIS. La differenza tra eguali e diseguali
Inserito da: Admin - Ottobre 06, 2009, 05:09:29 pm
6/10/2009

La differenza tra eguali e diseguali
   
MICHELE AINIS


Oggi la Consulta inforca un paio d’occhiali per esaminare il Lodo Alfano. In una Repubblica ideale questo giudizio si consumerebbe nel silenzio degli astanti.

Nella nostra Repubblica reale è accompagnato viceversa da boatos, dichiarazioni sempre un po’ sopra le righe, sit-in di protesta preventiva, addirittura la minaccia d’elezioni anticipate. Sicché spegniamo l’audio, e proviamo a raccontare i termini giuridici su cui è chiamata a esprimersi la prossima decisione di legittimità costituzionale.

L’oggetto, innanzitutto: e dunque il Lodo. Figlio a sua volta del Lodo Schifani (legge n. 140 del 2003), che circondava di una speciale immunità le cinque più alte cariche dello Stato, e che fu poi decapitato dalla mannaia della Consulta (sentenza n. 24 del 2004). Tornando nella stanza dei bottoni, il centrodestra l’ha riapprovato in una nuova edizione (legge n. 124 del 2008), escludendo dal beneficio il presidente della Corte costituzionale, dichiarando il beneficio stesso rinunziabile a domanda dell’interessato, infine ponendo un limite di tempo alla sua fruizione. Ne rimane tuttavia invariata la sostanza: ovvero la sospensione di ogni processo sui reati comuni del Premier, del Capo dello Stato, dei presidenti di Camera e Senato. E si conserva perciò inalterata la domanda: è giusto o no che quattro eccellentissimi signori siano sottratti alle regole che valgono per tutti i cittadini?

Dietro le quinte del giudizio di legittimità costituzionale c’è dunque una questione d’eguaglianza. Sarà per questo che il Lodo Alfano ha subito innescato odi e furori, riattizzando i malumori del popolo italiano per i privilegi della Casta. Sennonché – diceva Aristotele – si danno due specie di eguaglianza: c’è un’eguaglianza «aritmetica» (la stessa cosa a tutti) e ce n’è una «proporzionale» (la stessa cosa agli stessi). E infatti la nostra Carta fa spazio a entrambe le categorie: alla prima quando afferma che tutti sono eguali al cospetto della legge (art. 3), alla seconda quando aumenta il prelievo fiscale per i ricchi, rendendo la tassazione progressiva (art. 53).

Quale eguaglianza riflette il Lodo Alfano? Indubbiamente la seconda; si tratta però di stabilire se è ragionevole isolare una categoria di diseguali (le alte cariche istituzionali) rispetto al consorzio degli eguali. In altre parole: chi sono «gli stessi» di cui parlò Aristotele? Stando alla sentenza che a suo tempo la Consulta pronunziò sul Lodo Schifani, la risposta è perentoria: sono l’intero plotone dei ministri, sono la squadra di mille deputati e senatori che s’esibisce in Parlamento. Disse la Corte: il lodo viola il principio d’eguaglianza perché «distingue, per la prima volta sotto il profilo della parità riguardo ai principi fondamentali della giurisdizione, i presidenti delle Camere, del Consiglio dei ministri e della Corte Costituzionale rispetto agli altri componenti degli organi da loro presieduti». Insomma Berlusconi non è Obama: nel nostro ordinamento chi guida l’esecutivo è solo un primus inter pares, non c’è ragione di forgiargli una corazza più robusta di quella che indossano i ministri.

Se adesso la Consulta confermerà la sua precedente decisione, vorrà dire che il principio d’eguaglianza in Italia rimane obbligatorio quantomeno fra i membri della Casta. In questo caso possiamo ipotizzare due scenari. Primo: il lodo per i presidenti, e non per i peones, potrà adottarsi ancora (d’altronde non c’è due senza tre) nella forma della legge costituzionale. Significa che verrebbe esposto all’alea di un referendum prima d’entrare in vigore, con tutti i rischi politici del caso. Secondo: si riscrive il Lodo e lo si estende anche ai peones. In questo caso la legge ordinaria sarebbe sufficiente; chissà se basteranno invece i pomodori.

michele.ainis@uniroma3.it
da lastampa.it


Titolo: MICHELE AINIS. Lezione alla politica
Inserito da: Admin - Ottobre 08, 2009, 11:45:04 am
8/10/2009

Lezione alla politica
   
MICHELE AINIS


Lì alla Consulta avranno bisogno di un ombrello. Sentenza politica, ha subito osservato il sottosegretario Bonaiuti. La Corte è ormai al tramonto, non è più un organo di garanzia, risponde a logiche partitiche anziché costituzionali, ha aggiunto di rincalzo il costituzionalista Gasparri. E intanto Bossi, tanto per sedare gli animi, evoca i rumori della piazza. Prima d’avventurarsi in un commento a caldo su questa calda decisione, sarà bene perciò mettere nero su bianco due premesse.

Uno: ogni sentenza di costituzionalità ha carattere politico. Lo capirebbe anche un bambino, dato che le pronunzie costituzionali hanno sempre una legge per oggetto, e dato inoltre che la legge rappresenta il veicolo della decisione politica. Due: non è la piazza a decidere i principi che regolano la nostra convivenza. Se lo Stato di diritto s’affida a un corpo di custodi, è perché la piazza a suo tempo mandò a morte Gesù per salvare Barabba, perché la stessa piazza durante il secolo ventesimo acclamò feroci dittatori, perché insomma le Costituzioni liberali presidiano un sistema di valori, e li sottraggono al dominio delle folle.

Meglio posare l’occhio, dunque, sulle ragioni giuridiche di questa decisione. E sia pure con qualche approssimazione, dato che fin qui ne abbiamo in mano l’osso, non la polpa. Difatti in ogni sentenza - e specialmente in una sentenza di legittimità costituzionale - è la motivazione che illustra gli argomenti di cui si nutre poi il dispositivo. È la motivazione, quindi, il metro di misura che ci consente d’esprimere un giudizio ponderato, una critica, un plauso a mani aperte. Noi però non la conosciamo, perché non è ancora stata scritta. Conosciamo un comunicato di tre righe, che ci informa sull’invalidità del lodo Alfano per contrasto con gli articoli 3 e 138 della Costituzione. Il primo enunzia il principio d’eguaglianza; il secondo detta il procedimento di revisione costituzionale. Che significa questo doppio richiamo?
Significa anzitutto che la Consulta ha respinto soluzioni pasticciate, che molti davano per certe nei corridoi dei palazzi romani.

Dalla prima all’ultima parola
No, il lodo è illegittimo dalla prima all’ultima parola, non c’è spazio per interventi di restauro. Ed è illegittimo non tanto per ciò che dice, bensì per come lo dice. Non perché elargisce una speciale immunità alle maggiori cariche istituzionali del Paese, bensì perché confeziona il dono in una legge ordinaria, anziché in una legge costituzionale. Tale massima si poteva già vedere in controluce nel più diretto antecedente della pronunzia sul lodo Alfano, ovvero la sentenza n. 24 del 2004. Ma averla posta a fondamento di quest’ultima decisione ha un valore straordinario, e per almeno due ragioni.
In primo luogo, perché riafferma il primato del principio d’eguaglianza sulle volubili scelte del legislatore. Le immunità della politica infliggono altrettante deroghe all’eguaglianza di tutti i cittadini, ma la deroga è ammissibile purché sancita dalla Costituzione stessa o da una fonte normativa equipollente. Vale per i parlamentari (art. 68), per i consiglieri regionali (art. 122), per il governo (art. 96), per il Capo dello Stato (art. 90). Solo il procedimento di revisione costituzionale può introdurre un limite alla parità fra i consociati: può farlo perché è un procedimento che coinvolge anche le opposizioni, e perché quando si modificano le regole del gioco devono essere d’accordo tutti i giocatori.

L’insegnamento di Hans Kelsen
Non la sola maggioranza, dunque; o altrimenti non senza interrogare gli elettori attraverso un referendum, come stabilisce per l’appunto l’art. 138 della Carta. Risuona qui, del resto, l’insegnamento di Hans Kelsen, il più grande giurista del Novecento: ogni vizio materiale della legge (derivante dal suo contenuto) è in realtà un vizio formale, dipende dalla scelta della legge ordinaria anziché costituzionale.
E c’è poi una seconda ragione, forse ancora più importante della prima. Gli avvocati del presidente Berlusconi avevano puntato tutte le fiches sull’espansione del suo ruolo in questo torno d’anni: un primus super pares, secondo l’immaginifica espressione di Pecorella. Se dunque nella Costituzione materiale ormai abita un Premier, la Costituzione scritta è diventata carta straccia. E se il Premier ha tutt’altro spessore rispetto ai vecchi presidenti del Consiglio, serve un’immunità tagliata su misura.

Ma che cos’è la Costituzione materiale? Una nuvola che cambia forma a ogni soffio di vento, un fantasma che nessuno può toccare con le dita. Rigettando quest’impostazione, la Consulta ha altresì affermato la supremazia della Costituzione scritta, della legge scolpita su tavole di bronzo. E ha infine impartito una lezione - questa sì, non scritta - alla politica: rispettate la Costituzione, o altrimenti correggetela nelle dovute forme.

michele.ainis@uniroma3.it
da lastampa.it


Titolo: MICHELE AINIS. La Consulta arsenico e coltelli
Inserito da: Admin - Ottobre 13, 2009, 09:33:45 am
13/10/2009

La Consulta arsenico e coltelli
   
MICHELE AINIS


Potremmo farne una questione di bon ton, di buona creanza nei rapporti tra le massime istituzioni del Paese. Dopotutto se una sentenza sfavorevole diventa l’occasione per urlare a squarciagola contro il Quirinale e la Consulta, per revocarne in dubbio la «lealtà», finiremo per scassare quel poco che resta del nostro Stato di diritto. E dopotutto se il confronto tra i poteri degenera in una rissa permanente, non c’è poi affatto da stupirsi quando la stessa intolleranza si propaga dalla società politica alla società civile, quando una donna, un nero o un gay vengono picchiati per la strada, come succede a giorni alterni. Ma questa vicenda d’arsenico e coltelli non offende unicamente il senso civico. No, reca un affronto alla logica, più che ai due garanti del nostro ordinamento. E infatti nei loro riguardi la doppia accusa di slealtà suona doppiamente strampalata.

Il Presidente, innanzitutto. Sarebbe in mala fede perché, lui comunista, non si è impegnato a convincere quegli altri comunisti che hanno banco alla Consulta. Ma a suo tempo Napolitano ha promulgato il lodo Alfano, senza esercitare il potere di rinvio alle Camere, senza neppure manifestare una riserva, anzi rendendo esplicite le ragioni del consenso; se davvero la sentenza costituzionale metteva in gioco la sua autorevolezza, il Presidente avrebbe avuto tutto l’interesse a un disco verde. Più che sleale, dovremmo definirlo un po’ sdentato, senza denti per mordere le altre istituzioni.

Ma non è così, o altrimenti è così per tutti i presidenti. Sta di fatto che ogni sentenza d’incostituzionalità demolisce una legge già in vigore, e perciò già promulgata dal Capo dello Stato: se le due decisioni fossero sempre consonanti, o nessuna legge entrerebbe mai in vigore, oppure nessuna legge verrebbe mai annullata. D’altronde su questa falsariga potremmo continuare all’infinito: è sleale il giudice di primo grado quando la sua pronunzia viene rovesciata dal giudice d’appello, è sleale la commissione Affari costituzionali quando reputa legittima una legge che il presidente rifiuta poi di promulgare, è sleale il Parlamento quando cambia 55 articoli della Costituzione (è accaduto nel 2005), e con un referendum il corpo elettorale successivamente getta la riforma nel cestino dei rifiuti. O forse è sleale la nostra stessa Carta, giacché prevede molteplici istanze di controllo, ciascuna con il suo spazio e il suo specifico raggio d’escursione.

E c’è poi la Consulta, l’imputata principale. Davvero mise fuori strada il Parlamento, quando nel 2004 bocciò il lodo Schifani senza accennare all’esigenza di proteggerlo con legge costituzionale? La risposta è un triplo no. In primo luogo perché la Corte Costituzionale non pontifica sull’universo mondo, bensì risponde a quesiti puntuali e circoscritti; e cinque anni fa l’art. 138 - che detta il procedimento di revisione costituzionale - rimase fuori dalla porta per una scelta dei giudici che avevano sollevato la questione (sentenza n. 24 del 2004, punto 1 della motivazione in diritto). In secondo luogo perché, ciò nonostante, a leggere tra le righe quella prima decisione poteva già desumersi la necessità di una legge costituzionale; tanto che molti commentatori se ne accorsero, basta sfogliare le riviste giuridiche dell’epoca. In terzo luogo per una chiara affermazione della Corte: il lodo Schifani - disse - viola il principio d’eguaglianza e il diritto di difesa processuale, dopo di che «resta assorbito ogni altro profilo di illegittimità costituzionale» (punto 8 della motivazione). Assorbito, non escluso.

Insomma nessuna retromarcia, nessuna inversione giurisprudenziale. Domanda: e se anche fosse? Negli Usa la Corte suprema avallò la segregazione razziale per decenni: classi differenziate nelle scuole, tavoli separati al ristorante, orari diversi per montare su un mezzo di trasporto pubblico. Poi nel 1954, con la celebre sentenza Brown, aprì finalmente ai neri il condominio riservato ai bianchi; mezzo secolo più tardi Obama è presidente. Anche la Corte italiana, nel 1961, giudicò legittima la punizione del solo adulterio femminile; ma nel 1968 ci liberò da questa odiosa discriminazione. Evidentemente qualche volta la slealtà è la madre del progresso.

michele.ainis@uniroma3.it
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Titolo: MICHELE AINIS. Le certezze garantite dalla corte
Inserito da: Admin - Ottobre 21, 2009, 02:38:24 pm
21/10/2009

Le certezze garantite dalla corte
   
MICHELE AINIS


Il lodo Alfano è ormai consegnato agli archivi del diritto, come la sentenza costituzionale che ne ha decretato i funerali. Ma a leggere le 34 pagine di questa decisione, c’è un punto su cui la Consulta batte come un chiodo: la regola formale s’impone su quella sostanziale, la norma scritta è più potente di quella applicata nel nostro vissuto quotidiano. Così, il presidente del Consiglio resta un primus inter pares, benché le leggi elettorali lo abbiano trasformato in un sovrano. Così, le immunità della politica sono esclusivamente quelle scolpite sulla Carta, benché la politica a sua volta ne estenda sempre più il perimetro per proteggersi dalle incursioni giudiziarie. Così, più in generale, le garanzie costituzionali rimangono intangibili per la maggioranza di governo, benché la maggioranza vi contrapponga il consenso del popolo sovrano.

Potremmo salutarla come una buona novella, una parola chiara nel buio delle Gazzette ufficiali. Non è così, o forse è così soltanto in questo caso. Perché la stessa Corte, pur sancendo il primato della regola scritta, ha dovuto ammettere al contempo l’esistenza della regola non scritta. Perché questo doppio registro normativo innesca una perenne fonte di tensione, oltre che d’incertezza circa la soglia fra il lecito e l’illecito. E perché infine l’incertezza non tocca unicamente gli equilibri tra i poteri dello Stato. Non si limita ad opporre legittimità a legittimità, di qua il governo, di là i custodi del governo. No, ci riguarda tutti, avvolge la nostra esperienza come un guanto.

Le prove? Alzi la mano chi non ha mai incontrato un medico, un avvocato, un artigiano che alla fine della giostra non gli abbia sottoposto la scelta fra due prezzi: uno con fattura, uno (più basso) senza. Chi non si è mai messo in coda davanti a uno sportello sentendosi poi dire che in quell’ufficio la procedura era diversa rispetto all’ufficio dirimpetto. Chi non è mai inciampato su normative schizofreniche viaggiando su e giù lungo la Penisola. Chi non ha un conoscente assunto per chiamata diretta, quando la regola costituzionale imporrebbe la prova del concorso. Chi non ha mai partecipato a una riunione fra condomini dove l’uno oppone all’altro una diversa regola legale, ambedue vigenti, ambedue infine scalzate da una terza regola forgiata dalla prassi.

Da qui un fattore d’inflazione normativa, perché la norma non scritta si somma a quella scritta, ne fa le veci in particolari circostanze, a seconda degli umori individuali. Ma da qui - per paradosso - anche un vuoto normativo, perché in altre circostanze le due norme s’elidono a vicenda. D’altronde è paradossale pure la condizione dei cittadini che in buona fede vorrebbero obbedire ai precetti del diritto, e che loro malgrado rischiano invece di violarlo. Come quel bambino cui mamma e papà, per il suo compleanno, regalano due paia di scarpe nuove. Lui indossa le scarpe comprate dalla mamma, e subito dopo patisce il rimbrotto del papà: «Non ti farò mai più un regalo, dato che non hai messo le mie scarpe». Ecco, noi tutti abbiamo solo un paio di piedi. Se la disapplicazione della legge, ovvero la sua distorta applicazione, diventa essa stessa legge vincolante, se insomma genera un altro paio di scarpe normative, nel dubbio finiremo per camminare a piedi nudi. Senza scarpe, senza regole per il nostro viaggio.

michele.ainis@uniroma3.it
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Titolo: MICHELE AINIS. Nessuna legge lo prevede
Inserito da: Admin - Novembre 04, 2009, 11:29:53 am
4/11/2009

Nessuna legge lo prevede
   
MICHELE AINIS

Doveva arrivare un giudice d’Oltralpe per liberarci da un equivoco che ci portiamo addosso da settant’anni e passa. In una decisione che s’articola lungo 70 punti (non proprio uno scarabocchio scritto in fretta e furia) ieri la Corte di Strasburgo ha messo nero su bianco un elenco di ovvietà.

Primo: il crocifisso è un simbolo religioso, non politico o sportivo. Secondo: questo simbolo identifica una precisa religione, una soltanto. Terzo: dunque la sua esposizione obbligatoria nelle scuole fa violenza a chi coltiva una diversa fede, o altrimenti a chi non ne ha nessuna. Quarto: la supremazia di una confessione religiosa sulle altre offende a propria volta la libertà di religione, nonché il principio di laicità delle istituzioni pubbliche che ne rappresenta il più immediato corollario.

Significa che fin qui ci siamo messi sotto i tacchi una libertà fondamentale, quella conservata per l’appunto nell’art. 9 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo? Non sarebbe, purtroppo, il primo caso. Ma si può subito osservare che nessuna legge della Repubblica italiana impone il crocifisso nelle scuole.

Né, d’altronde, nei tribunali, negli ospedali, nei seggi elettorali, nei vari uffici pubblici. Quest’obbligo si conserva viceversa in regolamenti e circolari risalenti agli Anni Venti, quando l’Italia vestiva la camicia nera. Fu introdotto insomma dal Regime, ed è sopravvissuto al crollo del Regime. Non è, neppure questo, un caso solitario: basta pensare ai reati di vilipendio, agli ordini professionali, alle molte scorie normative del fascismo che impreziosiscono tutt’oggi il nostro ordinamento. Ma quantomeno in relazione al crocifisso, la scelta normativa del Regime deve considerarsi in sintonia con la Costituzione all’epoca vigente. E infatti lo Statuto albertino, fin dal suo primo articolo, dichiarava che «la religione cattolica, apostolica e romana è la sola religione dello Stato». Da qui figli e figliastri, come sempre succede quando lo Stato indossa una tonaca in luogo degli abiti civili.

Ma adesso no, non è più questa la nostra divisa collettiva. L’art. 8 della Carta stabilisce l’eguale libertà delle confessioni religiose, e stabilisce dunque la laicità del nostro Stato. Curioso che debba ricordarcelo un giudice straniero. Domanda: ma l’art. 7 non cita a sua volta il Concordato? Certo, e infatti la Chiesa ha diritto a un’intesa normativa con lo Stato italiano, a differenza di altre religioni (come quella musulmana) che ancora ne risultano sprovviste. Però senza privilegi, neanche in nome del seguito maggioritario del cattolicesimo. D’altronde il principio di maggioranza vale in politica, non negli affari religiosi. E d’altronde la stessa Chiesa venne fondata da Cristo alla presenza di non più di 12 discepoli. Se una religione è forte, se ha fede nella sua capacità di suscitare fede, non ha bisogno di speciali protezioni.

michele.ainis@uniroma3.it
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Titolo: MICHELE AINIS. Museruola ai diritti dei garanti
Inserito da: Admin - Dicembre 12, 2009, 03:39:14 pm
12/12/2009

Museruola ai diritti dei garanti
   
MICHELE AINIS


Nella crociata bandita dal presidente del Consiglio contro i due garanti della Costituzione - il Capo dello Stato e la Consulta - ogni giorno è giorno di battaglia. Ieri Berlusconi ha invitato seccamente il primo a interessarsi dell’uso politico della giustizia, invece di pensare ad altro. L’altro ieri ha accusato la seconda di congiurare con le toghe rosse contro i provvedimenti normativi del governo. Ma con quali munizioni spara il presidente Berlusconi? Non leggi, non decreti, non atti provvisti del gran sigillo dello Stato. No, si tratta semplicemente di parole. E sulle parole viaggiano umori e malumori, che a propria volta determinano il clima complessivo delle nostre istituzioni. Per misurarlo, più che un costituzionalista servirebbe un meteorologo. Anche la Costituzione, però, è intessuta di parole. Anche le sentenze della Corte. La loro colpa? Quella di consentire ai giudici di demolire ogni riforma, appellandosi a «un organo di garanzia trasformato in organo politico» - Berlusconi dixit - «che abroga le leggi fatte dal Parlamento». Non è così: la Corte non abroga le leggi, le annulla. Due parole, due significati, benché in entrambi i casi vi si rifletta una valutazione negativa sulla legge. Tuttavia l’abrogazione esprime un giudizio politico, che infatti spetta alle due Camere; l’annullamento un giudizio giuridico, in termini di validità costituzionale, e a pronunziarlo è per l’appunto la Consulta. Sennonché quest’ultima - secondo la dottrina Berlusconi - si comporta in realtà come un partito, nel senso che impone la sua agenda alla politica. Secondo errore. Ogni sentenza incide sul governo della polis, anche quella scritta da un giudice di pace. A maggior ragione quando la sentenza abbia una legge per oggetto, come succede alla Consulta. Non foss’altro perché le leggi rappresentano il veicolo della decisione politica, la sua forma specifica. Per evitare d’immischiarsene, i giudici costituzionali dovrebbero mettersi in pensione.

E tuttavia - aggiunge Berlusconi - come si spiega che la Consulta accenda sempre il rosso del semaforo sulle scelte del governo?
Terzo errore. Nell’ultimo deposito di pronunzie costituzionali (il 30 novembre) quelle d’annullamento sono state 4 su 14, e in quelle 4 alcune altre questioni venivano respinte. La volta precedente (il 16 novembre) 2 su 17: l’11%. Significa che la Corte usa il farmaco dell’incostituzionalità con il contagocce, e dunque assolve quasi sempre il Parlamento. Lo fa questa Corte di comunisti col colbacco, lo hanno fatto tutte le altre Corti che l’hanno preceduta. Perché l’annullamento d’una legge è un fatto traumatico per la vita delle istituzioni, e perché almeno in quel palazzo prendono sul serio la «leale collaborazione» invocata da Napolitano. Che cosa rimane, allora, delle parole pronunziate dal presidente Berlusconi? Per l’appunto un clima, un’atmosfera di sospetti e di veleni. E questo clima serve a preparare una riforma costituzionale che metta la museruola ai due garanti. Sul metodo, nulla da eccepire: è la via più democratica per regolare i conti fra politica e giustizia, giacché l’ultima parola l’avremo noi elettori, attraverso un referendum. Sul merito, c’è una lezione che faremmo bene a ricordare, quando verrà il momento. È incisa nella Déclaration che scrissero i rivoluzionari francesi del 1789: «Ogni società nella quale la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri determinata, non ha Costituzione».

michele.ainis@uniroma3.it
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Titolo: MICHELE AINIS. Internet no alla censura basta un clic
Inserito da: Admin - Dicembre 15, 2009, 03:59:34 pm
15/12/2009

Internet no alla censura basta un clic
   
MICHELE AINIS


Lo squilibrato che ha ferito Berlusconi raccoglie 50 mila fan tra i navigatori della Rete. Significa che la Rete è a sua volta squilibrata? Significa che ha urgente bisogno di una camicia di forza, o almeno d’una museruola? Calma e gesso, per favore. E per favore smettiamola d’invocare giri di vite e di manette sull’onda dell’ultimo episodio che la cronaca ci rovescia addosso.

Oggi succede per l’apologia di reato ai danni del presidente del Consiglio. Ieri per la pedofilia, o per le stragi del sabato sera. Ma non è così che ci procureremo buone leggi. Specie se la legge intenda regolare il più grande spazio pubblico mai sperimentato dall’umanità. Specie se aggredisca la prima libertà costituzionale, quella di parola.

Non che le parole siano altrettanti spifferi di vento. Proteggerle con un salvacondotto permanente equivarrebbe in conclusione a non prenderle sul serio, perché tanto contano i fatti, i gesti, le azioni materiali. Equivarrebbe perciò a deprimere la stessa libertà che si vuole tutelare. E d’altronde - come ha scritto il giudice Holmes nella sua più celebre sentenza, vecchia ormai di un secolo - la tutela più rigorosa della libertà d’espressione non proteggerebbe un uomo che gridasse senza motivo «al fuoco» in un teatro affollato, scatenando il panico. Insomma, dipende. Più precisamente, dipende dall’intreccio di tre fattori differenti, che a loro volta si riflettono poi sulle parole che fanno capolino in Rete.

In primo luogo, gioca la posizione del parlante. Altro è se racconto le mie ubbie agli amici raccolti attorno al tavolo di un bar, altro è se le declamo a lezione, soffiandole all’orecchio di fanciulli in soggezione davanti alla mia cattedra. In quest’ultimo caso ho una responsabilità più alta, e dunque incontro un limite maggiore. Non per nulla nei manuali di diritto si distingue tra «manifestazione» ed «esternazione» del pensiero. La prima è una libertà, riconosciuta a ogni cittadino; la seconda è un potere, vale per i cittadini investiti di pubbliche funzioni, e ovviamente copre uno spazio ben più circoscritto. Ma non c’è potere in Internet. C’è solo libertà.

In secondo luogo, dipende dal mezzo che uso per parlare. Il medesimo aggettivo si carica d'assonanze ora più forti ora più fioche se lo leggo su un giornale che ho scelto d’acquistare, oppure se mi rimbalza dentro casa quando accendo la tv. Ma è un’edicola la Rete? No, e non ha nemmeno l’autorità dei telegiornali. È piuttosto una piazza, sia pure virtuale. Un luogo in cui si chiacchiera, senza sapere bene con chi stiamo chiacchierando. Le chiacchiere, poi, hanno sempre un che d’aereo, di leggero. Anche quando le vedi scritte sul video del computer, sono sempre parole in libertà. Meglio: sono lo specchio dei nostri umori, dei nostri malumori. Sbaglieremmo a infrangere lo specchio, non foss’altro perché così non riusciremmo a modificare di un millimetro il nostro profilo collettivo.

E in terzo luogo, certo: dipende da che cosa dico. Se metto in palio mille dollari per chi procurerà lo scalpo di Michele Ainis, probabilmente offendo la legge sulla tutela degli scalpi, e in ogni caso lui avrebbe qualcosa da obiettare. Ecco infatti la soglia tra il lecito e l’illecito: quando la parola si fa azione, quando l’idea diventa evento. In quest’ipotesi è giusto pretendere un castigo, però a due condizioni, messe nero su bianco da decenni nella giurisprudenza americana: che vi sia una specifica intenzione delittuosa; che sussista un pericolo immediato.

È il caso di chi plaude alle gesta di Tartaglia? A occhio e croce no, benché ciascuno farà le sue valutazioni. Ma non facciamo ricadere su tutto il popolo dei navigatori le intemperanze di qualche marinaio. Anche perché sono molti di più quanti esecrano Tartaglia, rispetto ai suoi tifosi. Dopotutto l’antidoto agli abusi in Rete già viaggia sulla Rete, basta un clic.

michele.ainis@uniroma3.it

da lastampa.it


Titolo: MICHELE AINIS. La sicurezza ha un prezzo troppo alto
Inserito da: Admin - Dicembre 30, 2009, 05:31:14 pm
30/12/2009

La sicurezza ha un prezzo troppo alto
   
MICHELE AINIS


L’eredità degli Anni Zero? Un catenaccio chiuso a doppia chiave. Serve a difenderci dal terrorismo islamico, la cui offensiva ha segnato l’intero decennio, dopo il crollo delle Torri gemelle nel 2001. Ma incatenando le nostre società, siamo riusciti a respingere il nemico? A quanto pare no, o almeno è questa la lezione dell’attentato fallito sul cielo di Detroit.

E allora stringiamo ulteriormente il catenaccio, moltiplichiamo ispezioni e controlli, apriamo nuovi fronti (lo Yemen, dopo l’Afghanistan e l’Iraq). Ne va di mezzo l’utopia d’un mondo senza guerre, senza una gioventù spedita in armi verso luoghi esotici e lontani. Ne va di mezzo quell’ultimo grammo di privacy che avevamo conservato, con uno scandaglio elettronico che in aeroporto fruga non solo nel bagaglio a mano, bensì pure dentro il nostro stomaco. Ne va di mezzo l’abitudine a prendere un volo all’ultimo minuto, con un’attesa media di tre ore in ogni scalo. Ne va di mezzo, in breve, la nostra libertà.

Nulla di strano, dalle minacce bisogna pur difendersi. E d’altronde l’umanità - come diceva Freud - ha sempre barattato una vita più libera in cambio d’una vita più sicura. Ma qual è il prezzo del baratto? Perché la sicurezza costa, e costa in quattrini, oltre che in diritti. La guerra in Iraq ha succhiato più di 500 miliardi di dollari alle finanze americane. Questa cifra diventa quasi il doppio tenendo conto dell’Afghanistan, lievita ulteriormente con i 70 milioni appena stanziati per lo Yemen. Dopo l’attentato alle Twin Towers, sempre gli Usa hanno investito 40 miliardi per ristrutturare il loro sistema di sicurezza aerea. Gli altri Paesi non hanno fatto meno. Soldi ben spesi, si dirà. Ma in ogni caso sottratti alle politiche sociali, all’assistenza dei più deboli, degli emarginati. Del resto non c’è spazio per la solidarietà quando nel consorzio civile si diffonde un clima di sospetto, quando l’altro che incontri per strada o in aeroporto è un terrorista potenziale.

C’è un’alternativa alle catene? Per individuarla, dovremmo liberarci da due abbagli collettivi. Primo: il terrorismo non è l’unica minaccia alla nostra sicurezza. Esiste, certo, e va affrontato senza cedimenti; ma se è per questo, esistono pure i morti sul lavoro (in Italia sono mille l’anno) o quelli in incidenti d’auto. Secondo la National Highway Traffic Safety Administration, negli Stati Uniti le vittime superano la cifra di 3 mila al mese, più di quanti perirono nell’incendio delle Torri; eppure nessuno pensa di mettere un limite alla cilindrata delle autovetture, alla velocità massima che ciascun modello può raggiungere. Né laggiù, né su quest’altra sponda dell’oceano. Per quale ragione? Perché evidentemente si è diffusa una nevrosi sulla sicurezza aerea, non su quella autostradale. E allora chiamiamo le cose con il loro vero nome, e magari consultiamo uno psichiatra.

Secondo: non c’è modo d’azzerare completamente il rischio inoculato dalle centrali terroristiche. Possiamo usare tecnologie sofisticate, tuttavia ogni nuovo ritrovato dura quanto un battito di ciglia, sicché i terroristi potranno ben usare a loro volta una contromisura tecnologica. Non suona consolante ma è così, è questa la nostra condizione. La società del rischio, la definiva Ulrich Beck in un libro degli Anni Ottanta. Al punto che il rischio si è trasformato in merce attraverso i futures, i prodotti finanziari «derivati»; con quali conseguenze, lo abbiamo scoperto a nostre spese proprio durante gli Anni Zero. E allora è giusto circoscrivere il perimetro del rischio, è assurdo immaginare una vita senza rischi. Tanto più se per coltivare quest’aspirazione accettassimo l’estremo sacrificio delle nostre libertà. Pensiamoci due volte: la sicurezza senza condizioni è lo spartito su cui suonano i tiranni. E ricordiamoci di Churchill, quando su Londra cadevano le bombe dei nazisti. Lui disse agli inglesi di resistere, ma non gli chiese mai di rinunziare alla propria identità.

michele.ainis@uniroma3.it
da lastampa.it


Titolo: MICHELE AINIS. "Ius soli" cade il tabù
Inserito da: Admin - Gennaio 11, 2010, 10:02:00 am
11/1/2010

"Ius soli" cade il tabù
   
MICHELE AINIS


La prima riforma degli Anni Dieci non ha il timbro della legge, né tantomeno della legge costituzionale. Viaggia su una vettura più dimessa, più modesta: la circolare ministeriale. Quella con cui il ministro Gelmini ha comunicato ai presidi che il tetto del 30% di alunni stranieri nelle classi non riguarda tutti gli stranieri. Non riguarda, più in particolare, gli stranieri nati qui.

Che dunque da oggi sono un po’ meno estranei alla terra su cui hanno spalancato il loro primo sguardo, o meglio sono diventati un po’ italiani. Una novità a ventiquattro carati: è la prima applicazione dello ius soli in un ordinamento che continua ad essere improntato allo ius sanguinis.

Rispetto al fatto nuovo, non è poi così importante interrogarsi sulle ragioni che lo hanno generato. Può darsi che un tetto rigido, senza compromessi né eccezioni, avrebbe svuotato troppe scuole, dato che i figli degli immigrati sono maggioranza in varie aree del Paese. Può darsi che una riforma per via legislativa s’infrangerebbe contro l’altolà di Bossi e della Lega, e quindi meglio scavalcare il Parlamento. O infine può darsi che in Italia le uniche riforme si facciano sottovoce: non abbiamo forse battezzato l’elezione diretta del presidente del Consiglio senza scomodare la Costituzione, limitandoci a cambiare la scheda elettorale?

Ma il fatto nuovo è figlio a propria volta della nuova società in cui siamo immersi mani e piedi. Nel 2007 gli stranieri iscritti nei registri anagrafici sono cresciuti di 460 mila unità, più dell’anno prima, e dell’anno prima ancora. Questi stranieri hanno dato alla luce 64 mila bambini, il 90% in più rispetto al 2001. E tutti loro - i padri e i figli - sono ormai 4 milioni, solo a contare gli immigrati regolari. Sennonché questi immigrati restano stranieri nella loro nuova Patria: nel 2005 gli abbiamo concesso 19.266 cittadinanze, un terzo rispetto alla Spagna, un decimo rispetto alla Germania, un grammo di polvere rispetto alle 154.827 cittadinanze elargite quello stesso anno dalla Francia.

Possiamo allora accompagnare con un viatico questa circolare? Il viatico è al contempo una speranza, quella d’abitare in un Paese dove le riforme siano proclamate a tutto tondo, senza sotterfugi normativi. Dove la legge del 1992 sulla cittadinanza venga corretta per adeguarla ai nuovi tempi: oggi servono 10 anni (ma in realtà non meno di 13), la proposta bipartisan Sarubbi-Granata (pendente dal 30 luglio in Parlamento, e sottoscritta da 50 deputati di ogni gruppo, a eccezione della Lega) dimezza questo termine. E trasforma inoltre la cittadinanza italiana in un diritto, anziché in una graziosa concessione delle autorità amministrative. Con un giuramento e con un esame d’italiano, perché non c’è diritto senza l’adempimento d’un dovere. Ma in un tempo certo e ragionevole, che diventa automatismo per i figli degli immigrati residenti da 5 anni. Non è buonismo: specialmente dopo i fatti di Rosarno, è un esercizio di realismo.

da lastampa.it


Titolo: MICHELE AINIS. L'emergenza continua dei decreti
Inserito da: Admin - Gennaio 14, 2010, 02:32:38 pm
14/1/2010
 
L'emergenza continua dei decreti
 
MICHELE AINIS
 
Riepilogando: s’annuncia con alti squilli di fanfara un decreto legge che sospende i processi penali per tre mesi. Motivo? C'è una sentenza costituzionale (la n. 333 del 2009) che va applicata senza indugi: insomma un «caso straordinario di necessità e d'urgenza», come vuole l'art. 77 della Costituzione per ammettere la decretazione del governo.

L'opposizione s'inalbera, rumoreggia nell'aula del Senato, minaccia feroci ostruzionismi. A quanto pare s'insospettisce pure il Quirinale, sicché comincia un negoziato che in ultimo dimezza il termine di prescrizione: non più 90 giorni bensì 45. Infine scocca l'ora del Consiglio dei ministri, ma il decreto non c'è più, il governo scopre all'improvviso che non ce n'è bisogno. E così il visconte dimezzato diventa un cavaliere inesistente, se possiamo rubare il titolo a due celebri romanzi di Calvino.

C’è una lezione da studiare dopo questo giro di valzer sui decreti? Sì che c'è: non è affatto vero che ogni accidente di stagione vada curato per decreto. Non era vero in questo caso, non era vero in molte altre occasioni dove è mancato viceversa un gesto di resipiscenza. Però a studiare dovrebbero andarci anche i signori del Palazzo. Possibile che nei giorni scorsi nessuno si sia preso la briga di leggere la sentenza della Corte? Quella decisione non opera l'annullamento della legge (l'art. 517 del codice di procedura penale) oggetto del sindacato di legittimità costituzionale; non apre quindi una lacuna nel nostro ordinamento, rispetto alla quale si rende talvolta necessario rimediare con un tampone normativo. La sentenza 333 s’iscrive piuttosto nella categoria delle sentenze additive, che non tolgono ma aggiungono frammenti di legislazione, e perciò sono autoapplicative, s'impongono insomma da se stesse.

Nella fattispecie, c'era in gioco il diritto per ciascun imputato di richiedere il rito abbreviato dinanzi a contestazioni suppletive e tardive; il codice non contemplava quel diritto, la Consulta lo ha introdotto aggiungendo una frasetta alla norma originaria. Amen: decreto o non decreto, gli imputati ormai possono avvalersene. L'unica giustificazione del decreto avremmo forse potuto rintracciarla nell’esigenza di rendere certo e omogeneo il termine di sospensione processuale, sottraendolo alla discrezionalità dei tribunali; ma è un argomento un po’ tirato per i piedi, sia perché nessuna legge potrà mai elidere del tutto il margine d'apprezzamento giudiziario, sia perché nel caso specifico i giudici devono comunque valutare se ricorrono i presupposti del diritto, concedendo o no la sospensione.

E dunque, pericolo scampato? Magari. Perché alla fine della giostra l'esecutivo non ci ha fatto mancare il nostro decreto legge quotidiano: ieri ne ha approvato uno sulla spesa degli enti locali, insieme a 5 decreti legislativi e a 3 dichiarazioni di stato d'emergenza. Ecco, l'emergenza: nel tessuto costituzionale è il fatto straordinario che autorizza i poteri normativi del governo, nella prassi della seconda Repubblica è diventato un’emergenza pure il raffreddore. Col risultato che fin qui i decreti battezzati dal governo Berlusconi superano 2 milioni di caratteri (li ha contati alla Camera il Comitato per la legislazione), a loro volta dislocati in varie migliaia di commi che rimbalzano sulle Gazzette ufficiali. Da qui una perenne fonte di conflitti e di tensioni, ora con Napolitano e Fini, ora con le regioni, con la Consulta, con l'opposizione in Parlamento. O ne veniamo fuori, oppure questo raffreddore diventerà letale.

michele.ainis@uniroma3.it
 
da lastampa.it


Titolo: MICHELE AINIS. La terza via di Errani e Formigoni
Inserito da: Admin - Gennaio 25, 2010, 09:55:27 am
25/1/2010

La terza via di Errani e Formigoni
   
MICHELE AINIS

Se ne discute in Rete e non sui giornali; silenzio di tomba nel Palazzo. Perché questa è questione trascurabile?

Al contrario: perché interessa eccome, sia a destra che a sinistra. Tocca infatti la candidatura di Roberto Formigoni (Pdl) sullo scranno più alto della Lombardia, e tocca quella di Vasco Errani (Pd) alla presidenza dell’Emilia-Romagna. Partono entrambi coi favori del pronostico, meglio non piantare grane. Sennonché il primo governa la Lombardia dal 1995, e s’accinge perciò a eguagliare il record di Benito Mussolini; il secondo sta in sella dal 1999. Domanda: ma è giusto che il potere non abbia mai una data di scadenza? Ed è legittima, è conforme alla legge questa dittatura democratica?

In realtà una legge ci sarebbe, la n. 165 del 2004. Vieta tre mandati di fila ai presidenti di Regione scelti direttamente dal corpo elettorale, e vieta quindi l’elezione sia di Formigoni sia di Errani. Ma attenti alle date, in questa storia di orologi falsi e calendari truccati. La riforma costituzionale che introdusse l’elezione diretta dei «governatori» fu battezzata nel 1999; la sua prima applicazione coincise con le regionali del 2000; la codificazione dei nuovi principi elettorali (per l’appunto, con la legge del 2004) subentrò pertanto con cinque anni di ritardo, dopo che il treno era già partito. E allora contano o non contano le elezioni del 2000? Per non farle contare, salvando le poltrone di Errani e Formigoni, qualcuno spende un duplice argomento. In primo luogo, né l’uno né l’altro - quando ottennero il primo suffragio popolare - sapevano d’avere soltanto due cartucce da sparare, sicché va tutelata la loro aspettativa; in secondo luogo, la legge del 2004 è priva d’effetti retroattivi, dato che il diritto si proietta sul futuro, non sui sepolcri del passato.

Ma questi due argomenti sono scritti sulla sabbia. Forse che nel 2000 Errani e Formigoni avrebbero rifiutato l’elezione, se gli fosse stato detto di non poterla più ripetere nel 2010? Forse che in quel caso avrebbero lasciato che vincesse l’avversario? Anche il principio d’irretroattività cade un po’ a sproposito. La nostra Costituzione lo sancisce esclusivamente in materia penale; nelle altre circostanze il legislatore fa come gli pare, e infatti non mancano le leggi che dichiarano d’applicarsi a fatti del passato. Di più: talvolta la retroattività s’accompagna come un vestito su misura al corpo normativo. È il caso delle leggi d’interpretazione autentica, che chiariscono - oggi per ieri - il significato d’una legge preesistente; ma è anche il caso, per esempio, della legge che introduca un’imposta sugli immobili, la quale non risparmierebbe certo i vecchi proprietari. Altrimenti dovremmo pensare che se domani verrà impedito ai ciechi di guidare un aeroplano, il divieto colpirà soltanto i nuovi ciechi.

Insomma, basta un grammo di buon senso. Oppure basta leggere una sentenza della Cassazione (n. 2001 del 2008), che in una fattispecie analoga ha escluso il medesimo giochino per i sindaci. E a proposito del governo dei Comuni: anche qui i politici rubano il mestiere agli azzeccagarbugli. La legge n. 361 del 1957 vieta il doppio incarico di parlamentare e sindaco, quando il primo cittadino amministri più di 20 mila abitanti; per mezzo secolo è stata applicata senza troppi sotterfugi, poi nella XIV legislatura le Camere ne hanno brevettato un’interpretazione folgorante. D’altronde, diceva Giolitti, la legge si interpreta per gli amici e si applica per i nemici. Sicché ormai il divieto vale quando un sindaco si candida in Parlamento, non quando un parlamentare corre per un municipio. Da qui il caso di Brunetta candidato al Comune di Venezia, da qui molti altri casi. Alla faccia del conflitto d’interessi (il sindaco è controllato dal governo che a sua volta egli controlla da parlamentare), e a dispetto del buon Dio, che ci ha elargito solo ventiquattr’ore al giorno per smaltire i nostri doppi incarichi.

C’è una vittima in queste prossime elezioni con il trucco? Sì che c’è, il voto che gli italiani espressero il 2 giugno 1946. Quella volta scelsero la repubblica per liberarsi d’un sovrano a vita, per alternare le facce del potere; ma il potere, a quanto pare, ha una sola faccia, ed è una bella faccia tosta.

da lastampa.it


Titolo: MICHELE AINIS. Se lo Stato laico invade le identità
Inserito da: Admin - Gennaio 28, 2010, 08:41:17 pm
27/1/2010

Se lo Stato laico invade le identità
   
MICHELE AINIS


C’è una domanda che sale subito alle labbra, ora che la Francia s’avvia a vietare il burqa nei principali luoghi pubblici: sarebbe giusto importare ai nostri lidi il medesimo divieto? Sarebbe in sé desiderabile? E c'è un principio costituzionale sul quale possa fondarsi quel divieto? Quest’ultimo profilo chiama in causa la laicità delle nostre istituzioni, che a propria volta la Consulta (nel 1989) ha eretto a principio supremo dell’ordinamento giuridico italiano.

E tuttavia, per una volta almeno, meglio non affidarsi troppo alle parole, sia pure quelle scolpite sulle tavole di bronzo della legge. Nel panorama contemporaneo s'incontrano Costituzioni che si proclamano espressamente laiche (in Francia, in Russia, in Turchia), altre che viceversa s'aprono con l’invocatio dei (in Irlanda, in Grecia, in Svizzera, in Germania), pur essendo - talvolta - più laiche e liberali delle prime. D'altronde nel Regno Unito l’esistenza di una chiesa di Stato non offusca la laicità di quell’ordinamento, mentre la superlaica Francia spende palate di quattrini per finanziare il clero. Il fatto è che la laicità, come la democrazia, si lascia declinare in mille guise. Per misurarla bisogna valutarne le concrete applicazioni, più che le dichiarazioni di principio. Il modello francese è tra i più intransigenti nel vietare i simboli d'appartenenza religiosa, e infatti dal 2004 oltralpe c’è una legge che impedisce d'indossare a scuola non solo il velo islamico, ma pure la kippah o una croce un po’ troppo vistosa. Proviamo allora a soppesare gli argomenti a favore o contro tale soluzione. E proviamo a farlo - giustappunto - laicamente, senza preconcetti ideologici né tanto meno religiosi.

Primo: la sicurezza. Se ti copri fino ai piedi con un vestito afghano, come potrò esser certo che non nascondi sotto il burqa qualche chilo di tritolo? E come farò a identificarti, se del tuo volto posso vedere solo gli occhi? Preoccupazione legittima, ma allora per simmetria dovremmo proibire anche il passamontagna, il casco dei motociclisti, la maschera di Paperino a Carnevale. Dovremmo impedire la circolazione ai signori troppo intabarrati, con questo freddo poi, come si fa. No, non è la sicurezza l’alibi di ferro per importare quel divieto, lo prova il fatto che esso non s’estende ad altri tipi di mascheramento. E del resto consentire il burqa non significa consentire d'incollarlo al corpo con il mastice, se un poliziotto ti chiede di sollevarlo per guardarti dritto in faccia, tu comunque hai l'obbligo di farlo.

Secondo: la tutela delle islamiche rispetto alla prepotenza del gruppo cui appartengono. Difatti il burqa evoca un atto di sottomissione, la condizione della donna come figlia di un dio minore. Vero, due volte vero; ma siamo certi che sia giusto proibirlo anche quando chi l’indossa abbia deciso spontaneamente di vestirsene? Non c’è forse l'ombra di un imperialismo culturale in tale atteggiamento? Non puzza un po’ di Stato etico, non è paternalistica l'idea che i pubblici poteri debbano liberare gli individui dai condizionamenti sociali o familiari? E perché allora non vietare pure il battesimo ai minori, la circoncisione dei bambini ebrei, la prima comunione? No, l'identità - di singolo e di gruppo - è sempre il frutto di una scelta, mai di un’imposizione; è questione culturale, che va aggredita quindi con strumenti culturali, non attraverso il bastone della legge. Sempre ammesso che sia desiderabile forgiare una società omogenea come un plotone militare. Ci aveva provato Mao Tse-tung, ordinando ai cinesi d’indossare tutti la medesima divisa. La nostra idea di laicità è l’opposto, muove dal diritto di vestirci un po’ come ci pare. Un Carnevale che dura tutto l'anno.

michele.ainis@uniroma3.it
da lastampa.it


Titolo: MICHELE AINIS. Nasce il par silentium
Inserito da: Admin - Febbraio 11, 2010, 10:34:20 am
11/2/2010

Nasce il par silentium
   
MICHELE AINIS

Lì per lì, saluti la notizia con un respiro di sollievo: per un mese intero, prima delle elezioni regionali, niente risse fra i politici in tv. Niente liturgie in politichese.

Niente talk show in prima serata dove il ministro di turno s’esibisce come una rockstar. Diciamolo, negli ultimi tempi ne avevamo fatto indigestione. Ma nel caso di specie la quarantena non dipende dalla legge dell’Auditel, bensì da quella sulla par condicio. O meglio dall’ultima paradossale applicazione che ne ha dettato la commissione di Vigilanza sulla Rai.

Per la precisione, i paradossi sono tre. Primo: l’espulsione della politica dai programmi d’informazione politica. Bruno Vespa, Michele Santoro, Giovanni Floris, Lucia Annunziata potranno continuare le rispettive trasmissioni, dedicandole però ai cuori infranti o alla cucina esotica. Forse sarebbe meglio cambiare conduttore, ma questo la commissione parlamentare non lo ha mai deliberato, in Italia non c’è mica la censura.

Secondo: se c’è un momento in cui i nostri connazionali spendono qualche grammo d’interesse verso gli affari del Palazzo, quel momento coincide con una vigilia elettorale. E per dissetarli il Parlamento gli spegne la tv? O in alternativa rimpiazza il dibattito fra i candidati con le vecchie tribune politiche, con una visita guidata al museo delle cere? Se l’obiettivo è d’impinguare il già grasso astensionismo elettorale, coraggio, siamo sulla buona strada.

Terzo: che ne sarà di Matrix, che ne sarà degli altri approfondimenti politici che vanno in onda sulle reti private? Cambiando rete cambia pure lo sceriffo, che nella fattispecie indossa la stella dell’Autorità per le telecomunicazioni. Siccome è improbabile che quest’ultima ripeta virgola per virgola l’editto della Vigilanza Rai (è o non è un’autorità «indipendente»?), alla fine della giostra avremo due regimi, dove nel primo è vietato ciò che nel secondo viene consentito. Ma per viaggiare da un regime all’altro non serve il passaporto, basta il telecomando. Un po’ di zapping e l’editto della Vigilanza Rai avrà l’unico effetto di far precipitare gli ascolti della Rai.

Questi tre ossimori sono figli a loro volta d’un quarto paradosso, in Italia il più antico e persistente. È il paradosso delle regole: senza, la libertà non può attecchire, perché gira subito in licenza, e la licenza in prepotenza, autoritarismo, arbitrio; ma troppe regole s’elidono a vicenda, e in ultimo uccidono la stessa libertà che dovrebbero salvare. Ecco, le regole. Nel preambolo del regolamento battezzato dalla commissione di Vigilanza sulla Rai vengono enumerate 10 leggi nazionali, 6 leggi regionali, una convenzione e 3 atti d’indirizzo. Quello stesso testo sviluppa 13 articoli, 451 righe, 5.350 parole. Manca una norma sui colpi di tosse e gli starnuti in tv, ma prima o poi ci arriveremo.

Nulla d’inedito, la stessa armatura normativa inchioda tutti gli ambiti della nostra vita pubblica e privata. Ma nel caso della libertà d’informazione il suo effetto è ancora più nefasto. Perché un’informazione addomesticata è in realtà un’informazione negata. Perché il pluralismo va piuttosto garantito con una severa disciplina antitrust e con una Rai non lottizzata dai partiti. Infine, certo: perché la par condicio si è rivelata una iattura. Varata nel 1995 dal governo Dini, non ha mai assicurato l’equal time fra i candidati come succede negli Usa, trasformandosi viceversa in un fattore d’opacità nell’avventura elettorale. Sarebbe il caso di sostituirla con regole più duttili, più sobrie, più rispettose della libertà d’informazione. Anche se proprio adesso la par condicio ha generato il suo frutto maturo: il par silentium.

michele.ainis@uniroma3.it
da lastampa.it


Titolo: MICHELE AINIS. Il potere senza data di scadenza
Inserito da: Admin - Febbraio 20, 2010, 11:12:05 am
20/2/2010

Il potere senza data di scadenza
   
MICHELE AINIS

Uno sdegno collettivo monta nella società italiana. Si spegnerà presto, lo sappiamo già per esperienza. D’altronde la tensione etica è come quella erotica. Non dura a lungo. Nel frattempo la corruzione occupa tutta la nostra scena pubblica.

Inchieste giudiziarie, grida d’allarme della Corte dei conti, statistiche nerissime (da Eurispes a Transparency International), dibattiti di seconda mano sul rapporto fra società politica e società civile. Infine l’esecrazione risuona nei pulpiti più alti, dal presidente del Consiglio al papa. La terapia? Sempre la stessa, inasprire pene e penitenze. Come se un anno di galera in più possa dissuadere il peccatore.

Tuttavia non è vero che il diritto sia impotente a curare la nostra etica pubblica. E specularmente non è vero che in Italia quest’ultima voli rasoterra per un tratto antropologico, per un cranio di Lombroso che ci hanno trasmesso i nostri avi. Gli italiani, al pari degli esquimesi o degli indiani, non sono né diavoli né santi. O meglio sono gli uni e gli altri, dipende dalle regole del gioco. Se alle nostre latitudini è in gran voga l'intrallazzo, dobbiamo domandarci cos’abbiano di speciale queste regole rispetto agli altri Stati. Se l’intrallazzo governa la seconda repubblica al pari della prima, dobbiamo inoltre chiederci quali regole siano sopravvissute con la medesima divisa dopo Tangentopoli.

Ma la risposta non è affatto complicata, perché la corruzione galleggia sempre in un sistema chiuso, oligarchico, senza ricambio di classi dirigenti. Nuota a suo agio dove il mare è opaco. Dove i controllori coincidono con i controllati. Dove manca ogni separazione fra economia e politica, così come fra amministrazione e governo. Dove infine la cultura del merito sta solo sui libri, perché nella vita reale l’appartenenza trionfa sulla competenza.

È a questi mali che dovremmo dedicarci. Rovesciando le regole che li hanno allevati, a cominciare dalla scarsa trasparenza degli appalti così come dei concorsi. Mettiamo tutto online, come dice Brunetta; ma stabiliamo inoltre che in ogni procedura i commissari siano sempre sorteggiati, e che rispondano delle proprie scelte. Scriviamo una legge sulle lobby, quale esiste negli Usa fin dal 1946. Sbarazziamoci dello scandalo giuridico che permette al governo di nominare i giudici contabili e amministrativi. Sminiamo il campo dai troppi conflitti d’interesse benedetti dalla legge. Eliminiamo lo spoil system, restituendo ai funzionari pubblici la neutralità promessa dalla Carta. Insomma poniamo il diritto al servizio dell’etica pubblica, invece di baloccarci con la riforma del bicameralismo.

E c’è poi un’ultima regola su cui dovremmo usare lo scalpello: quella che rende immarcescibili le facce dei potenti. Difatti un potere senza data di scadenza può inebriare anche gli astemi. Ti senti invincibile, ma il senso d’impunità è il primo alimento della corruzione. Per questa ragione nell’antica Grecia le maggiori cariche duravano un anno o anche soltanto un giorno, come nel caso dell’epistate dei pritani, il capo dello stato. Per la medesima ragione potevano ricoprirsi una sola volta nella vita, o al massimo due volte. In democrazia - diceva Aristotele - si governa e si viene governati a turno.

Tuttavia il principio della rotazione delle cariche non è affatto un fossile giuridico, se vincola la stessa presidenza degli Stati Uniti. Invece Bertolaso ha iniziato a dirigere la Protezione civile nel 1996, tre lustri fa. In Italia è la regola, e infatti alle prossime regionali Errani e Formigoni s’apprestano a toccare il ventennio di comando, benché una legge del 2004 renda assai dubbia la loro elezione. Ecco, la legge. Usiamo il bastone del diritto per vietare le poltrone a vita, nella società politica non meno che nella società civile. Se non altro costringeremo corrotti e corruttori a rinnovare l’agendina telefonica.

michele.ainis@uniroma3.it
da lastampa.it


Titolo: MICHELE AINIS. La repubblica dei corrotti
Inserito da: Admin - Febbraio 24, 2010, 05:37:15 pm
24/2/2010
La repubblica dei corrotti
   
MICHELE AINIS

Benvenuti nella Repubblica dei corrotti: c’è posto per tutti e non c’è neanche bisogno di mettersi ordinatamente in fila, tanto nessuno la rispetta. Ma come abbiamo fatto a guadagnarci questo speciale passaporto? Perché siamo inquilini d’uno Stato senza Stato, ha osservato ieri Luca di Montezemolo. E perché in questo vuoto prosperano l’inefficienza pubblica e l’illegalità privata.

Ma prospera inoltre un paradosso, giacché nel nostro caso il vuoto dipende in realtà dal troppo pieno. Non è che ci abbia lasciato orfani lo Stato: semmai è cresciuto a dismisura, è diventato un elefante impietrito dalla sua stessa mole. Non è che in Italia manchino le leggi: ne abbiamo viceversa fin troppe sul groppone, col risultato che s’elidono a vicenda, e in ultimo ciascuno fa come gli pare. Non è che il Paese soffra l’assenza di un’energia riformatrice, come il corpo d’un malato lasciato senza medicine: le medicine sono a loro volta troppe, troppi i dottori che ce le somministrano, e ovviamente ogni dottore cambia la terapia confezionata da chi lo aveva preceduto. Sicché alla fine della giostra il paziente muore intossicato.

Valga per tutti il caso dell’università. Noi professori siamo costretti ormai da anni a un andirivieni normativo, dato che ogni governo si sente in obbligo di riformare la legge di riforma, quella varata dal vecchio esecutivo. Le riforme, poi, non sempre fanno tabula rasa del passato ordinamento; più spesso vi s’innestano, crescono per superfetazione, e infatti in questo momento gli atenei italiani offrono simultaneamente corsi di laurea diversi per durata, per numero d’esami, per disciplina complessiva. Non sapendo come diavolo chiamarli, li distinguono in relazione al vecchio, al nuovo e al «nuovissimo» ordinamento, con buona pace dell’Accademia della Crusca. Nel frattempo l’università ha sperimentato più divorzi di Liz Taylor: prima fusa con la scuola sotto un unico ministro, poi retta da un dicastero autonomo, ora di nuovo coniugata. Ma a conti fatti abbandonata al suo destino, perché nessuna riforma può generare frutti se non le si lascia il tempo d’attecchire. Dal pieno nasce dunque il vuoto, ed è esattamente in questo vuoto che hanno messo radici parentopoli, concorsopoli e gli altri scandali dell’università. Per forza, con 111 leggi in materia d’istruzione negli ultimi tre lustri, tutte elencate e consultabili nel sito web di Montecitorio. Ecco, le leggi. Nonostante le buone intenzioni del ministro Calderoli, ne abbiamo ancora 20 mila in circolo. Senza contare quelle regionali (all’incirca 25 mila), né i regolamenti del governo (70 mila).

Significa che il nostro diritto è un corpo opaco, inconoscibile per gli stessi addetti ai lavori. Significa al contempo che i furbi trovano sempre una scialuppa normativa che li conduce in salvo, mentre l’onesto annega. Ma questa ipertrofia della legislazione nutre a sua volta il corpaccione dello Stato, e a sua volta ne è nutrita. Anche qui basterà un esempio. Nell’officina del diritto ospitata da Palazzo Chigi c’erano 345 dipendenti sotto il Duce; oggi sono quasi 5 mila. E anche quando lo Stato si sottopone a una cura dimagrante, cedendo quote di potere, finisce per moltiplicare gli apparati burocratici (è il caso delle Regioni), oppure per moltiplicare i controllori, i quali giocoforza si pestano i piedi a vicenda (è il caso delle authorities, che ormai sono una dozzina).

Insomma, la nostra malattia morale s’accompagna a una bulimia di leggi, di istituzioni, d’apparati. Sarà la fame atavica dei politici italiani, che non sanno rinunciare a una provincia inutile o ai mille posti in Parlamento per non sparecchiare la tavola imbandita. Sarà l’idea di passare in gloria con la riforma del millennio. Però c’è almeno una virtù che a questo punto dovrebbero esibire: la virtù dell’astinenza.

michele.ainis@uniroma3.it
da lastampa.it


Titolo: MICHELE AINIS. Dal cilindro spuntò la soluzione
Inserito da: Admin - Marzo 06, 2010, 11:28:25 am
6/3/2010


   

MICHELE AINIS

Gira e rigira, alla fine il governo ha tirato fuori dal cilindro un coniglio vestito da decreto. Così, giusto per non perdere le sane abitudini. Anche se i decreti in materia elettorale sono vietati espressamente (art. 15 della legge n. 400 del 1988). Anche se l’escamotage della norma interpretativa suona in realtà come una frode, che in passato la Consulta ha castigato a più riprese. Funziona così: il legislatore detta una nuova regola sostenendo che fosse già racchiusa in una regola più vecchia, come il frutto nel seme. E dunque la circonda di efficacia retroattiva, la rende valida oggi per ieri. Sennonché l’esigenza di chiarire per legge il significato di una legge può sorgere quando sussistano contrasti giurisprudenziali, oscillazioni applicative, incertezze amministrative. In caso contrario è solo un trucco.

Nel frattempo la gara elettorale si è trasformata in una zuffa sulle regole. Non è la prima volta, non sarà neppure l’ultima. Senza andare troppo a ritroso, si può ricordare per esempio che le regionali del 2005 furono accompagnate da un corteo d’inchieste giudiziarie su e giù lungo la penisola, dal Piemonte alla Campania. Per quale ragione?

Firme fasulle, oppure carpite con l’inganno, oppure apposte in fogli bianchi, senza l’elenco dei candidati; anche perché di solito le liste vengono chiuse all’ultimo minuto.

Insomma ci risiamo. Generalmente gli uomini imparano dai propri errori; ma gli uomini politici hanno le orecchie d’asino. Eppure questa vicenda surreale, che in Lombardia e nel Lazio può ancora inaugurare una partita con una sola squadra in campo, dovrebbe impartirci quantomeno una lezione. Per apprezzarla, c’è però da prendere sul serio la folla di domande che in queste ore si vanno ponendo gli italiani. Qual è il peso della legalità formale rispetto all’interesse sostanziale di scegliere fra due programmi alternativi? È giusto che il rito democratico sia ostaggio d’una procedura burocratica? È accettabile che il successo d’una lista venga sancito non dagli elettori bensì dai magistrati? E c’è infine una ragione per rendere esente la politica dai rigori della legge, a differenza di quanto accade in sorte ai comuni cittadini?

Queste domande investono la natura stessa del diritto. Che tuttavia è sempre una medaglia con due facce, l’una formale, l’altra sostanziale. La prima viene scolpita a caratteri di piombo nelle Gazzette ufficiali, attraverso una litania di commi e articoli, che a propria volta disegnano procedimenti, uffici, competenze. Se non esistesse tale forma, se tutto il diritto fosse racchiuso nella parola volubile e volante del sovrano, noi non conosceremmo la linea di confine fra i torti e le ragioni, saremmo come ciechi al cospetto della legge. Ecco perché i giuristi, da Montesquieu a Calamandrei, ripetono da secoli che la forma è garanzia di libertà. Ma ne è al contempo ancella, perché la libertà - insieme all’eguaglianza - esprime lo specifico fine del diritto, la sua ragione sostanziale.

Il guaio è che noi italiani non sappiamo tenerci in equilibrio su queste due parallele. E allora ci alleviamo in seno i due figli degeneri del diritto: formalismo e sostanzialismo. Il primo indossa per esempio l’abito confezionato dalla commissione di vigilanza sulla Rai, che in nome della par condicio ha strangolato il dibattito politico che la par condicio dovrebbe viceversa garantire. Il secondo rappresenta la perenne tentazione di chi siede nella stanza dei bottoni, ma i suoi effetti sono ancora più nefasti. Nel dopoguerra - per fare un altro esempio - la Polonia approdò al regime socialista senza sostituire le sue vecchie leggi, con una semplice norma interpretativa, dove fu sancito l’obbligo d’applicarle in conformità ai dettami del marxismo.

C’è un modo per riconciliare la forma alla sostanza, in quest’ennesima vicenda di delitti elettorali? Sì che c’è, se non per l’oggi, almeno per il domani. Ma a condizione d’abbracciare una soluzione estrema, che tagli la mala pianta alla radice. Le norme in vigore impongono di raccogliere varie migliaia di firme per candidarsi alle elezioni, facendole autenticare da un notaio, da un cancelliere, da altri pubblici ufficiali. Una montagna impervia da scalare per chi non abbia alle spalle un partito organizzato, ed è infatti da questa somma vetta che
s’esercita la signoria dei partiti sugli eletti. Salvo poi calpestare la regola essi stessi, quando conviene, quando non c’è tempo, quando il candidato sbuca fuori all’ultima curva del circuito. Ecco, rompiamogli in testa questa spada. Togliamo via di mezzo tutti i filtri per candidarsi alle elezioni. Costringiamo i partiti a competere con liste di cittadini fuori dai partiti. Se poi questo ne segnerà la fine, vorrà dire che se la sono un po’ cercata.

michele.ainis@uniroma3.it
da lastampa.it


Titolo: MICHELE AINIS. "Osce pronta a intervenire ma serve l'ok del governo"
Inserito da: Admin - Marzo 21, 2010, 04:22:48 pm
INTERVISTA.

Il portavoce Eschenbaecher: "Finora nessuno ci ha chiamato"

"Nel 2008 voto regolare, ma sulle reti Mediaset una linea troppo favorevole al Pdl"

"Osce pronta a intervenire ma serve l'ok del governo"

di ANAIS GINORI


ROMA - "Siamo già stati in Germania, Norvegia, Italia. Andiamo dappertutto. Di solito, spetta al governo invitare i nostri osservatori per l'appuntamento elettorale. In questo caso, non è avvenuto". Jens Eschenbaecher è il portavoce dell'ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti umani dell'Osce. Dal 1991, l'organismo internazionale con sede a Varsavia ha inviato i suoi osservatori in molti paesi europei. Anche in Italia. L'ultima volta è stata alle politiche dell'aprile 2008.

Come si svolse la missione?
"Eravamo stati chiamati dall'allora ministro degli Esteri Massimo D'Alema. C'era stata una fase preparatoria, subito dopo lo scioglimento delle Camere e successivamente a ridosso del voto. Nel complesso, i nostri esperti non avevano constatato gravi irregolarità".

Il caos delle elezioni regionali non meriterebbe la vostra attenzione?
"In tanti anni, ci è accaduto raramente di occuparci di scrutini locali. Concentriamo il nostro lavoro su elezioni nazionali, che siano presidenziali o parlamentari. In ogni caso, ripeto: interveniamo solo quando c'è la richiesta ufficiale di un governo".

Dall'Italia non vi ha chiamato nessuno per la prossima scadenza?
"No, nessuna richiesta da Roma, ma forse sarebbe stato strano il contrario. Il mandato dell'Osce non prevede controlli sul voto amministrativo".

Entrate in campo solo quando ci sono rischi di brogli o irregolarità?
"È un luogo comune. La nostra missione è assicurare il pieno rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, promuovendo i principi della democrazia".

E quindi in Europa dove c'è stato bisogno di voi?

"Qualche mese fa, gli esperti dell'Osce sono stati inviati in Germania. Prima ancora eravamo stati in Norvegia. Cito questi due esempi per far capire che non interveniamo solo quando c'è una presunta emergenza democratica".

In Italia si potrebbero fare passi avanti, no?
"Nel 2008, l'Osce si è limitato a monitorare il sistema di procedure: la formazione delle liste e delle candidature, il diritto di voto passivo e attivo, la comunicazione elettorale. Abbiamo fatto quella che in gergo si chiama "missione di valutazione"".

Quali furono allora le critiche?
"Secondo il rapporto dei nostri esperti, la campagna elettorale del 2008 era stata pluralistica e competitiva, anche se era stata segnalata la linea editoriale favorevole al Pdl nei canali Mediaset. Ma l'Italia ha una tradizione di elezioni democratiche caratterizzate da un elevato tasso di partecipazione. E questo è indubbiamente positivo rispetto ad altri paesi europei".

© Riproduzione riservata (21 marzo 2010)
da repubblica.it


Titolo: MICHELE AINIS. I gay e la legge che non c'è
Inserito da: Admin - Marzo 23, 2010, 09:11:13 am
23/3/2010

I gay e la legge che non c'è

MICHELE AINIS

Oggi la Consulta torna sotto i riflettori.
Ma questa volta non è la politica che bussa al suo portone, come per il lodo Alfano o per il «salvaliste».

È piuttosto la società civile, o meglio una minoranza discriminata dalla storia e dal diritto: il popolo dei gay. Rispetta la Costituzione il divieto di sposarsi, l’uomo con l’uomo, la donna con la donna? Secondo i tribunali di Venezia, Trento, Firenze e Ferrara no, non la rispetta; e per l’appunto invocano il verdetto della Corte. Da qui una grande questione giuridica e sociale. Ma da qui anche un nodo istituzionale, che tocca i rapporti fra i poteri dello Stato. Sta di fatto che il matrimonio omosessuale viene consentito in Belgio, Olanda, Spagna, Norvegia, Svezia, Finlandia, Danimarca, Islanda, nonché in 4 Stati americani. Molti altri Paesi prevedono forme di registrazione pubblica delle unioni omosessuali, sulla scia dei Pacs introdotti in Francia nel 1999. In Italia, viceversa, l’unico esperimento normativo - i Dico - è rimasto chiuso in un’ampolla di laboratorio, quello diretto dal professor Prodi.

C’è insomma una lacuna grande quanto un lago. Anche il divieto di sposarsi per i gay non è mai scritto a lettere di piombo sulle Gazzette ufficiali, piuttosto si desume dal silenzio della legge. In questo deserto normativo si rispecchia il vuoto della politica italiana, la sua congenita impotenza. E allora le istanze di libertà, la sete di diritti, si scaricano sulle aule giudiziarie. È già accaduto per Eluana, dato che il testamento biologico rimane a propria volta orfano di disposizioni normative. E almeno in quel caso la risposta delle corti ha innescato una rissa furibonda tra i poteri dello Stato.

Sapremo presto se succederà di nuovo. Però sappiamo fin da adesso che i dubbi del diritto girano attorno a una questione d’eguaglianza. Davvero i matrimoni gay ferirebbero le nostre tradizioni? Negli anni Cinquanta era un’offesa al buon costume mettersi in bikini sulla spiaggia; oggi è un’offesa fare il bagno in calzamaglia. Davvero quei matrimoni sarebbero un oltraggio alla natura? Ma una legge del 1982 - avallata poi dalla Consulta - permette ai transessuali di sposarsi, anche se ovviamente dall’unione non nascerà una prole. Succede, d’altronde, pure a molte coppie eterosessuali. E allora è giusto discriminare i gay rispetto a chi cambia sesso per mano d’un chirurgo? È giusto impedirgli di mettere su famiglia quando nessun interesse pubblico - né di sanità, né di sicurezza collettiva - verrebbe minacciato? E che cos’è, dopotutto, la famiglia?

La Costituzione italiana la definisce come una «società naturale fondata sul matrimonio». In altre parole, non la definisce. Né dice che il matrimonio sia la somma di un uomo e di una donna. Certo, nel 1947 era a questo che pensavano i nostri padri fondatori. Ma scelsero di qualificarla con l’aggettivo «naturale» proprio allo scopo d’assecondarne gli sviluppi, senza frenare il motore della storia. Sicché in ultimo, la domanda posta alla Consulta è tutta in questi termini, a che punto è la nostra storia.

Avrebbe dovuto offrire il suo responso la politica, ma nell’ottobre scorso un documento ufficiale della Camera ha equiparato i gay a chi compie atti di sadismo, d’incesto, di pedofilia. Che poi la nostra società viaggi su umori ben diversi, è un altro segno del muro che divide partiti e cittadini. L’ultimo Rapporto Eurispes dichiara che soltanto un italiano su 10 considera l’omosessualità immorale; e il 61% è favorevole ai matrimoni gay o alle unioni civili. Può darsi che tutto ciò non basti, che la Consulta rifiuti di colmare la lacuna in omaggio alla discrezionalità legislativa. Sul piano del diritto avrebbe le sue buone ragioni; resta da chiedersi se la politica meriti ancora questo omaggio.

da lastampa.it


Titolo: MICHELE AINIS. Astensioni, l'8 per mille della politica
Inserito da: Admin - Marzo 31, 2010, 03:02:47 pm
31/3/2010


   
MICHELE AINIS


C’è un 8 per mille che doniamo ai signori dei partiti. E per lo più senza saperlo né volerlo, come succede per la Chiesa.
Anche in questo caso il trucco c’è, ma non si vede. Però mentre il giochino inventato da Tremonti (e messo poi nero su bianco in una legge del 1985) ha via via innescato un fiume di proteste, qui invece tutti zitti, non ci accorgiamo nemmeno del raggiro.

Come funziona l’8 per mille religioso? Attraverso un marchingegno giuridico che calcola pure la scelta dei contribuenti che non scelgono. Ciascuno di noi, quando compila la dichiarazione dei redditi, può infatti mettere una firma per destinarlo in favore dello Stato, della Chiesa cattolica, di altri culti minori. Ma il 60% degli italiani resta con la penna in mano, firmano soltanto 4 su 10. Poco male, perché la torta viene comunque servita per intero, tagliandone le fette in proporzione alle scelte manifestate espressamente. E così la Cei si mette in tasca un miliardo di euro l’anno, pur meritandone neanche la metà.

L’8 per mille politico gira sui medesimi ingranaggi. Contano le schede votate, non quelle che nessuno ha provveduto a ritirare. I seggi in palio vengono distribuiti fino all’ultimo, anche se gli elettori hanno divorziato in massa dalle urne. D’altronde pure il finanziamento pubblico ai partiti riflette la stessa impostazione. E anche qui lo Stato non risparmia un euro, perché tutta la posta viene ripartita in base alle percentuali di consenso che ogni partito guadagna alle elezioni. Il non consenso, il popolo degli astenuti, diventa così un consenso tacito verso i padroni del vapore. A dispetto della matematica, ma forse - al punto in cui siamo arrivati - anche a dispetto della democrazia.

S’apre infatti una doppia questione dopo le elezioni regionali. Quella politica, certo: come recuperare alla nostra vita pubblica quanti se ne sono allontanati. I partiti - di destra e di sinistra - hanno subito promesso d’occuparsene, dato che a quanto pare l’astensionismo è bifronte come Giano. Che poi davvero ci riescano, è tutt’altra faccenda. C’è però un’altra faccia del problema: quella istituzionale. Sta di fatto che abbiamo appena registrato la più bassa affluenza della storia repubblicana: il 64,2%. Significa che il partito del non voto è ormai il primo partito politico italiano, ben più del Pdl, che a conti fatti riscuote il consenso di appena un italiano su 6. Anzi: se al 36% d’astenuti sommiamo le schede bianche e nulle, quel partito supera da Dc dei tempi d’oro. Tanto per dire, in Campania i voti invalidi toccano il 5,8%, in Lazio il 4,1%, in Basilicata il 6,7%, in Piemonte il 5,7%.

E allora è giusto lasciare senza voce il 40% del popolo italiano? Possiamo farlo, certo; però sapendo già in anticipo che in tale ipotesi la frustrazione non può che generare altra disaffezione. Oppure possiamo farci carico della domanda silenziosa uscita dalle urne. Quali che siano le sue ragioni individuali, il non voto esprime infatti un rifiuto della delega, e perciò l’aspirazione verso altri strumenti, altri canali di deliberazione. Sarebbe logico tenerne conto amputando in proporzione seggi e quattrini dei partiti, ma logica e politica non vanno quasi mai d’accordo; non per nulla Aristotele ne trattò in due opere distinte. Però dovremmo quantomeno potenziare gli istituti di democrazia diretta, a partire dal referendum, ormai rinsecchito come un vecchio tronco. Non accadrà, statene certi. Specialmente alle nostre latitudini, gli assenti hanno pur sempre torto, anche quando hanno ragione.

da lastampa.it


Titolo: MICHELE AINIS. La grande riforma di Arlecchino
Inserito da: Admin - Aprile 07, 2010, 04:34:55 pm
7/4/2010

La grande riforma di Arlecchino
   
MICHELE AINIS

Messe in archivio le elezioni, la politica ha ripreso a trastullarsi col suo gingillo preferito: le riforme costituzionali. Non è una novità, sono trent’anni che ci giriamo attorno. Nel frattempo abbiamo sfogliato tutti i petali di questa margherita, dal presidenzialismo al cancellierato, dal neoparlamentarismo al premierato. Ora è il turno del semipresidenzialismo in salsa francese, evocato a gran voce dalla Lega. Neanche questa è una prima assoluta, benché pochi ne serbino memoria. Un mercoledì di giugno del 1997 la Bicamerale di D'Alema lo scelse infatti come futuro sistema di governo, sia pure in modo alquanto accidentale. Era accaduto che i commissari della Lega, che da quattro mesi ne disertavano i lavori, si presentassero compatti al voto conclusivo, rovesciando la maggioranza favorevole alla premiership. Un’imboscata, ma alla fine tutti si dichiararono contenti, tanto per noi italiani ciò che conta è una bella targa straniera sul modello di riforma, francese o inglese fa lo stesso.

Sta di fatto che in Francia il semipresidenzialismo esprime precisi connotati. In primo luogo, nel 1958 venne imposto da De Gaulle con uno strappo costituzionale, giacché il progetto di riforma non fu mai discusso in Parlamento; ma speriamo che almeno questo ci venga risparmiato, dato che non abbiamo un’Algeria nei nostri confini, né i parà del generale Massu a rumoreggiare nelle piazze.

In secondo luogo, l'obiettivo di De Gaulle era di mettere un bavaglio alle assemblee elettive; e infatti il Parlamento francese non ha mai avuto una salute di ferro, nemmeno dopo la riforma predisposta nel 2008 dalla commissione Balladur. Per un Parlamento malaticcio com’è ormai quello italiano, il semipresidenzialismo insomma può risolversi nel colpo di grazia, quello che ti toglie il fiato in gola. In terzo luogo, e soprattutto, l’attributo più pregnante del modello francese descrive altresì il suo fattore di maggiore debolezza. La Quinta Repubblica - diceva Duverger - è infatti un’aquila a due teste, con un capo dello Stato eletto direttamente dal corpo elettorale e un Primo ministro sostenuto dalla maggioranza in Parlamento. Tutt’e due a dividersi il menu, talvolta litigando (è accaduto nei 9 anni di coabitazione fra esponenti di partiti avversi), talvolta con il secondo ridotto a maggiordomo del presidente in carica. Da qui una perenne fonte d'incertezza: non a caso in mezzo secolo di vita la Costituzione francese ha attraversato 23 revisioni.

Ma forse per i politici italiani vale di più l’unica certezza che si può comprare in Francia: la doppia poltrona. In una ci fai sedere Berlusconi, nell’altra può sempre accomodarsi Bossi. E Fini? Se il metro di giudizio è questo, più che un semipresidenzialismo servirebbe un tripresidenzialismo, un presidenzialismo al cubo. Senza dire che i modelli non si possono copiare a pezzi, questo sì, quello no. In Francia c'è una legge elettorale che contempla il doppio turno, e che a sua volta è un po’ come il cemento che tiene insieme l’edificio: prendiamo pure quella? Sempre in Francia c’è uno Stato accentrato, dove i 36 mila municipi hanno ben pochi poteri, le regioni men che meno, e dove i prefetti esprimono la voce del padrone: come si concilia questo monolite con il federalismo della Lega? Tanto varrebbe allora spingere lo sguardo verso un autentico Stato federale, gli Usa di Barack Obama. A patto d’importare tuttavia anche i poteri del Congresso americano, dove il presidente non può nemmeno metter piede. Nonché la sacralità del potere giudiziario, che può permettersi di convocare il Papa in qualità di testimone, come è stato appena chiesto al tribunale di Louisville.

No, non è un vestito d’Arlecchino l’abito che ci renderà eleganti. Né un vestito preso a prestito, perché ogni popolo ha la sua taglia, e ha pure la sua storia. La nostra racconta un’indipendenza nazionale che dura da 150 anni; tornare al rango di coloni sarebbe il modo peggiore di far festa.

michele.ainis@uniroma3.it
da lastampa.it


Titolo: MICHELE AINIS. Dizionario delle riforme
Inserito da: Admin - Aprile 11, 2010, 11:17:53 am
11/4/2010

Dizionario delle riforme

MICHELE AINIS

Le riforme? Una bevanda più eccitante del caffè per i politici italiani, camomilla per i comuni mortali.


Anche perché questa materia talvolta suona astrusa per gli stessi addetti ai lavori. Diciamo allora che si tratta di ridisegnare la carrozzeria della macchina statale, correggendo il sedile del pilota nonché il numero dei passeggeri a bordo. E per orientarci nella scelta proviamo a compilare un dizionario dei modelli in catalogo.

PRESIDENZIALISMO
Di questi tempi è il mantra dei nostri ri-costituenti. Nell’immaginario collettivo significa un presidente eletto direttamente dal corpo elettorale, con i poteri del comandante in capo. Scendendo nei dettagli, diciamo innanzitutto che quest'uomo (o donna, perché no?) può indossare un abito da capo del governo o dello Stato. La prima soluzione è stata sperimentata soltanto in Israele, ha innescato una grande quantità di pasticci e di bisticci, infine - dopo le elezioni del 2001 - gli stessi israeliani l’hanno gettata nel cestino dei rifiuti. D’altronde è pressoché impossibile conciliare il primato del presidente del Consiglio con il primato delle assemblee rappresentative, quando il sistema resti nell’alveo delle democrazie parlamentari. Largo perciò alla seconda alternativa, ma anche qui: attenzione. In Austria, Irlanda, Islanda il capo dello Stato ottiene un’investitura popolare, ma ha solo poteri di facciata. Tutt'altra musica negli Usa, dove il presidenzialismo ha ricevuto i suoi natali. Lì il presidente governa in solitudine, nomina e revoca i ministri (per meglio dire, i segretari di Stato), è indipendente dal Congresso (che non può sfiduciarlo). Però il Congresso a propria volta tiene i cordoni della borsa, mette becco nelle nomine, può azionare l’impeachment contro il presidente (per evitarlo Nixon si dimise dopo il Watergate), ha infine il monopolio dell’attività legislativa, giacché il veto presidenziale è superabile con la maggioranza dei due terzi. E le elezioni di mid term, che intervengono a metà del suo mandato, segnano spesso il predominio del partito avverso al presidente. Senza dire del corpo giudiziario, forse il più potente al mondo. Insomma una rigida separazione dei poteri, pesi e contrappesi perfettamente bilanciati. In difetto di questa condizione il presidenzialismo diventa una caricatura, come avviene in Sudamerica: tu lo scegli aspettandoti l’Obama italiano, ti ritrovi in casa un caudillo col faccione di Chávez.

SEMIPRESIDENZIALISMO
È il modello inventato in Francia da De Gaulle, e poi esportato per esempio in Portogallo. Un’aquila a due teste, perché il Capo dello Stato viene eletto a suffragio universale, può sciogliere le Camere, decide la politica estera, promuove i referendum, ha poteri speciali durante le situazioni di crisi. Per converso il Primo ministro guida il potere esecutivo, ma per restare in sella deve conservare la fiducia del Parlamento. Un guaio, quando quest’ultimo esprime maggioranze antagoniste rispetto a quella incarnata dal Capo dello Stato (in Francia è successo per un tempo complessivo di 9 anni); anche perché, con un esecutivo frazionato e un legislativo sotto tiro, la separazione dei poteri diventa piuttosto commistione, se non confusione dei poteri. Sarà per questo che in Italia il semipresidenzialismo raccoglie così tanti tifosi.

PREMIERATO
Qui entriamo nella lunga galleria dei sistemi parlamentari, dove l’indirizzo politico viene consegnato al tandem governo-Parlamento. La variante inglese (modello Westminster) s’incentra sul ruolo del premier, al contempo leader del partito di maggioranza alla Camera dei comuni e vertice del potere esecutivo. Per offrire buona prova, questa forma di governo presuppone però un sistema bipartitico, nonché l'adesione a un corpo di regole non scritte (conventions) che limitano la concentrazione del potere. Nel Regno Unito nessuno si sogna di violarle, in Italia facciamo fatica a rispettare pure le norme scritte. Inoltre il premierato non impedisce di sostituire il capo senza passare per le urne: nel 1990 ne fece le spese perfino la Thatcher, sostituita dai conservatori con John Major.

CANCELLIERATO
In questi anni espone il viso rubicondo della Merkel, Cancelliere federale della Repubblica tedesca. I suoi poteri? Di netta prevalenza sui ministri, ma pur sempre costretta a un’estenuante attività di mediazione tra i partiti che formano la coalizione di governo. Se non ci riesce, cade in Parlamento, attraverso una mozione di sfiducia «costruttiva». Significa che il Bundestag elegge nello stesso tempo, a maggioranza assoluta, un nuovo cancelliere; o altrimenti tutti a casa, si sciolgono le Camere. Difatti in Germania il rapporto fiduciario corre tra l’assemblea legislativa e il capo del governo, non con l’esecutivo nel suo insieme. Da qui una certa personalizzazione del potere, senza però mortificare il Parlamento.

SISTEMA ELETTORALE
È il convitato di pietra che identifica le diverse forme di governo, benché le Costituzioni in genere siano silenziose su questo punto decisivo. Lo è anche la Carta italiana, ma i padri fondatori la scrissero strizzando l'occhio al proporzionale; non a caso quando nei primi anni Novanta gli abbiamo dato il benservito, orientandoci verso un maggioritario sia pure un po’ bastardo, in quel momento la seconda Repubblica ha ricevuto il suo battesimo. E così in Italia le simpatie verso il Cancellierato, da parte dei centristi e dei centrini, sono in realtà attizzate da una voglia di proporzionale, con una legge elettorale alla tedesca; i fan del premierato preferiscono al contrario un maggioritario di stampo anglosassone; i semipresidenzialisti hanno in testa il doppio turno alla francese. O almeno dovrebbero, giacché la coerenza non è la nostra massima virtù. Magari va a finire che cambiamo forma di governo tenendoci stretta questa legge elettorale, deprecata in pubblico, benedetta in privato dai segretari di partito. D’altronde come dargli torto, è così comodo scegliere i parlamentari uno per uno, senza nemmeno importunare gli elettori.

da lastampa.it


Titolo: MICHELE AINIS. Ma la politica non sa dare le regole
Inserito da: Admin - Aprile 15, 2010, 09:47:27 am
15/4/2010

Ma la politica non sa dare le regole

MICHELE AINIS

Qualcuno si dispera, qualcun altro si spella le mani. Hanno torto, gli uni e gli altri. Nonostante l’apparenza, la decisione della Consulta non è una porta chiusa in faccia alle coppie omosessuali. Il varco che rimane ancora aperto sta tutto nel riferimento alla «discrezionalità del legislatore». Significa che la Corte non si è spinta oltre per non invadere le competenze riservate al Parlamento; ma significa al contempo che la Costituzione non pone alcun divieto verso l’allargamento dei diritti familiari alla tribù dei gay. La prima conclusione suonerebbe ovvia dappertutto, salvo che alle nostre latitudini.

Non è forse qui in Italia che il governo accusa a giorni alterni la Consulta d’appropriarsi di funzioni riservate alle assemblee elettive? Non abbiamo ascoltato mille volte parole arroventate contro i giudici costituzionali comunisti, che sovvertono a colpi di sentenza le scelte del popolo sovrano? Quest’ultima pronunzia ne è la smentita più efficace. D’altronde, quantomeno nel caso di specie, le speranze degli esclusi erano destinate giocoforza a cadere nel vuoto: il diritto al matrimonio omosessuale, per rendersi effettivo, postula infatti un apparato di regole minute (di tecnicalità, come s’usa dire in gergo) che una sentenza non può confezionare. Il tribunale costituzionale lavora su materiali normativi già esistenti, non può sostituirsi ai muratori, né tantomeno agli architetti. E lavora per sottrazione, demolendo questo o quel mattone. Un legislatore «negativo», come diceva Kelsen.

Persino il faro giudiziario dei gay di tutto il mondo - la Corte suprema della California, che nel 2008 sancì il loro diritto al matrimonio - è una prova vivente di tali limitazioni. Laggiù, dieci anni fa, prima una legge e successivamente un referendum definirono il matrimonio come un’unione tra persone di sesso diverso, pur garantendo alle coppie omosessuali gli stessi diritti di quelle coniugate. Dunque una differenza puramente nominale, ma tanto bastò alla Corte americana per castigarla in nome del principio di non discriminazione. C’era una legge, insomma, su cui i giudici calarono la scure. E quando un altro referendum modificò la Costituzione dello Stato, chiarendo una volta per tutte che il matrimonio può celebrarsi soltanto fra una donna e un uomo, gli stessi giudici alzarono le braccia.

E in Italia? Rimane ancora un vuoto normativo profondo come un pozzo. Si tratta allora di capire quanta acqua sgorgherà dal rubinetto della Corte Costituzionale. Per saperlo, bisognerà tuttavia leggere la decisione per intero. Si dice sempre così, ma almeno in questo caso non è una clausola di stile. È importante che la Corte abbia definito una political question la garanzia delle unioni omosessuali, ma è altrettanto importante il parametro costituzionale cui andrà ancorata la futura attività legislativa. Per la verità, l’infondatezza pronunziata rispetto agli articoli 3 (che vieta di discriminare in base al sesso) e 29 della Costituzione (che menziona la famiglia e il matrimonio, senza definirli) parrebbe escludere ogni spazio alle nozze omosessuali. Per converso, l’inammissibilità rispetto all’art. 2 (dove vengono evocati i diritti inviolabili dell’uomo) parrebbe un invito al Parlamento affinché detti una disciplina paramatrimoniale, sul modello dei Pacs vigenti in Francia e in vari altri Paesi. Ma i tribunali di Trento e di Venezia, che hanno sollevato la questione, chiedevano una risposta sulla legittimità del matrimonio omosessuale, non delle sue buone o cattive imitazioni.

Quale che sia in ultimo il responso della Corte, c’è un che di disperante in quest’appello alla politica. Non perché l’appello sia sbagliato, perché è sbagliata la politica. Negli ultimi anni sono via via emersi e subito affondati in Parlamento i Dico, i Cus, i Didorè. Si direbbero altrettante canzonette, e forse in realtà lo sono. Le note stonate con cui ci canzona la politica.

michele.ainis@uniroma3.it
da lastampa.it


Titolo: MICHELE AINIS. Gelmini e la disunità dello Stivale
Inserito da: Admin - Aprile 23, 2010, 12:02:11 pm
22/4/2010

Gelmini e la disunità dello Stivale

MICHELE AINIS

Al suo rientro nella vita pubblica dopo la maternità (auguri), il ministro Gelmini ha battezzato la prima iniziativa per celebrare i 150 anni dell’Italia unita: la disunione dei docenti. Come? Con una legge sugli insegnanti regionali, che ammetta in graduatoria soltanto chi risiede in quel determinato territorio.

L’idea già discussa ieri da Marco Rossi-Doria su queste medesime colonne porta con sé un problema però, almeno per noi che a scuola abbiamo studiato un po’ di logica. Anzi, i problemi sono almeno tre. Primo: il ministro ha dichiarato che la nuova legge introdurrà la meritocrazia nel corpo docente; e allora che ci azzecca la carta d’identità? Semmai è vero il contrario, perché le graduatorie regionali sarebbero un imbuto, un ostacolo alla selezione dei migliori. Secondo: sempre il ministro si è sgolato mille volte contro il provincialismo degli atenei italiani, contro i concorsi locali che fin qui hanno permesso d’allevare professori che non respirano se non l’aria di casa. Sicché li ha poi sostituiti con un unico concorso nazionale, e ha fatto bene. Ma allora come si spiega questa schizofrenia legislativa? Se l’obiettivo è quello (sacrosanto) d’ancorare i docenti per un certo lasso temporale ai propri studenti, basta imitare l’università, dove quando vinci un concorso non puoi schiodarti prima di tre anni. Terzo: il federalismo, la nuova divinità cui rendiamo omaggio a giorni alterni, anche con sacrifici umani. Si dà il caso però che nella più antica nazione federale al mondo - gli Stati Uniti - con un’idea del genere ti prenderebbero a sassate, non foss’altro perché ogni americano cambia Stato in media quattro volte nella vita.

E c’è poi una questione di diritto, ammesso che in Italia la legalità sia una faccenda seria. O meglio c’è una questione di diritti, e dunque di legalità costituzionale. Non per dare i numeri, ma l’art. 3 della Costituzione sta ancora lì a dettare il principio d’eguaglianza. A sua volta l’art. 51 specifica il medesimo principio circa l’accesso ai pubblici uffici. L’art. 97 impone il reclutamento dei migliori nelle prove concorsuali, senza riguardo al loro indirizzo postale. Infine l’art. 4 pone l'obiettivo della piena occupazione: ma con una riforma così sarà difficile raggiungerlo non solo per i palermitani, anche per i genovesi, dato che la Liguria ha molti meno posti d’insegnante che la Lombardia.

Non basta? E allora leggiamo insieme l’art. 120: «La Regione non può adottare provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose tra le Regioni, né limitare l’esercizio del diritto al lavoro in qualunque parte del territorio nazionale». Per comprenderne il significato non serve conoscere il diritto, è sufficiente capire l’italiano. Ma forse varrà la pena ricordare che nel 1947 i costituenti l’approvarono quasi senza discussione, tutti d’accordo nel porre un argine agli egoismi localistici, onde impedire - dissero Condorelli e Nobile - che in futuro il Veneto potesse vietare ai calabresi d’aprire uno studio medico, e che per ritorsione la Calabria chiudesse i suoi confini agli ingegneri veneti. I nostri padri fondatori avevano la vista lunga, non c’è che dire; anche se poi i costituzionalisti hanno giudicato superflua questa norma, perché la libertà di circolazione e di soggiorno viene già protetta dall’art. 16 della Carta Costituzionale.

C’è un modo per superare i vincoli giuridici che sbarrano il passo a quest’ultima trovata? Sì che c’è, cambiando la Costituzione. Bisognerà correggerne mezza dozzina di disposizioni, ma con un po’ di pazienza l’impresa può riuscire. Peccato tuttavia che il diritto comunitario, fin dal 1957, garantisca a propria volta la libera circolazione dei lavoratori. Brutta notizia per chi vuol dividere l’Italia; magari può provarci, ma non potrà dividerla dal resto d’Europa.

da lastampa.it


Titolo: MICHELE AINIS. Il Presidente non è un re
Inserito da: Admin - Aprile 25, 2010, 05:57:55 pm
25/4/2010

Il Presidente non è un re

MICHELE AINIS

L’ultimo episodio si è consumato ieri. Il prossimo accadrà domani, o magari già stasera. Dal lodo Alfano al decreto di riordino delle fondazioni liriche, non c’è provvedimento normativo del governo sul quale non s’invochi l’altolà del Capo dello Stato.
Come un baluardo estremo contro l’invasore. Sicché la Resistenza di cui celebriamo l’anniversario, oggi s’incarna - nell’immaginario collettivo - nel doppiopetto blu del Presidente, un uomo solo nel deserto abbandonato dai politici.

Come si è innescato questo clima? C’è indubbiamente una responsabilità generale dei partiti, incapaci di rinnovarsi e di rinnovare la faccia rugosa del Paese, refrattari alla legalità, abitati per lo più da carrieristi senz’anima e senza ideali. Da qui il divorzio fra eletti ed elettori, da qui la crisi di legittimazione e di fiducia che investe la politica. Le prove? Basta contare il popolo del non voto alle scorse elezioni regionali: quattro italiani su dieci.
C’è poi, in secondo luogo, una specifica responsabilità della maggioranza di governo. Non perché in questo biennio l’esecutivo non abbia saputo cogliere successi concreti, liberando il Paese dai veti incrociati che paralizzarono l’azione di Prodi, risolvendo alcune emergenze nazionali, procedendo con passo spedito alla realizzazione del programma di governo. Il guaio è che troppo spesso i suoi ministri marciano con un elmetto in testa, trattano il Parlamento come un accidente fastidioso, scambiano la Repubblica per un sultanato. Da qui la deriva plebiscitaria e populistica che percorre ormai le stesse istituzioni; da qui l’insofferenza per le regole, nonché per i custodi delle regole. Da qui, in breve, la sovraesposizione del nostro Presidente, costretto ad arbitrare una rissa quotidiana fra i poteri dello Stato.

Ma c’è anche, in terzo luogo, una precisa responsabilità della minoranza parlamentare, e dunque soprattutto del Pd. Sta di fatto che dopo lo scontro pubblico fra Berlusconi e Fini, il Popolo della libertà occupa ormai tutti gli spazi della scena politica italiana, è maggioranza e opposizione insieme, tanto l’opposizione di sinistra ha già lasciato libera da tempo la poltrona su cui stava seduta. Per impotenza? Per mediocrità politica? Perché l’unico sport che appassiona i signori del Pd è la caccia al segretario? Non è qui importante ragionare sulle cause.

Ma gli effetti sul suo elettorato sì, quelli possiamo misurarli senza bisogno d’inforcare un paio di occhiali. Se il partito non sa più difendere i valori per cui a suo tempo l’ho votato, allora non mi resta che confidare nei garanti, nelle istituzioni super partes. Può trattarsi del presidente della Camera, o dei giudici costituzionali, o per l’appunto del Capo dello Stato.
Ma non è affatto questo il loro mestiere, e non è questo l’abito che la Costituzione cuce addosso al Capo dello Stato. Lui ha il potere di convalidare gli atti legislativi, può dunque negare la sua firma a un decreto legge oppure rifiutare la promulgazione d’una legge approvata dalle Camere. Però non è un re repubblicano, non è una terza Camera cui spetti valutare il merito della decisione politica confezionata in una legge. Non è neppure una Corte Costituzionale di primo grado, con un semaforo rosso sempre acceso sui vizi di legittimità. Il Presidente - afferma l’articolo 87 della nostra Carta - rappresenta l’unità nazionale. Tirarlo per la giacca in nome della disunione è un pessimo servizio alle nostre istituzioni.

michele.ainis@uniroma3.it

da lastampa.it


Titolo: MICHELE AINIS. Ghino di Tacco dà scacco alla Regina
Inserito da: Admin - Maggio 10, 2010, 11:24:57 am
10/5/2010

Ghino di Tacco dà scacco alla Regina

MICHELE AINIS

Il maggioritario inglese? Sembrava che per loro fosse come la regina, una bandiera nazionale. E ai nostri occhi era il sistema perfetto, quello che ti consegna il governo chiavi in mano un minuto dopo le elezioni. First past the post: un partito vince, l’altro perde. Invece passano i giorni, ma neanche i bookmakers scommettono su quale sarà la maggioranza in Parlamento. Di più: fra i leader politici del regno è in corso un balletto d’incontri e trattative, roba da oscurare i riti postelettorali della Prima Repubblica italiana.

Ricordate? A quel tempo c’era il proporzionale puro, c’erano due grandi partiti (la Dc e il Pci), e c’era infine un terzo incomodo (il Psi) ago della bilancia per ogni esecutivo, e perciò dotato d’un potere di veto e di ricatto. Tanto che il suo segretario - Bettino Craxi - firmava i propri editoriali sull’Avanti! con lo pseudonimo Ghino di Tacco, il celebre bandito medievale. Rieccolo sotto nuove spoglie, quelle del liberaldemocratico Nick Clegg. Tutti lo cercano, lui accetta la corte dei Tory di Cameron, intanto strizza l’occhio ai laburisti di Brown. Ma per concedere all’uno o all’altro i suoi favori, vuole in dote una nuova legge elettorale. Quale? Un proporzionale all’italiana, o meglio dell’Italia che fu.

Dal suo punto di vista, ha tutte le ragioni. I liberaldemocratici hanno rastrellato quasi un quarto dei consensi, ma incassano solo un ottavo dei rappresentanti alla Camera dei comuni. I laburisti, con appena 5 punti percentuali in più, guadagnano 258 seggi, il quintuplo dei lib-dem. Dunque la riforma elettorale è l’unica stampella che possa garantire un futuro politico a Nick Clegg. Per appoggiarvi il braccio, dovrà convincere gli altri a sbarazzarsi d’un maggioritario che alla prova dei fatti si è rivelato troppo rude, troppo impietoso con i piccoli. E che oltretutto distorce l’esito del voto, come peraltro è già successo a lettere maiuscole in vari casi nel passato. Per esempio nel 2005, quando Blair con il 35% dei voti ottenne il 55% dei seggi. O nel 1974, quando il responso elettorale venne addirittura rovesciato: ai conservatori la maggioranza dei suffragi, ai laburisti la maggioranza in Parlamento.

Nei sistemi maggioritari può accadere, e infatti la stessa giravolta si verificò in Nuova Zelanda nel 1981. Ecco perché secondo Kelsen il proporzionale è garanzia di libertà, mentre il maggioritario alleva la dittatura dei più forti. Tuttavia la novità di queste ultime elezioni inglesi è che il maggioritario ha mancato proprio il traguardo che dovrebbe sempre assicurare: la governabilità. Tanto da regalare munizioni all’Independent e a quella parte (crescente) d’opinione pubblica che se ne dichiara stufa. E allora possiamo trarne una doppia lezione, noi italiani impiccati da vent’anni a discutere l’ennesima riforma della legge di riforma elettorale.

Primo: non esiste un congegno perfetto. In teoria un buon sistema dovrebbe coniugare rappresentanza e governabilità; facile a dirsi, un po’ meno a farsi. Anche perché in queste faccende contano i dettagli, più che i principi luminosi. Nel Regno Unito la tecnica del gerrymandering, ossia il ritaglio dei collegi elettorali per favorire questo o quel partito in base alla distribuzione geografica dei voti, determina il rendimento dell’uninominale. Di questo, però, i politici inglesi non amano parlare. E quelli italiani? Uguale.

Secondo: la legge elettorale è un po’ come il motore, ma poi conta il pilota, ovvero il sistema dei partiti. I quali a loro volta - quando cucinano una nuova legge elettorale - non puntano ai massimi sistemi, ma più prosaicamente al massimo vantaggio. In altre parole, ogni partito cerca di buggerare gli elettori altrui per favorire i propri. Gli elettori, però, sono quelli che mettono benzina nel motore. Se li prendi troppo per il naso, poi non meravigliarti se l’automobile ti rimane a secco.

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Titolo: MICHELE AINIS. Quale unità custodire
Inserito da: Admin - Maggio 12, 2010, 10:04:04 am
12/5/2010

Quale unità custodire

MICHELE AINIS

L’unità nazionale è figlia della storia, di processi culturali, fatti linguistici, intraprese politiche, fenomeni sociali. Ma è anche frutto del diritto: senza coesione giuridica non c’è unità politica, senza un tessuto di regole comuni e condivise è impossibile la stessa convivenza. Dunque il diritto non può creare l’unità nazionale, però deve alimentarla, e in conclusione deve conservarla.

A questa vocazione risponde innanzitutto la legge più alta, quella scolpita nelle tavole costituzionali. Nei 150 anni dell’Italia unita ne incontriamo due, diverse nella propria genesi, nella concezione dei rapporti fra lo Stato e i cittadini, nell’architettura della cittadella pubblica. Eppure c’è almeno un filo di continuità fra lo Statuto Albertino e la Carta repubblicana: l’uno e l’altra sono stati concepiti con lo sguardo rivolto al futuro, alle generazioni che verranno. Nel più autorevole commento allo Statuto, firmato da Racioppi e Brunelli, quest’ultimo era raffigurato come una sorgente di «principii in attesa della loro sostanza vitale». Un secolo più tardi Piero Calamandrei illustrò il medesimo concetto sui banchi dell’Assemblea Costituente; e rivolgendosi agli altri deputati li esortò a operare, secondo il verso dantesco, «come quei che va di notte, che porta il lume dietro e a sé non giova, ma dopo sé fa le persone dotte».

C’è insomma una tradizione giuridica italiana che si mantiene inalterata pur nel passaggio dal regno alla repubblica; ma in che misura si è tradotta in un fattore d’unificazione? Se effettuassimo un esame intransigente, dovremmo stendere un bilancio in rosso. Sull’unità degli italiani pesano fratture storiche mai del tutto ricucite: quella fra élite e masse popolari, a partire dal modo in cui le classi dirigenti sabaude gestirono il nuovo Stato nazionale; quella fra laici e cattolici dopo il Non expedit di Pio IX; la guerra civile dopo l’8 settembre; la conta fra monarchici e repubblicani; lo scontro fra partiti di sistema e partiti antisistema, gli uni e gli altri - significativamente - con un riferimento fuori dal contesto nazionale (Washington, Mosca, Città del Vaticano). E pesa infine una questione meridionale che nel tempo si è aggravata, invece d’attenuarsi.

Tuttavia gli ostacoli al sentimento unitario non devono indurci a negare quello stesso sentimento. Vale per l’unità nazionale, vale per tutti gli altri valori espressi dalla Costituzione, a cominciare dai valori di eguaglianza e libertà. Potrà mai esistere una società totalmente libera, totalmente eguale? Non su questa terra, perché la vita stessa genera ogni giorno nuove situazioni di diseguaglianza, nuove ferite alla libertà degli individui. Conta allora la tensione verso l’eguaglianza, verso la libertà, infine verso l’unità. La condizione umana riecheggia la fatica di Sisifo, ciascuno di noi porta un masso sulle spalle, senza mai riuscire a liberarsene. A loro volta i valori costituzionali sono come l’orizzonte che ci sovrasta: non possiamo toccarlo con le mani, ma non possiamo neppure evitare di tendervi lo sguardo.

Nella Carta repubblicana, questo orizzonte si disegna nell’art. 5: «La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali». Una formula icastica, che però fu ritenuta a lungo una scatola vuota. Per quale ragione? Perché ospita due principi che a prima vista si negano l’un l’altro, perché l’unità è nemica della diversità. Ma l’identità - in termini aristotelici - è sempre un divenire, sia per i singoli sia per i corpi collettivi. In secondo luogo, l’unità non è uniformità: anche il matrimonio è un’unione fra sessi diversi, e d’altronde l’unione dell’uno sarebbe un ossimoro. In terzo luogo, in democrazia l’unità è a sua volta pluralista, il pluralismo genera l’autonomia delle comunità locali, e l’autonomia esprime una carica antiautoritaria, perché avvicina governanti e governati. Da qui la doppia valenza dell’art. 5: vi si estrae sia un principio propulsivo, nel senso del decentramento del potere pubblico; sia un principio negativo, un argine a riforme che possano disgregare il nostro tessuto connettivo, anche se approvate nella forma della legge costituzionale.

Ma a chi spetta custodire l’unità? Dice l’art. 87: «Il Presidente della Repubblica rappresenta l’unità nazionale». Anche in questo caso la formula costituzionale inizialmente venne irrisa, fino a qualificarla espressione «poetica» o al più pleonastica. Sennonché - come osservò Ruini in Assemblea costituente - vi s’incarna «la forza permanente dello Stato al di sopra delle fuggevoli maggioranze». Certo: il Presidente è specchio dell’unità che c’è, può rifletterla, non può crearla artificiosamente. Anche il suo ruolo di custode sarebbe impotente dinanzi a fenomeni insurrezionali, quando il fatto diventa diritto. Ma l’esperienza insegna che i valori costituzionali possono venire erosi gradualmente, in forme oblique, attraverso una pioggia d’episodi minori che in conclusione ne faccia marcire le radici. E questo pericolo chiama in causa non solo il Capo dello Stato, bensì ciascuno di noi, la vigilanza di ogni cittadino.

michele.ainis@uniroma3.it
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Titolo: MICHELE AINIS. Intercettazioni costituzione e buon senso
Inserito da: Admin - Maggio 26, 2010, 03:35:07 pm
26/5/2010

Intercettazioni costituzione e buon senso
   
MICHELE AINIS

L’incostituzionalità di una legge può essere provata solo quando la Consulta ci mette sopra un timbro.

Prima d'allora è un semplice sospetto, o in qualche caso un dubbio. Eppure il disegno di legge sulle intercettazioni è proprio di questo che ha bisogno: un esame urgente di costituzionalità. Se il Parlamento vi si dedicasse, farebbe certamente meno danni.

Nel caso di specie vengono in gioco tre libertà fondamentali: il diritto alla giustizia; il diritto alla riservatezza; il diritto all'informazione. Qualcuno saprebbe rinunziare all'uno o all'altro? Nessuno, né tra gli avversari né tra i tifosi di quest'ultimo provvedimento normativo. Difatti l'esistenza di una macchina giudiziaria capace di reprimere i delitti garantisce la nostra sicurezza collettiva: senza legalità saremmo come bestie nella giungla. A sua volta, il diritto alla privacy ci tutela contro l'invadenza dei poteri pubblici e privati: senza il dominio sulla nostra sfera intima, senza la possibilità d'appartarci fra le mura domestiche, saremmo come gli uomini narrati da Orwell, altrettante marionette del Grande Fratello. Quanto alla libertà d'informazione, non a caso la Corte Costituzionale - in una celeberrima sentenza del 1969 - l'ha definita «pietra angolare della democrazia». L'improvvisa sintonia fra tutti i direttori di giornale contro la stretta sulle intercettazioni può aver lasciato nei lettori un retrogusto amaro, l'idea d'una reazione difensiva, se non corporativa. Non è così: il lavoro dei giornalisti è in funzione della nostra libertà di cittadini. Se non avessimo più accesso alle notizie, tanto varrebbe confiscarci pure il voto.

Com'è possibile dunque miscelare questi tre ingredienti senza offendere la Costituzione? Tutto sommato, basterebbe evitare d'offendere il buon senso. Non serve una laurea in legge per capire che se in nome della privacy strangolo la legalità e l'informazione sarò un assassino, non un gendarme dei diritti. È insomma una questione di misura; o in termini giuridici di bilanciamento, di proporzione tra il dare e l'avere. D'altronde se mi metto in tasca un sassolino raccolto nella villa comunale, nessuno mi processerà per furto; ma se comincio a spalare terra per riempirci un camion, prima o poi arriverà una volante a sirene spiegate.

Ma non c'è misura in questa legge, a partire dalle sue stesse dimensioni: 5654 parole nel testo licenziato dalla Camera, prima che il Senato aggiungesse le proprie filastrocche. Non c'è misura in questo testo che comincia dalla lettera h-bis) ed esplode in un trionfo d'avverbi quando enumera le condizioni per rendere valide le intercettazioni: devono essere «assolutamente» indispensabili sulla base di esigenze «espressamente e analiticamente» indicate. Non c'è misura nel trattare la privacy del delinquente abituale alla pari di quella del cittadino onesto, né nel difendere la riservatezza dei politici, di cui dovremmo sapere pur qualcosa dato che ci domandano il voto. Non c'è misura in una procedura che si risolve nella processione del pm prima nello studio del procuratore, poi dinanzi al tribunale in composizione collegiale, doppia autorizzazione, doppie carte, tempi al quadrato. Infine non c'è misura - o forse ce n'è troppa - nel termine di 75 giorni per gli ascolti, anche se il giorno prima hai catturato per caso la voce di Bin Laden.

Basterà a sanare queste pecche il recupero del testo approvato dalla Camera, che permetteva la pubblicazione «per riassunto» delle intercettazioni? Come ha scritto Mario Calabresi, se ai pm viene sostanzialmente impedito il lavoro d'investigazione, i giornali non avranno più nulla da riassumere. Del resto non è il solo aspetto irrazionale della legge. C'è per esempio la metamorfosi dei quotidiani in libri di storia, giacché l'informazione dettagliata potrà venire pubblicata soltanto dopo l'udienza preliminare, e quindi dopo vari anni dall'arresto. C'è il divieto d'intercettare quando l'ascolto è utile, e il permesso quando è inutile. E c'è in conclusione l'oscuramento del buon senso: vietato intercettarlo.

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Titolo: MICHELE AINIS. L'impresa e l'alibi dell'articolo 41
Inserito da: Admin - Giugno 08, 2010, 10:23:22 am
8/6/2010
L'impresa e l'alibi dell'articolo 41
   
MICHELE AINIS

La Carta costituzionale è al contempo la carta d’identità di un popolo. Ne elenca i tratti culturali, anziché quelli somatici. Poiché in Italia nessuno la conosce, significa che non abbiamo idea di cosa siamo. Peggio: significa che ci sentiamo liberi di plasmare ogni mattina i nostri connotati, senza preoccuparci della fotografia scattata dai Costituenti. Ma c’è un’insidia più grave dell’oblio: il falso ricordo, tanto più se procurato con l’inganno. Un esempio potrà forse aiutarci a risvegliare la memoria.

Quale? L’art. 41 della Costituzione. Urge cambiarlo, ha detto nei giorni scorsi il ministro dell’Economia. Altrimenti la libertà d’impresa rimarrà per sempre una chimera, ostaggio d’uno Stato ficcanaso. Applausi bipartisan, con l’opposizione - da Morando a Violante - pronta a concorrere a questa rivoluzione liberale. E i cittadini? Avranno pensato che quella norma l’aveva vergata di suo pugno Stalin, che la Costituzione italiana del 1947 sia una ristampa anastatica della Costituzione sovietica del 1936. Poiché il professor Tremonti è persona colta, lui certamente sa cosa c’è scritto nei tre commi dell’art. 41. Noi invece dei nostri studi ci fidiamo poco, sicché apriamo un codice e inforchiamo un paio d’occhiali.

Primo comma: «L’iniziativa economica privata è libera». Dunque o stiamo consultando un testo apocrifo, oppure la libertà d’impresa ricade già fra i nostri valori collettivi. Che altro dovremmo aggiungerci per renderla più libera? Forse un termine di comparazione: libera come il vento, come un pesce, come il Popolo della libertà. Ma andiamo avanti, magari l’intralcio sbuca dal rigo successivo. Secondo comma: «Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». E che dovremmo dire? Che le imprese d’ora in poi saranno inutili o dannose? Che gli industriali devono esser liberi di brevettare giocattoli pericolosi, auto inquinanti, ecomostri, farmaci nocivi? Che possono trasformare le loro fabbriche in altrettanti lager?

Eppure è questo il gluteo su cui andrebbe a conficcarsi l’iniezione ri-costituente. Non può trattarsi infatti del terzo e ultimo comma: «La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali». Perché no? Perché senza controlli ciascuno farebbe un po’ come gli pare, svuotando il secondo comma dell’art. 41. Altrimenti sarebbe come predicare la sicurezza sulle strade, licenziando al contempo tutti i vigili urbani. E perché se in tale norma s’individua viceversa la matrice delle leggi di piano, è bene ricordare che la prima e ultima legge di tal genere venne approvata nel 1967. Basta lasciare in sonno il terzo comma, dato che dorme da più di quarant’anni. A meno che il problema non siano i «fini sociali» dell’economia pubblica e privata. Si sa che il Pdl, quando sente menzionare Fini, fa un salto sulla sedia.

Insomma l’art. 41 non è che un alibi, uno schermo. Serve a scaricare sulla Costituzione l’impotenza dei politici a inaugurare una stagione di riforme liberali. Dice: ma l’art. 41 tace sulla libertà di concorrenza. E allora? Sarebbe forse incostituzionale l’Antitrust (per chiamarla col suo nome di battesimo: Autorità garante della concorrenza e del mercato), che bene o male funziona dal 1990? Non c’è forse l’art. 117 della Costituzione, che assegna alla legislazione dello Stato la «tutela della concorrenza»? Non c’è un fiume di norme europee - recepite nel nostro ordinamento - che a loro volta proteggono il libero mercato? Altrimenti non si capirebbe perché mai nella giurisprudenza costituzionale la «tutela della concorrenza» figuri in 131 decisioni, il «libero mercato» in 44, la «libertà di iniziativa economica privata» in 81, e via elencando.

Ma dopotutto non è questo ciò che importa. In Italia non conta la Costituzione scritta, conta quella immaginata. Occorre un bel po’ di fantasia, però i nostri politici ne hanno la bisaccia piena. Come diceva Giambattista Vico, la fantasia tanto più è robusta quanto più è debole il raziocinio.

michele.ainis@uniroma3.it
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Titolo: MICHELE AINIS. Il giurista e le interviste partigiane
Inserito da: Admin - Giugno 17, 2010, 09:16:18 am
17/6/2010 - LA POLEMICA

Il giurista e le interviste partigiane
   
MICHELE AINIS

C’ erano un tempo politici di destra e di sinistra, ciascuno intruppato nel proprio schieramento.

Ora ti capita d'incrociare Gianfranco Fini, che milita a destra ma è caro alla sinistra.

Oppure Pierferdinando Casini, che in Parlamento vota insieme alla sinistra mentre il suo cuore batte a destra. Chi può restituirci le nostre geometrie perdute? Stampa e tv una soluzione l'hanno rimediata: i costituzionalisti.

Ne parlo qui per esperienza personale, ma è l'esperienza di tutti i miei colleghi. C'è in cantiere una legge sulle intercettazioni? Doppia intervista con un giurista contrario alla nuova normativa e uno favorevole (quest'ultimo più raro sul mercato, ma fa niente, vuol dire che gli toccheranno sei interviste al giorno). C'è un progetto di riforma del bicameralismo? Della giustizia? Dell'immunità per le alte cariche? Idem, anzi doppio idem. Una volta un tg nazionale mi ha chiesto una dichiarazione per difendere la promulgazione d'una legge contrastata, avendo già incassato l'opinione avversa: un'intervista a risposta obbligata. E se tu spiazzi il giornalista dicendo il contrario di ciò che lui s'aspetta? Non ti pubblica, e non ti chiamerà mai più in futuro: inaffidabile.

Qualcuno di noi (pochi) si sente un po' a disagio a indossare una maglietta da tifoso. Qualcun altro (molti) si compiace di quanto sia neutrale l'informazione qui in Italia, e soprattutto si compiace di leggere il proprio nome sui giornali. E la neutralità della scienza? Roba da Ottocento, l'importante è che sia partigiana la coscienza. L'importante, per noi addetti ai lavori, è difendere l'autorità della Costituzione, leggendola ovviamente da destra e da sinistra. Tanto più se quest'ultima si somma all'autorità degli ex presidenti della Corte costituzionale, anch'essi regolarmente intervistati in coppia: uno di destra e uno di sinistra. C'è il dubbio che le loro performance da ex non giovino all'immagine d'imparzialità della Consulta? Allora basta intervistare un ex presidente di sinistra, tirando a sorte fra i molti candidati: o meglio di sinistra come costituzionalista, di destra come ex presidente, dato che la sua testimonianza suonerà giocoforza come una convalida alle accuse di Berlusconi contro la Corte «comunista». Noi costituzionalisti, per amor di patria, ci prestiamo al gioco. Ma perché dobbiamo essere gli unici a rappresentare la nostra patria bipolare? Metti per esempio i terremoti o il ponte sullo Stretto: per farcene un'idea obiettiva pretendiamo che anche sismologi e ingegneri vengano intervistati in coppia, uno a dritta, l'altro a manca.

michele.ainis@uniroma3.it
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Titolo: MICHELE AINIS. Dalla parte dell'etica e del diritto
Inserito da: Admin - Giugno 26, 2010, 06:13:52 pm
26/6/2010

Dalla parte dell'etica e del diritto
   
MICHELE AINIS

E’ irrituale il comunicato di Napolitano sul caso Brancher? Può darsi; ma certamente è fuori da ogni rito democratico che un ministro senza ministero, prima ancora di capire quale sia il suo daffare nel governo, mandi a dire ai propri giudici che ha troppo da fare, verrà in tribunale un’altra volta. Trasformando il sospetto in una prova, quanto alle ragioni della sua fulminea nomina. E soprattutto trasformando il legittimo impedimento in un’onda collettiva di legittima indignazione, come ha scritto Cesare Martinetti su questo giornale. Di tale sentimento il Presidente non può che farsi interprete, nel suo ruolo di custode di valori etici, oltre che giuridici. Anche il diritto, però, vuole la sua parte. E almeno in questo caso il diritto sta dalla parte del nostro Presidente. La legge n. 51 dello scorso 7 aprile - che ha introdotto questa via di fuga dalle aule giudiziarie per il premier e per i suoi ministri - stabilisce che il legittimo impedimento può essere invocato quando altrimenti verrebbe ostacolata una funzione di governo. Nel suo tenore letterale, l’art. 1 della legge non distingue fra ministri con dicastero ovvero senza portafoglio. Aggiunge tuttavia che l’attività ministeriale dev’essere di volta in volta disciplinata da una norma, non dai desideri dell’interessato.

Quale specifica attività ministeriale impedisce al neoministro di presentarsi in tribunale? E qual è la specifica norma che la regola? C’è poi un’ultima questione, sempre in punta di diritto. La legge parla di «legittimo» impedimento, non d’impedimento «assoluto». Il primo è sindacabile dal giudice, il secondo no. Significa che un’interpretazione costituzionalmente orientata può temperare le due esigenze in gioco - quelle del governo e quelle della giustizia - senza sacrificare troppo l’ultima alla prima. Significa perciò che ogni magistratura giudicante potrà ben valutare se l’impedimento è davvero «legittimo», ossia conforme alle leggi sull’attività ministeriale. Ecco, è questo il senso del comunicato che abbiamo letto ieri. Un avallo interpretativo - il più autorevole, anche perché dettato da chi presiede il Consiglio superiore della magistratura - verso letture compatibili con la Costituzione, quando si tratta di applicare questa legge travagliata. Poi spetterà ai giudici l’ultima parola. michele.ainis@uniroma3.it

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Titolo: MICHELE AINIS. L'immunità un'offesa al buon senso
Inserito da: Admin - Luglio 02, 2010, 09:39:49 pm
2/7/2010

L'immunità un'offesa al buon senso
   
MICHELE AINIS


King cannot wrong»: il re non può sbagliare, recita un’antica massima della democrazia inglese. È dunque irresponsabile, se non infallibile tal quale il Papa, come stabilì Pio IX nel 1870.

Invece nella nuova democrazia italiana irresponsabili e infallibili sono i ministri, quale ne sia il numero, il sesso, la fedina penale. Così vuole il lodo Alfano nel suo abito costituzionale. Un abito peraltro continuamente allargato e ricucito nella sartoria del Senato; o dovremmo chiamarlo lodo Brancher?

L’ultima idea - quella di estendere lo scudo processuale alle iniziative giudiziarie inaugurate prima che l’imputato giurasse da ministro - sembra in effetti tagliata su misura per il neoministro a Non si sa che cosa. Significa che è un’idea incostituzionale? No di certo: ormai è vietato concludere i processi, figurarsi i processi alle intenzioni. E d’altronde già la Carta del 1947 elenca una serie d’immunità per le alte cariche; dunque l’immunità di per sé non viola il principio d’eguaglianza, altrimenti dovremmo reputare incostituzionale la Costituzione stessa. Purché ogni immunità venga introdotta attraverso il procedimento di revisione costituzionale, non con legge ordinaria: così ha sentenziato l’anno scorso la Consulta, così effettivamente sta operando la maggioranza di governo.

No, non c’è un attentato alla Costituzione in questo lodo redivivo. C’è piuttosto un’offesa al buon senso, oltre che al buon gusto. Perché mai, difatti, l’immunità dovrebbe estendersi ai reati commessi prima del giuramento da ministro? Se la risposta è il fumus persecutionis, ossia il sospetto che l’inchiesta giudiziaria risponda a una finalità politica, allora è come dire che i magistrati italiani hanno la palla di vetro. E perché il nuovo lodo protegge i ministri con una diga più alta di quella eretta nell’art. 96 della Costituzione? Quest’ultima norma concerne i reati funzionali, compiuti guidando un dicastero; il lodo tocca viceversa i delitti comuni. Insomma d’ora in poi ogni ministro sarà più tutelato se fa una rapina in banca anziché un abuso d’ufficio. E perché infine l’autorizzazione a procedere viene affidata alla maggioranza semplice delle assemblee legislative? Siccome tale maggioranza è lo sgabello su cui poggia il governo, siccome la sua sopravvivenza in Parlamento dipende dalla sopravvivenza del governo, è un po’ come consegnare un fucile a chi ha le manette ai polsi.

Eccolo infatti il vizio (logico, prima ancora che giuridico) di questo nuovo lodo. Non è illegittimo, è inopportuno. Peggiora la qualità delle nostre istituzioni, anziché innalzarla. Infine erode sotto traccia l’autorità del Capo dello Stato. Il presidente della commissione Giustizia del Senato ha dichiarato che sarebbe ingiusto negare al premier il medesimo scudo processuale per i reati pregressi di cui potrà avvalersi il Quirinale. Errore: lì abita la prima carica dello Stato, il presidente del Consiglio è soltanto la quarta. Ma il vero errore sta nel voto a maggioranza semplice con cui le Camere decideranno l’autorizzazione a procedere verso il Capo dello Stato: un improprio voto di fiducia, ha osservato Paolo Caretti. O altrimenti un’arma di ricatto. Meglio la maggioranza assoluta, come del resto vuole l’art. 90 della Costituzione per i reati presidenziali. O l’improcedibilità tout court, quale esiste in Francia, Israele, Grecia, Portogallo.

Ma l’opportunità è una categoria dello spirito, non della politica. A noi che non abbiamo scudi processuali sembrerà forse inopportuno tutto questo scalmanarsi attorno allo scudo dei potenti, prima con il lodo Schifani, poi con il lodo Alfano, poi con il legittimo impedimento, poi con il lodo Alfano bis. Suoneranno altrettanto inopportune le proclamazioni sui principi - la forma di governo, il federalismo, la libertà d’impresa nel nuovo art. 41 - quando le uniche riforme che poi approdano a riva sono quelle che hanno di mira la giustizia. Ci parrà infine inopportuno venire scomodati per il referendum costituzionale che giocoforza accompagnerà questo nuovo lodo. Ma ci scomoderemo.

michele.ainis@uniroma3.it

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Titolo: MICHELE AINIS. Cavilli scambiati per cavalli
Inserito da: Admin - Luglio 08, 2010, 10:52:24 am
8/7/2010

Cavilli scambiati per cavalli

MICHELE AINIS

Chissà perché in Italia ogni mosca in volo diventa un’astronave. L’ultimo Ufo è atterrato davanti al Quirinale, con un doppio avvistamento: da destra (il Giornale) e da sinistra (il Fatto quotidiano).

Lassù sul Colle hanno smentito seccamente la notizia, ma gli avvistatori recano prove inoppugnabili. In attesa di discuterne al prossimo congresso di cosmologia, proviamo a misurarle in questa sede.

Dunque, il Senato sta votando con legge costituzionale il lodo Alfano, che forgia uno scudo processuale per il governo e per il Capo dello Stato. Un senatore del Pd - Stefano Ceccanti, che di mestiere fa il costituzionalista - avanza un emendamento che dichiara il Presidente improcessabile, e perciò sottratto all’autorizzazione parlamentare da cui dipende viceversa l’immunità per i ministri. Da qui la prova, una e trina come il Padreterno: se Ceccanti ha firmato quell’emendamento, significa che aveva la benedizione del partito; se il Pd si è fatto avanti, significa che è stato imbeccato dal diretto interessato, ossia dal Presidente; se Napolitano vuole sottrarsi ai rigori della legge, significa che ha commesso qualche marachella. Lui nega? E allora perché il suo consigliere - aggiunge il Fatto quotidiano - giudica un errore l’autorizzazione a procedere verso il Presidente?

Giacché mi trovo a essere citato per nome e cognome nei panni di chi dà consigli al Capo dello Stato, vorrei rivolgere un appello agli amici del «Fatto»: o cambiate il nome del giornale o cambiate le notizie. Il Quirinale ha uno staff di prim’ordine, nel quale non sono mai stato reclutato. Ma dopotutto non è questo ciò che conta. Pesano piuttosto riforme di sistema che scassano il sistema, perché non si curano affatto delle geometrie costituzionali. Ceccanti sarà forse stato ingenuo sul piano politico (tant’è che ha dovuto ritirare il proprio emendamento), ma da costituzionalista aveva tutte le ragioni. Quando i nostri padri fondatori scrissero l’art. 90 - che esige la maggioranza assoluta per porre in stato d’accusa il Presidente, nei casi di alto tradimento e d’attentato alla Costituzione - avevano negli occhi il proporzionale con cui fu eletta l’Assemblea Costituente. Con il maggioritario avrebbero scritto come minimo due terzi, per garantire il consenso dell’opposizione. E allora come si fa a contentarsi della maggioranza semplice per i delitti extrafunzionali, oltretutto in un sistema come questo, dove i parlamentari sono altrettanti soldatini?

C’è però un’osservazione che rende superfluo l’emendamento di Stefano Ceccanti, e forse pure il lodo Alfano. Il Presidente già da oggi è improcessabile per i reati comuni: se i costituenti non hanno messo nero su bianco questa immunità, è solo perché sarebbe suonata «irriguardosa» verso il Capo dello Stato. Chi l’ha detto? Costantino Mortati, e dopo di lui molti altri maestri di diritto. Gioca qui infatti l’eredità dello Statuto Albertino, che proclamava «sacra e inviolabile» la persona del Re. Gioca un motivo sistematico, perché non si può negare alla suprema istituzione la tutela che la Carta offre persino ai deputati. E gioca infine un argomento logico: come mai farebbe il Presidente a promulgare leggi o ricevere ambasciatori dentro una cella di Regina Coeli?

Insomma il fiore delle immunità perde un petalo alla volta. Il lodo Schifani s’estendeva ai presidenti delle Camere, oltre che a chi dirige la Consulta. Il primo lodo Alfano si sbarazzò di quest’ultima figura; il secondo ha eliminato i presidenti delle Camere. Se non c’è ragione d’aprire l’ombrello sul Capo dello Stato, non resta che il governo. Magari è proprio per evitare tale solitudine che i nostri ri-costituenti hanno tirato in ballo il Quirinale. Un frutto avvelenato, come dimostra quest’ultima vicenda. E insieme una lezione per Ceccanti e per la categoria cui entrambi apparteniamo: in Italia i cavilli vengono scambiati per cavalli.

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Titolo: MICHELE AINIS. Un Paese immerso nella palude
Inserito da: Admin - Luglio 14, 2010, 10:27:49 am
14/7/2010

Un Paese immerso nella palude
   
MICHELE AINIS

L’Italia che s’accinge a celebrare un secolo e mezzo di storia nazionale è diventata una palude, uno stagno d’acque limacciose nel quale siamo immersi fino al collo. Scorri le cronache che incalzano giorno dopo giorno, e t’accorgi che nessun ceto sociale, nessuna categoria professionale è fuori dalla melma. Ci trovi dentro il poliziotto e il giudice, l’imprenditore e il generale, il direttore della Asl così come il prefetto, il banchiere, il professore. E ovviamente il politico di turno, con le sue mani rapaci. Tutti affaccendati in faccende deplorevoli ma ben retribuite, e infatti il faccendiere ormai incarna il mestiere con la maggiore schiera di seguaci.

Tu vedi che l’Italia è questa, ma sai pure che non è soltanto questa. All’università imperversano piccoli baroni (fateci caso: in genere sono anche bassi di statura), ma i più insegnano, studiano, scrivono, non passano tutto il proprio tempo a imbastire trame e organigrammi.

Succede lo stesso negli ospedali, nei tribunali, negli studi professionali, nelle aziende. Succede tra le forze dell’ordine, al di là di qualche mela marcia. Proprio ieri 300 arresti hanno decapitato la ’ndrangheta dal Sud al Nord della penisola, dopo i colpi già andati a segno contro la mafia e la malavita organizzata. E allora perché mai il presidente del Consiglio, invece di menarne vanto, difende ora Brancher ora Verdini ora Cosentino, vittime a suo dire d’un furore giacobino? Ma soprattutto: perché noialtri giriamo gli occhi altrove? Da quando abbiamo perso ogni capacità reattiva? Per quale ragione non riusciamo a espellere il furbetto della stanza accanto, e anzi lo guardiamo con ammirazione? A che si deve questo sonno collettivo?

La risposta suonerà forse impietosa, ma è da qui che dobbiamo cominciare. Se gli onesti camminano per strada a mani alzate, ciò accade perché sono un popolo sconfitto. L’Italia del malaffare è anche l’Italia dei potenti, di chi ha vinto la partita. E alle nostre latitudini i potenti sono immarcescibili, hanno bevuto l’elisir di lunga vita. Al massimo accettano di scambiarsi le poltrone, come nel gioco dei quattro cantoni. Capita fra i membri delle authorities come nei consigli d’amministrazione, nelle regioni, nei gabinetti ministeriali. È quest’antica confidenza col Palazzo che li fa sentire onnipotenti, al di sopra della legalità costituita. Ed è al contempo quest’esempio che indebolisce la nostra tempra collettiva. Sai che puoi farti spazio nella vita soltanto per graziosa concessione del sovrano, e sai inoltre che il sovrano applica regole diverse da quelle stampate sulle Gazzette ufficiali.

Insomma la questione legale è figlia d’un paese bloccato, senza ricambio nelle sue classi dirigenti. E dunque senza premio per i meriti, né castigo per i demeriti. Un paese dove il tuo destino dipende dal certificato anagrafico che hai ricevuto in sorte, oppure dalla benevolenza dei potenti. Questa sciagurata condizione tradisce la promessa di riscatto per i deboli conservata nel principio d’eguaglianza sostanziale, il pilastro sul quale i nostri padri fondatori edificarono la Costituzione del 1947. E in secondo luogo tradisce l’ambizione su cui vent’anni fa sorse la seconda Repubblica.

Se il primo tempo delle nostre istituzioni restituì un’immagine pietrificata, con un partito al governo per 45 anni di fila, il secondo tempo avrebbe dovuto aprirci viceversa alla competizione, alla mobilità sociale, alla meritocrazia. Altrettante riforme mancate, progetti abbozzati e subito abortiti. Ma senza riforme non verremo mai fuori dalla nostra palude collettiva.

michele.ainis@uniroma3.it
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Titolo: MICHELE AINIS. Gli elettori senza potere
Inserito da: Admin - Luglio 28, 2010, 10:52:15 am
28/7/2010

Gli elettori senza potere
   
MICHELE AINIS


C’è un fantasma nella nostra scena pubblica: la legge elettorale. La sua riforma non ha mai occupato i desideri della maggioranza di governo, ora non interessa più nemmeno all’opposizione. Perché dovrebbe? È così comodo manovrare un esercito di soldatini di piombo travestiti da parlamentari.

Niente capricci, niente alzate d’ingegno: altrimenti la volta prossima te ne rimani a casa, anche se la tua pagina su Facebook conta un popolo di lettori e di elettori. E poi nell’agenda politica incalzano altre urgenze, altre questioni: la manovra finanziaria, le intercettazioni, il federalismo, l’università. Perché mai dovremmo attardarci sugli alambicchi del maggioritario o del proporzionale?

Eppure c’è un nesso tra i funerali della legalità e il battesimo della nuova classe dirigente. Basta misurare le reazioni dei politici finiti sotto torchio. Verdini: una congiura mediatica. Cosentino: un complotto giudiziario. Brancher, Dell’Utri, Caliendo: idem. E comunque l’essenziale è mantenere la fiducia del Capo, chissenefrega dei giornali. Tanto è lui, soltanto lui, che decide il tuo posto in Parlamento. L’insubordinazione, ecco il delitto più infamante.

Per i disobbedienti s’agita il randello dell’epurazione, oggi dal Pdl contro il finiano Granata, ieri dal Pd verso Riccardo Villari, dal Pdci verso Marco Rizzo, da Idv verso Nicola D’Ascanio, dalla Lega con una lista di proscrizione lunga come l’elenco del telefono. D’altronde Bossi l’ha detto chiaro e tondo, inaugurando nei giorni scorsi la sezione di Travedona Monate: «chi pianta casino è fuori dal partito». Berlusconi usa un linguaggio più tornito, ma anche per lui la «lealtà» costituisce la prima virtù dei suoi parlamentari. Insomma ai padroni del vapore sta a cuore la fedeltà, non certo l’onestà. Le nomine si fanno per appartenenza, non per competenza. Sicché gli incompetenti disonesti sono ormai il grosso della nostra classe dirigente.

Negli Stati Uniti o in Inghilterra non succederebbe. Lì, se un deputato viene sorpreso con le dita nella marmellata, la sua constituency gli sbatte la porta in faccia senza troppi complimenti, e lui poi difficilmente trova un altro collegio elettorale. Lì l’accountability, la responsabilità dell’eletto verso l’elettore, è l’olio che fa girare il motore democratico. Lì la reputazione dei politici è come la verginità: quando l’hai persa è per sempre, non c’è chirurgo plastico che tenga. Noi, in Italia, questa medicina non l’abbiamo mai bevuta.
Neanche ai tempi della Dc, un partito che ha pietrificato per 45 anni ogni alternanza di governo. Sarà che abitiamo in un Paese cattolico, dove il confessionale monda ogni peccato. Sarà l’eredità delle corporazioni medievali, un mondo dove il mestiere dei padri spettava di diritto ai figli, senza concorrenza, senza ricambio d’uomini e di idee. Ma certo dal 2005, da quando abbiamo in circolo questa legge elettorale, lo spettacolo è scaduto ulteriormente. Servirebbe l’uninominale, uno contro uno. Servirebbe la possibilità di revocare gli eletti immeritevoli. Invece la politica italiana ha revocato gli elettori.

michele.ainis@uniroma3.it
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Titolo: MICHELE AINIS. Uno scontro tra due idee di democrazia
Inserito da: Admin - Luglio 31, 2010, 08:28:35 am
31/7/2010

Uno scontro tra due idee di democrazia
   
MICHELE AINIS

C’è un conflitto più grave, più esteso e lacerante, della frattura che in queste ore ha spaccato in due come una mela il maggiore partito politico italiano. È il conflitto tra due concezioni della democrazia, della legalità costituzionale. La prima è una democrazia plebiscitaria: significa che la sovranità si trasferisce dagli elettori al leader, il quale poi la esercita dettando in solitudine l'agenda di governo così come l'organigramma dello Stato. La seconda è una democrazia parlamentare, con i suoi riti, con i suoi tempi, con i suoi equilibri perennemente instabili. È alla prima concezione che si è richiamato Silvio Berlusconi, cacciando dal partito Fini e licenziandolo dallo scranno più alto di Montecitorio. È alla seconda che s'appella viceversa il presidente della Camera, alla sovranità del Parlamento anziché del Capo carismatico. Non che le democrazie debbano temere le occasioni di contrasto. Meglio portarle allo scoperto che nascondere la polvere sotto i tappeti. Non per nulla la nostra Carta regola il conflitto d'attribuzioni fra i poteri dello Stato. E infatti la nascita d'un gruppo parlamentare autonomo chiude una stagione di congiure, dove non era chiara nemmeno l'identità dei congiurati.

Ora finalmente potremo fare un po' di conti, ma soprattutto dovrà farli Berlusconi. Perché sta di fatto che sbarazzandosi del proprio oppositore interno in nome della democrazia plebiscitaria, paradossalmente ha rivitalizzato la democrazia parlamentare. È in Parlamento, difatti, che il suo gabinetto dovrà trovare i numeri per continuare a governare. È lì che le forze politiche potranno decidere di battezzare un altro esecutivo. Ed è sempre al Parlamento che il Premier dovrebbe riferire circa la fase politica che si è aperta nel Paese. Lo farà? È giusto dubitarne: nella democrazia plebiscitaria le Camere sono un orpello, un accidente inutile. Ecco allora l'autentico conflitto che in Italia si consuma ormai da molti anni: quello fra Costituzione scritta e Costituzione materiale. È un conflitto fra diritto e anti-diritto, che in ultimo ci rende viandanti nel deserto del diritto, perché i due regimi s'elidono a vicenda. Eppure si profilano entrambi all'orizzonte specie durante il frangente d'una crisi, quando sarebbe maggiormente necessario il salvagente delle regole. Accadde per la prima volta nel 1994, dopo il ribaltone di Bossi che colò a picco il primo governo Berlusconi. Lui reagì chiedendo elezioni anticipate, in nome per l'appunto della democrazia plebiscitaria; invece il presidente Scalfaro insediò il governo Dini, in nome della democrazia parlamentare. Adesso ci risiamo: Fini non si dimette, le regole scritte non contemplano alcuna mozione di sfiducia verso i presidenti delle assemblee legislative, Berlusconi tira in ballo le regole non scritte. C'è però un colpevole, c'è un killer a viso scoperto, in questa strage delle regole di cui siamo costretti a celebrare i funerali. Questo colpevole è il sistema dei partiti: tutti, di destra e di sinistra.

Nella seconda Repubblica si sono avvicendati a turno sui banchi del governo, senza mai adeguare la Costituzione scritta al nuovo ordinamento materiale, o senza contrastarlo in nome della legalità formale. In più trattano le istituzioni come la propria cameriera. Ne è prova lo scandalo del nuovo Csm, dove hanno trovato un posto al sole l'avvocato di Bossi (Brigandì), quello di Berlusconi (Palumbo), quello di D'Alema (Calvi). Ne è prova altresì la lunga occupazione della presidenza di Montecitorio da parte dei segretari di partito, ancora senza differenze tra sinistra e destra: nell'ordine Casini, Bertinotti, Fini. E poi ti meravigli se il capopartito continua a fare il primattore anche da lassù? Non sei stato proprio tu - Prodi, Berlusconi - a farlo votare? Nella prima Repubblica, quando s'affermò la convenzione che la presidenza della Camera spettasse al Pci, Berlinguer ci mandò la Iotti, senza mai sognarsi d'occuparla in prima persona. Ma Berlinguer è morto, e neanche noi ci sentiamo troppo bene.

michele.ainis@uniroma3.it

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Titolo: MICHELE AINIS. Italia ferma nell'ingorgo degli "ex"
Inserito da: Admin - Agosto 19, 2010, 03:14:27 pm
19/8/2010

Italia ferma nell'ingorgo degli "ex"
   
MICHELE AINIS

Un personaggio segnato dalle rughe s’aggira fra i palazzi del potere. Non ha un nome, benché in gioventù ebbe un nome altisonante. Non ha una carica, o almeno non così solenne come quelle che rivestì in passato. Non ha più lustro, né energie per lustrare la sua targa d’ottone. Tuttavia non si contenta affatto dei ricordi. No: traffica, cospira, confabula, almanacca, e in conclusione non esce mai di scena. È l’ex.

La politica italiana trabocca di questi pluridecorati, perennemente a caccia di trofei per rimpolpare il proprio medagliere. E non c’è troppa differenza fra sinistra e destra, fra estremisti e moderati. Pensateci: con chi deve vedersela tutti i santi giorni il segretario del Pd Bersani? Con gli ex segretari D’Alema, Franceschini, Veltroni. Tutti lì, ancora e sempre in prima fila. Ma d’altronde quel partito ha affidato il Dipartimento Riforme all’ex presidente della Camera Violante, nonché ex magistrato, ex docente, ex parlamentare, ex capogruppo, ex presidente dell’Antimafia. Siccome di riforme non ne parla più nessuno, almeno in questo caso la poltrona dell’ex è un’ex poltrona.

E a destra? Solo per citare le figure più eminenti, ci trovi per esempio Fabrizio Cicchitto, già deputato e senatore socialista. O Giulio Tremonti, che fin qui ha girato il Psi, Alleanza democratica, il Patto Segni, la Federazione liberaldemocratica, Forza Italia, il Pdl. Senza dire del centro, dove il riciclo è come l’usato garantito. Tanto per dire, la nuova formazione politica fondata da Rutelli (Alleanza per l’Italia) è la sua quinta creatura.

Infatti, il fondatore è stato via via eletto in Parlamento con i Radicali, i Verdi arcobaleno, la Margherita, il Pd, mentre adesso rappresenta per l’appunto l’Api.

È la tragedia dell’Italia: un Paese immobile, come le sue classi dirigenti. Al più cambiano le sigle, mai le facce. È anche il fallimento della seconda Repubblica, che nei primi Anni Novanta aveva allevato la speranza d’un ricambio generazionale. Ci guadagnò una rispettabile pensione Giulio Andreotti, 7 volte presidente del Consiglio, 26 volte ministro. Esordirono in politica uomini nuovi, a partire da Silvio Berlusconi. Dopo quasi vent’anni, dopo cinque elezioni vinte o perse, anche lui è diventato un ex. Ma la sua età rimane in media con quella della classe politica italiana: secondo il Rapporto Luiss 2008 il 60% ha più di settant’anni, mentre nella Penisola iberica lo stesso dato s’arresta al 4,3%. D’altronde in Spagna Aznar e Zapatero avevano entrambi quarant’anni, quando ottennero le chiavi del governo. E il primo ha lasciato la politica dopo una sconfitta elettorale, al pari di John Major, Tony Blair, Michail Gorbaciov, Al Gore, Carl Bildt. Tutti cinquantenni, mica vecchi come il cucco.

Ma in Italia nessuna sconfitta è mai definitiva. Specialmente con questa legge elettorale, che toglie agli elettori ogni potere sugli eletti. Decidono loro, i capibranco, i signori dei partiti; e decidono in base alla ferrea regola della cooptazione. Significa che promuovono se stessi, o al più i loro maggiordomi. Poi capita talvolta che non si mettano d’accordo (gli oligarchi sono molto suscettibili); e allora smembrano le truppe, vanno in sartoria a cucirsi una divisa tutta nuova, la indossano insieme ai propri soldatini. Ma le parole no, quelle sono sempre uguali, come le bocche che gli danno fiato.

Sarà probabilmente questo lo scenario che ci consegneranno le prossime elezioni: qualche nuovo partito, nessuna faccia nuova. Eppure c’è una volontà di cambiamento in giro per l’Italia, un senso di stanchezza per le litanie e le risse di palazzo, la voglia di respirare un vento fresco, anche a costo di buscarsi un raffreddore. La politica, invece, spranga le finestre. Tuttavia stavolta non potrà arricciare il naso se gli italiani, chiamati a celebrare il trionfo dell’ex, trasformeranno il loro voto in un ex voto.

 michele.ainis@uniroma3.it

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Titolo: MICHELE AINIS. I peccati della legge elettorale
Inserito da: Admin - Agosto 31, 2010, 03:30:28 pm
31/8/2010

I peccati della legge elettorale
   
MICHELE AINIS

L’appello per l’uninominale, firmato da intellettuali e da politici di ambedue gli schieramenti, ha il pregio di deporre sul tappeto un’idea concreta, in alternativa all’attuale legge elettorale. Però, attenzione: il sistema perfetto non esiste, anche se nessun sistema al mondo sarà mai peggio del Porcellum. E in secondo luogo alle nostre latitudini la ricerca della legge perfetta diventa sempre un alibi perfetto per lasciare tutto come prima.

Si sa come vanno queste cose: tu metti insieme due partiti attorno a un tavolo, loro sputano fuori tre idee distinte e contrapposte. Salvo poi mettersi d’accordo se c’è da tirare uno sgambetto all’avversario, facendolo cadere un metro prima del traguardo. Nel 2005 la legge Calderoli è nata a questo scopo, per sabotare il trionfo annunciato del centrosinistra alle elezioni successive. In Italia nascono così pure le riforme costituzionali, da quella «federalista» dettata dal governo Amato nel 2001 alla «devolution» battezzata dal governo Berlusconi nel 2005, in entrambi i casi alla vigilia d’una prova elettorale. Insomma qui da noi la Grande Riforma è sempre un bottino di guerra, imposto col coltello fra i denti dalla maggioranza di turno all’opposizione di turno. Meglio non farsi illusioni.

C’è però un esercizio cui possiamo dedicarci, mentre la politica affila i suoi coltelli. Possiamo elencare non tanto le virtù, quanto i peccati mortali della legge elettorale. Possiamo ripetere il verso di Montale: «Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo».

E i peccati da cui dovremmo mondarci sono almeno quattro, come gli elementi del nostro pianeta.

Primo, la terra. Quella italiana, che calpestiamo tutti i giorni. Significa che non è una buona legge elettorale quella che offende le nostre tradizioni, il nostro abito civile. Come diceva il vecchio Montesquieu, le leggi dovrebbero rispecchiare la geografia dei popoli, il numero dei cittadini, perfino il clima. Sicché smettiamola d’almanaccare sui modelli stranieri, dividendoci fra tifoserie tedesche, francesi, americane. E siccome la nostra carta d’identità collettiva si conserva nella Costituzione, via il premio di maggioranza (340 deputati) senza una soglia minima per guadagnare il premio. Così com’è viola il principio costituzionale dell’eguaglianza del voto. E con la scomposizione del quadro politico, permette a una coalizione votata dal 30% del corpo elettorale d’accaparrarsi il 54% dei seggi in Parlamento. Accaparrandosi per giunta il presidente della Repubblica, quelli delle Camere, i giudici costituzionali.

Secondo, il fuoco. Quello che dovrebbe divampare attorno ai santuari dei partiti, restituendo voce ai cittadini. Perché sta di fatto che il Porcellum ci ha tolto la possibilità di scegliere i nostri rappresentanti in Parlamento. E perché non è affatto vero che anche in passato la scelta stava tutta nelle mani dei partiti. Con il Mattarellum le segreterie politiche sceglievano i candidati, non gli eletti. Se aggiungiamo l’obbligo d’indire le primarie su ogni candidatura, se sforbiciamo il numero di sottoscrizioni necessarie per presentarsi alle elezioni (alla Camera servono 4500 firme), forse s’aprirà una chance anche per i non addetti ai lavori.

Terzo, l’aria. Quella che respira l’eletto dev’essere la stessa che respira l’elettore. In questo senso l’uninominale recupera un rapporto fra i due perfetti sconosciuti inventati dalla legge Calderoli. Di più: recupera il sapore della sfida, uno contro uno. Poi vi si potrà affiancare una quota proporzionale, tagliare ogni collegio in lungo o in largo, plasmare il sistema secondo le nostre specifiche esigenze. D’altronde i collegi uninominali inglesi sono ben diversi da quelli tedeschi o francesi. L’importante è che i parlamentari rimangano ancorati al territorio, e che quest’ultimo non sia esteso quanto un continente. Come diceva, ancora, Montesquieu: una buona Repubblica deve riflettersi su un piccolo territorio.

Quarto, l’acqua. Sorgente di vita, giacché in Italia avremmo quantomai bisogno di far sorgere una nuova classe dirigente. Quella che c’è è la stessa da vent’anni, e da vent’anni caracolla con il suo fagotto di promesse tradite, riforme mancate, progetti effimeri quanto un battito di ciglia. Ma almeno questo non dipende solamente dalla legge elettorale, benché la legge attuale santifichi la cooptazione come tecnica di trasmissione del potere. Dipende da noi, dalla voglia che ci rimane in corpo.

michele.ainis@uniroma3.it
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Titolo: MICHELE AINIS. Inamovibile per liberarlo dai ricatti
Inserito da: Admin - Settembre 08, 2010, 09:14:19 am
8/9/2010

Inamovibile per liberarlo dai ricatti

MICHELE AINIS

L’ennesima zuffa tra i poteri dello Stato ha un antefatto più remoto del discorso pronunziato da Gianfranco Fini a Mirabello. Trae origine dalla voracità dei partiti politici italiani, il cui appetito - in questa seconda Repubblica, ancor più che nella prima - ormai supera quello di Pantagruel. E allora facciamo un esercizio storico, dato che la memoria non è precisamente la nostra qualità migliore.

Ai tempi della Democrazia Cristiana, Montecitorio veniva offerto in appannaggio a un esponente dell’opposizione: vi si avvicendarono Ingrao, la Iotti (rimasta in sella 13 anni di fila, un record), Napolitano. Nel 1994, con il successo elettorale di Silvio Berlusconi, la seconda Repubblica riceve il suo battesimo, e a quel punto la nuova maggioranza occupa tutti i posti in tavola, compresa la poltrona di Montecitorio. La sinistra strepita, ma nel 1996 - quando arriva il suo momento - s’adegua volentieri: così Violante subentra alla Pivetti. E però non basta, il cibo sul piatto non è mai abbastanza. Dal 2001 in poi la presidenza della Camera entra negli accordi elettorali, tant’è che regolarmente vi s’insedia - in cambio d’uno o due ministri in meno - il leader del secondo partito della coalizione vittoriosa: Casini, poi Bertinotti e adesso Fini. Una nuova convenzione, accettata (o meglio digerita) sia a destra che a sinistra.

Dice: ma Fini fa politica, si comporta da capopartito. E che, non lo sapevi quando l’hai votato? Ri-dice: ma la politica di Fini è una requisitoria contro l’operato del governo. E quale mai sarebbe la notizia? Nel dicembre 2007 Bertinotti paragonò il gabinetto Prodi a Vincenzo Cardarelli, «il più grande poeta morente»; e per sovrapprezzo aggiunse che quell’esperienza di governo era stata un fallimento. Eppure nessuno chiese la sua testa, nessuno pensò di scomodare addirittura il Quirinale, come s’accingono a fare Bossi e Berlusconi. E Napolitano? Secondo loro è il nuovo Erode, deve saziarne l’appetito offrendogli la testa di san Gianfranco decollato. Siccome non può farlo (il Capo dello Stato non gestisce le assemblee parlamentari, altrimenti andrebbe a farsi friggere la separazione dei poteri), c’è il rischio che domani qualche Salomè delusa pretenda pure la sua testa.

Ecco infatti dove ci ha condotto la bulimia dei partiti: a una rissa permanente fra i vari commensali. Sarebbe stato meglio lasciare in piedi la vecchia regola non scritta, consegnando Montecitorio all’opposizione; non è andata così, e allora per venirne fuori dobbiamo chiedere soccorso alla regola scritta. È giusta la pretesa che il presidente della Camera sia allineato come un soldatino al presidente del Consiglio? No, è un fossile giuridico. Andava così nell’Ottocento, quando il primo si dimetteva contemporaneamente alla caduta del governo (Biancheri nel 1876, Farini nel 1879, e via elencando), o quando si dimetteva il presidente del Consiglio se la Camera bocciava il suo candidato (Menabrea nel 1869, De Pretis nel 1878, Zanardelli nel 1902). Ma già da Crispi in poi il presidente della Camera non vota, per marcare la propria distanza dal governo. Diventa un organo imparziale, nel quale si rispecchia l’intera assemblea. E siccome il Parlamento ha una funzione di controllo sull’esecutivo, il suo presidente finisce giocoforza per esercitarsi in un ruolo dialettico, anche a costo d’alzare un po’ la voce. Da qui le rampogne di Ingrao contro il governo Andreotti (gennaio 1977), quelle di Nilde Iotti contro il governo De Mita (marzo 1989), giù giù fino all’altro ieri.

A questo punto tuttavia s’affaccia la seconda imputazione a carico del presidente Fini: non rappresenti il governo (e va bene), ma neppure più la Camera. È il capo d’accusa più insidioso, perché ne revoca in dubbio l’autorità, la legittimazione. Sennonché questo processo non si può celebrare, dato che i regolamenti parlamentari escludono la mozione di sfiducia verso il presidente d’assemblea. Lo fanno per liberarlo dai ricatti della maggioranza, per renderlo appunto indipendente, e perciò imparziale. Magari non sarà una buona regola, ma intanto abbiamo questa. Domanda: e se invece Fini fosse messo ai voti? Con l’aria che tira, per Berlusconi c’è il concreto rischio che un’altra maggioranza gli rinnovi la fiducia. Autogol.

michele.ainis@uniroma3.it
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Titolo: MICHELE AINIS. Un compromesso per la legge elettorale
Inserito da: Admin - Settembre 15, 2010, 08:57:36 am
15/9/2010

Un compromesso per la legge elettorale
   
MICHELE AINIS

Doveva risuonare la voce d'un inglese, per raccontarci come siamo fatti noi italiani. Nell'editoriale pubblicato ieri dalla Stampa, Bill Emmott ce l'ha cantata chiara: lasciate perdere il maggioritario, dalle vostre parti non funziona. Ha generato coalizioni artificiali, governi instabili, e in conclusione zero riforme. Meglio per voi il proporzionale, anzi un proporzionale perfetto, all'irlandese. Così ogni idea, ogni opinione, ogni cultura potrà specchiarsi in Parlamento. Senza nessuna camicia di gesso, che tanto va poi regolarmente in pezzi al primo starnuto.

La diagnosi di Emmott riecheggia una lezione che fu di Montesquieu: sono le leggi che devono adattarsi agli uomini, non gli uomini alle leggi. Sicché nessun vestito normativo è buono in assoluto, dipende dalla taglia del popolo che dovrà indossarlo. Anzi: secondo Montesquieu dipende anche dal clima, dal territorio, e naturalmente dalla storia. La nostra storia racconta un'Italia dei Comuni mai del tutto tramontata, tant'è che ne sopravvivono 8 mila, ciascuno rivale dell'altro. Ma se è per questo, sopravvive inoltre una congerie di corporazioni, lobby, sindacati, ordini professionali.

E naturalmente di partiti, dentro e fuori il Parlamento. Noi italiani siamo così, 60 milioni di commissari tecnici, ciascuno con la sua formazione in testa per la nazionale di pallone. Potremmo mai intonare un'unica canzone quando discutiamo di politica? Potremmo mai filare d'accordo, sia pure per lo spazio d'una legislatura? No, e infatti Bobbio disse una volta che la nostra storia costituzionale si è snodata attraverso un'altalena di crisi di governo (spesso molto lunghe) e di governi in crisi (spesso molto brevi). La sola novità che la seconda Repubblica ci ha recato in dote è la sostituzione della crisi con un eterno stato di pre-crisi, ma il rantolo è lo stesso.

Però se la premessa è esatta, sulla conseguenza che ne trae Bill Emmott va depositata un'opinione dissenziente. Non perché il bipolarismo sia diventato la nostra legge di natura; questo vincolo funziona esclusivamente nella geografia terrestre, dove un polo di centro non esiste, esistono soltanto il Polo Nord e il Polo Sud. Viceversa nella politica italiana il terzo polo prese forma già in Assemblea costituente (dove oltre ai cattolici e ai marxisti operò una pattuglia quanto mai agguerrita d'orientamento liberale), e in seguito ha sempre continuato a manifestarsi in varia guisa. Evidentemente la scelta binaria ci sta stretta, di fidanzate ne vogliamo almeno tre. Quanto al bipartitismo, poi, non ne parliamo; o meglio ne parlano soltanto i Radicali, che tuttavia non hanno mai accettato di diluire la propria identità in una formazione politica più vasta.

Ma davvero tutto ciò significa che per salvarci dovremmo scimmiottare le istituzioni dell'Irlanda? A parte le difficoltà di comprensione (lì il presidente si chiama Uachtarán na hÉireann), a parte il fatto che da quelle parti il capo del governo nomina 11 senatori su 60 (vabbè, tutto sommato funziona così pure in Italia), a parte che fin qui eravamo stati noi a offrire sangue italiano agli irlandesi (quello di Trapattoni), sta di fatto che il loro sistema elettorale rischia d'aumentare i nostri guai, anziché diminuirli. Tranquilli, non entro in tecnicismi: metodo Hare (peraltro non troppo diverso dal metodo d'Hondt con cui nella prima Repubblica venivano assegnati i seggi del Senato), formula a voto singolo trasferibile (tu voti per me, dopo di che se io ho già fatto il pieno elettorale il tuo voto lo acchiappa il mio rivale), e via elencando. Ma il punto è che un proporzionale esasperato - sia pure con una soglia minima per far scattare il seggio - finirebbe per frazionarci ulteriormente, mettendo a nudo tutti i nostri vizi. No, non è questa la terapia di cui abbiamo bisogno. Non cresceremo d'una spanna passando dal bipolarismo coatto alla disgregazione forzata. Meglio per noi i sistemi misti, com'era il Mattarellum: tre quarti di maggioritario, un quarto di proporzionale. E se il Porcellum, con il suo premio di maggioranza esorbitante, ha alimentato un bipolarismo falso e muscolare, formulo a mia volta una proposta: correggiamo il maggioritario con un premio di minoranza. Per com’è messa l'opposizione di sinistra, sarebbe un'opera di carità.

michele.ainis@uniroma3.it

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Titolo: MICHELE AINIS. Ma l'onorevole favella ancora?
Inserito da: Admin - Settembre 29, 2010, 11:22:10 am
Ma l'onorevole favella ancora?

di Michele Ainis

Questo articolo è stato pubblicato il 29 settembre 2010 alle ore 09:27.
L'ultima modifica è del 29 settembre 2010 alle ore 09:30.

   
Oggi il Parlamento torna sotto i riflettori. È infatti a quelle aule, al doppio emiciclo di Montecitorio e di palazzo Madama, che Berlusconi chiederà un'iniezione di fiducia, dopo un'estate di coltelli e di veleni. Dovremmo esserne lieti, non foss'altro perché alla maldicenza può sostituirsi finalmente la politica.
E perché inoltre s'apre l'occasione per un dibattito ad alta voce fra i vari congiurati. Di sussurri ne abbiamo ascoltati già abbastanza. Ora servono impegni, decisioni. Servono scelte liberamente dichiarate da ciascun partito, da ciascun parlamentare, e dunque con un'assunzione di responsabilità diretta verso il governo e gli elettori.


Sarà così? È giusto dubitarne.
Se il tuo scranno nel Palazzo è frutto d'una nomina anziché di un voto, se la cooptazione ha rimpiazzato l'elezione, se insomma il tuo destino dipende per intero dalla sovrana volontà del Capo, di libertà in tasca te ne rimane poca. Puoi solo scegliere fra l'obbedienza e il tradimento, fra il Capo vecchio e quello nuovo. E i cittadini rimarranno al buio, anche se per un giorno le due Camere accendono le luci.

Eppure il Parlamento dovrebbe somigliare a un teatro in cui gli attori recitano a soggetto. Dovrebbe essere inoltre il nostro specchio collettivo, se resta ancora attuale la lezione di Walter Bagehot, direttore dell'Economist ai tempi della regina Vittoria. La prima funzione delle assemblee legislative, lui diceva, non è affatto la confezione delle leggi.

Quantomeno nei regimi parlamentari (e vi rientra anche l'Italia, benché i più l'abbiano dimenticato) è ancora più importante mettere in sella o sbalzare dal cavallo gli esecutivi, che altrimenti sarebbero totalmente irresponsabili fra un'elezione e l'altra. E sono poi fondamentali la funzione "espressiva" e quella "informativa", un tempo esercitate nei riguardi del sovrano, successivamente dinanzi agli elettori, per rendere esplicita ogni opinione, ogni interesse, ogni strategia politica.

Ma quale espressione batte e ribatte sulle nostre teste come un chiodo, quale parola sa pronunziare la politica? Una soltanto: "complotto". Quello ordito contro il presidente Fini per l'appartamento a Montecarlo - denunziato dagli uni, negato dagli altri - ne è certo l'esempio più vistoso e altisonante, ma niente affatto l'unico. Anzi: a quanto pare il caso Fini ha fatto scuola, giacché i complotti (veri o presunti) si moltiplicano, contagiano ogni ganglio della società italiana.

Nelle banche: non è forse a causa d'un complotto che Alessandro Profumo è stato cacciato da UniCredit? In magistratura, dato che ai primi del mese la procura di Salerno ha ribadito l'esistenza d'un complotto per sottrarre all'allora pubblico ministero de Magistris le sue inchieste.

Nelle amministrazioni locali, dove magari nessuno tira in ballo i servizi segreti, però un complotto degli avversari o dei compagni di partito sì: il coordinatore Pdl ad Altamura (Bari), il sindaco di Malnate (Varese) nei riguardi della Lega, la Destra alla provincia di Agrigento, e via elencando.

C'è da meravigliarsi allora se il complotto è diventato un gioco online (www.ilcomplottoforum.com)? Se ne rimane vittima il pontefice (nella vicenda del presunto complotto londinese) al pari del vicino di casa? No, l'aria che tira è questa: un'aria torbida, un clima di congiure e di sospetti.

E la politica ne è la prima artefice, non foss'altro perché ogni esempio scivola dall'alto, perché le oligarchie politiche sono la prima classe dirigente, e perché loro malgrado esercitano una funzione pedagogica sul popolo votante. O meglio diseducativa, dovremmo dire in base alla nostra esperienza collettiva.

Tanto più quando in parallelo, dietro le quinte di Montecitorio, i deputati vanno all'asta come orologi da collezione: un pezzo di Udc a rinforzo del governo, forse anche una costola dell'Mpa, Catone dal Pdl a Fli, Sbai da Fli al Pdl.

La democrazia - diceva Bobbio - è il potere del pubblico in pubblico. Siccome il potere s'esercita viceversa nelle più segrete stanze, siccome in Italia il pubblico è costretto a osservare lo spettacolo sbirciando dal buco della serratura, siccome la trama viene regolarmente oscurata dalle trame, la conclusione parrebbe a rime obbligate: il sistema democratico è ormai quasi del tutto evaporato, è un ricordo del bel tempo andato. Anche se di quel sistema sopravvive l'epicentro, il luogo della rappresentanza popolare.
Ma oggi sapremo se il Parlamento sa ancora parlare.

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Titolo: MICHELE AINIS. Tassa occulta sui cittadini e sulle imprese
Inserito da: Admin - Ottobre 04, 2010, 12:16:15 pm
Tassa occulta sui cittadini e sulle imprese

di Michele Ainis

Questo articolo è stato pubblicato il 04 ottobre 2010 alle ore 09:44.


Che la giustizia italiana sia un grosso lumacone lo sapevamo già. Però la fotografia scattata dal ministero di via Arenula, che il Sole 24 Ore offre in anteprima, ci aiuta a entrare meglio in confidenza con la bestia. Perché i dati sono progressivi, nel senso che registrano l'andamento dei processi durante il biennio 2006-2008. Perché sono altresì parcellizzati, enumerando le singole materie sulle quali verte il contenzioso. Perché misurano la durata effettiva, anziché quella presunta, dei giudizi definiti con sentenza. E perché infine si riferiscono alle cause civili, che più direttamente toccano la generalità degli italiani.

Da questi dati emerge innanzitutto una pessima notizia: salvo i procedimenti decisi in tribunale, in tutti gli altri casi il tempo del giudizio si dilata, cresce di anno in anno. Del 13,4% in corte d'appello, del 15,1% dinanzi ai giudici di pace, mentre in Cassazione la stima s'attesta al 3,7%, 41 giorni in più. Insomma la lentezza dei processi si autoalimenta, come una valanga rotolando a valle. Tempi più lunghi, arretrato più cospicuo, e l'arretrato genera ulteriori allungamenti temporali. Un po' come succede riguardo all'inflazione normativa, di cui d'altronde è figlio il lumacone.

Tu cerchi una legge per risolvere il problema di giornata, come cercheresti una cravatta in un armadio stipato alla rinfusa; ma ovviamente non la trovi, e allora corri ad acquistarne un'altra, facendo crescere il disordine anziché diminuirlo.

In secondo luogo, piove sul bagnato. E a bagnarsi fino al midollo sono i più deboli, chi non ha un ombrello per ripararsi il capo. I distretti giudiziari più virtuosi stanno tutti al nord, l'inefficienza ha le sue capitali al sud. Dai 2 anni che impiega il tribunale di Torino ai 4 anni che ci mette quello di Messina c'è una misura doppia, così come è doppio il reddito dei torinesi rispetto ai messinesi. Significa che la questione meridionale si rispecchia nella questione giudiziaria. Ma significa altresì che la promessa d'eguaglianza custodita nella Costituzione è diventata carta straccia. Come la promessa dei diritti, dal momento che se un diritto esiste, dev'essere azionabile in giudizio; altrimenti è una chiacchiera, un imbroglio. D'altra parte anche la ragionevole durata del processo – sancita da un emendamento costituzionale nel 1999 – è un'illusione ottica, giacché dal 2000 in poi i tempi processuali sono lievitati ulteriormente. Una tripla ferita alla legalità costituzionale, anzi alla legalità tout court: come potremmo prendere sul serio il codice stradale, quando la legge più alta è una favola cui non credono più neanche i bambini?

In terzo luogo, il lumacone frena l'economia italiana. Ne è prova il dato relativo ai fallimenti: 9 anni, con una performance peggiorativa fra il 2006 e il 2008. È il tempo più lungo che si trascorre in tribunale, il quintuplo rispetto a un divorzio o a una separazione giudiziale. Chi ci rimette? Tutti, ma ancora una volta specie i più deboli fra i consumatori, perché le nostre imprese devono sopportare un costo aggiuntivo, e perché quest'ultimo si scarica sulle merci che acquistiamo. Un'Iva giudiziaria, chiamiamola così.

Misurare la temperatura del malato è indispensabile per procedere alla diagnosi. Poi, però, bisogna interrogarsi sulle cause da cui deriva l'infezione. La più grave muove da un eccesso, non da un difetto di risorse (secondo il rapporto Cepej spendiamo 4,08 miliardi di euro per la giustizia, contro i 3,35 della Francia e i 2,98 della Spagna). E infatti abbiamo in circolo troppi uffici, dato che le 1.292 sedi giudiziarie sono il doppio di quelle inglesi. Troppi avvocati (236mila), con la conseguenza che a Roma lavorano più studi legali dell'intera Francia. Troppe leggi (nel 2009 la commissione Pajno ne ha contate 21.691, che raddoppiano sommandovi quelle regionali, senza dire dei 70mila regolamenti). E in conclusione troppe liti, giacché i soli bisticci giudiziari fra condomini sono 800mila l'anno.

Tuttavia se non riusciamo a far dimagrire il lumacone, possiamo almeno liberare dagli intralci il suo cammino. Anzi: abbiamo già cominciato a farlo attraverso l'Adr (Alternative dispute resolution), in uso ormai da lungo tempo negli Stati Uniti, dove il patteggiamento è la regola e il processo l'eccezione. Quanto all'Italia, meglio tardi che mai. Con la legge 69/2009 e il decreto 28/2010 la mediazione civile ha trovato spazio nel nostro ordinamento. Significa che dal marzo 2011 le cause nate fra le mura condominiali, al pari di quelle fra automobilisti, eredi, locatari e via elencando, passano attraverso la conciliazione obbligatoria. Funzionerà? Il rischio è che la litigiosità degli italiani intasi gli stessi organismi di conciliazione. Ma almeno in questo caso, non servirà troppo tempo per scoprirlo.

michele.ainis@uniroma3.it

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Titolo: MICHELE AINIS. Senza libertà di insegnare non c'è scuola
Inserito da: Admin - Ottobre 05, 2010, 12:35:56 pm
5/10/2010

Senza libertà di insegnare non c'è scuola
   
MICHELE AINIS

Oggi cade la Giornata mondiale dell'insegnante, istituita dall’Unesco nel 1994. Una buona occasione per riflettere sul destino della scuola, tanto più alla vigilia del federalismo scolastico, annunciato dalla Bozza di Accordo fra governo, regioni e enti locali del 29 luglio scorso. Ma sta di fatto che i mali della scuola sono gli stessi della società italiana. Uno su tutti: l'eccesso di diritto. E infatti consultando la banca dati del Parlamento s'incrociano 112 provvedimenti legislativi in materia d'istruzione, con una media di 8 nuove leggi l'anno.

Questo fiume normativo non scorre senza conseguenze sul nostro vissuto collettivo: genera un effetto di disorientamento, se non di smarrimento, che ha preso alla gola la comunità scolastica al pari di tutta la comunità italiana. Siamo talmente immersi nell'ansia di governare l'ultima riforma, che non sappiamo più nemmeno cosa abbiamo riformato. E allora, prima d'interrogarci sul federalismo prossimo venturo, è bene partire dalle categorie fondamentali, per mettere un po' d'ordine, per aggrapparci a qualche punto saldo. O il federalismo scolastico saprà valorizzare i fondamenti della nostra convivenza, oppure sarà come un palazzo costruito su una strada ingombra di macerie. Macerie civili, non solo macerie normative.

Queste categorie fondamentali si conservano nella Carta del 1947, che a sua volta esprime una doppia istanza di libertà nei riguardi del sistema scolastico: libertà nella scuola, libertà della scuola. La prima significa libertà d'insegnamento, le cui radici affondano nella libertà di parola garantita a tutti i cittadini. Con una doppia differenza, tuttavia, che a sua volta deriva dalla funzione pubblica che accompagna questa libertà. In primo luogo, la libertà d'insegnare non può contemplare la libertà di non insegnare: siamo sempre liberi di parlare o di tacere, ma il docente muto sarebbe una contraddizione in carne ed ossa. In secondo luogo, quando la libertà di parola si pone al servizio d'una funzione pedagogica, va sempre preservata l'auctoritas del parlante, ovvero del docente. Se il suo ruolo viene svilito, neppure uno studente crederà alle sue parole. E allora qui viene in campo la specifica dignità degli insegnanti. Questo significa una procedura di selezione ispirata a criteri d'imparzialità tecnica; e significa inoltre uno stato giuridico e un trattamento retributivo che gli permettano un'esistenza libera e dignitosa.

Quanto alla libertà della scuola, entra in gioco l'autonomia delle istituzioni scolastiche, e dunque la norma costituzionale che affida alla Repubblica il compito di dettare le norme generali sull'istruzione, fissando regole sia per le scuole pubbliche che per quelle private. In questa omogeneità di trattamento si riflette il principio d'eguaglianza, che d'altronde la nostra Carta ribadisce affermando che «la scuola è aperta a tutti». In altre parole, la libertà delle istituzioni scolastiche s'arresta quando può tradursi in un fattore di diseguaglianza: è una libertà eguale, se così possiamo dire.

Eccolo allora il metro di misura del federalismo scolastico, di cui stiamo ricevendo le prime avvisaglie in questi mesi. O il federalismo saprà rispettare la libertà degli insegnanti, insieme all'eguaglianza dei discenti, o altrimenti entrerà in rotta di collisione con la Costituzione. E non soltanto con la sua Prima parte, giacché la riforma del Titolo V non ha alterato affatto il quadro dei principi che reggono le libertà scolastiche. Difatti la legge statale, e dunque l'unica fonte normativa cogente in ogni luogo del nostro territorio, da un lato ha il compito d'enunciare i principi fondamentali in materia d'istruzione, vincolando la legislazione degli enti regionali; dall'altro lato fissa le norme generali, che a differenza dei principi sono autoapplicative. Sempre allo Stato spetta infine definire i livelli essenziali del servizio scolastico, controllandone il rispetto.

Che cosa implica questo riparto di funzioni? Implica l'uniformità di trattamento, implica la generalità della legge che a propria volta è ancella del principio d'eguaglianza, come si disse durante il secolo dei Lumi. Tutto l'opposto del federalismo sgangherato che ci propina a piene mani la politica.

michele.ainis@uniroma3.it

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Titolo: MICHELE AINIS. Ordigni di pace e di guerra
Inserito da: Admin - Ottobre 12, 2010, 10:30:47 am
12/10/2010

Ordigni di pace e di guerra
   
MICHELE AINIS

C’è un che di surreale nel modo in cui la politica italiana ha reso omaggio ai quattro alpini uccisi nel lontano Afghanistan. Il ministro della Difesa ha detto che a questo punto bisogna armare i nostri aerei con le bombe. Il suo predecessore gli ha risposto che non si può fare, è vietato dalla Costituzione. Il successore del predecessore ha controrisposto che tutto dipende dal bersaglio delle bombe. Insomma i nostri arsenali ospiterebbero bombe costituzionali e bombe incostituzionali, bombe di pace e bombe di guerra.

In realtà a venire bombardata ormai da tempo è proprio la nostra vecchia Carta. Che non è affatto una Costituzione pacifista, e dunque imbelle, come costantemente si ripete; tant’è che in quel testo la parola «guerra» risuona per 6 volte (erano 7 nel documento licenziato dai costituenti), innervando altrettante disposizioni costituzionali. Per quale ragione? Perché tutta la civiltà giuridica moderna nutre l’ambizione di porre l’emergenza sotto il prisma del diritto, d’imporle procedure e regole, anche nella condizione più estrema, quando l’emergenza incendia i cannoni.

E perché i nostri padri fondatori le bombe in testa le avevano sperimentate per davvero, avevano vissuto una guerra di conquista e una di resistenza all’esercito invasore, senza che il popolo italiano fosse mai stato convocato dal fascismo per esprimere la sua libera opinione.

Sicché dissero: mai più. Però non adottarono la scelta pacifista della Costituzione tedesca, o quella neutralista della Costituzione giapponese, le altre due nazioni sconfitte dalle truppe alleate. Dissero mai più alle guerre d’aggressione, e così scrissero l’art. 11: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Fu approvato con due soli voti contrari in Assemblea costituente, dai cattolici e dai marxisti insieme, saldando una lezione illuminista (quella consegnata alla Costituzione francese del 1791) all’etica professata da don Sturzo (che nel febbraio 1947 definì la guerra «atto immorale, illegittimo e proibito»). E fu scritto distillando ogni parola, a partire dal «ripudio» della guerra. Non «rinuncia», come qualcuno aveva suggerito, perché possiamo rinunciare all’esercizio di un diritto, e perché la guerra non è affatto un diritto.

Non «condanna», termine che esprime una valenza etica piuttosto che giuridica. Loro scelsero di ripudiare la guerra per sconfessare ogni intervento armato fuori dai nostri confini.

Ma che è accaduto negli anni successivi? Nel 1949 l’Italia ha aderito al patto Nato, dal quale è scaturito un obbligo di mutua assistenza militare fra gli Stati contraenti, sul presupposto che ogni attacco armato contro uno di essi «sarà considerato quale attacco diretto contro tutte le parti». Da qui una prima incrinatura nell’edificio costituzionale, benché lo stesso art. 11 menzioni limitazioni di sovranità in favore d’organizzazioni sovrannazionali. Ma soprattutto dagli Anni Ottanta in poi si sono moltiplicate le occasioni d’intervento militare all’estero, con o senza Nato, con o senza l’egida dell’Onu: il Libano, la Somalia, l’Iraq, la Bosnia, il Kosovo, o per l’appunto l’Afghanistan. E l’art. 11? Desaparecido. O meglio apparve come un Ufo sui cieli di Montecitorio nella primavera del 1999, durante il dibattito parlamentare che accompagnò i bombardamenti in Kosovo. Per un istante la Lega Nord e la sinistra estrema ne scoprirono difatti l’esistenza, nonché la manifesta violazione; al punto che un esponente della maggioranza - Clemente Mastella - consigliò di riformularlo per riallineare i principi costituzionali alle nuove circostanze.

Ma è stato un attimo, un battito di ciglia. Prima, durante e dopo quel dibattito tutto è continuato come sempre: le guerre ormai non si dichiarano (come vorrebbe l’art. 87 della Costituzione), si fanno e basta; non si deliberano (come vorrebbe l’art. 78); e naturalmente non servono mai a difendere il nostro territorio, a prescindere dalle bombe sugli aerei. L’unico effetto dell’art. 11 è un’ipocrisia verbale, come tante altre cui ci ha abituato la politica. Niente più guerre, solo conflitti armati, o meglio ancora operazioni di polizia internazionale. D’altronde in Italia non ci sono più spazzini, solo operatori ecologici. Ma si tratta pur sempre di monnezza.

michele.ainis@uniroma3.it
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Titolo: MICHELE AINIS. La censura goccia a goccia
Inserito da: Admin - Ottobre 19, 2010, 11:54:47 am
19/10/2010

La censura goccia a goccia

MICHELE AINIS

La libertà d’informazione è un bene fragile, come un’antica porcellana. Va in mille pezzi se la butti giù dal tavolo, e non c’è mastice che ti restituisca poi l’originale. Ecco perché abbiamo bisogno di tenere gli occhi aperti perfino sui dettagli. Specie quando sul dettaglio può inciampare un giornalista d’inchiesta, uno di quelli che vanno in prima linea, sotto il tiro delle artiglierie nemiche. Come Milena Gabanelli, come ahimè ben pochi altri suoi colleghi. È una forma di censura togliere alla Gabanelli la tutela legale della Rai? A prima vista no: nessuno minaccia di spegnere Report, né d’amputarne le parti più urticanti. D’altronde in Italia non c’è più il Minculpop, non c’è una propaganda di Stato come quella che il nazismo aveva affidato a Goebbels. La censura, quella tutt’oggi praticata dai regimi autoritari, è un’altra cosa; e il giornalista che la sfida sa che può rimetterci la vita. La Gabanelli, al massimo, ci rimetterà qualche quattrino. Tuttavia non esiste soltanto questa forma brutale di censura. Ce n’è una più obliqua e più indiretta, ma non meno efficace. Cade sulla propria vittima goccia a goccia, con un insieme d’azioni preordinate che hanno lo scopo di sfiancarla, oltre che d’intimidirla. Pressioni, ostacoli, ritardi burocratici, e ovviamente la leva finanziaria. L’arma perfetta, per i giornalisti non meno che per gli artisti.

Due secoli più tardi, rimane infatti più che mai eloquente il verso del poeta Béranger: «Io non vivo, che per scrivere dei canti; ma se voi, Monsignore, mi togliete il posto, scriverò dei canti per vivere».

Del resto nelle democrazie contemporanee l’ostracismo apertamente dichiarato può risolversi in un cattivo affare per i suoi mandanti. Finiscono per rimediarci una figura truce, mentre il censurato di turno si trasforma in martire, in eroe popolare. Guadagna tifosi, e magari trova un contratto più ricco altrove. Non è forse già successo dopo l’editto bulgaro di Silvio Berlusconi? Correva il 2002, e da Sofia il presidente del Consiglio pronunziò un diktat contro Biagi, Santoro e Luttazzi. Vennero immediatamente cancellati dai palinsesti Rai, ma dopo qualche anno (e qualche sentenza giudiziaria) i primi due ci hanno fatto ritorno passando sotto l’Arco di trionfo. Sarà per questo che nel frattempo i metodi si sono raffinati, sono diventati un po’ meno plateali. Come dimostra, per l’appunto, un rosario di episodi.

La Gabanelli, cui comunque già l’anno scorso il direttore generale Masi voleva togliere il patrocinio legale della Rai, senza riuscirci per l’opposizione di Zavoli, presidente della Vigilanza. Michele Santoro: programma a lungo in bilico, poi apre ma senza i contratti di Travaglio e Vauro, che da tre puntate lavorano a titolo gratuito; e per sovrapprezzo un provvedimento disciplinare. Serena Dandini: anche lei tenuta sulla corda, tanto che fino all’ultimo l’interessata non sapeva quante puntate le toccassero. Saviano e Fazio: altro programma ballerino, benché a novembre (salvo nuove giravolte) lo vedremo in onda. Senza dire di Paolo Ruffini, il direttore di Raitre cacciato e successivamente reintegrato per mano giudiziaria. È insomma il metodo della goccia cinese, che alla fine ti lascia un buco in fronte. Ma le torture, almeno quelle, sarebbero vietate.

michele.ainis@uniroma3.it

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Titolo: MICHELE AINIS. Riforme a rischio ricatto
Inserito da: Admin - Ottobre 23, 2010, 08:47:00 am
23/10/2010

Riforme a rischio ricatto
   
MICHELE AINIS

C’è una virtù che cercheremmo invano nelle parole dei politici: la franchezza. Volete uno scudo processuale per Silvio Berlusconi? E allora ditelo. Volete estenderlo alle accuse che lo inseguono per i fatti più remoti, quando il presidente del Consiglio usciva ancora con i calzoni corti? Ditelo di nuovo, ditelo guardando in faccia gli elettori. Qualcuno non sarà d’accordo, qualcun altro potrà osservare che dopotutto la serenità dei governanti è un bene costituzionale, l’ha stabilito pure la Consulta. Ma invece no, la politica preferisce strade più tortuose. Il processo breve, col rischio d’ammazzarne cento per salvarne uno, dato che alla fine della giostra le 170 mila prescrizioni che si consumano ogni anno nei nostri tribunali diventeranno il doppio. Oppure il lodo Alfano redivivo, tirando in mezzo il Capo dello Stato per non lasciare troppo solo il presidente del Consiglio. Anzi: in questo caso con una fava si possono catturare due piccioni. Domani, perché no?, Berlusconi potrebbe trasferirsi al Quirinale, e dunque non è male costruirsi un salvacondotto preventivo, non si sa mai, queste procure comuniste non hanno rispetto per nessuna istituzione.

C’è un problema, però, su queste colonne ne avevamo già parlato. Ieri lo ha segnalato il presidente Napolitano in una lettera ufficiale, sicché il problema è diventato alto come un grattacielo. Si dà il caso infatti che la Carta del 1947 ospiti una sola norma sulla responsabilità penale del Capo dello Stato: l’art. 90, per i delitti di alto tradimento e d’attentato alla Costituzione. In tali fattispecie può metterlo in stato d’accusa il Parlamento, ma a maggioranza assoluta dei suoi membri, la stessa maggioranza con cui si può riscrivere la Carta costituzionale. Invece il lodo Alfano copre i reati comuni, e s’accontenta della maggioranza semplice, ossia la maggioranza di governo. Per intenderci: nel primo caso servono i finiani, nel secondo probabilmente no. Significa che Napolitano sarà più tutelato se organizza un golpe o se vende la Patria allo straniero, piuttosto che se testimonia il falso o ruba la spesa alla vecchietta. Ma significa altresì che finisce sotto lo schiaffo del governo: facile ricattarlo con l’arma dell’autorizzazione a procedere, tanto un giudice anticomunista che gli si scagli addosso prima o poi si trova. Ecco perché il Presidente ha evocato l’indipendenza che dovrebbe accompagnarsi alla sua carica, e ha puntato l’indice contro l’irragionevolezza di questa disciplina.

Oltretutto nel suo caso non serve affatto la sospensione dei processi penali, dato che l’improcedibilità viene già sancita dalla prassi. Quando s’incide sui poteri dello Stato, sul loro reciproco equilibrio, bisognerebbe affrancarsi dal tornaconto di giornata. Bisognerebbe farsi carico delle conseguenze, delle reazioni, dei danni a lungo termine. Ma la lungimiranza, da queste parti, è una virtù smarrita, come la franchezza, come la buona creanza.

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Titolo: MICHELE AINIS. Mezza fiducia non fa un governo
Inserito da: Admin - Novembre 16, 2010, 11:56:20 pm
16/11/2010

Mezza fiducia non fa un governo
   
MICHELE AINIS

Senza i ministri di Futuro e libertà, il governo Berlusconi ormai somiglia al visconte dimezzato di Italo Calvino. Sarà per questo che cerca di tagliare il problema in due come una mela: mezza fiducia (quella del Senato), mezza crisi (magari un rimpasto può bastare), e in ultimo mezze elezioni (facendo rivotare gli italiani solo per la Camera). C’è una logica in queste mezze trovate? Ce n’è metà, e dunque non ce n’è nessuna.

Primo: la mezza fiducia. Se il Senato la concede, mezzo governo è salvo. E l’altro mezzo? Affonda nel pozzo della crisi, se e quando la Camera gli vota la sfiducia. Ma c’è spazio nel nostro ordinamento per un governo dimezzato? Solo a patto di scambiare il due con l’uno. Il bicameralismo, l’esistenza di due Camere gemelle, è un po’ come il matrimonio: per sposarsi bisogna essere d’accordo in due, per divorziare basta che lo decida uno. Ecco perché se una Camera respinge un progetto di legge posto in votazione, a quel punto il procedimento s’interrompe, anche se l’altra Camera l’avrebbe approvato a spron battuto. Ed ecco perché basta un solo voto di sfiducia per far cadere la compagine ministeriale: nessun governo è mai stato sfiduciato da ambedue le assemblee parlamentari.

La gara a chi voterà per prima la fiducia (o la sfiducia) al gabinetto Berlusconi cozza con la logica, o meglio con la matematica: se ho bisogno di due sì ma prevedo d’incassare un no, non ha alcun rilievo l’ordine dei voti. E comunque i precedenti (10 su 11) danno la priorità alla Camera.

Secondo: il «rimpastino» come tampone della crisi, come espediente per evitare che divampi. In astratto è praticabile, e d’altronde nei suoi cinque semestri di governo Berlusconi ha già sostituito una folla di ministri, viceministri, sottosegretari. In concreto la via è tutta in salita, perché senza Fli non c’è più maggioranza. Anche se quel partito aveva un solo generale (Andrea Ronchi) tra i banchi dell’esecutivo, anche se la sua forza elettorale rimane tutta da verificare. Nel novembre 1987, per esempio, a dimettersi fu l’unico ministro (Zanone) del partito liberale, che a sua volta rappresentava appena il 2% dell’elettorato, benché a guidarlo fosse un segretario che si chiamava Altissimo; e il Premier dell’epoca (Goria) un minuto dopo rassegnò le dimissioni del governo.

Terzo: le mezze elezioni. Se Berlusconi ci tiene così tanto a mettersi anzitutto in tasca l’appoggio del Senato, è per porre i deputati dinanzi a un altolà: volete sciogliere il governo? E allora il governo scioglierà la Camera. Un’eventualità - di nuovo - praticabile in astratto, irragionevole in concreto.

Intanto, se poi uscisse dalle urne una maggioranza ostile al gabinetto Berlusconi, per coerenza dovremmo sciogliere anche quest’altra Camera, o in alternativa sciogliere il corpo elettorale. In secondo luogo, perché mai non potremmo viceversa mandare a casa i senatori? Il (mezzo) ragionamento del presidente del Consiglio è infatti perfettamente rovesciabile: se la Camera dei Deputati gli voterà contro è perché da quelle parti si sarà formata una diversa coalizione, e non c’è ragione di privilegiare l’una o l’altra maggioranza. In ultimo, lo scioglimento anticipato d’un solo ramo del Parlamento implica per il futuro uno sfasamento temporale delle due assemblee legislative, dunque elezioni ogni due anni, e ogni due anni una crisi di governo. E allora per quale motivo la nostra Carta lo consente? Per casi - davvero - eccezionali. Per esempio di fronte a un’assemblea dominata da partiti antisistema, oppure infarcita di briganti, o altrimenti secessionista, golpista, piduista. Ma non è questo lo scenario d’oggi (sul domani, non ci giureremmo).

E c’è infine un presupposto indispensabile, per mandare a squadro questa mezza strategia: un mezzo presidente. Spetta infatti al Capo dello Stato officiare le crisi di governo, e sempre a lui spetta la decisione estrema, quella di sciogliere le Camere o al limite una sola. Se il governo pretende di dettargli le proprie decisioni, significa che ha letto mezza Costituzione. L’altra metà deve ancora studiarla.

michele.ainis@uniroma3.it
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Titolo: MICHELE AINIS. Il gioco dell'oca dei partiti
Inserito da: Admin - Novembre 26, 2010, 11:58:07 pm
26/11/2010

Il gioco dell'oca dei partiti

MICHELE AINIS

A riascoltarla adesso, la Grande promessa di semplificazione che ha inaugurato la legislatura suona come un Grande imbroglio. Sono trascorsi due anni, sembrano due secoli. Nel 2008 s’unirono in matrimonio antiche tradizioni politiche, giurandosi fedeltà in eterno. A sinistra gli eredi della Democrazia cristiana e del Partito comunista battezzarono il Partito democratico, a destra Forza Italia e Alleanza nazionale si sciolsero nel Popolo della libertà. La soglia di sbarramento completò il lavoro, cacciando dal Parlamento la destra estrema e la sinistra radicale.

Uscì di scena la carovana delle microliste personali, quelle di Dini o di Mastella, e poi i verdi, i gialli, gli arcobaleni. Dagli 11 partiti che cingevano d’assedio il governo Prodi siamo passati a un esecutivo bicolore (Pdl-Lega), mentre a Montecitorio prendevano posto 6 gruppi parlamentari in tutto, compreso il gruppo misto.

Ma la politica italiana ha un debole per il gioco dell’oca: ritorna sempre alla stazione di partenza. I co-fondatori dei due partiti principali (Fini di qua, Rutelli di là) hanno divorziato già durante il viaggio di nozze, e nel frattempo si sono affacciate alla ribalta nuove formazioni, partito del Sud contro il partito del Nord, l’antipolitica di Grillo contro la politica ufficiale, polo di centro contro i poli terrestri. C’è un’esigenza, c’è una domanda sociale che alleva la scomposizione del quadro politico? Può anche darsi, giacché ormai l’Italia è frastagliata in lobby, sindacati, categorie professionali dove trionfano soltanto gli egoismi collettivi. Ma sta di fatto che in quest’agonia della seconda Repubblica la classe politica si sta rivelando ben peggiore della società civile, come ha osservato Montezemolo e come osservano in coro gli italiani. Le scissioni, le riaggregazioni, le nuove creature non puntano a riflettere una geografia sociale in movimento; servono piuttosto a procurare un posto in prima fila agli oligarchi di partito che stavano un po' stretti nei loro vecchi condomini. Da qui l’inflazione delle sigle; ma le facce no, quelle sono sempre uguali. Queste facce ci hanno regalato un tasso di crescita dello 0,2%, il più basso fra i Paesi Ocse. Ci hanno regalato inoltre lo sfascio della nostra cittadella pubblica, dalla giustizia alla sanità, dal fisco alla scuola. Siccome non gli basta, stanno per regalarci il terzo scioglimento delle Camere nell’arco d’un quinquennio. Come reagirà l’elettorato? Per una volta, tutti i sondaggi sono convergenti: il partito del non voto (che alle scorse regionali ha toccato il 40%, sommando all’astensione le schede bianche e nulle) continua a gonfiarsi come un panettone. Viceversa il Pdl perde da 7 a 11 punti percentuali, il Pd frana a sua volta (da 8 a 10 punti in meno). Guadagna qualcosa la Lega, guadagnano Casini, Vendola, Di Pietro. Ma il menu che assaggeremo molto presto avrà il sapore d’una marmellata elettorale, dove il pezzo più grosso è soltanto il meno piccolo.

E tuttavia, attenzione: la marmellata contiene un paio di frutti velenosi. Colpa dello chef che ha cucinato le regole del voto, definendole lui stesso una «porcata». Del primo frutto abbiamo già fatto indigestione: è la regola che converte gli eletti in nominati, e che ha immediatamente intossicato la nostra vita pubblica, svilendo il prestigio delle assemblee legislative. Quanto al secondo, fin qui non ce ne siamo troppo accorti. Però a certe condizioni diventa l’ingrediente più letale, non basta una lavanda gastrica per venirne fuori indenni. Quest’altro frutto si chiama premio di maggioranza; le condizioni che lo rendono mortale dipendono per l’appunto dalla marmellata elettorale; i suoi effetti possono stroncare l’esile corpo della democrazia italiana. Come mai potrebbe sopravvivere, se la trasformazione del nostro voto in seggi diventa una rapina a mano armata? Se un partito del 25% s’accaparra il 55% delle poltrone in Parlamento? Se a quel punto nessun governo ha più l’autorità per governare?

Da qui l’urgenza di sbarazzarci di questa legge elettorale, prima che la legge si sbarazzi della nostra democrazia. Ma la politica, di nuovo, fa il gioco dell’oca. Il Pd è d’accordo sull’urgenza, e infatti chiede un governo tecnico per cambiare sistema elettorale; così offrendo al Pdl una buona ragione per opporsi al cambiamento, perché il governo tecnico rovescerebbe il risultato delle urne. Ma dopotutto è sempre la stessa tiritera, i nostri mandarini non stanno litigando sulle regole, bisticciano sui posti di governo, su una sistemazione per le loro auguste chiappe. C’è allora un lodo da proporre a questi carissimi nemici: Berlusconi continui a governare, il Parlamento modifichi la legge elettorale. Servirà una maggioranza diversa da quella che sostiene l’esecutivo in carica? Non è un delitto, è la normalità costituzionale. Il delitto è quello che altrimenti ci verrà servito in tavola alle prossime elezioni.

michele.ainis@uniroma3.it

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Titolo: MICHELE AINIS. Anche la lingua ha fatto la storia d'Italia
Inserito da: Admin - Dicembre 02, 2010, 06:42:07 pm
2/12/2010

Anche la lingua ha fatto la storia d'Italia

MICHELE AINIS

Lo Stato italiano ha 150 anni, la lingua italiana 7 secoli. Ma la Repubblica italiana ha mai saputo imbastire una politica linguistica? A parte qualche legge che prescrive l'italiano nell'etichettatura del cacao o nei fogli informativi dei giocattoli, la risposta è no. O meglio, una legge ci sarebbe: la n. 4 del 1974, che ha vietato a tutti gli uffici pubblici di usare le parole lebbra, lebbroso, lebbrosario. Qui però non s’affaccia l’esigenza di proteggere la lingua italiana, ma casomai l’opposto, perché vi si prescrive che questi termini vengano sostituiti da «Morbo di Hansen» o da «hanseniano». Dunque una legge all'insegna del politicamente corretto, anche a costo di suonare incomprensibile per chi non abbia in tasca un paio di lauree in medicina: difatti negli usi collettivi sentirsi dare del lebbroso significa ricevere un insulto, mentre se apostrofi qualcuno chiamandolo hanseniano otterrai in cambio uno sguardo stralunato.

In compenso c’è un fiume normativo che si riversa sulle minoranze linguistiche, dividendole però in figli e figliastri (il gruppo tirolese di lingua tedesca è fra le minoranze più protette al mondo). C'è anche una legge generale su tali minoranze (la n. 482 del 1999), che le elenca una per una: quelle albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene, croate, nonché le popolazioni che parlano il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano, il sardo. Tuttavia da quest’elenco mancano gli zingari, mancano varie parlate regionali al di là del sardo e del friulano, mancano le nuove minoranze forgiate dall’immigrazione. Insomma la politica linguistica dell'Italia repubblicana è un po’ come un ascensore: viziata da una sorta d’imperialismo normativo nei confronti delle etnie più deboli, arrendevole con le minoranze più ricche e più coese, pressoché silente rispetto alla tutela della nostra lingua nazionale.

Un solo esempio: gli immigrati. Qui le preoccupazioni linguistiche si limitano a un unico episodio, perché non ve n’era quasi traccia né nella legge Martelli del 1990, né nella Turco-Napolitano del 1998, né nella Bossi-Fini del 2002. Ma il punto di svolta sta nel primo «pacchetto sicurezza» incartato dal ministro Maroni, e più precisamente nella legge n. 94 del 2009, quella che ha introdotto il reato d'immigrazione clandestina. Anche se in realtà è clandestina questa stessa novità legislativa, dato che si nasconde nell'art. 1, comma 22, lettera i), che a sua volta modifica l'art. 9 del d.lgs. 286/1998, aggiungendovi un comma 2-bis. Un insulto alla matematica, se non proprio all'italiano. Eppure questo comma al cubo esige dagli immigrati una prova che molti cittadini non supererebbero: un test di conoscenza della lingua italiana, per ottenere il permesso di soggiorno.

No, non è questa l’idea che ci avevano consegnato i nostri padri fondatori. Se c'è uno spazio per la politica linguistica nella Carta del 1947, questo spazio va colmato rispettando la libertà di lingua, che a sua volta è figlia della libertà di parola. E avendo cura inoltre della nostra lingua nazionale, ma senza il bastone usato dal fascismo, non foss’altro perché in ogni manifestazione della vita culturale c’è una scintilla che non può essere pianificata, o che altrimenti muore. Come diceva Adorno, quando le feste di paese vengono messe in calendario una dopo l’altra per agevolare i viaggi culturali, finiscono per perdere la loro qualità di festa, che si regge sull'unicità del rito, sulla sua irripetibilità. Le feste vanno celebrate come cadono, la lingua va accettata per com’è, per come spontaneamente evolve, anche quando assume sonorità estranee alla nostra giovinezza. Ma la lingua è al tempo stesso un bene culturale, è insieme la memoria dei padri e l’orizzonte dei figli, ed è disgraziata la Repubblica che non abbia cura del proprio patrimonio culturale.

michele.ainis@uniroma3.it

Questo testo è una sintesi dell’intervento del professor Michele Ainis al nono convegno dell’Asli (Associazione per la storia della lingua italiana) «Storia della lingua italiana e storia dell’Italia unita» in programma da oggi a sabato a Firenze organizzato con l’Accademia della Crusca in concomitanza con le celebrazioni per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia.


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Titolo: MICHELE AINIS. Quattro scenari possibili per il dopo 14 dicembre
Inserito da: Admin - Dicembre 05, 2010, 10:53:00 pm
Silvio e l'asse del controribaltone.

Quattro scenari possibili per il dopo 14 dicembre

di Michele Ainis

Questo articolo è stato pubblicato il 05 dicembre 2010 alle ore 14:06.
L'ultima modifica è del 05 dicembre 2010 alle ore 14:39.

   
Camera chiusa, bocche fin troppo spalancate. E mentre i contendenti sparano l'uno contro l'altro raffiche verbali d'improperi, avvertimenti, ingiurie, mentre gli altolà rimbalzano perfino verso il Quirinale, in questa lunga attesa non ci resta che misurare i due scenari della crisi: il Parlamento vota la sfiducia, e dunque il governo di Silvio Berlusconi si dimette; il Parlamento conferma la fiducia, sicché l'esecutivo rimane ancora in sella. Ma davvero non c'è spazio per altre soluzioni?

A ragionarci sopra, le subordinate sono un altro paio. Per metterle in fila, dobbiamo anzitutto interrogarci sui fatti e gli antefatti della crisi. Sappiamo qual è la posta in gioco: un governo tecnico per il dopo Berlusconi, temuto dai primi come la peste nera, invocato dai secondi come una Madonna pellegrina. Ma perché il Pdl vuole a tutti i costi che il Senato s'esprima un minuto prima della Camera? E perché Berlusconi ripete a giorni alterni che non gli basta vincere per un voto di scarto, che lui punta viceversa a un sostegno più largo e più convinto delle assemblee legislative?

Da qui il terzo scenario: il governo incassa la fiducia del Senato, poi Berlusconi si dimette senza aspettare il voto della Camera, reclamando immediatamente un nuovo incarico, che a quel punto sarebbe pressoché impossibile negargli. E se poi non gli riesce di quadrare i numeri, se non coagula gli appoggi necessari al Berlusconi-bis, allora invoca lo scioglimento della Camera, tanto lui in Senato una maggioranza ce l'ha già. Oppure dopo la fiducia del Senato si sottopone alla sfiducia di Montecitorio, ma a quel punto sale al Quirinale chiedendo - di nuovo - la rielezione della Camera dei deputati, e soltanto di quella. Insomma un espediente per disinnescare la sfiducia trasformandola in mezza fiducia, per disarmare lo spauracchio del governo tecnico, per trasformare in suicidio collettivo il voto contrario dei deputati.

Riuscirebbe? In Bulgaria sì, in Italia no. Lì c'è un Parlamento monocamerale, da noi la mezza fiducia è sempre una sfiducia tutta intera. Per governare devi procurarti l'avallo di ambedue le Camere, altrimenti crisi, consultazioni e via: avanti un altro. Semmai il vero colpo che Berlusconi potrebbe avere in canna è il quarto scenario della crisi, quello che non t'aspetti, quello che spiazzerebbe l'opposizione e il Quirinale. Funziona così: l'esecutivo strappa la fiducia sia al Senato sia alla Camera, magari sul filo del rasoio. Dopo di che il presidente del Consiglio, anziché cantare vittoria a squarciagola, va da Napolitano con le dimissioni in mano. Per quale ragione? Perché non vuol finire come il governo Prodi, vivacchiando su un gruzzolo di voti ballerini. Ma soprattutto perché s'infilerebbe in tasca l'attestato che il Parlamento non sa esprimere maggioranze alternative. Dunque niente governi tecnici, anzi niente consultazioni, dato che le Camere sono state appena consultate attraverso il voto di fiducia. Dunque subito elezioni, ovviamente col porcellum, e perciò con il premio di maggioranza all'orizzonte per la coppia Bossi-Berlusconi. La fine di Fini, un controribaltone che a sua volta rovescia tutti gli altri ribaltoni.

E Napolitano? A un primo sguardo, parrebbe di vederlo con le mani legate, anzi con le manette ai polsi. Che senso avrebbero le consultazioni in questa prospettiva? E come potrebbe chiedere al dimissionario di ripresentarsi in Parlamento, quando ne è appena uscito prima di salire al Quirinale? Con che pretesto potrebbe negare a Berlusconi il lavacro elettorale, quello che monda ogni peccato?

Tuttavia bisogna sempre diffidare delle prime impressioni. Se fosse vero che un governo sostenuto dalla fiducia delle assemblee parlamentari può indire le elezioni semplicemente dimettendosi nelle mani del capo dello Stato, allora quest'ultima figura non sarebbe che un orpello, un soprammobile nella casa delle nostre istituzioni. Se fosse vero che la fiducia manifestata nei riguardi d'un governo non possa convertirsi il giorno dopo nella fiducia verso altri governi, allora ogni esecutivo durerebbe per tutti i secoli a venire. Se fosse vero che la fiducia espressa a voto palese da deputati e senatori significa un appoggio sincero, allora non avremmo assistito allo spettacolo che si è consumato dal 30 settembre in poi, quando Berlusconi aveva già ottenuto la fiducia.

No, neanche il quarto scenario della crisi può decapitare il ruolo del capo dello Stato, né quello dei partiti. Le dimissioni del presidente del Consiglio - spontanee o forzate, con o senza un voto di fiducia - in ogni caso riaprono le danze, e a quel punto dipenderà dai ballerini. L'unica cosa certa è che avremo tutti da ballare.

michele.ainis@uniroma3.it


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Titolo: MICHELE AINIS. Corrotti e corruttori
Inserito da: Admin - Dicembre 12, 2010, 04:21:08 pm
12/12/2010

Corrotti e corruttori


MICHELE AINIS

Il voto di fiducia è come una messa solenne nel tempio delle istituzioni. Celebra la sacralità del Parlamento, che attraverso questo rito sceglie un nuovo papa, o riconsegna al vecchio le chiavi pontificie. Ma al contempo celebra i governi, innalzandoli alla gloria dell’altare. Invece la politica italiana ha trasformato la messa in messinscena, la liturgia in commedia. Se i santini sono questi, per noi fedeli sarà dura raccoglierci in preghiera.

È il caso, innanzitutto, del governo Berlusconi. Davvero c’è da attendere il 14 dicembre per decretarne i funerali? Davvero lo stesso giorno potremmo viceversa assistere al miracolo della sua resurrezione? È insomma un voto in meno o in più che può restituirci un esecutivo autorevole e longevo?

Evidentemente no, non è così. Se anche Berlusconi la spuntasse per il rotto della cuffia, il giorno dopo si ritroverebbe come Prodi, appeso agli umori del trotzkista Turigliatto o della moglie di Mastella. L’Italia ha urgenza d’una stagione di riforme, ma nessuna compagine ministeriale potrà mai inaugurarla senza una forte base in Parlamento.
Servirebbe dunque guadagnare nuovi soci, allargare la coalizione di governo con un programma condiviso.

Servirebbe, in breve, la politica; invece a Montecitorio va in onda il calciomercato. Signori di mezza età corteggiati come fanciulle in fiore, adescati uno per uno. Oppure comprati con qualche lingotto d’oro, se è autentico il sospetto della procura di Roma.
Ecco, il sospetto. Sta corrodendo la residua credibilità del Parlamento, proprio nel giorno che avrebbe dovuto sancirne il primato. In Italia nessun governo è mai caduto in seguito a una mozione di sfiducia (Prodi si dimise dopo una «questione» di sfiducia, che è cosa diversa): sempre crisi extraparlamentari, consumate scavalcando le assemblee legislative. Adesso no, le Camere sono tornate al centro della scena. Ma la crisi in Parlamento via via si è tramutata in una crisi del Parlamento, e quest’ultima ha infine messo in crisi le garanzie costituzionali che proteggono la dignità delle due Camere.

Qual è infatti la trincea giuridica su cui si è asserragliato il centrodestra? L’art. 67 della Costituzione, che pone il divieto di mandato imperativo. Se ogni deputato è libero di votare un po’ come gli pare, sarà anche libero d’accettare incenso e mirra per ogni voto espresso. Ma libero rispetto a chi? Rispetto alla mamma, alla sorella, al Popolo della libertà? No, libero rispetto ai suoi elettori. Peccato tuttavia che i nostri parlamentari, grazie al porcellum, siano stati scelti dai partiti, non dagli elettori. Peccato quindi che la garanzia del libero mandato si sia svuotata come un uovo per assenza del mandato.

C’è però un’altra garanzia costituzionale, sta appena un rigo sotto. Si conserva nell’art. 68, che proclama i membri del Parlamento insindacabili per le opinioni e i voti in aula. Da qui un’irresponsabilità giuridica, che a sua volta è di tre tipi. Civile (se rivelo un segreto industriale, nessuno potrà chiedermi i danni). Penale (se ti diffamo durante un discorso in Parlamento, non hai il diritto di sporgere querela). Disciplinare (se critico il ministro di cui sono dipendente, lui non potrà applicarmi una sanzione). E se invece voto la fiducia in cambio della cassaforte di Zio Paperone? Alla lettera, l’art. 68 vale pure in questo caso. Ma fu concepito per proteggere la libertà intellettuale dei parlamentari, non la libertà di mettersi all’asta. La loro indipendenza, non la dipendenza dal denaro.

C’è allora una lezione che ci impartisce questo tempo di briganti. La malattia etica che ha fiaccato la politica reclama una nuova etica politica, non le medicine del diritto, non il soccorso della Costituzione. Anche perché la nostra Carta è la prima vittima di questa malattia. Ma riesce ancora a vendicarsi, sia pure mentre esala l’ultimo respiro. Se infatti il voto del parlamentare corrotto è insindacabile, l’offerta del parlamentare corruttore no: quell’offerta non è un voto, non è un’opinione, non è protetta dal divieto di mandato imperativo. Sicché alla fine della giostra la procura di Roma potrebbe fare un’esperienza inversa rispetto alla procura di Milano. Nel caso Mills c’era un corrotto senza corruttore (improcessabile); qui avremmo un corruttore senza corrotti (improcessabili). Mezzo reato per un Parlamento dimezzato.

michele.ainis@uniroma3.it

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Titolo: MICHELE AINIS. Sul crocifisso un muro divide le aule d'Italia
Inserito da: Admin - Febbraio 28, 2011, 03:20:48 pm
Sul crocifisso un muro divide le aule d'Italia -

Ma una civiltà senza segni è priva di vita

di Michele Ainis

Questo articolo è stato pubblicato il 27 febbraio 2011 alle ore 15:16.

 
Poverocristo o povero Cristo? Dobbiamo prendere partito per Marcello Montagnana (l'insegnante di Cuneo che andò sotto processo per aver rifiutato l'ufficio di scrutatore alle politiche del 1994, protestando contro l'esposizione del crocifisso nei seggi elettorali) o è giusto schierarsi per il simbolo dolente che campeggia in tutti i nostri edifici pubblici? Sergio Luzzatto sceglie decisamente il primo, ma senza mancare di rispetto nei confronti del secondo. Il rispetto del quale in Italia siamo orfani è piuttosto un altro: quello che andrebbe tributato al principio di laicità del nostro stato. Lo professiamo a chiacchiere, però nei fatti ce lo mettiamo sotto i piedi. E a tale riguardo la vicenda del crocifisso è la più dibattuta, ma non la più eloquente. Ne è prova per esempio il finanziamento pubblico alle scuole private, che al 90 per cento sono scuole cattoliche: la Costituzione lo vieta espressamente, una legge del 2000 lo permette allegramente.

Sarà per questo, per la cifra di disperazione che ormai accompagna i laici nel paese in cui torreggia il Cupolone, che Luzzatto ha scritto un libro acre come zolfo, dove risuonano gli accenti del pamphlet. E dove riecheggia la storia di Montagnana insieme a quella dei coniugi Lautsi, che hanno ingaggiato una lunga battaglia giuridica e civile contro l'esposizione del crocifisso nelle scuole. Potremmo aggiungervi pure il giudice Tosti, che ha fatto altrettanto per espellere questo simbolo ingombrante dai muri delle aule giudiziarie, guadagnandone in cambio una sfilza di processi e di castighi. L'elenco è lungo. Ma è lungo anche l'elenco dei paladini del crocifisso, dove figurano intellettuali insospettabili come Natalia Ginzburg, donna laica e di sinistra. Nonché nomi importanti dell'intellighenzia cattolica italiana, quali Massimo Cacciari e Franco Cardini. Luzzatto ricorda – con qualche grammo di perfidia – che il primo viene dall'operaismo sessantottesco, il secondo dal neofascismo degli anni Cinquanta, però l'approdo è identico.

E quale arma dialettica viene brandita in questi casi?

Un coltello a doppia lama, benché le due lame siano poi tutt'altro che affilate. In primo luogo – s'osserva – quella croce di legno non fa male a nessuno, è un dettaglio dell'arredamento pubblico sul quale i più passano via senza degnarlo d'uno sguardo. Curiosa questa difesa della rilevanza pubblica del crocifisso in nome della sua irrilevanza pubblica. Ma a sprezzo della logica, gli indomiti crociati ci rovesciano addosso una domanda: se è questione dappoco, allora perché tanto accanimento? Risposta: perché quand'anche fosse un solo uomo a sentirsene ferito, a venire sopraffatto da una religione dominante che lo esclude, uno stato democratico avrebbe l'obbligo d'aprire un ombrello in sua difesa. I diritti valgono per i deboli, non per i forti. Servono ai meno, non ai più. Specialmente quando entra in gioco la libertà di religione, che storicamente ha preceduto la stessa libertà di manifestazione del pensiero. Se fossero libere soltanto le parole di chi canta nel coro, sarebbe come stabilire in una legge che hanno diritto al vino esclusivamente gli ubriachi.

D'altronde lo ha dichiarato pure la Consulta, attraverso un nutrito gruppo di pronunzie che s'affaccia sul volgere degli anni Settanta: il principio di maggioranza non si applica alla sfera religiosa, e dunque è "inaccettabile" ogni discriminazione basata sul numero degli appartenenti ai vari culti. Non fu minoranza la stessa Chiesa cattolica? Venne fondata da Cristo alla presenza di non più di 12 discepoli, anche se adesso qualcuno lo ha un po' dimenticato. Ma si può ben essere cattolici senza pretendere d'imporre al prossimo le insegne del papato. Ne è testimonianza don Milani, che tolse il crocifisso dalle pareti della scuola di Calenzano per cancellare ogni sospetto di pedagogia confessionale. Ne è testimonianza il gesto di Cesare Ruperto, ex presidente della Corte costituzionale: benché cattolico, all'atto del suo insediamento fece eliminare il crocifisso dall'aula delle udienze alla Consulta. Perché quello spazio è pubblico, di tutti. E perché la nostra carta afferma l'eguaglianza delle confessioni religiose.

Qui però s'affaccia l'altro argomento inalberato dai crociati: non è per le nostre idee particolari che sosteniamo il crocifisso obbligatorio, lo facciamo per il vostro bene, per difendere la storia della quale anche voi atei o miscredenti siete figli, e dunque per difendere l'identità che vi appartiene. Non è forse vero che riposate di domenica ("il giorno del Signore"), che contate gli anni a partire dalla nascita di Cristo? E allora il crocifisso è un simbolo civile, allora la laicità si nutre di valori religiosi: nel 2006 lo ha scritto anche il Consiglio di stato.

Dev'essere per questo, per la santificazione dell'ossimoro operata dai nostri tribunali, che Luzzatto dichiara in ultimo tutta la sua sfiducia nel diritto. Dice: a breve arriverà un verdetto dalla corte di Strasburgo, ma tanto per noi non cambierà mai nulla. Sbaglia, perché la querelle si vince o si perde sull'altare della legge. Ma non è detto che la laicità reclami un muro nudo. Non è detto che la difenderà un divieto, come nella Francia che nel 2004 ha proibito il velo in classe, nel 2010 il burqa. Possiamo aggiungere, anziché togliere. Possiamo allestire un muro colorato, dove campeggiano i simboli d'ogni religione, e anche lo stemma di chi non ha religione. Quanto a noi laici, ci basterebbe il faccione corrugato di Voltaire.

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da - ilsole24ore.com/art/cultura


Titolo: MICHELE AINIS. Deriva pericolosa
Inserito da: Admin - Aprile 01, 2011, 10:26:12 pm
Deriva pericolosa

Una roba così non era mai successa.
Il capo dello Stato che convoca i capigruppo al Quirinale, li mette in riga come scolaretti, gli chiede conto dei fatti e dei misfatti. D'altronde non era mai successo nemmeno il finimondo andato in scena negli ultimi due giorni. Il ministro della Difesa che manda a quel paese il presidente della Camera, quello della Giustizia che giustizia la sua tessera scagliandola contro i banchi dell'Italia dei Valori, quello degli Esteri che lascia la Libia al suo destino per votare un'inversione dell'ordine del giorno in Parlamento. Dall'altro lato della barricata, fra i generali del centrosinistra, contumelie e strepiti, toni roboanti, decibel impazziti. E intanto, nelle valli che circondano il Palazzo, folle rumoreggianti dell'opposizione, lanci di monetine, improperi contro il politico che osa esibire il suo faccione.

Diciamolo: la nostra democrazia parlamentare non è mai stata così fragile. Ed è un bel guaio, nel mese in cui cadono i 150 anni della storia nazionale. Perché uno Stato unito ha bisogno di istituzioni stabili, credibili, forti di un popolo che le sostenga. Ma in Italia la fiducia nelle istituzioni vola rasoterra. Per Eurispes nel 2010 le file dei delusi si sono ingrossate di 22 punti percentuali, per Ispo il 73% dei nostri connazionali disprezza il Parlamento. Colpa dello spettacolo recitato dai partiti, colpa del clima di rissa permanente che ha trasformato le due Camere in un campo di battaglia. Le nazioni muoiono di impercettibili scortesie, diceva Giraudoux. Nel nostro caso le scortesie sono tangibili e concrete come il giornale lanciato in testa al presidente Fini.

Ma non è soltanto una questione di bon ton, di buona educazione. O meglio, dovremmo cominciare a chiederci per quale ragione i nostri politici siano scesi in guerra. Una risposta c'è: perché sono logori, perché hanno perso autorevolezza, e allora sperano di recuperarla gonfiando i bicipiti. Sono logori perché il tempo ha consumato perfino il Sacro Romano Impero, e perché il loro impero dura da fin troppo tempo. Guardateli, non c'è bisogno d'elencarne i nomi: sono sempre loro, al più si scambiano poltrona. Stanno lì da quando la seconda Repubblica ha inaugurato i suoi natali, ed è proprio il mancato ricambio delle classi dirigenti la promessa tradita in questo secondo tempo delle nostre istituzioni. Da qui l'urlo continuo, come quello di un insegnante che non sa ottenere il rispetto della classe. Perché se sei autorevole parli a bassa voce; ma loro no, sono soltanto autoritari.

Ma da qui, in conclusione, il protagonismo suo malgrado del capo dello Stato. D'altronde non sarà affatto un caso se l'istituzione più popolare abita sul Colle: dopotutto gli italiani, nonostante la faziosità della politica, sanno ancora esprimere un sentimento di coesione. E il presidente simboleggia per l'appunto l'unità nazionale, così c'è scritto nella nostra Carta. La domanda è: come raggiungerla? Con un ricambio dei signori di partito, con un'iniezione di forze fresche nel corpo infiacchito della Repubblica italiana. Ci penseranno (speriamo) le prossime elezioni. Quanto poi siano lontane, dipenderà dalla capacità di questo Parlamento di mantenere almeno il senso del decoro.

Michele Ainis

01 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_aprile_01/


Titolo: Michele Ainis. Talento e coesione per il terzo millennio
Inserito da: Admin - Aprile 03, 2011, 11:38:24 pm
Il merito non è di destra né di sinistra. E neanche Italia Futura

Talento e coesione per il terzo millennio

di Michele Ainis , pubblicato il 30 marzo 2011


Italia futura è di destra o di sinistra? Domanda fuori luogo, nel senso che il luogo di questa associazione si situa nella società civile, non nella società politica. Ma in una società virtuosa popolo e Palazzo dovrebbero abitare nello stesso condominio, mentre in Italia vivono da tempo in due città lontane. E allora proviamo a declinare la risposta, un po’ per gioco, un po’ per misurare le categorie della politica con il nostro metro di sudditi, pardon, di cittadini.

La meritocrazia, per fare un primo esempio. La rivoluzione dei talenti promessa dai costituenti francesi nel 1789, e rispolverata da quelli italiani nel 1947, attraverso la norma forse più suggestiva della nostra Carta: «I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi». Vale per gli studenti, vale per i lavoratori in generale. Ma la promessa si è trasformata in un miraggio, e il miraggio in un raggiro, in questo Paese dove l’ascensore sociale è sempre fermo al piano, dove la diseguaglianza cresce come un fungo, dove insomma la tua carriera dipende dal certificato anagrafico che hai ricevuto in sorte, oppure dalla voglia di venderti l’anima a questa o a quella lobby.

Da qui le campagne (e le proposte concrete) di Italia Futura per insediare il merito nel nostro vissuto collettivo. Con un profilo di destra o di sinistra? Né l’uno né l’altro, se ci muoviamo dentro il perimetro delle categorie tradizionali. Bobbio diceva che la sinistra si distingue dalla destra perché ha nel cuore l’eguaglianza più della libertà, mentre la destra predilige la libertà sull’eguaglianza.

Fino a venerare, nei suoi accenti estremi, il mercato come una divinità pagana, rifiutando qualsivoglia regola che possa imbrigliare gli spiriti selvaggi del capitalismo. All’opposto, la sinistra estrema ha teorizzato l’eguaglianza nei punti d’arrivo, fino al paradiso in terra del presidente Mao: a tutti lo stesso salario, la stessa divisa grigioverde, lo stesso paio di scarpe. Ma il merito significa eguaglianza nei punti di partenza, poi chi ha più polmoni taglierà per primo i nastri del traguardo. Significa perciò eguaglianza e libertà congiunte in matrimonio, attraverso l’eguale libertà di diventare diseguali. Non è destra, non è sinistra – o forse tutt’e due, il meglio dell’una e dell’altra tradizione.

E la legalità?
Nessuno ha il diritto di farne una bandiera solitaria, benché in Italia destra e sinistra s’accusino a vicenda d’affondare sino alle caviglie nella melma dell’illegalità. Con qualche fondamento, a scorrere le cronache locali e nazionali.

E l’efficienza?
Nella seconda Repubblica destra e sinistra hanno governato a turno, mentre l’economia italiana viaggiava a passo di lumaca, precipitando in tutte le classifiche internazionali.

E il ricambio delle nostre inossidabili classi dirigenti? E il valore della coesione nazionale? Sono di destra o di sinistra?
Chissenefrega, verrebbe da rispondere. Il fatto è che queste due vestali della politica sono figlie del Novecento, nipotine dell’Ottocento, ma non sanno più aiutarci nel mondo del terzo millennio. Né loro, né i partiti che vi si riflettono come un’immagine sbiadita.
Consegniamole agli archivi della storia, e non ne parliamo più.


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Michele Ainis, membro del comitato direttivo di Italia Futura, è ordinario di Istituzioni di diritto pubblico all'Università di Teramo.
E' editorialista de La Stampa e Il Sole 24 Ore. Ha fatto parte di varie commissioni ministeriali di progettazione e di studio e scritto numerosi saggi, l'ultimo pubblicato è L’assedio. La Costituzione e i suoi nemici (Longanesi, 2011).


da - italiafutura.it/dettaglio/111332/


Titolo: MICHELE AINIS. PROPOSTE INUTILI E PERICOLOSE
Inserito da: Admin - Aprile 21, 2011, 06:00:42 pm
PROPOSTE INUTILI E PERICOLOSE

La plastica istituzionale

Potremmo iscrivere alla fiera dell'ovvio la proposta dell'onorevole Ceroni, benché il Palazzo l'abbia salutata con fragore. Potremmo gettare nel cestino dei farmaci scaduti quest'ultima iniezione ri-costituente. A che serve infatti dichiarare - già nel primo articolo della nostra Carta - che il Parlamento è l'organo centrale del sistema, che per suo tramite s'esprime la volontà del popolo, che il popolo a sua volta designa deputati e senatori attraverso un rito elettorale? Magari può servire a ricordarci che in quel posto lì ci si va per elezione, non per cooptazione, non per nomina d'un signorotto di partito, come c'è scritto nel «Porcellum». Ma tutto il resto è già nero su bianco nella Costituzione: articoli 55 e seguenti. Basta sfogliarne qualche pagina, dopotutto non è una gran fatica.
Le leggi inutili, diceva Montesquieu, indeboliscono quelle necessarie. E infatti almeno un quarto del tempo speso dai costituenti nel 1947 fu dedicato a interrogarsi su quanto avesse titolo per entrare nella Carta, allo scopo di non sottrarle dignità e prestigio. Scrupoli d'altri tempi, diremmo col senno di poi. D'altronde, proprio l'articolo 1, con questa folla di chirurghi plastici che sgomita attorno al suo capezzale, ne è la prova più eloquente. C'è per esempio la proposta - avanzata a turno da Segni e da Brunetta, dai radicali, dallo stesso Berlusconi - d'espellere il lavoro dai fondamenti della nostra convivenza. Parola comunista, dicono: meglio libertà. Anche se la libertà già alberga, come noce nel mallo, nella democrazia evocata dall'articolo 1. Non importa, costruiremo una democrazia al quadrato. E poi, libertà di chi? Del popolo, ovviamente. Sicché potremmo scrivere così: «L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul Popolo della libertà».

Il guaio è che proprio questa parrebbe l'intenzione di Ceroni, nonché dei molti che annuiscono in silenzio. Se non il testo, stavolta fa fede il contesto. Ossia la relazione che accompagna la proposta, dove s'alza il tiro contro gli organi di garanzia costituzionale, a partire dal capo dello Stato. Dove si denunciano abusi e prepotenze a scapito della «centralità parlamentare» (a proposito, ma non fu uno slogan degli anni Settanta, i nostri anni più rossi? Si vede che i politici sono diventati un po' daltonici). Dove infine si disegna un modello di democrazia plebiscitaria. Conviene allora dirlo con chiarezza: così usciremmo fuori dalla Costituzione. Non solo da quella italiana, ma da qualunque altra. Come scrissero i rivoluzionari del 1789, se una società non regola la separazione dei poteri, non ha una Costituzione.

Eppure è esattamente questo che ci sta succedendo. La proposta Ceroni è figlia d'un clima che nega il valore stesso delle regole, perché l'unica regola vigente è quella che ciascuno sagoma attorno al suo pancione, come una cintura. Non a caso la parola più abusata è «eversione», e infatti ieri è risuonata mille volte. Nel frattempo sulla Consulta piovono conflitti come rane (l'ultimo è sempre di ieri). Servirebbe una tregua, una vacanza, un giorno di riposo. Ma intanto ci servirà l'ombrello.

Michele Ainis

21 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_aprile_21/


Titolo: MICHELE AINIS. Tra poche settimane voteremo quattro referendum. O no?
Inserito da: Admin - Maggio 07, 2011, 07:30:11 pm
ISTITUTI DEMOCRATICI
Salvare i referendum

Tra poche settimane voteremo quattro referendum.

O no?

Sta di fatto che per raggiungere il seggio elettorale ci costringono alle montagne russe. Prima scegliendo una data balneare (e almeno in questo caso la perfidia costa: 300 milioni, 5 euro a ogni italiano, per il rifiuto d'accorpare i referendum alle amministrative). Poi sommergendo i quesiti con una coltre di silenzio nelle televisioni (da qui il richiamo sacrosanto di Napolitano). Infine sfogliando la margherita, strappandone un petalo alla volta. Dopo gli emendamenti introdotti nel decreto omnibus, il referendum sul nucleare attende solo che la Cassazione ne celebri i funerali. I due sull'acqua stanno per essere azzoppati attraverso la creazione di un'authority. Resterà in piedi il referendum sul legittimo impedimento, che a quel punto avrebbe bisogno di un paio d'ali per superare il quorum. D'altronde già da adesso il suo valore è per lo più simbolico, dato che la Consulta ha tagliato le unghie alla disciplina originaria. Sicché finirà per trasformarsi in un plebiscito pro o contro Berlusconi. Ai quesiti referendari capita sovente: nascono cavalli, lungo la strada diventano giraffe. Togliendoci oltretutto la possibilità di votare su questioni specifiche e concrete, anziché su animali mitologici.

Eppure dovremmo averci fatto il callo. Tutti i governi, di destra o di sinistra, di centro o di lato, hanno sempre avuto in gran dispetto il referendum. E infatti in Italia la sua storia è scandita da trucchetti. Comincia con 22 anni di ritardo rispetto all'orologio dei costituenti (la legge istitutiva è del 1970). Continua frodando il voto popolare (celebre il caso della consultazione sul finanziamento pubblico ai partiti, che nel 1993 venne abrogato dal 90% dei votanti, ma fu immediatamente riesumato sotto mentite spoglie dai partiti). S'interrompe quando i suoi nemici ricorrono allo scioglimento anticipato delle Camere pur di rinviarlo alle calende greche (è accaduto nel 1972, nel 1976, nel 1987, nel 1994). E in ultimo agonizza bevendo la cicuta dell'astensionismo organizzato, che ha via via fatto saltare 24 referendum dal 1997 in poi.

Questo livore contro il referendum maschera in realtà un'antica diffidenza dei politici italiani verso gli italiani. Per loro siamo soltanto un popolo bambino, ciascuno con indosso il suo grembiule. E d'altronde che ne sappiamo noi di questioni scientifiche complesse come l'elettrosmog (su cui votammo nel 2003), la fecondazione assistita (referendum del 2005), o per l'appunto il nucleare? Potremmo rispondere osservando che se l'elettore è incompetente, lo è altrettanto l'eletto. O forse anche di più, almeno a guardare le pupille vuote che si spalancano in tv. Potremmo ricordare che la prima Repubblica fu battezzata da un referendum (quello del 1946), e che un altro referendum (nel 1993) ha schiuso i battenti alla seconda. Ma il fatto è che la crisi della democrazia diretta, insieme al veleno inoculato dal «Porcellum» sul corpo della democrazia indiretta, ha reso traballanti le nostre istituzioni. Per forza: nessuno può reggersi su una gamba sola, per giunta malaticcia. E ogni democrazia viaggia su due schede, l'elezione e il referendum.

Ecco perché è diventato urgente correggere la fisionomia di quest'ultimo istituto, anziché baloccarsi con riforme impalpabili e improbabili. Il governo vorrebbe correggere la Carta scrivendo che l'amministrazione è al servizio del bene comune (come se fin qui fosse una vestale del Maligno). Altri vorrebbero espellere il lavoro dai fondamenti della nostra convivenza (proprio adesso, mentre 3 giovani su 10 sono disoccupati, e gli altri 7 costretti a un lavoro ballerino). Dedichiamoci piuttosto a restituire la sovranità al popolo bambino. Per esempio eliminando dai referendum il quorum di validità: non lo rimpiangeremmo.

Michele Ainis

07 maggio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_maggio_07/


Titolo: MICHELE AINIS. Strategie e furori elettorali
Inserito da: Admin - Maggio 15, 2011, 10:56:33 am
LE PAROLE DELLA POLITICA

Strategie e furori elettorali

Davvero gli elettori sono diventati ormai come tifosi da aizzare per evitare l'astensionismo?

di  MICHELE AINIS


Riassumendo: i pm di Milano sono un cancro, quelli di Napoli una discarica. I parlamentari sono altrettanti perditempo, ma l'ozio in questo caso produce un doppio effetto: quelli di destra diventano alienati, perché hanno lasciato fior di professioni per servire il Palazzo; quelli di sinistra si trasformano in alieni. Gli alieni di sinistra puzzano, avendo litigato col sapone. Ma stonano anche il Csm, il capo dello Stato, la Consulta. O comunque sa di congiura questo loro accanimento contro la volontà del popolo sovrano, espressa dal megafono del leader.

E allora basta con le lungaggini procedurali in Parlamento. Basta con le pignolerie costituzionali. Basta con questa Corte che abroga le leggi (in realtà le annulla, presidente). E già che ci siamo, basta pure con l'altro presidente: è sufficiente quello del Consiglio, l'altro ormai è di troppo.

Vabbè, siamo in campagna elettorale, e si è aperta una gara a chi la spara più grossa. Vabbè, la paura fa novanta, e c'è il rischio che il voto non vada bene. Ma il guaio è che in Italia la campagna elettorale dura tutto l'anno. Ogni limite ha una pazienza, diceva Totò; e francamente li abbiamo superati entrambi, sia il limite sia la nostra pazienza. Davvero gli italiani meritano questo trattamento? Davvero gli elettori sono ormai come i tifosi? E davvero aizzando gli opposti furori delle curve Berlusconi allontanerà lo spettro dell'astensionismo? Più facile che questo spettro si gonfi come l'Aladino della lampada: dopotutto, gli attaccabrighe rimangono un'esigua minoranza. E se il menu servito in tavola diventa, lui sì, maleodorante, saranno in pochi a sedersi al banchetto elettorale.

Qualcuno prima o poi dovrebbe dirlo al presidente del Consiglio: la sua strategia non paga. Offende la buona creanza, ma cozza inoltre con la logica. A cominciare dalla logica giuridica, che nella patria del diritto dovrebbe pur avere un posto al sole. Vale per esempio circa l'intenzione, ripetuta come una cantilena, d'istituire una commissione parlamentare d'inchiesta sulle inchieste dei pm: l'inchiesta al quadrato. Vale quanto al progetto di dimezzare deputati e senatori, annunciato proprio mentre il governo vuole l'aumento dei sottosegretari. Vale per lo sdegno che in Berlusconi provoca la lunga mano dei partiti sui membri del Csm, quando il suo partito ha appena nominato cinque consiglieri su otto. Ma vale soprattutto per gli organi di garanzia costituzionale: Consulta e capo dello Stato.

Per quale ragione? Non solo perché questi due cani da guardia intervengono con moderazione. E infatti l'annullamento delle leggi rimane un'eccezione, dato che nove volte su dieci la Corte costituzionale le lascia in vigore. Mentre fin qui Napolitano ha rifiutato di timbrare una sola legge (quella sul lavoro), un solo decreto legge (quello per Eluana Englaro), un solo decreto legislativo (quello sul federalismo municipale). Significa che in tutti gli altri casi ha detto sì, non c'è da lamentarsene. Ma ci lamenteremmo eccome, senza questi due garanti. Perché toglierli di mezzo, o comunque degradarli a figuranti senza voce, significherebbe amputare lo Stato di diritto. Sarà fin troppo banale ricordarlo, ma senza un controllore con la paletta in mano la maggioranza avrebbe i poteri d'un tiranno. E dei nostri diritti resterebbe soltanto un guscio vuoto.


11 maggio 2011
da - corriere.it/politica/11_maggio_11/


Titolo: MICHELE AINIS. LA BONACCIA DELLE ANTILLE
Inserito da: Admin - Maggio 31, 2011, 11:22:07 pm
TANTE PROPOSTE, POCHE LEGGI

LA BONACCIA DELLE ANTILLE

La politica è in vacanza. Non i politici, però: loro lavorano fin troppo. O meglio urlano, sgomitano, s'accalcano in tv. Per forza: c'è in vista un'elezione. E allora giù con un diluvio di parole, promesse reboanti per gli amici, accuse infanganti per i nemici. Ma i fatti no: non si sa mai, gli elettori potrebbero distrarsi.

Sicché in Parlamento è calata la grande bonaccia delle Antille, avrebbe detto Italo Calvino. Vanno in votazione solo i decreti legge, com'è successo ieri; altrimenti scadono, e dopo sono guai. Ma la riforma dello Stato? Non ve n'è traccia, al pari della soppressione delle Province, del bicameralismo prossimo venturo, del premierato, per non parlare poi della legge elettorale. E il nuovo articolo 41, che a giudizio del governo libererà da vincoli e laccioli la nostra economia? La Camera l'ha messo in calendario a giugno, sempre che la commissione abbia concluso i suoi lavori. Vatti a fidare, quando in Senato 22 disegni di legge attendono da mesi che la commissione Bilancio esprima il suo parere, mentre altri 7 sono orfani della relazione tecnica da parte della Ragioneria generale. Un caso per tutti: le norme contro la corruzione. Scritte e pure emendate, ma per 230 giorni chiuse a chiave nei cassetti della commissione, in attesa di responso. Evidentemente i politici italiani sono più pensosi di Diogene dentro la sua botte.

E la giustizia? Un'emergenza a corrente alternata. Perché dopo gli annunci, i dibattiti, gli appelli, ha avuto il sopravvento questa lunga pausa elettorale. E dunque stop alla riforma costituzionale, stop alla legge sulle intercettazioni, al processo breve, alla prescrizione fulminante. Stop anche ai temi etici: la legge sull'omofobia è su un binario morto, quella sul testamento biologico va alle calende greche, grazie a un rinvio bipartisan benedetto sia a destra che a sinistra. Già che ci siamo, stop all'elezione del quindicesimo giudice che ormai da un mese manca alla Consulta. E la verifica sul governo reclamata da Napolitano? In pausa pure quella. Se ne parlerà dopo i ballottaggi, e sempre che la vigilia dei referendum non consigli un'altra pausa. Durante quella breve intermittenza, forse la Camera troverà anche il tempo di discutere la mozione Gnecchi sulla riforma pensionistica, in calendario a giugno. Però con calma, senza fretta. D'altronde quest'anno l'aula del Senato ha lavorato per 176 ore, quella di Montecitorio ha dedicato 143 ore appena all'attività legislativa.

Ma nessuna democrazia al mondo può correre con un Parlamento zoppo. Le istituzioni rappresentative assolvono a una duplice funzione: riflettere e deliberare. Invece queste Camere immerse in una perenne campagna elettorale non sanno fare né l'uno né l'altro mestiere. Non riflettono l'energia che nonostante tutto accende i nostri giovani, i ceti produttivi, i lavoratori al servizio dello Stato. Non decidono più nulla, perché i politici italiani hanno ormai paura dei propri elettori. D'altronde si sa come vanno queste cose: tu scrivi una legge che parrebbe dettata da Minerva, poi c'è sempre qualcuno che spara a palle incatenate. Sarà anche vero, ma non è affatto una buona ragione per starsene inchiodati al palo.

Michele Ainis

25 maggio 2011(ultima modifica: 26 maggio 2011)© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_maggio_25/


Titolo: MICHELE AINIS. L'energia positiva di un voto
Inserito da: Admin - Giugno 15, 2011, 06:47:01 pm
REFERENDUM / 2

L'energia positiva di un voto


Saranno ormai tre lustri che i referendari vivono in una riserva indiana, circondati da forze sovrastanti; e dopo 24 referendum senza quorum ci avevamo fatto il callo, stavamo cominciando a rassegnarci. Tanto più in quest'occasione, con il voto trasformato in una gara d'alpinismo (terzo appuntamento elettorale in quattro settimane). Con un'informazione tardiva e insufficiente nelle Tv di Stato. Con mezzo governo che ci ammoniva a non sprecare tempo: quesiti inutili, inutili pure gli elettori. Infine con l'esperienza fresca fresca delle Amministrative, dove il partito del non voto è stato di gran lunga il più (non) votato. E allora com'è che l'onda d'astenuti alle elezioni provinciali (55%) è diventata uno tsunami di votanti (il 57%) sui 4 referendum?

Risposta: perché gli italiani non ne possono più dei politici italiani. Non della politica, però. Non se esprime facce nuove, meno logore di quelle che frequentano il Palazzo da vent'anni. Non se interroga questioni di fondo del nostro vivere comune. Sicurezza, ambiente, eguaglianza, confine tra pubblico e privato: dopotutto erano queste le domande sollevate dai referendum. Gli elettori hanno risposto bocciando altrettante leggi del governo, e bocciando perciò il governo nel suo insieme.
Ma l'opposizione farebbe molto male a sfilare sotto l'Arco di Trionfo. C'è infatti un collante, c'è un denominatore comune fra le Amministrative e i referendum: il ritiro della delega. Perché adesso gli italiani hanno deciso di decidere, senza subire le scelte di partito, quale che sia il partito. Ne è prova il voto del 30 maggio a Napoli, dove metà degli elettori si è tenuta lontana dalle urne, mentre l'altra metà ha espresso un plebiscito per un uomo fuori dai partiti, persino il proprio. Ne è prova la manifestazione del 10 giugno che ha chiuso la campagna per i referendum, rigorosamente senza bandiere di partito: gli organizzatori sapevano quanto fossero indigeste.

Da qui una duplice lezione, sempre che la politica abbia voglia d'ascoltarla. Primo: il testo del referendum dipende dal contesto. È infatti il clima del Paese che imprime forma e forza ai singoli quesiti, caricandoli di significati generali. Funzionò così per il divorzio e per l'aborto (un'iniezione di laicità nel nostro ordinamento), per i referendum elettorali dei primi anni Novanta (una domanda di ricambio nelle classi dirigenti), o altrimenti per le tante consultazioni andate a vuoto, senza un vento popolare a soffiare sulle vele. Perché ogni referendum ha questa valenza: serve a incanalare un'energia. Non a caso l'istituto fu battezzato in due Stati (Usa e Svizzera) che non contemplavano lo scioglimento anticipato delle Camere. Ma il referendum non può creare un'energia politica, può solo intercettarla. Quando c'è, e adesso ce n'è a iosa. Il lungo sonno è terminato.

Secondo: la nostra bistrattata Carta si è presa una rivincita. La «gemma della Costituzione» - come a suo tempo Bobbio aveva definito il referendum - è tornata a brillare. E forse questo sussulto di democrazia diretta convincerà la maggioranza a curare i mali della democrazia indiretta, a partire dalla legge elettorale. Forse ci convertirà un po' tutti a un atteggiamento di maggiore lealtà verso le istituzioni. Ieri abbiamo letto editoriali che bacchettavano il capo dello Stato per essersi permesso di votare. La risposta più sonante l'ha offerta quel 5% di italiani che ha votato «no» ai quesiti, evitando le scorciatoie dell'astensione. Perché ogni referendum fallito nel vuoto delle urne rappresenta pur sempre una sconfitta della democrazia. E perché nessun principio di sovranità popolare può mai attecchire senza un popolo disposto a esercitarla. Votando in massa i referendum, il popolo italiano si è dunque riappropriato della sua Costituzione. Eravamo sudditi, stiamo tornando cittadini.

Michele Ainis

14 giugno 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_giugno_14/ainis_referendum-energia_677a75fe-9645-11e0-82d5-f9e2fd481445.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. La proposta di Calderoli (IRRICEVIBILE).
Inserito da: Admin - Luglio 19, 2011, 10:52:21 am
La proposta di Calderoli

Le spese della casta si possono tagliare in fretta, e senza «grandi disegni»


Ora finalmente lo sappiamo: è colpa della Costituzione. Se non si fossero messi per traverso quei nostri perfidi nonnetti del 1947, la bulimia della politica sarebbe già stata guarita da un bel pezzo. E allora via con la riforma, scrivendo nella Carta che l’indennità parlamentare è legata alle presenze. E perché, non basta dirlo in una legge? Anzi: non è già sufficiente che lo decidano gli uffici di presidenza di Camera e Senato? Eppure è a loro che spetta determinare la misura della diaria, al pari dell’indennità mensile: legge n. 1261 del 1965. Coraggio, usate un po’ le forbici. Ce le avete già, non serve acquistarle in un emporio costituzionale.

E magari provate anche a correggere qualcuno degli eccessi che ieri elencavano Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, dalla settimana corta (quest’anno a Montecitorio 2 soli venerdì lavorativi su 28) ai rimborsi elettorali (cresciuti in un decennio 26 volte in più degli stipendi pubblici). No, messa così questa riforma è uno specchietto per le allodole. Ma lo specchietto può accecarci tutti, perché la bozza Calderoli abbozza nientepopodimeno che uno Stato tutto nuovo. Come nell’estate del 2003, ai tempi della bozza di Lorenzago; anche quella vergata di suo pugno dal ministro, sia pure in compagnia di tre signori. Poi, nel 2006, gli italiani la gettarono nel cesto dei rifiuti: e fecero bene, non foss’altro perché le riforme costituzionali nascono da un afflato collettivo, non dal genio di Aladino. Ma evidentemente Calderoli ormai ci ha preso gusto.

Nell’aprile 2010 la sua ennesima bozza dettava un modello semipresidenziale, ora è la volta del premierato. Con chi, quando, come l’ha discussa? Vattelapesca. Non che la Costituzione sia un tabù, una mummia imbalsamata. Qualche ritocco è necessario, e anche in quest’ultimo progetto non tutto è da respingere. Per esempio la sfiducia costruttiva, per esempio il potere consegnato al premier di nominare e revocare i suoi ministri. O ancora l’abolizione del voto degli italiani all’estero, che ci ha cacciato dentro un paradosso. No taxation without representation, senza rappresentanza niente tasse, recita l’antico motto dei coloni americani. Invece i nostri fratelli separati votano ma non pagano dazio, mentre gli immigrati pagano e non votano. Ma in generale si tratta d’un progetto abborracciato, dove non mancano le follie costituzionali.

Per esempio la partecipazione di delegati regionali ai lavori del Senato, però senza diritto di voto (avranno il diritto di fischio?). Il superamento del bicameralismo perfetto, correggendo tuttavia uno dei pochi elementi di diversità fra Camera e Senato, ossia il numero dei loro componenti (diventano 250 in entrambe le assemblee). La cancellazione dei senatori a vita per meriti artistici o scientifici (giusto, così la Costituzione prenderà atto che questo Paese non sa più allevare le eccellenze). Lo scioglimento delle Camere su richiesta non vincolante del premier (e allora che lo chiede a fare?). Insomma, se la musica è questa fateci un piacere: spegnete il giradischi.

Michele Ainis

19 luglio 2011 07:31© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_luglio_19/ainis-spese-casta_2eee8b6a-b1c7-11e0-962d-4929506ed0a9.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Onorevole, basta cantartela
Inserito da: Admin - Agosto 06, 2011, 04:05:40 pm
Casta

Onorevole, basta cantartela

di Michele Ainis


In Italia deputati e i senatori decidono tutto da soli: gli stipendi, la possibilità di essere arrestati, la compatibilità degli incarichi, perfino la validità della loro elezione. Ma così la democrazia non può funzionare

(03 agosto 2011)

Il Parlamento ha un gran daffare. Per forza, con questa pioggia d'accuse che la magistratura gli rovescia addosso. Colpa della condotta malandrina dei nostri politici? No, colpa di una garanzia costituzionale: articolo 68. Dove c'è scritto che occorre il disco verde delle Camere per intercettare, perquisire, arrestare i loro membri. Ma guardacaso il Parlamento fa sempre lampeggiare il rosso del semaforo, anche perché altrimenti le sedute si terrebbero davanti a banchi vuoti: per il momento sono otto gli onorevoli che senza il mantello dell'immunità entrerebbero in galera, ma questa cifra balla, sale di ora in ora.

Il sì all'arresto del deputato Pdl Alfonso Papa ha interrotto una lunga tradizione (da 27 anni la risposta era sempre un no tonante), però non è servito a lenire l'impopolarità dell'autorizzazione parlamentare (l'80 per cento degli italiani se ne sbarazzerebbe volentieri). Le cause? In primo luogo quello stesso giorno il Senato ha invece graziato Alberto Tedesco del Pd, ribadendo la vecchia regola non scritta. In secondo luogo il gioco dei sommersi e dei salvati obbedisce esclusivamente a calcoli politici, a regolamenti di conti fra i partiti e fra le correnti di partito: il fumus persecutionis non c'entra un fico secco. In terzo luogo l'onda di sdegno per la nuova Tangentopoli travolge prudenze e garantismi. La prima cominciò con l'arresto di Mario Chiesa; stavolta tocca a Papa. A quanto pare siamo saliti di livello.

Ma c'è soprattutto un sentimento offeso dalle immunità parlamentari: l'eguaglianza. Quando la politica argomenta che la carcerazione preventiva colpisce spesso gli innocenti, quando aggiunge che prima d'usare le manette bisogna attendere la chiusura dei processi, dimentica che le carceri italiane ospitano 30 mila detenuti in attesa di giudizio. Perché noi sì e loro no? La risposta dettata dalla Costituzione è perentoria: per il principio della separazione dei poteri. Così come il Parlamento non può ribaltare in via legislativa una sentenza, non spetta ai giudici stabilire la composizione delle assemblee elettive.

Tuttavia il problema non sta nel principio, bensì nella sua applicazione. Sta nel voto segreto che protegge tali decisioni, impedendoci di valutare l'operato dei nostri (si fa per dire) rappresentanti. Sta nei tempi biblici con cui le Camere rispondono (quando rispondono) al potere giudiziario. Sta nell'istinto corporativo che scatta in questi casi: per dirne una, in nome dell'insindacabilità la Camera ha stoppato i giudici 92 volte su 100, il Senato 95 volte su 100. Sta infine nella regola che trasforma l'imputato in giudice di se medesimo. La stessa regola che permette a deputati e senatori di decidere sulla validità della propria elezione, sulla misura dell'indennità, sulle cause d'incompatibilità (nel 2008, all'avvio della legislatura, erano 172 i parlamentari con doppio o triplo incarico, alla faccia dei divieti).

E allora teniamoci il principio, però cambiamo le regole del gioco. Affidiamo queste scelte a un organo terzo e imparziale, come la Consulta. Dopotutto in Francia il Conseil constitutionnel vigila sulla regolarità delle elezioni fin dal 1958. E già che ci siamo, sminiamo le nostre istituzioni da tutti i privilegi analoghi. E' il caso degli stessi giudici, che attraverso il Csm dovrebbero autoinfliggersi sanzioni disciplinari. Degli ordini professionali rispetto ai loro iscritti. Del governo, quando nomina un quarto del Consiglio di Stato o 39 membri della Corte dei conti, benché tali magistrature dovrebbero difenderci dagli abusi del governo. E' il caso dei sindaci, che hanno il potere - addirittura - di licenziare il proprio controllore, ovvero il segretario comunale.

L'antidoto? Una massima che suonava in bocca a Cicerone: "Nemo iudex in causa sua", nessuno giudichi se stesso. Altrimenti il giorno del giudizio sarà sempre un giorno di festa.

 
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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/onorevole-basta-cantartela/2157321


Titolo: MICHELE AINIS. Onorevole, basta cantartela
Inserito da: Admin - Agosto 08, 2011, 04:10:37 pm
Casta

Onorevole, basta cantartela

di Michele Ainis


In Italia deputati e i senatori decidono tutto da soli: gli stipendi, la possibilità di essere arrestati, la compatibilità degli incarichi, perfino la validità della loro elezione. Ma così la democrazia non può funzionare

(03 agosto 2011)

Il Parlamento ha un gran daffare. Per forza, con questa pioggia d'accuse che la magistratura gli rovescia addosso. Colpa della condotta malandrina dei nostri politici? No, colpa di una garanzia costituzionale: articolo 68. Dove c'è scritto che occorre il disco verde delle Camere per intercettare, perquisire, arrestare i loro membri. Ma guardacaso il Parlamento fa sempre lampeggiare il rosso del semaforo, anche perché altrimenti le sedute si terrebbero davanti a banchi vuoti: per il momento sono otto gli onorevoli che senza il mantello dell'immunità entrerebbero in galera, ma questa cifra balla, sale di ora in ora.

Il sì all'arresto del deputato Pdl Alfonso Papa ha interrotto una lunga tradizione (da 27 anni la risposta era sempre un no tonante), però non è servito a lenire l'impopolarità dell'autorizzazione parlamentare (l'80 per cento degli italiani se ne sbarazzerebbe volentieri). Le cause? In primo luogo quello stesso giorno il Senato ha invece graziato Alberto Tedesco del Pd, ribadendo la vecchia regola non scritta. In secondo luogo il gioco dei sommersi e dei salvati obbedisce esclusivamente a calcoli politici, a regolamenti di conti fra i partiti e fra le correnti di partito: il fumus persecutionis non c'entra un fico secco. In terzo luogo l'onda di sdegno per la nuova Tangentopoli travolge prudenze e garantismi. La prima cominciò con l'arresto di Mario Chiesa; stavolta tocca a Papa. A quanto pare siamo saliti di livello.

Ma c'è soprattutto un sentimento offeso dalle immunità parlamentari: l'eguaglianza. Quando la politica argomenta che la carcerazione preventiva colpisce spesso gli innocenti, quando aggiunge che prima d'usare le manette bisogna attendere la chiusura dei processi, dimentica che le carceri italiane ospitano 30 mila detenuti in attesa di giudizio. Perché noi sì e loro no? La risposta dettata dalla Costituzione è perentoria: per il principio della separazione dei poteri. Così come il Parlamento non può ribaltare in via legislativa una sentenza, non spetta ai giudici stabilire la composizione delle assemblee elettive.

Tuttavia il problema non sta nel principio, bensì nella sua applicazione. Sta nel voto segreto che protegge tali decisioni, impedendoci di valutare l'operato dei nostri (si fa per dire) rappresentanti. Sta nei tempi biblici con cui le Camere rispondono (quando rispondono) al potere giudiziario. Sta nell'istinto corporativo che scatta in questi casi: per dirne una, in nome dell'insindacabilità la Camera ha stoppato i giudici 92 volte su 100, il Senato 95 volte su 100. Sta infine nella regola che trasforma l'imputato in giudice di se medesimo. La stessa regola che permette a deputati e senatori di decidere sulla validità della propria elezione, sulla misura dell'indennità, sulle cause d'incompatibilità (nel 2008, all'avvio della legislatura, erano 172 i parlamentari con doppio o triplo incarico, alla faccia dei divieti).

E allora teniamoci il principio, però cambiamo le regole del gioco. Affidiamo queste scelte a un organo terzo e imparziale, come la Consulta. Dopotutto in Francia il Conseil constitutionnel vigila sulla regolarità delle elezioni fin dal 1958. E già che ci siamo, sminiamo le nostre istituzioni da tutti i privilegi analoghi. E' il caso degli stessi giudici, che attraverso il Csm dovrebbero autoinfliggersi sanzioni disciplinari. Degli ordini professionali rispetto ai loro iscritti. Del governo, quando nomina un quarto del Consiglio di Stato o 39 membri della Corte dei conti, benché tali magistrature dovrebbero difenderci dagli abusi del governo. E' il caso dei sindaci, che hanno il potere - addirittura - di licenziare il proprio controllore, ovvero il segretario comunale.

L'antidoto? Una massima che suonava in bocca a Cicerone: "Nemo iudex in causa sua", nessuno giudichi se stesso. Altrimenti il giorno del giudizio sarà sempre un giorno di festa.

 
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Titolo: MICHELE AINIS. Fidarsi delle leggi e delle istituzioni
Inserito da: Admin - Settembre 02, 2011, 06:01:40 pm
IL PATTO TRA STATO E CITTADINI

Fidarsi delle leggi e delle istituzioni

Almeno oggi l'abbiamo fatta franca. Domani, chi lo sa: la nostra via è piena di trappole, ci vuol poco a mettere un piede in fallo. Ma sono trappole di Stato, inganni tessuti da Sua Maestà la Legge. Come l'idea di revocare il riscatto della laurea e del servizio di leva ai fini pensionistici, con buona pace dei 665 mila italiani che ci avevano creduto, sborsando anche fior di quattrini. O come la trovata speculare del Pd, che ha proposto una tassa aggiuntiva del 15% per chi aveva profittato dello scudo fiscale del 2009, confidando nella garanzia di pagare non più del 5% sui capitali rientrati dall'estero.

Insomma di volta in volta cambiano le vittime, non l'abitudine di stracciare i patti stipulati con l'una o l'altra categoria di cittadini. Eppure quest'abitudine inocula un veleno nella nostra convivenza, perché ci insegna a diffidare delle istituzioni, e a disprezzare in ultimo tutto ciò che è pubblico, di tutti. C'è infatti un principio che in ogni Stato di diritto regola i rapporti fra governanti e governati: il principio dell'affidamento. Non è scritto nero su bianco nei testi normativi, tanto non serve, sarebbe come scrivere che la legge è fatta di parole. Ciò nonostante, la Consulta vi si è riferita in 500 casi, mentre in altre centinaia di decisioni ha usato l'espressione «buona fede», «fiducia», «correttezza» e via elencando. D'altronde pure la Costituzione evoca il concetto di lealtà (art. 120), non meno che la fedeltà e l'onore (art. 54). Non è un caso, così come non è affatto fortuita l'assonanza fra leale e legale. Altrimenti - dice Pericle ad Alcibiade, in un dialogo che ci ha trasmesso Senofonte - la legalità sleale diventerebbe una sopraffazione.

Quante volte ce n'è invece toccata l'esperienza? Succede quando le leggi parlano ostrogoto per non farsi capire, per occultare regalie a questa o a quella lobby. Quando si travestono per mostrarsi caste e sante (la legge n. 194 del 1978, quella che ha depenalizzato l'aborto, s'intitola «Norme per la tutela sociale della maternità»). Quando mettono in circolo 35 mila fattispecie di reato - come avviene in Italia - sicché un poverocristo può inciamparvi senza nemmeno sospettarne l'esistenza. Quando sono retroattive, stabilendo oggi le regole di ieri (così trasformando l'innocenza in una colpa, e degradando i giudici ad altrettanti poliziotti, come osservava Montesquieu). Quando ipocritamente si qualificano leggi d'interpretazione «autentica» (furono appena 6, nei primi quarant'anni del Regno d'Italia; ne sono state approvate 150, nei primi quarant'anni della Repubblica), per conseguire effetti retroattivi senza dichiararlo. Quando frodano i risultati d'un referendum (come sul finanziamento pubblico ai partiti, abrogato nel 1993 dagli italiani, riesumato sotto mentite spoglie da una legge del 1997). O infine quando revocano promesse dettate dalla legislazione preesistente.

Non che la lealtà alloggi nelle tombe. Le situazioni cambiano, la borsa della spesa non è sempre tintinnante. E c'è inoltre da pensare a quelli che verranno, ai diritti delle generazioni future cui si riferisce la Carta di Nizza del 2000. Ma c'è una condizione, una soltanto, che può farci accettare la revoca degli impegni assunti dallo Stato. Eguaglianza, ecco il suo nome. La legge leale è una legge eguale, che non separa i figli dai figliastri.

Michele Ainis

01 settembre 2011 07:49© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_settembre_01/ainis_fidarsi-di-leggi-istituzioni_e3368d58-d458-11e0-b70d-4333dfe15096.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. La carta sbiadita del federalismo
Inserito da: Admin - Settembre 28, 2011, 09:58:15 am
TROPPE NORME E TEMPI INCERTI

La carta sbiadita del federalismo


E il federalismo? Che fine ha fatto la promessa che ha illuminato l'alba di questa legislatura? Risposta: giace sepolta sotto un cumulo di detriti normativi. Di proroghe, deroghe, cavilli. Di commi che si contraddicono a vicenda. Di decreti che annunciano il decentramento fiscale, mentre le manovre economiche centralizzano la politica fiscale, togliendo ossigeno alle Regioni non meno che ai Comuni.

Sicché il federalismo, che avrebbe dovuto rafforzare la coesione nazionale (federare significa unire), ha invece creato nuove spaccature: degli enti locali contro lo Stato, delle Regioni ordinarie contro quelle a statuto speciale, del Nord contro il Sud. Mentre il federalismo fiscale, che avrebbe dovuto alleggerire il carico di tasse che ci portiamo sul groppone (se il sindaco ci va giù troppo pesante, la volta dopo non verrà rieletto), nel frattempo ha generato l'esito contrario. Secondo uno studio della Cgia di Mestre, dal 1995 al 2010 (gli anni della Lega di governo) le tasse nazionali sono aumentate del 6,8%, quelle locali del 138%.

Eppure l'idea federalista è dirompente, anche se è poi finita sotto un cono d'ombra rispetto alla crisi economica o alle vicende giudiziarie del presidente Berlusconi. Un'idea capace di rigenerare il nostro tessuto connettivo, e infatti in molti casi i provvedimenti del governo hanno ottenuto l'assenso delle opposizioni. Ma il suo nemico è in primo luogo un nostro antico vizio: troppo diritto. La legge delega n. 42 del 2009 ha fin qui allevato 8 decreti delegati. A loro volta, questi decreti s'affidano a ulteriori atti normativi: ne serviranno una ventina soltanto per il fisco dei Comuni, 67 per mettere a regime i primi 5 decreti varati dal governo. Ma non è finita, perché c'è sempre l'eventualità di altri decreti integrativi e correttivi. E soprattutto perché a giugno il termine biennale della delega è stato prorogato: di 6 mesi o anche di un anno, a seconda dei casi.

E i contenuti? Talvolta in odore d'incostituzionalità, come la rimozione dei governatori che non rispettino i piani di rientro dal deficit sanitario. Talvolta assemblati in fretta e furia con uno strappo procedurale (da qui l'unico decreto legislativo respinto da Napolitano durante il suo settennato). Talvolta lacunosi (manca per esempio un riferimento chiaro ai livelli essenziali delle prestazioni, manca più in generale un coordinamento fra i decreti). Talvolta incongruenti (ai Comuni va tutto il «fisco del mattone», ma non il gettito dell'Iva sulle nuove costruzioni). E in ogni caso sempre sperimentali, sempre rinviati alle calende greche (il nuovo tributo locale, l'Imu, decollerà nel 2014, ammesso che il prossimo governo lo mantenga in vigore).

Non è una novità: le norme italiane o sono retroattive o veleggiano in un futuro imperscrutabile. Abitano in un altrove, come i politici che vi danno fiato. Ma qui e adesso, la politica ha segato le risorse degli enti territoriali per il 2012 di 4 miliardi, che s'aggiungono agli 8,5 miliardi già defalcati. Significa che la Lombardia dovrà tagliare un treno su due, ha detto Formigoni; o altrimenti alzare il prezzo del biglietto, che però negli ultimi mesi è cresciuto del 25%. Significa che Regioni e Comuni dovranno chiedere più quattrini, più ticket, più tasse ai loro cittadini; ma senza restituire più servizi. In breve, significa che gli enti locali non hanno mai avuto così poca autonomia come negli anni ruggenti del federalismo fiscale.

michele.ainis@uniroma3.it

Michele Ainis

27 settembre 2011 08:05© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_settembre_27/ainis_9a45b986-e8ce-11e0-ba74-9c3904dbbf99.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. La carta sbiadita del federalismo
Inserito da: Admin - Ottobre 01, 2011, 03:29:41 pm
TROPPE NORME E TEMPI INCERTI

La carta sbiadita del federalismo

E il federalismo? Che fine ha fatto la promessa che ha illuminato l'alba di questa legislatura? Risposta: giace sepolta sotto un cumulo di detriti normativi. Di proroghe, deroghe, cavilli. Di commi che si contraddicono a vicenda. Di decreti che annunciano il decentramento fiscale, mentre le manovre economiche centralizzano la politica fiscale, togliendo ossigeno alle Regioni non meno che ai Comuni.

Sicché il federalismo, che avrebbe dovuto rafforzare la coesione nazionale (federare significa unire), ha invece creato nuove spaccature: degli enti locali contro lo Stato, delle Regioni ordinarie contro quelle a statuto speciale, del Nord contro il Sud. Mentre il federalismo fiscale, che avrebbe dovuto alleggerire il carico di tasse che ci portiamo sul groppone (se il sindaco ci va giù troppo pesante, la volta dopo non verrà rieletto), nel frattempo ha generato l'esito contrario. Secondo uno studio della Cgia di Mestre, dal 1995 al 2010 (gli anni della Lega di governo) le tasse nazionali sono aumentate del 6,8%, quelle locali del 138%.

Eppure l'idea federalista è dirompente, anche se è poi finita sotto un cono d'ombra rispetto alla crisi economica o alle vicende giudiziarie del presidente Berlusconi. Un'idea capace di rigenerare il nostro tessuto connettivo, e infatti in molti casi i provvedimenti del governo hanno ottenuto l'assenso delle opposizioni. Ma il suo nemico è in primo luogo un nostro antico vizio: troppo diritto. La legge delega n. 42 del 2009 ha fin qui allevato 8 decreti delegati. A loro volta, questi decreti s'affidano a ulteriori atti normativi: ne serviranno una ventina soltanto per il fisco dei Comuni, 67 per mettere a regime i primi 5 decreti varati dal governo. Ma non è finita, perché c'è sempre l'eventualità di altri decreti integrativi e correttivi. E soprattutto perché a giugno il termine biennale della delega è stato prorogato: di 6 mesi o anche di un anno, a seconda dei casi.

E i contenuti? Talvolta in odore d'incostituzionalità, come la rimozione dei governatori che non rispettino i piani di rientro dal deficit sanitario. Talvolta assemblati in fretta e furia con uno strappo procedurale (da qui l'unico decreto legislativo respinto da Napolitano durante il suo settennato). Talvolta lacunosi (manca per esempio un riferimento chiaro ai livelli essenziali delle prestazioni, manca più in generale un coordinamento fra i decreti). Talvolta incongruenti (ai Comuni va tutto il «fisco del mattone», ma non il gettito dell'Iva sulle nuove costruzioni). E in ogni caso sempre sperimentali, sempre rinviati alle calende greche (il nuovo tributo locale, l'Imu, decollerà nel 2014, ammesso che il prossimo governo lo mantenga in vigore).

Non è una novità: le norme italiane o sono retroattive o veleggiano in un futuro imperscrutabile. Abitano in un altrove, come i politici che vi danno fiato. Ma qui e adesso, la politica ha segato le risorse degli enti territoriali per il 2012 di 4 miliardi, che s'aggiungono agli 8,5 miliardi già defalcati. Significa che la Lombardia dovrà tagliare un treno su due, ha detto Formigoni; o altrimenti alzare il prezzo del biglietto, che però negli ultimi mesi è cresciuto del 25%. Significa che Regioni e Comuni dovranno chiedere più quattrini, più ticket, più tasse ai loro cittadini; ma senza restituire più servizi. In breve, significa che gli enti locali non hanno mai avuto così poca autonomia come negli anni ruggenti del federalismo fiscale.

michele.ainis@uniroma3.it

Michele Ainis

27 settembre 2011 08:05© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_settembre_27/ainis_9a45b986-e8ce-11e0-ba74-9c3904dbbf99.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Amari inganni
Inserito da: Admin - Ottobre 01, 2011, 04:46:35 pm
Amari inganni

In Italia capita che l’ovvio suoni come una bestemmia in chiesa. O perlomeno nella chiesa in cui dice messa la politica, certa politica. Quella che a sua volta contrabbanda come verità lapalissiane il diritto a battersi per il libero Stato di Padania (Bossi) o le virtù mirabolanti d’una legge elettorale definita addirittura Porcellum. Ha fatto male il capo dello Stato a smascherare questo doppio inganno? No, ha fatto bene: a lungo andare il silenzio si trasforma in connivenza.

Costituzione alla mano, l’inganno vale innanzitutto per la presunta secessione del presunto popolo padano. Perché l’Italia è «indivisibile », dice l’articolo 5; e quindi l’unità del nostro territorio rappresenta un limite assoluto alla revisione costituzionale. Significa che non possiamo cambiare la Costituzione per dividere il Paese in due come una mela, nemmeno usando le procedure dettate dalla Costituzione.
A meno che non decidessimo di gettare nel cestino dei rifiuti l’intera Carta del 1947, sostituendovi delle cartoline, tante quanti gli staterelli che precedettero l’Unità. Ma allora servirebbe una guerra, una rivoluzione. E soprattutto servirebbe il responso della storia, l’unica che può trasformare il bandito in un eroe, il criminale politico in un padre della Patria, come diceva Vezio Crisafulli.

Ma fin qui la Lega ha sparato soltanto proiettili verbali, ed è assai dubbio che alla prova dei fatti troverebbe qualche soldatino.
Meglio così, naturalmente. Tuttavia le parole pesano, specie quando s’avvalgono del mantello del diritto. C’è un principio di sovranità popolare, affermano in coro gli esponenti della Lega: conta o non conta l’articolo 1? Certo che sì, ma la sovranità s’esercita «nelle forme e nei limiti» della Costituzione, stabilisce quella stessa norma. E infatti l’articolo 5 pone un limite testuale. Vabbé, allora c’è il principio di autodeterminazione dei popoli, aggiunge la Lega volgendo gli occhi al Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite. Peccato che nel nostro caso l’autodeterminazione non c’entri un fico secco. Perché quest’ultimo principio vincola i governi stranieri a liberare i territori occupati con la forza, tanto che ispirò l’intero processo di decolonizzazione. Ma né la Lombardia né il Veneto sono colonie dell’Italia. Se lo fossero, i ministri della Repubblica italiana Bossi, Maroni e Calderoli sarebbero i colonizzatori.

E c’è poi il secondo guaio su cui ieri ha puntato l’indice Napolitano: la legge elettorale. Sempre ieri, il comitato promotore ha depositato in Cassazione un milione e 200 mila firme per l’abrogazione del Porcellum. In un paio di mesi, senza tv e senza quattrini, una sorta di miracolo. Ma forse è un miracolo il nostro risveglio collettivo, dopo un decennio passato a spiare la politica dal buco della serratura. Perché gli italiani stanno ritrovando la voglia di far politica in prima persona, senza delegarla. Perché attraverso il cambiamento delle regole del gioco vogliono cambiare pure i giocatori. Logori e acciaccati. E non solo al governo.

Michele Ainis

01 ottobre 2011 11:51© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_ottobre_01/ainis-amari-inganni_72cb7006-ebeb-11e0-827e-79dc6d433e6d.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Chirurgia plastica
Inserito da: Admin - Ottobre 13, 2011, 12:00:17 pm
Chirurgia plastica

L'incidente tecnico, come lo definisce la maggioranza di governo, rischia di mandare lo Stato italiano gambe all'aria. Per forza: se non approvi il rendiconto consuntivo non puoi varare gli assestamenti di bilancio, non puoi spostare somme sui capitoli incapienti traendole dai capitoli in eccesso, non puoi scattare una fotografia dei conti pubblici. Ecco perché l'iniziativa della legge di bilancio è al tempo stesso riservata (al governo) e vincolata (deve avvenire ogni anno). È dunque vincolata anche l'approvazione delle Camere; però la Costituzione detta una via di fuga solo per il bilancio di previsione, quello con lo sguardo al futuro, anziché al passato. In questo caso viene in soccorso l'esercizio provvisorio, ma per non più di quattro mesi; tanto che i vecchi Parlamenti usavano l' escamotage di fermare gli orologi, quando non arrivava per tempo un voto positivo.

E se invece viene bocciato il rendiconto? Eccolo il pasticcio nel quale ci ha cacciato questa maggioranza ballerina: un rebus giuridico, oltre che politico. Perché la Camera ha rigettato il primo articolo della legge in questione, tagliandole la testa; e ha dovuto quindi arrestarne l'esame, dato che non avrebbe senso offrire braccia e gambe a un corpo ormai decapitato. Perché in secondo luogo c'è un istituto del diritto parlamentare che si chiama improcedibilità, e che vieta di ripresentare prima di sei mesi un testo già respinto. Anche se il governo chiede e ottiene una nuova fiducia, come si propone il presidente del Consiglio. E perché in qualche modo tuttavia bisogna uscirne, ne va dell'interesse generale.

Come? O disapplicando la regola dell'improcedibilità, e perciò ponendo subito in votazione una fotocopia del testo bocciato: si può fare, ma serve un consenso unanime, ed è improbabile che l'opposizione si commuova. O forzando il tenore della regola, benché quest'ultima s'estenda ai progetti che riproducono sostanzialmente quelli appena bocciati. Ma i numeri sono numeri, non ci si può giocare. E allora non resta che giocare con le parole, in questo noi italiani siamo bravi. Cambiare un aggettivo, una virgola, un avverbio. Dopotutto la legge di bilancio è un atto costituzionalmente necessario. E dopotutto la necessità è più forte della legge, anzi è essa stessa legge.
Domanda: ma spetta al governo Berlusconi quest'opera di sartoria istituzionale? Costituzione alla mano (articolo 94), un infortunio parlamentare non comporta l'obbligo delle dimissioni; la crisi di governo è doverosa unicamente dopo un voto di sfiducia. Sennonché la legge di bilancio tocca al cuore il rapporto fiduciario. Se viene respinta, significa che le Camere disapprovano l'indirizzo politico dell'esecutivo. Anche quando respingono il rendiconto consuntivo, certo. Perché in tale circostanza è come se gli imputassero d'aver tradito gli accordi contenuti nel bilancio di previsione approvato l'anno prima. O peggio ancora, d'aver proposto dati falsi.

Insomma, per il governo l'«incidente tecnico» equivale a una verginità perduta. C'è un'unica via per superare l'incidente: cucinando le riforme che servono al Paese, mostrando una rinnovata compattezza, al di là dei voti di fiducia sventolati come bandierine.

Michele Ainis

13 ottobre 2011 07:38© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_ottobre_13/ainis_chirurgia-plastica_414c1c80-f558-11e0-9479-439a0eb41067.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Quelle Camere ormai bloccate
Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2011, 05:39:01 pm
LA PARALISI DELLA LEGISLATURA

Quelle Camere ormai bloccate


Il Parlamento parla, come no. O meglio strepita, gesticola, s'azzuffa; ma decisioni nisba. Appena 42 leggi d'iniziativa parlamentare approvate in questa legislatura, però soltanto una negli ultimi 6 mesi. Se aggiungiamo quelle scritte sotto dettatura del governo (i tre quarti del totale), la cifra cresce un po', ma poi neppure tanto. È il capitolo - per esempio - dei decreti legge, sparati a raffica dal IV gabinetto Berlusconi con una media di 2 provvedimenti al mese; ma guardacaso adesso non ce n'è più nemmeno uno da convertire in legge.

Sarà che sono tutti stanchi, deboli, influenzati. O forse dipenderà dal fatto che il Parlamento, per questa maggioranza, è diventato un luogo di tortura. Troppo pericoloso mettergli carne sotto i denti, quando alla Camera ti capita d'andare sotto per 94 volte (l'ultimo episodio mercoledì). E meno male che t'aiuta l'opposizione, le cui assenze - come ha documentato Openpolis - sono risultate determinanti nel 35% delle votazioni. Sicché come ti salvi? Rinviando tutto alle calende greche. Anche i provvedimenti che stanno a cuore al premier, come la legge sulle intercettazioni: sparita dal calendario dei lavori. La Conferenza dei capigruppo ha avuto un soprassalto di prudenza, e ha deciso di non decidere.

Non che le Camere abbiano ormai chiuso i battenti. Nell'arco della XVI legislatura si contano 535 sedute per i deputati, mica poco. Ma a quale scopo? Per ascoltare annunci di riforme che non vedranno mai la luce, come l'obbligo costituzionale del pareggio di bilancio, cancellato anch'esso dal calendario di novembre. Per votare mozioni (539), risoluzioni (96), atti d'indirizzo: insomma, chiacchiere. O altrimenti per esprimere fiducia nei riguardi del governo, un tormentone che fin qui si è ripetuto in 51 casi. Trasformando l'esecutivo in un fidanzato trepidante: mi ami, ti fidi del mio amore? Dimmelo di nuovo, la volta scorsa non ho sentito bene.

È la parabola finale della legislatura: un governo commissariato dall'Europa, un Parlamento commissariato dal governo. D'altronde è proprio così che è cominciata. Negando alle assemblee legislative il loro mestiere principale, spostando l'officina delle leggi nei sottoscala del governo. Con i decreti legge, ma soprattutto con i decreti legislativi: 143, in media 4 al mese. Oppure sequestrando le due Camere con i maxiemendamenti, che oltretutto rendono le nostre leggi assolutamente incomprensibili. Ora siamo all'ultima stazione: siccome il governo non si fida più della propria maggioranza, ha deciso di mandare il Parlamento in quarantena.

Un bel guaio per la democrazia italiana, non foss'altro perché si spegne l'unica sede istituzionale in cui le opposizioni hanno spazio e voce. Perché inoltre l'eclissi delle Camere sbilancia il sistema dei poteri, togliendo un contrappeso al peso del governo. Perché infine la loro inerzia semina discredito sulla forma di governo, dunque sulla Costituzione che l'ha disegnata. Ma almeno in questo caso la responsabilità è tutta politica, non delle istituzioni. Non è vero che il Parlamento sia sempre un treno a vapore: nel luglio 2008 il lodo Alfano venne licenziato in 4 settimane. È vero tuttavia che questo Parlamento giace su un binario morto. E a questo punto non servono più cure, ci vuole un'autopsia.

Michele Ainis

28 ottobre 2011 07:41© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_ottobre_28/quelle-camere-ormai-bloccate-michele-ainis_bd55a316-0122-11e1-994a-3eab7f8785af.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. L’ultimo gioco illusionistico di B.
Inserito da: Admin - Novembre 12, 2011, 09:50:53 am
L’ultimo gioco illusionistico di B.

di Michele Ainis, dal Corriere della Sera, 11 novembre 2011


C'è un che di surreale nella condizione che stanno attraversando le nostre istituzioni. Tutto comincia con le pre-dimissioni del presidente del Consiglio: un inedito costituzionale. Eppure ne abbiamo viste tante, ai tempi fulgidi della Prima Repubblica. Governi di minoranza (come quello Zoli nel 1957). Governi lampo (Andreotti nel 1972: durò per 9 giorni). Governi a tempo (Craxi nel 1986, dopo il «patto della staffetta» con De Mita). Governi balneari (i due gabinetti presieduti da Leone nel 1963 e nel 1968). Governi elettorali, ossia formati al solo scopo di gestire le elezioni (Fanfani nel 1987). Governi della non sfiducia, che stavano a galla in virtù di un ampio fronte d'astensioni (Andreotti nel 1976). Ora siamo all'ultima stazione: il quarto gabinetto Berlusconi si è trasformato in un governo della non fiducia, o della pre-sfiducia. Ma intanto governa, e domani è pur sempre un altro giorno.

Un ossimoro costituzionale, che a sua volta si alleva in seno una litania di paradossi. Che avrebbe dovuto fare il capo dello Stato, davanti alle pre-dimissioni del presidente del Consiglio? Avviare pre-consultazioni con i partiti, conferire un preincarico a un pre-premier, chiamare gli italiani a pre-elezioni? In qualche modo, è quello che è avvenuto. Nominando Mario Monti senatore a vita, Napolitano — senza sforare d'un millimetro le sue prerogative — ha insediato di fatto un pre-governo. Doveva farlo, doveva mostrare al mondo che l'Italia ha in tasca una soluzione di riserva. E infatti i mercati ci stanno dando tregua, dopo giorni di tragedia permanente.

Ma nel frattempo c'è un governo nel pieno dei poteri: Berlusconi non si è dimesso, non è stato rovesciato da una mozione di sfiducia, e anzi nell'ultimo voto sul rendiconto dello Stato ha incassato il 99% dei consensi (l'opposizione si era assentata a bella posta).
E c'è un pre-governo sul quale si concentra tutta l'attenzione dei partiti, mentre il totoministri tiene banco (digitando sulle news di Google «ministri governo Monti» si ottengono 360 risultati). Da qui un teatro dell'assurdo. Perché la liturgia costituzionale contempla il governo in attesa di fiducia (dopo il giuramento), non quello in attesa di autosfiducia (le dimissioni). E perché il presidente della Repubblica non ha poteri per costringere il premier a mettersi da parte. Napolitano non può revocare Berlusconi, così come Berlusconi non può licenziare i suoi ministri (altrimenti Tremonti avrebbe già dovuto lasciare la poltrona).

D'altronde — a prenderla alla lettera — suona paradossale pure la promessa del presidente del Consiglio, l'impegno a dimettersi dopo il varo della legge di Stabilità. Intanto, se il Parlamento bocciasse la legge (tocchiamo ferro) lui non si dimetterebbe, proprio per mantenere la parola: l'apertura della crisi di governo dipende quindi dal buon esito del provvedimento che può allontanarci dalla crisi.
E in secondo luogo, l'evento che condiziona le dimissioni del governo dipende dal medesimo governo. Quantomeno sui tempi, dato che spetta all'esecutivo in carica presentare, maxiemendare, superaccelerare la legge di Stabilità. Sicché più s'allunga il brodo più s'allunga la vita del governo: un altro caso di conflitto d'interessi, tanto per cambiare.

È l'ultimo gioco illusionistico di Silvio Berlusconi, l'acchiappasogni. Cominciò promettendo un milione di posti di lavoro, nel 1994. Ha continuato nel 2001, promettendo meno tasse per tutti. E adesso, siccome gli italiani sperano che il suo governo si tolga di mezzo, lui ha promesso di realizzare pure questo sogno. Ma i mercati non chiedono sogni, reclamano chiarezza. Può ottenersi attraverso elezioni anticipate, come in Spagna. Con un governo d'unità nazionale, come in Grecia. Non con un annuncio di dimissioni a data incerta: in apparenza schiarisce l'orizzonte, in realtà lo ha reso più opaco e più confuso.

(11 novembre 2011)

da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/lultimo-gioco-illusionistico-di-b/


Titolo: MICHELE AINIS. Quattro idee contro il degrado
Inserito da: Admin - Novembre 14, 2011, 07:30:18 pm
Opinione

Quattro idee contro il degrado

di Michele Ainis

Ineleggibilità per i voltagabbana. Divieto di candidare i propri figli. Obbligo di dimissioni almeno una volta nella vita.

E nessun partito può proporre per una carica pubblica un proprio iscritto. Provocazioni? Fino a un certo punto...

(07 novembre 2011)

Un ministro (Saverio Romano) resta inchiodato alla poltrona nonostante il rinvio a giudizio per associazione mafiosa. Un altro ministro (Umberto Bossi) spernacchia a giorni alterni l'unità degli italiani. Il presidente della Camera (Gianfranco Fini) recita da attore politico pur indossando la casacca dell'arbitro. Un banchiere centrale (Lorenzo Bini Smaghi) rifiuta di dimettersi innescando un incidente diplomatico con la Francia. Il manager dell'olio Cuore (Giulio Malgara) viene nominato alla presidenza della Biennale di Venezia, la nostra istituzione culturale più importante. Il figlio di Bossi, come quello di Antonio Di Pietro, fa politica nel partito fondato da papà. E nel frattempo sciami di parlamentari volano da uno schieramento all'altro. Il loro eroe è Domenico Scilipoti: eletto per contrastare Berlusconi, ne è diventato la più fedele sentinella.
 
In tutti questi casi manca una regola giuridica che vieti i comportamenti in voga presso i santuari del potere. O altrimenti, se c'è, suona al contrario, come la regola che protegge la libertà dei parlamentari, l'indipendenza della Bce, l'autonomia di chi presiede un'assemblea legislativa, la discrezionalità nelle nomine di sottogoverno. Eppure l'altra regola, quella non scritta, altrove viene spontaneamente rispettata. L'ultimo episodio reca il nome di Liam Fox, ex ministro della Difesa britannico: accusato d'essersi portato dietro un amico personale nei suoi viaggi di Stato, a ottobre si è dimesso. Una questione di opportunità, di correttezza. O al limite di buona creanza, categoria che un tempo trovava estimatori anche alle nostre latitudini.

Come quando in Parlamento fu indetta una votazione sul cappello: succedeva durante la prima seduta della Camera a Roma, in un'aula ancora senza termosifoni, sicché alcuni deputati avevano chiesto di derogare al protocollo per proteggersi dal freddo con un berretto di lana.


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Titolo: MICHELE AINIS. Meno armi e più pensioni
Inserito da: Admin - Gennaio 13, 2012, 05:07:59 pm
La polemica

Meno armi e più pensioni

di Michele Ainis

L'emergenza finanziaria non può uccidere i diritti sociali. Che sono tutelati dalla Costituzione. E sono la precondizione dei diritti civili. Quindi a un certo punto, se mancano soldi, bisogna per forza guardare altrove

(11 gennaio 2012)

C'è un tempo in cui si costruisce e un tempo in cui si demolisce. Vale per gli individui, vale per la società nel suo complesso. D'altronde se non liberi il terreno dagli avanzi del passato, non hai spazio per edificare il nuovo. E infatti questo è un tempo di ruspe, di bombe, di picconi. Con che bersaglio? Perforano il paesaggio dei diritti fabbricato durante il Novecento. A partire dai diritti sociali, il cui seme fu deposto nella Costituzione di Weimar del 1919, poi nel New Deal di Roosevelt lungo gli anni Trenta, infine nelle Carte costituzionali del secondo dopoguerra. Diritto all'istruzione, alla sanità gratuita, al lavoro, alla casa, alla pensione. Ormai ne restano macerie. Ma in questo caso è dubbio che ai vecchi diritti subentreranno nuove forme di protezione collettiva.

Da qui, imperiosa, la domanda: possono farlo? Possono spogliarci del nostro patrimonio di diritti, sia pure in nome dell'emergenza finanziaria? E fino a che punto può spingersi questa svestizione? Come ha osservato Habermas, i diritti sociali sono la precondizione per l'esercizio dei diritti civili. Perché soddisfano un'istanza di eguaglianza, e perché non c'è libertà senza eguaglianza. I diritti o sono di tutti o rappresentano altrettanti privilegi. Dunque amputando le garanzie in soccorso dei più deboli si menoma il concetto stesso di diritto, oltre a violare la legalità costituzionale.

Del resto la legge serve per i deboli; i forti non ne hanno alcun vantaggio, loro si difendono da sé.
Sennonché i diritti sociali dipendono, a conti fatti, dalla borsa della spesa. Sono diritti condizionati, ossia sottoposti all'eventualità che lo Stato disponga dei quattrini per renderli effettivi. E' la formula della "riserva del possibile", coniata in Germania dalla Corte di Karlsruhe, e da lì esportata dappertutto.

Però, attenzione: questa riserva non significa che i diritti sociali siano altrettante suppliche al sovrano. Ogni diritto racchiude infatti una pretesa, e se i governi fossero liberi d'accettarla o di respingerla, allora la pretesa - diceva Carl Schmitt - sarebbe un trucco, una finzione. Diciamo piuttosto che lo Stato può decidere sui tempi d'attuazione del diritto, sulla velocità, sulla direzione della corsa; ma gli è vietato fare retromarcia. Perché a quel punto l'attuazione (poca o molta che sia) s'incorpora con la norma costituzionale: se per esempio tagli il pronto soccorso gratis, dopo averlo erogato per decenni, offendi l'art. 32 della Costituzione.

Da qui lo statuto dei diritti sociali: sono irrevocabili, come la Consulta ha dichiarato a più riprese. Vale per il diritto alla salute (sentenza n. 992 del 1988), per quello all'abitazione (sentenza n. 19 del 1994), per il lavoro (sentenza n. 108 del 1994), per ogni altra fattispecie. Tanto che se una legge ne disponga l'abrogazione, sopprimendo - per dirne una - l'assegno di accompagnamento per gli invalidi, la Corte costituzionale provvede ad annullarla (sentenza n. 106 del 1992).

Ma la legge non può nemmeno prosciugare l'entità della prestazione sociale, non almeno fino al punto da renderla irrisoria. Un caso esemplare investì la normativa che fissava l'indennità di disoccupazione in 800 misere lire al giorno, per giunta senza meccanismi di rivalutazione; e infatti la Consulta (sentenza n. 497 del 1988) accese il rosso del semaforo.

C'è insomma il cadavere dell'eguaglianza, sotto le ruspe che stanno sventrando i diritti sociali. Poi, certo, l'eguaglianza puoi garantirla in due modi: parificando verso l'alto oppure verso il basso. Se il tuo vicino svolge il tuo medesimo lavoro, ma con una busta paga che pesa la metà, la legge può raddoppiare il suo stipendio, o viceversa dimezzare il tuo. Tuttavia soltanto la prima alternativa è in linea con la Costituzione: perché i diritti sono progressivi, e perché una guerra fra poveri è l'ultima cosa che ci serve. Mancano i quattrini? Pazienza: vuol dire che compreremo un carro armato in meno, per ottenere una pensione in più.

michele.ainis@uniroma3.it

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Titolo: MICHELE AINIS. Ora cambiatela. E in fretta
Inserito da: Admin - Gennaio 14, 2012, 03:36:39 pm
LEGGE ELETTORALE - DOPO LA BOCCIATURA DELLA CONSULTA

Ora cambiatela. E in fretta

Nessun miracolo, Lazzaro non è resuscitato; sicché rimane in vita il Lazzarone. Ossia la nostra pessima legge elettorale, che i referendari avrebbero voluto cancellare riesumando il Mattarellum . Reviviscenza, è questo il nome in codice del marchingegno giuridico sottoposto alla Consulta. Ma la giurisprudenza costituzionale ha sempre escluso le resurrezioni (sentenze n. 40 del 1997, 31 del 2000, 24 del 2011); anche perché altrimenti, se un referendum sancisse l'abrogazione dell'ergastolo, otterrebbe il paradossale effetto di ripristinare la pena capitale. E in secondo luogo la Consulta, fin dalla sentenza n. 29 del 1987, ha sempre acceso il rosso del semaforo contro i referendum totalmente abrogativi d'una legge elettorale: in caso contrario ogni legislatura durerebbe un secolo, se il Parlamento non colmasse la lacuna.

Insomma l'inammissibilità di questo referendum (diagnosticata da chi scrive lo scorso 16 settembre, sul Corriere ) era un po' a rime obbligate. Chissà come abbia poi preso corpo l'opposta sensazione, misteri della fede. E tuttavia, nonostante la legittima amarezza di quanti avrebbero voluto disfarsi del Porcellum , il rispetto dei propri precedenti da parte delle Corti rimane un valore irrinunziabile. Perché restituisce certezza al nostro orizzonte collettivo, e perché la certezza - diceva Lopez de Oñate, un giovane filosofo cui la sorte non concesse d'invecchiare - rappresenta la specifica eticità del diritto.

Sennonché questo no incondizionato al referendum non era senza alternative, altrimenti i giudici costituzionali non ci avrebbero messo due giorni per decidere. E fra i precedenti che la Consulta ha via via collezionato c'è pur sempre la sentenza n. 16 del 2008, dove si leva l'indice contro gli «aspetti problematici» della (ahimè) vigente legge elettorale. Come coniugare dunque la certezza e la giustizia? Rifiutando il referendum, ma al contempo impugnando l'incostituzionalità della legge timbrata dall'ex ministro Calderoli. Se la Consulta avesse imboccato questa strada, i partiti avrebbero avuto qualche mese per licenziarne la riforma; in caso contrario sarebbe scattata la mannaia. Tuttavia la nostra Corte non l'ha fatto, probabilmente le è mancato qualche grammo di coraggio. E il coraggio - mormorava don Abbondio - chi non ce l'ha, non se lo può dare.

Che cosa resta allora di questo referendum? Restano un milione e 200 mila firme raccolte in un battito di ciglia, a testimoniare l'odio popolare verso una legge che sancisce il divorzio dei rappresentanti dai rappresentati. Resta l'esigenza di non frustrare più in futuro gli sforzi del comitato promotore, magari anticipando il verdetto della Corte costituzionale al giorno precedente la raccolta delle firme, anziché al giorno successivo. O meglio ancora facendo spazio nelle nostre istituzioni al referendum propositivo, accanto a quello abrogativo: e allora sì, la reviviscenza non sarebbe più vietata. Infine resta la domanda di coinvolgere gli elettori nelle faccende che riguardano gli eletti, a partire dal modo con cui vengono eletti.

E c'è poi, alla fine della giostra, un imperativo categorico che si rivolge alla giostra dei partiti. Cambiate questa legge elettorale, risparmiateci lo strazio del terzo Parlamento nominato anziché eletto. Spazzate via le liste bloccate, e già che ci siete anche questo premio di maggioranza senza soglia minima, un espediente che non aveva osato neppure Mussolini. Rimpiazzatela con un maggioritario puro, con un proporzionale distillato, o se vi pare con un maggiorzionale . Ma fatelo, non foss'altro che per dare senso al vostro ruolo in Parlamento, mentre il governo Monti tira avanti da solo la baracca. Dopotutto l'ozio è il padre dei vizi.

Michele Ainis

13 gennaio 2012 | 7:56© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_gennaio_13/ainis-legge-elettorale_ec83727a-3daf-11e1-86c1-1066f4abcff8.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Meno armi e più pensioni
Inserito da: Admin - Gennaio 30, 2012, 04:14:31 pm
La polemica

Meno armi e più pensioni

di Michele Ainis

L'emergenza finanziaria non può uccidere i diritti sociali. Che sono tutelati dalla Costituzione.

E sono la precondizione dei diritti civili. Quindi a un certo punto, se mancano soldi, bisogna per forza guardare altrove

(11 gennaio 2012)

C'è un tempo in cui si costruisce e un tempo in cui si demolisce. Vale per gli individui, vale per la società nel suo complesso. D'altronde se non liberi il terreno dagli avanzi del passato, non hai spazio per edificare il nuovo. E infatti questo è un tempo di ruspe, di bombe, di picconi. Con che bersaglio? Perforano il paesaggio dei diritti fabbricato durante il Novecento. A partire dai diritti sociali, il cui seme fu deposto nella Costituzione di Weimar del 1919, poi nel New Deal di Roosevelt lungo gli anni Trenta, infine nelle Carte costituzionali del secondo dopoguerra. Diritto all'istruzione, alla sanità gratuita, al lavoro, alla casa, alla pensione. Ormai ne restano macerie. Ma in questo caso è dubbio che ai vecchi diritti subentreranno nuove forme di protezione collettiva.

Da qui, imperiosa, la domanda: possono farlo? Possono spogliarci del nostro patrimonio di diritti, sia pure in nome dell'emergenza finanziaria? E fino a che punto può spingersi questa svestizione? Come ha osservato Habermas, i diritti sociali sono la precondizione per l'esercizio dei diritti civili. Perché soddisfano un'istanza di eguaglianza, e perché non c'è libertà senza eguaglianza. I diritti o sono di tutti o rappresentano altrettanti privilegi. Dunque amputando le garanzie in soccorso dei più deboli si menoma il concetto stesso di diritto, oltre a violare la legalità costituzionale.

Del resto la legge serve per i deboli; i forti non ne hanno alcun vantaggio, loro si difendono da sé.
Sennonché i diritti sociali dipendono, a conti fatti, dalla borsa della spesa. Sono diritti condizionati, ossia sottoposti all'eventualità che lo Stato disponga dei quattrini per renderli effettivi. E' la formula della "riserva del possibile", coniata in Germania dalla Corte di Karlsruhe, e da lì esportata dappertutto.

Però, attenzione: questa riserva non significa che i diritti sociali siano altrettante suppliche al sovrano. Ogni diritto racchiude infatti una pretesa, e se i governi fossero liberi d'accettarla o di respingerla, allora la pretesa - diceva Carl Schmitt - sarebbe un trucco, una finzione. Diciamo piuttosto che lo Stato può decidere sui tempi d'attuazione del diritto, sulla velocità, sulla direzione della corsa; ma gli è vietato fare retromarcia. Perché a quel punto l'attuazione (poca o molta che sia) s'incorpora con la norma costituzionale: se per esempio tagli il pronto soccorso gratis, dopo averlo erogato per decenni, offendi l'art. 32 della Costituzione.

Da qui lo statuto dei diritti sociali: sono irrevocabili, come la Consulta ha dichiarato a più riprese. Vale per il diritto alla salute (sentenza n. 992 del 1988), per quello all'abitazione (sentenza n. 19 del 1994), per il lavoro (sentenza n. 108 del 1994), per ogni altra fattispecie. Tanto che se una legge ne disponga l'abrogazione, sopprimendo - per dirne una - l'assegno di accompagnamento per gli invalidi, la Corte costituzionale provvede ad annullarla (sentenza n. 106 del 1992).

Ma la legge non può nemmeno prosciugare l'entità della prestazione sociale, non almeno fino al punto da renderla irrisoria. Un caso esemplare investì la normativa che fissava l'indennità di disoccupazione in 800 misere lire al giorno, per giunta senza meccanismi di rivalutazione; e infatti la Consulta (sentenza n. 497 del 1988) accese il rosso del semaforo.

C'è insomma il cadavere dell'eguaglianza, sotto le ruspe che stanno sventrando i diritti sociali. Poi, certo, l'eguaglianza puoi garantirla in due modi: parificando verso l'alto oppure verso il basso. Se il tuo vicino svolge il tuo medesimo lavoro, ma con una busta paga che pesa la metà, la legge può raddoppiare il suo stipendio, o viceversa dimezzare il tuo. Tuttavia soltanto la prima alternativa è in linea con la Costituzione: perché i diritti sono progressivi, e perché una guerra fra poveri è l'ultima cosa che ci serve. Mancano i quattrini? Pazienza: vuol dire che compreremo un carro armato in meno, per ottenere una pensione in più.

michele.ainis@uniroma3.it

© Riproduzione riservata

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/meno-armi-e-pi%C3%A3%C2%B9-pensioni/2170922


Titolo: MICHELE AINIS. Protagonisti indispensabili
Inserito da: Admin - Febbraio 11, 2012, 11:13:06 pm
PARTITI, SINDACATI E COSTITUZIONE

Protagonisti indispensabili

Nella Penisola dei privilegi ogni corporazione ha la sua legge. Ma il vero privilegio è di chi nuota in una zona franca del diritto, dove l'unica legge è quella del più forte. O del più furbo, del più lesto di mano. Serviva davvero il caso Lusi per scoprire l'urgenza di una legge sui partiti? In realtà il Far West non riguarda loro soltanto. Manca altresì una legge sui sindacati. E in entrambi i casi questo vuoto esprime un tradimento della Carta costituzionale. Rispetto ai primi, risuona ancora la domanda che Calamandrei sollevò in Assemblea costituente: come può respirare una democrazia, se i suoi attori principali non sono a loro volta democratici? Ecco perché - aggiunse Mortati - una legge sui partiti sarebbe stata «consona a tutto lo spirito della Costituzione». Per costringerli a osservare il «metodo democratico» di cui parla l'art. 49 della Carta, traducendolo in una griglia di diritti e di doveri. E perché, in sua assenza, i partiti fanno un po' come gli pare.

Le prove? Basta rievocare il battesimo dei due protagonisti sulla scena politica italiana, Pdl e Pd. Il primo, sorto nel 2008 dalla fusione di Alleanza nazionale e Forza Italia, ne ha al contempo violato gli statuti. Lo scioglimento di An venne deliberato infatti dall'assemblea nazionale anziché dal congresso; quello di Forza Italia fu deciso in solitudine dal suo presidente davanti alla folla di San Babila. Dopo di che i due gruppi dirigenti firmarono accordi segreti alla presenza d'un notaio: 70% dei posti (e dei soldi) a Forza Italia, 30% per gli orfani di An. Quanto al Pd, venne al mondo nel 2007 dal ventre di un'assemblea elettiva (2.858 delegati). Tuttavia, quando nel giugno 2008 questo pletorico organismo si riunì di nuovo per modificare lo statuto, l'80% dei suoi membri lasciò la sedia vuota. Riunione invalida, per difetto del numero legale. Ma l'assemblea emendò ugualmente lo statuto, nonostante qualcuno protestasse ad alta voce. Chi? Arturo Parisi, lo stesso (unico) uomo che a suo tempo ebbe da ridire sui bilanci della Margherita. Evidentemente è un vizio.

E i sindacati? In questo caso la legge viene prescritta nero su bianco dalla Costituzione: art. 39. Devono dotarsi infatti di «un ordinamento interno a base democratica», altrimenti i contratti collettivi di lavoro non possono spiegare effetti vincolanti. Ma la legge sulla democrazia sindacale non è mai uscita dal libro dei desideri dei costituenti, perché i sindacati si sono sempre ribellati all'idea che qualcuno ficchi il naso in casa loro. Ciò nonostante, ai contratti collettivi viene riconosciuta ormai da tempo efficacia obbligatoria, con l'avallo della giurisprudenza. Una frode alla Costituzione.

È in questo vuoto che prospera il potere delle oligarchie, mentre gli iscritti ai partiti e ai sindacati sono senza voce. L'esperienza, d'altronde, è fin troppo eloquente: votazioni truccate, espulsioni contrarie allo statuto, congressi fantasma, iscrizioni fittizie. Non a caso il primo progetto di legge sui partiti fu depositato da don Sturzo nella I legislatura. Ma non è nemmeno un caso che nessun progetto sia mai approdato in porto: quando i riformatori coincidono con i riformati, ogni riforma naviga sempre in mare aperto. Ed è un bel guaio, perché l'autorità delle democrazie si regge sull'autorevolezza dei partiti politici. Sennonché dopo il caso Lusi, e il caso Penati, e i cento altri casi ancora nascosti sotto un'onda compiacente, la nave dei partiti adesso viaggia fra Scilla e Cariddi. O l'autoriforma, la riforma impossibile; o il naufragio elettorale.

Michele Ainis
michele.ainis@uniroma3.it

11 febbraio 2012 | 7:50

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_febbraio_11/protagonisti%20indispensabili-michele-ainins_862bf2e2-5478-11e1-b05f-5be01557028e.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Il processo democratico
Inserito da: Admin - Marzo 09, 2012, 11:25:33 am
QUEL DISTACCO TRA PARTITI E CITTADINI

Il processo democratico

L'Italia protesta contro i privilegi della Casta


L'Italia brontola, protesta, rumoreggia. Contro i privilegi della Casta, quella dei politici. Contro le altre caste che divorano gli avanzi del nostro patrimonio pubblico, a partire dai grand commis di Stato. Contro la legge elettorale, chiedendo la macellazione del Porcellum. Contro Equitalia, e più in generale contro l'eccessivo carico fiscale. Contro l'abolizione dell'articolo 18, in nome del diritto al lavoro. È un Paese contro, questo di cui siamo inquilini. Trasuda livore, odio politico e sociale. E una faglia sotterranea divide ormai le istituzioni e i cittadini.

Per ricucire il nostro tessuto connettivo serve un'opera di pacificazione nazionale. Ma è un'impresa impossibile, se non vengono al più presto riattivati i canali di comunicazione fra società politica e società civile. Perché ogni protesta incattivisce, quando non ha spazi per diventare una proposta. Un tempo questa cinghia di trasmissione era rappresentata dai partiti, che restano comunque necessari. La politica si fa con i partiti. Ma oggi sono colpiti dal discredito, e in più non sanno mai che pesci prendere: sulle questioni controverse ognuno tira fuori almeno due soluzioni opposte. È insomma il pessimo rendimento del nostro processo democratico, che ci fa vivere da separati in casa. È la crisi di legittimazione che dai partiti si estende al Parlamento, ossia al domicilio elettivo dei partiti. È il vuoto d'alternative alla democrazia parlamentare, dato che la democrazia referendaria in Italia è sempre stata malaticcia.

Un processo democratico inceppato diventa un gioco a somma zero: ci rimettono tutti i giocatori. Questa regola vale anche ai piani alti del Palazzo, nelle stanze dell'esecutivo. Come governa Monti? Come prima di lui Prodi e Berlusconi: decreti, fiducie, maxiemendamenti. Nel solo mese di febbraio il Parlamento ha convertito 4 decreti legge del governo, che a sua volta ne ha sfornati altri 4. E in ciascuna occasione via con il maxiemendamento, anche a costo di trasformare i singoli provvedimenti normativi in altrettanti scioglilingua, incomprensibili per i comuni mortali. Via con la questione di fiducia, e pazienza se questa doppia procedura in ultimo sequestra le assemblee legislative. Tanto le Camere non sono buone a nulla, nemmeno a scrivere le leggi. Ma delegittimando il Parlamento ogni governo sega il ramo sul quale sta seduto. Delegittima se stesso, perché i suoi poteri sono derivati, dipendono da un'investitura espressa proprio da quell'Aula. Specie quando l'esecutivo ha un timbro tecnico, quando è orfano di mandati elettorali.

Per ricucire questo filo spezzato occorre che l'ago sia in mano ai cittadini. Se non si riflettono più nel Parlamento, se nemmeno il governo vi si specchia, allora è il Parlamento che d'ora in poi dovrà riflettersi in una diretta decisione popolare. Servono più referendum, ecco la terapia. Servono consultazioni popolari, come quelle che il governo Monti ha già messo in cantiere sul valore legale della laurea. Ne otterremmo, se non altro, un po' di pace: se perdi il referendum, non puoi più prendertela con il governo di Roma. E d'altronde c'è un solo modo per riabilitare il nostro Stato: a questo punto i cittadini devono farsi Stato.

Michele Ainis

9 marzo 2012 | 7:34© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/editoriali/12_marzo_09/il-processo-democratico-michele-ainis_f4660a80-69af-11e1-b42a-aa1beb6952a8.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Il finanziamento pubblico ai partiti
Inserito da: Admin - Aprile 12, 2012, 03:33:25 pm
Il finanziamento pubblico ai partiti

Gesti seri, non scorciatoie

Il finanziamento pubblico ai partiti fu brevettato da una legge del 1974, dopo lo scandalo dei contributi in nero versati alle forze di governo dall'Unione petrolifera. Quarant'anni dopo, è diventato esso stesso uno scandalo. Per due ragioni: la quantità di denaro che l'erario succhia dalle nostre tasche per risputarlo nelle casse di ciascun partito; le modalità allegre della spesa, all'infuori da regole e controlli. Oltre che in spregio al comune senso del pudore, come mostra la simmetrica vicenda di Lusi e Belsito, i due tesorieri della Margherita e della Lega. Adesso, a quanto pare, un soprassalto di decenza sta inducendo i partiti a metterci rimedio. Bene, anzi male: potevano anche farlo prima. Ma affinché il rimedio non si risolva in un inganno, è necessario tamponare entrambe le falle del sistema.

Primo: gli importi. Li ha misurati la Corte dei Conti: 2 miliardi e 253 milioni di euro, dal 1994 a oggi. Se avessimo da mantenere l'harem d'un sultano, lo pagheremmo meno caro. Anche perché di questo fiume di quattrini soltanto un quarto (579 milioni) ha coperto le spese elettorali, come viceversa prometteva il marchingegno inventato da un'altra legge nel 1999. Dunque usate le forbici, please . E risparmiateci il trucchetto di postergare in un futuro imprecisato la riforma. I politici fanno sempre così, quando c'è da prendere una decisione scomoda: per esempio il taglio ai benefit di cui godono gli ex presidenti della Camera, ma solo dal 2023. O la riforma del Senato, che i senatori accettano purché riguardi i loro nipotini (quella approvata - e bocciata poi da un referendum - nel 2005 sarebbe entrata in vigore nel 2016). No, la nuova legge deve avere efficacia retroattiva. Deve applicarsi alle forze politiche che ci sono adesso, non a quelle che verranno. Deve perciò azzerare la rata di 100 milioni che i partiti incasseranno a luglio. Azzerarla, non rinviarla. Dopotutto, qualche mese di digiuno servirà a smaltire le troppe abbuffate precedenti.

Secondo: le regole. Possono condensarsi in una sola: se il cittadino paga, è il cittadino che decide. Quindi meglio la via dei contributi volontari, alla stregua del 5 per mille. Anche perché in passato il finanziamento pubblico ha premiato liste esoteriche come Ual, Patt, Ppst, Fortza Paris. Dicono: ma in questo modo gli italiani ci manderanno sul lastrico, dal momento che i partiti sono sommamente impopolari. E allora datevi da fare per diventare più simpatici. C'è una semplice ricetta per riuscirvi: restituendo quote di potere agli elettori.
La disgrazia dei partiti dipende da un sentimento di frustrazione e d'impotenza, quello che ti monta in gola quando l'onorevole Calearo si vanta di non mettere più piede in Parlamento. Quando Scilipoti viene eletto con i voti degli antiberlusconiani, per poi trasformarsi nella più fedele sentinella di Silvio Berlusconi. O quando Rosi Mauro rifiuta di dimettersi, e tu non puoi farci nulla. Potrà venire espulsa dalla Lega, non dal Senato, di cui è pure vicepresidente. Avessimo in circolo il recall - la revoca anticipata degli eletti - come negli Usa, sarebbe tutta un'altra musica. Perché allora sì, saremmo armati d'uno strumento di controllo; e peggio per noi se non lo usiamo.
Ecco, i controlli. Dopo Tangentopoli, una riforma battezzata dal ministro Cassese nel 1993 ridusse l'ambito del controllo preventivo di legittimità, sostituendovi un controllo successivo sull'efficienza delle amministrazioni pubbliche. Dunque sull'attività, anziché sui singoli atti. Motivo: le verifiche formali non avevano impedito che la corruzione troneggiasse sulla nostra vita pubblica. Ma sta di fatto che il nuovo tipo di controlli non ha impedito Partitopoli. Significa che c'è bisogno d'inaugurare una terza stagione, quella del controllo popolare. D'altronde, in tutto il mondo le esperienze sono innumerevoli. Per esempio il blogger russo più famoso, Alexej Navalny, ha acceso un faro sugli appalti, cucendo il lavoro d'esperti volontari con le denunce dei cittadini; e il governatore del Daghestan ha dovuto rinunziare a un'auto blu da 300 mila dollari. Fantapolitica? Se è così, il Jules Verne dei partiti fu Costantino Mortati. In Assemblea costituente, nella seduta del 29 luglio 1946, s'espresse in favore d'un sistema di azioni popolari, «dando ai cittadini la consapevolezza che da essi stessi dipende la buona amministrazione e quindi la tutela dei loro interessi». Forse per volgere lo sguardo sul futuro dobbiamo rovesciarlo sul passato.

Michele Ainis

12 aprile 2012 | 7:43© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_aprile_12/ainis-gesti-seri_7570e7ac-845f-11e1-8bd9-25a08dbe0046.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Meglio poche cose che un altro rinvio
Inserito da: Admin - Maggio 16, 2012, 05:02:57 pm
RIFORME, UN MESE DECISIVO

Meglio poche cose che un altro rinvio


I partiti politici, per recuperare credibilità e consensi elettorali, hanno tutto l'interesse a battere un colpo sulla riforma dello Stato. E gli italiani vivrebbero assai meglio se fossero inquilini d'uno Stato meno arcaico, meno distante, meno astruso. E allora perché ogni progetto di riforma rimane sempre fermo al palo? In questa legislatura è già successo con la bozza Calderoli; se adesso va in malora pure il testo all'esame del Senato, mancherà il tempo per correre ai ripari. E la legge elettorale? Votare per la terza volta col Porcellum, formare un altro Parlamento non d'eletti bensì di nominati sarebbe una tragedia democratica. Sentirsi dire dal prossimo presidente del Consiglio, come ha già detto Berlusconi, che l'architettura dei poteri gli sequestra ogni potere, girerebbe la tragedia in farsa.


È la maledizione delle riforme costituzionali all'italiana: una tela di Penelope. Oppure una guerra dei trent'anni, fate voi. Però senza vinti, senza vincitori. Ma sono per l'appunto tre decenni che ci giriamo attorno a vuoto. C'è bisogno di rievocarne gli episodi? Una giostra di ministri deputati alle riforme (da Maccanico nel 1988 a Bossi dal 2008 al 2011). Un profluvio di progetti, a cominciare dal Rapporto Giannini nel 1979. Testi votati dagli eletti ma bocciati poi dagli elettori (con il referendum del 2006 sulla riforma del centrodestra). Tre Bicamerali (nel 1983, nel 1992, nel 1997). Governi costituenti, come si definì il gabinetto presieduto da De Mita nel 1988. Dibattiti parlamentari tanto solenni quanto improduttivi (per esempio nel luglio 1991 o nell'agosto 1995). E ovviamente intese, lodi, decaloghi, bozze di riforma (da quella timbrata da Boato nel 1997 alla bozza Violante del 2007).


Sarà per questo che adesso siamo stanchi, sfiduciati. Perché trent'anni di chiacchiericcio sterile hanno finito per sporcare l'abito della Carta costituzionale, senza confezionare un vestito di ricambio. E perché invece basterebbe qualche toppa. Come d'altronde dichiararono i partiti quando ha giurato Monti: a te l'economia, a noi le riforme di sistema. Siccome nel frattempo non hanno cavato un ragno dal buco, ora è il governo che prova a offrire un contributo. Mentre Napolitano cerca di svegliare la Bella addormentata, a costo d'esporsi a un insuccesso. Alibi, però, non ce ne sono. Non ci faremo ingannare dal giochino di mettere troppa carne al fuoco - dalla legge sulla corruzione a quella sui partiti, dalle Province alla riforma della Rai - all'unico scopo di bruciare l'arrosto. Non potranno raccontarci che non hanno fatto l'uovo (la legge elettorale) perché prima dovevano generare la gallina (cambiando la Costituzione). La Carta del 1947 non parla affatto dei sistemi d'elezione, ed è sopravvissuta sia al proporzionale sia al maggioritario. Dunque questa scusa non regge.


Insomma fate poche cose, ma fatele. Il meglio è nemico del bene. E d'altronde due Camere servono anche a questo, a smaltire il traffico. Sicché la Prima commissione del Senato può approvare alcune correzioni alla forma di governo; quella della Camera può cucinare almeno un paio di leggi ordinarie, sul sistema elettorale e sul finanziamento dei partiti. Le priorità sono queste. Anzi no, ce ne sarebbe pure un'altra: per i partiti è urgente decidere di decidere.

Michele Ainis

14 maggio 2012 | 9:22© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_maggio_14/meglio-poche-cose-che-un-altro-rinvio-michele-ainis_022fc60a-9d82-11e1-99ad-758cf3da80f7.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Vedere le carte, senza pregiudizi
Inserito da: Admin - Maggio 31, 2012, 04:31:20 pm
Vedere le carte, senza pregiudizi
 
Lì per lì fai un salto sulla sedia. Ma come, ora che la legislatura sta per esalare l'ultimo respiro, mentre anche i partiti politici italiani hanno una flebo incollata all'avambraccio, il partito più ammalato se n'esce con un'idea potente come adrenalina? Il presidenzialismo, addirittura; e sia pure in salsa francese. Quando l'hanno concepita? E dove?
Ma la notizia è che non c'è notizia. Sulla conversione della nostra forma di governo parlamentare in una di stampo presidenziale esistono tonnellate di libri, articoli, convegni. Vi si espressero con accenti favorevoli alcuni fra i maggiori costituzionalisti italiani, in un dibattito pubblicato dalla rivista «Gli Stati» nei primi anni Settanta: Crisafulli, Galeotti, Jemolo, Sandulli. Perfino Mortati, fra i padri della Carta del 1947. E soprattutto l'idea presidenzialista ha un vissuto politico che dura ormai da mezzo secolo. Anche se i primi a suggerire l'elezione diretta del capo dello Stato furono i monarchici, nel 1957. E a seguire i missini, all'alba degli anni Sessanta. Incrociando tuttavia il consenso di alcuni eminenti intellettuali: Salvemini a sinistra, Pacciardi e Maranini a destra.
 
Insomma non è vero che la proposta di Berlusconi e Alfano sbuchi fuori come un coniglio dal cilindro del prestigiatore. Il coniglio razzola ormai da tempo nel nostro orticello pubblico. Nessuno può obiettare che manchi un'adeguata riflessione. Se è per questo, alla Camera c'è anche un progetto di legge, depositato dal Pdl il 16 dicembre 2011. Ma i testi sono tanti, come le iniziative fin qui regolarmente naufragate. Per esempio il documento presentato nel 1969 all'XI congresso della Democrazia cristiana, dalla corrente che aveva come capofila Zamberletti. Il congresso di Rimini del 1987, in cui i socialisti di Craxi sposarono il modello presidenziale. La Bicamerale di D'Alema, che nel giugno 1997 scelse la via semipresidenziale, con il voto decisivo della Lega.
Sicché il punto di domanda è un altro: c'è davvero una volontà politica dietro quest'ultima proposta? O non sarà soltanto un bluff per alzare la posta, mettendo in fuga gli altri giocatori? Se è così, non resta che vedere le carte. Laicamente, senza pregiudizi. Ma soprattutto in tempi rapidi, perché di tempo non ne abbiamo. In teoria, l'offerta del Pdl coniuga un tema da sempre caro alla destra (l'elezione popolare di chi ha le chiavi del governo) con la legge elettorale che predilige la sinistra (il doppio turno). Dunque uno scambio che potrebbe convincere i partiti, e magari pure gli italiani. In caso contrario, tuttavia, il disaccordo non può trasformarsi in alibi per lasciare le cose come stanno. A cominciare dal Porcellum, una legge che è diventata una vergogna.
 
Poi, certo, ci sarà da ragionare. Non è detto che l'abito francese calzi a puntino indosso agli italiani. Loro hanno fatto la Rivoluzione del 1789, noi la Controriforma. E negli anni Venti abbiamo consegnato il potere a un dittatore. Queste cose contano. Significa che in Italia c'è urgenza di governi forti ma anche di controlli, d'anticorpi per difendere la democrazia. Bisogna solo mettersi d'accordo sui dosaggi.
 michele.ainis@uniroma3.it
 
Michele Ainis

26 maggio 2012 | 7:57© RIPRODUZIONE RISERVATA

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Titolo: MICHELE AINIS. Il labirinto elettorale
Inserito da: Admin - Luglio 13, 2012, 10:22:38 am
QUALE LEGGE PER IL VOTO

Il labirinto elettorale

Se pensi alla legge elettorale, t'assale un moto di disperazione. Ne è rimasto vittima perfino Napolitano, tanto da scrivere una lettera ai presidenti delle Camere per sollecitarne la riforma. Risultato? I leader di partito si sono dichiarati pronti a votarla l'indomani; ma i giorni passano, senza che il Parlamento cavi un ragno dal buco. D'altronde sono già scadute invano le tre settimane entro cui Bersani e Alfano (l'8 giugno) avevano promesso di raggiungere l'accordo.

Nel frattempo ogni forza politica cavalca almeno un paio di soluzioni contrapposte, sicché il primo problema è di capire da che parte sta il partito. Valga per tutti l'esempio del Pd: la linea ufficiale è per il doppio turno, la bozza Violante punta al proporzionale, i veltroniani spingono per il modello spagnolo, i prodiani vorrebbero riesumare il Mattarellum . Da qui lo stallo. La Camera sta ferma, perché in prima battuta deve occuparsene il Senato. I senatori giacciono a loro volta immobili, perché la riforma costituzionale (fissata il 17 luglio) ha la precedenza su quella elettorale. Nel complesso ricordano quei due signori troppo cerimoniosi: prego s'accomodi, no dopo di lei, e intanto nessuno varca l'uscio del portone.

Davanti a questa scena, hai voglia a dire che la peggiore decisione è non decidere. È vano osservare che una buona legge elettorale va scritta dietro un velo d'ignoranza, senza l'abbaglio del tornaconto di partito. Niente da fare, ciascuno pensa al proprio utile immediato; perfino Grillo ha scoperto le virtù del Porcellum , da quando i sondaggi lo danno in forte ascesa. Anche se spesso i calcoli si rivelano sbagliati. Vale per le riforme della Costituzione approvate alla vigilia d'un turno elettorale, all'unico scopo di guadagnare voti: come quella del governo Amato nel marzo 2001 (due mesi dopo vinse il centrodestra); o come la devolution di Bossi nel 2005 (ma nel 2006 vinse il centrosinistra). E vale per la legge elettorale. D'altronde, anche il Porcellum nacque dall'intenzione - fallita - di tirare uno sgambetto all'avversario.

C'è allora modo di venirne a capo? Forse sì, ma a una doppia condizione: di merito e di metodo. Innanzitutto rammentando che i congegni elettorali non sono fedi, ma strumenti. La loro qualità dipende dalle stagioni della storia, tuttavia non esiste uno strumento perfetto, non c'è una superiorità assoluta del maggioritario o del proporzionale. Esistono però strumenti imperfetti, e noi italiani ne sappiamo qualcosa. Cominciamo dunque a sbarazzarci dalle tentazioni più peccaminose: un premio di maggioranza troppo alto, tale da distorcere il risultato elettorale; l'idea di trasmigrare dalle liste bloccate a un sistema tutto imperniato sulle preferenze (cadremmo dalla padella alla brace); una soglia di sbarramento impervia, o al contrario ridicolmente bassa.

Quanto al metodo, non c'è che da seguire il suggerimento di Napolitano: si voti a maggioranza, al limite con maggioranze alterne sui singoli capitoli. Ma per non generare un Ippocervo, sarebbe bene votare in primo luogo sugli indirizzi generali, dalla scelta dei collegi (sì o no all'uninominale), fino al vincolo di coalizione e a tutto il resto. Poi toccherà agli sherpa tradurre i principi in regole. Sapendo tuttavia che il tempo stringe, ormai è come una corda al collo dei partiti.

Michele Ainis

12 luglio 2012 | 7:47© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_luglio_12/labirinto-elettorale-ainis_ff017354-cbe2-11e1-b65b-6f476fc4c4c1.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Le istituzioni e le persone
Inserito da: Admin - Luglio 17, 2012, 05:23:10 pm
 LA SCELTA DEL PRESIDENTE


Le istituzioni e le persone

Un conflitto di attribuzioni non è una guerra nucleare. Serve a delimitare il perimetro dei poteri dello Stato, a restituire chiarezza sulle loro competenze. E la democrazia non deve aver paura dei conflitti: meglio portarli allo scoperto, che nascondere la polvere sotto i tappeti. Sono semmai le dittature a governare distribuendo sedativi. Eppure c'è un che d'eccezionale nel contenzioso aperto da Napolitano contro la Procura di Palermo. Perché esiste un solo precedente, quello innescato da Ciampi nel 2005 circa il potere di grazia. Perché stavolta il capo dello Stato - a differenza del suo predecessore - rischia d'incassare il verdetto della Consulta mentre è ancora in carica, sicché sta mettendo in gioco tutto il suo prestigio. Perché infine il conflitto investe il ruolo stesso della presidenza della Repubblica, la sua posizione costituzionale.

Domanda: ma è possibile intercettare il presidente? La risposta è iscritta nella legge n. 219 del 1989: sì, ma a tre condizioni. Quando nei suoi confronti il Parlamento apra l'impeachment per alto tradimento o per attentato alla Costituzione; quando in seguito a tale procedura la Consulta ne disponga la sospensione dall'ufficio; quando intervenga un'autorizzazione espressa dal Comitato parlamentare per i giudizi d'accusa. Quindi non è vero che il presidente sia «inviolabile», come il re durante lo Statuto albertino. Però nessuna misura giudiziaria può disporsi finché lui rimane in carica, e senza che lo decida il Parlamento.

Dinanzi a questo quadro normativo la Procura di Palermo ha scavato a sua volta una triplice trincea. Primo: nessuna intercettazione diretta sull'utenza di Napolitano, semmai un ascolto casuale mentre veniva intercettato l'ex ministro Mancino. Secondo: le conversazioni telefoniche del presidente sono comunque penalmente irrilevanti. Terzo: i nastri registrati non sono mai stati distrutti perché possono servire nei confronti di Mancino, e perché in ogni caso la loro distruzione passa attraverso l'udienza stralcio regolata dal codice di rito.

Deciderà, com'è giusto, la Consulta. Ma usando il coltello della logica, è difficile accettare che sia un giudice a esprimersi sulla rilevanza stessa dell'intercettazione. Perché delle due l'una: o quest'ultima rivela che il presidente ha commesso gli unici due reati dei quali è responsabile, per esempio vendendo segreti di Stato a una potenza straniera; e allora la Procura di Palermo avrebbe dovuto sporgere denuncia ai presidenti delle Camere, cui spetta ogni valutazione. Oppure no, ma allora i nastri vanno subito distrutti, senza farli ascoltare alle parti processuali. Come avviene, peraltro, per ogni cittadino, se intercettato mentre parla con il proprio difensore (articoli 103 e 271 del codice di procedura penale). E come stabilì il Senato nel marzo 1997, quando Scalfaro venne a sua volta intercettato. In quell'occasione anche Leopoldo Elia, costituzionalista insigne, dichiarò illegittime le intercettazioni telefoniche del capo dello Stato, sia dirette che indirette. Perché ne va dell'istituzione, non della persona. Le persone passano, le istituzioni restano.

Michele Ainis

17 luglio 2012 | 14:48© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_luglio_17/istituzioni-persone-michele-ainis_1f7459d8-cfcd-11e1-85ae-0ea2d62d9e6c.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Il grande alibi del tempo scaduto
Inserito da: Admin - Agosto 22, 2012, 10:09:16 pm
COSA SI PUÒ FARE PRIMA DELLE ELEZIONI

Il grande alibi del tempo scaduto

Dalle elezioni ci separano all'incirca nove mesi, quanto basta per mettere al mondo una creatura; ma l'attesa della vita si è trasformata in una morte prematura. Zero riforme, zero leggi in Parlamento. Sicché in questo finale di partita va in scena il Grande Imbroglio, l'alibi usato dai partiti per sabotare qualunque iniziativa.

La legge sulle intercettazioni? Troppo tardi, dichiara all'unisono il Pd. Quella sulla corruzione? Non c'è più tempo, replica a brutto muso il Pdl. Idem per il semipresidenzialismo licenziato dal Senato. Per la responsabilità dei giudici, approvata dalla Camera in febbraio. Per la riforma del fisco, abbozzata in aprile dal governo. Per la revisione dei regolamenti parlamentari, in modo da rendere più impervio il salto della quaglia degli eletti. Per la disciplina dei partiti. Per i temi etici, a cominciare dai diritti delle coppie di fatto. L'unica legge promessa a destra e a manca è quella elettorale: più che una legge, l'estrema unzione della legislatura, e chissà se le verrà mai impartita.
C'è una ragione giuridica dietro questo stallo? Nessuna: le Camere funzionano a pieno regime fino alla scadenza. O anche dopo, finché non si riunisca il nuovo Parlamento (articolo 61 della Costituzione). Difatti per i parlamentari non vale la regola del semestre bianco, come per il capo dello Stato. E la legislatura dura cinque anni, non quattro anni e mezzo. Ma ormai il suo cuore batte piano, il respiro è quasi un rantolo. Nei primi diciotto mesi della legislatura in corso vennero approvate 119 leggi; negli ultimi otto mesi, da quando è scoccato il Capodanno del 2012, sono soltanto 11 i progetti di legge d'iniziativa parlamentare arrivati in porto. Supplisce, per lo più, l'esecutivo (38 provvedimenti). Ma il governo Monti si tiene alla larga dalle materie dove infuriano i contrasti. Un po' perché ha un mandato circoscritto alle questioni dell'economia; un po' perché sa bene che altrimenti può rimetterci le penne.

E allora sbuca fuori l'alibi, la scusa recitata in coro dai partiti: per ogni accordo politico servirebbe tempo, e tempo non ce n'è. Vero? No, falso. Il progetto di Costituzione, ovvero l'ossatura della Carta del 1947, fu scritto e votato in appena sei mesi. Più di recente, il disegno di legge costituzionale che ha introdotto il pareggio di bilancio è stato timbrato in sette mesi. Quanto alle leggi ordinarie, quella di stabilità ha occupato due sole sedute parlamentari (11-12 novembre 2011). A luglio la Campania ha varato una normativa contro la violenza sulle donne, pochi giorni dopo l'ennesimo assassinio. Mentre a suo tempo la legge che appose un titoletto ai referendum venne siglata da Camera e Senato fra la mattina e il pomeriggio del 17 maggio 1995.

Ma in realtà non c'è bisogno di vestirsi da Speedy Gonzales. Non occorrono né accelerazioni né improvvisazioni. Basta raccogliere il lavoro parlamentare già espletato, per mettere a profitto quest'ultimo scorcio della legislatura. Quantomeno sui capitoli della giustizia, della legalità ferita. Urgenze che non possono aspettare. Oltretutto un Parlamento incanutito dovrebbe avere in dote l'esperienza. Invece il nostro Parlamento preferisce un funerale da fanciullo, senza mai essere cresciuto.

Michele Ainis

22 agosto 2012 | 9:10© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_agosto_22/il-grande-alibi-del-tempo-scaduto-michele-ainis_ff047636-ec16-11e1-9004-4e22268e2993.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Quel filo spezzato con gli elettori
Inserito da: Admin - Agosto 25, 2012, 05:47:38 pm
LA NECESSITÀ DI UNA NUOVA LEGGE SUL VOTO

Quel filo spezzato con gli elettori

Abbiamo letto fin qui anticipazioni, dichiarazioni, indiscrezioni. Talvolta farneticazioni. Ma a quanto pare la nuova legge elettorale sta per arrivare: meglio tardi che mai. Anche perché il Porcellum è diventato nel frattempo la disciplina normativa più odiata dal popolo italiano. Perché nell'ultimo anno Napolitano è intervenuto nove volte per sollecitarne invano la riforma. E perché, se i partiti ci obbligassero a votare nuovamente con un sistema che confisca il nostro voto, andrebbero alle urne soltanto i loro militanti.

Ma quali sembianze sfoggia il nascituro? L'ecografia non lascia dubbi: sarà un meticcio, un sangue misto. Né un maggioritario puro all'inglese, né un proporzionale puro alla tedesca. Dunque un maggiorzionale, mettiamola così. Come d'altronde è tradizione nella Seconda Repubblica. Il Mattarellum - in vigore dal 1993 al 2005 - era maggioritario per tre quarti, proporzionale per un quarto. Il Porcellum - ahimè, tuttora in vigore - ha un impianto proporzionale, ma drogato da un premio di maggioranza senza eguali nella storia italiana. Adesso si profila una soluzione salomonica: metà collegi uninominali (vince il candidato più votato), metà liste bloccate (vince il candidato nominato, se ha un buon posto nella lista e se la lista trova posto nel cuore degli elettori).

Ma gli incroci razziali non sono affatto una sciagura. Tutto sta a non trafficare troppo con gli alambicchi del laboratorio, altrimenti sbuca fuori Frankenstein. A occhio e croce, il rischio è proprio questo. Collegi piccoli, però non troppo piccoli (e allora sono grandi). Indicazione del futuro premier sulla scheda elettorale, quando la nomina spetta pur sempre al capo dello Stato. Soglia di sbarramento al 5%, ma con una deroga per chi la superi in almeno tre regioni, restando sotto a livello nazionale. Sarà contento Maroni, sorriderà Lombardo, però in questo modo la soglia si trasforma in una sogliola. I partiti locali possono ottenere seggi attraverso i collegi uninominali; tuttavia sarebbe una stortura rappresentarli a scapito di formazioni presenti in tutto il territorio, che magari non valicano lo sbarramento per lo 0,1% (nel 2001 capitò a Di Pietro).

E il premio? Al primo partito, anziché alla coalizione. Giusto così, ci risparmieremo alleanze ballerine, matrimoni d'interesse che finiscono un minuto dopo lo scambio degli anelli. Ma il 15% di cui si va parlando convertirebbe il premio in una tombola. Perché la governabilità non deve soffocare la rappresentatività del Parlamento. E perché d'altronde nessun bonus può mai garantire governi di legislatura, come sa bene Berlusconi. La garanzia sta nella politica, non nei marchingegni elettorali.

È infatti questa l'urgenza prioritaria: riannodare il filo spezzato fra eletti ed elettori, restaurare la perduta autorità del Parlamento. Per riuscirvi, sarebbe meglio dialogare con ogni partito ospitato dalle assemblee legislative, senza tenere fuori dalla porta Italia dei valori, la Lega, i Radicali. Si fa così, quando c'è da scrivere le regole del gioco. Dopo di che non serve l'unanimità: anche la Carta del 1947 incassò 62 voti contrari. Serve piuttosto mettersi alle spalle il doppio vizio del Porcellum: premio di maggioranza senza limiti, parlamentari senza voto. Questo sistema scellerato ha frustrato gli elettori, ha mortificato gli eletti. Non lo rimpiangeremo.

Michele Ainis

25 agosto 2012 | 7:42© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_agosto_25/editoriale-filo-spezzato-elettori-ainis_e8b6ed72-ee74-11e1-b570-4318918e88d8.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. La lunga notte di una riforma
Inserito da: Admin - Settembre 15, 2012, 11:14:53 am
LEGGE ELETTORALE, IL TEMPO SCADE

La lunga notte di una riforma

La tela di Penelope si cuce di giorno, si disfa nottetempo. Ora è di nuovo notte, e nulla ci assicura che la legge elettorale vedrà mai le luci del mattino. I partiti di maggioranza ne avevano promesso il battesimo entro giugno, poi a luglio, poi a settembre; però anche questo mese sta volando via, come una rondine davanti ai primi freddi. E allora meglio prepararci al peggio, meglio attrezzarci per resistere all'inverno della democrazia italiana.

Perché è questa la stagione che ci attende, se i partiti ci costringeranno a votare per la terza volta col Porcellum . In assenza del popolo, ne prenderà le veci il populismo. Avremo due Camere amputate (nell'autorità, non nei posti a sedere: la riduzione dei parlamentari è l'ennesima promessa tradita dai politici). Questo Parlamento dimezzato ospiterà tuttavia un partito raddoppiato, grazie al superpremio di maggioranza: 55% dei seggi, quando attualmente nessuna forza politica supera il 25% dei consensi. Infine verrà delegittimato anche il prossimo capo dello Stato, eletto da un Parlamento ormai negletto.

C'è modo di sventare la sciagura? Uno soltanto: che sia il governo Monti, per decreto, a scrivere la nuova legge elettorale. Una soluzione disperata, ma di speranze ormai ne abbiamo poche. Sicché non resta che la dottrina del male minore, teorizzata da Spinoza come da Sant'Agostino. È un male scavalcare le assemblee legislative? Certo che sì, anche se alle Camere spetta pur sempre la conversione del decreto: e a quel punto niente più gioco del cerino, chi vi s'oppone ne risponde agli elettori. Ma è un male minore, giacché il male maggiore rimane la crisi democratica in cui siamo avvitati. Ed è un male evitabile: se gruppi di cittadini e di parlamentari sosterranno questa stessa soluzione; se l'esecutivo ne verrà corroborato per metterla poi nero su bianco; se i partiti, vista la malaparata, riusciranno infine a scongiurare la mossa del governo, siglando un testo condiviso. Talvolta una minaccia serve più di tanti bei sermoni.

Resta però una duplice obiezione: di forma e di sostanza. La prima chiama in causa l'ammissibilità dei decreti in materia elettorale, negata dall'art. 15 della legge n. 400 del 1988. Che tuttavia è una legge ordinaria, e dunque non può vincolare le leggi successive, né i decreti con forza di legge; tant'è che in questo campo non si contano i provvedimenti del governo, dalla disciplina delle campagne elettorali alle modalità di selezione delle candidature. Senza dire che ogni decreto legge si giustifica - Costituzione alla mano - in nome dell'emergenza, della necessità. Necessitas non habet legem , dicevano i latini: quando la società corre un pericolo, l'unica legge è la salvezza collettiva.

Già, ma spetta a un governo tecnico la più politica delle decisioni? Come potranno Monti e i suoi ministri scegliere fra maggioritario e proporzionale, fra collegi e preferenze? Difatti non possono, non devono. Possono soltanto estrarre dai cassetti l'unico modello già incartato: il Mattarellum . Anche perché dal 1994 al 2001 lo abbiamo usato per tre volte, senza eccessivi danni; l'anno scorso un referendum che intendeva riesumarlo raccolse un milione e 200 mila firme in pochi giorni; ed è la prima scelta per vari dirigenti di partito (Parisi, Vendola, Di Pietro). Poi, certo, si può fare di meglio. Anche di peggio, tuttavia. E in questo caso il peggio coincide col non fare.
michele.ainis@uniroma3.it

Michele Ainis

14 settembre 2012 | 10:43© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_settembre_14/lunga-notte-di-una-riforma-ainis_79abdfa4-fe29-11e1-82d3-7cd1971272b9.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. I pachidermi delle regioni
Inserito da: Admin - Settembre 26, 2012, 03:45:29 pm
ECCESSI DI UN DECENTRAMENTO

I pachidermi delle regioni

Lo scandalo che travolge la giunta Polverini non è certo un buon motivo per abolire la Regione Lazio. Né la Lombardia o la Sicilia, dopo le peripezie di Formigoni e di Lombardo. Ma sta di fatto che le Regioni sono diventate molto impopolari; e il popolo è pur sempre sovrano. Di più: nei termini in cui le abbiamo costruite, le Regioni sono un lusso che non possiamo più permetterci. Non solo in Italia, a dirla tutta. Ne è prova, per esempio, il no di Rajoy alla Catalogna, che reclamava una maggiore autonomia fiscale. Ma è qui e adesso che il decentramento dello Stato pesa come una zavorra. È qui che la spesa regionale è aumentata di 90 miliardi in un decennio. Ed è sempre qui, nella periferia meridionale dell'Europa, che i cittadini ne ottengono in cambio servizi scadenti da politici scaduti.

Sicché dobbiamo chiederci che cosa resti dell'idea regionalista, incarnata nei secoli trascorsi da Jacini, Minghetti, Colajanni, Sturzo. Dobbiamo domandarci se quell'idea abbia ancora un futuro e quale. Intanto ne conosciamo, ahimè, il passato. L'introduzione degli enti regionali costituì la principale novità della Carta del 1947, ma poi venne tenuta a lungo in naftalina, perché la Democrazia cristiana non voleva cedere quote di potere al Partito comunista. Quando tale resistenza fu infine superata - all'alba degli anni Settanta - le Regioni vennero al mondo zoppe, malaticce. Da un lato, il nuovo Stato repubblicano aveva occupato ormai tutti gli spazi; dall'altro lato, i partiti politici avevano occupato lo Stato. Ed erano partiti fortemente accentrati, dove i quadri locali prendevano ordini dall'alto. Le Regioni si connotarono perciò come soggetti sostanzialmente amministrativi, dotati di competenze legislative residuali e senza una reale autonomia.

Poi, nel 2001, grazie alla bacchetta magica del centrosinistra, scocca la riforma del Titolo V; ed è qui che cominciano tutti i nostri guai. Perché dal troppo poco passiamo al troppo e basta; ma evidentemente noi italiani siamo fatti così, detestiamo le mezze misure. E allora scriviamo nella Costituzione che la competenza legislativa generale spetta alle Regioni, dunque il Parlamento può esercitarla soltanto in casi eccezionali. Aggiungiamo, a sprezzo del ridicolo, che lo Stato ha la stessa dignità del Comune di Roccadisotto (articolo 114). Conferiamo alle Regioni il potere di siglare accordi internazionali, con la conseguenza che adesso ogni «governatore» ha il suo consigliere diplomatico, ogni Regione apre uffici di rappresentanza all'estero. Cancelliamo con un tratto di penna l'interesse nazionale come limite alle leggi regionali. E, in conclusione, trasformiamo le Regioni in soggetti politici, ben più potenti dello Stato.

I risultati li abbiamo sotto gli occhi. Non solo gli sprechi, i ladrocini, i baccanali. Non solo burocrazie cresciute a dismisura e a loro volta contornate da un rosario di consulte, comitati, consorzi, commissioni, osservatori. Quando il presidente Monti, nel luglio scorso, si mise in testa di chiudere i piccoli ospedali, il ministro Balduzzi obiettò che la competenza tocca alle Regioni, non al governo centrale. Negli stessi giorni la Corte costituzionale (sentenza n. 193 del 2012) ha decretato l'illegittimità della spending review , se orientata a porre misure permanenti sulla finanza regionale. Costituzione alla mano, avevano ragione entrambi, sia la Consulta sia il ministro; ma forse il torto è di questa Costituzione riformata.

La Costituzione ha torto quando converte le Regioni in potentati. Quando ne incoraggia il centralismo a scapito dei municipi. Quando consegna il governo del territorio alle loro mani rapaci, col risultato che il Belpaese è diventato un Paese di cemento. Quando disegna una geografia istituzionale bizantina (sul lavoro, per esempio, detta legge lo Stato, ma i tirocini sono affidati alle Regioni). Quando mantiene in vita anacronismi come le Regioni a statuto speciale. Quando pone sullo stesso piano il ruolo delle Regioni virtuose (per lo più al Nord) e di quelle scellerate (per lo più al Sud). Infine, ha torto quando nega allo Stato il potere di riappropriarsi di ogni competenza, se c'è una crisi, se la crisi esige un'unica tolda di comando.

C'è allora una lezione che ci impartiscono gli scandali da cui veniamo sommersi a giorni alterni. Vale per le Regioni, vale per i partiti. Perché viaggiamo a cavalcioni d'un elefante, ecco il problema. E l'elefante mangia in proporzione alla sua stazza. Quindi, o mettiamo a dieta il pachiderma o montiamo in sella a un animale più leggero. Quanto alle Regioni, vuol dire sforbiciarne le troppe competenze. Se non altro, gli incompetenti smetteranno di procurarci danni.

Michele Ainis

22 settembre 2012 | 8:19© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_settembre_22/pachidermi-delle-regioni-ainis_7b6a31c0-047c-11e2-ab71-c3ed46be5e0b.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. L’eterno vuoto delle riforme
Inserito da: Admin - Ottobre 06, 2012, 09:42:53 pm
IL FALLIMENTO DELLA SECONDA REPUBBLICA

L’eterno vuoto delle riforme

Le conseguenze della riforma del Titolo V che ha trasformato le regioni in staterelli


C’è un nesso fra la Grande abbuffata dei consiglieri regionali e il sovraffollamento delle carceri? E cos’hanno in comune queste due vicende con la rissa fra politica e giustizia che ci ammorba da vent’anni? In apparenza, nulla: sono pur sempre spine, ma di fiori distinti. E invece no, perché la semina è la stessa, e coincide puntualmente con una riforma sciagurata. Anche se c’è voluto tempo per misurarne gli effetti, anche se ce ne accorgiamo solo adesso, quando il tempo ormai è scaduto. È il caso, innanzitutto, della riforma del Titolo V, battezzata dal centrosinistra nel 2001. Quella che ha trasformato le regioni in altrettanti staterelli, ciascuno in grado di legiferare sull’universo mondo, ciascuno armato d’una politica estera al pari dello Stato sovrano, ciascuno addirittura libero di scegliere la propria forma di governo. Sicché il Molise ha più poteri della California, e i risultati, ahimè, li conosciamo: un’orgia di sprechi e di spreconi. Poi, certo, si può obiettare che la responsabilità è delle persone, non delle istituzioni. Se è per questo, c’è chi pensa che il fascismo fosse buono, il cattivo era soltanto Mussolini. Ma non si può entrare in polemica con i fatti: hanno la testa dura, come diceva Lenin. Ed è un fatto, anzi un misfatto, che la spesa regionale sia cresciuta di 90 miliardi nel decennio successivo alla riforma.

E c’è poi il pozzo nero delle carceri, con 21 mila detenuti in più dei posti letto, con un record di suicidi, di atti d’autolesionismo, di gesti disperati. Tanto da trasformare la pena in un delitto, per usare il titolo di un libro curato da Franco Corleone e Andrea Pugiotto. Questa scandalosa condizione dipende dall’abuso del diritto penale, che ci ha inondato con 35 mila fattispecie di reato, e che s’accanisce nei confronti dei più deboli (gli stranieri formano il 36,7% della popolazione carceraria) senza peraltro migliorare la sicurezza dei cittadini. Ma dipende altresì dalla riforma del 1992, che ha riscritto la Costituzione imponendo la maggioranza parlamentare dei due terzi per varare un provvedimento di clemenza. Sicché l’amnistia è diventata impraticabile, anche se la sollecita il capo dello Stato, come è successo pochi giorni addietro.

Mentre rimane praticabile (pure troppo) qualsiasi riforma della Carta, dato che in questo caso basta la maggioranza assoluta. Sempre in quel torno d’anni, sull’onda di Tangentopoli, venne emendato l’articolo 68 della Carta, indebolendo le immunità parlamentari. Col senno di poi, un’altra riforma sbagliata. Perché ha sbilanciato il rapporto fra politica e giustizia, in danno della prima. E perché tutti i tentativi della politica d’ottenere una rivalsa (dalla Bicamerale di D’Alema al lodo Alfano), hanno soltanto incrudelito gli animi, senza mai giungere in porto. D’altronde anche questa legislatura è costellata da riforme mancate. Quella del fisco venne promessa da entrambi i contendenti prima delle elezioni. Sulla giustizia gli annunci risalgono al giugno 2008. Cinque mesi dopo il ministro Calderoli promise la correzione del bicameralismo. Quanto alla legge elettorale, poi, non ne parliamo, anche perché abbiamo consumato ogni parola. Da qui, a volerla ascoltare, una lezione. Se la Seconda Repubblica è fallita, è perché sono fallite le riforme da cui era stata generata. Se stiamo per celebrare i funerali di un’altra legislatura inconcludente, è perché le riforme necessarie non hanno mai visto la luce. C’è insomma un cordone ombelicale fra cattiva politica e cattive riforme. O lo spezziamo, o si spezzerà il Paese.

Michele Ainis

3 ottobre 2012 | 10:00© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_ottobre_03/l-eterno-vuoto-delle-riforme-michele-ainis_633040b4-0d18-11e2-93be-2a3b0933ba70.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. L'ETÀ DELLA FRAMMENTAZIONE E di semplice non restò nulla
Inserito da: Admin - Ottobre 17, 2012, 10:08:57 pm
L'ETÀ DELLA FRAMMENTAZIONE

E di semplice non restò nulla


Questa legislatura si era consegnata al mondo sventolando una bandiera: semplificazione. Cinque soli partiti in Parlamento, quando il governo Prodi ne riuniva 11 attorno al proprio desco. Fuori le estreme, dalla Destra di Storace a Rifondazione comunista, ghigliottinate dalla soglia di sbarramento. Fusione in un unico cartello di An e Forza Italia (il Pdl), Ds e Margherita (il Pd). Un'idea di riforma costituzionale condivisa, per sfoltire i ranghi (mille parlamentari), per recidere i doppioni (due Camere gemelle). All'epoca venne persino inventato un ministro per la Semplificazione: Calderoli, buonanima.

Forse non dovremmo mai voltarci indietro, perché la vita è un treno che corre dritto sul binario. Ma sta di fatto che adesso la locomotiva attraversa un paesaggio di città fortificate, l'una contro l'altra. L'unità del Pdl è come un ricordo dell'infanzia: bene che vada, gli subentrerà una federazione con due gambe, o magari con tre. Nel Pd Renzi e Bersani non incarnano una sfida tra diverse esecuzioni d'uno stesso spartito; no, suonano musiche opposte, il rock and roll e il liscio romagnolo. C'è insomma lo spartito, non c'è più il partito. O meglio ce ne sono troppi, dalla sinistra di Vendola al movimento di Grillo, che ovviamente non ha nessuna voglia di mescolare le sue truppe con quelle guidate da Di Pietro. E senza contare i nuovi commensali: Italia futura, la lista dei sindaci, quella di Giannino.

In questo specchio infranto si riflettono anche le nostre istituzioni. L'officina del diritto è affollata di meccanici: dettano norme gli atenei, le autorità portuali, i consigli di quartiere. L'attività amministrativa è a sua volta frantumata, sicché - per dirne una - sui nostri 13.503 acquedotti vegliano 5.513 enti. Il controllo del territorio viene affidato a 6 forze di polizia nazionali e a 2 locali. Ma i custodi sono ormai un esercito, anche se per lo più sparano a salve: al capezzale di mamma tv, per esempio, sgomitano la Vigilanza, l'Autorità per le comunicazioni, il ministero, l'Antitrust. Un tempo avrebbe potuto metterci ordine la legge, ma anche la legge è diventata un condominio dove s'accalcano 2 Camere, 20 Consigli regionali e 2 provinciali, Trento e Bolzano. Insomma, siamo passati dalla separazione alla disgregazione dei poteri. E giocoforza questi poteri disgregati trascorrono i loro giorni a litigare sulle rispettive competenze. In questo momento davanti alla Consulta pendono 6 conflitti tra poteri dello Stato, 12 tra Stato e Regioni, 126 ricorsi sulla spettanza della potestà legislativa.

Potremmo interrogarci a lungo se questa diaspora sia il riflesso, o piuttosto la causa, delle fratture che solcano la società italiana. Dove armeggiano corporazioni e camarille, ordini e collegi, correnti giudiziarie e sindacali, disputandosi il terreno palmo a palmo. Anche in questo caso non c'è un popolo, come non c'è uno Stato. C'è viceversa una serie di tribù, e guai a te se ne rimani fuori: ci rimetteresti la carriera. Eppure è esattamente questa l'urgenza di cui dovrebbe farsi testimone la politica. C'è bisogno d'unità, non di ulteriori divisioni. C'è bisogno d'istituzioni unificanti, quando fin qui soccorre soltanto il Quirinale. Significa sbarazzarsi di tutti gli enti, portenti e accidenti che ci teniamo sul groppone. Ma significa altresì recuperare l'interesse nazionale quale limite alle leggi regionali, come ieri ha ribadito Galli della Loggia. E significa introdurre un sistema elettorale che scoraggi la frammentazione. Dopotutto la semplicità reca almeno una virtù: non ti complica la vita.

Michele Ainis

17 ottobre 2012 | 8:31© RIPRODUZIONE RISERVATA

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Titolo: MICHELE AINIS. Governo laico, una chimera
Inserito da: Admin - Dicembre 19, 2012, 05:42:00 pm
Opinione

Governo laico, una chimera

di Michele Ainis

Monti, inflessibile con gli italiani, è stato sempre molto attento ai desiderata del Vaticano. L'ultimo esempio è il divieto di fecondazione assistita. Ma già sull'Imu e sulla scuola privata non ha avuto il coraggio di invertire la rotta

(19 dicembre 2012)

Ora che il governo Monti sta per esalare l'ultimo respiro possiamo confermare l'idea che ne abbiamo avuto fin dall'inizio: inflessibile con gli italiani, troppo attento a non urtare i vaticani. Tanto da ricevere a ogni festa comandata l'incenso delle gerarchie ecclesiastiche («Presidente, la Chiesa la sostiene»: Bertone a Monti, 21 marzo). Gli osanna dei loro giornali ("Civiltà cattolica", 7 febbraio: «Basterebbe un decimo del suo programma per doverlo ringraziare»; "Avvenire", 9 dicembre: «Ecco uno che ci rispetta davvero»). Un'udienza-lampo dal pontefice due mesi dopo il giuramento (invece al cattolico Prodi toccò aspettare cinque mesi). E pazienza se in cambio questo esecutivo ha dovuto litigare con mezza magistratura, anche fuori dai confini nazionali.

D'ALTRONDE C'E' SEMPRE qualche santa causa da difendere, come il divieto di fecondazione assistita. Bastonato per 19 volte dai giudici italiani ed europei, in ultimo (il 28 agosto) dalla Corte di Strasburgo; dopo di che il governo ha traccheggiato per tre mesi, ma all'ultimo minuto dell'ultimo giorno utile (il 27 novembre) si è appellato alla Grande Chambre. Un appello contro la logica, oltre che contro la decenza. Perché la legge italiana impedisce la diagnosi preimpianto alle coppie portatrici di malattie genetiche, ma non impedisce poi l'aborto. Dunque se soffri di fibrosi cistica (il caso incriminato) delle due l'una: o metti al mondo un infelice o uccidi l'infelice prima che venga al mondo.

E la baruffa con il Consiglio di Stato? Questa volta c'è di mezzo l'Imu, una tassa che offende la suscettibilità del Cupolone, anche perché senza quattrini non si canta messa. I fatti: 4 ottobre, i magistrati amministrativi bocciano il regolamento del governo; troppi sconti a Santa Romana Chiesa. Ma il 2 novembre sbuca fuori un emendamento alla legge sugli enti locali, che permette l'esenzione dall'Imu per le attività senza fine di lucro svolte anche «in via indiretta»; in sintesi, se la Caritas compra una banca, zero Imu per la banca. Il governo benedice, poi – davanti allo sdegno generale – è costretto al dietrofront. Però il nuovo regolamento (19 novembre) è un monumento all'arzigogolo, uno sberleffo ai consigli del Consiglio.

Primo: niente Imu per gli enti assistenziali e sanitari della Chiesa, se il costo delle prestazioni non supera la metà dei «corrispettivi medi». Siccome nessuno conosce la media dei prezzi, è una norma scritta sull'acqua (santa?). E oltretutto inventa l'ineffabile categoria del lucro a metà, come ha osservato Marco Politi. Secondo: le scuole cattoliche non pagano l'Imu se la retta copre una frazione dei costi del servizio.
Ma quanto costa il servizio? Vattelappesca. Sappiamo tuttavia che in giugno il ministro dell'Istruzione, Profumo, ha firmato due nuove intese con Bagnasco per rafforzare l'insegnamento del cattolicesimo. E sappiamo inoltre che i 26 mila docenti di religione, grazie al Concordato, intascano una busta paga più pesante rispetto a chi insegna matematica o latino.

C'E' ALLORA UNA PREGHIERA da rivolgere al governo in preghiera. Quella che ogni medico sussurra ai suoi pazienti: «Dica trentatré».
Come l'articolo della Costituzione che autorizza le scuole private, purché «senza oneri per lo Stato». Oppure, per risparmiare fiato, basterebbe dire tre. Come quell'altro articolo che custodisce il principio d'eguaglianza, «senza distinzione di religione».
Ma il gabinetto Monti, non meno dei suoi predecessori, ha preferito viceversa un silenzio incivile sui diritti civili: testamento biologico, divorzio breve, coppie di fatto, omofobia. Ha mantenuto in vigore la truffa dell'otto per mille (1.148 milioni nel 2012), così come gli sconti per le finanze vaticane (50 per cento sull'Ires), i regali (l'acqua gratis da parte dell'Acea), i benefit di Stato (190 mila euro l'anno per il Gran capo dei cappellani militari).

Domanda: ma ce l'avremo mai in Italia un governo finalmente laico? Difficile sperarlo, anche per chi abbia il dono della fede. Più facile che al Quirinale, dopo Napolitano, venga eletto il papa.
Michele.Ainis@uniroma3.It

 
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Titolo: MICHELE AINIS. Le cinque democrazie
Inserito da: Admin - Dicembre 29, 2012, 07:48:00 pm
IL VOTO DECIDERÀ IL MODELLO VINCENTE

Le cinque democrazie


Le prossime elezioni? Una competizione fra programmi, interessi sociali, leader. Come sempre, del resto. Ma stavolta c'è una novità, anche se fin qui non ci abbiamo fatto caso. Perché nell'urna si misureranno non soltanto linee politiche, bensì modelli di democrazia. E i modelli in gara sono almeno cinque, quanti le dita d'una mano. Certo, la democrazia risponde pur sempre a un unico criterio: è un sistema dove si contano le teste, invece di tagliarle. Però se il voto rappresenta lo strumento di legittimazione del potere, le tonalità di quest'appello al voto esprimono altrettante concezioni del potere legittimo. E adesso tali concezioni s'elidono a vicenda, come i cinque protagonisti sulla scena.

Primo: Bersani. Vanta un'investitura iperdemocratica, perché è l'unico leader scelto attraverso le primarie. Anche le primarie, tuttavia, possono declinarsi in varia guisa. Se sono troppo chiuse s'espongono alla critica formulata nel 1953 da Duverger, dato che il loro esito verrà orientato giocoforza dalla burocrazia interna del partito. Nel caso di specie il Pd ha alzato gli steccati per evitare inquinamenti, e il timore non era campato per aria. Però al secondo turno è stato respinto il 92% delle richieste d'iscrizione. Dunque Bersani è portavoce d'un modello di democrazia innervata dai partiti, che in qualche modo fa coincidere i partiti con le stesse istituzioni.

Secondo: Berlusconi. Quando ha aperto bocca, l'estenuante discussione sulle primarie del Pdl è subito caduta nel silenzio. Perché in lui s'incarna il potere carismatico, nel senso indicato da Max Weber. Quindi un rapporto diretto fra il leader e i suoi elettori, che scavalca il partito e offusca qualunque altro potere dello Stato. Da qui una lettura verticistica del principio di sovranità popolare. Da qui, in breve, la metamorfosi di ogni elezione in referendum: o con me o contro di me.

Terzo: Monti. Un professore prestato alla politica, che fa politica senza dismettere la toga. Anzi: è proprio quell'abito a riassumerne l'offerta elettorale. Un'offerta che perciò riecheggia un modello di governo aristocratico: i re-filosofi di cui parlò Platone, gli ottimati dei comuni medievali. Però tale modello può anche convertirsi nel suo opposto. La legittimazione attraverso le competenze significa difatti il rifiuto della politica come professione, significa insomma che ciascun cittadino può ambire al governo della polis.

Quarto: Grillo. Lui le primarie le ha convocate in Rete, e d'altronde per il suo movimento il web costituisce pressoché l'unico canale di mobilitazione, di comunicazione, di elaborazione. Si chiama democrazia digitale, definizione coniata fin dagli anni Ottanta, quando a Santa Monica fu battezzato il primo esperimento. Ora con Grillo approda anche in Italia; ma resta da vedere come si concili la vena anarchica del web con la vena autoritaria del suo apostolo.

Quinto: Ingroia. E insieme a lui Di Pietro e De Magistris, ex magistrati entrambi. Più che un partito giustizialista, un partito giudiziario. La sua cifra democratica? Potremmo definirlo il governo dei custodi. D'altronde anche negli Usa i giudici sono eletti dal popolo. Siccome però siamo in Italia, applichiamo un criterio rovesciato: qui gli eletti sono giudici.

Michele Ainis
michele.ainis@uniroma3.ir

29 dicembre 2012 | 7:41© RIPRODUZIONE RISERVATA

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Titolo: MICHELE AINIS. Pluricandidati? Scelgano prima
Inserito da: Admin - Gennaio 18, 2013, 11:45:15 pm
STESSI NOMI, CIRCOSCRIZIONI DIVERSE

Pluricandidati? Scelgano prima


Gli elettori sono tutti uguali («one man, one vote»), gli eletti no. L'eguaglianza dei votanti è una conquista della Rivoluzione francese: nei sistemi arcaici si praticava infatti il voto plurimo, sicché i suffragi dei notabili valevano il doppio rispetto ai comuni mortali. Come d'altronde nella Russia di Stalin, dove gli operai pesavano più dei contadini. La diseguaglianza dei votati è invece una conquista del Porcellum. Ossia il ventre infetto dal quale sbucherà fuori il nuovo Parlamento, c'è ancora qualcuno che se ne ricorda?

In realtà di questa legge elettorale non parla più nessuno. Ci siamo rassegnati, come succede per un lutto. Errore: è anche da qui, dal modo in cui i partiti si fanno vellicare dal Porcellum, che dovremmo giudicarne la credibilità. E tale sistema offende la Costituzione non soltanto per le liste bloccate, che sequestrano la libertà degli elettori. Non solo perché distribuisce un premio di maggioranza senza soglia minima, trasformando il responso delle urne nel quiz di Mike Bongiorno («Lascia o raddoppia?»). C'è una terza perla custodita nel forziere: la possibilità d'esporre lo stesso candidato in più circoscrizioni, come una ballerina in tournée .

Diciamolo senza troppi giri di parole: è un insulto alla democrazia. Perché il pluricandidato reca sempre sul petto una medaglia, che gli assegna di diritto un posto in zona Champions nella lista. E perché quindi è destinato a convertirsi in plurieletto. Siccome però nessuno può posare i propri glutei contemporaneamente su più di una poltrona, a urne chiuse dovrà scegliere: o di qua o di là. E la sua scelta finirà per decretare l'elezione di chi gli viene appresso nella lista. Da qui un ossimoro consacrato dal Porcellum : è l'eletto che elegge, non già l'elettore. Anzi un doppio ossimoro, perché in questo caso l'elezione avviene dopo l'elezione. E il popolo votante? Non può selezionare i candidati, dato che riceve un elenco telefonico, prendere o lasciare. E con il trucco delle pluricandidature non sa nemmeno per chi vota. Sicché viene negata in ultimo non tanto la libertà, quanto la stessa facoltà del voto. Una vergogna, o meglio una plurivergogna.

Respinta sdegnosamente dai partiti? Macché. Fini è capolista dappertutto, come Ingroia, come probabilmente Berlusconi. Tabacci guida la sua squadra in 10 circoscrizioni. Invece Casini batte Bersani 5 a 3 (quest'ultimo corre in Lombardia, Lazio e Sicilia). Si dirà: il leader deve pur metterci la faccia, dal Nord al Sud della penisola. Ma innanzitutto non è un obbligo: Tony Blair fu sempre eletto nel collegio di Sedgefield. Inoltre il trucchetto viene praticato anche dai sottoleader. Sia nei vecchi partiti, dato che il Pd candida Letta e Marino in due Regioni. Sia nel partito novus, quello di Monti. Dove Ichino e Bombassei pedalano su una doppia bicicletta. E dove la Vezzali è seconda in Campania, prima nelle Marche. Chissà se la nostra campionessa condivide il motto che Plutarco mise in bocca a Cesare: meglio primo in Gallia che secondo a Roma.

Quanto a noi, abbiamo soltanto una preghiera da girare ai pluricandidati. Diteci fin da adesso quale sarà la vostra opzione, quale territorio rappresenterete in Parlamento. Diteci, insomma, per chi andremo a votare. E ai partiti che ancora s'affaccendano nella composizione delle liste: pulitele con un buon detersivo. Se il pluricandidato fosse anche un plurinquisito, ci gettereste nella pluridisperazione.

Michele Ainis

michele.ainis@uniroma3.it18 gennaio 2013 | 7:57© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_gennaio_18/pluricandidati-scelgano-prima-michele-ainis_26d58450-6135-11e2-8866-a141a9ff9638.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Il silenzio sui ministri
Inserito da: Admin - Gennaio 29, 2013, 10:40:15 pm
PERCHÉ NON INDICARLI PRIMA?

Il silenzio sui ministri


Gli elettori hanno un difetto: sono curiosi. Vogliono sapere, prima di deporre una scheda nell'urna, quale uso si farà del loro voto.
Ma i politici italiani hanno il difetto opposto: sono muti come pesci. O meglio, non è che si mordano le labbra; se è per questo, parlano fin troppo. Però usano parole reticenti sui programmi, silenzio di tomba sui programmatori. Quali facce esporrà la squadra di governo prossima ventura?

Eppure il dubbio non è di poco conto. Specie con questa legge elettorale, che proibisce al popolo votante di scegliere il popolo votato.

Anzi: che gli impedisce perfino di sapere per chi vota, dato che il giochino delle pluricandidature consegna all'eletto il potere di decidere l'eletto. E l'elettore? Da lui pretende un atto di fede, una delega in bianco. Possiamo anche firmarla, ormai ci siamo avvezzi.
Possiamo esprimere la nostra preferenza basandoci sulla fotografia del leader, sul suo eloquio in tv, sui suoi motti di spirito.
Ma certo non ci spiacerebbe qualche ulteriore informazione. A cominciare dai ministri in pectore , perché no? Dopotutto le idee camminano sulle gambe degli uomini.

Per esempio: nel caso, fin qui probabile, che il Pd vinca le elezioni, verrà apparecchiato un posto a tavola per Vendola? Probabile anche questo, ma al momento è un segreto di Stato. E quale posto, poi? Altro è offrirgli in subappalto il dipartimento per le Pari opportunità, altro l'Economia: in quest'ultima evenienza cambierebbe la linea politica, non soltanto la poltrona del politico. Senza dire dei grandi esclusi, che hanno fatto un passo indietro in omaggio al rinnovamento delle liste. Quanti di loro, usciti dalle porte girevoli di Montecitorio, rientreranno dalle finestre di Palazzo Chigi? Il più illustre di tutti - Massimo D'Alema - si è già dichiarato disponibile, se arrivasse una chiamata.
Ma se la chiamata giungesse prima del voto potremmo misurare anche la nostra disponibilità, oltre che la sua.

D'altronde a destra è pure peggio: in caso di successo, non sappiamo nemmeno se Berlusconi farà il ministro di Tremonti o viceversa. Sicché non ci rimane che puntare qualche fiche sul totoministri (11.300 risultati interrogando Google, fra i più gettonati Fassina e Tabacci). Leggere appelli disperati come quello promosso da un gruppo d'operatori turistici («Fuori il nome del prossimo ministro del Turismo», 23 mila fan su Facebook). Scommettere, oltre che sui nomi, sui numeri del prossimo governo (una legge del 1999 limita i dicasteri a 12, ma nessun esecutivo l'ha mai rispettata). E intanto prepararci ad ascoltare le obiezioni che la politica dispensa ai ficcanaso. Una su tutte: da che mondo è mondo tali faccende vengono decise dopo il voto, non prima. Perché c'è da pesare il risultato, e perché c'è da mettersi d'accordo con gli alleati di governo.

Errore: ogni partito punta alla vittoria solitaria, e infatti presenta un programma e un candidato premier. Poi può ben darsi che sia costretto a un matrimonio, ma intanto s'offre al voto quand'è scapolo, non dopo le nozze.

Errore doppio: altro sono le cariche arbitrali (come la presidenza del Senato), su cui nessuno dovrebbe esercitare un monopolio; altro quelle politiche.

Errore triplo: secondo l'articolo 92 della Costituzione, è il presidente del Consiglio incaricato che detta la lista dei ministri, mentre l'incarico lo conferisce il capo dello Stato. Invece abbiamo in lizza una quantità di autoincaricati, che però tacciono sugli autoministri.

Errore quadruplo: questa è la Seconda Repubblica, non la Prima. Una volta ti guadagnavi i galloni da ministro con il pieno di preferenze nelle urne, adesso (ahimè) deve preferirti il Capo.

Errore quintuplo: funziona più o meno così negli altri sistemi parlamentari. In Germania, il leader socialdemocratico Steinbrück s'appresta a presentare la sua pattuglia di governo in vista delle elezioni di settembre. Nel Regno Unito, il governo ombra si trasferisce pari pari a Downing Street, se l'opposizione vince la sfida elettorale; mentre la maggioranza sceglie i ministri nel congresso di partito che precede il voto.

E in Italia? L'ultima speranza sta nella buona educazione: chiedere è lecito, rispondere è cortesia.

michele.ainis@uniroma3.it

Michele Ainis

29 gennaio 2013 | 8:28© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_gennaio_29/silenzio-ministri-voto-Ainis_33f9e0a4-69dc-11e2-9ade-d0fed6564ad7.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Il rompicapo del voto utile
Inserito da: Admin - Febbraio 06, 2013, 05:59:30 pm
LIBERA SCELTA E CALCOLI ELETTORALI

Il rompicapo del voto utile

Sui cieli della campagna elettorale volteggiano promesse, favole, miraggi. Normale: non si raccontano mai tante bugie come prima delle elezioni, durante una guerra e dopo la caccia, diceva Bismarck. Ed è altrettanto normale, in questi casi, che ciascuno punti l'indice contro la menzogna altrui. Ma c'è invece un assioma che trova sempre d'accordo almeno un paio fra i contendenti. E non si tratta più di blandire l'elettore, quanto piuttosto d'intimargli un altolà. Voto utile, ecco il suo nome di battaglia. Insomma, attento a dove metti la tua croce sulla scheda, altrimenti sprecherai la scheda. Così ripetono all'unisono Bersani e Berlusconi, nemici nell'urna, alleati nell'assioma.
Lì per lì, non fa una grinza. Specie con questa legge elettorale, dove chi ha un voto in più dell'avversario s'accaparra il 54% dei deputati. Perché disperdere le forze, perché sciupare fieno per il cavallo zoppo, quando a sinistra come a destra corre un unico cavallo che può tagliare i nastri del traguardo? Sennonché c'è una trappola logica dietro questo imperativo logico. Anzi due, anzi tre, anzi quattro.

Primo: l'imbalsamazione del passato. Siccome nel Parlamento uscente c'erano due partiti a farla da padroni, spadroneggeranno per tutti i secoli a venire. Ma le elezioni servono per decidere il futuro, non per scattare un'istantanea sul passato. Secondo: la santificazione dei sondaggi. Non è forse vero che Pdl e Pd viaggiano in testa per tutti gli istituti demoscopici?

Controdomanda: e allora che votiamo a fare? Tanto varrebbe sostituire ai 40 milioni d'elettori i mille italiani costantemente intervistati, risparmieremmo tempo e denaro. Terzo: l'abolizione dei candidati. Fino a prova contraria, la scelta elettorale dipende dai programmi dei partiti, però dipende al tempo stesso dalle facce dei signori di partito. E se nel nostro collegio si presentasse una faccia da schiaffi?
È sempre un voto utile quello dispensato al candidato inutile?

Tuttavia la spina più pungente è ancora un'altra, e punge l'elettore, oltre che la logica. Per osservarla non c'è bisogno di scomodare Euclide: difatti se esiste un voto utile, specularmente esiste un voto inutile, e dunque un elettore inutile. Non proprio il massimo di rispetto verso il popolo votante. Tanto più di questi tempi, ora che gli anni d'oro del bipolarismo sono ormai un ricordo dell'infanzia. Ma la proliferazione delle liste è un effetto del disorientamento del corpo elettorale, e di ciò portate voi la colpa, non noi. Voi che avete difeso il Porcellum con le unghie, fingendo di volerlo cambiare. Sicché non possiamo scegliere gli eletti, e a quanto pare nemmeno i partiti. Ci scoraggiate a praticare il voto disgiunto, che è un altro modo per esercitare la nostra libertà di scelta. Facciamo così: andateci voi a votare al posto nostro, sarà un pensiero in meno.

E c'è infine un'ultima questione. Il voto utile è per definizione un voto contro: contro il nemico, ma altresì contro l'amico. Perché mette in guardia l'elettore contro la sua prima scelta, perché lo invoglia al male minore, altrimenti si beccherà il male maggiore. Dunque trasforma l'opzione elettorale in un atto d'inimicizia, o quantomeno di sfiducia: ti voto solo perché non ho fiducia che vinca il mio partito.

Ma non può esserci speranza in una scelta disperata, in un voto sequestrato dalla paura del nemico.


michele.ainis@uniroma3.it

Michele Ainis

6 febbraio 2013 | 8:43© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_febbraio_06/rompicapo-voto-utile-ainis_59c12466-7024-11e2-8bc7-4a766e29b99e.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. L'INCUBO DELLE CAMERE BLOCCATE Il regno di Amleto
Inserito da: Admin - Febbraio 17, 2013, 09:12:56 pm
L'INCUBO DELLE CAMERE BLOCCATE

Il regno di Amleto


Il miglior regalo per i prossimi parlamentari? Un vaccino antinfluenzale. Guai ad ammalarsi, infatti, ed anzi guai a distrarsi, con i numeri che si profilano al Senato. Dove tutto lascia immaginare un revival del 2006, quando Prodi governava (si fa per dire) sorreggendosi al bastone dei senatori a vita. O del 1994, quando Scognamiglio strappò a Spadolini la presidenza di palazzo Madama per un solo voto (e il governo Berlusconi durò 8 mesi appena).

Ma nel 2013 c'è il rischio di scavare una doppia trincea: alla Camera, oltre che al Senato. Perché lì il premio garantisce, è vero, una super-maggioranza a chi vince le elezioni; però non gli assicura affatto il controllo dell'attività legislativa. Non quando l'Aula venga presidiata da una super-minoranza, come quella che sta per imbucarvi Grillo. Non se quest'ultima rifiuti ogni stretta di mano, minacciando viceversa il calcio in bocca più letale: l'ostruzionismo. Nel 1976 la Camera venne sequestrata da una pattuglia di quattro radicali; figurarsi cosa potranno combinare un centinaio di deputati del Movimento Cinque Stelle, senza contare gli uomini di Ingroia, ammesso che raggiungano il quorum.

Intendiamoci: l'ostruzionismo non è un crimine. Viene permesso dalle regole, benché le stiri come un elastico fino al punto di rottura. Fu allevato nella culla della democrazia parlamentare: negli Usa fin dal 1841, in Inghilterra dal 1877, per mano della «brigata irlandese», che rivendicava l'autonomia dell'isola. E qui in Italia ha servito non di rado buone cause, come il filibustering praticato nel 1899 contro le misure liberticide del governo Pelloux. Altre cattive, come l'ostruzionismo contro l'adesione al Patto Atlantico (1949) o contro la riforma regionale (1967). Ma le cause per lo più sono opinabili, perché la politica è il regno di Amleto, è un rompicapo dove manca la risposta.

Contano allora gli strumenti, le tecniche parlamentari. Curioso: in origine l'ostruzionismo mirava a sveltire le discussioni, accompagnando gli oratori troppo prolissi con un saluto collettivo di sbadigli, scalpiccii, clamori. In seguito s'avvalse viceversa di maratone oratorie per bloccare questa o quella decisione, e ancora si cita il record di Marco Boato (18 ore filate nel 1981, guadagnandosi l'epiteto di «vescica di ferro»). Poi i regolamenti parlamentari hanno posto un limite di tempo agli interventi, ma restano praticabili altre strategie: emendamenti a pioggia, continue richieste di verifica del numero legale, raffiche di votazioni per appello nominale. Sicché il nuovo Parlamento ben difficilmente emulerà le imprese del vecchio, che ha saputo battezzare alcune leggi in una settimana (sui referendum nel 2009, il salva-liste nel 2010, la manovra del 2011). Anche perché la bozza Quagliariello-Zanda, che avrebbe accelerato l' iter legis , non è mai uscita dal suo bozzolo. Tanto per cambiare.

Ma l'ostruzionismo cambia eccome, se a condurlo è una legione, invece d'un drappello di soldati. Perché a quel punto può sparare l'arma atomica: il ritiro della truppa. Facendo mancare il numero legale, e impedendo perciò ogni deliberazione. Chiunque vinca, farà bene a metterci subito rimedio. Come? Con la politica che s'usa in ogni condominio. Concedendo qualche posto al sole agli avversari, anziché accaparrarsi fino all'ultima presidenza di commissione. Varando finalmente uno statuto dell'opposizione, di cui si parla a vanvera da un decennio almeno. Evitando l'abuso dei voti di fiducia, il muro contro muro. O la legislatura s'aprirà con una tregua, o conteremo i morti sul campo di battaglia.

Michele Ainis

16 febbraio 2013 | 8:05© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_febbraio_16/il-regno-di-amleto-michele-ainis_cec5b384-77fa-11e2-add6-217507545733.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Tre grandi minoranze impotenti
Inserito da: Admin - Febbraio 27, 2013, 11:51:17 pm
Tre grandi minoranze impotenti

Sui cieli della Repubblica italiana s'addensa un uragano. Di più: una tempesta perfetta, quella che non ti lascia scampo. Stallo politico, con tre grandi minoranze (Pd, Pdl, M5S) che parrebbero impotenti a generare qualsiasi maggioranza. Stallo istituzionale, senza né un governo né un capo dello Stato nella pienezza dei poteri, mentre dei loro eredi fin qui non s'intravede neanche l'ombra. Stallo democratico, perché avremmo urgenza di riannodare il filo tra popolo e Palazzo, e invece la paralisi rischia di reciderlo del tutto. Insomma una situazione di blocco, dove però mancano i poteri di sblocco.

Nel frattempo va in scena una litania di paradossi. Il vincitore (ossia il Partito democratico) coincide in realtà con lo sconfitto.
Le tre liste nuove di zecca (Scelta civica di Monti, Fare di Giannino e Rivoluzione civile di Ingroia), allestite in fretta e furia alla vigilia di queste ultime elezioni, finiscono come scarpe vecchie nel cestino dei rifiuti elettorali. Mentre il Porcellum , concepito per assicurare la governabilità - e sia pure a scapito della rappresentatività del Parlamento - ci lascia sgovernati.
Ecco, la legge elettorale. Per tutto il 2012 Pdl e Pd hanno imbastito il gioco del cerino, promettendo agli italiani di cambiarla ma intanto sollevando ostacoli e pretesti pur di mantenerla. Perché sotto sotto pensavano di cavarne un utile, invece intascano un risultato inutile.
Anzi dannoso, e non soltanto in vista della formazione del governo. Quale legittimazione avranno le prossime assemblee legislative, ancora una volta nominate anziché elette? Quale consenso potrà mai circondarle, quando un elettore su 4 ha disertato l'appuntamento con le urne (record negativo della storia repubblicana), quando le schede bianche e nulle sono state ben oltre 2 milioni? E con quale autorità il Partito democratico governerà la Camera, se al suo 54% dei seggi corrisponde meno del 30% dei suffragi?

Il fatto è che le leggi elettorali sono come un abito di sartoria: conta la stoffa, ma la misura dipende dal corpo che dovrà indossarlo, non dall'abilità del sarto. Difatti il proporzionale puro ha ben vestito il sistema multipolare operante durante i 45 anni della prima Repubblica. Mentre il Porcellum calzava indosso a un corpo politico bipolare, come quello espresso dalla società italiana nei vent'anni della Seconda Repubblica. In quella condizione, il premione di maggioranza si traduceva in un premietto, giacché ogni coalizione viaggiava attorno al 40% dei consensi. Ora però siamo cascati mani e piedi in un sistema tripolare, con tre forze politiche più o meno equipollenti. Da qui la distorsione, ma da qui pure lo stallo. Perché adesso servirebbe il doppio turno, che invece non c'è. E perché la logica dei sistemi tripolari imporrebbe un accordo di governo fra due poli a scapito del terzo, o al limite una grande coalizione. Nel nostro caso, viceversa, a ciascuno prende l'orticaria solo a sentir nominare l'altro.

In astratto una soluzione ci sarebbe: nuove elezioni. Dopotutto nella primavera scorsa i greci hanno votato per due volte in un mese, tirandosi fuori dalle secche. Ma in Italia questo rimedio è impraticabile, perché abbiamo un presidente della Repubblica in scadenza. Art. 88 della Costituzione: Napolitano non può sciogliere le Camere durante l'ultimo semestre del proprio settennato, a meno che lo scioglimento non coincida con l'ultimo semestre della legislatura. Qui però siamo al battesimo d'una nuova legislatura, che potrà interrompere soltanto il nuovo presidente. Mentre il vecchio, nel frattempo, dovrà pur conferire un incarico di governo, e saranno dolori. Dolori doppi, dato che alla frattura politica s'accompagna una frattura geografica, con tre regioni del Nord (Lombardia, Piemonte, Veneto) legate dalla Lega per slegarle dal Paese. E una frattura generazionale, che ci cadrà sotto gli occhi quando i trentenni del Movimento 5 Stelle prenderanno posto in Parlamento.

C'è una via d'uscita? Sì che c'è, ma spetta alla politica. Se le istituzioni sono in stallo, è anche perché le forze politiche fin qui hanno cercato d'appropriarsene, di sequestrarle come si fa con un ostaggio. Invece le istituzioni sono la casa di tutti, dove si può vivere pure da separati in casa, come due vecchi coniugi uniti in un matrimonio senz'amore. Purché ciascuno abbia la sua stanza, e a nessuno sia vietato l'uso degli spazi comuni. La proposta formulata ieri a mezza bocca da Bersani - cedere la presidenza della Camera al Movimento 5 Stelle - è un buon viatico su questo cammino. Ora cerchiamo di non perderci per strada.

Michele Ainis

27 febbraio 2013 | 11:09© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_febbraio_27/ainis-tre-grandi-minoranze_dd5704c2-809f-11e2-b0f8-b0cda815bb62.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. TRA REGOLE E NECESSITÀ L'ingorgo delle scelte
Inserito da: Admin - Marzo 05, 2013, 05:01:01 pm
TRA REGOLE E NECESSITÀ

L'ingorgo delle scelte

Un vecchio regolamento ferroviario del Kansas innalzava un monumento alla prudenza: «Quando due treni s'incrociano sul medesimo binario devono fermarsi entrambi, e nessuno dei due può ripartire se non sia prima ripartito l'altro». Eccola qui, in questa norma paradossale e assurda, la fotografia dello stallo in cui ci siamo ficcati. Ma il paradosso investe pure il capostazione, non soltanto noi viaggiatori immobili. Perché è a lui, Giorgio Napolitano, che tocca dirimere l'ingorgo; e perché il Quirinale è a sua volta intrappolato in un ingorgo, dato che a metà aprile le Camere si riuniranno per eleggere il nuovo presidente. Qualora viceversa il nuovo coincidesse con il vecchio, tireremmo un respiro di sollievo; ma difficilmente il Parlamento ci farà questo regalo.

Da qui, allora, una domanda: e se fosse il successore di Napolitano a cresimare il premier battezzato dal suo predecessore? Situazione inedita, ma niente affatto impossibile. Per metterla a fuoco, osserviamo l'orologio della crisi: 12 o 15 marzo, prima convocazione delle Camere. A quel punto bisognerà eleggerne i rispettivi presidenti, e non sarà una passeggiata; poi costituzione dei gruppi, delle commissioni, delle giunte. Diciamo che la settimana dopo, a essere ottimisti, sul Colle può iniziare il valzer delle consultazioni. Quali? Quante?
A occhio e croce, c'è da aspettarsi un triplo giro. Prima quelle di Napolitano coi partiti, e con le personalità di cui reputerà utile il consiglio. Ma se i partiti gli dipingeranno un quadro politico ostaggio dei veti incrociati (probabile, se non proprio sicuro), al presidente non resterà che conferire un mandato esplorativo, per favorire la decantazione della crisi. D'altronde Napolitano ne ha già fatto uso: nel gennaio 2008, quando si rivolse a Marini, all'epoca presidente del Senato.

Dunque nuove consultazioni dell'esploratore, questa volta ristrette all'essenziale. Poniamo che riesca il gioco di prestigio, che un coniglio sbuchi fuori dal cilindro: c'è un personaggio che ha buone chance d'ottenere la fiducia, sicché riceve l'incarico di formare il gabinetto. Lui si riserva d'accettare, perché così vuole la prassi; e intanto verifica i numeri con un altro giro di consultazioni. E tre. Dopo di che torna al Quirinale per sciogliere la riserva, decidere i ministri, prestare giuramento; ma salendo le scale del palazzo, può capitargli di venire accolto da un nuovo padrone di casa. Come una fanciulla promessa in matrimonio, la quale - giunta ai piedi dell'altare - scopra che lo sposo è un altro uomo rispetto al fidanzato.

Disse una volta Bobbio: «La nostra storia costituzionale si è svolta attraverso un continuo alternarsi di crisi di governo (spesso molto lunghe) e di governi in crisi (spesso molto brevi)». Lui si riferiva alla Prima Repubblica, segnata da 50 crisi di governo in cinquant'anni; ma quella diagnosi può forse valere anche per la Terza, di cui scorgiamo nel frattempo un'alba livida, spettrale. Dove i fantasmi s'inseguono l'un l'altro senza mai riuscire ad acciuffarsi: il Pdl stringerebbe un accordo col Pd, che invece lo stringerebbe con il M5S, che invece si divincola. Da qui l'oroscopo sulla durata della crisi: toccammo il record nel 1996, dopo la caduta del governo Dini (125 giorni), e magari stavolta lo supereremo. Ma da qui, inoltre, il rischio d'uno slalom del nuovo premier fra due capi dello Stato.

Diciamolo da subito: non sarebbe una tragedia. Perché le istituzioni sono abitate da persone, però al contempo sono anonime, spersonalizzate. Le persone passano, le istituzioni restano. E perché Napolitano, quando conferirà un mandato, non potrà certo scegliere in base alle proprie simpatie. No, dovrà indicare chi sia in grado di coagulare attorno a sé una maggioranza; e tale qualità dipende dal mandatario, non dal mandante. Semmai il paradosso deriva da una regola del galateo istituzionale, fin qui sempre rispettata (l'unica eccezione risale al 1849). Quella che impone all'esecutivo di dimettersi dopo il giuramento del capo dello Stato, che a sua volta respinge poi le dimissioni. Sicché il nuovo governo dovrà bussare comunque alla porta del nuovo presidente, dovrà ottenerne la benedizione; e sia pure a costo di spegnersi e riaccendersi come un fiammifero. Ma il problema è tutto lì: trovare un cerino, e dargli fuoco.

Michele Ainis

5 marzo 2013 | 7:37© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_marzo_05/l-ingorgo-delle-scelte-michele-ainis_8efc61c6-8556-11e2-b184-b7baa60c47c5.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Il bersaglio immobile
Inserito da: Admin - Marzo 28, 2013, 10:51:21 am
UN PAESE ALLA PARALISI

Il bersaglio immobile

Ho fatto un sogno. Bersani torna al Colle (meglio tardi che mai) e ci torna a mani vuote. Senza un «sostegno parlamentare certo» al proprio tentativo, come gli aveva invece chiesto il presidente. Sicché quest'ultimo lo accompagna alla porta, sia pure con rammarico; e si prepara a sparare un secondo colpo di fucile. Subito, perché di gran consulti ne abbiamo visti troppi, e perché di tempo non ce n'è. Dunque Napolitano individua un nuovo vate, ma nel mio sogno pure lui incespica sui veti, pure lui torna al Quirinale senza voti.

Perciò arriviamo più o meno al 5 aprile, quando mancano quaranta giorni all'insediamento del prossimo capo dello Stato. Ma intanto il vecchio presidente non ha più cartucce da sparare, né tantomeno può usare l'arma atomica, lo scioglimento anticipato delle Camere. Non può perché è in semestre bianco; il colpo di grazia, semmai, spetterà al suo successore. E nel frattempo? Stallo totale, blocco senza vie di sblocco. I partiti si danno addosso l'uno all'altro, mentre i mercati infuriano, le cancellerie s'allertano, le imprese fuggono, i disoccupati crescono, le piazze rumoreggiano. L'Italia si trasforma in un bersaglio mobile (anzi no, immobile). Il mio sogno si trasforma in incubo.

No, quaranta giorni così non li possiamo proprio vivere. Sarebbe da pazzi, un suicidio nazionale. Ma sta di fatto che il seme della follia ha ormai attecchito nella nostra vita pubblica. Il Pdl accetta patti col Pd se quest'ultimo patteggia il Quirinale: lo scambio dei presidenti. A sua volta, Bersani inaugura una singolare forma di consultazioni: le consultazioni al singolare. Ossia con singoli individui (Saviano, Ciotti, De Rita), oltre che con il Club alpino e il Wwf. Nel frattempo il suo partito discetta sull'ineleggibilità di un uomo politico (Silvio Berlusconi) già eletto per sei volte. La minuscola pattuglia di Monti viene dilaniata da lotte intestine: la scissione dell'atomo. Il Movimento 5 Stelle disdegna tutti i partiti rappresentati in Parlamento: l'onanismo democratico. E per sovrapprezzo il ministro dimissionario d'un governo dimissionario (Terzi) si dimette in diretta tv: le dimissioni al cubo.

Come ci siamo ridotti in questa condizione? Quale dottor Stranamore ha brevettato il virus che ci sta contagiando? Perché il guaio non è più tanto d'essere un Paese acefalo, senza un governo sulla testa. No, la nostra disgrazia è d'aver perso la testa, letteralmente. Stiamo in guardia: come diceva Euripide, «quelli che Dio vuole distruggere, prima li fa impazzire». Eppure in Italia non mancano intelligenze né eccellenze. C'è un sentimento d'appartenenza nazionale che non vibra unicamente quando gioca la Nazionale. C'è una domanda di governo che sale da tutti i cittadini. E a leggere i programmi dei partiti, i punti di consenso superano di gran lunga quelli di dissenso, come la legge sul conflitto d'interessi: sicché basterebbe lasciarla in quarantena per un altro po' di tempo, in fondo la aspettiamo da vent'anni.

Una cosa, però, dovrebbe essere chiara. Se fallisce il governo dei partiti (quello incarnato da Bersani), c'è spazio solo per un governo del presidente, votato in Parlamento ma sostenuto dall'autorità di Giorgio Napolitano. Anche se quest'ultimo a breve lascerà il suo incarico, anche a costo di sperimentare l'ennesima anomalia istituzionale: il governo dell'ex presidente.

Michele Ainis

28 marzo 2013 | 7:46© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_marzo_28/il-bersaglio-immobile-ainis_36a46278-976f-11e2-8dcc-f04bbb2612db.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. "La commissione dei saggi è un espediente per prolungare la ...
Inserito da: Admin - Aprile 02, 2013, 12:35:28 pm
 Consultazioni, Michele Ainis costituzionalista: "La commissione dei saggi è un espediente per prolungare la fase di decantazione del governo"

Ansa  |  Di Eva Bosco Pubblicato: 01/04/2013 16:21 CEST  |  Aggiornato: 01/04/2013 16:48 CEST


"La strategia di Napolitano non è incostituzionale. Lo sarebbe se ci fosse una maggioranza, i leader fossero pronti a formare un governo e lui non desse l'incarico; e se, viceversa, non ci fosse una maggioranza e il Capo dello Stato non usasse il potere di scioglimento, che Napolitano, però, ora non può esercitare. La sua misura è inedita, ma lo è anche la situazione. Quella delle commissioni di saggi può apparire una messa in scena, ma l'alternativa era la scena vuota". E' l'analisi del costituzionalista Michele Ainis, alla luce delle critiche mosse a Giorgio Napolitano, in particolare dal Pdl, di aver adottato una strategia non aderente alla Costituzione.

"Dal punto di vista costituzionale, la norma è laconica - spiega Ainis - e dice che il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio. La situazione in cui siamo, di per sé - prosegue il giurista - è quella classica di scioglimento anticipato. Il parlamento ha due compiti: fare le leggi e dare o revocare la fiducia ai governi. Si possono però creare scenari di blocco. Uno di questi si ha quando il parlamento non revoca la fiducia al governo, ma è impotente a legiferare: è quello che è accaduto nell'ultima fase del governo Berlusconi e infatti si discusse di sciogliere anticipatamente le Camere. L'altro è quello in cui il parlamento le leggi le fa, ma non riesce a dare la fiducia al governo. In altre parole, in questo caso, si produce un blocco e il Capo dello Stato ha il potere di sblocco nello scioglimento anticipato. Ma Napolitano non può farlo: è a fine mandato e nel semestre bianco il presidente non può sciogliere le Camere. Può farlo solo il suo successore. La nomina dei saggi, quindi, è un espediente per prolungare la fase di decantazione del governo, nella speranza di un accordo tra i partiti".

E' vero che il Capo dello Stato aveva altri strumenti: "Poteva dimettersi, probabilmente con la conseguenza di una tempesta sui mercati. Oppure poteva dare l'incarico a un soggetto istituzionale: quel governo avrebbe potuto gestire le elezioni, la vera partita che si aprirà a breve. Probabilmente Napolitano non ha voluto correre il rischio che le Camere poi negassero la fiducia". Nel Pdl c'è chi profila la possibilità che il Parlamento preferisca ora ammutinarsi di fronte ai provvedimenti che il governo andrà ad adottare. "Ma il Parlamento - fa notare Ainis - si è già ammutinato, sennò esprimerebbe la fiducia a un governo. Quella dell'ammutinamento è una minaccia".

Un altro quesito riguarda i poteri attuali del governo Monti e gli atti che può compiere: "La risposta non è automatica - spiega Ainis - perché nessun testo sacro stabilisce cosa sia l'ordinaria amministrazione. Certo è un depotenziamento dei poteri di indirizzo politico del governo, non un suo azzeramento. Si può dire che nell'ordinaria rientra la straordinaria amministrazione: se ci fosse un terremoto, un governo sfiduciato o dimissionario dovrebbe o no tamponare l'emergenza? Il giudizio su cosa sia emergenza è politico. Un'emergenza istituzionale è legata al fatto che sarebbe un disastro votare con questa legge elettorale. Per votare in condizioni meno insane, Monti potrebbe fare un decreto di due righe con cui stabilisce che abroga il porcellum e rivive il mattarellum".

Quanto al durata del governo Monti, "rimarrà fino a quando non verrà eletto il nuovo Presidente della Repubblica, che potrà sciogliere le Camere. Certo, non credo che questo sarà il primo atto del prossimo Capo dello Stato, che prima farà delle verifiche, perché potrebbe esserci un clima diverso: non dimentichiamo che dovrà pur determinarsi un accordo tra le forze politiche per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica, e quell'accordo potrebbe anche supportare un nuovo governo.

da - http://www.huffingtonpost.it/2013/04/01/consultazioni-michele-ainis_n_2992490.html?ref=topbar


Titolo: MICHELE AINIS. ALCUNE IDEE ORIGINALI, ALTRE INESATTE
Inserito da: Admin - Aprile 15, 2013, 11:56:06 am
ALCUNE IDEE ORIGINALI, ALTRE INESATTE


Ora la poltica deve decidere
I nostri dieci saggi si sono trasformati in dei saggisti. Nel senso che hanno generato un saggio, e nemmeno tanto breve: 83 pagine la parte scritta dal gruppo di lavoro sull'economia, 29 pagine quella firmata dal gruppo sulle riforme istituzionali. Ne valuteremo (pardon, ne saggeremo) a mente fredda le proposte, dove indubbiamente non manca qualche buona idea, specie sulla crescita, sulla concorrenza, sul lavoro. Quanto alle istituzioni, s'incontrano alcune idee esatte e altre originali. Peccato che le idee esatte non siano originali, mentre quelle originali suonino inesatte.


È il caso, per dirne una, dell'intenzione di rinvigorire il referendum, in modo che i cittadini possano contare davvero. Come? Elevando il numero delle sottoscrizioni necessarie per indirlo. Idem sulle leggi popolari, tanto per raffreddare gli entusiasmi. È il caso, per dirne un'altra, del progetto d'istituire la quarta Bicamerale, come se tre flop di fila non fossero abbastanza. È infine il caso delle sanzioni disciplinari ai magistrati: qui i saggi propongono una Consulta bis, disegnata e designata con i medesimi criteri. Dopo di che ci sarà un bel derby da giocare.


Quanto al resto, il gruppo di lavoro ha brevettato una nuova Camera: la Camera dell'ovvio. E dunque via al processo breve, come se qualcuno lo desiderasse lungo. Stop al sovraffollamento carcerario, riducendo le pene detentive. Una legge sui partiti, peraltro già suggerita da don Sturzo nel 1958. Un'altra sulle lobby, sollecitata invano da 40 progetti finora depositati in Parlamento. Robuste sforbiciate al numero dei parlamentari, così come alle competenze regionali (silenzio, però, sulle Province). Superamento del bicameralismo paritario. Pensose riflessioni sul troppo diritto che ci portiamo sul groppone. E la forma di governo? Qui i 4 saggi si dividono; ma quella parlamentare batte il presidenzialismo per 3 a 1.
Sarà stato per questo, per non alimentare ulteriori divisioni, che sulla legge elettorale il gruppo di lavoro ha scelto di non scegliere. Squadernando sullo scrittoio del presidente tutto il rosario dei modelli: francese, tedesco, spagnolo o altrimenti misto com'era il Mattarellum . Sicché Solone diventa Rigoletto: «Questa o quella per me pari sono». Certo, noi poveri mortali ci saremmo attesi una più netta indicazione. Tuttavia per ottenerla avremmo dovuto prelevare i saggi da Oltreoceano. Oppure anche in Italia, però da una parrocchia sola.


È la nostra tragedia nazionale: non sappiamo più parlarci. Se metti due italiani attorno a un tavolo, tirano fuori tre soluzioni contrapposte. E per conseguenza siamo incapaci di decidere, mentre là fuori il mondo corre veloce come un jet, mentre l'economia reclama risposte rapide, immediate. Anche l'espediente dei due gruppi di lavoro, escogitato da Napolitano per favorire la decantazione della crisi, si è concluso con una messa cantata. Per forza: ogni partito è affetto dal vizio di Narciso, si specchia nella propria immagine riflessa, osserva il proprio ombelico senza curarsi dell'ombelico altrui.
Almeno un risultato, tuttavia, i saggi ce lo hanno consegnato: per la prima volta si legge in un documento ufficiale il ripudio del Porcellum . Sempre ieri, il presidente Gallo ci ha ricordato come il monito della Corte costituzionale sia caduto nel vuoto, rendendo il Parlamento inadempiente. Chissà, forse questo doppio altolà potrà smuovere l'inerzia del governo a provvedere con decreto. Sempre che il governo decida di decidere.
michele.

Michele Ainis
ainis@uniroma3.it

13 aprile 2013 | 8:03
© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_aprile_13/ainis-ora-politica-deve-decidere_58db5d66-a3f8-11e2-9657-b933186d88da.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. La pietanza delle riforme - UN PERCORSO CON MOLTI DUBBI
Inserito da: Admin - Maggio 15, 2013, 11:55:10 am
UN PERCORSO CON MOLTI DUBBI

La pietanza delle riforme

Legge elettorale, convenzione e sondaggi via web

Chi forma la riforma? Gira e rigira, stiamo sempre attorno a un palo: le procedure, il metodo, prima ancora del merito. E sulle procedure ciascun partito va a zig zag. Vale per la Convenzione, questa creatura mitologica che dovrà allevare le riforme: emersa (nel documento dei saggi insediati da Napolitano), sommersa (dal ministro Quagliariello), riemersa (per bocca del presidente Letta, dopo il buen retiro di Spineto). E vale, a maggior ragione, per l'intreccio tra riforma costituzionale e legge elettorale. Prima la prima, dice il Pdl. No, assecondiamo anzitutto la seconda, replica il Pd. Un dubbio filosofico che ci ha tormentato già nella legislatura scorsa: è nato prima l'uovo o la gallina? Lasciandoci infine a pancia vuota: senza l'uovo, e senza la gallina.

Ma una pietanza bisognerà pur cucinarla, perché è falso che le riforme non diano da mangiare. Succede viceversa che la crisi economica sia aggravata dalla crisi politica, che quest'ultima abbia ormai messo in crisi le nostre istituzioni, e che perciò dobbiamo prendere la crisi istituzionale per le corna, se vogliamo curare sia l'economia che la politica. Potrà saziarci l'ultimo menu allestito dal presidente del Consiglio? Dipende: dai piatti scelti, ma soprattutto dai loro ingredienti. E questa lezione gastronomica s'applica a tutt'e tre le portate che i cuochi stanno per servirci.

Primo: la legge elettorale. Mettiamola immediatamente in sicurezza, ha stabilito Letta. Con una riformina che intanto ci liberi dalle nefandezze del Porcellum , salvo poi tornarci sopra quando (e se) verrà battezzata la riformona costituzionale. Vivaddio, era ora. Una soluzione di buon senso, che chi scrive predica da tempo. Già, ma come? Con una legge di due righe: il primo rigo abroga il Porcellum , il secondo fa resuscitare il Mattarellum . Magari depurato dal meccanismo infernale dello scorporo, che sottraeva a ogni partito i voti dei candidati vittoriosi nei collegi, e che a suo tempo provocò un'inondazione di liste civetta. O corretto per riequilibrare la rappresentanza femminile, come suggerisce Anna Finocchiaro. Invece Letta propone di segare il premio di maggioranza del Porcellum , lasciandolo - quanto al resto - inalterato. Ma il resto è un proporzionale puro, che ci garantirebbe una governabilità impura. Ed è una lenzuolata di parlamentari nominati, anziché eletti nei collegi.

Secondo: la Convenzione. Risulterebbe dalla somma delle commissioni Affari costituzionali di Camera e Senato, dunque una Bicamerale sotto falso nome. Per carità, può rivelarsi utile, anche se i precedenti portano un po' iella. Ma a patto di dotarla di poteri redigenti, altrimenti il Parlamento ne smonterà il lavoro come un Lego. E senza quest'idea bislacca della doppia presidenza: sennò uno frena, l'altro accelera, finiranno per fondere il motore. E il comitato d'esperti che Letta intende istituire? A quanto pare, consiglia la Convenzione, che poi consiglia il Parlamento: un consulto al cubo.

Terzo: gli elettori. Verranno consultati pure loro, e meno male. Con un sondaggio pubblico via web, come d'altronde accade in tutto il mondo. Dall'Islanda (dove la bozza di Costituzione, nel 2011, è stata elaborata in una pagina su Facebook) al Marocco (con una piattaforma informatica cui hanno aderito 150 mila cittadini). Noi, però, gradiremmo venire consultati pure dopo. Con un referendum obbligatorio, successivo alla riforma. Giusto per ribadire che la Costituzione italiana è degli italiani, di tutti gli italiani.

Michele Ainis

15 maggio 2013 | 9:11© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_maggio_15/la-pietanza-delle-riforme-michele-ainis_0b431dca-bd19-11e2-a017-98f938f31864.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Lo scandalo del «Prism» negli USA
Inserito da: Admin - Giugno 11, 2013, 05:45:18 pm
L'Editoriale

Lo scandalo del «Prism» negli USA

La difficile difesa della privacy

Come pesci nell'acquario

Lo scandalo del «Prism», il sistema di controllo usato dal Dipartimento di Stato americano per spiare milioni di cittadini


L'uomo moderno ha rinunziato alla possibilità d'essere felice in cambio di un po' di sicurezza, diceva Sigmund Freud. Se la felicità degli uomini è come quella degli uccelli, se vibra attraverso un battito d'ali libere nell'aria, allora sì: siamo meno liberi, e siamo più infelici. È questa la lezione che ci impartisce lo scandalo del «Prism», il sistema di controllo usato dal Dipartimento di Stato americano per spiare email, telefonate, carte di credito, contatti informatici di milioni di cittadini.
Nel loro interesse, come no: per proteggerli dagli attentati. Ma anche a loro insaputa, e questo apre un fronte che ci riguarda tutti, non solo chi abita sotto una bandiera a stelle e strisce. Perché ormai viviamo tutti in una sorta di libertà vigilata (in Gran Bretagna le telecamere a circuito chiuso sono già 4 milioni). Perché ciascuno di noi lascia una scia elettronica quando parla al cellulare o chatta con gli amici. E perché siamo inquilini d'una «società del rischio», come la definisce Beck: rischio atomico, ecologico, finanziario, migratorio, terroristico. Ma il rischio alleva la paura, e le paure si convertono in pulsioni autoritarie - a scapito, per l'appunto, delle nostre libertà.

Da qui un grumo di domande: fin dove può spingersi la protezione dello Stato? Ed è lecito che lo Stato ti protegga, non solo dagli altri, bensì pure da te stesso? Succede quando al divieto di fumo s'accompagna un interdetto per le bibite gassate, o castighi fiscali per gli obesi. Quando insomma il salutismo converte il diritto alla salute in un dovere: sicché lo Stato, per salvarti la pelle, t'impedisce di vivere. Anche in questo caso è la privacy che va a farsi benedire, non meno che durante un'intercettazione telefonica. Perché la privacy costituisce un argine contro l'invadenza dei poteri pubblici e privati, e segna quindi la linea di confine che protegge l'individuo dallo Stato protettore. The right to be let alone , dicono gli americani: il diritto d'essere lasciati soli. Anche nelle proprie scelte, nei propri stili di vita.

Ma sta di fatto che non ne abbiamo mai avuta così poca come da quando sulla privacy vigila un plotone di garanti, ciascuno col suo codice in mano (quello italiano comprende 186 articoli). Colpa della tecnologia, che ci denuda come pesci nell'acquario. Colpa altresì delle nostre insicurezze. Quelle invocate da Obama a sua discolpa, in nome della prevenzione. D'altronde ormai pure le guerre sono quasi sempre preventive: si fa la guerra per evitare la guerra.

Mentre ci aggiriamo in questo teatro dell'ossimoro, mentre ci interroghiamo a vuoto sul bilanciamento fra libertà e sicurezza, esistono però tre condizioni che andrebbero sempre rispettate. Primo: serve un preavviso. Quando lo Stato si arroga il diritto d'origliare, noi abbiamo il diritto di saperlo. Secondo: il preavviso si giustifica solo in situazioni d'emergenza. Terzo: ogni emergenza è per definizione temporanea, ed è regolata dal diritto. E infatti loro, gli americani, dal 2001 hanno il Patriot Act. Invece da noi è ancora vigente un decreto regio del 1938, che ospita la legge di guerra. Magari sarà il caso d'aggiornarlo.

Michele Ainis
michele.ainis@uniroma3.it

9 giugno 2013 | 9:58© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_giugno_09/come-pesci-acquario_1b0657a0-d0be-11e2-9e97-ce3c0eeec8bb.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. I PARTITI E LA CACCIA AL NEMICO INTERNO
Inserito da: Admin - Giugno 27, 2013, 04:01:48 pm
I PARTITI E LA CACCIA AL NEMICO INTERNO

Un'ossessione trasversale

In un memorabile saggio del 1927, Carl Schmitt individuò le categorie fondamentali della politica nella coppia amico-nemico. Come nell'estetica il bello si profila in opposizione al brutto, come nella morale il buono s'oppone al cattivo, così in politica ogni identità si forgia in contrasto all'identità dell'altro, dello straniero. E lo straniero è il tuo nemico, lo specchio che ti restituisce l'immagine rovesciata di te stesso. Da qui il cemento dei popoli in armi non meno che dei partiti in piazza, da qui la rissa permanente fra destra e sinistra, che ha scandito i vent'anni del bipolarismo all'italiana. Ma dov'è, qui e oggi, il nemico? Quali sembianze assume, mentre i vecchi antagonisti siedono l'uno accanto all'altro sui banchi del governo?

Fateci caso: negli ultimi mesi i partiti sono diventati afoni. L'assenza d'un nemico da combattere ne ha sfibrato il corpo, ne ha disseccato le energie, al pari dei guerrieri spartani reduci da mille battaglie, che poi tornati in patria morivano di malinconia.

Vale per la maggioranza, vale - singolarmente - pure per l'opposizione. Dove il Movimento 5 Stelle è avvolto in una spirale autodistruttiva, che sommerge ogni progetto.

La Lega Nord ha abbandonato Roma per rincantucciarsi nei propri territori, peraltro ormai scarsamente popolati dai suoi stessi elettori.
E l'opposizione di Sel non è convinta, dunque non è nemmeno convincente. Del resto mettersi in trincea sarebbe un'impresa complicata, per un partito che si è presentato alle elezioni insieme alla principale forza di governo, e che esprime pur sempre la presidenza della Camera.

Nel silenzio dei partiti, un'unica voce risuona nei palazzi: quella del potere esecutivo. S'ascoltano dichiarazioni del premier, annunci dei ministri, promesse di decreti. È la rivincita delle istituzioni sulle segreterie politiche, che le avevano così a lungo sequestrate. Ma è anche il presagio d'uno Stato amministrativo, dove la gestione prevale sulla progettazione. E dove non c'è spazio per la politica, e non c'è nemmeno posto per i partiti politici. Loro lo sanno, o almeno ne avvertono confusamente il pericolo letale. Sicché reagiscono nell'unico modo che conoscono: cercandosi un nemico.
E trovandolo, se non all'esterno, dentro le proprie fila. Ora la vitalità residua dei partiti si scarica su un nuovo bersaglio: il nemico interno.

Le prove? Scelta civica fa notizia solo per le baruffe quotidiane fra i suoi troppi colonnelli. Nella Lega il nemico è diventato Bossi, che ne era stato il fondatore. Il Movimento 5 Stelle ha già perso 6 parlamentari: un'espulsione al giorno toglie il medico di torno. Nel Pd Renzi è vissuto come una minaccia, non come una risorsa. Nel Pdl i falchi incrociano gli artigli con le colombe, ma la sentenza costituzionale sul processo Mediaset, e a seguire quella di Milano sul caso Ruby, hanno offerto all'unità del partito il suo antico nemico: il potere giudiziario.

Tutto sommato Berlusconi dovrebbe ringraziare i magistrati.

C'è un che di claustrofobico in questo diffuso atteggiamento. C'è un disturbo paranoide nel concepire il tuo compagno come un sabotatore o un traditore. Ma non è forse il morbo di cui soffriamo tutti? L'anno scorso abbiamo contato 124 casi di femminicidio, per lo più fra le mura domestiche.
Sono volatili gli affetti, i sodalizi culturali, i rapporti di lavoro. Perché abbiamo smarrito ogni fiducia, in noi stessi prima che negli altri.
E disgraziatamente la politica non ci aiuta con l'esempio.

Michele Ainis

27 giugno 2013 | 8:04© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_giugno_27/ossessione-trasversale-ainis_e64a3180-dee6-11e2-b08d-5f4c42716abd.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. La confusione e le inefficienze
Inserito da: Admin - Luglio 20, 2013, 06:30:53 pm
IL RAPPORTO TESO TRA POLITICA E BUROCRAZIA

La confusione e le inefficienze

 Michele AINIS

Dal male nasce il bene, recita un vecchio proverbio. Il male è il caso Shalabayeva: una vicenda che ci ha fatto diventare rossi di vergogna.
Il bene alberga nel dibattito che ne è scaturito, scoperchiando il vaso di Pandora dei rapporti fra politica e amministrazione. Però anche dal bene può nascere il male. Succede quando le diagnosi si rivelano fallaci, quando perciò le terapie possono infliggere il colpo di grazia all'ammalato, invece di guarirlo.

Ma perché, non è forse vero che in Italia l'alta burocrazia ha troppi poteri? Certo che sì, e l'espulsione di quella giovane mamma con la sua bambina - decretata dopo un giro di valzer fra dirigenti del ministero dell'Interno e della Polizia di Stato - ne costituisce la prova provata.
Le opposizioni hanno reagito chiamando a risponderne il ministro, secondo le regole della democrazia parlamentare; dimenticando che una crisi di governo, mentre tutto il Paese è in crisi, sarebbe una sciagura. Per un momento l'ha dimenticato anche il Pd, benché questo partito esprima il presidente del Consiglio. Poi Napolitano ha richiamato tutti alla realtà, e almeno per adesso il pericolo parrebbe scongiurato. Però alla fine della giostra resta un delitto senza un assassino. E in secondo luogo rimane in circolo il sospetto - di più, la convinzione - che ministri e ministeri vivano in stanze separate. Da qui la debolezza dei governi, da qui l'arroganza delle burocrazie. Da qui, in breve, l'esigenza di mettere un guinzaglio politico al collo dei grand commis di Stato.

Errore: è casomai l'opposto che dovremmo fare. Se la dirigenza amministrativa ha ormai usurpato le funzioni del governo, se blocca qualunque taglio alla spesa pubblica per non cedere quote di potere, se una circolare vale più di cento leggi, se insomma chi decide non è più l'eletto bensì il burocrate negletto, ebbene tutto questo accade per un eccesso di contiguità - non di separatezza - fra politica e amministrazione. Ma la colpa è dei partiti, del loro pantagruelico appetito. Hanno divorato il Parlamento, annullandone l'autonomia costituzionale. Poi hanno divorato gli apparati burocratici, distruggendone l'imparzialità prescritta dall'articolo 97 della Carta. Lo hanno fatto pretendendo di scegliersi capi e sottocapi attraverso lo spoils system : una razzia benedetta da una legge del 1997, allargata da un altro intervento normativo nel 2002, arginata a fatica dalla Consulta in numerosissime pronunzie. Ma il dirigente selezionato per meriti politici diventa giocoforza un politico lui stesso, acquista l'autorità per governare in luogo del governo, si sostituisce legittimamente al suo ministro. E infine assiste con un ghigno al suicidio dei partiti: divorando tutto, hanno divorato anche il proprio potere.

Morale della favola: fuori la politica dall'amministrazione. E fuori anche dalla giurisdizione: che altro sono le correnti della magistratura se non partiti in toga? Servono perciò riforme, come ha ammonito ancora ieri il capo dello Stato. Per sottrarre, tuttavia, non per aggiungere. Servono riforme che sappiano amputare gli artigli dei politici. Che svuotino il gran mare delle leggi, dove ogni burocrate trova sempre un'onda compiacente su cui galleggiare. Che cancellino le zone franche della responsabilità amministrativa e giudiziaria. Che disarmino le troppe camarille in marcia sulle rovine del Paese. Insomma usate le forbici, per favore. Le forbici.


19 luglio 2013 | 7:46
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da - http://www.corriere.it/editoriali/13_luglio_19/la-confusione-e-le-inefficienze-michele-ainis_6ccb1f54-f02f-11e2-ac13-57f4c2398ffd.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Gli indiscreti referendum
Inserito da: Admin - Luglio 26, 2013, 10:18:24 am
DOMANDE ATTUALI, STRUMENTO LOGORO

Gli indiscreti referendum

Michele Ainis

Agli esordi pareva un'avventura temeraria. Senza spettatori, con un manipolo d'attori, e nello scetticismo degli stessi promotori. Poi il pubblico si è via via gonfiato. Le tv hanno mandato qualche troupe a filmare lo spettacolo. E infine sul palco sono salite anche le star. Ok da Berlusconi, la new entry più pesante. Sì da Grillo, poi no (dopo uno scambio d'amorosi sensi con Di Pietro), ma a quanto sembra la risposta per adesso è nì. Un sì parziale anche da Sel e altre forze politiche minori. Pieno consenso dall'Organismo unitario dell'avvocatura. Oltre che dal Codacons, dall'Associazione per la tutela dei diritti del malato, da vari gruppi che difendono i consumatori.

Sono i referendum radicali: 12, come gli apostoli. Solo che in questo caso a benedirli non c'è un Cristo bensì piuttosto un Anticristo (Marco Pannella). Che infatti scaglia i suoi fulmini contro l'otto per mille destinato alle casse vaticane. Tuttavia non è la questione religiosa a occupare il centro della scena. No, è la giustizia. Dieci quesiti su 12 toccano - direttamente o di straforo - la materia giudiziaria. Lasciata prudentemente (pavidamente?) fuori dalla revisione costituzionale che il Parlamento sta intessendo, eccola sbucare nelle piazze da una via referendaria. Per forza: sui referendum si scarica un'energia riformatrice che i partiti sono incapaci di raccogliere. Loro semmai v'oppongono una strategia paralizzante, usando l'arma dello scioglimento anticipato delle Camere pur di rinviarli alle calende greche (è successo nel 1972, nel 1976, nel 1987, nel 1994), organizzando l'astensione, o male che vada frodando il voto popolare.

Sicché in ultimo l'oggetto di questi referendum è lo stesso referendum, la sua immagine riflessa in uno specchio. È la seconda scheda, quella che dovrebbe servirci per decidere, non per delegare. Se otterrà 500 mila firme entro settembre, la useremo nuovamente sull'abrogazione del finanziamento pubblico ai partiti (approvata nel 1993 dal 90,3% degli elettori, ripristinata sotto mentite spoglie dai partiti, sommersa in questi giorni da 150 emendamenti, poiché il governo Letta ha osato proporre una mezza abolizione). Per la seconda volta sulla responsabilità dei magistrati (nel 1987 i sì furono l'80,2%, nel 1988 una legge li ha trasformati in boh ). E dopotutto è un secondo tempo pure il divorzio breve, dato che il referendum del 1974 ci ha recato in sorte un divorzio lungo da 10 a 12 anni (in Francia e in Spagna bastano 3 mesi). Vedremo se almeno in questo caso repetita iuvant .

Poi, naturalmente, c'è dell'altro. Dalla cancellazione dell'ergastolo a limiti stringenti per la custodia cautelare, dall'immigrazione alle droghe leggere, dai magistrati fuori ruolo alla separazione delle carriere giudiziarie. Questioni variegate, su cui ciascuno può nutrire opinioni variegate. O altrimenti, fin qui, nessuna opinione. Ma in ogni caso dovremmo sforzarci d'approfondire i temi che ci vengono proposti: senza conoscenze siamo sudditi, non cittadini. C'è un dato, tuttavia, che è impossibile conoscere, e non per colpa nostra. Mettiamo pure da parte Scelta civica, o quel che ne rimane; ma qual è la posizione del Pd, che ne pensa il maggiore partito di governo? Come diceva Oscar Wilde, le domande non sono mai indiscrete; però talvolta suonano indiscrete le risposte.

25 luglio 2013 | 7:28
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da - http://www.corriere.it/editoriali/13_luglio_25/gli-indiscreti-referendum-michele-ainis_6f873800-f4e3-11e2-b38b-ce85f307318c.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Lo sformato legislativo
Inserito da: Admin - Agosto 02, 2013, 11:13:44 am
NORME SCRITTE PER NON ESSERE CAPITE

Lo sformato legislativo


Michele Ainis


D'estate, puntualmente, fioccano i divieti. L'ultima invenzione è il porto d'armi (pardon, di sigarette) in automobile, che ha impegnato in singolar tenzone le ministre Bonino e Lorenzin. Ma la pioggia di regole ci bagna tutto l'anno, e nessun ombrello è abbastanza largo da proteggerci. Nel 2007 la commissione Pajno ha fatto un po' di conti: avremmo in circolo 21.691 leggi dello Stato. Tuttavia la stima è viziata per difetto, e non solo perché il trascorrere del tempo ci ha recato in dote nuovi acciacchi normativi. Dobbiamo aggiungervi le leggi regionali (all'incirca 30 mila). Quelle delle due Province autonome (il sito web della Provincia di Bolzano ne vanta oltre 2 mila). Nonché il profluvio dei regolamenti: 70 mila.

Troppo? No, è troppo poco. Nel Paese in cui perfino i carabinieri sono dotati di un ufficio legislativo, in questo Paese senza autorità ma con cento authority, le sartorie del diritto s'incontrano a ogni angolo di strada, e ciascuna ha un abito normativo che ci cuce addosso. Il 18 luglio il Garante della privacy ha varato un provvedimento sulle intercettazioni: 41.196 caratteri. Il 4 luglio ne aveva licenziato un altro sul contrasto allo spam: 7.767 parole. Risale invece a maggio il regolamento della Banca d'Italia sulla gestione collettiva del risparmio: 171 pagine. Senza contare statuti e regolamenti comunali (a Parma ce n'è uno sulla Consulta del verde, un altro dedica 14 articoli al Castello dei burattini). O senza ricordare le mitiche ordinanze dei sindaci-sceriffi, dal divieto della sosta di gruppo in panchina (Voghera) a quello dei bagni notturni (Ravenna), fino al divieto d'imbrattare i cartelli di divieto.

Ma di che pasta è fatto questo sformato normativo? Proviamo ad assaggiare il menu del governo Letta, accusato ingiustamente di battere la fiacca, mentre ha messo in forno 20 provvedimenti negli ultimi 30 giorni. Il più importante è il «decreto del fare», dove figura un capitolo sulle semplificazioni burocratiche. Vivaddio, era ora. Peccato tuttavia che per semplificare il decreto spenda 93 commi, oltretutto scritti nel peggior burocratese. Così, il comma 1 dell'articolo 52 si suddivide in 11 punti contrassegnati in lettere (dalla A alla M); la lettera I s'articola poi in 3 sottopunti, numerati con cifre arabe come gli articoli; e il sottopunto 2 si scinde in altri 2 sotto-sottopunti, ciascuno distinto da una lettera.

Diceva Seneca: la legge dev'essere breve, affinché possa comprenderla pure l'inesperto. E Tacito, a sua volta: quando le leggi sono troppe, la Repubblica è corrotta. Ecco, è questo doppio male che in Italia offusca il senso stesso della legalità. Sono le 63 mila norme di deroga, che mettono in dubbio la residua sopravvivenza della regola, con buona pace del principio d'eguaglianza. Sono i 35 mila reati che ci portiamo sul groppone, e che la Cancellieri non ha mai cancellato. Sono i 66 mila detenuti stipati in 47 mila posti letto, al cui destino il nostro Parlamento è indifferente, mentre viceversa grazia i colpevoli di stalking o di abuso di ufficio, con un emendamento approvato l'altroieri. Ed è, in ultimo, l'incertezza del diritto, che trasforma ogni poliziotto in giudice, ogni giudice in un legislatore. Perché in questo caso funziona un paradosso: le troppe leggi s'elidono a vicenda, dal pieno nasce il vuoto. E nel deserto dei valori torreggia uno Stato ficcanaso, che adesso vorrebbe perfino mandare a scuola chi possiede un cane, per insegnargli la buona educazione. Che maleducato.

michele.ainis@uniroma3.it
31 luglio 2013 | 7:38

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Michele Ainis


Titolo: MICHELE AINIS. L'incertezza del diritto
Inserito da: Admin - Agosto 07, 2013, 05:25:56 pm
L'AFFANNO INTERPRETATIVO DELLE LEGGI

L'incertezza del diritto

Carta vince, carta perde. Ma a vincere, in questo caso, è la carta bollata. Quella che raccoglie la lingua del diritto, non le lingue dei politici. Un'esperienza inedita, quantomeno alle nostre latitudini. Anche perché il diritto parrebbe sottomesso alla politica: dopotutto ogni legge non è che il veicolo d'una decisione politica. Nell'affaire Berlusconi succede tuttavia il contrario. Succede che il leader più popolare dell'ultimo ventennio venga sconfitto dal diritto, anziché dagli elettori. E dunque, conta di più la regola o il consenso? Nel dubbio, lo scontro politico ha ormai cambiato segno: dai vecchi cavalli di battaglia siamo passati a una gara fra cavilli, dopo le leggi ad personam subentrano le interpretazioni ad personam . Ma almeno in questo non c'è nulla di nuovo: le leggi si applicano ai nemici e si interpretano per gli amici, diceva Giolitti.

Tutto comincia con la sentenza della Cassazione, attesa come un'ordalia sulle sorti del governo; e già qui c'è una nota singolare, perché gli esecutivi cadono nelle assemblee legislative, non nelle aule giudiziarie. Alla condanna dell'illustre imputato segue la sua ineleggibilità sopravvenuta, in forza della legge Severino; però la decadenza deve pur sempre pronunziarla il Parlamento, e in Parlamento c'è chi vi s'oppone, perché altrimenti la sanzione avrebbe un'efficacia retroattiva. Se ne parlerà, semmai, alle prossime elezioni. Dove Berlusconi è incandidabile, giacché chi sia stato condannato a pene superiori ai due anni sprofonda in un limbo elettorale per sei anni; ma intanto che si candidi, poi sarà pur sempre il Parlamento prossimo venturo a interpretare la validità della sua candidatura. Sempre che, nel frattempo, non sopravvenga un provvedimento di clemenza: da qui il pressing su Napolitano per la grazia, uno scudo giuridico contro il bastone della legge. Peccato tuttavia che il potere di grazia venga a sua volta circoscritto da una sentenza costituzionale (la n. 200 del 2006). E che quest'ultima ne renda l'uso problematico rispetto a Berlusconi, nonostante i precedenti di Sallusti e dell'agente Cia che rapì Abu Omar.

Questa sfida tra politica e diritto si ripete pure nell'accampamento avverso. Che altro significa, difatti, la querelle che oppone giustizialisti e garantisti di sinistra? E quale altro valore assume l'estenuante dibattito sulle primarie del Pd? Chi le vorrebbe chiuse ai militanti, chi aperte ai passanti: questione di regole, per l'appunto. Ma le regole vengono stirate da ciascuno in base al proprio tornaconto, e infatti la vera posta in gioco è il successo di Renzi alle primarie. Senza dire della legge elettorale, un incubo giuridico sia a destra che a sinistra. Perché su entrambi i fronti c'è chi vorrebbe andare presto alle elezioni, magari già in ottobre. E perché non è possibile lo scioglimento anticipato delle Camere, non almeno prima di dicembre, quando la Consulta emanerà un verdetto sul Porcellum . In caso contrario il nuovo Parlamento rischierebbe di morire mentre è ancora in fasce, essendo stato eletto tramite una legge ormai incostituzionale.

Potremmo rallegrarci del ruolo esercitato dal diritto nella nostra vita pubblica. Ma alla fine della giostra potremmo anche uscirne più malconci.
Se alla forza delle regole si sostituirà l'interpretazione capziosa delle regole. E se i politici, non avendo più un'idea politica da consegnare agli elettori, si trasformeranno in altrettanti legulei. I sintomi già ci sono tutti.

7 agosto 2013 | 7:54
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Michele Ainis

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_agosto_07/l-incertezza-del-diritto-michele-ainis_9b51daa8-ff1a-11e2-a99f-83b0f6990348.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. QUANDO SI DECIDE PER NON DECIDERE Le troppe leggi rimaste vuote
Inserito da: Admin - Settembre 01, 2013, 11:33:06 am
QUANDO SI DECIDE PER NON DECIDERE

Le troppe leggi rimaste vuote

 
Due anni fa il governo Berlusconi decise d'investire sui prestiti d'onore agli studenti. Ottima idea, ottima iniziativa. Scopriamo adesso che fin qui ne hanno fruito in 597, quando negli Usa sono 39 milioni gli ex studenti che stanno saldando il loro prestito d'onore. Insomma l'ennesima promessa tradita, anche se il tradimento non fa mai notizia. La notizia sta sempre nell'annuncio, nel messaggio che accompagna l'ultima lieta novella normativa. Come l'abolizione del precariato nella pubblica amministrazione, decisa ieri dal governo Letta; e speriamo che sia vero. Altrimenti inciamperemmo su un'altra legge-manifesto: le «grida in forma di legge» su cui levava l'indice, già nel 1979, il Rapporto Giannini. A chi convengono? Perché restano orfane di ogni applicazione? E come mai alle nostre latitudini fioccano come la grandine?

A occhio e croce, questo fenomeno si manifesta in due sembianze. In primo luogo, le leggi fatte apposta per non funzionare. Fra cui s'inscrive, per l'appunto, la disciplina sui prestiti d'onore: un misero fondo di 19 milioni, un tasso d'interesse che scatta il primo giorno dopo il prestito (anziché dopo la laurea), e che fa schizzare la rata a mille euro al mese. Ovvio che non ci sia poi la fila agli sportelli. In secondo luogo, le leggi che reclamano ulteriori adempimenti normativi, per esprimere tutti i propri effetti. E se l'adempimento non viene mai adempiuto? Amen, la legge rimarrà una pia intenzione, una nuvola di parole mute.

Questi corpi celesti solcano da tempo il nostro orizzonte giuridico. Celebre il caso della vecchia legge sulla Protezione civile, inoperante perché priva del suo regolamento esecutivo. Da qui ritardi e disfunzioni nei soccorsi, quando nel novembre 1980 un terremoto devastò l'Irpinia; da qui un messaggio televisivo di Pertini, con parole di fuoco nei confronti del governo per la sua omissione normativa. Ma sta di fatto che negli ultimi anni gli episodi si moltiplicano, sicché l'eccezione è ormai diventata regola. Durante il gabinetto Berlusconi, per esempio, fu annunciata in pompa magna la riforma Gelmini dell'università, la cui efficacia dipendeva tuttavia da un centinaio di regolamenti futuri. Mentre il gabinetto Monti concluse la propria esperienza lasciando ai posteri 490 norme da rendere pienamente vincolanti, con regolamenti o con atti amministrativi.

Ma per quale ragione la politica italiana ha trasformato ogni legge in un inganno? Semplice: perché è incapace di decidere, e allora finge di produrre decisioni. Disegna acrobazie verbali, sciorina commi incomprensibili, che volano come coriandoli nel Carnevale del diritto. Oppure pratica l'arte del rinvio, confezionando norme che restano altrettanti corpi senza gambe, fin quando non interverrà la disciplina d'attuazione. D'altronde le leggi in quarantena possono ben rivelarsi utili dal punto di vista dei partiti. Nel 1945, dopo la guerra, in Norvegia conservatori e laburisti bisticciavano circa il mantenimento della legge sul controllo dei prezzi: i primi volevano abrogarla, i secondi no. Finì che la legge rimase in vigore, però soltanto sulla carta, giacché non venne più applicata; e così entrambi i partiti cantarono vittoria davanti al proprio elettorato.

Mezzucci, espedienti da magliaro. Ma in questo gioco illusionistico siamo noi i maestri, mica i norvegesi. Sicché, quando vi folgora l'annuncio dell'ultima rivoluzione normativa, mentre vi buca i timpani il coro contrapposto dei detrattori e degli entusiasti, sappiate che non è il caso di scaldarsi. In Italia la legge non è sempre una cosa seria.

28 agosto 2013 | 7:51
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Michele Ainis

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Titolo: MICHELE AINIS. Chi ha paura delle riforme
Inserito da: Admin - Settembre 15, 2013, 05:14:06 pm
IL DIBATTITO SULL'ARTICOLO 138

Chi ha paura delle riforme

 
Il finimondo è un numero a tre cifre: 138. Scritto con un pennarello nero sulle mani sventolanti dei grillini, agitato come un altolà da quanti s'oppongono al disegno di riforma, o al contrario usato a mo' di grimaldello per forzare la serratura della Costituzione. Sicché è guerra sulle regole, tanto per cambiare. Però stavolta la guerra investe il «come», non il «cosa». Perché l'articolo 138 detta le procedure per correggere la Carta. E perché in questo caso il Parlamento sta applicando il 138 per introdurre una procedura in deroga al medesimo 138. Da questa seconda procedura nascerà (forse) la riforma. Ma c'è già chi la reputa illegittima, al di là dei suoi eventuali contenuti. Per il metodo, prima ancora che nel merito. Cominciamo bene.
Messa così, verrebbe da dire: lasciate perdere. Tornate alla via maestra del 138, senza cercare scorciatoie. E guardate alla sostanza, piuttosto che alla forma. Tanto più se la forma diventa un elemento divisivo, quando ogni riforma costituzionale andrebbe viceversa condivisa. D'altronde non è forse vero che l'articolo 138 incarna la sentinella della Costituzione? Vero, al punto che un celebre paradosso (quello di Alf Ross) lo dichiara immodificabile. Ma sta di fatto che noi italiani abbiamo già sfidato un paio di volte il paradosso: nel 1993 e nel 1997, quando due leggi costituzionali battezzarono altrettante Bicamerali, e dunque un procedimento specialissimo per rovesciare come un calzino usato la Carta del 1947. Senza barricate in Parlamento, né tumulti nelle piazze. Però magari a quel tempo eravamo un po' distratti.

E allora esaminiamo la forma della riforma, non foss'altro che per vederci chiaro. Primo: stavolta non è alle viste una rivoluzione, bensì una semplice manutenzione della Carta. Difatti ne rimane fuori il sistema delle garanzie (dalla magistratura ordinaria alla Consulta), su cui aveva invece carta bianca la Bicamerale presieduta da D'Alema. Secondo: non c'è nemmeno un ordine di sfratto per le assemblee parlamentari, come sarebbe accaduto viceversa con la Convenzione (aperta a membri esterni) evocata dal presidente Letta nelle sue dichiarazioni programmatiche. Terzo: la nuova procedura rafforza il potere di controllo degli elettori sugli eletti, e perciò rafforza la rigidità costituzionale. Giacché permette un referendum conclusivo, anche se la riforma fosse approvata a maggioranza dei due terzi. E in secondo luogo perché i referendum saranno tanti quanti i capitoli costituzionali riformati (bicameralismo, forma di governo, Regioni e via elencando). Mentre l'articolo 138 può aprire la strada a un plebiscito, a un prendere o lasciare, com'è avvenuto nel 2006 con la maxiriforma (55 articoli) cucinata dal centrodestra.

Dov'è quindi la ferita alla legalità costituzionale? In una modesta compressione dei tempi del dibattito, nonché del potere d'emendamento dei singoli parlamentari. Ampiamente compensata, tuttavia, dai referendum, in cui s'esprime la sovranità popolare. Sicché alla fine della giostra fa capolino un sospetto, un punto di dubbio, una domanda: non è che dietro lo schermo delle procedure c'è dopotutto una volontà conservatrice, l'idea che la Costituzione sia una mummia imbalsamata? Idea rispettabile, per carità; ma allora vorrà dire che i suoi nuovi paladini sono diventati dei necrofili.

12 settembre 2013 | 8:19
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MICHELE AINIS

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Titolo: MICHELE AINIS. Il rispetto delle regole
Inserito da: Admin - Settembre 20, 2013, 04:37:52 pm
editoriale

Il rispetto delle regole

Noi italiani scambiamo le regole per tegole. Sicché, quando ci cascano addosso, le schiviamo. E un minuto dopo corriamo a fabbricare un'altra tegola (pardon, regola), cercandovi riparo. È già successo mille volte, sta forse per succedere di nuovo. Oggi il Movimento 5 Stelle proporrà una modifica al regolamento del Senato, allo scopo d'ottenere un voto palese sulla decadenza di Silvio Berlusconi. Consensi dalla Lega, applausi da Sel, aperture dall'Udc e da Scelta civica, benedizioni da autorevoli esponenti del Pd. E ovviamente un altolà dal Pdl, che difende la regola vigente, ossia lo scrutinio segreto.

C'è una nobile ragione di principio sotto quest'ennesima baruffa sulle regole? Macché, c'è un calcolo politico. Il Pdl spera che il segreto dell'urna favorisca smottamenti nel fronte avverso, sulla carta largamente superiore. Perché la decadenza di Berlusconi rischia di trascinarsi dietro la decadenza della legislatura, con una crisi di governo e poi con lo scioglimento anticipato delle Camere. E perché, si sa, nessuno degli eletti ha voglia di fare le valigie. Dal canto suo il Pd teme giochetti da parte dei grillini: potrebbero salvare in massa l'illustre condannato, per poi addossarne la colpa alla sinistra. Ma soprattutto teme imboscate al proprio interno, giacché i 101 franchi tiratori che affondarono la candidatura di Prodi al Quirinale sono ancora lì, e tramano nell'ombra. Dunque la nuova parola d'ordine è la stessa che Gorbaciov coniò negli anni Ottanta: glasnost , trasparenza. D'altronde come si fa a non essere d'accordo?

Si fa, si fa. Intanto per una ragione di merito, perché non è affatto vero che la segretezza convenga solo ai ladri. Non a caso la Costituzione proclama il nostro voto d'elettori «libero e segreto». Questi due attributi si tengono a vicenda: il voto è libero unicamente se resta segreto. Altrimenti potremmo subire ritorsioni dal datore di lavoro, minacce dai politici, o più semplicemente potremmo farne mercatino, vendendolo al miglior offerente. E il voto degli eletti? Qui la libertà deve coniugarsi con la loro responsabilità verso gli elettori. Dopotutto se ti ho dato fiducia devo pur sapere se la meriti, se stai mantenendo le promesse. Però siccome ogni democrazia parlamentare accoglie il divieto di mandato imperativo, siccome ormai l'imperatore non è tanto il cittadino bensì il capopartito, allora la segretezza dei voti espressi nelle assemblee legislative suona come il riscatto dei peones, l'ultimo presidio della loro dignità.

Queste due opposte esigenze possono combinarsi in varia guisa. Fino al 1988 era regola il voto segreto, mentre quello palese veniva usato in casi eccezionali. Dopo la riforma dei regolamenti parlamentari s'applica la regola contraria; tuttavia l'eccezione - e cioè il voto segreto - continua a governare le votazioni sui diritti di libertà, sui casi di coscienza o infine sulle singole persone. Il caso Berlusconi, per l'appunto; quantomeno al Senato, giacché alla Camera funziona anche qui il voto palese. Merito di Craxi, salvato nel 1993 dai franchi tiratori, sicché Montecitorio s'affrettò a riformare la riforma. Alla fine della giostra la questione sta allora nel metodo, prima ancora che nel merito. Possiamo calibrare come più ci aggrada il rapporto fra scrutini segreti e palesi. Possiamo anche sbarazzarci della prerogativa che rende i parlamentari giudici di se medesimi, trasferendola per esempio alla Consulta. Ciò che invece non possiamo fare è di scrivere un'altra regola ad personam o meglio contra personam . Per rispetto delle regole, se non della persona.

17 settembre 2013 | 8:10
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Michele Ainis

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Titolo: MICHELE AINIS. Uno sparo nel buio
Inserito da: Admin - Settembre 28, 2013, 04:47:40 pm
I PARADOSSI DELLE DIMISSIONI

Uno sparo nel buio

Che invidia per le squadre di calcio, lì almeno c'è una regola chiara. Poniamo che un allenatore dica all'arbitro: guai a te se mi fischierai un rigore contro, perché subito dopo la mia squadra abbandonerà il campo di gioco. Risultato? L'allenatore sarà squalificato per condotta antisportiva, la squadra uscirà sconfitta a tavolino per 3 a 0. Dopo di che il campionato prosegue senza interruzioni. E se invece non c'è di mezzo una partita ma un partito? Se quel partito (il Pdl) annuncia le dimissioni in massa dei suoi parlamentari?

Idea geniale, ma non del tutto originale. Nel gennaio 1864 si dimise Garibaldi, insieme ad altri 9 deputati: i garibaldini, per l'appunto. Tuttavia il precedente non fa testo, e non solo perché il partito di Silvio Berlusconi è allergico alle camicie rosse. Stavolta cambiano i numeri dell'esodo, dunque pure le sue conseguenze. Non cambiano però le procedure, o almeno non del tutto. Cerchiamo di metterle in fila.

Primo: le dimissioni sono un atto individuale, non collettivo. Vanno perciò presentate una per una. E vanno altresì votate in Parlamento, per giunta a scrutinio segreto, dato che si tratta d'una votazione su singole persone. Anche questa regola ha origini remote: risale al 20 dicembre 1850 il primo voto negativo sulle dimissioni del deputato Incisa Beccaria, che dunque rimase inchiodato al proprio scranno. Oggi però vige una regola al quadrato, giacché per prassi la richiesta non viene mai accolta alla prima votazione. Un antidoto contro le dimissioni in bianco, che qualche partito faceva firmare ai propri candidati alle elezioni (se sgarri, ti licenzio). Anche il secondo voto, però, non sempre è positivo. Nel 2006 Prodi governava sul filo del rasoio, sicché al Senato ogni assenza diventava una tragedia. Da qui le dimissioni dei sottosegretari-senatori, regolarmente impallinate nel segreto dell'urna. Per forza: la destra sperava nel rasoio, i sottosegretari (e i loro amici) disperavano della longevità di Prodi.

Secondo: il Porcellum. Significa che ogni eletto ha alle calcagna un non eletto, che ne prenderà le veci se lui libera la poltrona in Parlamento. Sicuro che avrà voglia di dimettersi a sua volta? Tanto per dire, dietro Berlusconi incalza il molisano Di Giacomo, che ha già fatto sapere di non volerne sapere. Ma ammettiamo pure che obbediscano tutti come soldatini, benché fra voti e controvoti ci vorranno mesi prima d'arrivare al capolinea. Scatterà a quel punto un autoscioglimento delle Camere? Manco per niente. La «dissoluzione» avviene quando manchi il numero legale, e non è questo il caso. Alla Camera il Pd ha la maggioranza assoluta, al Senato il Pdl - anche sommandovi la Lega e Grandi autonomie - raggiunge 117 seggi, mentre il numero legale viaggia a quota 161. Quindi si può andare avanti, come d'altronde è già successo: la XIV legislatura (2001-2006) s'aprì e concluse con 12 scranni vuoti.

Insomma: un colpo fragoroso, però senza proiettile. E al contempo una litania di paradossi. Con l'annuncio d'una crisi istituzionale senza crisi di governo, mentre semmai dovrebbe succedere il contrario. Con la lettera a Napolitano contro gli abusi della Giunta firmata ieri da Brunetta e Schifani, come se fosse lui la Giunta del Senato. Con un'interminabile querelle sulla retroattività della legge Severino, quando comunque fra un paio di settimane Berlusconi verrà interdetto dai pubblici uffici. Infine con un drappello di ministri che si dimettono da parlamentari ma intanto restano ministri. È ormai la cifra della Repubblica italiana: una Repubblica dimessa, non dimissionaria.

28 settembre 2013 | 7:18
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Michele Ainis

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_settembre_28/uno-sparo-nel-buio-michele-ainis_a046d3a2-27fa-11e3-a563-c8f4c40a4aa3.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. L’indigestione delle deroghe
Inserito da: Admin - Ottobre 13, 2013, 05:04:33 pm
PROMEMORIA PER CHI NON VUOLE LE RIFORME

L’indigestione delle deroghe


Il governo Letta ha passato la nottata, ma per l’Italia è ancora notte fonda. Viviamo in un sistema che alleva disoccupazione e recessione, prigioniero di lobby armate fino ai denti, lacerato dal divorzio fra popolo e Palazzo. Zero efficienza economica, zero equità sociale, zero legittimazione democratica. C’è un nesso fra queste tre voragini? Sì che c’è, ma per illuminarlo dobbiamo aprire gli occhi sul quarto zero tondeggiante sullo sfondo: quello delle riforme istituzionali e costituzionali. Ci sarà pure una ragione se alle nostre latitudini fa notizia la sopravvivenza del governo, non già la sua caduta. Se ciascun potere dello Stato, nessuno escluso, appare debole ma al contempo rissoso, sleale, prepotente. Se infine il sistema nel suo complesso è incapace di produrre grandi scelte, però microdecisioni sì, e sono sempre decisioni di favore.

Le prove? Alla data del 2012 il nostro ordinamento ospitava 63 mila norme di deroga. Significa che la regola non esiste più: defunta, insieme al principio d’eguaglianza. Perché la deroga, l’eccezione, non è che l’abito normativo cucito indosso su misura a questa o a quella camarilla. E perché i sarti sono tanti, quando i Consigli regionali mettono becco sugli affari nazionali, quando le coalizioni di governo sono affollate come vagoni della metropolitana, quando ogni progetto di legge fa la spola tra due Camere, e ciascuna può aggiungervi il suo bel vagoncino colorato.

Nel 2006 il gabinetto Prodi esordì con un record planetario: 1.364 commi stipati in un solo articolo di legge. L’anno dopo diede il suo addio alle scene con una Finanziaria un po’ più magra: 97 articoli, che tuttavia in Parlamento si gonfiarono fino a diventare 151, e infine 1.201 commi. Nei suoi quattro anni di gloria, il gabinetto Berlusconi sfornò una manovra dopo l’altra, salvo rimangiarsele come il conte Ugolino. Sicché, per esempio, l’ultima (agosto 2011) dettava un contributo di solidarietà per i redditi più alti, ma alla fine della giostra il contributo restò sul collo dei soli dipendenti pubblici. Nel 2012 il gabinetto Monti annunziò una stangata fiscale per tassisti e farmacisti, il Parlamento stangò la stangata. Per forza: in Italia le manovre si varano immancabilmente per decreto, i decreti devono ottenere la conversione in legge, ma ogni decreto convertito diventa un decreto pervertito.

Da qui l’urgenza di porre mano alle riforme. Stabilendo la fine del bicameralismo paritario, una trovata che non ha eguali al mondo. Disegnando rapporti più nitidi fra il centro e la periferia del nostro vecchio impero. Attivando canali di partecipazione e decisione da parte del corpo elettorale. E in ultimo rafforzando la stabilità degli esecutivi, giacché in caso contrario anche l’economia sarà sempre instabile e precaria. Insomma, non è vero che le riforme costituzionali non diano da mangiare: semmai è questo lungo digiuno di riforme ad averci affamato. Ma a quanto pare non ne parla più nessuno. E nel silenzio degli astanti, s’ode unicamente la voce dei loro detrattori. Che però non entrano nel merito, non sanno misurarsi con la sostanza dei problemi. No: si trincerano dietro questioni procedurali (l’articolo 138) o personali, profittando di un’inchiesta che coinvolge 5 membri della commissione di studio per delegittimare l’intera commissione, quindi il suo lavoro, quindi la riforma in sé.

Un classico paralogismo: Pietro e Paolo erano apostoli, gli apostoli erano dodici, dunque Pietro e Paolo erano dodici. Come a dire che se nel mio condominio abita un clandestino, allora siamo tutti clandestini. Però siccome quella vicenda giudiziaria è ancora da chiarire, siccome fin qui volano sospetti ma non fatti, il paralogismo non è che paranoia.
Diciamolo senza troppi giri di parole: il fallimento di questo processo di riforma ucciderebbe la residua credibilità dei nostri politici. Anche delle nuove leve, dei quarantenni che stanno scalzando i loro padri. Non foss’altro perché gli italiani, viceversa, alle riforme mostrano di crederci: alla consultazione in rete indetta dal governo hanno partecipato all’incirca 170 mila cittadini, e il 13% sono giovani sotto i 28 anni. Non trasformate i credenti in creduloni.
michele.ainis@uniroma3.it

10 ottobre 2013
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Michele Ainis


Titolo: MICHELE AINIS. Il saliscendi delle regole Etica, politica e legalità
Inserito da: Admin - Novembre 03, 2013, 06:48:03 pm
L’EDITORIALE

Il saliscendi delle regole

Etica, politica e legalità

Uno vince, l’altro perde: è la vita. Ma nella vita politica può succedere che perdano tutti, nessuno escluso. Che l’impeto di segnare un gol nella porta avversaria generi viceversa un autogol. Che ogni giocatore rimanga intrappolato in un reticolo di paradossi, nonsense, capriole logiche. E che ciascuno contraddica ciascun altro, finendo per contraddire anche se stesso.


La vicenda che tocca Silvio Berlusconi ne offre la rappresentazione più eloquente. A partire dal diretto interessato: in passato si dichiarò d’accordo sulle liste pulite, votò pure a favore della legge Severino, ma adesso che lui è un pregiudicato non vuol proprio saperne di liberare la poltrona. E il voto palese sulla sua decadenza? Un successo del Movimento 5 Stelle, che ha fatto della trasparenza una bandiera. Peccato che giusto un mese fa ammainò quella bandiera chiedendo lo scrutinio segreto per la legge sull’omofobia. Senza dire del Pd, che difendeva come Lancillotto la Consulta quando Berlusconi le sparava contro a palle incatenate. Ora se ne fida così poco da alzare un veto contro le richieste del Pdl, che vorrebbe interrogarla sulla costituzionalità della legge Severino.

Questo saliscendi percorre i tre gradini sui quali s’arrampica il caso Berlusconi: etico, giuridico, politico. C’è una motivazione etica per espellere dal Parlamento i colpevoli di gravi reati? Certo che sì, ne è prova la Costituzione stessa: gli onorevoli devono per l’appunto essere persone onorate (articolo 54), dunque non moralmente indegne (articolo 48). E il giudizio sull’immoralità va assunto a scrutinio palese? Alla Camera sì; al Senato vige la regola contraria. Disapplicandola, senza peraltro riscriverla daccapo, i membri della Giunta hanno inferto una ferita alla legalità. Sicché l’etica divorzia dal diritto, la trasparenza si guadagna per vie assai poco trasparenti. Ma è giusto fare giustizia (sostanziale) negando la giustizia (procedurale)? E una finalità morale può raggiungersi con mezzi illegali?

No, non può. E gli argomenti tirati in ballo dalla maggioranza risicata (7 a 6) cui si deve il verdetto della Giunta sono a loro volta risicati. Dicono che quel voto attiene alla composizione del Senato, non già a una singola persona, cui s’applicherebbe viceversa la regola del voto segreto: insomma, il destino di Berlusconi non riguarda Berlusconi. Dichiarano che il caso è inedito, ma a sprezzo della logica aggiungono che esiste un precedente (Andreotti). D’altronde i precedenti parlamentari sono come il sacco della Befana, c’è dentro un po’ di tutto. E dopo l’appello c’è sempre un contrappello, come ben sanno le milizie dell’illustre condannato, che da parte loro meditano di predisporre un ordine del giorno contrario alla decisione della Giunta, facendolo votare a scrutinio segreto. Dalla legalità al legalismo, che ne disegna la caricatura. Perché in questa partita non c’è spazio per l’etica, né per il diritto: c’è solo la politica, con i suoi tornaconti.

Però, attenzione: quando sei troppo furbo rischi la fine del grullo. Nel 1993 Craxi venne salvato dai franchi tiratori; ma da lì a poco fuggì ad Hammamet, mentre il Parlamento cancellava a furor di popolo l’immunità penale. Succede quando stiri le regole per un utile immediato, e poi la regola ti si ritorce contro. O quando inchiodi il passo su un unico gradino della scala democratica (etica, politica, diritto), senza sobbarcarti la fatica d’arrivare in cima.
01 novembre 2013
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Michele Ainis

Da - http://www.corriere.it/editoriali/13_novembre_01/saliscendi-regole-05a3852a-42bc-11e3-bd09-5fafe7fa6f7b.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Macché raccomandati, aboliamo i concorsi
Inserito da: Admin - Novembre 13, 2013, 03:51:51 pm
L'opinione

Macché raccomandati, aboliamo i concorsi

Un conto è un prof che aiuta suo figlio, altro un docente che dà una chance a un allievo capace. Se non li favoriamo avremo sempre più cretini in cattedra

   
In questa opinione, pubblicata sull'Espresso n. 42 in edicola venerdì 18 ottobre, Michele Ainis fa una distinzione tra la raccomandazione e la cooptazione che "non è un peccato né un reato, è la legge non scritta dell’università" e si traduce nel favorire, da parte degli accademici, la scelta dell'allievo ritenuto migliore. Una provocazione che ha suscitato il commento di un lettore, che con la sua lettera che pubblichiamo qui in calce dà il via a un dibattito sul tema. Voi che ne pensate? Potete commentare in fondo ai due interventi

Confesso: ho peccato. E prima di me ha peccato il mio maestro, e il suo maestro, e di maestro in maestro per generazioni. Tutti colpevoli d’aver raccomandato i propri allievi, d’aver brigato per appoggiarli nei concorsi. Ma il peccato si traduce in un reato?

A leggere le cronache, parrebbe di sì: decine di prof indagati dalla procura di Bari, concorsi truccati in undici università italiane. Poi, certo, la notizia meriterebbe una verifica. In primo luogo perché gli unici nomi rimbalzati sui giornali chiamano in causa cinque membri della commissione di “saggi”, quella incaricata dal governo d’indicare le riforme costituzionali necessarie. Ma guarda un po’, che coincidenza. Proprio nel mezzo d’uno scontro politico rovente sulle medesime riforme, proprio alla vigilia della manifestazione indetta a Roma da quanti vi s’oppongono. Fin troppo comodo screditare il saggio per screditare la riforma.

E in secondo luogo, c’è trucco e trucco. Noi non sappiamo di quali malefatte vengano accusati questi professori, e il bello è che non lo sanno neanche loro, avendo ricevuto un’informazione a mezzo stampa, anziché un’informazione di garanzia. Ma un conto è favorire i propri allievi, altro i propri figli (ahimè, succede: come diceva l’ex ministro Mussi, certi Consigli di facoltà sembrano Natale in casa Cupiello). Un conto è che il concorso venga vinto da candidati con zero pubblicazioni accreditate, o che i commissari di concorso abbiano, tutti insieme, meno titoli del candidato trombato (ahimè, succede pure questo: a Parma nel 2001, a Bari nel 2002, a Reggio Calabria nel 2004, a Messina nel 2005, alla San Pio V di Roma nel 2006).

Un altro conto è stringere alleanze fra scuole accademiche, chiedere un bando da ricercatore all’ateneo per offrire una chance all’allievo migliore, magari chiedere voti dichiarando già in partenza d’appoggiarlo, come succedeva quando le commissioni venivano elette fra professori della stessa disciplina, anziché designate per sorteggio.

E allora mettiamoci d’accordo: la cooptazione non è un peccato né un reato, è la legge non scritta dell’università. Perché il giudizio culturale non spetta al popolo elettore, bensì - come diceva Adorno - al «denigrato personaggio dell’esperto». È il prof di diritto costituzionale che valuta le qualità del costituzionalista in erba, non può certo farlo il sindaco. E d’altra parte ogni giovane studioso s’avvia alla ricerca sotto la guida d’un docente, che poi lo aiuta a far carriera. Sempre che, beninteso, lui abbia stoffa da cucire. Questo sistema incoraggia comportamenti borderline, al confine fra il lecito e l’illecito? Può darsi, ma se è così tanto vale prendere il toro per le corna. Con una soluzione radicale: via i concorsi, che ogni professore si scelga il suo assistente, che ogni ateneo si scelga i propri professori. Magari stabilendo i requisiti minimi per essere chiamati in Paradiso, dal titolo di dottore di ricerca a un certo numero di pubblicazioni. Altrimenti rischieremmo la promozione in massa del cretino.

E se il cretino trova comunque spazio in Paradiso? Ne risponde chi lo ha scelto, ma a tale scopo serve una doppia condizione: via il valore legale della laurea, via il valore legale della cattedra. Dunque competizione fra i singoli atenei, sicché chi recluta i peggiori docenti si troverà senza studenti. E stop all’inamovibilità dei professori, stop allo stipendio a vita, stop alla stessa busta paga per i prof che scrivono libroni e per quelli che coltivano le rose. È la soluzione proposta mezzo secolo fa da Luigi Einaudi, ma è anche il perno del sistema americano. Dove gli unici docenti a tempo indeterminato sono quelli con tenure (incarico stabile); gli altri lavorano, per così dire, in prova. Ovvero con contratti per lo più triennali, che agli studiosi più brillanti fruttano un milione di dollari. E che fruttano il licenziamento agli incapaci. Morale della favola? Da concorsopoli ci salverà il mercato.

La lettera giunta in redazione dopo la pubblicazione sull'Espresso dell'opinione del professor Ainis



Gentile Direttore,

ho letto l'articolo di Michele Ainis e ne sono rimasto sconcertato. Non credo che Ainis abbia, come lui dice, peccato, né sono in grado di dire se abbia commesso un reato. Credo che, molto più semplicemente, abbia dimostrato un basso livello di “etica civile”. È vero che siamo in Italia e l'etica civile è una merce rara. Il professore membro di una commissione di concorso ha il dovere di valutare con cura e attenzione tutti i candidati, selezionando alla fine quello che lui, in modo argomentato e documentato, ritenga il migliore e non certo di “favorire i propri allievi”.

Questo è non solo richiesto dalla legge, ma anche un dovere nei riguardi della ricerca scientifica, dell'università e più in generale del paese. Almeno questo è ciò che ho sempre creduto negli oltre trenta anni in cui sono stato professore ordinario, prima di andare in pensione un anno fa. Il prof. Ainis sa bene che, in un concorso, nella riunione preliminare della commissione vengono definiti i criteri e sulla base di essi dovrebbero poi essere prese le decisioni. Dubito fortemente che il prof. Ainis, nei concorsi in cui si è trovato a essere commissario, abbia mai fatto inserire fra i criteri uno del tipo “l'essere allievo di uno dei commissari costituisce titolo preferenziale ai fini della valutazione”.

Il favorire sistematicamente i propri allievi, come è purtroppo consuetudine in alcuni settori dell'università italiana è una delle cause della decadenza, non solo scientifica ma anche etica, della nostra università. L'allievo imparerà a muoversi, nella ricerca, nel solco del proprio maestro, cioè di colui che “lo aiuta a far carriera”, evitando percorsi scientifici troppo personali o innovativi. Ma soprattutto imparerà che la fedeltà al capo è la dote più importante.

Il prof. Ainis fa anche riferimento al sistema americano, che probabilmente non conosce bene. Nelle università americane è quasi impensabile che un giovane, una volta ottenuto il dottorato, rimanga nella stessa università e continui a fare ricerca sotto la guida del supervisore che lo ha seguito nella tesi. Si assume che chi ha ottenuto un dottorato abbia ormai acquisito gli strumenti per fare ricerca in modo autonomo ed è molto raro che lo faccia nella stessa università.

Mi scusi la lunghezza, ma l'articolo di Ainis mi ha davvero indignato, e penso che sia proprio la mentalità che vi traspare quella che fa sì che il nostro paese sia, per citare Bill Emmott, una “girlfriend in a coma”.

Giorgio Gallo
18 ottobre 2013 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/attualita/2013/10/18/news/macche-raccomandati-aboliamo-i-concorsi-1.139409


Titolo: MICHELE AINIS. Legge e Libertà Dalla referenza alla preferenza
Inserito da: Admin - Novembre 23, 2013, 04:13:20 pm
Michele Ainis

Legge e Libertà
Dalla referenza alla preferenza

Esistono più livelli di raccomandazione: c’è quella del potente, del cliente, del connivente, del parente. Nel caso della Cancellieri e della Ligresti qualche dubbio sull’opportunità dell’intervento del ministro sorge...
Qualche settimana fa ho osato infrangere un tabù. Ho scritto un elogio della raccomandazione, nero su bianco in questa rubrica. Quella fra universitari, però, soltanto quella. La spinta del maestro ai propri allievi, per aiutarli a farsi largo nei concorsi. Nel mondo accademico, difatti, vige la regola della cooptazione: spetta al cattedratico di storia dispensare le cattedre di storia, non può certo farlo l’assessore. E quasi sempre il cattedratico conosce il giovane studioso che deve valutare. Ecco perché le selezioni universitarie sono ben diverse da un concorso alle poste. D’altronde c’è una comunità scientifica, ma non esiste una comunità postale.

Apriti cielo: mi hanno fucilato in piazza. Ma davvero le raccomandazioni sono tutte uguali? Prendiamo il caso Cancellieri, che mena scandalo proprio in questi giorni. Un ministro si prodiga per la liberazione di Giulia Ligresti, detenuta con problemi di salute. Slanci umanitari? Può darsi. Ma sta di fatto che i Ligresti sono vecchi amici del ministro; e sta di fatto inoltre che il figlio del ministro ha lavorato alle loro dipendenze, percependo tra buonuscita e competenze varie 5 milioni. Sicché fa capolino, testarda, la domanda: sul piano etico, o magari anche giuridico, non c’è forse da distinguere la raccomandazione del potente da quella del cliente, del connivente, del parente?

Due secoli fa Gaetano Filangieri scrisse la “Scienza della legislazione”; ora sarebbe il momento d’abbozzare una Scienza della raccomandazione. Del resto alle nostre latitudini questa disciplina ha già molti discepoli, anche se tutti la professano in segreto. Un italiano su due ne ha approfittato per trovar lavoro, dichiara una ricerca Isfol del 2006. E sette studenti su dieci pensano che l’“aiutino” sia prezioso per laurearsi in fretta. Nelle aziende private le conoscenze servono nel 51,8 per cento dei casi, aggiunge un’indagine Infojobs del 2009. Mentre l’anno prima Medialab aveva fissato le quote delle spintarelle chieste e ottenute da ciascun italiano: il 66,1 per cento bussando alla porta di un familiare, il 60,9 da un amico, il 33,9 da un collega di lavoro.
Nella nostra bandiera nazionale, diceva Longanesi, dovremmo scriverci: «Tengo famiglia». E in Italia, si sa, le famiglie sono tante. Come le raccomandazioni, per l’appunto. Ma in onore della nuova scienza, possiamo suddividerle in tre categorie.

Estorsioni. Di norma, il raccomandante domanda un favore per qualche suo protetto, e lo domanda a chi ha in concreto il potere d’aiutarlo. Nella gerarchia della raccomandazione, al grado più basso c’è perciò il raccomandato; poi il raccomandante; ma sopra di lui impera il raccomandatario, se così vogliamo definirlo. Dopotutto, dipende dal suo “sì” la buona riuscita dell’impresa. Può succedere però che la gerarchia s’inverta, che quest’ultimo sia un sottoposto del raccomandante, anziché soltanto un conoscente. In questo caso la raccomandazione diventa un ordine, un diktat. Non è più una forma di pressione, quanto di compressione per il suo destinatario. E allora il peccato può tradursi in un reato. Magari non proprio l’estorsione, magari si tratterà di concussione. Ne sa qualcosa Berlusconi, che da premier telefonò alla questura di Milano per il rilascio di Ruby, la nipotina di Mubarak: 7 anni di galera.

Segnalazioni. Se non hai un santo non entri in Paradiso, recita il proverbio. E noi italiani al Paradiso ci teniamo, non per nulla ospitiamo il Cupolone. Sarà per questo che ciascuno ha il proprio santo cui votarsi. È un reato? Al massimo una contravvenzione per aver rallentato il traffico (“Favori in corso”). Però, attenti: le troppe segnalazioni si elidono a vicenda. Quando il prof riceve una telefonata per ogni suo studente, farà gli esami a cuor leggero, tanto lì davanti sono tutti uguali.

Referenze. Sono scritte, non sussurrate. E servono ad attestare le qualità di una persona da parte di chi l’ha già messa alla prova. Dunque stavolta la raccomandazione è pubblica, trasparente; mette in gioco la credibilità di chi la firma. Funziona così nei paesi anglosassoni. E in Italia? E nel caso Cancellieri? A occhio e croce, qui c’è una preferenza, non una referenza.

michele.ainis@uniroma3.it

 
13 novembre 2013 © Riproduzione riservata
Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/legge-e-liberta/2013/11/07/news/dalla-referenza-alla-preferenza-1.140329


Titolo: MICHELE AINIS. Troppe spese e fallimenti delle regioni
Inserito da: Admin - Novembre 25, 2013, 04:50:03 pm
Troppe spese e fallimenti delle regioni

Colazione da Tiffany

In Piemonte risultano indagati 43 consiglieri regionali su 60. Tagliaerba, mazze da golf, cravatte, lavatrici: spese personali, ma con quattrini istituzionali. In Emilia fra i rimborsi a piè di lista sbuca fuori anche un gioiello di Tiffany. In Sardegna orologi Rolex e penne Montblanc. In Abruzzo l’assessore alla Cultura finisce in galera per mazzette culturali. In Liguria si dimette il presidente del Consiglio regionale, sotto indagine per peculato. In Lazio spunta la truffa dei tirocini, in Sicilia quella dei corsi di formazione. E via via: le inchieste giudiziarie chiamano in causa 17 Regioni e oltre 300 consiglieri regionali.

 No, non era questa l’idea federalista, che nell’Ottocento illuminò lo sguardo di Jacini e di Minghetti, nel Novecento di don Sturzo. Non era questo l’orizzonte dei costituenti, che concepirono il decentramento regionale per rinvigorire il corpaccione dello Stato. Ahimè, cura fallita: la creatura è più obesa, più viziosa. Per forza, se la periferia riflette - come in uno specchio infranto - le nefandezze di cui si macchia Roma. Se ogni Regione moltiplica i centri di spesa (quando va bene) o d’illegalità (quando va male, e va quasi sempre male). Se infine i politici locali restano impassibili dinanzi allo sdegno che li sommerge fino al naso. Che altro serve per svegliarli? Non è bastato lo scandalo Fiorito, il successo dei grillini, l’astensionismo elettorale?

Risultato: gli italiani si sono disamorati di queste Regioni, ammesso che se ne fossero mai davvero innamorati. Il loro grado di fiducia viaggia rasoterra (4 su 10, in base all’ultimo Rapporto Istat), e infatti circa la metà del popolo votante ne farebbe a meno volentieri. Perché la spesa regionale è lievitata di 90 miliardi in un decennio. Perché di conseguenza aumentano le tasse locali (del 138% fra il 1995 e il 2010, secondo la Cgia di Mestre). Perché questa tenaglia di costi e di tributi viene oliata dallo spreco: come in Molise, dove i consiglieri senza doppia poltrona (e doppia indennità) sono 3 su 21; o come in Sicilia, dove la buonuscita dei direttori regionali s’è impennata del 225% dal 2001 in poi. E perché infine la loro festa di merende e di prebende non ci ha donato in cambio servizi più efficienti, bensì piuttosto disservizi. Altrimenti, forse, li avremmo pure perdonati.

 Le prove? Basta chinarsi sul pozzo nero della sanità, la principale competenza regionale. Nel Mezzogiorno il medico migliore è il treno, oggi come ieri. E ovunque liste d’attesa interminabili, ovunque sperequazioni inaccettabili (un sondaggio gastrico in Campania costa 6 euro, in Piemonte 125). E il dissesto idrogeologico? C’è voluta l’alluvione in Sardegna per scoprire che la metà delle Regioni, dieci anni dopo la riforma della Protezione civile, non ha le carte in regola. Eppure di carte, laggiù, se ne scrivono anche troppe, dato che abbiamo in circolo 20 mila leggi regionali. È il nodo scorsoio con cui si sono impiccate le Regioni: un groviglio di competenze, di burocrazie cinesi, di norme strampalate. Dal basso, ma ormai pure dall’alto: sul federalismo amministrativo, il sito web del ministro Delrio sforna 204 documenti . Sicché è venuta l’ora di prendere in mano un paio di forbici. È indispensabile tagliare norme e posti, funzioni e sovrapposizioni, enti ed accidenti. In caso contrario dovremo rassegnarci a tagliare le Regioni.

 michele.ainis@uniroma3.it
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24 novembre 2013

http://www.corriere.it/editoriali/13_novembre_24/colazione-tiffany-696829c4-54d9-11e3-97ba-85563d0298f0.shtmlMichele Ainis


Titolo: MICHELE AINIS. Mille anime morte vagano per Roma Il Parlamento conta sempre meno
Inserito da: Admin - Dicembre 13, 2013, 06:27:13 pm
Michele Ainis
Legge e Libertà

Mille anime morte vagano per Roma

Il Parlamento conta sempre meno. E perde autorità e prestigio: le leggi si fanno altrove,e la politica pure.
Come si vede dalle regole elettorali e dalle riforme costituzionali. Forse hanno ragione in Islanda...

E voi, ai fantasmi, ci credete? Probabilmente no, ma probabilmente ne avete già incontrati un paio, benché non ve ne siate accorti. D’altronde non servono sedute spiritiche, basta una passeggiata nel centro di Roma. Dove due antichi edifici (Montecitorio e palazzo Madama) sono infestati da mille larve trasparenti: anime morte, di cui però nessuno piange la scomparsa. I mille parlamentari della Repubblica italiana.

No, non è antiparlamentarismo, non è il sentimento becero che un secolo fa dilatava le pupille a Benito Mussolini. È un dato di fatto, ahimè, e sarebbe stolto polemizzare con i fatti: hanno la testa dura, come diceva Lenin. È un fatto la perdita d’autorità e prestigio delle assemblee rappresentative. È un fatto la crisi nera della loro stessa funzione, dato che Scilipoti e Razzi non rappresentano nessuno. È un fatto che la politica sia emigrata altrove - nei movimenti, nelle piazze, nel popolo del Web. È infine un fatto che persino la loro occupazione principale (mettere un timbro sulle leggi) venga ormai esercitata in altre stanze, da altri pubblici esercenti.

Le prove? Fermiamo l’orologio su una data: 29 aprile 2013. Quel giorno Enrico Letta espone il suo programma di governo, dichiarando che intende riesumare la centralità del Parlamento. Meglio tardi che mai, dopo le angherie del gabinetto Berlusconi, dopo l’algido disprezzo del gabinetto Monti. Dunque stop all’abuso dei decreti, ai maxiemendamenti, ai voti di fiducia che sequestrano le assemblee legislative. Ma si dà il caso che un mese dopo erano già 5 i decreti legge sfornati dal nuovo esecutivo. Mentre in quest’ultimo mese di novembre serve un pallottoliere per contare gli atti normativi del governo: 4 decreti del presidente del Consiglio, 2 regolamenti, 15 disegni di legge, 9 decreti legislativi esaminati dal Consiglio dei ministri. Nello stesso arco di tempo il Parlamento ha licenziato un’unica legge solitaria (la n. 128), peraltro sotto dettatura di palazzo Chigi, trattandosi della conversione d’un decreto. Anzi no, si è sobbarcato pure un’altra fatica: l’approvazione notturna del maxiemendamento alla legge di stabilità. Come da tradizione confezionato dal governo, e senza risparmiare sulla stoffa: 531 commi, 57.907 parole.

Insomma, i nostri cari estinti non hanno un gran daffare. Si sono fatti confiscare da Letta e Quagliariello pure le riforme costituzionali; eppure questo menu, da che mondo è mondo, dovrebbe cucinarsi in Parlamento. Perché i cambiamenti della Carta toccano tutti, maggioranza e opposizione. E perché l’opposizione abita alle Camere, non a palazzo Chigi. Del resto l’inedia s’estende all’altra regola del gioco, la legge elettorale. Ci avevano promesso in mille lingue di correggerla, sono rimasti con la lingua penzoloni. E il rapporto di fiducia con l’esecutivo? Non serve un nuovo voto, dopo l’addio di Forza Italia? Sì, no, forse. Intanto la Camera vota a ranghi compatti la fiducia al ministro Cancellieri (405 in favore, 154 contro), mentre gli italiani ne invocano, altrettanto compatti, le immediate dimissioni (89 per cento, in base a un sondaggio del “Messaggero”). Ma il Parlamento ormai non parla con l’Italia. Né con i principali leader politici italiani (Renzi, Grillo, Berlusconi), che lì dentro non hanno diritto di parola, dato che non hanno neanche un seggio.

Domanda: e allora a che diavolo serve farsi eleggere? Risposta: serve a procurarsi una ricca busta paga, nonché l’indennità dagli arresti. Quanto meno alle nostre latitudini; ma sta di fatto che l’eclissi delle assemblee rappresentative è un fenomeno mondiale. Negli Usa il politologo Benjamin Barber propone di sostituirle con un congresso di sindaci (If Mayors Ruled the World, Yale University Press, 2013). In Francia Ségolène Royal, già nel 2006, evocò giurie di cittadini sorteggiati. In Islanda, nel 2011, hanno emendato la Costituzione aprendo una pagina su Facebook. Ovunque si moltiplicano esperienze di democrazia diretta, partecipativa, deliberativa. E in Italia? Tutti conservatori. Non hanno capito che non c’è rimasto nulla, proprio nulla, da conservare in frigorifero.

10 dicembre 2013 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/legge-e-liberta/2013/12/04/news/mille-anime-morte-vagano-per-roma-1.144290


Titolo: MICHELE AINIS. Abolire il Senato per riformare la Costituzione
Inserito da: Admin - Dicembre 28, 2013, 11:39:59 pm
Michele Ainis

Legge e Libertà
Abolire il Senato per riformare la Costituzione

Il bicameralismo ci ha dato in sorte una pletora di parlamentari che riempirebbe San Siro. Introdurre una sola Camera sembrerebbe essere l'unica soluzione praticabile per cambiare la nostra Carta. Ma serviranno altri contrappesi: più poteri al Capo dello Stato e il ricorso diretto alla Consulta delle minoranze
      
Riforme costituzionali? A parlarne, rischi una denuncia per maltrattamenti: chi ti ascolta finirà per slogarsi le mascelle a forza di sbadigli. Perché l'argomento non è fra i più eccitanti, e perché il chiacchiericcio dura da trent'anni, senza cavare un ragno dal buco. Meglio, molto meglio, concentrarsi sui temi dell'occupazione, della concorrenza, dei salari. C'è tuttavia un legame fra le nostre ingessate istituzioni e la camicia di gesso che blocca l'economia italiana. Quando il sistema si rivela incapace di produrre decisioni, quando è perennemente ostaggio dei veti incrociati, quando infine la voce del padrone ha il timbro rauco delle lobby, l'unica industria è quella dei favori. E infatti l'Italia, dal 2000 in poi, ha registrato la crescita più bassa del pianeta, se si eccettua Haiti.

Da qui l'urgenza di correre ai ripari. Sbarazzandosi in primo luogo di due Camere gemelle, che s'intralciano a vicenda. Il bicameralismo paritario ci ha donato in sorte un procedimento legislativo macchinoso, una pletora di parlamentari che riempirebbe la tribuna di San Siro, governi ballerini come Carla Fracci. Sicché, almeno in questo caso, l'accordo è trasversale. Però, attenzione: meglio nessuna riforma che una cattiva riforma. E d'altronde - come osservò Aristotele - se una Costituzione si può migliorare, significa che si può anche peggiorare. Eppure i nostri eroi promettono di riuscire nell'impresa.

Quale mai sarebbe la loro ricetta? A quanto pare, un bicameralismo differenziato, assegnando in esclusiva ai deputati il potere di vita e di morte sui governi, nonché l'officina delle leggi. E i senatori? Verificano, ispezionano, controllano, manco fossero altrettanti Sherlock Holmes. Richiamano in seconda lettura le leggi più importanti, quindi andranno in porto solo le leggi più insignificanti. Rappresentano i territori regionali, come se invece la Camera debba rappresentare Marte.

E in che modo varcano l'uscio del Senato?

Attraverso un'elezione a suffragio universale, secondo una corrente di pensiero; ma allora ci risiamo col doppione. Attraverso un seggio di diritto per governatori regionali e sindaci, secondo un'altra opinione; però il doppio mestiere riesci a farlo se la tua giornata è di 48 ore. E no, messa così diventa un pateracchio. In primo luogo perché questo colpo d'ingegno s'iscrive non tanto nell'ingegneria, quanto nell'archeologia costituzionale: la «Camera delle regioni» era un'idea di quarant'anni fa (Nicola Occhiocupo ci scrisse sopra un libro nel 1975). In secondo luogo perché il Senato diverrebbe - come pure è stato detto - non tanto una seconda Camera, quanto una Camera secondaria. E in terzo luogo, chi li convince i senatori a segarsi gli attributi? Eppure alla riforma servirebbe pur sempre il loro assenso, cozzando contro il paradosso illustrato nel 1932 da Fraenkel: quando il riformatore coincide con il riformato, nessuna riforma sbuca mai fuori dal cilindro.

La via d'uscita? Una sola Camera, e buonanotte ai suonatori, pardon, ai senatori. Ma buonanotte pure ai deputati, sicché nessuno ci rimette, nessuno ci guadagna. Politicamente, è l'unica soluzione praticabile. Giuridicamente, soddisfa quattro imperativi: rappresentare, decidere, semplificare, ridurre (il numero dei parlamentari). Una proposta di cui si discusse quest'estate in seno alla commissione governativa sulle riforme, e sulla quale due costituzionalisti (Ciarlo e Pitruzzella) hanno scritto un documento dettagliato.

Ma soprattutto un sistema ormai vigente in 39 Stati, e non soltanto in contrade esotiche e remote. Hanno un Parlamento monocamerale Paesi come la Svezia, la Scozia, l'Ucraina, il Portogallo, Israele, la Danimarca, la Grecia, la Norvegia. Certo, rinunziando a una Chambre de reflection serviranno altri contrappesi, per scongiurare i colpi di mano. Ma si può fare potenziando il ruolo del capo dello Stato, permettendo il ricorso diretto delle minoranze parlamentari alla Consulta, prescrivendo maggioranze qualificate per determinate leggi. Tutto si può fare, se c'è un grammo di buon senso. Ma in Italia - diceva Manzoni - il buon senso se ne sta ben nascosto, per paura del senso comune.

michele.ainis@uniroma3.it
27 dicembre 2013 © Riproduzione riservata
Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/legge-e-liberta/2013/12/27/news/abolire-il-senato-per-riformare-la-costituzione-1.147293


Titolo: MICHELE AINIS. Se tutto passa per le Camere Troppe leggi poche regole
Inserito da: Admin - Gennaio 11, 2014, 11:29:51 am
Se tutto passa per le Camere
Troppe leggi poche regole
Abbiamo in circolo leggi sui tosaerba, sulle camicie da notte, sulle galline, sui pedaggi stradali dei camionisti

La madre dei cretini è sempre incinta, diceva Flaiano. Anche la patria del diritto, però, farebbe bene a usare qualche pilloletta anticoncezionale. Perché le sue creature sono troppe, e ciascuna indossa l’ermellino di Sua Maestà la Legge. Abbiamo in circolo leggi sui tosaerba, sulle camicie da notte, sulle galline, sui pedaggi stradali dei camionisti. Il virus legiferatore ha contagiato pure i prosciutti, con tre leggi sul San Daniele (rispettivamente del 1970, del 1990, del 1999) e un’altra sul pignoramento dei prosciutti (vi si provvede «con l’apposizione sulla coscia di uno speciale contrassegno indelebile»: legge n. 401 del 1985).

Tuttavia non basta, non basta mai. E il parapiglia normativo che s’è scatenato attorno al decreto salva Roma ne è solo l’ultima esibizione: regole sulle lampade a incandescenza, sulle slot machine, sui chioschi in spiaggia, sulle sigarette elettroniche. Non regole qualunque, no: regole di legge. Quelle che Calderoli, nel 2010, finse di bruciare col suo lanciafiamme spento. Quelle che Bassanini, nel 1997, voleva eliminare attraverso un ampio processo di delegificazione, rimpiazzandole con altrettanti regolamenti. Senza curare il male alla radice, dato che il male è il troppo diritto che ci portiamo in groppa, e dato che per noi asinelli cambia poco se a spezzarci la schiena è una norma regolamentare anziché legislativa. Ma almeno i regolamenti sono flessibili, rapidi da approvare così come da abrogare. Se invece confezioni il prosciutto in una legge, per sconfezionarlo avrai bisogno del voto di mille parlamentari, della promulgazione del capo dello Stato, del visto di legittimità della Consulta.

Risultato: se il secondo millennio si è chiuso all’insegna della delegificazione, il terzo ha inaugurato l’epoca della rilegificazione. Magari con meno provvedimenti rispetto alla prima legificazione (negli anni Sessanta le Camere approvavano una legge al giorno, escluse le domeniche), tuttavia con provvedimenti più corposi, ciascuno gonfio come un panettone. E con una pletora di norme astruse, di ridondanze, di strafalcioni sintattici e giuridici. La qualità della nostra legislazione è peggiorata, come no. Anche la quantità, però: nel 1962 le 437 leggi decise in Parlamento sviluppavano 2 milioni di caratteri; nel 2012 le leggi sono state 101, ma i caratteri sono diventati 2,6 milioni.

Da qui un paradosso: l’Italia delle troppe leggi è un Paese senza legge. Perché nel diritto, così come nella vita, dal pieno nasce un vuoto. Se ti martellano troppe informazioni t’ubriachi, e alla fine resti senza informazioni. Se la legislazione forma una galassia, nessuna astronave potrà esplorarla per intero. E il cittadino sarà solo, ignaro dei propri poteri, alla mercé d’ogni sopruso. Succede quando nel diritto amministrativo tutto è legge, quando nel diritto penale tutto è processo. Sicché cresce la discrezionalità di giudici e burocrati: sono loro, soltanto loro, a scegliere la stella che brillerà davanti al tuo portone. Ma c’è una causa sistemica dietro l’esplosione del sistema. Difatti se la legge elettorale genera coalizioni ballerine, se in Parlamento i numeri sono risicati, ciascuno diventa indispensabile, e allora potrà imporre il proprio comandamento, pardon, emendamento. Se l’autobus legislativo fa troppe fermate tra Camera e Senato, finirà per imbarcare troppi viaggiatori, pardon, legislatori. Servono riforme, in conclusione. Altrimenti annegheremo tutti nell’oceano delle leggi.

30 dicembre 2013
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Michele Ainis

Da - http://www.corriere.it/editoriali/13_dicembre_30/troppe-leggi-poche-regole-29bafae4-711d-11e3-acd7-0679397fd92a.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. La legge elettorale Italicum: bene, con due dubbi
Inserito da: Admin - Gennaio 21, 2014, 05:59:53 pm
La legge elettorale
Italicum: bene, con due dubbi

C’è differenza tra un illusionista e un prestigiatore? Sì che c’è: il primo ti fa credere a una realtà che non esiste, il secondo rende invisibile la realtà visibile, quella che avresti sotto gli occhi, se non t’abbagliasse il trucco del prestigiatore. E che cos’è la nuova legge elettorale, un’illusione o un gioco di prestigio? Davvero Renzi ha tirato fuori dal cappello il coniglio che la politica cerca da tre legislature?

Per scoprirlo, non resta che guardare nel cappello. Fin qui ne avevamo osservato soltanto la réclame , con il sospetto che si trattasse di pubblicità ingannevole. Perché aleggiava la promessa d’azzerare i veto players , il potere d’interdizione dei piccoli partiti, ma con l’assenso dei piccoli partiti. Di non ripetere le malefatte del Porcellum , ripetendo tuttavia liste bloccate e premi inventati dal Porcellum . E infine una promessa di governi stabili; anche se per afferrare la Chimera non basta una buona legge elettorale, serve la riforma della Costituzione. Con due Camere gemelle però espresse da elettorati differenti, non ci riuscirebbe neppure mago Zurlì.

E allora interroghiamo il coniglietto su tre parole chiave, cominciando per l’appunto dalla domanda di governabilità. L’avrebbe forse saziata il sistema spagnolo, che non impedisce tuttavia la divisione della torta in tre fettone uguali, replicando il presente per tutti i secoli dei secoli. Ma l’Italicum va meglio, molto meglio. Un doppio turno «eventuale»: se prendi il 35% diventi maggioranza con il premio, altrimenti ballottaggio fra le due coalizioni più votate. Bravo il prestigiatore, bene, bis. Sia per essere riuscito a ipnotizzare Berlusconi, che del doppio turno non ne voleva sapere. Sia per la soglia di sbarramento (5%), un antidoto contro la frantumazione della squadra di governo. Sia perché al ballottaggio il premio te lo mettono in tasca gli elettori, non la legge.

Secondo: la rappresentatività del Parlamento. È il punto su cui batte e ribatte la Consulta, nella sentenza con cui ha arrostito il Porcellum . Significa che i congegni elettorali non possono causare effetti troppo distorsivi rispetto alle scelte dei votanti, come accadeva con un premio di maggioranza senza soglia. E il premio brevettato da Renzi? 18%, mica poco: fanno quattro volte i seggi della Lega, recati in dono a chi vince la lotteria delle elezioni. Crepi l’avarizia, ma in questo caso rischia di crepare pure la giustizia.

Terzo: la sovranità. Spetta al popolo votante, non certo al popolo votato. Da qui l’incostituzionalità delle pluricandidature, dove il plurieletto decideva l’eletto; ma su questo punto Renzi tace, e speriamo che non sia un silenzio-assenso. Da qui, soprattutto, l’incostituzionalità delle liste bloccate. Tuttavia la Consulta ha acceso il verde del semaforo quando i bloccati siano pochi, rendendosi così riconoscibili davanti agli elettori. Quanto pochi? Secondo la scuola pitagorica il numero perfetto è 3; qui invece sono quasi il doppio. Un po’ troppi per fissarne a mente i connotati.

C’è infatti un confine, una frontiera impercettibile, dove la quantità diventa qualità. Vale per il premio di maggioranza, perché il 40% dei consensi sarebbe di gran lunga più accettabile rispetto al 35%. E vale per le liste bloccate, che si sbloccherebbero aumentando i 120 collegi elettorali. In caso contrario, il prestigiatore rischia di trasformarsi in un illusionista. Ma gli sarà difficile illudere di nuovo la Consulta, oltre che gli italiani.

21 gennaio 2014
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Michele Ainis

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_gennaio_21/bene-due-dubbi-16b1841e-8265-11e3-9102-882f8e7f5a8c.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Al Gran Ballo dei supplenti
Inserito da: Admin - Gennaio 24, 2014, 05:52:07 pm
Michele Ainis
Legge e Libertà

Al Gran Ballo dei supplenti

La sovrapposizione di ruoli e competenze è il morbo endemico delle istituzioni. Renzi fa quello che dovrebbe fare Letta, Napolitano forza i partiti, la Consulta sostituisce il parlamento. E anche i cittadini propongono leggi
   
C’è un doppio autista alla guida del nostro taxi collettivo, e ciascuno stringe un volante fra le dita. Da un lato Enrico Letta, il pilota ufficiale, con la sua divisa blu. Dall’altro Matteo Renzi, il pilota da Formula 1, con il piede sull’acceleratore. Il guaio è che non sempre i conducenti eseguono la medesima manovra, sicché il taxi va a zigzag. E quando va bene, ci costringono a ripetere due volte la gita, sprecando tempo e benzina. È successo, per esempio, il 7 gennaio: Letta incontra a Roma la Giannini, segretaria di Scelta civica, per discutere il contratto di coalizione; nelle stesse ore Renzi incontra a Firenze Mario Monti, fondatore del partito, per trattare l’identica questione.

SITUAZIONE INEDITA? Non troppo. Magari ormai non ci facciamo caso, però la sovrapposizione dei ruoli e delle competenze è il morbo endemico delle nostre istituzioni. Nessuno fa il proprio lavoro, tutti s’incapricciano del lavoro altrui. E c’è una parola magica, anzi no, stregata, per descrivere questa malattia: supplenza. Napolitano viene accusato a giorni alterni d’aver inaugurato una monarchia repubblicana, benché nel suo caso l’accusa suoni ingenerosa. È innegabile però che in varie circostanze il presidente, per scongiurare guai peggiori, abbia forzato lo stallo dei partiti. Si chiama horror vacui, terrore del vuoto, e funziona in natura così come nelle istituzioni: se ciascuno lascia libera la poltrona su cui stava seduto, qualcun altro vi poserà le chiappe.

E infatti, chi ha cambiato la legge elettorale? La Consulta, benché non sarebbe il suo mestiere; colpa tuttavia del Parlamento, che non è riuscito a sbarazzarsi del Porcellum. E le leggi, chi le scrive? Spetterebbe, di nuovo, al Parlamento; è diventata viceversa la prima occupazione del governo, attraverso un’alluvione di decreti legge, di maxiemendamenti, di leggi delegate. E chi decide la carriera dei politici? Dovrebbe toccare agli elettori; ma da Tangentopoli in avanti sono i giudici, i loro giustizieri. E il carico fiscale? Qui è più facile: ogni decisione ricade sul ministro dell’Economia. Mica vero, come dimostra il pasticcio sugli scatti d’anzianità per gli insegnanti (150 euro al mese da restituire): baruffa tra Carrozza e Saccomanni, poi si scopre che ne erano entrambi inconsapevoli, avendo stabilito tutto i loro uffici. Cerchi il ministro, trovi il burocrate.
Sarà per questo, sarà per via del balletto che hanno messo in scena le nostre istituzioni, che adesso a ogni italiano è venuta voglia di ballare. Indossando i panni di Licurgo, il grande legislatore. O di Napoleone, il grande governatore. Sta di fatto che sono 27 le proposte di legge popolare all’esame delle Camere, anche se fin qui loro ne hanno discusse appena tre, ovviamente senza mai deciderle. C’è dentro un intero programma di governo: idee sul reddito minimo, le servitù militari, l’eutanasia, il diritto allo studio, le fonti rinnovabili, l’immigrazione, il lavoro, la giustizia, la legge elettorale, Equitalia, le pensioni, i costi della politica. Una pioggerellina normativa che rimbalza sull’ombrello dei parlamentari, anche se in futuro potrà forse riuscire a perforarlo: è alle viste una riforma del regolamento della Camera, che renderebbe obbligatoria la trattazione delle iniziative popolari.

NEL FRATTEMPO ciascuno s’arrangia come può. Chi è il premier, Letta o Renzi? E chi è più grillino, Grillo o Berlusconi? Al sodo: con chi dobbiamo prendercela quando succede (e succede) che le cose vanno storte? Con il governo? Con il partito? Con lo Stato oppure con la Regione? Vattelappesca. Giacché l’unica regola osservata in questo Paese senza regole è che il “supplito” non accetta di buon grado le incursioni del supplente. No: s’oppone, strepita, protesta. Soltanto nell’ultimo mese (dicembre 2013) sono stati sei i conflitti d’attribuzione decisi dalla Consulta. «C’è grande confusione sotto i cieli: eccellente situazione», diceva il presidente Mao. In Cina, forse, sotto il comando delle Guardie rosse. Ma qui in Italia, per orientare il traffico, dovremmo mettere al governo un vigile urbano.

michele.ainis@uniroma3.it
21 gennaio 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/legge-e-liberta/2014/01/15/news/al-gran-ballo-dei-supplenti-1.148795


Titolo: MICHELE AINIS. LE REGOLE PER CHI FA (MALE) LE NORME La fabbrica più antiquata
Inserito da: Admin - Gennaio 28, 2014, 05:59:22 pm
LE REGOLE PER CHI FA (MALE) LE NORME

La fabbrica più antiquata

Cambiare la legge elettorale, cambiare la Costituzione. Puntiamo sui due lati di quest’angolo per uscire dall’angolo. Errore: ci salverà solo un triangolo, dove il terzo lato conta quanto e più degli altri due. Se il Parlamento è incapace di decidere; se decide (ahimè, molto di rado) con la velocità d’un treno a vapore; se ogni scelta rimane ostaggio dei veti incrociati; se infine le assemblee legislative non timbrano più una legge che sia una; allora è da lì che bisogna cominciare, dai regolamenti parlamentari. Anche se quest’argomento è scivolato sotto un cono d’ombra, anche se suona assai meno eccitante dei premi di maggioranza, delle soglie d’accesso, delle liste bloccate.

Ma adesso c’è una buona nuova: la riforma sta prendendo forma. Non al Senato, dove la bozza Quagliariello-Zanda non è mai sbucata dal suo bozzolo, restando nei cassetti della legislatura scorsa. Alla Camera, e per impulso della presidente Boldrini. La Giunta ci ha lavorato per sei mesi, macinando articoli a decine. E con un accordo corale, sopravvissuto alla stagione delle larghe intese. L’unica voce dissenziente s’è levata dal Movimento 5 Stelle, annunciando che la nuova normativa uccide il Parlamento. Una notizia fortemente esagerata, come disse Mark Twain leggendo il proprio necrologio sul New York Journal .

Perché c’è bisogno d’un regolamento al passo del terzo millennio? Intanto per la sua data di battesimo: 1971, quando Enrico Letta frequentava l’asilo, quando Matteo Renzi non era ancora nato. L’ultimo aggiornamento risale al 1997, e sono trascorse 5 legislature. Ce n’è bisogno perché quel testo prescrive la votazione con le palline bianche e nere, mentre nel frattempo siamo entrati nell’era digitale. Perché contempla la diretta televisiva sui dibattiti, non lo streaming via web. Ma soprattutto c’è bisogno d’ammodernamenti per sveltire l’iter legis . Per rendere più incisivo il sindacato ispettivo sul governo. Per sottoporre a un’audizione pubblica chi si candida a una poltrona pubblica. Per rafforzare le leggi popolari, insieme alla trasparenza dei lavori. Per garantire l’esame delle iniziative normative formulate dalle minoranze. Per mettere al bando le leggi scritte in ostrogoto. Per connettere il nostro Parlamento al Parlamento dell’Europa.

Su tutte queste deficienze il progetto di riforma procura un’iniezione d’efficienza. E tuttavia non basta. Se la fabbrica legislativa è diventata improduttiva, non basta cambiare turno agli operai: occorre sostituire la catena di montaggio. Da qui una doppia proposta.

La Costituzione (art. 72) stabilisce che i disegni di legge vengano istruiti in commissione, dopo di che piombano nella bolgia dell’Aula. Ma aggiunge che il procedimento può ben concludersi nella stessa commissione, salvo che per le leggi più importanti. Finora è stata interpretata come un’eccezione, ma si può invece convertire in regola. A condizione che le 14 commissioni della Camera divengano all’incirca la metà, raddoppiando i propri componenti (da 40 a 80). E offrendo quindi al loro interno un’ampia garanzia di partecipazione, oltre che un ampio risparmio di quattrini. Se poi le minoranze (o il governo) chiedono la rimessione all’Aula, tempi contingentati, voto certo.

Due: per compensare le minoranze rispetto alla perdita del loro potere d’interdizione, facciamo come in Inghilterra, dove c’è un governo ombra, dove il leader del principale gruppo d’opposizione riceve perfino uno stipendio dallo Stato. Insomma maggioranza più forte, opposizione più forte. Non è un ossimoro, ci si può riuscire.

28 gennaio 2014
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Michele Ainis

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_gennaio_28/fabbrica-piu-antiquata-55b6aa1e-87e1-11e3-bbc9-00f424b3d399.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Paradossi da legge elettorale
Inserito da: Admin - Febbraio 11, 2014, 05:19:32 pm
Michele Ainis
Opinioni

Paradossi da legge elettorale
Ci sono almeno cinque stranezze nel progetto Renzi.Quella più assurda? Si rischia di finire con due semifinali: tra Pd e grillini alla Camera (dove l’elettorato è più giovane) e tra Pd e Forza Italia al Senato. La finale? In manicomio
   

Vai all’osso, e trovi il paradosso. È la regola non scritta della politica italiana, l’unica costantemente rispettata. Idee, proposte, innovazioni: magari rivestite di buon senso, poi ci guardi dentro e ti trafigge il nonsense. Poteva fare eccezione la legge elettorale? Intendiamoci: quella congegnata da Renzi è una buona soluzione, perché tende a riappacificare due nemici, rappresentanza e governabilità. Ma s’inserisce in un sistema che è diventato un manicomio, e in manicomio c’entri savio, ne esci pazzo. Più che un leader, servirebbe uno psichiatra.

È il caso, anzitutto, del sistema dei partiti. Il doppio turno è sempre stato doppiamente inviso alla destra, giacché a quanto pare i suoi elettori sono pigri, nessuno li convincerà mai a votare per due volte di fila. In compenso rappresenta la ricetta storica della sinistra: D’Alema lo prospettava già nel 1997, e poi a seguire Fassino nel 2002, Veltroni nel 2008, Bersani nel 2011. Adesso lo propone Renzi, sicché il rottamatore è in continuità con i suoi illustri rottamati. Risultato? Fuoco di sbarramento dal Pd, un abbraccio da Silvio Berlusconi.

A lui, però, conviene mettere una mina sotto i tacchi di Letta, e qui allora si profila il secondo paradosso. Perché la legge elettorale, insieme alla riforma del bicameralismo, allunga la vita del governo, ma al contempo rompe la coalizione di governo. Da un lato, regala un po’ d’ossigeno all’esecutivo, gli restituisce un orizzonte temporale (almeno un anno per correggere anche la Costituzione); dall’altro lato, uccide in culla i piccoli partiti (e infatti Scelta civica si è immediatamente dissociata), che magari reagiranno aprendo una crisi di governo. Dunque l’esecutivo è vivo, dunque l’esecutivo è morto.

E c’è poi il sistema delle regole, dove il paradosso s’annida in ogni comma. A partire dalla soglia di sbarramento: 5 per cento, altrimenti nessun seggio. Ma se poi la coalizione ottiene il 35 per cento, premio di maggioranza al 53 per cento. Qui entrano in campo i numeri, e sono numeri impazziti. Poniamo che il Pd confermi l’alleanza con Sel; poniamo ancora che il Pd guadagni il 32 per cento, Sel il 3 per il cento; quest’ultimo partito risulterà determinante per il successo elettorale, senza incassare tuttavia nemmeno un deputato. Oppure immaginiamo una coalizione affollata come un tram: 7 liste. La prima tocca l’11 per cento, tutte le altre si fermano al 4 per cento; e fa di nuovo 35 per cento, quindi il 53 per cento dei seggi in Parlamento. Col risultato che il premio moltiplica per 5 i voti della prima lista, ed è un premio del 42 per cento: tombola! O infine, dato che la fantasia non è mai troppa, dato che in Italia la realtà politica supera spesso la fantasia giuridica, supponiamo che le liste coalizzate siano una decina, quante ne imbarcò nel 2006 l’Unione di Romano Prodi. Supponiamo inoltre che la loro somma raggiunga il 40 per cento dei consensi, senza che nessuna lista valichi la vetta del 5 per cento: zero seggi per la coalizione più votata, il premio si trasforma in un castigo.

Quarto paradosso: la questione femminile. Su cui il progetto Renzi detta una linea radicale, tanto da fare invidia agli svedesi: 50 e 50, per ogni pantalone una gonnella. Difatti le liste non possono ospitare più di due candidati consecutivi dello stesso sesso. Ma dove si nasconde il paradosso? Nella possibilità che il nuovo Parlamento risulti viceversa il più maschile della storia. Basta collocare gli uomini nelle prime due posizioni, le donne in terza e quarta fila; dopo di che, siccome ogni collegio esprimerà 5 o 6 deputati, siccome le liste migliori al massimo potranno conquistarne un paio, le quote rosa diventeranno nere. Dalla Svezia all’Arabia saudita.

Ma il paradosso più paradossale è il quinto, perché il doppio turno serve a comprare un governo chiavi in mano, e perché il bicameralismo sequestra le chiavi. Al Senato, difatti, non votano i pischelli (dai 18 ai 25 anni); alla Camera sì. E se il voto giovanile si riversasse in massa sui grillini? Potrebbero uscirne due semifinali: alla Camera, fra Pd e M5S; al Senato, fra Pd e Forza Italia. E la finale? In manicomio.

michele.ainis@uniroma3.it
04 febbraio 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/2014/01/29/news/paradossi-da-legge-elettorale-1.150429


Titolo: MICHELE AINIS. Troppi decreti poche decisioni Nuove regole o sarà paralisi
Inserito da: Admin - Marzo 01, 2014, 07:48:56 pm
EDITORIALE

Troppi decreti poche decisioni Nuove regole o sarà paralisi

Il decisionista, in Italia, è sempre un decretista. Detta legge per decreto, sicché ci inonda di decreti legge. Ne fu campione Berlusconi, con 80 decreti nei suoi 42 mesi di governo; e certamente Renzi non sarà da meno. Non a caso ha evitato di replicare l’incauta promessa del suo predecessore. Quando ottenne la fiducia, Enrico Letta dichiarò che avrebbe riesumato la centralità del Parlamento, e dunque della legge, in luogo del decreto; invece ha fatto le valigie per una crisi extraparlamentare, dopo aver firmato 25 decreti in 10 mesi. La sua colpa? L’avarizia: ne ha scritti troppo pochi. E infatti la prima decisione del gabinetto Renzi veste i panni del decreto, quello adottato ieri per scongiurare il default della Capitale.

Proprio il salva Roma, tuttavia, ci impartisce una lezione. Siamo al terzo colpo di fucile: gli altri due hanno sparato a vuoto. Prima per le critiche di Napolitano rispetto a un decreto che era diventato un fritto misto; poi per l’ostruzionismo di Lega e M5S. Perciò in entrambi i casi il governo ha battuto in ritirata, mentre i suoi decreti svanivano come bolle di sapone. Qui difatti casca l’asino, anzi il decreto. Perché ogni decreto va convertito in legge dalle Camere entro 60 giorni, e perché ogni conversione si traduce in una perversione del decreto, sfigurandone l’aspetto originario. Quando va bene, quando non succeda viceversa che il tempo scada invano. E succederà sempre più spesso, dato che il Parlamento non ha tempo. Per dirne una, il messaggio alle Camere di Napolitano - trasmesso l’8 ottobre - verrà discusso il 4 marzo: 5 mesi d’attesa, quanto ci tocca pazientare per una visita in un ambulatorio Asl.

Da qui un paradosso: l’eccesso di decisioni paralizza qualsiasi decisione. Se i decreti sono troppi s’intralciano a vicenda, intasano le assemblee parlamentari, rendono l’ostruzionismo un’arma vincente. Ma senza decreti non si decide, e perciò non si governa. Possiamo salvarci da questo paradosso senza romperci l’osso? Sì, possiamo: con una corsia preferenziale sulle iniziative legislative del governo. Insomma leggi, non decreti. Per restituire al sistema qualche grammo d’efficienza, per restaurare la perduta autorità del Parlamento. Ma a questo scopo urge una riforma: quella dei regolamenti parlamentari. La Camera ci ha già messo mano, la presidente Boldrini ci ha messo la faccia. Dopo 7 mesi di lavoro della Giunta, la riforma sta per approdare in Aula; e speriamo che non faccia la stessa fine dei decreti.

D’altronde non c’è solo da sveltire l’iter legis ; c’è altresì da riannodare il filo spezzato fra noi e loro, fra popolo votante e popolo votato. In vista di quest’obiettivo, correggere i regolamenti non è meno importante che correggere la Costituzione o la legge elettorale. Due soli esempi. Primo: il trasformismo. C’erano 6 gruppi parlamentari alla Camera; in meno d’un anno sono diventati 8, con una girandola di scissioni e ricomposizioni. Vietiamo la girandola, avremo qualche capogiro in meno. Secondo: le leggi popolari. Fin qui ne sono state presentate 27, ma laggiù nessuno se le fila. Frustrante, anzi incavolante. Il nuovo regolamento ci metterà una pezza, e sarebbe pure l’ora. Nel frattempo è l’ora di Renzi, della sua avventura di governo. Ma senza la riforma dei regolamenti, rischia di concludersi con un déjà vu : «Non mi hanno fatto governare». Almeno questa no, l’abbiamo già sentita. E siamo già abbastanza risentiti.

01 marzo 2014
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Michele Ainis

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_marzo_01/troppi-decreti-poche-decisioni-d34da39a-a110-11e3-b365-272f64db5437.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Italicum solo alla Camera? Incostituzionale e folle
Inserito da: Admin - Marzo 05, 2014, 06:15:23 pm
Sei in: Il Fatto Quotidiano > Politica & Palazzo >

Legge elettorale, Ainis: “Italicum solo alla Camera? Incostituzionale e folle”
Il costituzionalista: "Si possono avere sistemi diversi di voto, ma in questo caso avremmo due modelli del tutto incongruenti.
Metteremmo una Camera contro l'altra: è irragionevole"

di Redazione Il Fatto Quotidiano
4 marzo 2014

Incostituzionale e un poco folle. E’ il giudizio che dà dell’operazione sull’Italicum Michele Ainis, il costituzionalista del Corriere della Sera (e ritenuto vicino al Colle), intervistato dall’agenzia Ansa. Incostituzionale “non perché non si possano avere sistemi diversi di voto per Camera e Senato, ma perché in questo caso avremmo due modelli del tutto incongruenti tra loro, col risultato di mettere una Camera contro l’altra. Questo è irragionevole. E quindi, incostituzionale. L’unica via costituzionalmente corretta per uscirne, secondo me, è scrivere la legge elettorale e poi se il Senato verrà abolito, cadrà anche la parte di legge che lo riguardava”.

“In questa vicenda – osserva il giurista – c’è un problema politico che stanno trasformando in un danno giuridico. E, per dirla tutta, sembra di stare in una gabbia di matti. La filosofia che stanno seguendo è quella del ‘fare come se’. Fare come se il Senato non esistesse. Ma il Senato esiste, così come esiste un sistema bicamerale, con due Camere che danno la fiducia ai governi e timbrano le leggi. Un esempio, per capire. Agli inizi degli anni Novanta si fece una legge elettorale che stabiliva delle quote per cui nessuno dei due sessi poteva essere rappresentato in misura inferiore a un terzo. La Consulta la annullò, perché l’articolo 51 della Costituzione originario non prevedeva il principio delle pari opportunità. Questo principio fu poi introdotto e l’articolo 51 riscritto, dando spazio alle pari opportunità, e ora la legge può stabilire le quote. La strada che si sta seguendo in questo caso è simile: in sostanza, si precorre una riforma costituzionale con una legge ordinaria e così facendo la legge ordinaria rischia di essere illegittima rispetto alla Costituzione vigente”. Cioè, si precorre l’abolizione del Senato senza prevedere una riforma della legge elettorale per la scelta dei senatori, lasciando in vita per questo ramo del parlamento il Consultellum, la legge proporzionale uscita dalla Consulta; e nel contempo si emana solo per la Camera una norma a rischio impugnazione.

“Le due Camere – spiega Ainis – possono avere sistemi elettorali diversi purché ispirati alla stessa logica. Si può decidere, per esempio, in base a un sistema maggioritario, di perseguire il fine della governabilità con il premio di maggioranza alla Camera e con i collegi uninominali al Senato. Ma non si possono mettere le Camere l’una contro l’altra, sennò il risultato è irragionevole e quindi incostituzionale. La ragionevolezza è data da due principi: rappresentanza e governabilità. Il primo spingerebbe verso un parlamento in cui tutti, anche i più piccoli, devono avere un posto al sole. Il secondo, va in direzione opposta. Questi principi devono essere bilanciati: si può fare un sacrificio della rappresentanza, ha detto la Consulta, purché sia parziale, non assoluto e in cambio dia governabilità. L’emendamento Lauricella-D’Attorre, invece, sacrifica la rappresentanza col rischio di produrre un sistema maggioritario alla Camera non omogeneo con quello del Senato, senza ottenere la governabilità. E questo è incostituzionale e, mi pare, anche un poco folle“.

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/03/04/legge-elettorale-ainis-italicum-solo-alla-camera-incostituzionale-e-folle/902558/


Titolo: MICHELE AINIS. Presidente Matteo Renzi, di' qualcosa di sinistra
Inserito da: Admin - Marzo 10, 2014, 12:21:27 pm
Michele Ainis

Legge e Libertà
Presidente Matteo Renzi, di' qualcosa di sinistra

Il presidente del Consiglio ha indicato quattro emergenze: lavoro, tasse, burocrazia e giustizia. Ce n’è una quinta, l’eguaglianza. Ecco tre proposte per raggiungerla. Che arrivano da altre sponde politiche. Mentre il Pd le osteggia

Lavoro, tasse, burocrazia, giustizia. Sono le quattro emergenze che Renzi ha promesso d’affrontare nei suoi primi quattro mesi di governo. Ma c’è una quinta emergenza sullo sfondo, c’è un male che comprende tutti gli altri mali, tanto da profilarsi come la più grande questione nazionale: l’eguaglianza. O meglio la diseguaglianza, la divaricazione inaccettabile fra gli ultimi e i primi della fila. Nelle retribuzioni così come nel trattamento fiscale, dinanzi alle vessazioni burocratiche così come rispetto ai disservizi giudiziari, perché con 130 mila processi che si prescrivono ogni anno (vedi il numero scorso de “l’Espresso”) il disservizio diventa un salvagente per i ricchi, per quanti possono pagare un avvocato che sappia tirarla per le lunghe.

I dati, del resto, suonano eloquenti. La Banca d’Italia attesta che il 10 per cento delle famiglie italiane possiede quasi la metà (46,6 per cento) della ricchezza nazionale. L’Istat aggiunge che una famiglia su 4 versa in condizioni di disagio. Negli ultimi vent’anni il reddito dei giovani è sceso di 15 punti percentuali, quello degli anziani è salito di 8 punti. La crisi economica ha falcidiato posti di lavoro soprattutto fra le donne, i cui stipendi rimangono peraltro più bassi dell’11,5 per cento rispetto agli uomini. Dal Nord al Sud si rovescia la qualità dell’istruzione, della sanità, perfino dell’acqua potabile. E in conclusione il divario fra i redditi aumenta senza sosta: negli anni Novanta era di 8 a 1, adesso è 10 a 1.

Questa sproporzione è un danno per l’economia, perché se i poveri diventano troppi crollano i consumi. È un rischio per la democrazia, perché non c’è democrazia senza ceto medio: c’è solo l’America latina, con le favelas da una parte e le ville blindate dall’altra. Ma è soprattutto una ferita al senso di giustizia. Da qui un problema che tocca la sinistra, dunque il Pd, dunque Matteo Renzi. Ma in Italia la sinistra è ancora di sinistra? Stando alle categorie di Bobbio, l’eguaglianza dovrebbe custodirne l’ideale, mentre la destra ha per valore di riferimento la libertà. Adesso, viceversa, proposte e soluzioni vengono da altre sponde, e il Pd le osteggia. Ecco tre esempi.

PRIMO: le gabbie salariali. Cancellate nel 1969, rilanciate nel 2009 dalla Lega. Niet da sinistra e sindacati, perché s’indebolirebbe la coesione nazionale. Come se gli Usa, dove il salario minimo cambia da Stato a Stato, fossero un Paese disunito. Ma se un carciofo a Catanzaro costa la metà che a Milano, perché un postino dovrebbe ricevere il medesimo stipendio? Senza dire che il redditometro, varato nel 2013, adotta già le gabbie. E senza contare i benefici che potrebbe trarne il Mezzogiorno: attraendo investimenti per il minore costo del lavoro, e frenando perciò l’emigrazione. Insomma, parliamone.

SECONDO: il reddito di cittadinanza. Cavalcato dai grillini, nel silenzio dei sinistrini. Perché? Non è forse vero che la sopravvivenza andrebbe garantita a tutti, non solo a chi lavora? E non è vero che l’Italia rimane l’unico Stato europeo (insieme alla Croazia) che non contempla una forma di sussidio universale? Poi, certo, c’è sussidio e sussidio: in Europa i modelli sono molto variegati, come ha documentato «L’Espresso» il mese scorso. E d’altra parte la soluzione che propone il M5S prescinderebbe dalla situazione economica individuale; funziona così solo in Alaska, dove c’è il petrolio e dove la popolazione è scarsa. Però, ancora una volta, parliamone.

TERZO: gli ordini professionali. Lascito imperituro del fascismo (la legge istitutiva è del 1938), con un volume d’affari che vale il 15 per cento del Pil, e con un patrimonio complessivo di 50 miliardi. Formano un tappo sulla libertà di concorrenza, oltre che una diga per i giovani. Ma non per tutti i giovani: per quelli senza un babbo iscritto all’ordine. Sicché in Italia il 44 per cento degli architetti è figlio d’architetti, il 42 degli avvocati genera figli avvocati, così come il 39 dei medici o degli ingegneri. Sennonché gli unici a reclamarne la chiusura sono i radicali, i liberisti alla Giannino, associazioni liberali come l’Istituto Bruno Leoni. Non invece la sinistra. Ma che sinistra è?
04 marzo 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/legge-e-liberta/2014/02/26/news/presidente-di-qualcosa-di-sinistra-1.155031


Titolo: MICHELE AINIS. Come ti fermo il deputato mobile
Inserito da: Admin - Marzo 21, 2014, 11:51:04 pm
Michele Ainis
Legge e Libertà

Come ti fermo il deputato mobile
Dall’inizio della legislatura hanno cambiato casacca 135 parlamentari. Al Senato e alla Camera ogni giorno nascono nuovi gruppi.
Due proposte per mettere un argine al trasformismo e tornare al rispetto degli elettori
   

Quest’anno le Idi di marzo sono giunte in anticipo, come la primavera. All’inizio del mese il Movimento 5 Stelle si è sbarazzato di altri 5 senatori; stavolta non con i pugnali che ferirono a morte Giulio Cesare, bensì con una scomunica sul blog di Beppe Grillo. Sta di fatto che nella pattuglia grillina del Senato, dall’avvio della legislatura, gli espulsi sono ormai 13 su 54. Ma c’è anche chi s’espelle da solo, ottenendo in cambio un bouquet di rose, anziché una pugnalata. È il caso di Gabriele Albertini, ex sindaco di Milano: in un anno è passato dal Pdl di Berlusconi a Scelta civica di Monti, da Scelta civica ai Popolari di Mauro, dai Popolari al Nuovo Centrodestra di Alfano. Sempre accolto come un figliol prodigo dai suoi tanti papà.

Sicché va in scena la Grande Transumanza: in 11 mesi hanno cambiato gruppo 135 parlamentari (70 a Palazzo Madama, dunque un quarto rispetto alla composizione del Senato). Altri sono rimasti fedeli al proprio partito, ma non al proprio generale; ne sa qualcosa Bersani, il cui esercito si è trasformato in un manipolo di sopravvissuti.

Nel frattempo i due governi della XVII legislatura - prima Letta, poi Renzi - si reggono sui transfughi, ovvero sulla diaspora del Pdl. Grande scissione fra Berlusconi e Alfano, ma la politica sperimenta pure la scissione dell’atomo: Udc e Popolari, dopo la separazione da Scelta civica, stanno per separarsi da se stessi. Risultato? Aumentano i gruppi parlamentari, con due new entry sia al Senato che alla Camera. S’ingrassa il gruppo misto, che a Montecitorio si divide in 4 componenti. Senza dire degli ex grillini, anch’essi in procinto di formare un gruppo autonomo. E in conclusione la geografia parlamentare è come quella dell’Europa durante le guerre napoleoniche: muta ogni settimana.

C’è una vittima, però, di queste manovre militari: l’elettore. Tu voti Scilipoti in odio a Berlusconi, te lo ritrovi abbracciato a Berlusconi. Sicché ti rimbomba nelle orecchie il verso di Carducci: «Trasformismo, brutta parola a cosa più brutta. Trasformarsi da sinistri a destri senza però diventare destri e non però rimanendo sinistri». Dice: ma c’è l’art. 67 della Costituzione, che protegge la libertà dei parlamentari. Anche la libertà degli elettori, tuttavia, meriterebbe qualche protezione. Si può ottenere correggendo i regolamenti delle Camere, attraverso due soluzioni alternative.

Primo, l'intervento minimale. Niente deroghe per costituire un gruppo autonomo, rispetto ai numeri prestabiliti (20 deputati o 10 senatori). In questa legislatura ne beneficia Fratelli d’Italia, che ha eletto 9 deputati; in passato è accaduto anche di peggio. Il 17 marzo 2006 l’Ufficio di presidenza della Camera concesse 5 deroghe per altrettanti gruppi, compreso quello capitanato da Rotondi, dove i commensali erano soltanto 6. Insomma, maxideroghe per i microgruppi, basta che questi ultimi dimostrino di rappresentare «un partito organizzato nel Paese». No, il partito dev’essere votato, non organizzato; anche perché altrimenti si disorganizza il Parlamento, trasformandolo in un suq dove gli ambulanti vendono le merci più svariate, e per lo più avariate.

Secondo, l’intervento massimale. Niente gruppi parlamentari in corso di legislatura, anche se ne avesserero i numeri. Non conta il regolamento, conta il voto. E il voto scatta una fotografia degli elettori così come degli eletti, ciascuno con la sua divisa, e senza il guardaroba di cui era provvisto Fregoli. Poi, certo, nei cinque anni d’una legislatura la politica va avanti, al pari della vita. Ma allora potremmo siglare un compromesso: ok ai nuovi gruppi, purché siano d’accordo gli elettori, oltre che gli eletti. Come appurarlo? Con una consultazione online, con un referendum, con un successo del neopartito alle regionali o alle europee, con una petizione popolare. Insomma fate voi, ma non fate senza di noi.

michele.ainis@uniroma3.it
18 marzo 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/legge-e-liberta/2014/03/12/news/come-ti-fermo-il-deputato-mobile-1.156869


Titolo: MICHELE AINIS. IL NUOVO SENATO E LE FUNZIONI DI GARANZIA ...
Inserito da: Admin - Aprile 08, 2014, 04:23:38 pm
IL NUOVO SENATO E LE FUNZIONI DI GARANZIA

I virtuosismi che non servono

Di Michele Ainis

La nave delle riforme veleggia in mare aperto. Ma il Capo delle Tempeste è al largo del Senato, dove soffiano venti da destra e da sinistra. Da un lato, l’altolà di Forza Italia: meglio abolirlo che farne un ente inutile. Dall’altro, lo stop dei professori: attenti alla deriva autoritaria. Può darsi che queste riserve siano figlie dei calcoli politici, degli egoismi di parte o di partito. Non sarebbe il primo caso. Tuttavia chi tratta gli argomenti altrui partendo dalla malafede del proprio interlocutore, dimostra d’essere a sua volta in malafede. E anche questo è ormai un vizio nazionale.

Domanda: c’è modo di rispettare le obiezioni senza sfregiare le intenzioni? Quelle del governo, ma altresì degli italiani, che non ne possono più di veti incrociati. E c’è modo di tradurre le riserve in una riserva di consensi, senza abbattere i quattro paletti issati da Renzi? Nell’ordine: no alla fiducia, no al voto sul bilancio, no all’elezione diretta, no all’indennità dei senatori. Risposta: gli strumenti esistono, se i musicisti avranno voglia di suonarli. Se per una volta eseguiranno il medesimo spartito, smentendo l’apologo filmato nel 1979 da Fellini (Prova d’orchestra). E se ciascuno saprà ascoltare le note degli altri orchestrali, senza eccedere in virtuosismi da solista.

Ecco, l’ascolto. Non è vero che il nuovo Senato sia poco più d’un soprammobile, come sostiene Forza Italia. È vero tuttavia che fin qui rimane povero di competenze e di funzioni. Partecipa al processo normativo dell’Unione Europea, valuta l’impatto delle politiche pubbliche sul territorio. E vota le leggi costituzionali, soltanto quelle. Sulle altre conserva unicamente i poteri della suocera: consiglia, rimbrotta, sermoneggia. Al contempo perde la titolarità del rapporto fiduciario, e perde quindi il sindacato ispettivo sul governo. Curioso: questa riforma abolisce il Cnel, organo consultivo mai consultato da nessuno; però rischia di sostituirlo con un Senato di superconsulenti.

E la minaccia autoritaria, evocata sulla sponda sinistra del fiume? Esagerata anch’essa. Dopotutto, non c’è alcun intervento sui poteri del premier, che resta un primus inter pares rispetto ai ministri. E se con una mano l’esecutivo incassa il voto a data fissa sui propri disegni di legge, con l’altra rinunzia al dominio illimitato sui decreti legge. È vero, però, che il bicameralismo paritario offre una garanzia, nel bene e nel male. Anche se l’eccesso di garanzie uccide il garantito. Ma quante leggi scellerate avremmo avuto in circolo senza il disco rosso del Senato? A una garanzia in meno, pertanto, ne va affiancata una di più. Da Pericle in poi, la democrazia funziona in questo modo.

La via d’uscita? Rafforzare il ruolo del Senato come organo di garanzia. Innanzitutto attribuendogli il voto sulle leggi elettorali, che d’altronde sono leggi materialmente costituzionali, nel senso che innervano la Costituzione materiale di un Paese: se decidi sulle seconde, puoi ben decidere pure sulle prime. E inoltre conferendo al Senato un monopolio su tutte le materie che trovano i deputati in conflitto d’interesse, al pari della legge elettorale. Nemo iudex in causa propria, nessuno può giudicare se stesso; meglio perciò rimettere al Senato ogni decisione sulle immunità, sulle cause d’ineleggibilità e d’incompatibilità, sulla verifica dei poteri, sulla misura dell’indennità dovuta ai membri della Camera, o più in generale sul finanziamento alla politica.

Dopo di che non è vietato immaginare ulteriori contrappesi. Per esempio allargando l’accesso alla Consulta anche da parte delle minoranze parlamentari, come succede in Francia. O potenziando il controllo del capo dello Stato sulle leggi: con un secondo rinvio, superabile a maggioranza assoluta. Ma in ultimo i guardiani della legalità costituzionale sono gli stessi cittadini. Siamo noi italiani, che negli anni Venti applaudimmo Mussolini, che negli anni Quaranta andammo sulle montagne per combatterlo. Nessuna norma scritta, nessun marchingegno costituzionale, può sostituirsi al sentimento civile. Ma certo può aiutarlo, può allevarlo. Su questo punto, viceversa, la riforma ospita silenzi imbarazzanti. Niente recall, né referendum propositivo, né corsia preferenziale per le leggi popolari. Dunque una buona riforma per quanto c’è scritto, un po’ meno per quanto non c’è scritto. Si tratta d’aggiungervi ancora qualche parolina.
8 aprile 2014 | 07:56
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_aprile_08/i-virtuosisimi-che-non-servono-e38f8cf2-bedc-11e3-9575-baed47a7b816.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Tutta l’ingiustizia scritta nelle multe
Inserito da: Admin - Aprile 11, 2014, 11:34:22 pm
Michele Ainis
Legge e Libertà

Tutta l’ingiustizia scritta nelle multe
Destra e sinistra, governi di ogni epoca, burocrati sembrano vedere nell’automobilista un suddito da vessare e tartassare. Ecco un campionario delle piccole e grandi iniquità cui viene sottoposto il cittadino al volante

La giustizia? Cerchiamola nelle piccole cose. Se i grandi mali dell’umanità sono inguaribili, potremmo occuparci degli acciacchi più lievi, ma non meno dolenti. Ne sa qualcosa il popolo delle quattro ruote. Tartassato da governi tecnici e politici, di destra e di sinistra. E senza la possibilità di scioperare, per difendersi dalle angherie di Stato. Altrimenti avrebbe incrociato le braccia (pardon, le ruote) nel giugno 2013, quando l’esecutivo Letta decise un prelievo di 120 milioni, aumentando tasse e balzelli tre mesi dopo l’aumento precedente. D’altronde gli automobilisti italiani pagano 50 centesimi al litro in accise sul prezzo della benzina, compresa quella per la guerra d’Abissinia del 1935. Nel frattempo le infrazioni calano, ma le contravvenzioni aumentano; soprattutto per sosta vietata. Per forza, quando a Roma circolano 2 milioni e 800 mila vetture, mentre i posti auto sono poco più di 100 mila. E i divieti? In California è proibito superare le 60 miglia l’ora per i veicoli senza guidatore; in Italia chi viaggia con un cocker addormentato sul sedile posteriore paga una multa di 65 euro. Poi si può scrivere un bel ricorso al prefetto, benché si traduca quasi sempre in un’ulteriore perdita di tempo. Nel febbraio 2011 ne ha scritto uno lo stesso prefetto di Milano: il ricorso a se medesimo.

Ma chi è il medesimo, quale cosa può dirsi la medesima cosa? Ecco, la materia della circolazione stradale offre un buon banco di prova per questi interrogativi filosofici. Proprio perché è materia infima, pedestre (nel senso dei piedi, ma anche dei pedoni). E perché dunque ci permette d’osservare le diseguaglianze al microscopio, piccole e maiuscole al contempo. Succede quando a Napoli la RC auto costa il triplo rispetto alle città del Settentrione: troppe truffe, sicché le compagnie assicurative si cautelano. E l’automobilista onesto sconta una responsabilità per fatto altrui. Succede quando il motociclista paga lo stesso pedaggio autostradale dell’automobilista; eppure il primo inquina meno, occupa meno spazio, usura di meno l’asfalto autostradale. Senza dire che ogni vettura può trasportare 4 o 5 persone, le quali potranno poi dividere il costo del pedaggio; mentre in motocicletta ci si va al massimo in 2. E infatti nella maggior parte degli Stati europei (ma anche in Italia, fino al 1989) s’applicano tariffe differenziate. Succede, in ultimo, quando il governo Monti (dicembre 2011) introduce il superbollo per le supercar, cioè quelle che superano i 185 kW; dunque paga la Mercedes, non paga la Porsche Cayenne turbodiesel. E l’importo resta uguale per l’auto di lusso con 5 giorni di vita e per quella che gira da 5 anni sulle strade, ammaccata e svalutata.

Ma un epitaffio all’ingiustizia è iscritto in ogni multa. Perché vi si riflette una giustizia di classe, come direbbe un bolscevico. Prendiamo l’infrazione più comune: l’uso del telefonino durante la guida. 5 punti patente, 160 euro da scucire. Sennonché per non perdere i punti basta omettere la comunicazione di chi fosse il conducente. Dopo di che scatta un’ulteriore multa di 284 euro: i ricchi possono pagarla, i poveri no. E gli altri 160 euro? Il codice stradale non distingue fra Berlusconi e il suo garzone; ma per il primo corrispondono a una mancia, il secondo con quella cifra ci mangia. L’azione è uguale, la sanzione disuguale, quantomeno a misurarne la capacità afflittiva, l’effetto deterrente. Difatti altrove (per esempio in Svizzera o in Finlandia) si tiene conto della potenza del motore, oppure dei redditi del conducente. In Italia la prima soluzione è stata prospettata dal deputato grillino Michele Dell’Orco, in un progetto di legge depositato nell’ottobre 2013; tuttavia può risultare punitiva per le famiglie numerose, che hanno bisogno di potenza perché la loro autovettura deve trasportare molti passeggeri. La seconda soluzione ha avuto come sponsor l’ex sottosegretario Erasmo D’Angelis; ma alle nostre latitudini rischiano di farla franca gli evasori, dato che i gioiellieri dichiarano in media 15 mila euro l’anno. Dalla teoria alla pratica, l’eguaglianza è sempre un rompicapo.

michele.ainis@uniroma3.it
09 aprile 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/legge-e-liberta/2014/04/02/news/tutta-l-ingiustizia-scritta-nelle-multe-1.159396


Titolo: MICHELE AINIS. IL VERO E IL FALSO SULLA BUROCRAZIA Un labirinto inestricabile
Inserito da: Admin - Aprile 21, 2014, 11:29:33 pm
IL VERO E IL FALSO SULLA BUROCRAZIA
Un labirinto inestricabile
Di Michele Ainis

I dipendenti pubblici? Una mandria di sfaticati. I loro dirigenti? Mandarini del Celeste Impero. Le burocrazie locali? Centri di spreco e corruzione. Nella furia iconoclasta che s’abbatte sugli uomini (e le donne) dello Stato, non si salva più nessuno. E il presidente del Consiglio offre un megafono a questo sentimento popolare, trasformando il rancore in urlo di battaglia: promette una lotta «violenta» alla burocrazia, annuncia che a maggio il suo governo entrerà «con la ruspa» nelle casematte della pubblica amministrazione. Giusto, se l’offensiva riuscirà a sgominare le inefficienze e prepotenze burocratiche. Sbagliato, se vi fiammeggia un odio verso tutto ciò che è pubblico, di tutti.

Perché siamo noi, lo Stato. È la maestra che insegna matematica ai nostri bambini, guadagnando meno d’una colf. È il poliziotto che fa il turno di notte nelle strade, a bordo di volanti scalcinate e sempre a corto di benzina. È il medico del Pronto soccorso, che s’arrangia risparmiando sulle garze. Ed è anche il burocrate con la sua penna d’oca in mano, come no. Ma per difenderci dalle vessazioni burocratiche, per ritrovare la nostra libertà perduta, dobbiamo restituire all’amministrazione pubblica la sua propria dignità perduta. Sfatando innanzitutto dicerie e leggende sul corpaccione dello Stato.

Non è vero che l’Italia sia la patria dei dipendenti pubblici: ne abbiamo 3,4 milioni, contro i 5,5 milioni del Regno Unito o della Francia. E sono 58 per ogni mille abitanti, come in Germania. Peraltro in calo del 4,7% nell’ultimo decennio, a differenza di tutti gli altri Stati europei. Non è vero che costano troppo: pesano l’11,1% del Pil, circa la metà di quanto si spende in Danimarca. Mentre il loro contratto di lavoro è bloccato dal 2010. È vero però che sono troppo vecchi (solo il 10% ha meno di 25 anni), con troppi marescialli e pochi soldati semplici (la Francia ha un terzo dei nostri dirigenti), ed è vero infine che sono mal ripartiti (in Calabria gli statali rappresentano il 13% degli occupati, in Lombardia il 6%).

Da qui il farmaco più urgente: razionalizzare. Con l’intelligenza, non con la violenza. Significa distribuire meglio i ruoli, ma significa altresì semplificare i procedimenti e gli accidenti del diritto amministrativo. Dove la legge annuale di semplificazione non interviene mai ogni anno, e si traduce per lo più nell’ennesimo fattore di complicazione. Dove regna (dal 1889) l’astrusa distinzione fra diritti soggettivi e interessi legittimi, ciascuno col suo giudice, ciascun giudizio un rebus per i cittadini. E dove s’accalca una folla di custodi, che ovviamente passano i giorni a litigare sulle rispettive competenze. Ma in un Paese che ospita 6 forze di polizia nazionali e 2 locali questa è la regola, non certo l’eccezione.

Ecco, è lì il virus che infetta l’organismo dello Stato. S’annida nell’eccesso dei controlli, delle giurisdizioni, dei procedimenti, delle norme (che peraltro fanno da scudo ai poco volenterosi). Quante ne abbiamo in circolo? Nel 2007 la commissione Pajno ha fatto un po’ di conti: 21.691 leggi statali, cui però dovremmo aggiungere 30 mila leggi regionali e 70 mila regolamenti. Ma in un sistema tortuoso come un labirinto nessuno risponde più di nulla: c’è sempre un comma che ti lava la coscienza.
La fuga dalle responsabilità ha origine perciò da un pieno, non da un vuoto. Giacché troppi controllori vanificano il controllo, giacché troppe leggi equivalgono a nessuna legge. E allora tagliamo le norme, non le teste.
17 aprile 2014 | 07:55
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_aprile_17/labirinto-inestricabile-12c7e14c-c5ed-11e3-8866-13a4dbf224b9.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Legge e Libertà Sport nazionale: la caccia al vecchio
Inserito da: Admin - Maggio 01, 2014, 07:04:59 pm
Michele Ainis

Legge e Libertà
Sport nazionale: la caccia al vecchio

Dopo decenni di gerontocrazia siamo passati all’estremo opposto.

Così gli anziani sono diventati vittime di un furore senza pietà. E di autentiche discriminazioni. Mentre in altri paesi si fa tutto l’opposto
   
C’erano un tempo la destra e la sinistra, sempre in baruffa come cani e gatti. Adesso quella contrapposizione non va più di moda: in politica, lo scontro si consuma ormai fra vecchio e nuovo. E ovviamente il nuovo è cool, è giovane per definizione. L’aria che tira è questa: addosso agli anziani. Discriminati, cacciati, rottamati in ogni ufficio pubblico o privato. E chissenefrega se l’anagrafe non costituisce un merito, né più né meno del colore degli occhi, o della statura che il Padreterno ci ha donato in sorte. Chissenefrega del passato, delle sue lezioni. «Giovinezza, primavera di bellezza»: era l’inno del fascismo, ma oggi trionferebbe pure a Sanremo.

In quest'astio verso i capelli bianchi si riflette senza dubbio una reazione (comprensibile, anzi sacrosanta) contro la gerontocrazia che ci ha dominato negli ultimi vent’anni. Politici immarcescibili: durante la seconda Repubblica sono cambiate vorticosamente le sigle dei partiti, mai le facce dei signori di partito. Classi dirigenti immobili, nella burocrazia, nelle banche, all’università, nel mondo delle imprese. Promozioni per anzianità, anziché per merito. Favori di legge agli ultrasessantenni, dalla pensione sociale all’assegnazione degli alloggi nell’edilizia pubblica, dalle detrazioni fiscali alle tariffe agevolate in treno o sulla bolletta del gas (grazie a due delibere delle authority: 237 e 314 del 2000).

E ora? Dalla carezza alla monnezza. Ma noi italiani siamo fatti così: detestiamo le mezze misure. Da qui l’idea della (giovane) ministra Marianna Madia: staffetta generazionale nella pubblica amministrazione. Tre dirigenti in pensione anticipata, un giovane funzionario assunto. Anche se magari quei tre sono pure bravi, il nuovo non si sa. Anche a costo di passare dagli esodati agli staffettati. Da qui, già in precedenza, un decreto del governo Letta: nel giugno 2013 decise incentivi per l’assunzione a tempo indeterminato dei giovani sotto i trent’anni. E chi di anni ne ha 31? E i cinquantenni che perdono il lavoro, troppo giovani per andare in pensione, troppo vecchi per trovarne un altro?

Ma non è solo la politica, a dichiarare guerra agli attempati. Un’inchiesta della “Stampa” (marzo 2013) ha rivelato il caso degli annunci di posti di lavoro alla Camera e al Senato, dove quasi sempre viene indicata un’età massima. Idem in tv, per fare un altro esempio; in Italia come nel Regno Unito, dove le donne over 50 rappresentano il 7 per cento appena fra i lavoratori della Bbc. A sua volta la Bocconi (febbraio 2012) attesta che gli ultraquarantenni sono carne morta, per i selezionatori di risorse umane nelle aziende: non li considerano. Mentre il Tribunale di Milano (luglio 2010) ha giustificato la discriminazione anagrafica sancita in un bando d’assunzione per gli autisti. Chissà perché, dal momento che l’esperienza casomai migliora le capacità di guida. E chissà se un tribunale si ribellerà una volta o l’altra alle persecuzioni e vessazioni che colpiscono gli ultrasettantenni, per esempio nell’assistenza sanitaria: uno studio di “eCancer Medical Science” (novembre 2013) dimostra che non ricevono cure oncologiche adeguate, perché i trattamenti all’avanguardia sono riservati ai giovani.

C'è un a parolina che denomina questa forma di discriminazione: “ageism”. Si traduce come “ageismo” oppure “anzianismo”, ma non a caso la parolina ha un conio americano. Negli Usa l’Employment Act del 1967 protegge chi ha almeno 40 anni; fanno altrettanto il codice dell’Ontario e la legge sui diritti umani dello Stato di New York, con un lungo elenco di divieti. Fa lo stesso il Regno Unito, con l’Employment Equality Age Regulations del 2006. Viceversa in Italia non c’è legge, a eccezione d’un decreto legislativo del 2003, di cui nessuno (neppure il governo) conosce l’esistenza. Sicché la caccia è aperta, senza pietà per le anziane prede. Però, attenzione: siamo stati tutti più giovani in passato.

michele.ainis@uniroma3.it
30 aprile 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/legge-e-liberta/2014/04/23/news/sport-nazionale-la-caccia-al-vecchio-1.162483


Titolo: MICHELE AINIS. Legge e Libertà Sport nazionale: la caccia al vecchio
Inserito da: Admin - Maggio 12, 2014, 11:20:37 am
Michele Ainis
Legge e Libertà

Sport nazionale: la caccia al vecchio

Dopo decenni di gerontocrazia siamo passati all’estremo opposto. Così gli anziani sono diventati vittime di un furore senza pietà. E di autentiche discriminazioni. Mentre in altri paesi si fa tutto l’opposto

C’erano un tempo la destra e la sinistra, sempre in baruffa come cani e gatti. Adesso quella contrapposizione non va più di moda: in politica, lo scontro si consuma ormai fra vecchio e nuovo. E ovviamente il nuovo è cool, è giovane per definizione. L’aria che tira è questa: addosso agli anziani. Discriminati, cacciati, rottamati in ogni ufficio pubblico o privato. E chissenefrega se l’anagrafe non costituisce un merito, né più né meno del colore degli occhi, o della statura che il Padreterno ci ha donato in sorte. Chissenefrega del passato, delle sue lezioni. «Giovinezza, primavera di bellezza»: era l’inno del fascismo, ma oggi trionferebbe pure a Sanremo.

In quest'astio verso i capelli bianchi si riflette senza dubbio una reazione (comprensibile, anzi sacrosanta) contro la gerontocrazia che ci ha dominato negli ultimi vent’anni. Politici immarcescibili: durante la seconda Repubblica sono cambiate vorticosamente le sigle dei partiti, mai le facce dei signori di partito. Classi dirigenti immobili, nella burocrazia, nelle banche, all’università, nel mondo delle imprese. Promozioni per anzianità, anziché per merito. Favori di legge agli ultrasessantenni, dalla pensione sociale all’assegnazione degli alloggi nell’edilizia pubblica, dalle detrazioni fiscali alle tariffe agevolate in treno o sulla bolletta del gas (grazie a due delibere delle authority: 237 e 314 del 2000).

E ora? Dalla carezza alla monnezza. Ma noi italiani siamo fatti così: detestiamo le mezze misure. Da qui l’idea della (giovane) ministra Marianna Madia: staffetta generazionale nella pubblica amministrazione. Tre dirigenti in pensione anticipata, un giovane funzionario assunto. Anche se magari quei tre sono pure bravi, il nuovo non si sa. Anche a costo di passare dagli esodati agli staffettati. Da qui, già in precedenza, un decreto del governo Letta: nel giugno 2013 decise incentivi per l’assunzione a tempo indeterminato dei giovani sotto i trent’anni. E chi di anni ne ha 31? E i cinquantenni che perdono il lavoro, troppo giovani per andare in pensione, troppo vecchi per trovarne un altro?

Ma non è solo la politica, a dichiarare guerra agli attempati. Un’inchiesta della “Stampa” (marzo 2013) ha rivelato il caso degli annunci di posti di lavoro alla Camera e al Senato, dove quasi sempre viene indicata un’età massima. Idem in tv, per fare un altro esempio; in Italia come nel Regno Unito, dove le donne over 50 rappresentano il 7 per cento appena fra i lavoratori della Bbc. A sua volta la Bocconi (febbraio 2012) attesta che gli ultraquarantenni sono carne morta, per i selezionatori di risorse umane nelle aziende: non li considerano. Mentre il Tribunale di Milano (luglio 2010) ha giustificato la discriminazione anagrafica sancita in un bando d’assunzione per gli autisti. Chissà perché, dal momento che l’esperienza casomai migliora le capacità di guida. E chissà se un tribunale si ribellerà una volta o l’altra alle persecuzioni e vessazioni che colpiscono gli ultrasettantenni, per esempio nell’assistenza sanitaria: uno studio di “eCancer Medical Science” (novembre 2013) dimostra che non ricevono cure oncologiche adeguate, perché i trattamenti all’avanguardia sono riservati ai giovani.

C'è una parolina che denomina questa forma di discriminazione: “ageism”. Si traduce come “ageismo” oppure “anzianismo”, ma non a caso la parolina ha un conio americano. Negli Usa l’Employment Act del 1967 protegge chi ha almeno 40 anni; fanno altrettanto il codice dell’Ontario e la legge sui diritti umani dello Stato di New York, con un lungo elenco di divieti. Fa lo stesso il Regno Unito, con l’Employment Equality Age Regulations del 2006. Viceversa in Italia non c’è legge, a eccezione d’un decreto legislativo del 2003, di cui nessuno (neppure il governo) conosce l’esistenza. Sicché la caccia è aperta, senza pietà per le anziane prede. Però, attenzione: siamo stati tutti più giovani in passato.

michele.ainis@uniroma3.it
30 aprile 2014 © Riproduzione riservata
   
Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/legge-e-liberta/2014/04/23/news/sport-nazionale-la-caccia-al-vecchio-1.162483


Titolo: M. AINIS Il nuovo Pauperismo Il cittadino perfetto e il cittadino sospetto...
Inserito da: Admin - Maggio 18, 2014, 06:05:15 pm
Il nuovo Pauperismo

Il cittadino perfetto e il cittadino sospetto

Di MICHELE AINIS

Ogni stagione della storia genera uno spiritello che le soffia nell’orecchio. Si chiama Zeitgeist, lo spirito dei tempi. Ma nel nostro tempo è una creatura secca e allampanata come uno spaventapasseri, come la dottrina che propaga a destra e a manca: il pauperismo. Significa che la povertà non è più una sciagura, bensì un modello, un esempio, un ideale. Se negli anni Ottanta Deng Xiaoping cambiò la Cina con il messaggio opposto (Arricchitevi!),se negli anni Novanta in Italia Berlusconi celebrò le sue fortune promettendo a tutti la fortuna, ora uno stigma sociale perseguita chiunque abbia un ruolo pubblico o privato, e dunque un portafoglio senza buchi. Da qui la nuova frattura che divide gli italiani: da un lato, il cittadino sospetto; dall’altro, il cittadino perfetto (povero, e ancora meglio se nullatenente).

Le prove? Basta accendere in un’ora qualunque la tv, dove ogni dibattito si trasforma in un alterco, ogni alterco erutta una domanda: «E tu, quanto guadagni? Troppo, allora zitto, non hai diritto di parola». O altrimenti basta tendere l’orecchio nelle strade. L’unica eccezione investe la gente di spettacolo: cantanti, calciatori, anchor men, soubrette, piloti, attori. Sicché lo stesso benpensante che non perdona al segretario comunale i suoi 3 mila euro in busta paga, è pronto a maledire il presidente della squadra per cui tifa, se lascia scappare il centravanti anziché accordargli un ingaggio di almeno 3 milioni.

In questo clima c’entrano assai poco i teorici della decrescita felice: Georgescu-Roegen, Latouche, Pallante. Intanto, le loro idee girano presso un pubblico ristretto. E soprattutto il desiderio dominante - qui e oggi - non è la (mia) felicità, bensì la (tua) infelicità. Non un sentimento ma un risentimento, un rancore collettivo. Come se anni di crisi economica e morale ci avessero lasciato in dote una cifra di disperazione, l’incapacità di volgere lo sguardo sul futuro, d’immaginarlo più propizio. E allora l’unico risarcimento consiste nel tirare dentro gli altri, tutti gli altri, nella miseria che inghiotte il nostro orizzonte esistenziale.

Infine questo malumore si trasforma in energia politica, in un vento che soffia sulle urne. Destinatario e interprete ufficiale: il Movimento 5 Stelle. Dove uno vale uno, ed è un’idea potente, il paradiso dell’eguaglianza nella terra più diseguale di tutto l’Occidente, dopo il Regno Unito e gli Usa. Ma quell’eguaglianza declina verso il basso, verso l’appiattimento dei destini individuali, e allora il paradiso diviene la porta dell’inferno. Un inferno sempre più affollato, perché ormai ciascun partito ambisce al ruolo di Caronte. Chi in nome dell’antica avversione dei cattolici nei riguardi del denaro («lo sterco del diavolo»), chi attraverso un’eco lontana del marxismo. Anche il presidente del Consiglio, sì: pure lui. Non per nulla ha esordito facendo dimagrire gli stipendi pubblici più alti, senza tuttavia sfilare ai grillini un solo voto. Nessuno può riuscirci: se il modello è questo, meglio l’originale della copia.

Dunque fermiamoci, finché siamo ancora in tempo. Certo, alcuni dirigenti si erano trasformati in dirigibili, gonfi d’oro anziché d’aria. Ma in primo luogo ogni correzione dovrebbe rispettare il principio di proporzionalità, elaborato sin dalla giurisprudenza prussiana di fine Ottocento: oggi Scilipoti guadagna più di un giudice costituzionale, e questo non va bene. In secondo luogo, se abbassi troppo le retribuzioni alzi le corruzioni; accadde già durante Tangentopoli, ammesso che sia mai finita. In terzo luogo, uno Stato debole, dove trovano alloggio soltanto le professionalità senza mercato, non saprà più opporre una trincea contro i poteri forti.

Da un malinteso ideale di giustizia deriva quindi la massima ingiustizia, ecco la lezione. E dall’ideologia del pauperismo sgorga un veleno che può uccidere le stesse istituzioni democratiche. Perché non c’è democrazia senza ceto medio, come ci ha spiegato in lungo e in largo Amartya Sen. C’è soltanto l’America Latina, con i poveri nelle favelas, i ricchi blindati nei propri quartieri, e un Caudillo che regna incontrastato. O sbagliava Sen, o stiamo sbagliando tutto noi italiani.

17 maggio 2014 | 08:06
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_maggio_17/cittadino-perfetto-cittadino-sospetto-259b495e-dd89-11e3-9bca-c6f1cdc28cdd.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Le ragioni dimenticate dell’Europa - Smemorati e distratti
Inserito da: Admin - Maggio 24, 2014, 06:16:43 pm
Le ragioni dimenticate dell’Europa - Smemorati e distratti

Di Michele Ainis

Domani votiamo, però senza sapere bene per che cosa. Pare ci sia di mezzo il governo presieduto da Renzi: i suoi avversari (e molti suoi compagni di partito) non aspettano che un flop per buttarlo giù dal trono. Secondo altre indiscrezioni la posta in palio è invece il Quirinale: Grillo e Casaleggio sono pronti a chiamare una ditta di traslochi, se il loro movimento verrà benedetto dalle urne. Berlusconi no, lui è in una botte di ferro. Ma se perde di brutto, perde pure la legge elettorale: come fai a timbrare il ballottaggio previsto dall’Italicum, quando al ballottaggio balleranno soltanto i tuoi nemici? E il Pd, avrà ancora voglia di cambiare il Senato, se tracolla alle elezioni? Non si sa, non si capisce, anche perché c’è un tale baccano! Durante questa campagna elettorale abbiamo sentito rimbombare minacce ed improperi, chi ha evocato Stalin, chi Hitler, chi il fumo nero che saliva al cielo dalle fornaci di Auschwitz.

Eppure è proprio su Auschwitz che si vota. Perché l’Europa è nata lì, da quell’orrore senza precedenti. È nata per bandire il genocidio, e siccome il genocidio aveva celebrato la massima potenza dello Stato, l’idea europea coltivò fin dall’inizio il genocidio degli Stati. Da qui trattati e protocolli, in un processo federativo sempre più esteso, in nome d’una solidarietà sempre più stretta fra i popoli europei. Solo che, strada facendo, alla solidarietà si è sostituito l’egoismo. Davanti ai morti di Lampedusa così come rispetto alla crisi finanziaria della Grecia, l’Europa guarda altrove. Sicché i partiti antieuropei hanno buon gioco, mentre gli europeisti si trincerano in un atteggiamento puramente difensivo. Sperano così di salvare l’esistente, ma intanto hanno rinunziato a ogni progetto, a ogni utopia costituzionale.

Ecco, la Costituzione europea. C’è qualcuno che ne ha più sentito parlare? Dopo il fallimento del 2005 (quando un doppio referendum in Olanda e in Francia bocciò il testo firmato l’anno prima a Roma), questa parola è ormai tabù, vietato pronunziarla. Ed è un errore, perché gli europei non otterranno mai un’identità comune senza una Costituzione in comune. Errore doppio, perché tutta la storia dell’integrazione europea è scandita da eventi e da incidenti, da salti in avanti e da passi del gambero all’indietro. La prima doccia fredda cadde nel 1954, dopo che Francia e Italia respinsero il trattato sulla difesa comune siglato dai 6 Stati fondatori nel 1952. Ma nel 1957 venne alla luce la Comunità economica europea, capostipite di tutti gli sviluppi successivi.

Nel frattempo, tuttavia, si va modificando la Costituzione «materiale» dell’Europa. Questa volta i 300 milioni di cittadini disseminati in 28 Paesi voteranno per eleggere un leader, oltre che un parlamentare. Juncker, Schulz, Tsipras, Bové e Ska Keller, Verhofstadt: il prossimo presidente della Commissione sarà uno di loro. È l’effetto d’un accordo fra i partiti europei, che finalmente hanno cominciato a ragionare su un unico popolo europeo. Rivendicando così anche il primato democratico del Parlamento sulle altre istituzioni dell’Unione, anche se quel Parlamento è assurdamente dislocato in tre sedi (Bruxelles, Strasburgo, Lussemburgo), anche se all’Unione manca un programma fiscale comune e una politica estera condivisa. Ma non c’è via d’uscita, oggi come ieri: o tutto o niente, o l’Europa saprà guardare avanti o finirà accecata come Polifemo. E questo sguardo - lo sguardo sul futuro - prima o poi dovrà fissarsi su una Costituzione.

24 maggio 2014 | 07:58
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_maggio_24/smemorati-distratti-21e7c594-e301-11e3-a0b2-0f0bd7a1f5dc.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Le vittime di un’elezione imprevedibile e radicale
Inserito da: Admin - Giugno 10, 2014, 07:37:44 pm
Umori e tendenze
Le vittime di un’elezione imprevedibile e radicale

di MICHELE AINIS

Il caro estinto avrà anche lasciato qualche vedova. Non molte, a giudicare dagli ultimi risultati elettorali, dove i funerali del Centro si sono consumati in una chiesa vuota di fedeli. Tracollo dei centristi e dei centrini, astensionismo record (50,5%); e i due fenomeni sono indubbiamente collegati. Però sul primo non abbiamo letto neppure un necrologio, mentre il secondo riceve per lo più letture minimali, quando non venga addirittura sventolato come un indice di maturità della democrazia italiana. Difficile da credere, se c’è da credere alla verità dei numeri. Mettiamo pure in un cassetto i ricordi della nonna, dimentichiamoci le prime otto elezioni generali (1948-1979), con un’affluenza mai inferiore al 90% del corpo elettorale. Ma sta di fatto che le Politiche dell’anno scorso hanno segnato il minimo storico in Italia (75%). E sta di fatto inoltre che, fra il primo e il secondo turno di queste Amministrative, si è dileguato un elettore su cinque (21% in meno di votanti). Se è il passaggio alla maturità, suona fin troppo repentino: nessun adolescente imberbe si sveglia con la barba lunga dalla sera alla mattina.

Ma è altrettanto fulminante - di più: brutale - la scomparsa dei partiti di centro, equidistanti fra la destra e la sinistra. Perché non è affatto vero che quello spazio politico sia stato risucchiato dai gorghi della Prima Repubblica. Non è vero che la Democrazia cristiana morì senza lasciare eredi. E non è vero che la Seconda Repubblica abbia poi allevato un bipolarismo duro e puro. In questi vent’anni si sono sempre fronteggiati un centro-destra e un centro-sinistra, ecco com’è andata. Alleandosi ora con l’uno ora con l’altro, Casini, Mastella, Dini, Segni, Follini, Buttiglione ne hanno determinato le fortune. Marciavano divisi, ma le loro truppe non erano affatto esigue: per dirne una, alle amministrative del 1998 le formazioni di centro raccolsero il 25% dei consensi. Ciascuna fiera della propria identità centrista, come testimonia per esempio lo slogan elettorale dell’Udc nel 2006 e nel 2008 («Io c’entro»).

Semmai la differenza con mamma Dc stava negli atteggiamenti, nelle strategie politiche. La prima - per usare le categorie di Norberto Bobbio - formava un centro «includente», con la pretesa d’assorbire la Destra e la Sinistra, d’annullarle in una sintesi superiore. Mentre i suoi nipotini hanno rappresentato un Centro «incluso», cercando il loro spazio fra le ali, senza però negarne la legittima esistenza. Ma adesso?

L’ultima incarnazione del Centro - quella tecnocratica di Monti - ha rastrellato alle Europee un misero 0,71%, passando in un anno da 3 milioni a meno di 200 mila voti. Ormai Scelta civica ha più eletti che elettori. E in generale il Centro incluso è stato escluso, il Centro includente è diventato inconcludente.

Sicché la domanda è una soltanto: perché? Quale virus letale ha sterminato quest’antica dinastia politica? Può darsi sia lo stesso virus che in Italia sta uccidendo il ceto medio, tradizionale serbatoio di voti per i partiti moderati. Può darsi che agisca il disincanto rispetto ai troppi fallimenti dei politici centristi nel passato. O può darsi che la colpa sia dei pensionati, dato che alle nostre latitudini ospitiamo la popolazione più vecchia del pianeta (ci supera soltanto il Giappone). È la diagnosi di Grillo per spiegare il suo deludente risultato, anche se lui non è di centro: la Dc praticava la politica dei due forni, Grillo invece cuocerebbe i suoi avversari al forno. Però è indubbio che i vecchi dovrebbero essere assennati, mentre i nostri vecchi sono disperati. Ed è altrettanto indubbio che nel corpaccione della società italiana circola una rabbia livida, impaziente, che erompe nelle urne attraverso scelte estreme.

Da qui un umore instabile e nevrotico, che ad ogni elezione ci consegna una sorpresa. A sinistra cade Livorno dopo settant’anni, espugnata dal Movimento 5 Stelle. A destra cade Pavia, ma in tutto i ribaltoni sono stati 13 nei principali capoluoghi. Ormai la sorpresa sarebbe l’assenza di sorprese. Non è più troppo sorprendente, tuttavia, la direzione del voto, o anche del non voto. L’uno e l’altro esprimono una furia iconoclasta, un anelito alla rottamazione universale, per usare la parola più alla moda. Gli italiani sono diventati radicali, ecco perché il Centro non trova più seguaci. Di conseguenza sono diventati radicali anche i politici italiani, senza più mezze misure.

Magari è meglio così, la nostra crisi non si cura con il misurino. Tutto sta a non perdere il senso della misura.

( michele.ainis@uniroma3.it )

10 giugno 2014 | 07:54
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Da - www.corrier.it/politica/14_giugno_10/vittime-un-elezione-imprevedibile-radicale-43e50476-f063-11e3-9b46-42b86b424ff1.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Tra fine vita e ipocrisie di Stato
Inserito da: Admin - Giugno 16, 2014, 07:14:32 pm
IL DIBATTITO SULLA LEGGE
Tra fine vita e ipocrisie di Stato
Di Michele Ainis

Fra i troppi ministeri ospitati dal nostro troppo Stato, ce n’è invece uno di cui s’avverte la mancanza: il ministero della Sincerità. Se mai venisse istituito, ecco il nome giusto per dirigerlo: Giuseppe Saba. Non è giovane (87 anni), non è donna, ha perfino un titolo di studio (era ordinario di Anestesiologia). Peccati imperdonabili, alle nostre latitudini. Ma il peccato più grave l’ha commesso qualche giorno fa, rilasciando un’intervista a L’Unione Sarda. Dove candidamente ammette d’avere aiutato un centinaio di malati terminali, per farli morire senza sofferenze. Dove pronunzia a voce alta la parola tabù: eutanasia. Dove denuncia l’ipocrisia verbale di chi la chiama «desistenza terapeutica», come se non ci fosse in ogni caso una spina da staccare. E dove infine racconta che la dolce morte costituisce una pratica diffusa, diffusissima, nei nostri ospedali. Si fa, ma non si dice. Lui invece l’ha detto.

Non che la notizia ci colga alla sprovvista. Lo sapevamo già, lo sa chiunque abbia assistito all’agonia di un amico o d’un parente, con i medici che armeggiano dentro una stanza chiusa. E i pochi dati in circolo ne offrono la prova. Secondo un’indagine condotta nel 2002 su venti ospedali di Milano, l’80 per cento dei camici bianchi pratica l’eutanasia passiva (ovvero l’interruzione delle cure), il 4 per cento quella attiva (con l’uso di un farmaco letale). Mentre la ricerca più nota — quella imbastita nel 2007 dall’Istituto Mario Negri — stima 20 mila casi l’anno di pratiche eutanasiche. Ma questa è l’esperienza, non la giurisprudenza. Per i nostri codici, se raccogli l’estremo appello di chi non ne può più, rischi la galera. «Omicidio del consenziente», così viene definito. Anche se il tentato suicidio, di per sé, non è reato. Dunque puoi ucciderti soltanto se stai bene, se ne hai la forza fisica. Non se sei inchiodato a un letto come Eluana, come Welby, come tanti povericristi di cui non abbiamo visto mai la croce.

Per carità, parliamone. Ma sta di fatto che il nostro legislatore è muto come un pesce. Aprì bocca nella legislatura scorsa, però avrebbe fatto meglio a stare zitto. Con il disegno di legge Calabrò sul testamento biologico, che definiva l’alimentazione e l’idratazione forzata «forme di sostegno vitale», quindi irrinunciabili. Come se le cure mediche fossero invece sostegni mortali. E comunque quel disegno di legge non si è mai tradotto in legge. Né più né meno dell’iniziativa popolare depositata in questa legislatura dall’associazione Coscioni, che giace da trecento giorni nei cassetti della Camera. Sulle volontà del fine vita in Italia c’è un buco normativo, che ci distingue dagli altri Paesi occidentali (Usa, Germania, Francia, Inghilterra e via elencando). Nonostante i moniti dei nostri grandi vecchi, da Montanelli a Veronesi. O di Napolitano, che tre mesi fa ha sollecitato (invano) il Parlamento.

Sicché il diritto alla salute si è tramutato nel dovere di soffrire. A meno che non incontri un medico pietoso, e soprattutto silenzioso. Di qua il diritto, anche se è un legno storto; di là la compassione, che tuttavia prova soltanto chi ha passione. Ecco, è questa la frattura che ci separa dal resto del pianeta. È il solco che divide il dover essere dall’essere, la realtà dalla sua immagine legale. È la discrezionalità che in ultimo circonda l’operato di ciascuno, o perché le leggi sono troppe (da qui la corruzione), o perché non c’è nessuna legge in questa giungla. Ed è infine l’ipocrisia di Stato, con le sue doppie leggi, con la sua doppia morale. Ci salverà, forse, un bambino. Oppure un vegliardo, come Giuseppe Saba.

michele.ainis@uniroma3.it
12 giugno 2014 | 16:52
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_giugno_12/tra-fine-vita-ipocrisie-stato-f89ba090-f1fe-11e3-9d0d-44dc1b5aab8c.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. SCELTE FORTI NELLA GIUNGLA LEGISLATIVA ...
Inserito da: Admin - Giugno 16, 2014, 07:24:47 pm
SCELTE FORTI NELLA GIUNGLA LEGISLATIVA
Le troppe norme aiutano i furbi

Di Michele Ainis

Un grosso paio di forbici volteggia sulle nostre chiome. Le impugna il presidente del Consiglio, che ne ha fatto ancora uso lo scorso venerdì. Tagli alle prefetture (da 106 a 40). Tagli alle camere di commercio (ne sopravvivranno una ventina). Tagli alle sezioni distaccate dei Tar (amputazione totale). E poi sforbiciate sui permessi sindacali. Sulle propine degli avvocati dello Stato. Sui gettoni dei segretari comunali. Sui doppi incarichi dei magistrati. Sulle 5 scuole della pubblica amministrazione. Sui ruoli dirigenziali. Su ogni ufficio locale, centrale, interstellare. Risultato: ci era cresciuta sulla testa una zazzera leonina, rischiamo di finire pelati come un uovo.

Però l’Italia aveva bisogno d’un barbiere. Non solo perché troppi capelli non riesci a pettinarli, e infatti il nostro Stato è fin troppo arruffato. Anche perché sotto ogni ricciolo può ben nascondersi la pulce della corruzione. Quella che negli ultimi vent’anni ci ha fatto precipitare dal 33º al 69º posto nella classifica di Transparency International anche in virtù di scandali come quelli del Mose e dell’Expo. Non a caso la seconda lama della forbice s’infila proprio lì, rafforzando i poteri di Cantone sugli appalti. Quali? Soprattutto uno: l’Autorità nazionale anticorruzione potrà sospendere rami d’attività delle aziende, commissariarli, avviarne una contabilità separata.

Funzionerà? Lo sapremo presto. Anche se è lecito nutrire qualche dubbio - in termini economici, prima ancora che giuridici - sulla possibilità che un’impresa riesca a camminare con un piede o una caviglia congelati. Anche se bisogna sempre soppesare i costi sociali di ogni misura repressiva, a partire dall’occupazione: ricordiamoci dell’Ilva. Anche se l’eccesso di controlli può risultare altrettanto pernicioso rispetto al vuoto di controlli, contraddicendo le istanze di semplificazione che sorreggono quest’ultima manovra del governo Renzi.

Ma un intervento era comunque necessario. Magari per renderlo ancora più efficace servirebbe allungare i tempi della prescrizione, che mandano in fumo 130 mila processi l’anno. E ripristinare il falso in bilancio, depenalizzato nel 2002 dal governo Berlusconi. Però nessuna norma, nessuna authority, nessun gendarme ci potrà salvare l’anima se noi italiani non sapremo riconciliarci con la cosa pubblica, con l’etica pubblica. Anzi: c’è il rischio che la legge diventi un mantello che copre i malfattori. L’ha osservato, d’altronde, anche Cantone: gli appalti truccati sono sempre costruiti sul rispetto formale delle regole, come un abito cucito su misura per questo o quell’imprenditore. E quando le regole si contano a migliaia, il sarto non ha che da scegliere la stoffa migliore per accontentare i suoi clienti.

Ecco, qui entra in scena l’ossimoro, il paradosso della semplificazione. Sta di fatto che le forbici di Renzi fendono l’aria con due decreti legge omnibus (vietati dalla Consulta) e un disegno di legge delega. Totale: 120 articoli, un centinaio di pagine. Il solo comunicato stampa diramato da Palazzo Chigi inanellava 2.287 parole. Parole che reclamano altre parole di legge per ricevere attuazione (non prima del 2015). E del resto sono quasi 500 i provvedimenti attuativi fin qui rimasti in mezzo al guado. Il governo lo sa, e infatti aveva predisposto un meccanismo per rendere in futuro certa l’attuazione delle leggi. Dopodiché i meccanici (le burocrazie ministeriali) hanno bloccato il meccanismo, depennandolo dal testo approvato in Consiglio dei ministri.

Ma che cos’è l’attuazione, se non altro diritto che va ad aggiungersi al boccale del diritto? Nella legislatura in corso abbiamo già inghiottito 3.917 commi, 55 leggi, 41 decreti. E il gabinetto Renzi (con una media di 3,33 decreti al mese) ha superato di gran lunga i 4 esecutivi precedenti. È insomma la loro quantità che stroppia, non soltanto la loro qualità, non solo la collezione di norme astruse o strampalate di cui racconta Gian Antonio Stella nel suo ultimo volume (Bolli, sempre bolli, fortissimamente bolli). Da qui la conclusione: per semplificarci l’esistenza, nonché per liberarci dai corrotti, serve una legge in meno, non un decreto in più.

michele.ainis@uniroma3.it

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16 giugno 2014 | 08:34

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_giugno_16/troppe-norme-aiutano-furbi-576e0df0-f516-11e3-ac9a-521682d84f63.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. L’orticello delle Regioni
Inserito da: Admin - Giugno 21, 2014, 10:45:53 am
L’orticello delle Regioni

Di Michele Ainis

Evviva la riforma, purché non sia una controriforma. Attenzione: sta per succederci con la revisione del Titolo V. Dove il governo Renzi era partito lancia in resta, recuperando lo spazio perduto dello Stato, allargando quello dei Comuni, e per conseguenza sottoponendo a una bella cura dimagrante le Regioni. Con il sostegno dell’opinione pubblica (6 italiani su 10 le detestano, dice l’Istat). Ma soprattutto con il conforto dei fatti, o meglio dei misfatti. Perché la spesa regionale è un’idrovora che ha succhiato 90 miliardi in più nell’arco di un decennio. Perché specularmente sono cresciute a dismisura le tasse locali (del 138% fra il 1995 e il 2010, secondo la Cgia di Mestre). E perché non ne abbiamo ricevuto in cambio maggiori servizi, bensì piuttosto disservizi. Oltre che una marea di scandali, dato che negli ultimi tempi le inchieste giudiziarie hanno chiamato in causa 17 Regioni (su 20) e più di 300 consiglieri regionali. Al confronto, le Province sono verginelle. Noi invece abbiamo deciso di mandare al patibolo le vergini, santificando le matrone.

Questione di gusti, per carità. Ma prima di riportare la matrona all’onore degli altari, bisognerà cambiarle l’abito. Quello che le cucì addosso la riforma del 2001, giacché è da quel momento che le Regioni hanno perso la ragione. Tutta colpa di un’ubriacatura di competenze e di poteri, anche su argomenti d’interesse nazionale, come l’energia, la scuola, l’ambiente, la rete dei trasporti, il commercio estero, la comunicazione. Da qui lo scialo, da qui un estenuante tira e molla davanti alla Consulta, per disputarsi palmi di terreno con lo Stato.

Anche perché quella riforma era chiara quanto una notte invernale. Prendiamo il caso delle attribuzioni regionali sul lavoro, questione che interessa tutti gli italiani. Nel 1947 l’unica materia lavoristica assegnata dai costituenti alle Regioni fu l’istruzione artigiana e professionale. Nel 2001 i ri-costituenti aggiunsero la «tutela e sicurezza del lavoro», e vattelappesca dov’è la differenza fra queste due parole. Oltretutto il lavoro non esprime una materia, come quelle che si studiano agli esami. No, è l’oggetto d’una politica pubblica. Ma le politiche del lavoro, per essere efficaci, devono comprendere gli ambiti più vari, dal regime fiscale delle imprese alla tutela dei brevetti, dalla semplificazione burocratica alla promozione dell’export, dalla ricerca tecnologica al costo del lavoro. Se invece costruisco steccati fra lo Stato e le Regioni, ciascuno con il suo orticello da curare, la pianta del lavoro non può crescere, crescerà soltanto il contenzioso.

Opportunamente, il testo diffuso dal governo a fine marzo affiancava al concetto di materia regionale quello di «funzione». Introduceva la clausola di supremazia in favore dello Stato. Si sbarazzava della potestà legislativa concorrente, fonte di pasticci e di bisticci. Restituiva interi settori alla compagine statale. Modellava il Senato con una rappresentanza paritaria delle Regioni e dei Comuni. Ma è ancora così? Nel nuovo Senato, a quanto pare, i sindaci saranno appena un quarto del totale. E a leggere i sorrisi che distribuisce Calderoli, le competenze delle Regioni - da residuali - tornano centrali. Vero, nessuno può riscrivere la Costituzione in solitudine. Da qui l’esigenza d’annacquare il proprio vino per soddisfare il palato degli altri commensali. Purché il vino non diventi acqua colorata.

20 giugno 2014 | 07:56
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_giugno_20/orticello-regioni-45bbcdf0-f83a-11e3-8b47-5fd177f63c37.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Stato di diritto e falsi miti L’ingannevole uguaglianza
Inserito da: Admin - Giugno 28, 2014, 11:46:12 am
Stato di diritto e falsi miti
L’ingannevole uguaglianza

Di Michele Ainis

Uno vale uno, senza un centesimo di resto. È lo slogan del Movimento 5 Stelle, ma è ormai diventato l’inno che intonano tutti gli italiani. Dopo un ventennio di crisi economica e morale, circola difatti un sentimento nuovo, o forse antico quanto il principio d’eguaglianza, che ne prospetta tuttavia la versione più estrema e radicale. Quella che a suo tempo si riflesse nel Manifesto degli eguali di Gracco Babeuf, ghigliottinato nel 1797. O nella formula di Bentham: «Ognuno deve contare per uno, e nessuno per più di uno». Sicché guai a chiunque eserciti un potere d’influenza, un’autorità giuridica o politica. Se siamo tutti uguali, quel potere è un abuso, un privilegio. Sbarazziamocene, e metteremo un piede in Paradiso.

Le prove? Per esempio il tormentone sull’immunità dei senatori. Cancellata nel progetto del governo, riesumata da un emendamento Calderoli-Finocchiaro: apriti cielo. Come si permette, questo nuovo Senato non eletto, a rivendicare una protezione negata ai comuni cittadini? Poi, certo, possiamo ragionarci sopra, anche a costo d’ottenerne in cambio fischi e pomodori. Osservando che l’immunità non s’accompagna all’elezione, bensì piuttosto alla funzione; altrimenti perché mai ne godrebbero i giudici costituzionali, orfani d’un voto popolare? Ma questi argomenti suonano ormai come sofismi, acrobazie verbali. D’altronde sembra un orpello anche lo Stato di diritto, di cui è figlia la separazione dei poteri, e nipotina la stessa immunità. Brevettata, guarda caso, dai profeti più intransigenti del principio d’eguaglianza: dai giacobini, nel 1790, dopo l’incriminazione del deputato Lautrec.

Perché se il Parlamento non può annullare una sentenza, nessuna sentenza può annullare il Parlamento. E a sua volta il Parlamento non è l’unico organo dello Stato di diritto, benché sia l’unico legittimato dalle urne. In una democrazia costituzionale s’aprono altri canali di legittimazione, che investono per esempio la Consulta. O almeno: era così una volta, domani non si sa. Se uno vale uno, quell’uno dev’essere eletto dal popolo votante. Le polemiche sull’elezione del Senato trovano qui la loro scaturigine. Come del resto il sentimento di ripulsa verso l’immunità, l’indennità, l’autorità medesima di chi ci rappresenta. Se vuole il nostro voto, dovrà lavorare gratis, senza protezioni, e con un megafono che registri tutti i nostri umori.

Errore: nessuna società umana, neanche la più egualitaria, è mai riuscita a bandire il potere dai suoi ranghi. C’è sempre stato chi governa e chi viene governato. E quando i governanti hanno promesso l’assoluta parità fra gli individui, si sono presto trasformati in dittatori. Lenin immaginava che una cuoca potesse reggere lo Stato, ma intanto fucilava i suoi avversari. Da quegli avvenimenti è ormai trascorso un secolo, sarà per questo che ce ne siamo un po’ dimenticati. Invece dovremmo ripassarne la lezione: non si tratta di disarmare il potere, si tratta semmai di controllarlo. Per esempio attraverso la rotazione delle cariche, con un limite di mandati in Parlamento e nel governo. O attraverso il recall, la revoca anticipata degli eletti immeritevoli. Ecco, il merito. Rappresenta l’unica giustificazione del potere, e rappresenta al contempo la cerniera fra eguaglianza e libertà: l’eguale libertà di diventare diseguali, in base ai propri sforzi, nonché ai talenti che ciascuno ha ricevuto in sorte. Ma l’eguaglianza radicale di cui ci stiamo innamorando noi italiani ne è l’antitesi, il rovescio. Perché appiattisce i meriti, e perciò salva i demeriti.

michele.ainis@uniroma3.it
28 giugno 2014 | 07:05
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_giugno_28/ingannevole-uguaglianza-a1df620c-fe81-11e3-8a2a-88aba4066e9e.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Buone domande cattivi pensieri
Inserito da: Admin - Luglio 03, 2014, 06:33:07 pm
Buone domande cattivi pensieri

Di Michele Ainis

Diceva Craxi: quando non è possibile risolvere un problema, si nomina una bella commissione. Oggi invece s’indice una consultazione. È più trendy, e almeno in apparenza trasforma ogni elettore in un legislatore. Sarà per questo che gli ultimi tre governi ne hanno profittato a mani basse. Con la consultazione di Monti, nel 2012, sul valore legale della laurea. Con quella battezzata nel 2013 da Letta su «Destinazione Italia», per attrarre investimenti dall’estero. O dal suo ministro Quagliariello sulle riforme costituzionali (131 mila risposte online). Infine con le consultazioni promosse da Renzi sul Terzo settore (che ha incassato meno di 800 email), nonché sulla riforma della pubblica amministrazione.

Adesso tocca alla giustizia: 12 punti sottoposti al verdetto telematico, che spaziano dal divorzio breve al processo lungo, dalla carriera dei giudici a quella dei cancellieri, e via via intercettazioni, prescrizioni, informatizzazioni, buone intenzioni. E allora, dove sta il problema? Non nel metodo, ci mancherebbe: è sempre cosa santa e giusta testare gli umori del popolo votante. Dopotutto, in Francia la legge Barnier del 1995 stimola il giudizio dei cittadini sulle grandi opere pubbliche, e così succede in varie altre contrade, su varie altre materie. In Italia però non c’è nessuna legge che regoli queste forme di consultazione, sicché ciascun governo fa un po’ come gli pare. E questo sì, è un guaio. Specie se c’è di mezzo la giustizia, che è forse la più grave emergenza nazionale.

Da qui un problema di merito sul metodo, mettiamola così. Perché in primo luogo, se ci chiedete un’opinione, dovete poi tenerne conto. Per esempio: a Bologna, nel maggio 2013, si è celebrato un referendum consultivo sui fondi alle scuole private. Hanno vinto i no, ma il Consiglio comunale ha detto sì. Ovvio che poi ti senti buggerato. Ma in secondo luogo un’opinione pesa quando è libera, ed è libera quando ha di fronte alternative chiare, specifiche, puntuali. Meglio ancora se poste in successione progressiva, come hanno fatto i grillini con il loro progetto di legge elettorale. Lì, semmai, il limite era nel limite d’accesso, consentito a pochi congiurati.

Le domande, quindi. In ogni referendum (elettronico o cartaceo) contano più delle risposte, come osservò a suo tempo Bobbio. Perché le orientano, e spesso le prefigurano. Ma in questo caso, quali domande ci domanda il domandante? Per esempio, se intendiamo premiare i meriti nel cursus honorum dei magistrati. Certo che sì, ma come? Silenzio tombale: più che una domanda, è un quiz. Oppure se siamo o no d’accordo sulla riforma delle intercettazioni; tuttavia l’esecutivo confessa di non avere alcuna idea circa il da farsi. Ancora: le correnti giudiziarie, chi le compra? Probabilmente nessuno; ma il problema, di nuovo, è come venderle, come liberare il Csm dalle loro unghie rapaci. E la separazione delle carriere? Qui manca del tutto il quesito, magari per un eccesso di discrezione, di bon ton.

Diceva Oscar Wilde che le domande non sono mai indiscrete; però lo sono, talvolta, le risposte. Ecco perciò la nostra domanda: qual è la linea del governo in materia di giustizia? Perché il silenzio, si sa, alimenta i cattivi pensieri. Come il sospetto d’una trattativa sottobanco con l’Anm; e sarebbe imbarazzante la concertazione con il sindacato giudiziario, dopo averla bandita con gli altri sindacati sul lavoro. Ma si fa presto a sbarazzarsi dei sospetti. Basta che la prima consultazione il governo la faccia con se stesso.
michele.ainis@uniroma3.it

2 luglio 2014 | 07:31
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_luglio_02/buone-domande-cattivi-pensieri-7cf64360-01a7-11e4-b194-79c20406c0ad.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. C'è un cuoco un po' miope nella cucina delle riforme
Inserito da: Admin - Luglio 13, 2014, 10:45:08 am
Ritocchi necessari
C'è un cuoco un po' miope nella cucina delle riforme

Di Michele Ainis

La legge elettorale? A bagnomaria, cucinata a fuoco lento. E il Senato? Al forno, ma attenti alle ustioni. Intanto, mentre le pietanze cuociono, c’è già chi accusa un mal di pancia. Colpa degli ingredienti, anche se nessuno li ha ancora assaggiati. Oppure colpa delle pance.

D’altronde non ce n’è una uguale all’altra: per saziarle, servirebbero mille menu per i nostri mille parlamentari. Le soglie di sbarramento, per esempio: Bersani le trova troppo basse, Berlusconi troppo alte. O le immunità: sì da Alfano, sì da Forza Italia in coro, no da Grillo e Vendola, Pd non pervenuto. L’elezione diretta del Senato: a favore la minoranza della maggioranza (da Chiti a Minzolini), però stavolta la maggioranza rischia d’andare in minoranza. E le preferenze? Bersani le vuole, Berlusconi le disvuole, Renzi forse le rivuole, Grillo preferisce le spreferenze (un voto per promuovere, un voto per bocciare).

Troppi cuochi, verrebbe da obiettare. E troppa carne al fuoco. Ma per ottenere un piatto commestibile, bisogna anzitutto scegliere un'unica ricetta. È questo il nostro problema culinario: pencoliamo dalla nouvelle cuisine (il doppio turno in salsa francese) ai crauti (un Senato che scimmiotta il Bundesrat tedesco). Senza un'idea precisa, senza un progetto consapevole. Eppure in questi casi gli ingredienti sono solo due: rappresentanza e governabilità. Si tratta perciò di miscelarli per cavarne un buon sapore. Facile a dirsi, un po' meno a farsi. Specie in Italia, dove manca persino la bilancia. Come d’altronde testimonia la nostra stessa storia.

Durante la Prima Repubblica c’era una legge elettorale superproporzionale. Risultato: il massimo di rappresentatività del Parlamento (aperto a tutti, dai radicali ai neofascisti), il minimo di stabilità (i governi duravano in media 10 mesi). Ma anche il massimo di garanzie costituzionali, nella scelta dei custodi così come delle regole; difatti in 45 anni furono appena 6 le revisioni della Carta, peraltro su aspetti marginali. Dopo di che l’avvento del maggioritario battezza la Seconda Repubblica, e qui i pesi s’invertono. Diventa fin troppo facile emendare la Costituzione (10 interventi in vent’anni, senza contare la maxiriforma del 2005, bocciata poi da un referendum). I presidenti delle Camere perdono il loro abito neutrale, perché la maggioranza se li accaparra entrambi. Fino alla tragedia nazionale andata in scena l’anno scorso, durante i 5 voti nulli per eleggere il capo dello Stato. Perché ormai ci eravamo abituati a scelte rapide, sonore, muscolari. Eppure Scalfaro e Pertini vennero eletti al 16º scrutinio, Saragat al 21º, Leone dopo 23 votazioni.

Morale della favola: urge trovare un equilibrio fra rappresentanza e governabilità. Per esempio: il combinato disposto fra l’Italicum e il nuovo Senato permette al vincitore di mettere il cappello sul Quirinale. Non va bene, ma basta diminuire i deputati. E magari aumentare i collegi, per consentire all’elettore di conoscere il faccione dell’eletto. Abbassare le soglie di sbarramento, perché l’8% è una montagna. Innalzare il 37% con cui scatta la tombola elettorale: siccome un italiano su 2 marina ormai le urne, quella maggioranza è fin troppo presunta, e dunque presuntuosa. Ecco, la presunzione. È il nemico più temibile, perché nessuno può cucinare le riforme in solitudine. Mentre i 5 Stelle aprono al Pd, mentre Berlusconi offre collaborazione, sarebbe un delitto se il governo vedesse solo il proprio ombelico. Ma dopotutto, basta regalare al cuoco un paio d’occhiali.

7 luglio 2014 | 08:15
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_luglio_07/c-cuoco-po-miope-cucina-riforme-96f2545e-059c-11e4-9ae2-2d514cff7f8f.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Il labirinto delle garanzie
Inserito da: Admin - Luglio 26, 2014, 11:00:41 am
Il labirinto delle garanzie
Le riforme rischiano di naufragare per una serie di ostacoli, ecco quali

Di MICHELE AINIS

Il Titanic delle riforme rischia d’affondare sbattendo contro un doppio iceberg. L’elezione diretta del Senato, in primo luogo: respinta dal governo, però caldeggiata da Grillo, auspicata da Alfano, bramata da un fronte eterogeneo del dissenso tra le file del Pd e di Forza Italia. E in secondo luogo le preferenze per eleggere i nuovi deputati, negate anch’esse dall’ Italicum, ma agognate anch’esse come il primo amore. Errore: non è su questi ostacoli che può interrompersi la navigazione. Dopotutto, «Batman» Fiorito ottenne 26 mila voti di preferenza. E un Senato non elettivo costituisce la regola in Europa: funziona così in Francia, Germania, Austria, Olanda, Regno Unito, e almeno parzialmente in Belgio e in Spagna.

Dov’è allora lo scoglio? Sott’acqua: c’è, ma non si vede. Come la trama impercettibile di relazioni e di reciproche influenze tra i poteri dello Stato, come il gioco di pesi e contrappesi che garantiscono la tenuta del sistema. Ecco, le garanzie. Il bicameralismo paritario rispondeva a quest’ultima funzione, nel bene e nel male. Se ce ne sbarazziamo, se al contempo iniettiamo vitamine nelle vene del governo, dobbiamo giocoforza individuare altri presidi della legalità costituzionale. Perché vale pur sempre l’antidoto del vecchio Montesquieu contro ogni deriva autoritaria: «Il potere arresti il potere». E quale potere dovrà armarsi d’un fischietto? Non il nuovo Senato: per come si va configurando, diventerà un raccordo fra lo Stato e gli enti decentrati, non un organo di garanzia. Nemmeno un’altra authority, come se le 14 esistenti non fossero abbastanza. Ma è sufficiente rafforzare i garanti già indicati dalla Costituzione, a partire dal capo dello Stato.

Qui però sbuca l’inghippo. Con un Senato di 100 componenti, e senza più il concorso dei delegati regionali, il presidente verrà eletto da un collegio di 730 parlamentari. Ergo, al partito che incassa il premio di maggioranza nell’aula di Montecitorio basteranno 26 senatori per spedire un proprio fiduciario al Quirinale. E il fiduciario nominerà a sua volta 5 persone di fiducia alla Consulta, dispenserà grazie e medaglie ai fedeli del partito, ne eseguirà ogni ordine da uomo fidato. E no, non ci fidiamo. Ma il rimedio è già nero su bianco: l’emendamento Gotor-Casini, che allarga la platea dei grandi elettori ai 73 europarlamentari, votati con il proporzionale. D’altronde, non è forse vero che l’Italia è ormai una cellula dell’Unione Europea? E non è vero che il presidente assorbe varie competenze in questo campo, sia in politica estera che in materia di difesa?

Dopo di che c’è ancora qualche pezza da cucire. Per esempio attribuendogli il potere di rinviare le leggi una seconda volta, con un veto superabile soltanto a maggioranza assoluta. Innalzando il quorum per eleggere il presidente della Camera, in modo da affiancare all’arbitro un guardalinee più autorevole. Permettendo l’accesso delle minoranze parlamentari alla Consulta. Disinnescando i conflitti d’interesse, e quindi sottraendo ai deputati il potere di decidere sulla validità della propria elezione, sulle immunità, sulla paga di Stato. Potenziando gli istituti di democrazia diretta, l’unica pistola che hanno in tasca i cittadini. Rendendo obbligatorio il referendum confermativo su ogni riforma costituzionale, compresa quella in cantiere. Del resto, proposte analoghe possono già leggersi fra i 7.850 emendamenti depositati in Senato, anche se è un po’ come cercare l’ago nel pagliaio. Ma basta dotarsi d’una lente, e avere voglia di guardare.

23 luglio 2014 | 08:03
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_luglio_23/labirinto-garanzie-5d237230-1226-11e4-a6a9-5bc06a2e2d1a.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. LA FIDUCIA NELLE ISTITUZIONI Un sentimento impalpabile
Inserito da: Admin - Agosto 21, 2014, 07:18:35 pm
LA FIDUCIA NELLE ISTITUZIONI
Un sentimento impalpabile
Una ricerca dell’istituto tedesco Iw mostra come in Europa la povertà reale sia di gran lunga minore rispetto a quella percepita.

di Michele Ainis

Ti guardi attorno e incontri facce rattristate, umori torvi, occhi disillusi. Il futuro non è più quello d’una volta, diceva Valery; specialmente qui in Italia. Una ricerca dell’istituto tedesco Iw, appena diffusa, mostra come in Europa la povertà reale sia di gran lunga minore rispetto a quella percepita; e gli italiani (al 73%) si percepiscono poverissimi, molto più degli altri popoli europei. Perché sono poveri di speranze, d’ottimismo, di fiducia. Ecco, la fiducia. Quel sentimento volubile e impalpabile come volo di farfalla che nutre l’economia non meno della politica, non meno delle istituzioni. Se pensi che il peggio arriverà domani, non spenderai un centesimo dei tuoi pochi risparmi, neanche gli 80 euro che t’ha messo in tasca il governo; e il crollo dei consumi farà inabissare il sistema produttivo. Se vedi tutto nero, qualsiasi inquilino di Palazzo Chigi indosserà ai tuoi occhi una camicia nera, meglio combatterlo, con le buone o con le cattive.

C’è un farmaco per curare questa malattia? A suo tempo Berlusconi dispensò sorrisi e buoni auspici, raccontò di ristoranti pieni e aerei con i posti in piedi, promise di soffiare in cielo per scacciarne via le nuvole. Renzi rischia di ripeterne l’errore, se alle sue tante promesse non seguiranno presto i fatti. Perché una promessa mancata è un tradimento, e nessun tradimento si dimentica. Vale nelle relazioni amorose: se lo fai una volta, non riavrai mai più quella fiducia vergine e incondizionata che t’accompagnava durante i primi passi della tua vicenda di coppia. E vale, ahimè, nei rapporti con lo Stato. Che ci ha buggerato troppe volte, e ancora ce ne ricordiamo. Nella memoria nazionale campeggia, per esempio, il prelievo del 6 per mille sui depositi bancari deciso nottetempo dal governo Amato, fra il 9 e il 10 luglio 1992. Fruttò 11.500 miliardi di lire, una manna per i nostri conti perennemente in rosso; ma «’l modo ancor m’offende», direbbe il poeta. E l’offesa si traduce in un riflesso di paura ormai diventato atavico, che si gonfia a ogni crisi. Le cassette di sicurezza delle banche sono piene di contanti, lo sanno tutti, e la ragione sta proprio in quel remoto precedente.

Adesso, a quanto pare, tocca alle pensioni. Come se non fossero bastati gli esodati, gente mandata in pensione senza pensione dallo Stato: un’altra truffa, e 3 anni dopo non sappiamo nemmeno quanti siano. Speriamo almeno che l’esecutivo sappia d’una sentenza costituzionale (n. 116 del 2013) che ha già bocciato il prelievo introdotto dal governo Berlusconi, perché colpiva i pensionati, lasciando indenni le altre categorie di cittadini. L’ennesimo colpo alla fiducia collettiva, come le bugie di Stato, come le rapine fiscali, come le leggi ingannevoli che parlano ostrogoto per non farsi capire, neanche dai parlamentari che le votano. Eppure è la fiducia, è l’affidamento nella lealtà delle istituzioni, che dà benzina alle democrazie: non a caso il primo termine conta 485 ricorrenze nelle decisioni della Consulta, il secondo 500. Mentre il diritto civile tutela l’«aspettativa» circa la soddisfazione dei propri legittimi interessi. E in effetti un’aspettativa ce l’avremmo, per ritrovare qualche grammo di fiducia. Ci aspettiamo dal governo - quale che sia il governo - il linguaggio della verità, non le favole che si raccontano ai bambini. E ci aspettiamo che ogni sua decisione sia leale, affinché sia legale.

20 agosto 2014 | 08:00
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Titolo: MICHELE AINIS. Il governo e la semplificazione Un naufrago tra i decreti
Inserito da: Admin - Agosto 31, 2014, 11:56:11 am
Il governo e la semplificazione
Un naufrago tra i decreti

di Michele Ainis

Dall’evoluzione alla rivoluzione della specie. Neppure Lenin usava così spesso questo termine. Ma in che consiste il finimondo annunciato e rilanciato (19.400 volte, stando alle news di Google) dal nostro rivoluzionario premier? Semplice: rivoluzione fa rima con semplificazione. Applicata di volta in volta alla giustizia (il Tribunale della famiglia), agli appalti (vietando il goldplating), alle ristrutturazioni edilizie (la super Scia), ai beni culturali (meno sovrintendenze), e via semplificando.

Diciamolo: l’idea non è del tutto originale. La prima Commissione per la semplificazione burocratica venne istituita nel febbraio 1918; era presieduta da Giovanni Villa, e da lì a poco le succedettero le Commissioni Schanzer e Cassis. Invece la prima legge di semplificazione fu battezzata da Bonomi nel 1921. Ma negli ultimi anni è diventata una parola d’ordine, anche se per lo più genera disordine. Così, ci è toccato in sorte un ministro per la Semplificazione (Calderoli), a sua volta circondato da una Commissione parlamentare, un Comitato interministeriale e un’Unità governativa con la medesima funzione. Nel 1997 è stata introdotta la legge annuale di semplificazione, peraltro approvata soltanto 4 volte (nel 1999, nel 2000, nel 2003, nel 2005). E intanto un treno d’interventi viaggiava sui binari del decreto: per esempio il semplifica Italia, varato da Monti nel 2012.

Insomma, una rivoluzione di seconda mano. Ma con qualche tratto inedito, come no. Specie nel ginepraio della giustizia, dove l’esecutivo ha brevettato la semplificazione privatizzante (tu paghi l’avvocato difensore, poi paghi l’avvocato arbitro, poi magari paghi tutto il resto, perché perdi la causa). La semplificazione rinviante (sul processo penale, dove ogni partito ragiona per partito preso; e allora meglio una delega che un de profundis, meglio una legge futura che la morte prematura della coalizione di governo). Infine la semplificazione consultante: dei cittadini (a proposito, dove sono finiti i questionari?), dei direttori di giornale (sulle intercettazioni, ma nessuno li ha ancora intercettati), del nuovo Csm (che non c’è, dato che la maggioranza non lo elegge: 3 fumate nere).

Il rischio è d’aggiungervi la semplificazione blaterante, sia pure in tweet di 140 caratteri. Perché il nostro ordinamento è ingarbugliato come tela di ragno, e perché il garbuglio è colpa di norme improvvisate, ma anche di semplificazioni improvvide. La Scia, per dirne una: inventata da una legge nel 2010, poi corretta da altre leggi nel 2011, nel 2012 (due volte), infine adesso; e ogni intervento è stato foriero d’incertezze, rendendo necessario l’intervento successivo. O la normativa sugli appalti: 6 riforme per semplificarla tra il 2008 e il 2012, con Renzi siamo a 7. Da qui una lezione per il premier, ammesso che abbia voglia d’ascoltarla. La semplificazione promessa è sempre una scommessa. E la semplificazione fallita è una complicazione riuscita.

michele.ainis@uniroma3.it
31 agosto 2014 | 08:45
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DA - http://www.corriere.it/editoriali/14_agosto_31/naufrago-decreti-755f1354-30d5-11e4-9629-425a3e33b602.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. CRISI DELLA DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA La solitudine al potere
Inserito da: Admin - Settembre 14, 2014, 06:20:45 pm
CRISI DELLA DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA
La solitudine al potere

Di MICHELE AINIS

La democrazia è un cantiere sempre aperto. Ogni giorno si forma e si trasforma, anche se per lo più non ci facciamo caso. La folla dei muratori nasconde l’opificio, la polvere di calcinacci ci impedisce di vedere. Eppure sta cambiando, qui, adesso. E la cifra della sua metamorfosi si riassume in una parola: solitudine. Dei leader, dei cittadini, delle istituzioni. Ne è prova il confronto tra l’uomo che ha segnato gli ultimi vent’anni e quello che forse dominerà il prossimo ventennio. Berlusconi inventò il partito personale, schiacciato e soggiogato dal suo capo. Ma un partito c’era, con i suoi gonfaloni, con i suoi colonnelli. Invece Renzi è un leader apartitico, senza partito. Ha successo nonostante il Pd, talvolta contro il Pd. Il suo colore è il bianco, come la camicia sfoggiata a Bologna insieme agli altri leader della sinistra europea. E il bianco è un non colore, non esprime alcuna appartenenza.

D’altronde tutti i soggetti associativi sono in crisi, perciò sarebbe folle legarsi mani e piedi alle loro sventure. La fiducia nei partiti vola rasoterra dagli anni Novanta; adesso è sottoterra, al 6,5%. Nelle associazioni degli imprenditori credono ancora 3 italiani su 10, e appena 2 nei sindacati. È in difficoltà pure la Chiesa, ma papa Francesco riscuote il 91% delle simpatie popolari. Come peraltro Renzi, che surclassa la popolarità del suo governo (64%). Perché contano i singoli, non gli organismi collettivi. Contano i sindaci, non i consigli comunali. Conta il governatore, non l’assemblea della Regione: se il primo inciampa, cadono tutti i consiglieri. Mentre il Parlamento nazionale è già caduto, è un fantasma senza linfa: per Eurispes, se ne fida il 16% degli italiani. Invece il presidente della Repubblica, sia pure in calo, rispetto al Parlamento triplica i consensi.

E allora viva le istituzioni monocratiche, abbasso la democrazia rappresentativa. Come sostituirla? Con un tweet , nuova fonte oracolare del diritto. O con una fonte orale: ne ha appena fatto uso il ministro Orlando, annunziando un emendamento al decreto sulla giustizia. Anche se quel testo nessuno lo conosce, anche se Napolitano non l’ha ancora timbrato, anche se la competenza ad emendarlo spetterebbe semmai all’intero Consiglio dei ministri. Ma quest’ultimo è l’ennesimo organismo collegiale caduto ormai in disgrazia, sicché ciascun ministro fa come gli pare. Sempre che sia d’accordo poi il primo ministro, dinanzi al quale tutti gli altri non sono che sottoministri.

E lui, l’uomo solo al comando, come comanda? Berlusconi seguiva l’onda dei sondaggi, a costo di cambiare idea tre volte al giorno, se gli piovevano sul tavolo tre rilevazioni differenti; Renzi non sonda, consulta. Il 15 settembre s’aprirà la grande consultazione sulla scuola, dopo quella sullo sblocca Italia, sulla giustizia, sulla burocrazia, sul Terzo settore. Anche la riforma costituzionale (art. 71) fa spazio a nuove «forme di consultazione».

Nel 1992 fu l’utopia di Ross Perot, outsider alle presidenziali americane: una società atomistica, in cui ciascuno potesse promuovere o bocciare qualunque decisione di governo, schiacciando un tasto sul computer mentre fa colazione. Non è l’utopia di Renzi, anche perché in Italia i consultati non decidono alcunché. Ma la consultazione è diventata lo strumento per stabilire un rapporto verticale con il leader, nel vuoto di rapporti che segue l’eclissi di ogni aggregazione collettiva. Il risultato? Parafrasando Gaber: l’incontro di due solitudini, in un Paese solo.
michele.ainis@uniroma3.it

11 settembre 2014 | 08:08
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_settembre_11/solitudine-potere-8e1abf2e-3972-11e4-99d9-a50cd0173d5f.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. L’anagrafe che divide
Inserito da: Admin - Settembre 23, 2014, 05:04:37 pm
L’anagrafe che divide
Di MICHELE AINIS

L’Italia è unita, gli italiani no. Si dividono per tifoserie politiche, per sigle sindacali, per corporazioni. Li separa la geografia economica, dato che il Pil del Mezzogiorno vale la metà rispetto al Settentrione. Sui temi etici restano in campo guelfi e ghibellini. Ma adesso s’alza un altro muro, il più invalicabile: l’anagrafe. Quella delle idee, con la crociata indetta dal premier contro ogni concezione ereditata dal passato. Dimenticando la massima di Giordano Bruno: «Non è cosa nova che non possa esser vecchia, e non è cosa vecchia che non sii stata nova». E quella, ahimè, delle persone. Distinte per i capelli bianchi, anche nel loro patrimonio di diritti.

Da qui la trovata che illumina il Jobs act : via la tutela dell’art. 18, ma solo per i nuovi assunti. Per i vecchi (6 milioni e mezzo di lavoratori) non si può: diritti quesiti, come ha precisato il leader della Uil. Curiosa, questa riforma che taglia in due il popolo della stessa azienda, mezzo di qua, mezzo di là. Riforma parziale, un po’ come una donna parzialmente incinta. Doppiamente curioso, l’appello ai diritti quesiti. A prenderlo sul serio, quando entrò in vigore la Carta repubblicana avremmo dovuto mantenere lo Statuto albertino per tutti i maggiorenni.

E a proposito della Costituzione. Nel 1970 lo Statuto dei lavoratori - di cui l’art. 18 rappresenta un caposaldo - fu salutato come il figlio legittimo dei principi costituzionali. Così, d’altronde, viene ancora definito nella letteratura giuridica corrente. Poi, certo, non ha senso discutere di garanzie quando manca il garantito: il diritto al lavoro esiste soltanto se c’è il lavoro. E a sua volta ogni Costituzione può essere applicata in varia guisa. Anche riconoscendo ai lavoratori licenziati un indennizzo, anziché il reintegro nel posto di lavoro. Ciò che tuttavia non si può fare è d’applicare contemporaneamente la stessa norma costituzionale in due direzioni opposte. Lo vieta la logica, prima ancora del diritto. Tanto più se il criterio distintivo deriva dall’età, di cui nessuno ha colpe, però neppure meriti.

Ma il Jobs act non è che l’ultimo episodio della serie. Le discriminazioni anagrafiche condiscono sempre più frequentemente la pietanza delle nostre leggi, ora a danno dei più giovani, ora degli anziani. Così, nel giugno 2013 il governo Letta decise incentivi per l’assunzione degli under 30. E i cinquantenni che perdono il lavoro? Perdono anche il voto, o quantomeno lo dimezzano, secondo la proposta di legge depositata da Tremonti nel 2012: voto doppio per chi è sotto i quarant’anni. Invece nella primavera scorsa la ministra Madia ha tirato fuori la staffetta generazionale nella Pubblica amministrazione: tre dirigenti in pensione anticipata, un giovanotto assunto. Dagli esodati agli staffettati. Tanto peggio per i vegliardi, cui si rivolgono però in altre circostanze i favori della legge, dalle promozioni automatiche all’assegnazione degli alloggi popolari, dalle pensioni sociali al ruolo di coordinatore nell’ufficio del giudice di pace (spetta al «più anziano di età»: legge n. 374 del 1991).

No, non è con queste medicine che possiamo curare i nostri mali. Occorrerebbe semmai una medicina contro ogni discriminazione basata sul certificato di nascita. Gli americani ne sono provvisti dal 1967 (con l’Employment act ), gli inglesi dal 2006. Mentre dal 2000 una direttiva europea vieta le discriminazioni anagrafiche nel mercato del lavoro. In attesa d’adeguarci, non resta che il soccorso d’una (vecchia) massima: i diritti sono di tutti o di nessuno, perché in caso contrario diventano altrettanti privilegi.
michele.ainis@uniroma3.it

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23 settembre 2014 | 07:37

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_settembre_23/anagrafe-che-divide-e4f20c6e-42df-11e4-9734-3f5cd619d2f5.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Il mal di teste dei partiti
Inserito da: Admin - Ottobre 09, 2014, 05:08:39 pm
Il mal di teste dei partiti
Di Michele Ainis

I partiti agonizzano, i sindacati rantolano e neanche gli italiani stanno troppo bene. Ci attende un futuro orfano di queste grandi organizzazioni? A leggere i numeri, il futuro è già iniziato. Il Pd in un anno ha perso l’80% dei suoi iscritti: ora sono 100 mila, quando il partito di Alfano ne dichiara 120 mila. Ammesso che sia vero, dato che alle Europee l’Ncd in Campania ha ottenuto meno voti che iscritti. Ma pure la metà basterebbe a rendere felice Forza Italia, che fin qui ha racimolato la miseria di 8 mila iscrizioni.

Sulla carta, va meglio ai sindacati: 12 milioni e 300 mila tessere. Non senza dubbi, anche in questo caso: nel 2012 la Confsal ha denunziato almeno 3 milioni d’iscritti fantasma. E in ogni caso con un’emorragia nel settore privato (un milione d’associati in meno fra il 1986 e il 2008) e una flessione anche fra i dipendenti pubblici (dal 10% al 16% nella sanità, nelle Regioni, nei ministeri). A turare la falla, soccorrono immigrati e pensionati. Non i giovani, che se ne tengono a distanza. Sicché pure in Italia sta per risuonare l’annuncio della Thatcher: nel 1987 disse che il numero degli azionisti aveva superato quello degli iscritti al sindacato. Del resto è un’onda che viene da lontano. Nel 1990 la Dc sommava 2.109.670 iscritti; otto anni dopo il Ppi ne aveva 197 mila. E l’onda bagna tutto il globo. Dagli anni Ottanta la militanza nei partiti è calata del 64% in Francia, del 50% negli Usa, del 47% in Norvegia. Insomma il problema non è Renzi, non è lui che ha ucciso il Novecento. Il problema è che in Italia mancano soluzioni di ricambio, rispetto alla crisi dei Parlamenti che s’accompagna alla crisi dei partiti. Obama non ha dietro di sé un partito strutturato; però gli americani hanno a disposizione i referendum (174 durante le ultime presidenziali), le esperienze di democrazia deliberativa, il recall (che consente la revoca degli eletti). E noi, come ci attrezziamo per questa nuova democrazia senza sindacati né partiti?

Quanto ai sindacati, difettano di strumenti alternativi. Lo Statuto dei lavoratori sarà vecchio, ma si discute dell’articolo 18, non di coinvolgere i lavoratori nella gestione delle imprese. Quanto alle segreterie politiche, fanno un po’ come gli pare, dato che manca una legge sui partiti. Come manca sulle consultazioni pubbliche, di cui gli ultimi governi abusano fingendo d’ascoltare i cittadini. In compenso la riforma costituzionale menziona il referendum propositivo, accanto a quello abrogativo. Quest’ultimo fu attuato con 22 anni di ritardo; speriamo di non rinnovare l’esperienza. Perché una cosa è certa, nel nostro incerto quotidiano: la crisi dei partiti ha aperto un vuoto. Per non farci risucchiare, dobbiamo restituire lo scettro ai cittadini.

9 ottobre 2014 | 09:16
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_ottobre_09/mal-teste-partiti-0a81ae42-4f76-11e4-8d47-25ae81880896.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Capitale umano, degrado etico La parabola dell’inefficienza
Inserito da: Admin - Ottobre 22, 2014, 06:00:49 pm
Capitale umano, degrado etico
La parabola dell’inefficienza

Di Michele Ainis

L’ inefficienza. Declino economico, degrado etico. C’è un nesso? Certo: la corruzione drena risorse, come l’evasione fiscale. Non a caso per Transparency International siamo terzultimi in Europa, quanto al tasso di legalità. Ma la questione non coinvolge solo il codice penale, travolge pure il codice morale. Quello scolpito dai rivoluzionari francesi, due secoli fa, nell’articolo 6 della Déclaration: «I cittadini sono ugualmente ammissibili a tutti gli incarichi e impieghi pubblici, senza altra distinzione che quella delle loro virtù e dei loro talenti». Ecco, i talenti. Quanto contano in Italia le qualità professionali, le competenze, le esperienze? Ben poco, a giudicare dall’ultima vicenda: un dirigente genovese rinviato a giudizio per inondazione colposa, e al contempo premiato dal Comune. O la penultima: una signora eletta al Csm senza averne i titoli. Ma i titoli vanno a rotoli, quando succede che il bando per la direzione del Museo egizio di Torino non menzioni l’egittologia fra le conoscenze richieste ai candidati, o quando la gestione di Pompei venga sottratta agli archeologi, come ha denunziato Salvatore Settis. D’altronde chi decide è la politica, ed è l’unica decisione tempestiva: una nomina ogni 4 giorni per il governatore siciliano Crocetta, nei primi due anni di mandato. Mentre il suo collega Maroni ha designato un esperto d’antifurti alla presidenza di Lombardia Informatica.

Tuttavia la nomina prediletta dai politici è l’autonomina, e anche qui conta l’appartenenza, non la competenza. Così, il Garante della privacy è un dermatologo. Al governo c’è una farmacista a guidare gli Affari regionali, un’imprenditrice della moda sottosegretario all’Istruzione, un laureato in lettere viceministro dell’Agricoltura. Ma la stessa laurea è un optional: alla Camera non è laureato il presidente della commissione Trasporti, al Senato quelli delle commissioni Finanze e Sanità. E la commissione Ambiente è presieduta da un odontoiatra.
Dice: ma in politica vige il principio della rappresentanza, non della competenza. Fino a un certo punto. Alla Costituente i dottori superavano il 74% del totale, e a quel tempo la laurea era merce rara. Inoltre la politica dovrebbe essere d’esempio, ma se promuovi la persona sbagliata sbagli anche l’esempio. E alla fine della giostra si rompe poi la giostra. Nel 2006 un’indagine Ederer, condotta su 13 Paesi europei, ci collocò all’ultima casella per la capacità d’utilizzare il nostro capitale umano. La crisi italiana era già iniziata, benché non lo sapessimo. Tuttavia adesso lo sappiamo: l’incompetenza produce inefficienza. E l’inefficienza costa, costa cara.

22 ottobre 2014 | 08:18
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_ottobre_22/parabola-dell-inefficienza-capitale-umano-degrado-etico-michele-ainis-598a57bc-59aa-11e4-b202-0db625c2538c.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. La parabola dell’inefficienza
Inserito da: Admin - Ottobre 23, 2014, 11:35:29 am
La parabola dell’inefficienza

Di Michele Ainis

L’ inefficienza. Declino economico, degrado etico. C’è un nesso? Certo: la corruzione drena risorse, come l’evasione fiscale. Non a caso per Transparency International siamo terzultimi in Europa, quanto al tasso di legalità. Ma la questione non coinvolge solo il codice penale, travolge pure il codice morale. Quello scolpito dai rivoluzionari francesi, due secoli fa, nell’articolo 6 della Déclaration: «I cittadini sono ugualmente ammissibili a tutti gli incarichi e impieghi pubblici, senza altra distinzione che quella delle loro virtù e dei loro talenti». Ecco, i talenti. Quanto contano in Italia le qualità professionali, le competenze, le esperienze? Ben poco, a giudicare dall’ultima vicenda: un dirigente genovese rinviato a giudizio per inondazione colposa, e al contempo premiato dal Comune. O la penultima: una signora eletta al Csm senza averne i titoli. Ma i titoli vanno a rotoli, quando succede che il bando per la direzione del Museo egizio di Torino non menzioni l’egittologia fra le conoscenze richieste ai candidati, o quando la gestione di Pompei venga sottratta agli archeologi, come ha denunziato Salvatore Settis. D’altronde chi decide è la politica, ed è l’unica decisione tempestiva: una nomina ogni 4 giorni per il governatore siciliano Crocetta, nei primi due anni di mandato. Mentre il suo collega Maroni ha designato un esperto d’antifurti alla presidenza di Lombardia Informatica.

Tuttavia la nomina prediletta dai politici è l’autonomina, e anche qui conta l’appartenenza, non la competenza. Così, il Garante della privacy è un dermatologo. Al governo c’è una farmacista a guidare gli Affari regionali, un’imprenditrice della moda sottosegretario all’Istruzione, un laureato in lettere viceministro dell’Agricoltura. Ma la stessa laurea è un optional: alla Camera non è laureato il presidente della commissione Trasporti, al Senato quelli delle commissioni Finanze e Sanità. E la commissione Ambiente è presieduta da un odontoiatra.

Dice: ma in politica vige il principio della rappresentanza, non della competenza. Fino a un certo punto. Alla Costituente i dottori superavano il 74% del totale, e a quel tempo la laurea era merce rara. Inoltre la politica dovrebbe essere d’esempio, ma se promuovi la persona sbagliata sbagli anche l’esempio. E alla fine della giostra si rompe poi la giostra. Nel 2006 un’indagine Ederer, condotta su 13 Paesi europei, ci collocò all’ultima casella per la capacità d’utilizzare il nostro capitale umano. La crisi italiana era già iniziata, benché non lo sapessimo. Tuttavia adesso lo sappiamo: l’incompetenza produce inefficienza. E l’inefficienza costa, costa cara.

22 ottobre 2014 | 08:18
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_ottobre_22/parabola-dell-inefficienza-capitale-umano-degrado-etico-michele-ainis-598a57bc-59aa-11e4-b202-0db625c2538c.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Un precedente assai spiacevole
Inserito da: Admin - Ottobre 29, 2014, 06:51:48 pm
Editoriale
Un precedente assai spiacevole

Di Michele Ainis

Ieri è entrato in scena il Precedente. Ossia un fatto istituzionale mai avvenuto prima, che però da qui in avanti potrà replicarsi all’infinito. È la grammatica delle democrazie, intessute di regole scritte e d’interpretazioni iscritte nella storia. E il Quirinale non fa certo eccezione. Anzi: ogni presidente è un precedente per chi viene dopo, ciascuno consegna al successore un capitale d’esperienze diverso da quello che lui stesso aveva ricevuto. Nel luglio 2012 Napolitano sollevò un conflitto contro i magistrati di Palermo, dinanzi ai quali ora ha accettato di deporre. In quell’occasione citò Luigi Einaudi, per ribadire l’esigenza che nessun precedente alteri il lascito del Colle. Esigenza giusta, ma al contempo errata. Per soddisfarla a pieno, dovremmo fermare l’orologio.

Da qui la lezione che ci impartisce la vicenda. Napolitano avrebbe potuto rifiutarsi di testimoniare, come ha ammesso la stessa Corte di Palermo. Poteva farlo perché l’articolo 205 del codice di rito configura la sua testimonianza su base volontaria, escludendo qualsiasi mezzo coercitivo. Bastava dire no, e anche il diniego avrebbe offerto un precedente. Invece ha detto sì. E ha fatto bene: chi non ha nulla da nascondere non deve mai nascondersi. Ecco perché lascia un retrogusto amaro la decisione di tenere l’udienza a porte chiuse. Forse la diretta tv avrebbe compromesso il prestigio delle nostre istituzioni. O forse no: dopotutto nel 1998 la testimonianza di Bill Clinton sul caso Lewinsky si consumò a reti unificate. In ogni caso era possibile esplorare una via di mezzo, magari una trasmissione radiofonica, magari un resoconto dalla stampa accreditata.

Perché la qualità del precedente si misura dalla sua ragionevolezza. Dipende perciò dall’attitudine a comporre istanze contrapposte, forgiando un modello cui potrà attingersi in futuro. Specie quando ogni istanza rifletta un valore costituzionale, come succede in questo caso: l’autonomia della magistratura; il diritto di difesa, che vale pure per Riina; il riserbo sulle attività informali del capo dello Stato. Ma c’è ragionevolezza nel processo di Palermo? A osservare l’aggressività dei pm, parrebbe di no; non a caso quel processo ha già innescato un conflitto fra poteri. A valutare talune decisioni del collegio giudicante, parrebbe di sì: per esempio la scelta di non ammettere in videoconferenza i boss mafiosi nel palazzo che rappresenta la Repubblica, bensì soltanto i loro difensori. E quanto è stato ragionevole l’esame testimoniale? Non lo sappiamo, bisogna attendere la diffusione del verbale. Nel frattempo girano versioni contrastanti, i presenti rilasciano interviste, le interviste inondano i tg. Ma che l’avvocato di Riina diventi per un giorno il portavoce del Quirinale, almeno questo è un paradosso che potevamo risparmiarci.

29 ottobre 2014 | 07:32
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_ottobre_29/precedente-assai-spiacevole-e1fa925a-5f32-11e4-a7a8-ad6fbfe5e57a.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Senato, Italicum, regolamenti Vedi alla voce riforme smarrite
Inserito da: Admin - Novembre 03, 2014, 05:48:15 pm
Senato, Italicum, regolamenti
Vedi alla voce riforme smarrite

Di Michele Ainis

Sarà che siamo tutti un po’ nevrotici, volubili, distratti. Sarà che la memoria non è la prima qualità degli italiani. Ma non ci avevano raccontato che le riforme istituzionali devono precedere quelle economiche e sociali? Non si erano impegnati a liquidarle in un baleno? Certo, ammesso che la certezza trovi spazio fra le categorie della politica. E allora perché nessuno più se ne rammenta? Perché giacciono sepolte in una bara?

Proviamo a salire sulla macchina del tempo. Legge elettorale: timbrata il 12 marzo dalla Camera, al culmine d’una maratona notturna e di molte polemiche diurne. Ma da 7 mesi chiusa nei cassetti del Senato, che non l’ha mai discussa. Riforma costituzionale: promessa da Renzi entro maggio, poi per giugno, infine approvata l’8 agosto dal Senato, con la minaccia di confiscare le ferie ai senatori. Nel frattempo sono andati in vacanza i deputati, perché alla Camera la riforma è ferma al palo. Regolamento della Camera: un anno di lavoro per generare un testo, poi sommerso da oltre 300 emendamenti. La prossima seduta cadrà dopo il 15 novembre, ma i 5 Stelle e Forza Italia non ci stanno. Vogliono attendere il nuovo bicameralismo, per non rischiare incoerenze.

Da qui il dubbio che tormenta la politica: nasce prima l’uovo o la gallina? Da qui la nostra unica certezza: anche per oggi, non mangeremo l’uovo e non vedremo razzolare la gallina. Non è affatto vero, però, che nel dubbio la politica stia con le mani in mano. No, su ogni riforma rimugina, riflette, ripensa. E cambia idea come san Paolo sulla via di Damasco. L’ Italicum? Premio di maggioranza alla coalizione, anzi alla lista. La riforma costituzionale? Licenziata con l’impegno del governo di modificarla su aspetti per nulla secondari, come l’elezione del capo dello Stato. Significa che i mezzi risultati fin qui raggiunti sono in realtà falsi risultati. La revisione della Costituzione richiede 4 letture; ma se la seconda correggerà la prima, ne serviranno 5. Quanto alla legge elettorale, se cambia il suo principio fondativo toccherà riscriverla.

«Ci vorrebbero degli dei per dare leggi agli uomini», diceva Rousseau. Se ci fosse, questo dio legislatore scriverebbe prima le norme costituzionali, poi i regolamenti parlamentari, poi la legge elettorale. E magari con l’ultima riga d’inchiostro detterebbe pure una legge sui partiti. Invece quaggiù c’è al lavoro un diavoletto, che forse ha deciso d’anteporre la legge elettorale a tutto il resto. E forse il resto è un’elezione in primavera, con un sistema che presume l’abolizione del Senato, perché l’Italicum vale solo per la Camera. Dal paradiso all’inferno, ma dopotutto ci siamo abituati.

2 novembre 2014 | 09:55
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_novembre_02/vedi-voce-riforme-smarrite-9ceeea96-625f-11e4-9f8e-083eb8ae3651.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Lo scontro sulla riforma Le nascoste imperfezioni dell’Italicum
Inserito da: Admin - Novembre 09, 2014, 12:05:39 pm
Lo scontro sulla riforma
Le nascoste imperfezioni dell’Italicum

di Michele Ainis

Dopo otto mesi, torna in scena la legge elettorale: il risveglio della Bella addormentata. Adesso Renzi ha fretta, Berlusconi ha flemma. Sicché la querelle è tutta sui tempi, sul calendario che dovrà celebrare il lieto evento. Anche l’idea di trasferire il premio di maggioranza (dalla coalizione al partito più votato) non ha acceso troppe baruffe tra i due commensali. L’essenziale, per il primo, è d’agguantare un altro trofeo, sventolandolo dinanzi agli elettori. L’essenziale, per il secondo, è che continui a sventolare la legislatura, dato che lui non riesce più ad agguantare gli elettori.

Domanda: ma non potremmo fare presto e bene? Perché l’Italicum è un male, anzi un maleficio costituzionale. Ci è capitata già una volta (col Porcellum ) l’esperienza di una legge elettorale stracciata poi dalla Consulta. Due volte no, sarebbe un imbroglio al quadrato. Sennonché l’ Italicum imbroglia i principi iscritti nella Carta. Quali? Primo: la parità di genere. Promossa dall’articolo 51 della Costituzione, bocciata nel testo uscito il 12 marzo dalla Camera. Secondo: le pluricandidature. Per effetto di quel testo, capi e caporali di partito possono candidarsi in 8 collegi, diventando plurieletti; dopo di che dovranno scegliere, giacché nessuno può sedersi contemporaneamente su 8 poltrone. E i loro votanti negli altri 7 collegi? Buggerati. Terzo: le liste bloccate. Dunque parlamentari nominati dai partiti, anziché scelti dai cittadini. Per la Consulta (sentenza n. 1 del 2014) questo sistema «ferisce la logica della rappresentanza». Ma con l’ Italicum i nominati restano, la ferita pure. Tuttavia il colpo mortale - al buon senso, oltre che alla Costituzione - è ancora un altro. Perché l’Italicum s’applica alla Camera, non anche al Senato. Lì resta un proporzionale puro, il Consultellum. Ma è ragionevole votare con due marchingegni opposti? Risponde, di nuovo, la Consulta: questa scelta schizofrenica «favorisce la formazione di maggioranze non coincidenti nei due rami del Parlamento, pur in presenza di una distribuzione del voto nell’insieme sostanzialmente omogenea». E dunque offende «i principi di proporzionalità e ragionevolezza». Insomma, non è in questione la legittimità di qualche differenza tra Camera e Senato. Dopotutto, le nostre assemblee legislative hanno già numeri diversi (630 deputati, 315 senatori), una diversa anagrafe (25 e 40 anni per occuparvi un seggio), un diverso corpo elettorale (alla Camera si vota a 18 anni, al Senato a 25).

Non è un problema neppure la scelta fra maggioritario e proporzionale. L’uno sacrifica la rappresentatività del Parlamento in nome della governabilità, l’altro procede in direzione opposta. E infatti abbiamo fin qui sperimentato sia il primo che il secondo: votando con un proporzionale nella prima Repubblica, con un maggioritario durante la seconda. L’importante è non elidere del tutto il valore di volta in volta recessivo, privandoci d’un minimo di democrazia o privando la democrazia della stessa possibilità di funzionare. Ma è altrettanto importante che la scelta - quale che sia la scelta - esponga una motivazione razionale, ed è qui che casca l’asino, anzi l’ Italicum. Perché il supermaggioritario della Camera viene annullato dal superproporzionale del Senato, lasciandoci infine con le tasche vuote: senza democrazia, senza governo.

Domanda bis: ma i nostri legislatori non lo sanno che la loro creatura è figlia illegittima della Costituzione legittima? Lo sanno, lo sanno. Anche se hanno cercato d’appellarsi alla riforma del Senato, per giustificare la trovata. Balle: ammesso che la riforma veda mai la luce, ammesso che il Senato elettivo finisca nel cassetto dei ricordi, la nuova legge elettorale sopravvivrebbe in ogni caso. Ne cadrebbe una parte, tutto qui. Abrogata per estinzione del suo oggetto, come succede quando la legge tutela una specie animale che in seguito s’estingue. E allora perché hanno cucito un vestito su misura per la Camera, lasciando il Senato a pelle nuda? E perché adesso non ci mettono una toppa? Risposta: perché è tutta una finta, un barbatrucco. Fingono di risolvere i problemi, e intanto ne creano di maggiori.

8 novembre 2014 | 07:57
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_novembre_08/nascoste-imperfezioni-dell-italicum-3e65b932-670f-11e4-afa4-2e9916723e38.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Riforme e partite personali Retroscritto di un’intesa
Inserito da: Admin - Novembre 15, 2014, 05:48:30 pm
Riforme e partite personali
Retroscritto di un’intesa

Di Michele Ainis

C’ è sempre un non detto, un sottinteso. Renzi: eleggo un giudice costituzionale insieme ai 5 Stelle per dimostrare a Berlusconi che ho un’altra maggioranza pronta a cresimare le riforme. Berlusconi: accetto il nuovo Italicum perché così potrò concorrere alla scelta del nuovo presidente. Napolitano: anticipo le dimissioni per accelerare l’iter della legge elettorale, che infatti è uscita dal letargo.

Sicché le due partite rimbalzano l’una addosso all’altra. Ma per vie oblique, e con accordi opachi. D’altronde anche il patto del Nazareno viene oscurato ormai da un sottopatto, quello fra Renzi e i suoi nanetti. Il primo alza l’asticella all’8% per guadagnare seggi: 4 milioni d’elettori. Il secondo l’abbassa al 3% e voilà! 2 milioni e mezzo di italiani svaniscono nell’aria come fumo. Assieme a loro svanisce pure la promessa d’eliminare i partitini, che trasformano i loro voti in veti. E il premio di maggioranza? 327 seggi, no, 340. Alla coalizione, no, alla lista. Ma sempre con un retropensiero, giacché la lista sarà una coalizione mascherata. Nel 2008 il Pd di Veltroni imbarcò 9 radicali, che ovviamente dopo le elezioni fecero a cazzotti col Pd. Se il matrimonio è falso, la baruffa poi è sincera.

E quanto è sincero il coro delle vedove che implora Napolitano di restare? Chi vuole le elezioni in primavera non può che desiderare le sue dimissioni, perché lui non scioglierà mai questo Parlamento. Però è un desiderio inconfessabile, e infatti non viene confessato. Si professa viceversa l’urgenza della legge elettorale, anche se magari ai professori urge conquistare il Quirinale. E il varo dell’Italicum è un buon cavallo di Troia: convincerebbe il presidente a lasciare con animo sereno, avendo salutato almeno una riforma.

Nel frattempo si consuma un paradosso. Con l’avvento di Renzi, Napolitano era finito in un cono d’ombra; ora è sotto i riflettori. I poteri presidenziali affievoliscono quando s’avvicina il giorno dell’addio; i suoi poteri invece si rafforzano.

Dal semestre bianco al bimestre nero. E il nuovo presidente? Magari ringrazierà il Parlamento che l’ha eletto licenziandolo su due piedi. Ma a sua volta il Parlamento può spedirlo in cassa integrazione, se approverà per tempo anche la riforma della Carta. Perché quella riforma gonfia il premier, e perciò fa dimagrire il presidente. Curiosa, questa tenzone sotterranea per occupare una poltrona, proprio mentre la politica sega le gambe alla poltrona. Curioso, quest’affaccendarsi attorno alla legge elettorale con la mente rivolta a ben altre faccende. Ma la mente dei politici mente, non è una novità.

14 novembre 2014 | 07:12
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_novembre_14/retroscritto-un-intesa-06ac7b7e-6bc5-11e4-ab58-281778515f3d.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Il rompicapo perfetto disorienta i cittadini
Inserito da: Admin - Novembre 24, 2014, 03:06:57 pm
Riforma elettorale
Il rompicapo perfetto disorienta i cittadini

Di Michele Ainis

Buone intenzioni, cattive applicazioni. È giusto sbarazzarsi del bicameralismo paritario? Sì, però cambiando la Costituzione, non la legge elettorale. Quest’ultima non può semplificare l’ iter legis , né sottrarre ai senatori il voto di fiducia sul governo. E non è altrettanto giusto correggere la legge elettorale? Di più: è urgente. Altrimenti voteremmo coi rimasugli del Porcellum, ossia con un proporzionale puro. Difatti i nostri geni si sono messi all’opera, regalandoci l’Italicum. In sintesi: premio di maggioranza e governo chiavi in mano, con o senza ballottaggio. Peccato che il marchingegno s’applichi alla Camera, non anche al Senato. Tanto laggiù non serve, dicono; aboliremo l’elettività dei senatori. E se la riforma del Senato fa cilecca? Rimarrà in circolo un sistema schizofrenico, come il Corriere segnalò a suo tempo («Il buon senso nel cestino», 4 marzo). Supermaggioritario di qua, superproporzionale di là. Una follia. Denunziata, adesso, anche dagli ultimi due presidenti della Consulta (Silvestri e Tesauro).

Secondo Roberto D’Alimonte ( Il Sole 24 Ore , 22 novembre), la denunzia «non sta in piedi». Ma è la sua difesa che ha problemi d’equilibrio. D’Alimonte osserva che la doppia elezione di Camera e Senato può sempre offrire risultati contrastanti, quale che sia la legge elettorale. Altro però è subirli, altro auspicarli, incentivarli, programmarli. Altro è decidere per un maggioritario usando ingredienti diversi (al Senato con l’unino-minale, alla Camera con il premio), altro è decidere per un maggiorzionale. Inoltre il premio di maggioranza sacrifica la rappresentatività del Parlamento, dunque si giustifica solo in cambio di maggiore governabilità. L’Italicum, viceversa, battezza un Senato ingovernabile, una Camera non rappresentativa. Con un solo sparo, uccide entrambi i valori costituzionali in gioco. E infine uccide pure il Parlamento, allevando due Dracula che si vampirizzano a vicenda.

C’è un esorcismo contro questo vampiro? In teoria, basterebbe estendere l’Italicum al Senato. Dove però non votano i più giovani, che magari alla Camera voteranno in massa per i 5 Stelle. Rischiando, così, d’andare al ballottaggio con due coppie di ballerine differenti.

Esempio: da un lato Grillo contro Renzi, dall’altro Renzi contro Berlusconi. Una follia al quadrato. Per scongiurarla, si può riesumare l’emendamento Lauricella: la legge elettorale entra in vigore dopo la riforma (ipotetica e futura) del Senato. Ma allora l’urgenza della legge verrebbe contraddetta dalla stessa legge. Una follia al cubo. Da qui l’unico effetto certo dell’Italicum: riapriremo i manicomi.

24 novembre 2014 | 08:26
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_novembre_24/rompicapo-perfetto-disorienta-cittadini-028a20ee-73ab-11e4-a443-fc65482eed13.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Efficacia cercasi La fretta e i dubbi
Inserito da: Admin - Dicembre 14, 2014, 11:10:15 pm
Efficacia cercasi
La fretta e i dubbi
In Italia siamo giustizialisti o garantisti a giorni alterni

Di Michele Ainis

A ogni azione corrisponde una reazione. È la terza legge della dinamica, ma è anche la prima legge della politica. Che infatti s’emoziona solo quando un’onda emotiva turba l’opinione pubblica. Troppi detenuti nelle carceri? Depenalizziamo. Troppi corrotti nella municipalità capitolina? Penalizziamo. Sicché in Italia siamo giustizialisti o garantisti a giorni alterni. Basta consultare Google: 141 mila risultati per «aggravamento delle pene», 143 mila per «diminuzione delle pene».

Ma oggi è il giorno dell’inasprimento, del giro di vite e di manette. Il Consiglio dei ministri ha appena licenziato un testo urgente, benché non tanto urgente da confezionarlo in un decreto. E quel testo stabilisce la confisca dei beni del corrotto (meglio tardi che mai). Innalza i termini di prescrizione che altre leggi avevano abbassato. E per l’appunto aggrava la pena detentiva di due anni. Succede sempre, quando c’è un allarme sociale da placare. È già successo con le norme approvate dopo l’ultimo caso di pedofilia (settembre 2012) o dopo il penultimo disastro ambientale (febbraio 2014).

Funzionerà? Come dice il poeta, «un dubbio il cor m’assale». Perché chi ruba e chi intrallazza non pensa al codice penale, pensa di farla franca. E se ci pensa, non saranno dieci anni di galera anziché otto ad arrestare i suoi progetti. Perché inoltre il deterrente non risiede nella durezza della pena bensì nella sua certezza; ma alle nostre latitudini è sempre incerta la condanna non meno della pena. Perché l’ordinamento giuridico italiano ospita già 35 mila fattispecie di reato, che chiunque può commettere senza nemmeno sospettarne l’esistenza. Rendendo così insicuro il cammino degli onesti, mentre rimane lesto il passo dei disonesti. E perché infine quell’ordinamento è volubile e sbilenco come i politici che l’hanno generato. Per dirne una, la legge di depenalizzazione del 1981 inasprisce le sanzioni per chi divulghi le delibere segrete delle Camere.

Eppure una via d’uscita ci sarebbe: passare dalla (finta) repressione alla (vera) prevenzione. Come? Per esempio sforbiciando le 8 mila società partecipate dagli enti locali. O con misure efficaci contro il conflitto d’interessi, che tuttavia alla Camera rimbalzano dalla commissione all’Aula senza che i nostri deputati cavino mai un ragno dal buco. Con una legge sulle lobby: gli americani se ne dotarono nel 1946, gli italiani hanno visto 55 progetti di legge andare in fumo l’uno dopo l’altro. Con l’anagrafe pubblica degli eletti, che i Radicali propongono (invano) dal 2008. O quantomeno potremmo uscirne fuori rendendo obbligatorio per legge il provvedimento deciso dal sindaco Marino dopo la scoperta dei misfatti: rotazione dei dirigenti, degli incarichi, dei ruoli di comando. Una misura anticorruzione già emulata in lungo e in largo, dal Comune di Canicattì al Policlinico di Bologna. E già benedetta da Cantone il mese scorso, quando sempre Marino avviò la rotazione territoriale dei vigili urbani, dopo l’arresto per tangenti del loro comandante.

Dopotutto, è l’uovo di Colombo. Se non resti per secoli inchiodato alla poltrona, ti sarà più difficile poltrire, ti sarà impossibile ordire. E il corruttore avrà i suoi grattacapi, se il corruttibile cambierà faccia a ogni stagione come una maschera di Fregoli. Dice: ma così diminuirà la competenza, che cresce in virtù dell’esperienza. Vallo a raccontare agli italiani, alle vittime di un’amministrazione incompetente e per giunta inamovibile. Vallo a raccontare a chi ha dovuto specchiarsi per vent’anni nelle facce immarcescibili degli stessi politici, degli stessi alti burocrati. Qui e oggi, una ministra fresca di stampa come Boschi sta facendo meglio di tanti suoi stagionati predecessori. E comunque l’uovo non lo inventò Colombo: fu deposto nell’antica Grecia. In democrazia si governa e si viene governati a turno, diceva Aristotele. Sarebbe bello se l’Italia sapesse riparare la sua democrazia. Di più: sarebbe onesto.

michele.ainis@uniroma3.it
13 dicembre 2014 | 09:16
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_dicembre_13/fretta-dubbi-89174238-8295-11e4-a0e7-0a3afe152a95.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Le leggi dell’urgenza L’eclissi della regola
Inserito da: Admin - Gennaio 05, 2015, 04:51:58 pm
Le leggi dell’urgenza L’eclissi della regola

Di Michele Ainis

L’ eccezione è sempre eccezionale, direbbe monsieur de La Palice. Invece alle nostre latitudini è normale. Nel senso che la misura straordinaria costituisce ormai la norma, la regola, la prassi. Il caso più eloquente investe l’abuso dei decreti: 20 in 10 mesi, per il governo Renzi. Una media in linea con quella dei suoi predecessori, dato che Letta ne aveva sparati 22, Monti 25. Sicché questo strumento normativo, che i costituenti brevettarono per fronteggiare i terremoti, è diventato il veicolo ordinario della legislazione. Significa che in Italia i terremoti sono quotidiani, peggio che in Giappone. Come d’altronde i voti di fiducia, che hanno l’effetto di terremotare il Parlamento. Quello ottenuto dal governo sulla legge di Stabilità era il trentesimo della serie: dunque una fiducia ogni 10 giorni, record planetario. E oltre la metà delle leggi approvate sotto il ricatto del voto di fiducia.

C’è sempre un argomento che giustifica la misura eccezionale: forza maggiore. Se non intervengo per decreto, chissà quando si decideranno a intervenire le due Camere. Se non pongo la fiducia, magari mi voteranno contro. E così via, fra un maxi emendamento e una seduta notturna sulla manovra finanziaria, per scongiurare l’esercizio provvisorio. Del resto la XVII legislatura s’aprì con la rielezione del presidente uscente. Non era mai avvenuto, ma quella scelta fu possibile - come disse lo stesso Napolitano - perché la Costituzione aveva lasciato «schiusa una finestra per tempi eccezionali». Dalla forza maggiore deriva l’eccezione, dall’eccezione l’eclissi della regola. Dovrebbe trattarsi di un’eclissi temporanea; invece è divenuta permanente. Così, in ogni democrazia i governati conferiscono un mandato ai loro governanti; ma gli ultimi tre esecutivi (Monti, Letta, Renzi) non hanno ricevuto alcun mandato. La loro investitura deriva dalla necessità, dallo stato d’eccezione.

L’urgenza permanente inocula un elemento ansiogeno nella nostra vita pubblica. E anche in quella privata, come no. Tu scopri che l’ultimo Consiglio dei ministri si è tenuto alle 4.40 del mattino, t’accorgi che il prossimo è stato convocato alla vigilia del Natale, e allora ti ficchi un elmetto sulla testa: dev’esserci una guerra, benché nessuno l’abbia dichiarata. In secondo luogo, l’urgenza impedisce programmi a lungo termine, però in compenso alleva misure frettolose, strafalcioni, commi invisibili come quelli votati (si fa per dire) dai senatori sulla legge di Stabilità. In terzo luogo e infine, chi decide sull’urgenza? Per dirne una, quest’autunno il Parlamento si è riunito a raffica per eleggere due giudici costituzionali. Ne ha eletto uno, dell’altro non si sa più nulla. Il primo era urgente, il secondo no.
Da qui il frutto avvelenato che ci reca in dono il nostro tempo. Perché la dottrina del male minore - cara a Spinoza come a Sant’Agostino - ci abitua a stare in confidenza con il male, sia pure allo scopo d’evitarne uno peggiore. E perché, laddove sussista una causa di forza maggiore, dovrà pur esserci una forza minore, una vittima sacrificale. Ma quella vittima è la legalità.

23 dicembre 2014 | 07:52
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DA - http://www.corriere.it/editoriali/14_dicembre_23/eclissi-regola-f1e9d650-8a69-11e4-9b75-4bce2f4b3eb9.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Il declino delle istituzioni - Vent’anni di solitudine
Inserito da: Admin - Gennaio 05, 2015, 05:06:43 pm
Il declino delle istituzioni - Vent’anni di solitudine
Guardiamo sempre al dopo, come se ogni giorno la vita stia per cominciare. Ma è un errore. Vale anche per l’Italia che, pare, non imparare mai dagli errori commessi

Di Michele Ainis

Rovesciare lo sguardo sul passato è come sporgersi da un pozzo: ti fa venire le vertigini. E t’impaurisce, perché il passato è un fondo d’acque limacciose. Sarà per questo che guardiamo sempre al dopo, come se ogni giorno la vita stia per cominciare. È un errore: il futuro dipende dal passato. Vale per gli individui, vale per la società nel suo complesso. E vale per l’Italia, da tempo immersa in una stagione di «eccezionalità costituzionale». L’ha definita così Napolitano, auspicando il restauro della norma, della regola. Quale normalità? E dov’è stata, fin qui, l’eccezione?

A girarsi indietro sui vent’anni della seconda Repubblica, due fenomeni si stagliano sopra tutti gli altri: la verticalizzazione del potere; la sua concentrazione personale. Entrano in crisi gli organismi collegiali, dal Parlamento che la Costituzione situa a fulcro del sistema, ma che ormai appare come una folla d’anime perdute; ai Consigli regionali, le cui imprese allietano la cronaca giudiziaria, non più quella politica. Lo stesso Consiglio dei ministri - che ai tempi della prima Repubblica costituiva il crocevia nel quale s’intessevano gli accordi fra i partiti di governo - viene offuscato e sormontato dal faccione del leader, del Gran Capo di turno.

Perché è questo il nuovo verbo, tanto da praticare un lifting sulle parole stesse della Carta. Così, il presidente del Consiglio si trasforma in Premier, confondendo Tevere e Tamigi. I presidenti regionali sono altrettanti Governatori, come s’usa negli Usa. Il capo dello Stato diventa un monarca («re Giorgio»), manco fossimo a Madrid. Vent’anni di solitudine, direbbe García Márquez. E la solitudine al potere. Ma nel frattempo questi poteri solitari s’intralciano, si sfidano, tendono sgambetti. Anzi: tutta l’avventura della seconda Repubblica può leggersi come un duello, fra le istituzioni, se non fra le persone. E i maggiori duellanti hanno casa rispettivamente a Palazzo Chigi e al Quirinale.

Chi ha vinto? Napolitano, nella penultima stagione. Quando i partiti gli chiesero a mani giunte di rieleggerlo, in nome dello stato d’eccezione. O quando lui fu levatrice e nume tutelare dei governi, surrogando il Parlamento. Ma ha vinto Renzi, nell’ultima stagione. Ossia un presidente del Consiglio superpopolare, mentre cadeva di 27 punti la popolarità del Colle (Demos 2014), mentre il suo inquilino lasciava il campo pur restandogli 5 anni di mandato. Sarà forse questa, la normalità costituzionale che ci attende. E dopotutto è questa - ahimè - la norma cui tende il progetto di riforma. Molte truppe, un solo generale.

4 gennaio 2015 | 10:45
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Titolo: MICHELE AINIS. La figura che non vorremmo L’eredità di Napolitano al Quirinale
Inserito da: Admin - Gennaio 19, 2015, 07:00:30 am
Giochi aperti
La figura che non vorremmo
L’eredità di Napolitano al Quirinale

Di Michele Ainis

Ogni presidente della Repubblica scrive la storia, però è vero anche il contrario: è la storia che scrive i presidenti. Ciascuno di loro è figlio d’una particolare stagione politica, civile, culturale, e la influenza, ma soprattutto ne viene influenzato. Rammentiamocene, quando potremo vergare un giudizio a mente fredda sull’esperienza di Giorgio Napolitano al Quirinale. Rammentiamocene, mentre ci sospinge l’urgenza d’individuare il nome del suo sostituto. Perché una cosa è certa, nell’incertezza in cui nuotiamo giorno dopo giorno: l’uomo che uscirà dal Colle, al termine del settennato, sarà un uomo diverso da quello che v’era entrato.

I precedenti, d’altronde, sono inconfutabili. Il caso più vistoso fu Cossiga: per cinque anni silente ed ossequiente, dal 1990 si trasforma in «picconatore» del sistema, insulta questo o quel capopartito, monta sul ring contro i magistrati, blocca sistematicamente le leggi approvate dalle Camere (con la media d’un rinvio a bimestre). Anche il suo successore, tuttavia, ospitava un mister Hyde sotto l’abito del dottor Jekyll. Scalfaro aveva criticato a muso duro l’interventismo di Cossiga, e infatti nel 1992 - quando giurò da capo dello Stato - promise di ripristinare la centralità del Parlamento, garantendo il self-restraint (l’autocontrollo) nell’esercizio delle proprie funzioni. Risultato: divenne il più interventista fra i nostri presidenti.

Ben più di Napolitano, messo in croce per il battesimo dell’esecutivo Monti. S calfaro nominò sei presidenti del Consiglio, fra i quali almeno tre (Amato, Ciampi, Dini) posti sotto l’esplicita tutela presidenziale. E decise due interruzioni anticipate della legislatura, compresa quella davvero eccezionale del 1994, benché il Parlamento fosse capace d’esprimere una maggioranza in sostegno del governo.

Potremmo continuare ancora a lungo in quest’esercizio di memoria. Potremmo evocare il nome di Pertini, eletto nel 1978 - durante i nostri anni di piombo - per garantire la tenuta delle istituzioni, poi perennemente scavalcate dal nuovo presidente attraverso il colloquio diretto con la pubblica opinione.

Potremmo ricordare la traiettoria di Segni: nel 1962 esordisce anch’egli criticando l’attivismo del predecessore Gronchi, ma sta di fatto che nel biennio della sua presidenza usa per otto volte il potere di rinvio, quando in tutte le legislature precedenti le leggi rispedite alle Camere erano state appena sette. Senza dire dei fatti del 1964, su cui permane ancora un’ombra: nel bel mezzo d’una crisi di governo, Segni riceve ufficialmente al Quirinale il comandante dell’arma dei carabinieri, artefice del «piano Solo».

Quale lezione possiamo allora trarre da questi remoti avvenimenti? Una doppia lezione, un corso universitario in due puntate.
Primo: contano gli accidents of personality , come dicono gli inglesi. Conta il carattere, la tempra individuale. Perché al Quirinale risiede un potere monocratico, che ogni presidente usa in solitudine. E quel potere - scriveva nel 1960 il costituzionalista Carlo Esposito - non viene affidato alla Dea Ragione, bensì a un uomo in carne e ossa, con i suoi vizi e con le sue virtù. L’esperienza solitaria di ciascun presidente può acuire i vizi, o altrimenti può esaltare le virtù. Dipende. Ma lo sapremo solo a cose fatte, a bilancio chiuso.

Secondo: contano altresì gli accidents of history, se così possiamo dire. Conta la storia, con i suoi imprevedibili tornanti. Dopotutto è questa la ragione che rese un primattore Scalfaro, al pari di Napolitano. A differenza di Ciampi - che visse gli anni più stabili della Seconda Repubblica - l’uno e l’altro si sono trovati a navigare il fiume lungo le sue anse terminali. Scalfaro alla sorgente, Napolitano alla foce. Anche se l’epilogo di quest’esperienza ventennale è ben lungi dall’essersi concluso. Ma in entrambi i casi si conferma un’altra profezia di Esposito, che dipingeva il presidente come «reggitore» dello Stato durante le crisi di sistema.

Poi, certo, ogni crisi può abbordarsi in varia guisa. Ancora una volta, dipende: dagli uomini, così come dalle circostanze. Scalfaro distingueva fra governi amici e nemici, sicché nel maggio 1994 salutò il primo gabinetto Berlusconi con un altolà, esigendo per iscritto la sua «personale garanzia» circa il rispetto della Costituzione. Per Napolitano tutti i governi erano amici, e infatti nel novembre 2010 salvò lo stesso Berlusconi dalla mozione di sfiducia, ottenendone il rinvio al mese successivo. La sua bussola, insomma, si chiamava stabilità. Anche se nel frattempo l’edificio diventava sempre più instabile e sbilenco, anche se talvolta uno scossone può riuscire salutare. O almeno era quest’ultima la ricetta di Cossiga, una ricetta opposta a quella offerta da Napolitano.

In conclusione, non c’è una conclusione univoca dettata dalla storia. O forse sì, c’è almeno un monito. Attenzione a scegliere una figura dimessa e scolorita: sarebbe un errore. In primo luogo perché il soggiorno al Colle accende colori insospettabili nei suoi vari inquilini. In secondo luogo perché la tormenta non si è affatto placata, ci siamo dentro mani e piedi. La Seconda Repubblica rantola, la Terza non ha ancora emesso i suoi vagiti. E in questo tempo di passaggio serve un capo dello Stato, non un capo degli statali.

michele.ainis@uniroma3.it
14 gennaio 2015 | 08:20
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_gennaio_14/quirinale-chi-non-vorremmo-presidente-7bc6f18a-9bb5-11e4-96e6-24b467c58d7f.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Legge elettorale I padroni del voto di tutti
Inserito da: Admin - Gennaio 31, 2015, 04:48:27 pm
Legge elettorale
I padroni del voto di tutti

Di Michele Ainis

I compromessi, come i funghi, si dividono in due categorie: quelli buoni e quelli cattivi. È commestibile il compromesso raggiunto sulla legge elettorale? Perché di questo, in ultimo, si tratta: l’ Italicum che sta per varcare l’uscio del Senato non è la legge di Renzi, né di Berlusconi. Il primo avrebbe preferito i collegi uninominali (intervista al Messaggero, 25 aprile 2012). Il secondo ha ingoiato il doppio turno, e ha pure dovuto digerire il premio alla lista, anziché alla coalizione. Ma non è generosità, è realismo. Perfino Lenin, nel settembre 1917, scrisse che in politica non si può rinunziare ai compromessi.

E a noi popolo votante, quanto ci compromette il compromesso? Per saperlo, bisogna innanzitutto togliersi un Grillo dalla testa: che da qualche parte esista un sistema perfetto, dove l’elettore sia davvero sovrano. No, non c’è. I candidati li decidono i partiti, mica noi. Anche con l’uninominale, la nostra scelta è sempre di secondo grado. Rousseau diceva che il cittadino è libero soltanto quando vota, dopo di che per 5 anni torna schiavo. Sbagliava: non siamo del tutto liberi nemmeno in quell’unica giornata.

Però c’è prigione e prigione. La più buia era il Porcellum: premio di maggioranza senza limiti, parlamentari senza voto. Di quanto si sono poi allargate le sbarre della cella? Di un bel po’, diciamolo; specie se mettiamo a confronto l’ultima versione dell’Italicum con il suo primo stampo. Per farlo, basta puntare gli occhi
su una lettera dell’alfabeto: la «P». Premio, pluricandidature, preferenze, parità di genere, primarie, percentuali per l’accesso ai seggi: è su questi campi che si gioca la partita dei partiti.

E dunque, il premio di maggioranza. In origine scattava con il 35% dei consensi, poi al 37%, ora al 40%. Meglio così, la forzatura suona meno forzata. Quanto alla soglia di sbarramento per i piccoli partiti, l’8% è diventato il 3%; ma dopotutto, se la governabilità discende dal premio, non aveva senso negare l’accesso in Parlamento alle forze politiche minori. Progressi pure sulle quote rosa: la Camera aveva detto no, il Senato dice sì. Però regressi sulle pluricandidature: da 8 a 10, come se Buffon giocasse in tutti i ruoli. E niente da fare sulle primarie obbligatorie, che avrebbero restituito un po’ di peso agli elettori. Infine le preferenze: subentrano alle liste bloccate, anche se restano bloccati i capilista. E clausola di salvaguardia rispetto all’abolizione del Senato elettivo, un altro punto che mancava nell’accordo originario.

Si poteva fare meglio? Certo, ma anche peggio. Tuttavia c’è un’altra «P» da scrivere a margine di questa legge elettorale: il nuovo presidente. Toccherà a lui compensare la «P» del premier, che ne esce più forte che mai. Se viceversa al Colle entrerà una sua controfigura, in futuro i compromessi Renzi potrà farli con se stesso.

24 gennaio 2015 | 08:05
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_gennaio_24/i-padroni-voto-tutti-37ed19c4-a391-11e4-808e-442fa7f91611.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. I paradossi di una buona scelta
Inserito da: Admin - Febbraio 07, 2015, 10:03:53 am
Il Quirinale

I paradossi di una buona scelta
Il voto su Mattarella è espressione della politica migliore.
Ma il metodo seguito dal Pd per l’elezione rischia di complicare il cammino delle riforme, necessarie per chiudere una stagione di eccezionalità

di Michele Ainis

Con l’elezione di Mattarella, Matteo (Renzi) ha dato scacco matto. Ma il suo successo galleggia su cinque paradossi. Primo: i numeri. Inizialmente servivano i due terzi, ma la politica li ha (quasi) raggiunti quando non servivano, alla quarta votazione. Perché da subito c’era un candidato, ma c’era pure l’ordine di votare scheda bianca. Un trucco per eludere la maggioranza qualificata prescritta dalla Costituzione, che invece s’è presa una rivincita postuma sui posteri.

Secondo: le facce. Nel 1981, quando la Democrazia cristiana regnava con il 38% dei consensi, a Palazzo Chigi c’era un repubblicano (Spadolini), al Quirinale un socialista (Pertini). Nel 2015 la Dc risulta morta da un bel pezzo, ma in quei due palazzi ha lasciato un figlio e un nipotino. Terzo: la legge. Quella elettorale è stata annullata l’anno scorso da Mattarella e dagli altri suoi colleghi alla Consulta, eppure il Parlamento nullo ha eletto il proprio annullatore. Significa che è nulla pure l’elezione? No, è nulla l’obiezione: anche Napolitano (nel 2006 e nel 2013) fu scelto da un Parlamento formato con il medesimo sistema, mica possiamo salire sulla macchina del tempo.

Ma il paradosso più paradossale è il quarto, perché ha a che fare con il segno complessivo di quest’elezione presidenziale. Quale? Il riscatto della politica, del suo primato, della sua capacità decisionale. Due anni dopo, quel migliaio d’anime in pena precipitate nell’inferno dei franchi tiratori si sono svegliate in paradiso. Il voto su Mattarella esprime la scelta migliore per la successione al Colle, ed esprime al tempo stesso la politica migliore. Sennonché questa pienezza in realtà maschera un vuoto. Per riabilitarsi, la politica ha dovuto infatti uscire da se stessa, smentendo prassi fin qui sempre rispettate. Ne è prova il curriculum del nuovo presidente. Fra i suoi 11 predecessori, il solo Einaudi non era mai stato a capo del governo o di un’assemblea parlamentare; come Mattarella, lui fu soltanto vicepresidente del Consiglio, e magari l’analogia preannunzia una filosofia comune nell’interpretazione dei propri poteri. Ne è prova altresì l’incarico attualmente ricoperto da Sergio Mattarella: giudice costituzionale, come Giuliano Amato, l’altro principale candidato. Non era mai accaduto, giacché la politica non era mai stata costretta a chiedere soccorso a un’istituzione terza, per ritrovare la sua verginità perduta.

Da qui l’ultimo slalom fra logica e politica. Con Mattarella ci lasciamo alle spalle la stagione dell’eccezionalità costituzionale, aperta dalla rielezione del vecchio presidente. Un evento inedito, che la Carta del 1947 sconsiglia ma non vieta, disegnando per l’appunto una finestra per le situazioni d’emergenza. Ora la finestra è stata chiusa, l’eccezione si è conclusa. Tuttavia la regola non c’è, o meglio non c’è ancora. Dipenderà dalle riforme, che però questo voto per il Colle ha reso ben più impervie, come mostrano i segnali sinistri che s’odono da destra. Dove il merito (Mattarella) piace, il metodo (Renzi) dispiace. E senza Forza Italia sarà dura incassare la riforma del Senato, del Titolo V, del nuovo assetto dei poteri. Dunque la scelta del nuovo presidente favorisce il restauro della regola, ma al contempo l’allontana. Mentre noi restiamo immersi in un tempo di passaggio, senza una bussola per orientare il nostro passo.

michele.ainis@uniroma3.it
2 febbraio 2015 | 10:04
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http://www.corriere.it/opinioni/15_febbraio_02/i-paradossi-una-buona-scelta-2e2dc630-aaae-11e4-87bf-b41fb662438c.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Lo stile Mattarella I silenzi e le parole del Colle
Inserito da: Admin - Febbraio 25, 2015, 12:06:08 pm
Lo stile Mattarella
I silenzi e le parole del Colle

Di Michele Ainis

Magari dura poco. Magari fra qualche tempo sfoggerà un eloquio torrenziale, costringendoci ai tappi nelle orecchie. Ma intanto la cifra di Sergio Mattarella, in queste sue prime settimane al Quirinale, si riassume in una parola muta: il silenzio. Un unico intervento ufficiale (al Csm) registrato sul sito web del Colle, dopo il discorso d’insediamento. E nel frattempo partecipa silente alla celebrazione dei Patti lateranensi; annunzia l’apertura quotidiana del Palazzo in cui dimora, dettando cinque frasi secche come telegrammi; s’affaccia a una cerimonia in ricordo di Bachelet, ma resta ancora una volta silenzioso; commemora le foibe, parlando per meno d’un minuto; riceve le opposizioni irate dopo il voto sulla riforma costituzionale, senza concedere nessuna dichiarazione alle agenzie.

Tutto qui. Peraltro in sintonia con lo stile di un uomo che dal 2008 aveva rilasciato un’unica intervista. O che salutò gli italiani, nel giorno dell’elezione, evocandone difficoltà e speranze con un soffio di voce: 15 parole, su cui si riversarono 15 quintali di commenti. Sarà che i siciliani sono di poche parole. Tuttavia quel silenzio, lassù dal Colle, rimbomba come un tuono. E a suo modo t’inquieta, mentre attorno la gente non smette di vociare. Infine t’interroga, ti rivolge una domanda che rimane poi senza risposta. Che cos’è, infatti, il silenzio? La più perfetta espressione del disprezzo, come diceva Bernard Shaw? O l’albero da cui pende la pace, secondo l’aforisma di Schopenhauer?

Sennonché la domanda è ancora un’altra. E investe le istituzioni, più che le persone. Giacché incrocia una facoltà di cui i predecessori di Mattarella hanno fatto uso e abuso: il potere d’esternazione. Una pioggerella d’interviste, note di stampa, discorsi ufficiali, comunicati, conferenze, messaggi televisivi, allocuzioni. Cossiga ne inanellò 120 nel 1990, 170 nel 1991, 200 nel 1992. Ma il pioniere fu Pertini, da allora in poi emulato in lungo e in largo. Non era così, in origine. Nel suo Scrittoio del Presidente , Luigi Einaudi teorizzò il carattere privato, anziché pubblico, del pensiero presidenziale. Un’attività di consulenza informale verso il governo e il Parlamento, sottratta allo sguardo degli astanti. E i costituzionalisti, per una volta, cantavano all’unisono. Nel 1951 Guarino sosteneva che il presidente non potesse appellarsi all’opinione pubblica, salvo i messaggi di circostanza, ma sempre per iscritto e con la controfirma del governo. Nel 1958 Crisafulli reputava la controfirma doverosa anche per gli interventi orali. Mentre Barile ragionava sulla controfirma tacita: quando il presidente s’accosta a un microfono senza chiedere permesso, o il governo lo bacchetta, oppure vuol dire che è d’accordo. Insomma, chi tace acconsente, ma è molto meglio se tace il presidente.

Che cosa resta, adesso, di quelle antiche tesi? La Costituzione è sempre uguale, ma da trent’anni vige la regola contraria. Il potere d’esternazione è diventato l’arma più visibile e potente di cui dispone il Quirinale, il megafono d’istanze collettive, la frusta con cui l’uomo del Colle richiama le altre istituzioni ai propri adempimenti. Qui c’entra, senza dubbio, la funzione che la nostra Carta assegna al capo dello Stato. Se lui rappresenta l’unità nazionale - scriveva Paladin nel 1986 - dovrà giocoforza collegarsi all’opinione pubblica, perché altrimenti rappresenterebbe il nulla. Ma c’entra soprattutto un elemento di rottura fra il prima e il dopo della nostra storia costituzionale: la crisi dei partiti. È questa crisi che ha allevato l’esigenza di un’autorità morale, in grado di colmare il vuoto lasciato dai partiti. E non a caso la logorrea presidenziale erompe durante gli anni Ottanta, quando si manifestano le prime avvisaglie della crisi. Che tuttavia non è affatto conclusa; semmai, si è incrudelita.

Da qui l’ennesima domanda. Forse gli ultimi presidenti hanno parlato troppo, e troppo spesso si sono esercitati in una recita dell’ovvio; le parole andrebbero spese con misura, soppesandole una ad una. Ma quanto può essere utile un presidente taciturno? Se quest’ultimo incarna - come diceva Piero Calamandrei - la viva vox Constitutionis, dovrà comunque far risuonare la sua voce. Magari applicando la ricetta di un filosofo, anziché di un costituzionalista. Wittgenstein: «Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere». Ma sul resto no, parliamone.

23 febbraio 2015 | 08:58
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_febbraio_23/i-silenzi-parole-colle-33c0d6b6-bb23-11e4-aa19-1dc436785f83.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Riforme necessarie ma non punitive
Inserito da: Admin - Marzo 07, 2015, 04:31:12 pm
Riforme necessarie ma non punitive
Il disordine delle regole sconvolge le professioni
Adesso divampa un fenomeno senza precedenti: l’implosione delle lobby

Di Michele Ainis

L’Italia unita non è mai stata troppo unita. Corporazioni e campanili recano i segni di un’antica divisione, cui generalmente manca ogni visione. Mai un progetto slacciato dal proprio tornaconto, mai una scintilla di solidarietà. Ma adesso divampa un fenomeno senza precedenti: l’implosione delle lobby. E dei partiti, e delle parti sociali. Perché alla guerra contro il nemico esterno si va sostituendo la guerra intestina, il conflitto tra fazioni armate l’una contro l’altra. E forse è questa l’eredità più consistente che ci lascia in corpo l’anno I del governo Renzi I.

Non che le categorie professionali abbiano smesso di combattersi. Per dirne una, a febbraio il disegno di legge Concorrenza ha acceso livori e furori. Derby fra notai e avvocati, dato che questi ultimi potranno surrogare i primi nella compravendita d’immobili fino a 100 mila euro. E contro gli avvocati pure i commercialisti (perché loro sì e noi no?). Infine geometri e architetti contro l’apertura del mercato privato alle società d’ingegneria. Mentre fra avvocati e medici, sempre il mese scorso, s’è aperta una battaglia a colpi di spot televisivi. Da un lato, l’esortazione a denunziare la malasanità; dall’altro, la maledizione nei confronti degli «avvoltoi» dei risarcimenti.

Scaramucce, rispetto allo scontro che infuria in ogni dove. Perché la notizia di giornata è questa: lo scontro s’estende a tutti i corpi associativi, e per l’appunto si consuma al loro interno, volge in lotta fratricida. Nella magistratura l’unità delle correnti, da sempre divise per accaparrarsi posizioni, e però sempre coese nella difesa corporativa del potere giudiziario, è andata in fumo sulla riforma della responsabilità civile: i moderati volevano lo sciopero, le correnti di sinistra no. Nel frattempo si spacca Magistratura indipendente, in sospetto di connivenza col governo per interposto sottosegretario (Cosimo Ferri); e Davigo fonda una nuova corrente. Ma si spacca altresì la Cgil, dilaniata dal conflitto tra Camusso e Landini. Si spacca la Lega Pro del calcio (29 club contro altri 29 sulla fiducia al presidente Macalli). E si spacca, in generale, ogni categoria investita dalle riforme del governo.

Così, la riforma Delrio delle Province ha avuto l’effetto di porre i loro dipendenti contro gli altri dipendenti pubblici. La riforma Giannini della scuola promette d’innescare una contesa fra precari semplici e abilitati. La riforma Madia dell’amministrazione, insieme al tetto sugli stipendi pubblici, ha riacceso il malanimo fra impiegati e dirigenti. I chirurghi sono sul piede di guerra contro il comma 566 della legge di Stabilità, che li equipara alle altre professioni sanitarie. A dicembre i giovani avvocati si sono rivoltati contro la Cassa forense: in seguito a un regolamento del governo, quest’ultima ha trasformato i contributi previdenziali in un salasso. All’università la penuria di risorse ha posto, ormai da tempo, i ricercatori contro i professori. Con il futuro accorpamento dei tg, anche alla Rai si preannunziano lotte per la sopravvivenza. Senza dire del progetto d’unificare le forze di polizia, sempre annunciato e sempre rimandato: 5 corpi sono troppi, ma alla fine della giostra c’è il rischio che ne rimanga in piedi uno soltanto, con una pistola fumante tra le mani.

Dice: ma dopotutto non c’è di che allarmarsi, se qualcuno s’arrabbia significa che qualcuno ci rimette, significa perciò che le riforme stanno cambiando la faccia plumbea di questo Paese. Vero, ma fino a un certo punto. Non se monta una rabbia di tutti contro tutti. Non se la divisione penetra come un coltello nel corpaccione dei partiti, delle stesse istituzioni. A destra, Forza Italia è spaccata tra Berlusconi e Fitto, la Lega tra Zaia e Tosi. A sinistra, il Pd ha più correnti del Mar dei Caraibi. Non solo nella minoranza, frastagliata tra bersaniani, civatiani, lettiani, cuperliani, fioroniani, bindiani, dalemiani. Non solo in mezzo con i Giovani turchi, un piede di qua, l’altro di là. No, anche la maggioranza si scheggia in varie minoranze. A breve - con la benedizione di Delrio - il battesimo dei catto-renziani, autonomi e distinti dai renziani-renziani. Di questo passo lo stesso Renzi finirà tagliato in due come il visconte dimezzato di Calvino.
Infine il seme della discordia mette radici nella cittadella delle nostre istituzioni. Attraverso l’abuso dei decreti, che ha provocato ruvide carezze fra la presidenza della Camera e quella del Consiglio. E di nuovo attraverso le riforme. La legge elettorale, che distingue fra capilista bloccati e candidati votati, alimentando un bel dubbio di legittimità costituzionale. Il Parlamento prossimo venturo, con una Camera d’eletti e un Senato di negletti. Divide et impera , dicevano i latini. Ma a forza di dividere, nella bandiera italiana rimarranno soltanto le bande. Armate.

4 marzo 2015 | 18:35
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_marzo_04/disordine-regole-sconvolge-professioni-7e480a98-c293-11e4-9c34-ed665d94116e.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Le parole che mancano Il potere senza contrappesi
Inserito da: Admin - Marzo 16, 2015, 11:40:29 pm
Le parole che mancano
Il potere senza contrappesi

Di Michele Ainis

Non c’è due senza tre. Dopo il voto estivo da parte del Senato, dopo il voto invernale ieri alla Camera, il ping pong della riforma rimbalzerà di nuovo sul Senato. E a quel punto la pallina dovrà saltare un altro paio di volte fra le nostre assemblee legislative, per la seconda approvazione. Non è finita, insomma. Eppure, in qualche misura, è già finita. Perché adesso il Senato può intervenire esclusivamente sulle parti emendate dalla Camera, non sull’universo mondo. Perché dopo d’allora il timbro finale di deputati e senatori sarà un lascia o raddoppia, senza più correggere una virgola. E perché diventerà un prendere o lasciare anche il nostro voto al referendum, quando ce lo chiederanno. Che bello: per una volta, noi e loro torniamo a essere uguali. Ci è consentito dire o sì o no, come Bernabò.

Però possiamo anche pensare, nessuno ce lo vieta. Benché di certi atteggiamenti non si sappia proprio che pensare. Forza Italia che al Senato approva, alla Camera disapprova. La minoranza del Pd che promette un voto negativo sullo stesso testo che ha appena ricevuto il suo voto positivo. Il Movimento 5 Stelle che paragona Renzi a Mussolini, senza accorgersi che magari s’offenderanno entrambi. E intanto una pioggia di 68 ordini del giorno che creano soltanto disordine, tanto nessun governo se li è mai filati. Insomma, troppe voci, e anche un po’ sguaiate. E troppe parole inoculate in gola alla nostra vecchia Carta. Per dirne una, l’articolo 70 - che regola la funzione legislativa - s’esprime con 9 parolette; dopo quest’iniezione ri-costituente ne ospiterà 430. Una grande, grandissima riforma, non c’è che dire. Non per nulla riscrive 47 articoli della Costituzione. Però sarebbe ingiusto obiettare che questa riforma non sia anche necessaria. È necessaria, invece, e per almeno due ragioni. In primo luogo per un’istanza di legalità, benché nessuno ci faccia troppo caso. Ma sta di fatto che la legalità costituzionale rimane ostaggio ormai da lungo tempo della contesa fra due Costituzioni, quella formale e quella «materiale». Urge riallinearle, in un modo o nell’altro. Non possiamo andare avanti con un parlamentarismo scritto e un presidenzialismo immaginato. Anche perché la garanzia di regole incerte diventa fatalmente una garanzia incerta. E perché nessuno prenderà mai troppo sul serio le leggi e le leggine, se la legge più alta non è una cosa seria.

In secondo luogo, è altrettanto necessaria una cura di semplicità, per la politica e per le stesse istituzioni. C’è un che d’eccessivo nell’arsenale di strumenti e di tormenti che la riforma del 2001 aveva trasferito alle Regioni: almeno in questo caso, per andare avanti bisognerà tornare indietro. C’è un eccesso nella doppia fiducia di cui ogni esecutivo deve armarsi per scendere in battaglia, restando il più delle volte disarmato. E infatti abbiamo fin qui sperimentato un bipolarismo imperfetto con un bicameralismo perfetto; meglio invertire gli aggettivi. In ultimo, è eccessiva l’officina delle leggi: troppi meccanici, troppe catene di montaggio.

Ma i guai s’addensano quando dai principi filosofici si passa alle regole concrete. Così, la riforma elenca 22 categorie di leggi bicamerali. Sulle altre il Senato può intervenire su richiesta d’un terzo dei suoi membri, e in seguito approvare modifiche che la Camera può disattendere a maggioranza semplice, ma in un caso a maggioranza assoluta. Insomma, non è affatto vero che la riforma renda meno complicato l’ iterlegis . E dunque non è vero che semplifichi la vita del nostro Parlamento. Però semplifica fin troppo la vita del governo, l’unico pugile che resta davvero in piedi sul ring delle istituzioni. Perché insieme al Parlamento barcolla il capo dello Stato: con un esecutivo stabile, perderà il suo ruolo di commissario delle crisi di governo, nonché - di fatto - il potere di decidere l’interruzione anticipata della legislatura.

Da qui la preoccupazione che s’accompagna alla riforma. Servirebbero maggiori contrappesi, più contropoteri. Qualcosa c’è (come i cenni a uno statuto delle opposizioni, l’argine ai decreti, il ricorso preventivo alla Consulta sulle leggi elettorali), però non basta. Nonostante la logorrea dei riformatori, qualche parolina in più non guasterebbe. Ma loro non ne hanno più da spendere, noi siamo muti come pesci. Vorremmo rafforzare il tribunale costituzionale, spalancando il suo portone all’accesso diretto di ogni cittadino (succede in Germania e in Spagna). Vorremmo rafforzare il capo dello Stato, magari concedendogli il potere d’appellarsi a un referendum, quando ravvisi in una legge o in un decreto pericoli per la democrazia (succede in Francia). E in conclusione vorremmo che l’elettore non fosse trattato come un ospite nella casa delle istituzioni. Ma al referendum prossimo venturo l’ospite potrà solo decidere se entrarvi oppure uscirvi, senza spostare nemmeno un soprammobile. Intanto sta sull’uscio, guardando dal buco della serratura.

11 marzo 2015 | 08:32
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Da - http://www.corriere.it/cultura/15_marzo_11/potere-senza-contrappesi-99dc6252-c7b8-11e4-a75d-5ec6ab11448e.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Riforme annunciate Il testo seguirà (con calma)
Inserito da: Admin - Marzo 17, 2015, 12:06:46 am
Riforme annunciate
Il testo seguirà (con calma)

Di Michele Ainis

La madre dei cretini è sempre incinta, diceva Longanesi. In Italia, anche la madre delle leggi. Perché ne abbiamo troppe in circolo, e per lo più sconclusionate. Solo che da un po’ di tempo in qua il parto dura più della stessa gravidanza. Ciclicamente il governo annunzia il lieto evento, appende un fiocco rosa sull’uscio di Palazzo Chigi, convoca parenti e conoscenti. Tu corri, tendendo l’orecchio per ascoltare i primi vagiti dell’infante. Invece risuona un’evocazione, un presagio, un desiderio. La legge non c’è, non c’è ancora un testo. C’è soltanto un pretesto.

Le prove? Sono conservate nei verbali del Consiglio dei ministri. Scuola: annunci al quadrato e al cubo durante i geli dell’inverno, finché il 3 marzo sbuca la notizia: il governo ha approvato le slide, evidentemente una nuova fonte del diritto. In compenso 9 giorni dopo approva pure un testo, che però è più misterioso del segreto di Fatima. O della spending review: difatti i report di Cottarelli non sono mai stati resi pubblici. Riforma della Rai: batti e ribatti, poi il 12 marzo via libera alle linee guida, altra nuova fonte del diritto. Falso in bilancio: sul Parlamento incombe da settimane l’emendamento del ministro Orlando. Nessuno l’ha letto, forse perché lui non lo ha mai scritto. Jobs act: il 20 febbraio il Consiglio dei ministri timbra due schemi di decreto, le commissioni parlamentari competenti non li hanno ancora ricevuti. E via via, dal Fisco (il 24 dicembre venne approvato un comunicato, non un testo) alla legge di Stabilità (che si materializzò una settimana dopo la sua deliberazione, peraltro senza la bollinatura della Ragioneria generale).

A leggere la Costituzione (documento non ancora secretato), due sono gli strumenti con cui il governo ci governa. Con i disegni di legge, che però sono diventati più imperscrutabili dei disegni divini. Con i decreti legge, sempre che ne ricorra l’urgenza. Tuttavia quest’ultima viene a sua volta contraddetta dalle doglie interminabili con cui nasce ogni provvedimento. Per esempio i due decreti (quello sulla giustizia e lo sblocca Italia) decisi lo scorso 29 agosto, ma ricevuti dal Quirinale il 12 settembre. O il decreto Madia sulla Pubblica amministrazione, deliberato il 13 giugno e poi tenuto per altri 11 giorni in naftalina. Nel frattempo accade che i ministri radunati nel Consiglio votino non su un testo bensì su un titolo, approvato «salvo intese» (fra chi?). Che altri ministri annuncino modifiche a norme inesistenti, perché non ancora emanate dal capo dello Stato (Orlando il 6 settembre, a proposito del decreto sulla giustizia). Che gli studenti scendano in piazza contro la Buona scuola, pur essendo una riforma ancora senza forma.

Insomma troppe grida, da una parte e dall’altra. Nel 1979 il Rapporto Giannini denunziò le «grida in forma di legge», ossia il pessimo costume di confezionare norme inapplicabili. Oggi denunzierebbe le grida in forma di prelegge. Però un rimedio c’è, basta volerlo. Come prossimo ministro, Renzi ha bisogno di un ostetrico.

michele.ainis@uniroma3.it
14 marzo 2015 | 10:25
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_marzo_14/testo-seguira-con-calma-riforme-annunciate-ainis-63a4211c-ca14-11e4-8e70-9bb6c82f06ec.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. La tentazione (renziana) della semplificazione
Inserito da: Admin - Marzo 28, 2015, 04:37:48 pm
Accentramento
La tentazione (renziana) della semplificazione
Il premier, che è anche segretario del Partito democratico e titolare di tre dicasteri, interpreta lo spirito dei tempi, che richiede a gran voce maggiore unificazione
Ma gli eccessi rischiano di lasciarci prigionieri in un guscio vuoto

Di Michele Ainis

Dal 22 febbraio 2014 il segretario del Partito democratico è anche presidente del Consiglio. Dallo stesso giorno il presidente del Consiglio è anche ministro per le Pari opportunità. Dal 30 gennaio 2015 il ministro per le Pari opportunità è anche ministro per gli Affari regionali. Dal 23 marzo 2015 il ministro per gli Affari regionali è anche ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti. Troppi poteri in un solo potentato? No, sono ancora troppo pochi. Perché questo vuole lo Zeitgeist, lo spirito dei tempi. Un venticello che Matteo Renzi respira a pieni polmoni, e lo risputa fuori in norme, azioni, progetti di riforma. Incontrando l’applauso delle folle, anziché un’onda di sospetto. Lui l’ha capito, noi forse stentiamo un po’ ad accorgercene. Questa è l’epoca dell’unificazione.

Eppure basterebbe volgere lo sguardo al paesaggio che attraversiamo tutti i giorni. In quel quartiere c’erano tre o quattro botteghe alimentari, ora c’è un supermercato. O meglio c’era, perché i supermercati vengono divorati a loro volta dagli ipermercati. C’erano pure alcuni vecchi cinema, ma li ha sostituiti un multisala. Succede altrettanto nelle professioni, dove per esempio gli studi legali si sono trasformati in fabbriche, ciascuna con decine d’avvocati alla catena di montaggio.

Succede altresì nella cultura, nell’informazione, nella scuola. Messaggerie e Feltrinelli hanno costituito una joint venture che accorpa la distribuzione di 70 milioni di volumi l’anno. Quanto alla loro produzione, l’offerta di Mondadori su Rcs Libri promette di controllare il 40% del mercato. Nel campo dell’educazione, una legge del 2011 ha stabilito l’accorpamento degli istituti scolastici; l’anno dopo la Consulta l’ha bocciata, ma solo perché questa decisione spetta alle Regioni. Mentre il disegno di legge sulla «Buona scuola» prevede la fusione dei due enti (Indire e Invalsi) che s’occupano di valutazione. Accadrà pure alla Rai, con l’accorpamento dei Tg. O forse è già accaduto: basta spingere sui tasti del telecomando per scoprire che tutti i talk show sono lo stesso talk show, con gli stessi ospiti, lo stesso fastidioso cicaleccio.

Sicché l’unificazione genera uniformità, e quest’ultima ci cuce addosso un’uniforme. Ormai la indossano, d’altronde, pure le nostre istituzioni. Il Senato ha appena deciso di ridurre le 105 prefetture alla metà. La Giunta toscana propone di concentrare le Asl in una megastruttura. Dalla Sicilia alla Liguria, s’avviano progetti di fusione delle Camere di commercio. I piccoli tribunali sono già stati soppressi da un decreto del 2012. La legge n. 56 del 2014 accorpa i piccoli comuni. Ma il loro corpo resta pur sempre esile, rispetto al gigantismo delle nuove città metropolitane. O delle macroregioni su cui s’esercita una commissione istituita dal governo: nascerebbero l’Alpina, il Triveneto, il Levante, e via giganteggiando.

Dopo di che su questo paesaggio erculeo vigilerà un ciclope con un occhio solo sulla fronte: il partito premiato dall’Italicum, che per l’appunto conferisce un premio in seggi alla lista, non alla coalizione.

Piccolo è bello, si diceva un tempo. Magari sbagliando, perché l’eccesso di chiese e campanili aveva disgregato la nostra identità comune. Anche l’eccesso di semplificazione, però, rischia di lasciarci prigionieri dentro un guscio vuoto. «Non si può unificare un Paese che conta 256 tipi di formaggi», recita un aforisma di De Gaulle. E il formaggio, una volta, piaceva pure a noi italiani.

michele.ainis@uniroma3.it
27 marzo 2015 | 09:49
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_marzo_27/tentazione-renziana-semplificazione-b9ea4e2e-d456-11e4-831f-650093316b0e.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Legge elettorale Le travi che accecano l’Italicum
Inserito da: Admin - Aprile 16, 2015, 04:31:21 pm
Legge elettorale
Le travi che accecano l’Italicum

Di Michele Ainis

Aprile è il mese più crudele, diceva Thomas Eliot. Quest’anno la sua crudeltà s’esercita sulla legge elettorale. Mercoledì scorso è iniziato l’esame in Commissione; il 27, giorno di paga, a pagare sarà l’Aula. Ma dov’è la cattiveria dell’Italicum? Non nel suo concepimento, benché uno dei due genitori (Berlusconi) l’abbia ripudiato. Dopotutto, senza questa nuova creatura, dovremmo allattare quella vecchia: un proporzionale super (il Consultellum), che a sua volta allatterebbe mille partitini in Parlamento. È la sua gestazione, tuttavia, a procurarci il mal di pancia. È la traduzione dei principi in regole. Perché regole fasulle possono ben falsificare ogni valore, tramutarlo in disvalore.

Da qui l’allarme suonato dalla minoranza del Pd. Preoccupazione giusta, ma per ragioni sbagliate. Dicono: sommando la nuova legge elettorale all’abolizione del Senato, s’avvia una deriva autoritaria. Troppo governo, poco Parlamento. Dunque senza correttivi all’Italicum non voteremo la riforma della Carta. E no, non è la Costituzione che diventa incostituzionale a causa della legge elettorale, ma casomai l’opposto. Bisogna distinguere i due piani, altrimenti si cade dalle scale. Ri-dicono: i capilista bloccati sono una vergogna, dateci le preferenze. Come se non fossero ancora una volta una vergogna i 26 mila voti di preferenza incassati da Fiorito (scandalo dei gruppi consiliari in Lazio) o gli 82 mila di Ferrandino (scandalo delle Coop di Ischia). Come se le preferenze plurime non fossero già state introdotte dall’ Italicum, insieme alle pluricandidature. Anzi: l’abuso delle seconde favorirà l’uso delle prime. S e vengo eletto in 10 collegi come capolista, poi dovrò sceglierne uno; sicché gli altri 9 posti al sole andranno ai candidati più votati.

Ma loro vedono la pagliuzza, non la trave. Invece entrambi gli occhi di questa legge elettorale vengono accecati da due travi: di merito e di metodo. Perché in primo luogo alleverà un gigante con tanti cespugli, per riprendere l’espressione di Antonio Polito (Corriere, 8 aprile). L’ Italicum premia il partito vittorioso, determina l’investitura diretta del premier, però con una soglia d’accesso al 3% spegne l’opposizione, la frantuma, le impedisce ogni funzione di controllo. Il voto diventa un plebiscito, il plebiscito muta i parlamentari in plebe. E perché in secondo luogo la legge è viziata anche nel metodo, dato che s’applica a una Camera, quando il Parlamento ne ospita ancora due. La clausola di salvaguardia - che posticipa i suoi effetti al 1º luglio 2016 - è un ombrello bucato: nessuno può garantirci che a quella data la riforma del Senato sarà approdata in porto. E allora avremmo un sistema stralunato, con due Camere armate l’una contro l’altra, un maggioritario di qua, un proporzionale di là.

La via d’uscita? Non certo un voto di fiducia, per blindare l’Italicum zittendo le opposizioni in Parlamento. C’è un precedente, è vero: De Gasperi nel 1953, rispetto alla «legge truffa». Pessimo precedente, dato che la materia elettorale si coniuga alla materia costituzionale, secondo l’articolo 72 della nostra stessa Carta. E poi sarebbe come ammettere che la truffa si ripete, quando basterebbero un paio di correzioni per disarmare il truffatore. In primo luogo mettendo nero su bianco che la nuova legge elettorale entrerà in vigore soltanto dopo la cancellazione del Senato elettivo. E in secondo luogo alzando la soglia al 5%, come in Germania. O anche, perché no? Battezzando un premio di minoranza, per il partito che arrivi secondo in campionato. Così il potere incontrerà un contropotere. Renzi ha in gran sospetto ogni modifica, perché teme il riesame del Senato. Ma all’esame di Stato troverà comunque Mattarella, e dopo di lui pure la Consulta. Meglio evitare bocciature.

email: michele.ainis@uniroma3
13 aprile 2015 | 07:21
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DA - http://www.corriere.it/editoriali/15_aprile_13/travi-che-accecano-l-italicum-87711f6a-e19c-11e4-b4cd-295084952869.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Migranti e norme Come punire i nuovi schiavisti
Inserito da: Admin - Aprile 23, 2015, 11:13:02 am
Migranti e norme
Come punire i nuovi schiavisti

Di Michele Ainis

U n egiziano non è tutti gli egiziani. E nemmeno un somalo, un tunisino, un libico. Noi però, fin troppo spesso, facciamo di tutta l’erba un fascio. Li consideriamo uguali, e ugualmente minacciosi, solo perché hanno la pelle un po’ più scura e gli occhi sgranati dei bambini. Invece no, nessuno di loro è uguale all’altro. In quella truppa marciano colpevoli e innocenti, vittime e carnefici. E terroristi, certo. Ma sono di più i terrorizzati.

Dinanzi all’onda biblica dell’immigrazione, la prima esigenza è quindi di distinguere. La seconda, di reprimere. Perché c’è un delitto che non verrà punito mai abbastanza, in questa tragedia collettiva: quello degli scafisti, o degli schiavisti, se vogliamo chiamarli per nome e cognome. In Europa ci vorrebbe un altro Lincoln, per dichiarargli guerra. Sennonché gli europei non sanno più imbastire cariche, al di là dello scaricabarile. E il barile finisce regolarmente addosso a noi italiani. Ma l’Italia, il suo ordinamento normativo, quanto sa essere capace di castighi? E in che misura sa distinguere nel popolo che bussa alle sue porte?

A frugare nella nostra sartoria legislativa, scopriamo che ogni immigrato ha un abito diverso. Ma il sarto, ahimè, avrebbe bisogno degli occhiali. In primo luogo ci sono i rifugiati: quanti subiscono persecuzioni nello Stato d’origine, ai quali spetta il permesso di soggiorno. Ma il riconoscimento di tale condizione può avvenire solo dopo lo sbarco in terraferma: chi farfuglia di respingimenti in mare non sa di cosa parla. Poi c’è lo status di protezione sussidiaria o temporanea, e c’è infine il diritto d’asilo, garantito dall’articolo 10 della Costituzione allo straniero cui nel proprio Paese venga impedito l’esercizio delle libertà. Il diritto ad avere diritti, così lo definiva Hannah Arendt. Diritto di carta, tuttavia: dopo quasi settant’anni, non è mai stata licenziata una legge che ne stabilisca le condizioni d’esercizio.

In compenso la legge italiana nega il voto amministrativo agli immigrati regolari e nega la cittadinanza ai loro figli, anche se parlano in dialetto lombardo o calabrese. C’è quindi urgenza d’un tagliando normativo, per dividere Abele da Caino.

E c’è bisogno del pugno di ferro, rispetto a chi traffica con le persone come se fossero arance o saponette. La legge Turco-Napolitano contempla il reato di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, punendolo con la reclusione fino a 5 anni; i topi d’appartamento rischiano 6 anni. È un errore: non si può essere garantisti con chi frusta questo carico umano per costringerlo all’obbedienza cieca, oppure lo scaraventa in mare. Poi, certo, esistono varie circostanze aggravanti. Tuttavia - per dirne una - l’anno scorso il Tribunale di Catania escluse l’omicidio volontario per due scafisti che avevano provocato la morte di 17 persone, contestando solo il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. E no, in questi casi i reati sono ben più gravi: sequestro di persona, riduzione in schiavitù, tratta di esseri umani. Applichiamoli, rendiamoli operanti. E magari chiediamo al Parlamento di spicciarsi ad approvare il reato di tortura. Per loro, ma dopotutto anche per noi: questo spettacolo di morte è una tortura collettiva.

michele.ainis@uniroma3.it
22 aprile 2015 | 07:24
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_aprile_22/come-punire-nuovi-schiavisti-aa295428-e8ae-11e4-88e2-ee599686c70e.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. La figura che non vorremmo L’eredità di Napolitano al Quirinale
Inserito da: Admin - Aprile 25, 2015, 04:34:18 pm
Giochi aperti
La figura che non vorremmo
L’eredità di Napolitano al Quirinale

Di Michele Ainis

Ogni presidente della Repubblica scrive la storia, però è vero anche il contrario: è la storia che scrive i presidenti. Ciascuno di loro è figlio d’una particolare stagione politica, civile, culturale, e la influenza, ma soprattutto ne viene influenzato. Rammentiamocene, quando potremo vergare un giudizio a mente fredda sull’esperienza di Giorgio Napolitano al Quirinale. Rammentiamocene, mentre ci sospinge l’urgenza d’individuare il nome del suo sostituto. Perché una cosa è certa, nell’incertezza in cui nuotiamo giorno dopo giorno: l’uomo che uscirà dal Colle, al termine del settennato, sarà un uomo diverso da quello che v’era entrato.

I precedenti, d’altronde, sono inconfutabili. Il caso più vistoso fu Cossiga: per cinque anni silente ed ossequiente, dal 1990 si trasforma in «picconatore» del sistema, insulta questo o quel capopartito, monta sul ring contro i magistrati, blocca sistematicamente le leggi approvate dalle Camere (con la media d’un rinvio a bimestre). Anche il suo successore, tuttavia, ospitava un mister Hyde sotto l’abito del dottor Jekyll. Scalfaro aveva criticato a muso duro l’interventismo di Cossiga, e infatti nel 1992 - quando giurò da capo dello Stato - promise di ripristinare la centralità del Parlamento, garantendo il self-restraint (l’autocontrollo) nell’esercizio delle proprie funzioni. Risultato: divenne il più interventista fra i nostri presidenti.

Ben più di Napolitano, messo in croce per il battesimo dell’esecutivo Monti. Scalfaro nominò sei presidenti del Consiglio, fra i quali almeno tre (Amato, Ciampi, Dini) posti sotto l’esplicita tutela presidenziale. E decise due interruzioni anticipate della legislatura, compresa quella davvero eccezionale del 1994, benché il Parlamento fosse capace d’esprimere una maggioranza in sostegno del governo.

Potremmo continuare ancora a lungo in quest’esercizio di memoria. Potremmo evocare il nome di Pertini, eletto nel 1978 - durante i nostri anni di piombo - per garantire la tenuta delle istituzioni, poi perennemente scavalcate dal nuovo presidente attraverso il colloquio diretto con la pubblica opinione.

Potremmo ricordare la traiettoria di Segni: nel 1962 esordisce anch’egli criticando l’attivismo del predecessore Gronchi, ma sta di fatto che nel biennio della sua presidenza usa per otto volte il potere di rinvio, quando in tutte le legislature precedenti le leggi rispedite alle Camere erano state appena sette. Senza dire dei fatti del 1964, su cui permane ancora un’ombra: nel bel mezzo d’una crisi di governo, Segni riceve ufficialmente al Quirinale il comandante dell’arma dei carabinieri, artefice del «piano Solo».

Quale lezione possiamo allora trarre da questi remoti avvenimenti? Una doppia lezione, un corso universitario in due puntate.

Primo: contano gli Accidents of personality, come dicono gli inglesi. Conta il carattere, la tempra individuale. Perché al Quirinale risiede un potere monocratico, che ogni presidente usa in solitudine. E quel potere - scriveva nel 1960 il costituzionalista Carlo Esposito - non viene affidato alla Dea Ragione, bensì a un uomo in carne e ossa, con i suoi vizi e con le sue virtù. L’esperienza solitaria di ciascun presidente può acuire i vizi, o altrimenti può esaltare le virtù. Dipende. Ma lo sapremo solo a cose fatte, a bilancio chiuso.

Secondo: contano altresì gli Accidents of history, se così possiamo dire. Conta la storia, con i suoi imprevedibili tornanti. Dopotutto è questa la ragione che rese un primattore Scalfaro, al pari di Napolitano. A differenza di Ciampi - che visse gli anni più stabili della Seconda Repubblica - l’uno e l’altro si sono trovati a navigare il fiume lungo le sue anse terminali. Scalfaro alla sorgente, Napolitano alla foce. Anche se l’epilogo di quest’esperienza ventennale è ben lungi dall’essersi concluso. Ma in entrambi i casi si conferma un’altra profezia di Esposito, che dipingeva il presidente come «reggitore» dello Stato durante le crisi di sistema.

Poi, certo, ogni crisi può abbordarsi in varia guisa. Ancora una volta, dipende: dagli uomini, così come dalle circostanze. Scalfaro distingueva fra governi amici e nemici, sicché nel maggio 1994 salutò il primo gabinetto Berlusconi con un altolà, esigendo per iscritto la sua «personale garanzia» circa il rispetto della Costituzione. Per Napolitano tutti i governi erano amici, e infatti nel novembre 2010 salvò lo stesso Berlusconi dalla mozione di sfiducia, ottenendone il rinvio al mese successivo. La sua bussola, insomma, si chiamava stabilità. Anche se nel frattempo l’edificio diventava sempre più instabile e sbilenco, anche se talvolta uno scossone può riuscire salutare. O almeno era quest’ultima la ricetta di Cossiga, una ricetta opposta a quella offerta da Napolitano.

In conclusione, non c’è una conclusione univoca dettata dalla storia. O forse sì, c’è almeno un monito. Attenzione a scegliere una figura dimessa e scolorita: sarebbe un errore. In primo luogo perché il soggiorno al Colle accende colori insospettabili nei suoi vari inquilini. In secondo luogo perché la tormenta non si è affatto placata, ci siamo dentro mani e piedi. La Seconda Repubblica rantola, la Terza non ha ancora emesso i suoi vagiti. E in questo tempo di passaggio serve un capo dello Stato, non un capo degli statali.

michele.ainis@uniroma3.it
14 gennaio 2015 | 08:20
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_gennaio_14/quirinale-chi-non-vorremmo-presidente-7bc6f18a-9bb5-11e4-96e6-24b467c58d7f.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Nuova legge elettorale Le regole come atto di fede
Inserito da: Admin - Maggio 01, 2015, 12:33:47 pm
Nuova legge elettorale
Le regole come atto di fede

Di Michele Ainis

Più che la fiducia, ormai serve la fede. Un atto religioso, non politico. Un giuramento, non un voto. Ieri il governo ha chiesto (e ottenuto) la fiducia dai parlamentari; ma è come se l’avesse chiesta a tutti gli italiani, separando gli infedeli dai fedeli. È infatti questo il retroscritto della legge elettorale: non ne cambio più una virgola, nemmeno quella falsa clausola di salvaguardia che desterà non pochi grattacapi a Mattarella quando dovrà metterci una firma. Non lo faccio perché l’Italicum è già il meglio, perché non si può migliorare il meglio. E voi dovete crederci.

Noi crediamo alle buone intenzioni del presidente del Consiglio. Ne ammiriamo l’energia, ne appoggiamo il progetto d’innovare norme e procedure. Ma quando l’impeto riformatore investe le stesse istituzioni occorre la ragione, non la fede. E il costituzionalismo alleva una ragione scettica, diffidente nei confronti del potere. Perché ha esperienza dell’abuso, sa che l’uomo troppo potente diventa prepotente. Non sarà il caso di Renzi, ma può ben esserlo di chi verrà dopo di lui. D’altronde le regole del gioco durano più dei giocatori.

Da qui il primo dubbio che ci impedisce d’ingoiare l’ostia consacrata. L’Italicum determina l’elezione diretta del premier, consegnandogli una maggioranza chiavi in mano. Introduce perciò una grande riforma della Costituzione, più grandiosa e più riformatrice di quella avviata per correggere le attribuzioni del Senato. Ma lo fa con legge ordinaria, anziché con legge costituzionale. L’ avessero saputo, i nostri costituenti sarebbero saltati sulla sedia. Loro non volevano questa forma di governo, e infatti ne hanno stabilita un’altra. Dunque l’Italicum stride con la Costituzione vecchia, ma pure con la nuova. Perché quest’ultima toglie al Senato il potere di fiducia, e toglie dunque un contrappeso rispetto al sovrappeso dell’esecutivo. Mentre a sua volta dimagrisce il peso dell’opposizione: con una soglia di sbarramento fissata al 3 per cento, in Parlamento si fronteggeranno un polo e una poltiglia. Eppure basterebbe poco per trasformare i vizi in altrettante virtù. Alzando la soglia dal 3 al 5 per cento, come avviene in Germania. Distribuendo il premio fra tutti gli alleati, o meglio fra i partiti coalizzati che abbiano superato quella soglia minima, per evitare che in futuro si ripeta quanto sperimentò Prodi con Mastella. Rendendo obbligatorio il ballottaggio se nessuno conquista il 45 (non il 40) per cento dei consensi, in modo che il bonus di maggioranza lo decidano sempre gli elettori, anziché il legislatore. E magari aggiungendo un bonus di minoranza, in premio al secondo partito. Come del resto succede in Champions League, dove accedono le prime due del campionato. Ne otterremmo in cambio un’opposizione più forte, non un governo più debole. Nessuno di questi correttivi demolirebbe l’impianto dell’Italicum. Il presidente del Consiglio tuttavia li ha rifiutati, declamando una parola magica: governabilità. Sta a cuore anche a noi, rendere il sistema più efficiente. Ma la governabilità dipende dalla politica, non dalla matematica. Non basta trasformare i deputati in soldatini, e non basta un deputato in più per conseguirla. La governabilità dei numeri - su cui insiste, per esempio, D’Alimonte - è una formula rozza, oltre che fallace. Quest’ultima deriva viceversa dalla legittimazione dei governi, dunque da regole legittime e da politiche condivise. Altrimenti divamperà l’incendio, sicché a Palazzo Chigi avremo bisogno d’un pompiere. Come disse Leonardo Sciascia in Parlamento (5 agosto 1979): «governabilità nel senso di un’idea del governare, di una vita morale del governare». Ma Sciascia è morto, e neanche noi stiamo troppo bene.

michele.ainis@uniroma3.it

30 aprile 2015 | 07:16
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DA - http://www.corriere.it/editoriali/15_aprile_30/regole-come-atto-fede-a3ce5854-eef7-11e4-a9d3-3d4587947417.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Emergenza drammatica Immigrazione: il gesto di un’Europa avara
Inserito da: Admin - Maggio 19, 2015, 09:17:07 am
Emergenza drammatica
Immigrazione: il gesto di un’Europa avara
La folla dei migranti andrà divisa in quote diseguali tra 25 Paesi, tenendo conto delle loro popolazioni, del Pil, del tasso di disoccupazione

Di Michele Ainis michele.ainis@uniroma3.it

L’Unione Europea ha aperto un ufficio postale. Ma in questo caso i pacchi da spedire contengono persone, non merci. È l’effetto della relocation decisa dalla Commissione: la folla dei migranti andrà divisa in quote diseguali tra 25 Paesi, tenendo conto delle loro popolazioni, del Pil, del tasso di disoccupazione. A prima vista, un gesto di solidarietà da quest’Europa ben poco solidale. Finalmente ci lasciamo alle spalle il regolamento di Dublino, che scarica i flussi migratori sugli Stati in cui avvengono gli sbarchi. A seconda vista, una misura secondaria. Senza un’assunzione di responsabilità davanti all’emergenza più drammatica del terzo millennio. Senza un calcolo realistico delle sue concrete conseguenze. E infine senza rispetto per la dignità degli individui.

Per quali ragioni? Intanto perché il provvedimento s’applica ai richiedenti asilo. Non alle altre categorie d’immigrati, che sono il maggior numero: loro continueranno ad essere un rompicapo nazionale. L’anno scorso ne sbarcarono in Italia 170 mila, un record; nei primi quattro mesi di quest’anno il pallottoliere segna già 85 mila migranti assistiti dalle nostre strutture, un ultrarecord. Per identificarli attraverso il fotosegnalamento dobbiamo acquistare macchinari, reclutare personale. Per ospitarli servono alloggi, quando ci mancano perfino le caserme. Sicché nel 2014 abbiamo speso 650 milioni nella gestione degli immigrati, nel 2015 la stima s’impenna a 800 milioni. Tuttavia l’Europa ha stanziato la miseria di 60 milioni per tutti i 25 Stati coinvolti da questa nuova Agenda sulla migrazione. Nemmeno Arpagone, l’avaro di Molière, avrebbe fatto peggio.

La via d’uscita? Costruire campi d’identificazione in Africa, nei cinque Paesi della fascia sub sahariana. E lì respingere o accettare le richieste d’asilo, dirottando da subito i migranti nei vari Stati europei. Il governo italiano l’aveva già proposto l’anno scorso, ma l’Unione ha fatto orecchie da mercante. E il mercante ora progetta un esodo di massa, o meglio un trasferimento degli immigrati da una sponda all’altra del Vecchio continente, per rispettare quote e percentuali. Tu leggi il nuovo editto, e subito t’immagini aerei che rombano da Lubiana a Madrid, da Atene a Francoforte. T’immagini il loro carico dolente, e quasi sempre anche nolente. Quanti migranti vorranno separarsi dai luoghi, dagli affetti, dal lavoro che hanno trovato nel frattempo? E quanta forza militare servirà per addomesticare i più recalcitranti?
Eccola perciò la vittima di questa misura: la dignità, il rispetto che si deve a ogni individuo. E la dignità non ammette distinzioni fra stranieri e cittadini, né fra immigrati regolari e irregolari.

Come ha stabilito la Corte costituzionale nella penultima sentenza firmata anche da Sergio Mattarella (n. 22 del 2015), annullando una norma che negava agli extracomunitari ciechi la pensione d’invalidità, ove quelle persone prive della vista fossero anche prive della carta di soggiorno. Una lezione per l’Europa, ma pure per l’Italia. Perché non possiamo pretendere dagli altri il rispetto di questo valore, se non sappiamo rispettarlo a casa nostra. Sta di fatto che il Testo unico sull’immigrazione è stato denunziato in 264 occasioni dinanzi alla Consulta, oltre una volta al mese. Ciò nonostante, le nostre leggi hanno più buchi d’un gruviera. Manca una disciplina organica sulla gestione degli stranieri che reclamano asilo o in generale protezione umanitaria; eppure le soluzioni sono già nero su bianco, come quella elaborata dall’Isle nel 2014. Manca una differenziazione chiara fra i migranti economici e le altre categorie di sfollati. Manca la legge sul diritto d’asilo, benché siano trascorsi settant’anni da quando i costituenti la previdero. Manca altresì sui rifugiati, per estendere la tutela a chi venga perseguitato per ragioni etniche o sessuali, oltre che politiche. Manca un supporto normativo che garantisca ai migranti informazioni e procedure certe. Manca perfino il diritto ad avvalersi d’una lingua conosciuta.

Risultato: se non annega nelle acque del Mediterraneo, chi sbarca sulle nostre coste finirà per annegare tra i flutti della burocrazia italiana. A Roma non meno che a Bruxelles, urge acquistare un salvagente.

16 maggio 2015 | 08:16
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_maggio_16/immigrazione-europa-avara-ainis-e4030dda-fb8a-11e4-bdb9-74ccd0f44566.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Democratici e regole L’autogol giudiziario dei politici il...
Inserito da: Admin - Giugno 05, 2015, 10:45:45 pm
Democratici e regole
L’autogol giudiziario dei politici il problema delle liste

Di Michele Ainis

Una volta c’erano gli eletti; ma ormai sono di più i reietti. Perché i gironi infernali si moltiplicano, come i peccati via via elencati dalle leggi. Peccati dei sindaci o dei parlamentari, dei governatori o dei ministri. Ciascuno distinto dall’altro, come le categorie dei peccatori: ineleggibili, incompatibili, incandidabili, infine impresentabili. Ma di questo passo succederà che non si presenteranno al voto gli elettori.

È l’autogol della politica, specialità di cui fu campione lo stopper Niccolai. Loro sperano di guadagnare credito sottoponendosi all’analisi del sangue; invece ottengono discredito. Un po’ perché nelle vene della politica italiana circola ancora qualche litro di sangue infetto. Un po’ perché la cattiva politica degli ultimi vent’anni ha allevato un vampiro, che di sangue non ne avrà mai abbastanza. E allora puoi anche decidere, per esempio, di togliere il vitalizio agli ex parlamentari condannati (delibera del 7 maggio); quel vampiro obietterà che avresti dovuto togliergli la vita, non il vitalizio.

Non che la questione morale sia un affare secondario. È importante, eccome. Non per nulla la Costituzione (articoli 48 e 54) pretende la dignità e l’onorabilità di chi ricopra un ufficio pubblico elettivo. Ma i politici hanno trasformato la questione morale in una questione strumentale. Usandola cioè per mollare uno sgambetto all’avversario, per risolvere beghe di partito. Opponendo all’uso politico della giustizia l’uso giudiziario della politica. E in ultimo forgiando un guazzabuglio di norme contrastanti. Sicché parlamentari e ministri precipitano all’inferno dopo una sentenza definitiva di condanna. Gli amministratori locali dopo una condanna in primo grado. Ma all’Antimafia basta il rinvio a giudizio per dichiararti «impresentabile».

Ecco, gli impresentabili. Nell’autunno scorso la commissione parlamentare Antimafia approvò un codice di autoregolamentazione. Allora tutti d’accordo, mentre adesso abbondano i pentiti. D’altronde pure questo è un film già visto: ne sa qualcosa Berlusconi, che votò la legge Severino salvo poi rimetterci il seggio in Parlamento. Quanto al codice dell’Antimafia, chi lo viola non rischia alcuna sanzione. Dunque non è un codice, è una chiacchiera. Però i partiti chiacchierati devono spiegare all’opinione pubblica perché hanno scelto il candidato impresentabile (articolo 3). Difficile farlo, quando la lista nera viene infiocchettata a due giorni dal voto. Ma è anche difficile sorprendersi se l’Antimafia la redige, dal momento che quest’obbligo deriva dal codice medesimo (articolo 4). Eppure dal Pd monta un coro di reazioni stupefatte. Noi, invece, non ci sorprendiamo più di nulla. Nemmeno che l’imputato principale (De Luca) minacci di denunziare il proprio giudice (Bindi). Comunque la si giri, per il suo partito quella candidatura è un autogol: l’ennesimo.

C’è modo di mettere a partito la testa dei partiti? Sì che c’è, ed è pure un modo semplice. Basterebbe unificare i troppi rivoli di questo fiume normativo, dettando la stessa regola per chiunque chieda il nostro voto alle elezioni, dal Senato al Consiglio comunale. E servirebbe inoltre una legge sulle primarie, dove ciascuno fa come gli pare. Un’altra legge sui partiti, che la Costituzione reclama invano da 67 anni. Sulle lobby, quale esiste negli Usa da 69 anni. Servirebbe, in breve, una cornice di norme generali, concise, e possibilmente chiare. Dopo di che i politici facciano politica, lasciando la giustizia ai giudici. Anche perché, quando si pretende di fare due mestieri, per solito si procura un doppio danno.

31 maggio 2015 | 09:31
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_maggio_31/autogol-giudiziario-politici-6f95c748-0766-11e5-811d-00d7b670a5d4.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Nozze gay, il vento che viene dall’Europa
Inserito da: Admin - Giugno 05, 2015, 11:04:58 pm
Unioni civili
Nozze gay, il vento che viene dall’Europa
Gli estensori della nostra Carta fondamentale furono lungimiranti chiamando la famiglia una «società naturale». Significa che la dottrina rinunzia a definirla, affidandosi allo spirito dei tempi

Di Michele Ainis

Che cos’è il matrimonio? Per lo Stato, un contratto; per la Chiesa, un sacramento. Muove da qui il conflitto fra autorità civili e religiose sul matrimonio gay, dopo il referendum celebrato in Irlanda: la parola è la stessa, ma ciascuno le attribuisce significati inconciliabili. Eppure quel conflitto non si esaurisce in una logomachia, in una disputa verbale. Ha a che fare con l’abito laico delle nostre istituzioni; misura gli spazi di libertà che siamo disposti a riconoscere alle scelte individuali; e in ultimo interroga il senso stesso del diritto, la sua specifica funzione.

Quanto alla laicità, potremmo cavarcela tirando in ballo il «muro» fra Stato e confessioni religiose di cui parlava Thomas Jefferson, o l’altrettanto celebre massima di Camillo Cavour («Libera Chiesa in libero Stato»). Potremmo ricordare che lo Stato nasce laico, o altrimenti non sarebbe nato. Nasce quando il potere politico divorzia dal potere religioso, attraverso un processo storico che ha origine nella Lotta delle Investiture (1057-1122), per approdare alla Costituzione francese del 1791, con la proclamazione della libertà di fede. Ma sta di fatto che la religione è tutt’altro che irrilevante nella nostra dimensione pubblica. E sta di fatto che l’ordinamento giuridico italiano è intessuto anche di valori religiosi: non per nulla la Carta del 1947 vi dedica ben cinque disposizioni.

Dunque la laicità non si traduce nell’indifferenza verso le religioni, bensì nella garanzia della loro libertà. E al tempo stesso della libertà di chi non crede, oppure di chi crede in altri culti rispetto a quello prevalente. Sennonché la libertà concessa all’uno può recare offesa alla sensibilità dell’altro. La querelle sulle nozze omosessuali è tutta in questi termini: quando il segretario di Stato vaticano parla di «sconfitta dell’umanità» è come se dicesse che quelle nozze sono una bestemmia. E la bestemmia, per l’appunto, viene punita dal codice penale.

Ma è una bestemmia il matrimonio fra due uomini e due donne? Dopotutto, sono fatti loro. Gli omosessuali non imprecano contro un Dio o un capo di Stato, chiedono soltanto lo stesso diritto del quale godono già gli eterosessuali. Qualcuno potrà esserne turbato. Ma qui viene in gioco la funzione della legge: strumento di difesa contro i comportamenti offensivi, però l’offesa dev’essere oggettiva, deve consistere in un’amputazione delle nostre libertà. In secondo luogo, nessuna norma galleggia sulle nuvole: dipende al contrario dalla storia, dall’evoluzione dei costumi. E oggi le società occidentali sono disposte a riconoscere un diritto che negavano in passato. Le nozze gay vengono già regolate in Spagna, Portogallo, Gran Bretagna, Danimarca, Finlandia, Svezia, Norvegia, Islanda, Francia, Olanda, Belgio, Lussemburgo, oltre che in Irlanda. L’Italia s’avvia a una legge sulle unioni civili, quale esiste in Germania e in Austria. Bisognerà pur farsene una ragione.

D’altronde quest’esito è già iscritto nelle tavole costituzionali. I nostri costituenti furono lungimiranti, definendo la famiglia una «società naturale». Significa che il diritto rinunzia a definirla, affidandosi all’esprit du temps, allo spirito dei tempi. Che è uno spiritello un po’ paradossale, se è vero che i gay sono rimasti gli unici ad avere ancora voglia di sposarsi.

michele.ainis@uniroma3.it
29 maggio 2015 | 12:17
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_maggio_29/nozze-gay-vento-che-viene-dall-europa-ad89c47c-05d2-11e5-93f3-3d6700b9b6d8.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Politica e giustizia, la nuova contesa tra poteri
Inserito da: Admin - Giugno 06, 2015, 05:48:06 pm
Politica e giustizia, la nuova contesa tra poteri

Di Michele Ainis

L’ Associazione nazionale magistrati critica il governo: sulla giustizia riforme timide e incoerenti. La Corte dei conti punta l’indice contro le Province, o meglio contro i ritardi nell’attuazione della legge Delrio, con effetti distorsivi sul bilancio dello Stato. Il Consiglio superiore della magistratura duella con l’esecutivo a proposito delle misure anticorruzione. Infine Armageddon, la battaglia totale: quella ingaggiata dalla Consulta, con la sentenza n. 70 che demolisce i conti pubblici. Un bollettino di guerra che si limita, peraltro, a registrare gli scontri dell’ultima settimana. Ma se viaggiamo a ritroso, fin dal battesimo del governo Renzi, le pagine di questo bollettino diventano un trattato militare.

Storia vecchia, si dirà. Dopotutto la rissa fra politica e giustizia costituisce il lascito indelebile della Seconda Repubblica. No: storia nuova. Giacché fin qui ne offrivamo due chiavi di lettura, però sbagliando la scelta degli occhiali. Da un lato, Berlusconi, con i suoi conflitti d’interesse, con le sue sfuriate quotidiane contro i giudici. Dall’altro lato, la fragilità della politica, divisa in coalizioni ballerine, incapace d’assumere qualsivoglia decisione. È la legge fisica dell’horror vacui, che vale altresì nella fisica delle istituzioni: se un potere lascia libero il proprio spazio vitale, un altro potere finirà per occuparlo. Da qui la funzione di supplenza della magistratura, da qui il suo ruolo politico. Ma sta di fatto che adesso Berlusconi è ridotto all’impotenza, che il governo esprime viceversa una leadership potente, e tuttavia fra politica e giustizia volano ceffoni. Come prima, più di prima. Dev’esserci perciò un’altra spiegazione, un’altra causa di questa malattia degenerativa. Non è troppo difficile scoprirla: basta fissare gli occhi su ciò che rimane immobile nel nostro calendario, sugli elementi del passato che si riflettono pari pari nel presente. Quali? La crisi economica, la diseguaglianza che morde al collo le categorie più deboli, il deficit di Stato. Sta tutta qui la radice dello scontro. Perché i giudici sono sentinelle dei diritti, è questa la loro specifica missione.

Ma i diritti costano. Non soltanto i diritti sociali: sanità, istruzione, previdenza. Anche le libertà tradizionali espongono un cartellino con il prezzo, anche la sicurezza, dato che per garantirla bisogna garantire lo stipendio dei poliziotti o dei pompieri. Decidendo sulla tutela dei diritti, il potere giudiziario finisce quindi per decidere sulla distribuzione delle risorse pubbliche, che spetterebbe viceversa alla politica. Poco male, quando le vacche sono grasse. Molto male, se ne restano carcasse ossute, pelle senza polpa.

Democrazia e crisi economica: ecco la questione. Quanti diritti possiamo ancora permetterci? E chi stabilisce la loro gerarchia? Infatti i diritti sono sempre in competizione fra di loro: se proteggo la libertà d’informazione, sacrifico la privacy; se difendo le cavie animali, disarmo la ricerca medica. Ma la nostra società degli egoismi ha generato un’inflazione di diritti - dell’automobilista, del militare, dello spettatore, del turista. E ogni volta politica e giustizia bisticciano su chi ne sia il tutore. Per uscirne fuori, ciascuno dovrebbe calarsi un po’ nei panni altrui. Serve maggiore sensibilità politica nel potere giudiziario, serve maggiore sensibilità giuridica nel potere politico. E servono canali di comunicazione, strutture di collegamento. In questo tempo di crisi, anche la vecchia separazione dei poteri è diventata un lusso.

21 maggio 2015 | 08:51
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_maggio_21/politica-giustizia-nuova-contesa-poteri-92d4adcc-ff79-11e4-8e1b-bb088a57f88b.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Leggi e interpretazioni I fantasisti della scappatoia
Inserito da: Admin - Giugno 16, 2015, 11:10:53 pm
Leggi e interpretazioni
I fantasisti della scappatoia

Di Michele Ainis

In Italia va così: norme dure come il ferro, interpretazioni al burro. Succede quando la politica aumenta le pene dei delitti, salvo poi scoprire che aumentano, in realtà, i prescritti. Succede con le regole del gioco democratico. Talvolta arcigne, spesso cervellotiche. E allora non resta che trovare una scappatoia legislativa al cappio della legge. Almeno in questo, noi italiani siamo professori. Come mostrano, adesso, tre vicende. Diverse una dall’altra, ma cucite con lo stesso filo.

Primo: il caso De Luca. Nei suoi confronti la legge Severino è severissima: viene «sospeso di diritto». Dunque nessuno spazio per valutazioni di merito, per apprezzamenti discrezionali. Tanto che il presidente del Consiglio «accerta» la sospensione, mica la decide. Però l’accertamento è figlio d’una procedura bizantina: la cancelleria del tribunale comunica al prefetto, che comunica al premier, che comunica a se stesso (avendo l’ interim degli Affari regionali), dopo di che tutte queste comunicazioni vengono ricomunicate al prefetto, che le ricomunica al Consiglio regionale. Ergo, basterà un francobollo sbagliato per ritardare l’effetto sospensivo, permettendo a De Luca di nominare un viceré. E poi, da quando dovrebbe mai decorrere codesta sospensione? Dalla proclamazione dell’eletto, dissero lorsignori nel 2013 (caso Iorio). Dal suo insediamento, dicono adesso. Acrobazie interpretative, ma in Campania l’alternativa è la paralisi. È più folle la legge o la sua interpretazione?

Secondo: la riforma del Senato. L’articolo 2 del disegno di legge Boschi è già stato approvato in copia conforme dalle assemblee legislative, stabilendo che i senatori vengano eletti fra sindaci e consiglieri regionali. La minoranza pensa sia un obbrobrio, la maggioranza a quanto pare ci ripensa. Però il ripensamento getterebbe tutto il lavoro in un cestino. La procedura, infatti, vieta d’intervenire in terza lettura sulle parti non modificate; se vuoi farlo, devi cominciare daccapo. Da qui il colpo d’ingegno: si proceda per argomenti, anziché per parti modificate. Dunque il voto cui s’accinge il Senato non è vincolato dal voto della Camera. Interpretazione capziosa? E allora verrà in soccorso una preposizione: Palazzo Madama aveva scritto «nei», Montecitorio ha scritto «dai». La copia non è proprio conforme, sicché il Senato può stracciarla. Domanda: meglio un obbrobrio sostanziale o un obbrobrio procedurale?

Terzo: la sentenza numero 70 della Consulta. Quella sulle pensioni, con un costo stimato in 18 miliardi. Il governo, viceversa, ha stanziato 2 miliardi, risarcendo le pensioni più basse, ma lasciando all’asciutto 650 mila pensionati. Poteva farlo? Dicono di sì, con argomenti che s’appoggiano sulla motivazione della sentenza costituzionale. Che però disegna un arzigogolo, dove c’è dentro tutto e il suo contrario. Sennonché il dispositivo è netto, e non distingue fra categorie di pensionati. Dal dispositivo, peraltro, derivano gli effetti vincolanti. A meno che quest’ultimo non rinvii espressamente alla motivazione, come succede di frequente. Non in questo caso, tuttavia. E allora, che diavolo avrebbe potuto inventarsi il nostro esecutivo? Quattrini non ne abbiamo, siamo ricchi soltanto di fantasia interpretativa.

Morale della favola, anzi delle tre favole su cui sta favoleggiando la politica. Quando la legge, o il disegno di legge, o la sentenza fanno a cazzotti con la logica, diventa logica un’interpretazione illogica.

michele.ainis@uniroma3.it
10 giugno 2015 | 07:46
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_giugno_10/fantasisti-scappatoia-leggi-interpretazioni-ainis-6f2abc90-0f32-11e5-aa3a-b3683df52e95.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Troppi silenzi sull’astensione
Inserito da: Admin - Giugno 25, 2015, 07:58:04 pm
AMMINISTRATIVE 2015
Troppi silenzi sull’astensione
Già alle politiche del 2013 chi non ha votato faceva parte del primo partito. Ma di questo fenomeno non sembra preoccuparsi nessuno. Spesso commettendo un errore

Di Michele Ainis

Uno vince, l’altro perde. Ma c’è un partito che a ogni elezione si gonfia: il non partito del non voto. I numeri dell’astensionismo elettorale ormai surclassano la Dc dei tempi d’oro, pur senza ottenerne in cambio seggi e ministeri. Difatti alle Politiche del 2013 gli astenuti erano già il primo partito, con 11 milioni di tessere fantasma. Alle Europee del 2014 l’affluenza si è fermata al 58%, in calo di 8 punti rispetto alle consultazioni precedenti. Alle Regionali del 2015 un altro salto all’indietro: 54%, ma sotto la metà degli elettori in Toscana e nelle Marche. Infine i ballottaggi delle Comunali, con il sorpasso degli astenuti (53%) sui votanti.

Questo fenomeno cade per lo più sotto silenzio. Qualche dichiarazione preoccupata, qualche pensoso monito quando si chiudono le urne; ma tre ore dopo i partiti sono già impegnati nella conta degli sconfitti e dei vincenti. È un errore, perché qualsiasi maggioranza rappresenta ormai una minoranza. Ed è miope la rimozione del problema. Vero, gli astensionisti non determinano il risultato elettorale. Però se l’onda diventa una marea, significa che esprime un sentimento: d’indifferenza, nel migliore dei casi; d’avversione, nel peggiore. E il sentimento dai partiti si riversa sulle stesse istituzioni, le sommerge come durante un’alluvione.

La questione, dunque, interroga la democrazia, anzi la pone davanti a un paradosso. Perché la democrazia è un sistema dove si contano le teste, invece di tagliarle. Il suo fondamento sta nella regola di maggioranza. E allora la democrazia entra in contraddizione con se stessa, quando nega agli astenuti ogni influenza, benché essi siano la maggioranza del corpo elettorale. Di più: tradisce la propria vocazione. Perché la democrazia è inclusiva, accoglie pure le opinioni radicali. Tuttavia con il popolo degli astenuti diventa esclusiva, respingente. Anche a costo di rinchiudersi in una casa vuota: la democrazia disabitata.

C’è modo di riannodare questo filo? Non imponendo l’obbligo del voto. Funzionava così nel dopoguerra, quando gli astensionisti dovevano giustificarsi presso il sindaco, e per sovrapprezzo beccavano una nota nel certificato di buona condotta; ma il rimedio sarebbe peggiore del male, offenderebbe i principi liberali. Non è una buona soluzione nemmeno quella escogitata in Francia nel 1919: se non vota almeno la metà del corpo elettorale, le elezioni si ripetono. Con questi chiari di luna, rischieremmo di votare ogni domenica. Però la via d’uscita c’è, e oltretutto procurerebbe un risparmio di poltrone. Va alle urne il 50% degli elettori? Allora dimezzo il numero dei parlamentari. E ne dimezzo altresì le competenze, trasferendole ai Comuni, se per avventura il voto cittadino risulta più attraente di quello nazionale. In caso contrario apro ai referendum sulle decisioni del sindaco, per supplire alla sua scarsa legittimazione.

Un’idea bislacca? Fino a un certo punto. Nella Repubblica di Weimar si guadagnava un seggio ogni 60 mila voti validi; e il medesimo sistema fu riproposto in Austria nel 1970. Anche in Italia, fino al 1963, le Camere esponevano numeri variabili in base alla popolazione complessiva; mentre c’è tutt’oggi un quorum per la validità dei referendum. L’alternativa, d’altronde, è una democrazia senza linfa vitale, perché il non voto ne sta essiccando le radici. Per salvarla da se stessa, qui e ora, serve un lampo di fantasia istituzionale.

18 giugno 2015 | 08:49
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_giugno_18/troppi-silenzi-sull-astensione-f6aa5150-157a-11e5-8c76-9bc6489a309c.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Ora diamo un’anima al nuovo Senato
Inserito da: Admin - Luglio 20, 2015, 11:54:27 pm
Ora diamo un’anima al nuovo Senato
Il tempo in più che la politica si è concesso deve essere usato per migliorare il testo originario Per esempio rafforzando il ruolo di raccordo con le formazioni sociali e soprattutto la funzione di garanzia di Palazzo Madama
Di Michele Ainis

La madre di tutte le riforme (quella costituzionale) è incinta da trent’anni. Nel frattempo il nascituro si è ritrovato orfano dei suoi molti papà, da Craxi a De Mita, da Berlusconi a Letta. Gli rimane l’ultimo, il più determinato. Matteo Renzi, quando promette, fa: divorzio breve, Italicum, Province, banche popolari, Jobs act, scuola. Anche a costo d’usare le maniere spicce (maxiemendamento e voto di fiducia). Ma in questo caso no, non è possibile. Se vuoi cambiare la Costituzione, per vincere devi convincere. Da qui il rinvio a settembre del voto finale, benché il premier l’avesse annunziato entro il 10 giugno.

Poco male, tanto ormai siamo pazienti come Giobbe. Purché in sala parto non sbuchi fuori un rospo, anziché un bel principino.

Quanto al nuovo Senato, più che un rischio è una certezza. Nessuno ha ancora capito che diavolo dovrebbe fare, e come, e perché. Sappiamo soltanto che sarà composto da 5 senatori a vita, 22 sindaci, 73 consiglieri regionali. Tutti a costo zero, e con funzioni zero. Sarebbe il caso di rifletterci, spendendo al meglio questo tempo supplementare che si è concessa la politica. Invece lorsignori s’avvitano in estenuanti discussioni sull’elettività dei senatori. Errore: partiamo dalle competenze, non dalle appartenenze. Cerchiamo di recuperare qualche contrappeso, avendo rinunziato al superpeso del bicameralismo paritario. E trasformiamo Palazzo Madama — istituzione in croce — nel crocevia delle nostre istituzioni.

Qualcosa nel testo di riforma c’è, però i silenzi contano più delle parole. C’è una funzione di raccordo del Senato con i territori: da un lato le Regioni, dall’altro l’Europa. Basterà a restituire un’anima alla nuova creatura? Diciamo che basta per la geografia, non per la storia. E la nostra storia è innervata dal ruolo degli enti locali, più di recente dal rapporto con l’Unione Europea. Ma è innervata — anche e soprattutto — dai contributi dell’associazionismo, delle categorie produttive, delle rappresentanze d’interessi. Non a caso l’articolo 2 della Costituzione individua nelle «formazioni sociali» la sede in cui ciascuno può arricchire la propria personalità. E non a caso i costituenti disegnarono il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, aprendolo al mondo della produzione e delle imprese. Con la riforma il Cnel tira le cuoia, pace all’anima sua. Alla prova dei fatti, non lo rimpiangeremo. Ma non possiamo lasciare i gruppi organizzati orfani di qualsivoglia rapporto con lo Stato. Serve un canale istituzionale: quale, se non proprio il Senato?

E c’è poi il capitolo delle garanzie. Domani come ieri, il Senato contribuirà ad eleggere il presidente della Repubblica, i giudici costituzionali, i membri del Consiglio superiore della magistratura. Però adesso i senatori sono la metà dei deputati; in futuro diventeranno un sesto (100 contro 630). Ergo, i garanti indosseranno un abito politico, in quanto espressi dalla Camera politica, a sua volta espressa con un premio in seggi per il maggior partito. E no, non va bene. C’è bisogno di rafforzare gli organi di garanzia, non d’indebolirli. Tanto più mentre perdiamo la garanzia fin qui rappresentata dal Senato: quante leggi ad personam avrebbe incassato Berlusconi, senza il pollice verso di Palazzo Madama?

Da ciò l’esigenza di correggere il testo di riforma, d’aggiungervi qualche riga d’inchiostro. Per esempio introducendo uno scrutinio rigoroso della seconda Camera nella scelta delle authority, i nuovi garanti. O sviluppando i poteri d’inchiesta del Senato, che viceversa la riforma circoscrive al funzionamento delle autonomie territoriali. Non si tratta di tenere impegnati i senatori, che altrimenti avrebbero ben poco da fare. Si tratta di salvaguardare gli equilibri della democrazia. Dopo di che, certo: ogni funzione richiede un funzionario. E l’elezione di secondo grado non funziona, non assicura la qualità dei senatori.

Ma non è detto che l’alternativa sia soltanto la loro elezione popolare. Potrebbe essere efficace un mix, pescandone un drappello da alcune categorie qualificate, come gli ex presidenti della Consulta. Quando il Senato tratta questioni regionali, potrebbe essere utile integrarlo con i governatori, come propone il documento sottoscritto dalla minoranza del Pd. Insomma pensiamoci, d’altronde alle nostre latitudini la fantasia non manca. È il tempo che ci manca, ne abbiamo sprecato troppo.

michele.ainis@uniroma3.it
16 luglio 2015 (modifica il 16 luglio 2015 | 13:37)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_luglio_16/ora-diamo-un-anima-nuovo-senato-45607364-2b89-11e5-a01d-bba7d75a97f7.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. La politica assente Il treno giudiziario dei diritti
Inserito da: Admin - Agosto 02, 2015, 04:20:41 pm
La politica assente
Il treno giudiziario dei diritti

Di Michele Ainis

Sul divorzio breve l’ha spuntata: dal maggio scorso è legge. Anche se i primi a usarla sono stati Civati e Fassina, rompendo il matrimonio col Pd. Viceversa sugli altri temi etici Renzi arranca, temporeggia, svicola. Il suo governo corre come un treno, ma sul binario dei diritti la locomotiva è ferma in galleria. Tuttavia i passeggeri non rimangono appiedati, perché montano a bordo di un treno giudiziario.

Stazione d’arrivo: Strasburgo, dove ha sede la Corte europea dei diritti dell’uomo. La sentenza che ci impone il riconoscimento delle unioni gay è solo l’ultima d’una lunga filastrocca. In precedenza siamo finiti in castigo o per eccesso di diritto (con le due pronunzie del 2011 e del 2013, contro il reato di clandestinità e contro il sovraffollamento carcerario) o per difetto (da qui la sentenza del 2014 sul diritto d’attribuire ai figli il cognome della madre, nonché la condanna del 2015 perché l’Italia non punisce il reato di tortura). Ma i viaggiatori partono da Roma, dove c’è un doppia stazione ferroviaria. Alla Cassazione, che ha appena sancito il diritto di cambiare sesso senza subire mutilazioni genitali. E alla Consulta, che l’anno scorso demolì la legge Fini-Giovanardi sulle droghe, mentre dal 2010 denuncia anch’essa la mancanza di ogni disciplina sulle coppie omosessuali.

E la politica? Continua a contemplare il vuoto. Quello sul diritto d’asilo, per esempio: la Costituzione evoca una legge, dopo 68 anni stiamo ancora ad aspettarla. L o ius soli , per fare un altro esempio: ovvero la cittadinanza ai figli degli immigrati regolari, un’altra promessa fin qui disattesa dal governo. Il testamento biologico: regolato negli Usa non meno che in Europa, mentre in Italia l’idea di regolarlo è deceduta insieme a Eluana Englaro. Né più né meno della legge sull’omofobia: approvata dalla Camera nel settembre 2013, desaparecida al Senato. Sarà per questo che la riforma costituzionale, nella sua ultima versione, amputa le competenze legislative del Senato sui temi etici. In queste faccende, la regola parlamentare è l’incompetenza. Tanto c’è sempre la competenza giudiziaria, che in 11 anni ha macinato 33 sentenze sulla fecondazione assistita, riscrivendo l’intera normativa.

Domanda: perché? Da cosa dipende il protagonismo della magistratura? Potremmo rispondere che succede dappertutto: così, a giugno la Corte suprema degli Stati Uniti ha decretato il matrimonio gay, mentre in Olanda un giudice ha condannato lo Stato per l’immobilismo nelle attività di mitigazione del clima. Tuttavia sono eccezioni, non la regola. La regola eccezionale funziona solo qui, e funziona puntuale come un orologio. Potremmo osservare allora che la tutela dei diritti costituisce lo specifico mestiere di ogni magistrato; però altro è tutelarli, altro è crearli dal nulla come Giove.

No, l’interventismo dei giudici italiani deriva dall’assenteismo dei politici italiani, dall’ horror vacui che regola la vita delle istituzioni. E in Italia il vuoto normativo deriva a sua volta dal potere interdittivo d’un alleato di governo o una corrente del partito di governo che sposa posizioni integraliste. Alle nostre latitudini, trovi sempre qualcuno più papalino del Papa. I giudici, viceversa, non se lo possono permettere. Dinanzi ai loro occhi sfilano uomini e donne in carne e ossa, con le loro sofferenze. Persone, non elettori. E la società italiana soffre d’una mancanza di tutele sui temi della vita e della morte, della sessualità, della protezione dei più deboli. I giudici lo sanno, i politici evidentemente no.

25 luglio 2015 (modifica il 25 luglio 2015 | 07:13)
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Da - http://www.corriere.it/cultura/15_luglio_25/treno-giudiziario-diritti-16daa6e2-328a-11e5-9218-89280186e97d.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. L’indipendenza della Rai esige regole stabili e certe
Inserito da: Admin - Agosto 06, 2015, 11:26:33 am
IL CAMMINO DELLA RIFORMA
L’indipendenza della Rai esige regole stabili e certe

Di Michele Ainis

Ieri è andata in onda la prima fiction della nuova stagione: la riforma della Rai. Con uno sceneggiato, o forse con una sceneggiata, fate voi. Quella imbastita dalla minoranza della maggioranza, votando insieme alla maggioranza della minoranza sul finanziamento della tv di Stato. O anche quella del governo. Aveva detto: mai più vertici Rai eletti con la legge Gasparri, e infatti il 4 agosto i nuovi vertici verranno eletti applicando la Gasparri. Da chi? Dalla commissione parlamentare di Vigilanza, dove intanto i centristi chiedono un riequilibrio. Tradotto: più posti in Vigilanza per incassare posti nel prossimo cda.

È la legge sempiterna della televisione pubblica: si chiama lottizzazione, una lotteria dove ogni partito ha in tasca il biglietto vincente. Nel corso dei decenni è cambiato il nome dei partiti, ma resta sempre attuale la battuta confezionata ai tempi di mamma Dc. «In Rai hanno assunto cinque giornalisti: due democristiani, un socialista, un comunista e uno bravo». È cambiato, inoltre, il numero dei consiglieri d’amministrazione: prima 6, poi 16 con la riforma del 1975, poi 5 dal 1993, poi 9 dal 2004, ora diventeranno 7. Insomma, la politica continua a dare i numeri, ma alla Rai servirebbe invece una parola, una soltanto. L’indipendenza.

È quest’attributo, infatti, che giustifica l’esistenza del servizio pubblico radiotelevisivo. Come dichiarano due risoluzioni del Parlamento europeo (approvate nel settembre 2008 e nel novembre 2010). Come ribadisce una raccomandazione del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa (15 febbraio 2012). Come afferma, in Italia, la Consulta, fin dalle due storiche sentenze del 1974 (la 225 e la 226). E l’indipendenza s’applica, anzitutto, nei riguardi del governo. Come? Proteggendo dai suoi artigli il direttore d’orchestra. Altrimenti la Rai dovrà suonare uno spartito dettato dal partito (di governo).

Qui però cominciano le dolenti note. Già la legge Gasparri consegna all’esecutivo la scelta di 2 membri su 9 del consiglio d’amministrazione. Rendendolo così quasi indipendente dal governo, e celebrando perciò l’ossimoro, perché l’indipendenza o c’è o non c’è, come la gravidanza: nessuna donna è mai stata quasi incinta. La legge Renzi trasforma la semi-indipendenza in semi-dipendenza, dato che i consiglieri d’estrazione governativa salgono in percentuale (2 su 7). Di più: con questa legge, sempre il governo propone il direttore generale, che avrà i poteri di un amministratore delegato. Bene, se il nuovo ruolo saprà garantire un’iniezione d’efficienza. Male, perché in nessun grande Paese europeo il vertice dell’emittente pubblica costituisce un’emanazione dell’esecutivo. Come ha osservato Ingrid Deltenre, direttrice dell’European Broadcasting Union, in un’audizione al Senato.
Ma l’indipendenza è una creatura fragile, precaria.
Per mantenersi in salute ha bisogno di molte medicine, nessuna esclusa. Per esempio, quanto alla durata dell’incarico. Non a caso, negli Stati Uniti, i giudici della Corte suprema vengono designati a vita, mentre in Italia i loro colleghi giurano per 9 anni. Il nuovo cda della Rai, viceversa, scadrà dopo 3 anni. Troppo poco, quando in Germania e in Francia la durata è 5 anni, in Austria e in Belgio 6, in Inghilterra e altrove non incontra limiti di tempo. E troppe riforme sul capezzale della tv di Stato, troppi custodi che s’intralciano a vicenda (dalla Vigilanza all’Autorità per le comunicazioni, dalla Consulta all’Antitrust). L’indipendenza, affinché sia praticata con successo, esige regole stabili, certe, e se possibile omogenee.

Da qui un problema, che prima o poi dovremmo pur risolvere. Alle nostre latitudini sbucano garanti come funghi, ma ciascun fungo ha le sue spore. Sicché talvolta viene generato dai presidenti delle Camere (è il caso, per esempio, della Commissione sullo sciopero), talvolta dall’intero Parlamento (come il Garante della privacy), talvolta dal governo (così il governatore della Banca d’Italia). Sarebbe troppo chiedere l’applicazione d’un unico sistema?

1 agosto 2015 (modifica il 1 agosto 2015 | 07:17)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_agosto_01/indipendenza-rai-esige-regole-stabili-certe-de1b0252-380b-11e5-90a3-057b2afb93b2.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Gli incarichi gratuiti svalutano il lavoro (favorendo i baratti)
Inserito da: Admin - Agosto 22, 2015, 05:25:18 pm

Rischi
Gli incarichi gratuiti svalutano il lavoro (favorendo i baratti)
Si è diffusa la convinzione che le prestazioni non retribuite siano giuste. Ma è solo demagogia che genera altri scambi: dai favori per i consulenti all’indennità per i politici

Di Michele Ainis

Se è gratis, c’è l’inganno (Ignazio Silone, «Fontamara»). E allora l’Italia è la Repubblica degli inganni. Provate a digitare su Google «consulente a titolo gratuito»: vengono fuori 606 mila risultati. Nonché il fior fiore delle amministrazioni pubbliche, dal governo nazionale al Comune più sperduto. Ultimo caso: la nomina di 20 direttori nei principali musei italiani. 7 su 20 sono stranieri, altri 4 tornano dall’estero, sicché procureranno un bell’esborso al nostro erario, rispetto alla promozione dei soprintendenti; in compenso la commissione selezionatrice ha lavorato gratis (articolo 4 del bando di concorso).

Ma ormai questa è la prassi, la regola non scritta. Anzi no, sta scritta a lettere di piombo nella riforma Madia: per i pensionati, solo incarichi non retribuiti. Dopo di che succede che la politica si spartisca le poltrone nel cda della Rai, scoprendo a cose fatte che 4 nuovi consiglieri su 7 sono pensionati. Perciò o rinunziano al posto o all’emolumento. Domanda: ma voi ci andreste a lavorare gratis? Non vi sentireste forse un po’ umiliati, sfruttati, raggirati?

Sennonché questi volgari sentimenti non vanno più di moda. Là fuori c’è tutto un popolo di consulenti che non bada a spese, contentandosi del rimborso spese. L’anno scorso Renzi ha designato 7 consiglieri economici, tutti rigorosamente a titolo gratuito. Quest’anno lo ha imitato, per esempio, il governatore dell’Abruzzo (6 incarichi di collaborazione). Dal gennaio 2015 il Comune di Genova ha elargito 11 consulenze, e 5 sono gratis. Gli stessi numeri (6 su 14) s’incontrano al ministero del Lavoro, o meglio del Dopolavoro. In agosto il sindaco di Positano ne ha firmate 11, inclusa una consulenza per i rapporti con l’Azerbaigian; ovviamente a costo zero. A Castellammare di Stabia il sindaco ha nominato consulente di fiducia suo cognato, senza spese né per la famiglia, né per l’amministrazione.

I comuni siciliani, poi, hanno più consulenti a titolo gratuito che impiegati. Così, a Monreale lo psicologo Terzo è al suo terzo incarico. A Piazza Armerina divampa la polemica: pare che fosse vuoto il curriculum degli incaricati, oltre che il loro portafoglio. Mentre non si contano i casi in cui l’ex assessore si trasforma in consulente: senza busta paga, però conservando la sua stanza. È successo, per esempio, a Castelvetrano; ma anche Crocetta ha nominato consulente non retribuito un suo precedente assessore.

Come si è generato il fenomeno in questione? Sommando il vecchio al nuovo. Nel primo caso entra in gioco un fattore culturale, il nostro rapporto col denaro. Gli americani, laicamente, non se ne vergognano; in Italia, viceversa, la tradizione cattolica considera i quattrini «lo sterco del demonio». La seconda ragione deriva dall’onda di disgusto via via montata dinanzi allo scialo di cui si è resa protagonista la politica; sicché quest’ultima ha reagito con risposte demagogiche, per rabbonire l’opinione pubblica. Ma in realtà diseducandola, offrendole una pedagogia al contrario. Perché un conto è porre un tetto (240 mila euro) alle retribuzioni dello Stato, come decise il premier cominciando la sua avventura di governo; tutt’altra faccenda è stabilire, come unico punto irrinunciabile della riforma costituzionale, che i senatori debbano lavorare gratis.

Che ne otterranno in cambio? Magari l’immunità penale, un bene più prezioso del denaro. E come verrà ricompensato il consulente? Con favori, protezioni, «entrature». Insomma col biglietto d’ingresso in un circuito dove non conta il merito, bensì le conoscenze. Per i più giovani, non è proprio un bell’esempio. Specie se a loro volta dovranno faticare gratis in uno studio d’avvocato o d’architetto. Sennonché la retribuzione del lavoro è la misura della sua utilità sociale; non a caso viene prescritta dalla Costituzione (art. 36). A meno che non si tratti di un’attività politica, ma allora scatta il diritto all’indennità (art. 69). Dunque questa moda dell’incarico gratuito si risolve nella svalutazione del lavoro, su cui si fonda la Repubblica (art. 1). Sicché, una volta di più, la nostra Carta viene elusa. Con una massima recitata sottovoce: ti pago sottobanco. Mentre noi tutti spalanchiamo gli occhi sul bancone, senza degna d’uno sguardo il banchiere che traffica di sotto.

22 agosto 2015 (modifica il 22 agosto 2015 | 15:15)
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_agosto_22/gli-incarichi-gratuiti-svalutano-lavoro-favorendo-baratti-a1fddd7c-48bd-11e5-adbb-a52649bc660c.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Il potere diretto del leader Le mutazioni politiche in un Italia
Inserito da: Arlecchino - Settembre 11, 2015, 11:32:51 am
Il potere diretto del leader
Le mutazioni politiche in un Italia che cambia pelle

Di Michele Ainis

L’ Italia cambia pelle, anche se gli italiani non si spellano le mani per l’applauso. Cambia la sua geografia istituzionale, sia nelle istituzioni politiche sia in quelle burocratiche, economiche, sociali. Il nostro premier riuscirà più o meno simpatico, ma di sicuro sta spingendo sull’acceleratore. Il governo Renzi I ha superato la boa dei 500 giorni, e in quest’arco temporale ha messo sotto tiro la scuola, la Pubblica amministrazione, la Rai, il mercato del lavoro, le prefetture, le Camere di commercio, le Province. E ai piani alti del sistema la legge elettorale, il Senato, le competenze delle Regioni. Con quali effetti? C’è una direzione, c’è una parola d’ordine che riassume l’epopea riformatrice?

Le paroline sono tre: verticalizzazione, unificazione, personalizzazione. Nelle scuole comanderà un superdirigente, con poteri di vita e di morte sui docenti. Alla Rai un superdirettore, con le attribuzioni dell’amministratore delegato. Nelle imprese il Jobs act, allentando i vincoli sui licenziamenti, rafforza il peso dei manager. Diventano licenziabili anche i dirigenti pubblici, sicché il capogabinetto del ministro regnerà come un monarca. Nel frattempo viene destrutturato il territorio, nei suoi antichi puntelli istituzionali. Che dimagriscono nel numero (è il caso dei prefetti). Nelle competenze (e qui tocca alle Regioni, con la rivincita dello Stato centrale). Oppure saltano del tutto (come succede alle Province). Così l’onda di piena sommerge i poteri intermedi, non meno dei corpi intermedi. Disintermediazione, ecco l’altro slogan della nuova stagione. Ne sanno qualcosa i sindacati, ormai fuori dalla stanza dei bottoni. Anche i partiti, però, hanno smarrito la loro primazia. Rispondono forse alle direttive d’un partito Crocetta o De Luca, Emiliano o Zaia? No, la leadership dei governatori poggia su un consenso individuale, è la riproduzione su scala locale del filo diretto tra il leader nazionale e gli elettori.

Anche perché tutte le istituzioni collegiali sono in crisi. Vale per i consigli regionali come per quelli comunali, oscurati dall’autorità del sindaco. Vale per il Consiglio dei ministri, che per lo più si limita a timbrare decisioni già annunziate in conferenza stampa. E vale, da gran tempo, per le assemblee parlamentari. Che in questa legislatura si sono spappolate come maionese: Forza Italia si è divisa in tre, il Partito democratico ospita due truppe armate l’una contro l’altra, i 5 Stelle hanno subito un’emorragia fluviale, dentro Scelta civica s’è ripetuto l’esperimento di Hiroshima: la scissione dell’atomo. La frantumazione dei gruppi parlamentari parrebbe un intralcio all’attivismo del governo. I conti, qui, si faranno alla fine.

Ma la concentrazione del potere sarà probabilmente la regola futura, se non è regola già adesso. Con l’unificazione delle Camere, attraverso l’abolizione sostanziale del Senato. E con il premio dell’Italicum: al partito, dunque al partito personale, dunque personalmente al Capo. E da lui giù verso i tanti capetti che stanno per mettere radici nel paesaggio delle nostre istituzioni. Offrendo (almeno in apparenza) una ragione postuma a Mosca e a Pareto, che un secolo fa avevano pronosticato la deriva oligarchica delle democrazie. Ma con il dubbio che sempre a quel tempo inoculò Max Weber, nella sua conferenza sulla scienza: «Il profeta, che tanti invocano, non c’è».

7 agosto 2015 (modifica il 7 agosto 2015 | 07:24)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_agosto_07/potere-diretto-leader-3467c352-3cc1-11e5-a2f1-a2464143b143.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Senato, le liti sulla forma
Inserito da: Arlecchino - Settembre 15, 2015, 04:57:15 pm

L’editoriale
Senato, le liti sulla forma

Di Michele Ainis

La riforma del Senato è in viaggio. Verso dove? Mentre i partiti s’accapigliano sull’elettività dei senatori, rimane sotto un cono d’ombra il senso stesso del procedere, la sua direzione. Eletti o negletti, che mestiere toccherà in sorte a lor signori? Qui sta il punto decisivo. Perché sono le funzioni di ogni organo, più ancora che il suo titolo d’investitura, a scolpirne il ruolo. Perché un Senato inutile costituirebbe altresì uno spreco: puoi togliere la busta paga ai senatori, ma il Palazzo ha un costo, bollette e funzionari devi pur pagarli. E perché le istituzioni possiedono una propria dignità, non meno delle persone. Senza, la vita non merita più d’essere vissuta. Vale per Welby, vale per il nuovo Senato.

Nel 1946, al debutto della Costituente, i due maggiori partiti mossero da concezioni opposte del Senato. La Democrazia cristiana intendeva farne un’assemblea rappresentativa dei territori e degli interessi produttivi; questo perché - diceva Mortati - le istanze regionali prendono corpo in un tessuto economico e sociale, diverso da Regione a Regione. Viceversa il Partito comunista, in sintonia con la posizione dei comunisti francesi all’alba della Quarta Repubblica, puntava su un sistema monocamerale; ai suoi occhi il Senato - come la Consulta - non era che un «inciampo», per usare l’espressione di Togliatti.

Quelle due soluzioni avevano quantomeno il pregio della linearità, della chiarezza. Non è poco, perché se le idee sono confuse generano pasticci, e i pasticci si traducono in bisticci. Nel prossimo futuro potremmo ottenerne una riprova, circa il condominio legislativo d’un ventaglio di materie fra Camera e Senato, che spetterà ai loro presidenti districare. Anche se, per dirla tutta, i senatori avranno ben poche funzioni da rivendicare. Erano già misere nel testo concepito dal governo; al giro di boa la Camera le ha ulteriormente sforbiciate. Via la competenza sui temi etici, dalla sanità alla famiglia. Via l’attribuzione solitaria del controllo sulle politiche pubbliche, sull’attuazione delle leggi, sulle nomine decise dal potere esecutivo. Via l’esclusiva nei rapporti con l’Unione Europea. Via l’elezione di due giudici costituzionali. Via il concorso paritario del Senato perfino sulle leggi d’interesse regionale.

Un paradosso, giacché il Senato - scrive nero su bianco la riforma - «rappresenta le istituzioni territoriali». Già, ma come? Attraverso una caricatura della Camera dei deputati, con meno funzioni, meno componenti. Non una seconda Camera, bensì una Camera secondaria. Il cui modello sta nel Bundesrat austriaco, anch’esso eletto in secondo grado dalle Diete provinciali, come il Senato dai Consigli regionali. Da quelle parti lo ritengono insignificante, però almeno l’organo è coerente. Noi, invece, chiediamo ai poeti di rappresentare le Regioni, includendovi i 5 senatori nominati per meriti artistici dal capo dello Stato. E ne lasciamo fuori i parlamentari eletti all’estero, che rappresentano pur sempre un territorio. Nonché i governatori, che sono i portavoce delle comunità regionali.

Da qui l’esigenza di metterci rimedio. Comunque si risolva la querelle sull’elezione diretta del Senato, è ancora più importante restituirgli una missione, un’anima. Senza più il voto di fiducia sui governi, ma conservando la fiducia popolare su questa antica istituzione. Anche perché, altrimenti, nel referendum saranno i cittadini a sfiduciare la riforma.

9 settembre 2015 (modifica il 9 settembre 2015 | 07:50)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_settembre_09/senato-riforme-lite-forma-ainis-62c5b192-56b0-11e5-a580-09e833a7bdab.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Ddl Boschi, quelle sette bugie e la verità sulla riforma
Inserito da: Arlecchino - Settembre 19, 2015, 11:18:25 am

L’analisi
Ddl Boschi, quelle sette bugie e la verità sulla riforma
Che cos’è una bugia? È solo la verità in maschera, diceva lord Byron. Difatti al Carnevale delle riforme la verità si maschera, s’occulta, si traveste. La verità genera falsi d’autore e quei falsi diventano poi luoghi comuni, accettati da entrambi i contendenti. L’ultima balla è anche l’unica credibile: se v’impuntate sull’elettività dei senatori potremmo sbarazzarci del Senato, dichiara la ministra Boschi. Perché no? Dopotutto il monocameralismo funziona in 39 Stati al mondo. E dopotutto meglio nessun Senato che un Senato figlio di nessuno. Ma per ragionare a mente fredda dovremmo intanto liberarci dalle bugie che ci raccontano. Ne girano almeno sette, come i peccati capitali.

di Michele Ainis

Revisioni costituzionali
Primo: in Italia si tentano riforme costituzionali da trent’anni, senza cavare mai un ragno dal buco. Questa è l’ultima spiaggia. Falso: dal 1989 in poi sono state approvate 13 leggi di revisione costituzionale, che hanno corretto 30 articoli della nostra Carta e ne hanno abrogati 5. Se il sistema, nonostante le medicine, non guarisce, significa che la cura era sbagliata. Dunque le cattive riforme procurano più danni del vuoto di riforme.

Il ruolo delle Camere
Secondo: Vade retro gubernatio. La Costituzione è materia parlamentare, non governativa. Sicché l’esecutivo deve togliersi di mezzo, abbandonando la pretesa di dirigere l’orchestra. È l’argomento sollevato dalle opposizioni, così come l’argomento precedente risuona in bocca alla maggioranza. Ma è falso pure questo. O meglio: sarà esatto nel paradiso dei principi, non nell’inferno della storia. Nel 2001 la riforma del Titolo V venne accudita dal governo Amato. Nel 2005 la Devolution era stata scritta di suo pugno dal ministro Bossi. Nel 2012 l’obbligo del pareggio di bilancio fu imposto dal governo Monti. Ma già nel 1988 il gabinetto De Mita si era presentato agli italiani come «governo costituente».

Terzo: la riforma è indispensabile per accelerare l’iter legis. Giacché in Italia il processo legislativo ha tempi biblici, che dipendono dal ping pong fra Camera e Senato. I dati, tuttavia, dimostrano il contrario. Il tempo medio d’approvazione dei disegni di legge governativi era 271 giorni nella XIII legislatura (1999-2001); in questa legislatura è sceso a 109 giorni. Mentre nel quinquennio precedente (2008-2013) il Parlamento ha licenziato la bellezza di 391 leggi. No, non è una legge in più che può salvarci l’anima. Semmai una legge in meno, e anche una fiducia in meno. È la doppia fiducia, non il doppio voto sulle leggi, che ha reso traballanti i nostri esecutivi.




L'elezione diretta
Quarto: l’elettività dei senatori. Serve per assicurare un contrappeso al sovrappeso della Camera, dice la minoranza del Pd. Falso. Come ha osservato Cesare Pinelli, l’elezione diretta determina l’una o l’altra conseguenza: un’assemblea con gli stessi equilibri politici della Camera, ovvero con equilibri opposti. Nel primo caso il Senato è inutile; nel secondo è dannoso. Del resto l’elezione popolare non c’è in Francia, né in Germania, né in varie altre contrade. Non c’è nemmeno in Inghilterra, tanto che il governo (nel 2012) aveva pensato d’introdurla. Ma i Lord inglesi si sono ribellati all’elettività, come i senatori italiani si ribellano alla non elettività.

Quinto: dipenderà da Grasso, il signore degli emendamenti. Se apre il vaso di Pandora dell’articolo 2, se rimette in discussione i criteri di composizione del Senato, la riforma s’impantana. Ma non può farlo, perché in Commissione la Finocchiaro li ha già dichiarati inammissibili. Giusto? No, sbagliato. In primo luogo c’è almeno un precedente: nel marzo 2005 quattro emendamenti (firmati da Bassanini, Zanda e altri) vennero recuperati in Aula dal presidente Pera. In secondo luogo non è Grasso che vota, lui mette ai voti. E la maggioranza o c’è o non c’è: se manca sull’articolo 2, mancherà pure sugli altri articoli in esame. In terzo luogo la pallina dovrà comunque rimbalzare sulla Camera, dato che il governo stesso punta a correggere diversi aspetti del testo fin qui confezionato. C’è ancora tempo per il giudizio universale.

I costi
Sesto: con la riforma otterremo un Senato a costo zero, perché i senatori-consiglieri regionali non intascheranno alcuna indennità. Davvero? Mica verranno a Roma in bicicletta: treni e alberghi ci toccherà comunque rimborsarli. Ma dopotutto basta un’occhiata al bilancio del Senato. Nel 2014 Palazzo Madama ha speso oltre mezzo miliardo, di cui 79 milioni per i senatori, quasi il doppio (145 milioni) per il personale. L’unico Senato gratis abita nei Paesi dove non c’è il Senato.

Settimo: o la riforma o il voto. È l’arma nucleare minacciata dal governo per spegnere il sacro furore dei dissidenti, però trascura un elemento di non poco conto. Voteremmo, infatti, con il Consultellum, un proporzionale puro; e il primo a rimetterci sarebbe proprio Renzi. È vero casomai l’opposto: dopo la riforma, voto anticipato. Come detta la logica delle istituzioni, perché non si può tenere in moto un’automobile cambiandone il motore. E come suggerisce, guardacaso, una doppia coincidenza: l’Italicum, la nuova legge elettorale, entrerà in vigore nel luglio 2016; e un paio di mesi dopo il governo intende celebrare il referendum sulla riforma costituzionale. Sarà per questo che in Parlamento vogliono tirarla per le lunghe. Il tempo porta consiglio, ma il tempo dei parlamentari porta pensione.

18 settembre 2015 | 07:30
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Da - http://www.corriere.it/politica/cards/ddl-boschi-quelle-sette-bugie-verita-riforma/urne-anticipate.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. L’intesa sulla riforma del Senato Un passo in avanti e tre dubbi
Inserito da: Arlecchino - Settembre 27, 2015, 11:24:33 am

L’intesa sulla riforma del Senato
Un passo in avanti e tre dubbi
Di Michele Ainis

«E tu, donna, partorirai figli con dolore» (Genesi, 3, 16). Vale per le creature umane, vale per un’istituzione femminile che si chiama Repubblica italiana. Solo che nel primo caso la gravidanza dura nove mesi, nel secondo ne sono trascorsi già diciotto. Nel frattempo la riforma costituzionale è alla terza lettura, ne mancano altre tre. Dopo l’accordo politico di ieri, tuttavia, il parto s’avvicina. Ed è un bene, perché una gestazione troppo prolungata rischia d’uccidere il bambino. Ma con quali sembianze s’affaccerà al mondo il pargoletto?

Diciamolo: decisamente più aggraziate rispetto all’ultima ecografia, e anche rispetto alla penultima. Gli emendamenti concordati recuperano il ruolo di garanzia del Senato, quantomeno rispetto all’elezione dei giudici costituzionali. Gli assegnano funzioni di controllo, che si erano perse un po’ per strada. Ne fanno un organo di raccordo sia verso il basso (le Regioni) sia verso l’alto (l’Europa). Infine introducono il principio dell’elettività dei senatori, sia pure con modalità da precisarsi in una legge successiva. Questo giornale l’aveva chiesto con un editoriale del proprio direttore (21 settembre). E soprattutto lo chiedeva il 73% degli italiani, come attesta il sondaggio Ipsos pubblicato il 16 settembre dal Corriere.

Diciamolo di nuovo: è un bel passo in avanti. Dimostra che anche Renzi l’inflessibile sa essere flessibile, quando serve per incassare un risultato. Lui stesso, d’altronde, ha ricordato che il testo originario del governo ha già subito 134 modifiche, nel ping pong fra Camera e Senato. Però non è finita, non ancora. E il lieto fine reclama ulteriori aggiustamenti su tre aspetti.

Primo: il metodo. Fin qui abbiamo assistito a un match di pugilato fra maggioranza e minoranza del Pd. Ora i due pugili si sfilano i guantoni, evviva. Ma in Parlamento non abita il partito unico fascista, ci sono pure gli altri. E andrebbero ascoltati, coinvolti, valorizzati. Sia perché la riscrittura della Costituzione esige il massimo sforzo per ottenere il massimo consenso. Sia per evitare ostruzionismi devastanti. Qualche contatto in più con gli esponenti della Lega, per esempio, ci avrebbe forse risparmiato il Carnevale degli emendamenti (85 milioni) allestito da Roberto Calderoli.

Secondo: le forme. Perché in ogni testo normativo i principi vanno poi tradotti in commi, e i commi si dislocano all’interno degli articoli. Se un comma è fuori posto, se un articolo è mal scritto, allora il principio resta informe, oppure si converte in una maschera deforme. È quanto rischia d’accadere con l’emendamento sull’elettività dei senatori: un unico periodo di 48 parole, e con due sole virgole. Prima di recitarlo bisogna fare un bel respiro. Per piacere, fate in modo che la Costituzione italiana sia scritta in italiano.

Terzo: i vuoti. Rimangono omissioni, lacune da colmare. Quanto al rafforzamento degli istituti di democrazia diretta, per esempio; e sarebbe anche un’occasione per tirare dentro i 5 Stelle. Quanto all’elezione del capo dello Stato: dal settimo scrutinio bastano i tre quinti dei votanti, anche se vota una sparuta minoranza. Quanto all’ iter legis, dove serve una cura dimagrante, perché dieci procedimenti legislativi sono davvero troppi. Quanto alla linea di confine tra materie statali e regionali, dato che in questo campo ogni pasticcio genera un bisticcio. Non è un’impresa erculea, ci si può riuscire. E se si può, si deve.

michele.ainis@uniroma3.it

24 settembre 2015 (modifica il 24 settembre 2015 | 09:01)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_settembre_24/riforma-senato-editoriale-ainis-03031bf8-6279-11e5-95fc-7c4133631b69.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Mezze verità (e scelte) La Nazione sul piano inclinato
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 12, 2015, 11:28:50 am
Mezze verità (e scelte)
La Nazione sul piano inclinato

Di Michele Ainis

Guerra o pace? Né l’una, né l’altra: noi siamo per la guerra pacifica. Due Camere o una sola? Lasciamole agli altri queste soluzioni rozze; in Italia avremo una Camera e mezza. E da chi verrà eletto il nostro mezzo Senato? Dal popolo o dai consiglieri regionali? Risposta: lo eleggeranno i cittadini attraverso il Consiglio regionale. E il matrimonio gay? Niente da fare, però il Parlamento sta approvando le unioni matrimoniali. Meglio il parlamentarismo oppure il presidenzialismo? Meglio il presidenzialismo mascherato dentro un parlamentarismo taroccato.
È la nostra inclinazione nazionale: ogni decisione corre sempre su un piano inclinato. Anche quando si tratta di decidere fra attacco e difesa, fra resistenza e indifferenza. Anche se di mezzo c’è una guerra, ovviamente senza dichiararla.

Useremo, pare, quattro bombardieri contro l’Isis; ma c’è voluta un’anticipazione del Corriere per scoprirlo. E come potrà scoprirlo il Parlamento? Forse con un’informativa del governo, forse con un voto in commissione. Tuttavia non è questa la regola: perché la Costituzione ammette la sola guerra difensiva (articolo 11) e a condizione che venga deliberata dalle Camere (articolo 78). Magari sarà una regola sbagliata, ma allora cambiamola invece d’aggirarla. Nella primavera del 1999, durante i bombardamenti in Kosovo, fu Clemente Mastella a suggerirne la modifica; ottenne soltanto una modifica verbale, perché da lì in poi le guerre sono diventate «ingerenze umanitarie». N el frattempo la Costituzione sta cambiando, o forse no. Perché la novità più innovativa non è scritta nero su bianco nel testo di riforma, bensì nella legge elettorale. Con un premio di maggioranza concesso al partito - anziché alla coalizione - intascheremo l’elezione diretta del presidente del Consiglio, senza correggere una virgola della nostra forma di governo parlamentare. Che dunque rimarrà viva ma esangue, come una fanciulla addentata dal vampiro. Il presidenzialismo venne già proposto dai monarchici nel 1957; successivamente dai missini; poi da Craxi nel congresso di Rimini del 1987; dalla Bicamerale di D’Alema nel 1997; da Berlusconi nel 2008. Nessuno di loro vi riuscì, per la medesima ragione che sta permettendo a Renzi la riuscita. Difatti alle nostre latitudini vige una regola d’acciaio: se vuoi fare, non lo devi dire. E se invece dici, usa almeno due parole: una per dire, l’altra per disdire.

È il caso del nuovo articolo 57 della Carta, che disciplina la composizione del Senato. Il comma 2 ne stabilisce l’elezione, il comma 5 la durata. Ma la norma elettorale ha una gamba di qua e una gamba di là: nel comma 2 decidono i Consigli regionali, nel comma 5 gli elettori. Contorsioni logiche, acrobazie semantiche. Del resto siamo pur sempre il Paese che ha introdotto il divorzio senza menzionarlo. Sicché la legge n. 898 del 1970 divorziò dal vocabolario, riferendosi sempre e soltanto allo «scioglimento del matrimonio», alla rottura della «comunione spirituale e materiale tra i coniugi». Mezzo secolo dopo, stiamo per fare il bis con il matrimonio omosessuale. Nel disegno di legge Cirinnà non figura nemmeno una volta l’aggettivo, mentre il sostantivo si traduce in un’«unione civile», anzi in una «specifica formazione sociale». La forma della formazione, ecco il problema.
C’è una vittima, c’è un agnello sacrificale nei nostri costumi politici e giuridici. Ne fa le spese la legalità, perché in Italia la legge è opaca, ingannevole, insincera. E in ultimo nessuno mai risponde delle proprie azioni, delle proprie decisioni. Per rispondere, d’altronde, servirebbe una domanda chiara, come quella d’un bambino. Invece la Repubblica italiana è diventata adulta, ma non è né vergine né madre: è sempre leggermente incinta.

michele.ainis@uniroma3.it
12 ottobre 2015 (modifica il 12 ottobre 2015 | 07:38)
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Titolo: MICHELE AINIS. Giustizia, questione di misura
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 31, 2015, 12:38:20 pm
Giustizia, questione di misura
Di Michele Ainis

I giudici italiani hanno appena celebrato il loro 32º congresso. Ce ne rimane un’eco d’accuse e controaccuse fra politica e giustizia, secondo tradizione. Eppure quel congresso puntava a una questione ben più rilevante della polemica sulle correnti giudiziarie o sulle intercettazioni. Economia e giustizia: come coniugarle? Non lo sappiamo, però sappiamo come farle bisticciare. La sentenza costituzionale che ha annullato le promozioni di 767 funzionari dell’Agenzia delle Entrate, mettendo in crisi l’Agenzia e facendo ballare la poltrona della sua direttrice, non è che l’ultimo episodio della serie.

In questa baruffa non c’è un colpevole, tuttavia non c’è nemmeno un innocente. Mettiamola così: la politica fa troppe leggi, la magistratura le prende un po’ troppo sul serio. L’una e l’altra, insomma, fanno il proprio mestiere, ma senza preoccuparsi del mestiere altrui.

Questo vale, innanzitutto, nei riguardi del potere legislativo. Difatti, che cos’è la legge? Uno specchio dei nostri amori, dei nostri umori.

Siamo noi, la legge. Sennonché la società italiana è diventata volubile come una farfalla; la politica ne insegue gli svolazzi, disegnando norme che durano quanto un battito d’ali (esempio: il saliscendi sui limiti al contante, da 5.000 euro a 1.000, da 1.000 a 3.000); l’instabilità legislativa nuoce all’economia, gonfia la discrezionalità del potere giudiziario; e piovono i conflitti.

Sulla giustizia pesa inoltre una legislazione schizofrenica, che da un lato cerca di saziare la fame di diritti, e la sazia aprendo il rubinetto del diritto (abbiamo in circolo 50 mila leggi statali e regionali); dall’altro lato rincorre la domanda d’efficienza e di risparmio che intonano in coro gli italiani, e vi risponde negando in molti casi la tutela giudiziaria. Succede, per esempio, sul fronte della giustizia amministrativa. Dove si sta verificando una fuga dalle garanzie attraverso l’uso di rimedi alternativi a quelli giurisdizionali, attraverso le regole di soft law, attraverso oneri economici che scoraggiano i ricorsi (ormai i contributi unificati dei due gradi di giudizio, per i contratti di qualche rilievo, ammontano a 15 mila euro). Contemporaneamente viene compresso il diritto di difesa; si nega l’annullamento dei contratti per l’aggiudicazione delle grandi opere, stabilendo una tutela puramente risarcitoria, che poi ricade sulla collettività mediante la tassazione; vengono ridotti i controlli preventivi di legittimità, o altrimenti si concentrano in un’unica autorità (l’Anac), che tuttavia non può controllare l’universo; e ovviamente si mette alla berlina il giudice, quando una sentenza provochi ritardi nell’esecuzione dei lavori.

Però quest’ultimo tradisce la sua specifica funzione quando a sua volta divorzia dal buon senso, che nel diritto - come nella vita - coincide con il senso della misura. Nelle questioni giuridiche, difatti, la quantità diventa qualità; e questa massima vale anche per la dimensione economica su cui nuota la tutela dei diritti. Qualche esempio. A Como, nel 2004, un barbone è stato sorpreso a rovistare tra i rifiuti, venendo immediatamente denunziato per furto di cosa pubblica. A Milano, nel 2005, un marocchino è stato processato per una truffa da 28 centesimi, impegnando per mesi magistrati, cancellieri, traduttori. A Trieste, nel 2009, i giudici hanno inflitto una multa di 25 euro a un detenuto curdo: aveva tentato d’impiccarsi riducendo a striscioline due federe, e perciò distruggendo un bene della pubblica amministrazione. A Roma, nel luglio 2015, la seconda sezione penale del tribunale ha processato un romeno incensurato per furto aggravato di un bene pubblico: aveva raccolto 22 pigne.

Non che il nostro ordinamento sia cieco rispetto alle grandezze su cui incide ciascun comportamento giuridicamente rilevante. Per dirne una, nell’aprile scorso è entrato in vigore il nuovo art. 131-bis del codice penale, che funziona da esimente «per l’esiguità del danno o del pericolo». Ma la via maestra passa attraverso l’uso dei principi generali, che mettono in comunicazione il diritto con la storia, con la società, con il costume, e per l’appunto con l’economia. È questa la finestra cui deve affacciarsi il giudice. Senza inventare nuove regole, senza forzare le regole esistenti; più semplicemente, adeguandole ai casi della vita.

(michele.ainis@uniroma3.it )
29 ottobre 2015 (modifica il 29 ottobre 2015 | 08:31)
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Titolo: MICHELE AINIS. Sentenze e opinioni Assolti? C’è sempre un però
Inserito da: Arlecchino - Novembre 11, 2015, 06:15:32 pm
Sentenze e opinioni
Assolti? C’è sempre un però

Di Michele Ainis

E go te absolvo, sussurra il prete dietro la grata del confessionale. Ma se lo dice il giudice allora no, non vale. In Italia ogni assoluzione è un’opinione, per definizione opinabile o fallace; e d’altronde ogni processo è già una pena, talvolta più lunga d’un ergastolo. Ultimo caso: Calogero Mannino. L’ex ministro democristiano arrestato nel 1995 per concorso esterno in associazione mafiosa, prosciolto 25 anni più tardi dalla Cassazione, dopo una giostra d’appelli e contrappelli, dopo 22 mesi di detenzione, dopo la gogna e la vergogna. E adesso assolto di nuovo in primo grado nel processo sulla trattativa Stato-mafia. Reazioni: sì, però... C’è sempre un però, c’è sempre una virgola della sentenza d’assoluzione che si lascia interpretare come mezza condanna (in questo caso l’insufficienza delle prove), o magari c’è una dichiarazione troppo esultante del prosciolto, un suo tratto somatico tal quale la smorfia di Riina, una corrente d’antipatia che nessun verdetto giudiziario riuscirà mai a sedare.

Mannino sarà anche innocente, però non esageri, ha detto l’ex pm Antonio Ingroia in un’intervista a Libero. Lui invece esagera, come fanno per mestiere i romanzieri; e infatti ci ha promesso in dono un romanzo col quale svelerà le intercettazioni di Napolitano. Peccato che pure stavolta ci sia di mezzo una sentenza, oltretutto firmata dal giudice più alto. Giacché nel 2013 la Corte costituzionale - per tutelare la riservatezza del capo dello Stato - impose l’immediata distruzione dei nastri registrati, e dunque i nastri sono stati inceneriti, anche se nessuno può incenerire la memoria di chi li ascoltò a suo tempo. Come Ingroia, per l’appunto.
Risultato: la Consulta ha sancito l’innocenza «istituzionale» dell’ex presidente, l’ex magistrato ne dichiara la colpa. Risultato bis: anche in questo caso non conta il giudizio, conta il pregiudizio.

Potremmo aggiungere molte altre figurine a quest’album processuale. Potremmo rievocare le maestre di Rignano: nel 2006 imputate di violenza sessuale sui bambini, assolte per due volte in tribunale, però sempre colpevoli secondo i genitori, tanto che hanno smesso d’insegnare. O altrimenti potremmo citare il caso di Raffaele Sollecito: assolto anche lui per il delitto di Perugia, dopo un ping pong giudiziario di 8 anni; qualche giorno fa vince un bando della Regione Puglia per creare una start up, e s’alzano in coro gli indignati. Insomma, alle nostre latitudini l’unica prova certa è quella che ti spedisce in galera, non la prova d’innocenza. E allora la domanda è una soltanto: perché? Quale virus intestinale ci brucia nello stomaco, trasformandoci in un popolo incredulo e inclemente?

Chissà, forse siamo colpevolisti perché abbiamo perso l’innocenza: la nostra, non la loro. Perché siamo vecchi e sfiduciati, dunque non crediamo più nei giudici come nei partiti, come nei sindacati, come nelle chiese. Perché la giustizia ci ha deluso, e in effetti la storia è costellata d’errori giudiziari. Però sono più i dannati dei salvati: Dreyfus (Francia, 1894), Sacco e Vanzetti (Usa, 1927), Girolimoni (sempre nel 1927, ma in Italia), Valpreda (1969), Tortora (1983). Altrettante vittime innocenti d’uno strabismo processuale, nonostante il doppio grado di giudizio, nonostante il riesame in Cassazione. Domanda: ma se una sentenza può sbagliare, perché a un certo punto diventa inappellabile? Risposta: perché la verità assoluta non è di questo mondo, perché dobbiamo contentarci di verità parziali, convenzionali. E perché il diritto tende alla certezza, non alla comprensione filosofica. Quando ci rifiutiamo di prenderlo sul serio, quando respingiamo i suoi verdetti, la nostra insicurezza diventa ancora più acuta.

michele.ainis@uniroma3.it
11 novembre 2015 (modifica il 11 novembre 2015 | 07:20)
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Titolo: MICHELE AINIS. Ora scegliamo con il sorteggio i tre giudici della Consulta
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 02, 2015, 07:52:42 pm
Ora scegliamo con il sorteggio i tre giudici della Consulta

Di Michele Ainis

T’indigni, t’intossichi, t’arrabbi. Ma poi rifletti. E allora ti ritorna alla mente una vicenda, sepolta fra le pagine della nostra storia costituzionale. Nel 1946 i siciliani ottennero, primi fra tutte le popolazioni regionali, il loro statuto. In quel testo c’era (c’è) il battesimo di un’Alta corte, con funzioni di tribunale costituzionale. E infatti l’Alta corte operò dal 1948 al 1955, macinando decine di sentenze. Nel 1956, però, la Consulta tenne la sua prima udienza pubblica.

Un bel pasticcio: due organi gemelli, come se l’Italia avesse un doppio presidente. La soluzione? Semplice: nel frattempo l’Alta corte era rimasta orfana di tre giudici, il Parlamento non provvide mai a sostituirli. Sicché la prima fu cancellata in via di fatto, senza che nessuno si prendesse il disturbo d’abrogare i 7 articoli dello statuto siciliano che ne regolano il funzionamento.

«A pensar male si fa peccato, ma spesso s’indovina» diceva Giulio Andreotti. Domanda: e se fosse questa la recondita intenzione dei killer acquattati in Parlamento, che impediscono d’eleggere i 3 giudici mancanti? Dopo un anno e mezzo, dopo 28 votazioni andate a vuoto, il sospetto è più che legittimo. Così, senza esporsi né contarsi, la politica si sbarazzerebbe d’un intralcio che annulla le leggi del governo, boccia i referendum dell’opposizione, s’azzarda perfino a riscrivere le norme elettorali. Delitto perfetto. E oltretutto consumato all’ombra del voto segreto: tutti colpevoli, nessun colpevole, come nei Dieci piccoli indiani di Agatha Christie.

In questo caso, tuttavia, il delitto è già stato commesso. Perché l’impotenza di cui dà prova il Parlamento gli rovescia addosso un’onda di discredito, quando le nostre istituzioni avrebbero urgenza, viceversa, di recuperare credito da parte della cittadinanza. Perché quelle 28 giornate trascorse a scrutinare schede potevano spendersi in modo più proficuo, discutendo le norme che occorrono al Paese. Perché mentre là fuori rimbombano gli spari servirebbe unità tra le forze politiche, non disgregazione. Perché intanto questa giostra assassina fucila le persone, i candidati ufficiali con la loro storia, la loro reputazione. E perché infine ha già azzoppato la Consulta, amputandola della sua componente più «politica» (i 5 giudici d’estrazione parlamentare). Non è un dettaglio irrilevante: nella miscela dosata dai costituenti, a questi ultimi tocca il compito di riequilibrare le interpretazioni dei giudici togati. Difatti ogni Costituzione ospita regole politiche, a differenza del codice stradale.

La via d’uscita? Non lo scioglimento delle Camere, come a suo tempo minacciò Cossiga: sarebbe un rimedio peggiore del male. Ma una situazione disperante reclama soluzioni disperate. L’articolo 135 della Costituzione stabilisce che la Consulta sia integrata con 16 cittadini estratti a sorte, quando giudica sulle accuse contro il capo dello Stato. Ecco, sorteggiateli i tre giudici mancanti. E non ne parliamo più.

2 dicembre 2015 (modifica il 2 dicembre 2015 | 07:52)
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Titolo: MICHELE AINIS. La politica, i valori Le parole e il senso perduto
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 10, 2015, 07:07:45 pm
La politica, i valori
Le parole e il senso perduto
Ne riconosciamo il suono, ma non ne comprendiamo più il significato

Di Michele Ainis

Un altro anno se ne va, con il suo carico d’affanni. E di parole: troppe, vocianti in ogni dove, discordi come le note strimpellate da un bambino. Ecco, le parole. Ne riconosciamo il suono, ma non ne comprendiamo più il significato. A forza d’abusarne, le abbiamo logorate. Laicità, democrazia, riforme: quali informazioni, quali concetti ci trasmettono? Credevamo di saperlo, non ne siamo più tanto sicuri. O forse sarà perché il mondo cambia in fretta, mentre da parte nostra non troviamo le parole nuove per descriverlo. La guerra, per esempio. È un’esperienza bellica quella che stiamo attraversando? Nessuno Stato ha convocato i nostri ambasciatori per dichiararci guerra. Là fuori non c’è un esercito nemico, con la sua divisa blu. Non esiste nemmeno una linea del fronte, eppure da qualche tempo ci sentiamo tutti al fronte. E sacrifichiamo una per una le nostre libertà, per guadagnarne maggiore sicurezza. Lo facciamo in difesa dei nostri valori, nel momento esatto in cui li stiamo ricusando. Come soldati della democrazia, altra parola ormai divenuta incerta. Perché qui attorno chiunque si proclama democratico, i politici, gli intellettuali, i nonni, le zie. Ma se tutti sono democratici, nessuno è democratico. L’identità si ritaglia in opposizione all’altro, così come il popolo italiano si distingue dal popolo russo o americano. Nel febbraio 2007 il manifesto fondativo del Pd esordiva con questa frasetta: «Noi, i democratici, amiamo l’Italia». Sarebbe possibile volgerla al contrario? Avrebbe senso scrivere: «Noi, gli antidemocratici, odiamo l’Italia»? No, e allora quella frase non significa più nulla.

Wittgenstein li chiamava «crampi mentali»: l’immagine dell’oggetto si dissocia dalla sua sostanza, sicché ciascuno ci vede un po’ quel che gli pare. Come racconta un volumetto di Paolo Legrenzi e Armando Massarenti (La buona logica), la nostra percezione spesso è falsata da queste trappole visive. Che poi si trasformano in trappole verbali, generando in ultimo altrettante logomachie: dispute sulle parole, non sulle questioni. Chiunque accenda a un’ora tarda la tv, sintonizzandosi sul talk show di turno, ne può collezionare un campionario. Come dimostra l’eterna querelle sulle riforme, per fare un altro esempio.

C’è mai stato un governo che non si sia dichiarato riformista? Mai: tutti i governi, di destra e di sinistra, di sopra e di sotto, ci hanno sventolato sul naso le proprie riforme. D’altronde ogni legge introduce una riforma sulla legislazione preesistente, e i governi stanno lì per dettare le leggi. Tuttavia, di nuovo: se tutti sono riformisti, nessuno è riformista. Forse è questo a intossicare la nostra vita pubblica, l’assenza d’un linguaggio rigoroso. E più onesto, più sincero. Una riforma, se è davvero tale, pesta qualche piede, e ne riceve in contraccambio dei calcioni. Se tutti stanno buoni e zitti, significa che non è successo niente. È una riforma la Buona Scuola? Certo, a giudicare dal vespaio di reazioni che ha destato. E la riforma Madia sulla pubblica amministrazione? Fin qui procede nel sonno degli astanti, senza incontrare opposizioni. Dunque c’è la parola, non la cosa.

D’altronde pure l’opposizione ha perso i suoi colori. Destra e sinistra restano categorie del codice stradale, non più della politica. Sono di sinistra i 5 Stelle? Probabilmente no, però neanche di destra, e men che mai di centro. Allora cosa sono? Per definirli, un’altra pioggia di parole trite: populismo, estremismo, antipolitica. Le stesse che usiamo per la Lega di Salvini, benché i due movimenti muovano verso contrarie direzioni. Il senso di marcia, ecco il senso di cui sono ormai prive le parole. In quello specchio verbale si riflette il nostro spaesamento.

10 dicembre 2015 (modifica il 10 dicembre 2015 | 08:22)
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Titolo: MICHELE AINIS. Governo e maggioranze La politica dei forni (più di due)
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 23, 2015, 06:10:24 pm
Governo e maggioranze
La politica dei forni (più di due)

Di Michele Ainis

Quanti partiti, quante maggioranze puntellano l’esecutivo Renzi? Ufficialmente governa con Alfano, matrimonio d’amore o forse d’interesse. Tuttavia la sua riforma più importante - quella costituzionale - fu benedetta a suo tempo dal patto del Nazareno, copyright Silvio Berlusconi. Senza quest’ultimo, ma insieme a Vendola, ha fatto eleggere il presidente Mattarella. Invece con Grillo va a braccetto per le nomine in Rai (Freccero), per quelle alla Consulta (prima Sciarra, poi Modugno, Barbera, Prosperetti), per la legislazione sui temi etici (il ddl Cirinnà sulle unioni civili è sostenuto dal Pd e dai 5 Stelle).

Di volta in volta c’è chi prende cappello: la minoranza del suo stesso partito vota contro l’Italicum, Alfano minaccia interpellanze all’Onu se passa l’adozione gay. Ma le reazioni parrebbero iscriversi nella dinamica amorosa, non in quella politica. «Bugiardo, mi hai tradito» tuona per esempio Forza Italia, dopo l’accordo fra democratici e grillini sui nuovi giudici costituzionali. «Hai scelto un’altra al posto mio». Nessun peccato: in politica la fedeltà è una colpa, l’adulterio una virtù. Però in queste vicende Casanova è anche Camaleonte. Sicché Renzi indossa la maschera di Berlusconi quando abolisce l’Imu, di Vendola quando timbra la legge sul divorzio breve, di Grillo quando promette di fare soltanto due mandati, di Salvini quando bisticcia con Merkel.

E ogni volta il pubblico applaude la controfigura, non il figuro che le sta alle spalle. Mentre frotte di parlamentari ammainano le loro insegne di partito per iscriversi al Pd. Almeno in questo caso, la copia funziona meglio dell’originale.

È la cifra politica del governo Renzi: l’incorporazione. Anziché sfidare gli avversari in campo aperto, li saggia, li assaggia, infine se li mangia. Però stavolta il nuovo rispecchia l’antico. «Politica dei due forni», si chiamava così ai tempi d’Andreotti. Negli anni Sessanta scegliendo fra la destra dei liberali (e dei missini) e la sinistra dei socialisti, quali alleati della Dc al governo; negli anni Settanta fra socialisti e comunisti. Adesso i forni sono tre, forse anche quattro, contando Verdini. O cinque, dato che la minoranza Pd è un partito nel partito. Meglio così, la concorrenza fa diminuire i prezzi. Ovvero le pretese dei fornai, e d’altronde fu esattamente questa l’intenzione di Andreotti. Il Psi vuole una banca, un ministero, una leggina di favore? Gli converrà abbassar la cresta, sennò la Dc può sempre trovarsi un altro fidanzato.

In quegli anni ormai lontani l’Italia attraversò un periodo di sviluppo, di crescita economica e civile. Ma all’interno d’una democrazia bloccata, senza ricambio alla guida del governo. Palazzo Chigi era una dependance di Palazzo Cenci-Bolognetti, sede storica dei democristiani. Nell’ultimo ventennio, viceversa, abbiamo sperimentato un sistema bipolare, alternando esecutivi di destra e di sinistra. E adesso siamo qui, dinanzi all’ultima curva del circuito. Laggiù, sull’orizzonte, s’intravede già il traguardo. È la Terza Repubblica, con i suoi homines novi, col suo corredo di riforme costituzionali ed elettorali.

Già, l’Italicum. Carta vince, carta perde. Ma la vittoria va al partito, non alla coalizione. Se i nanetti vogliono spazio, dovranno chiedere asilo nelle liste dei giganti, di quei due o tre partiti in grado d’accaparrarsi il premio di maggioranza. Venendone, per l’appunto, incorporati, com’è già successo a Scelta civica nei riguardi del Pd, come domani, forse, succederà ad Alfano. Da qui la strategia del nostro premier, durante questo biennio di governo: dopotutto, lui si sta portando avanti col lavoro.

michele.ainis@uniroma3.it

23 dicembre 2015 (modifica il 23 dicembre 2015 | 07:53)
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Titolo: MICHELE AINIS. Lo smog burocratico frena la semplificazione
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 30, 2015, 06:09:14 pm
Lo smog burocratico frena la semplificazione

Di Michele Ainis

In Italia abbiamo in circolo 40 mila leggi statali e regionali, crepi l’avarizia. Ma ce n’è soltanto una perennemente rispettata. È la legge di Murphy sulle burocrazie: «Se qualcosa può andar male, lo farà in triplice copia». Le prove? Basta scorrere le cronache, dall’emergenza smog alla crisi bancaria. Dopo il tracollo di 4 banche (e 130 mila azionisti) abbiamo scoperto che i controllori sono troppi, e giocoforza s’intralciano a vicenda: Consob, Banca d’Italia, Palazzo Chigi, ministero dell’Economia, Giurì bancario. Sicché il governo, per smaltire il traffico, ha chiesto aiuto a un sesto controllore, nella persona del presidente dell’Anac. Mentre il Parlamento s’appresta a battezzare una commissione d’inchiesta: e sette.

Quanto all’inquinamento, lo smog burocratico è anche più velenoso di quello atmosferico. Servono interventi uniformi e coordinati, dicono i sindaci. È una parola. Perché sull’ambiente le competenze si segmentano fra almeno 4 ministeri (Ambiente, Salute, Interno, Agricoltura), 20 Regioni, 110 Province, oltre 8 mila Comuni, Camere di commercio, Asl. Per sovrapprezzo, una legge del 1994 istituì l’Agenzia nazionale per la protezione dell’ambiente. Quella legge esordiva con l’articolo 01, proseguiva con gli articoli 1-bis, 1-ter, 2, 2- bis, 2-ter, poi saltava all’articolo 5. Insomma dava i numeri, perciò nel 2008 un’altra legge generò l’Ispra, restituendo finalmente la massima chiarezza. Come informa il suo sito web, quest’ultimo istituto ha difatti il compito di coordinare le 21 Arpa-Appa che compongono il sistema.

Se fosse ancora in servizio, Alberto Sordi — nei panni del vigile Celletti — avrebbe il suo bel daffare. Perché nella cittadella pubblica è sempre ora di punta, l’ingorgo non ti lascia scampo; ma girano più vigili urbani che automobilisti. Così, al capezzale di mamma Tv s’accalcano la commissione parlamentare di Vigilanza, l’Autorità per le comunicazioni, il ministero, l’Antitrust. Sui diritti dei consumatori vigila la medesima Antitrust, insieme all’Autorità per l’energia elettrica e il gas, al ministero dell’Economia, al Consiglio nazionale dei consumatori e degli utenti, ai Difensori civici, a varie associazioni di settore. I controlli fiscali e contributivi chiamano in causa la Guardia di finanza, le Agenzie fiscali, i Monopoli di Stato, l’Inps, il ministero del Lavoro. E se la Forestale sta per chiudere i battenti, restano pur sempre all’opera 3 corpi di polizia civile, altri 3 a ordinamento militare, 2 corpi di polizia locale.

Nel 2011 la Banca mondiale (How to Reform Business Inspections) l’aveva scritto a chiare lettere: troppi controlli svuotano la stessa funzione di controllo, troppe competenze determinano il trionfo dell’incompetenza. Da qui l’esigenza di semplificare, anche se in queste faccende noi italiani non prendiamo lezioni da nessuno. La prima legge di semplificazione burocratica venne firmata da Bonomi nel 1921; dal 1997 si è trasformata in un obbligo annuale, benché il Parlamento l’abbia rispettato soltanto quattro volte (nel 1999, nel 2000, nel 2003, nel 2005). In compenso nella legislatura scorsa sono state almeno 5 le leggi che avevano per titolo la semplificazione di questa o quella disciplina. Risultati? Per dirne una, la materia degli appalti ha subito 6 riforme fra il 2008 e il 2012, divenendo via via più complicata.

D’altronde questo è il Paese che per ridurre i ministeri s’è inventato un nuovo ministero. Accade nel 1950, quando Raffaele Pio Petrilli ricevette da De Gasperi l’incarico di ministro per la Riforma burocratica. Invece nel 2016 ci sbarazzeremo della potestà concorrente, quel condominio legislativo fra Stato e Regioni fonte di pasticci e di bisticci. O meglio, ci sbarazzeremo del nome, non della cosa, giacché la revisione costituzionale lascia in vigore l’istituto sotto mentite spoglie. Così come finirà per sopravvivere la doppia officina delle leggi, nonostante la riforma del Senato: rimangono difatti 7 categorie di leggi bicamerali, oltre a varie subcategorie. Pazienza, vuol dire che alla fine della giostra potremo finalmente concentrarci sull’ultimo obiettivo: semplificare la semplificazione.

michele.ainis@uniroma3.it
30 dicembre 2015 (modifica il 30 dicembre 2015 | 08:47)
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Titolo: MICHELE AINIS. Una riforma incompiuta su ruoli e poteri
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 14, 2016, 06:20:49 pm
Senato
Una riforma incompiuta su ruoli e poteri
C’è il rischio concreto di dover aspettare molto tempo prima che arrivino le leggi che vengono promesse. Per motivare i cittadini a votare per il sì il premier può presentare già adesso il pacchetto delle norme attuative

Di Michele Ainis

Consiglio non richiesto ai nostri governanti: se volete convincere i dubbiosi, se volete fare Bingo nel referendum sulla riforma più formosa, aggiungete al pane un po’ di companatico. Il pane è la Costituzione cotta nel forno di Palazzo Chigi: 47 articoli caldi caldi. Il companatico consiste nel rosario di leggi che serviranno per attuarla, per darle sapore. Noi, fin qui, abbiamo esercitato le mandibole sul pane, dividendoci dopo averlo assaggiato: chi lo gusta, chi se ne disgusta. Ma è un errore, perché ogni revisione costituzionale detta un principio di riforma, non tutta la riforma. Tanto più in questa circostanza, dove su molti aspetti decisivi la riforma non decide, o meglio rinvia la decisione alla legge che verrà. Qual è infatti la critica sollevata dal fronte del no? Troppi poteri di governo, pochi contropoteri. Dunque troppa efficienza, poche garanzie.

Non è un’obiezione campata per aria. Dopotutto, il bicameralismo paritario costituiva una difesa, nel bene e nel male. Quante leggi ad personam o ad partitum ci sarebbero cadute sul groppone, senza l’altolà del Senato? Adesso la riforma ne prosciuga il ruolo, ma non lo compensa con un’iniezione di vitamine sul corpo del presidente della Repubblica, il garante per antonomasia. Anzi: anche i suoi poteri s’infiacchiscono, perdono vigore.

Di fatto, non sarà più lui a consegnare le chiavi del governo, perché il premier verrà deciso dal premium (di maggioranza) della legge elettorale. Inoltre il presidente cede espressamente (articolo 88) il potere di sciogliere il Senato, ma implicitamente anche la Camera: con un partito maggioritario per effetto dell’Italicum, sarà il suo leader a decretare vita e morte della legislatura.

Eppure non è detto che il Senato si trasformi in un orpello delle nostre istituzioni. Dipende per esempio dalla legge preannunziata dal nuovo articolo 55, che dovrebbe attribuirgli funzioni di controllo sulle nomine governative. Dipende, soprattutto, dalla legge che ne stabilirà i criteri d’elezione. Il testo di riforma la promette entro 6 mesi dal prossimo turno elettorale, ma non c’è da fidarsi.

Anche nel 1948 il termine d’un anno per indire le elezioni dei Consigli regionali fu prorogato all’anno successivo, poi all’anno dopo, e così via fino al 1970. E in questo caso, quale legge? Un conto è che i senatori vengano eletti su listini bloccati, ossia decisi dai partiti; un conto è che

corrano l’uno contro l’altro in una competizione aperta. Giacché allora la legittimazione del Senato, quindi la sua autorevolezza, quindi i suoi stessi poteri, ne uscirebbero giocoforza amplificati.

E l’opposizione? Un altro contrappeso, la cui stazza dipende tuttavia dai regolamenti parlamentari che dovranno sancire i diritti delle minoranze, a norma dell’articolo 64. E i cittadini? Nelle democrazie la sovranità appartiene al popolo, dunque è al popolo che spetta innanzitutto vigilare contro gli abusi del governo. Difatti il nuovo articolo 71 ci consegna due nuovi strumenti: il referendum propositivo e quello d’indirizzo.

Affidandone il battesimo, però, a una legge costituzionale seguita da una legge ordinaria, che forse vedranno i nostri nipotini. D’altronde la storia è maestra di vita: il referendum abrogativo introdotto dai costituenti rimase in frigorifero per 22 anni, prima che il Parlamento ricordasse d’approvarne la legge d’attuazione.

Insomma, questa riforma è ancora informe. Saranno le norme successive a precisare l’assetto dei poteri, lo specifico ruolo di ciascuno. Non solo dentro il recinto delle istituzioni, anche in materia economica e sociale. È il caso dell’articolo 122, che promette una legge per riequilibrare la partecipazione politica fra gli uomini e le donne.

E se quest’ultima rimanesse un desiderio? È il caso, inoltre, dell’abolizione del Cnel. Può significare la scomparsa dell’unico luogo istituzionale di confronto fra le organizzazioni economiche e lo Stato; oppure può significare la sostituzione di quel vecchio carrozzone ormai in disarmo con nuove strutture, più rappresentative e più efficaci. Dipenderà dalla legge sulla rappresentanza, se verrà scritta, e come verrà scritta.

Da qui il consiglio al presidente del Consiglio: meglio portarsi avanti nel lavoro, meglio anticipare le principali norme d’attuazione della Carta riformata. Se non con altrettante leggi (sarebbero incoerenti, prima che la riforma entri in vigore), almeno con un pacchetto di proposte, di disegni di legge. Perché in ultimo saranno gli elettori a timbrare la riforma, ma gli elettori sono curiosi e diffidenti come gatti. Se cerchi d’ingannarli, poi ti lasciano un graffio sulla pelle.

michele.ainis@uniroma3.it
14 gennaio 2016 (modifica il 14 gennaio 2016 | 07:12)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/16_gennaio_14/riforma-incompiuta-ruoli-poteri-f11466be-ba83-11e5-8d36-042d88d67a9f.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Ai politici italiani serve una vitamina
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 30, 2016, 12:41:53 pm
Se i politici in parlamento aspettano le piazze
Il Parlamento è debole nei confronti del governo.
Il governo è debole nei confronti delle dimostrazioni.
Ai politici italiani serve una vitamina


Di Michele Ainis

E due. Dopo le adunate arcobaleno del 23 gennaio (un milione di persone in 96 città, per difendere la legge sulle unioni civili), oggi tocca al Family day contro la stepchild adoption. Che nonostante l’etichetta non si terrà sulle rive del Tamigi, bensì a Roma, al Circo Massimo; e anche stavolta sono attesi un milione di manifestanti. Insomma, una piazza spiazza l’altra. Ma chi rimpiazza questa piazza? Il Parlamento, o ciò che ne rimane. Perché ieri come adesso non è in questione il sacrosanto diritto di riunirsi, d’assieparsi in folle vocianti inalberando le proprie ragioni. No, è in questione il modo in cui la politica s’atteggia dinanzi a tali eventi, la singolare inversione di ruoli e competenze fra popolo e Palazzo.

Le prove? Già la conta delle adesioni illustri ha un che d’improprio, d’irrituale. La settimana scorsa, a sfilare in sostegno del ddl Cirinnà, c’erano ministri (Martina), viceministri (Della Vedova), sottosegretari (Scalfarotto), governatori (Serracchiani), sindaci (de Magistris), e ovviamente frotte di parlamentari. Oggi è previsto il bis, sicché ti monta in gola una domanda: ma contro chi manifesta cotanto manifestante? Contro il legislatore, cioè contro se stesso. E no, gioco scorretto: a ciascuno il suo mestiere. Chi governa deve sfornare testi, non proteste. Almeno su quelle, lasciate il monopolio ai cittadini, dato che voi esercitate il monopolio sulle leggi. Sennonché pure quell’antico dominio parrebbe ormai senza padroni.

Il disegno di legge sulle coppie gay aveva subito un’accelerazione alla vigilia della piazza favorevole, è rallentato bruscamente alla vigilia di quest’altra piazza, tanto che il voto sulle pregiudiziali di costituzionalità è stato rinviato. A quale scopo, forse per contare le adesioni? Ma il principio di maggioranza vale nelle assemblee legislative, non sui marciapiedi. In democrazia si governa con un seggio in più, non con un corteo più numeroso. Anche perché altrimenti s’investe la piazza di un potere interdittivo, del quale ha immediatamente approfittato Massimo Gandolfini, promotore del Family day. Venite in molti, ha detto, così fermeremo questa legge. E se Renzi non ci ascolta, bocceremo pure il referendum costituzionale. Ma perché, la nuova Costituzione è omosessuale?

E a proposito di referendum. È l’unica pistola di cui sono armati i cittadini, il solo contropotere popolare avverso gli abusi o gli errori del potere. In questo frangente, viceversa, l’ha evocato Alfano, ministro dell’Interno. Per carità, è un suo diritto. Ma è un dovere dei politici governare nelle istituzioni, non nelle piazze. Intervenire in Parlamento, non nei talk show televisivi, dove ormai s’incontrano più senatori che in certe sedute a Palazzo Madama. Occuparsi di leggi e di decreti, non d’una frasetta pronunziata a Ballarò dal suo conduttore. Ed è un dovere — etico, politico, giuridico — reggere anche il peso di decisioni impopolari, se lo reclama l’interesse generale. Governare significa scontentare, diceva Anatole France.

Ecco, è da quest’impotenza che deriva la potenza della piazza. Da una politica debole, in crisi di fiducia popolare, che insegue perciò l’ultimo sondaggio, l’ultimo dato d’ascolto in tv. Ne è prova la retromarcia del governo sul reato d’immigrazione clandestina: avrebbe dovuto abrogarlo ai primi di gennaio, poi non ne ha fatto nulla, troppi mal di pancia nell’elettorato. Eppure l’altro ieri il presidente della Cassazione, Giovanni Canzio, ha ribadito che si tratta d’un reato inutile e dannoso. Nessuna reazione; forse gli converrà indire a sua volta un Justice day. Nel frattempo il Parlamento è debole nei confronti del governo, il governo è debole nei confronti delle piazze. Ai politici italiani, più che un voto, serve una vitamina.

29 gennaio 2016 (modifica il 29 gennaio 2016 | 23:45)
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Da - http://www.corriere.it/cultura/16_gennaio_30/se-politici-parlamento-aspettano-piazze-33d74380-c6d3-11e5-bc00-4986562dd09c.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. Magistrati e politica, dannosi scambi di ruolo
Inserito da: Arlecchino - Maggio 05, 2016, 12:40:55 pm
Magistrati e politica, dannosi scambi di ruolo

Di Michele Ainis

E tu, che lavoro fai?». «Il tuo». Alle nostre latitudini, succede di frequente: lo sport più praticato è il gioco a rubamazzo. Perché i ruoli di ciascuno non sono mai precisi, univoci, scolpiti sulla pietra. Perché l’invasione di campo non può essere un delitto, quando manca il campo. E perché, mentre in Italia gli incompetenti sono ormai legioni, tutti si dichiarano pluricompetenti. Le baruffe tra politica e giustizia (ultimo episodio: l’arresto del sindaco di Lodi) trovano proprio qui la loro miccia detonante, anche se per lo più non ci facciamo caso. D’altronde si tratta d’una vecchia storia, che ci accompagna da quando giravamo coi calzoni corti. Quante volte il Csm ha cercato di rimpiazzare il Parlamento, dettando moniti e pareri non richiesti sulle leggi da approvare? E quante volte il Parlamento si è sostituito alle procure? Provate a domandarvi chi sia il personaggio più noto nell’azione di contrasto alle cosche mafiose. Risposta: Rosy Bindi, presidente dell’Antimafia. Una Commissione parlamentare d’inchiesta che rimbalza da una legislatura all’altra fin dal 1962, e che fin qui ha alternato 15 diversi presidenti.

Chi fa cosa, ecco il problema. Non solo nel rapporto fra giudici e politici: anche nelle scuole, negli ospedali, nelle aziende pubbliche e private. Anche nei ministeri, o nelle relazioni fra lo Stato e le Regioni. Dove gli sconfinamenti hanno innescato oltre 100 conflitti l’anno dinanzi alla Consulta, nel lustro successivo alla riforma del Titolo V. Magari adesso la riforma della riforma ci metterà una pezza, o magari aprirà un altro contenzioso fra Camera e Senato, per regolare il loro diritto di parola sulle leggi. Tanto, si sa, nel dubbio ognuno chiede la parola. E il giudice che dovrebbe giudicare non di rado straparla a sua volta. Per dirne una, nel 2015 le Sezioni unite della Cassazione (sentenza n. 19.787) hanno dovuto alzare la paletta multando il Tar del Lazio, che pretendeva di surrogarsi al Csm nel conferimento degli incarichi giudiziari direttivi. Da qui la fortuna d’un mestiere ormai praticato in lungo e in largo: il supplente. Irrinunciabile, a quanto pare, nella scuola, dove quest’anno sono state assegnate 122 mila supplenze, nonostante l’assunzione di 86 mila docenti. Anche in famiglia, però, il reddito di cittadinanza al figlio disoccupato viene garantito dal papà, l’asilo per i nipotini sta a casa dei nonni, mentre del bisnonno s’occupa una badante ucraina. Tutti supplenti rispetto allo Stato assente, come le associazioni di volontariato, come le fondazioni bancarie, chiamate a turare le falle del welfare.

E se il nostro ordinamento lesina i diritti civili, oltre a quelli sociali? Possiamo sempre rivolgerci a un supplente di Stato, con una toga sulle spalle o con una fascia tricolore al petto. Nel primo caso supplisce la magistratura, che nel 1975 stabilì il diritto alla privacy (la legge intervenne 21 anni dopo), nel 1988 offrì tutela al convivente more uxorio (la legge manca ancora), mentre nel dicembre scorso il Tribunale di Roma ha riconosciuto la stepchild adoption, proprio mentre il Parlamento la disconosceva. Nel secondo caso entra in scena il sindaco: per esempio trascrivendo i matrimoni gay (nell’ottobre 2014 Marino l’ha fatto per 16 coppie) oppure con il Registro dei testamenti biologici (fin qui adottato in 169 Comuni, oltre che dal Friuli Venezia Giulia a livello regionale). E se invece il sindaco si rivela un incapace? Allora tocca al supplente del supplente, nelle vesti del commissario prefettizio. Il record è in provincia di Caserta, con 18 amministrazioni comunali decapitate; tanto che la prefettura ha dovuto chiedere rinforzi al ministero, perché da quelle parti i viceprefetti sono soltanto 11. Una Repubblica male ordinata reca più danni d’una tirannia, diceva nel Cinquecento Donato Giannotti. Ieri come oggi, il disordine è allevato da un ordinamento sovraccarico e confuso, dove le leggi si fanno per decreto, dove i decreti durano quanto un volo di farfalla. Sicché in ultimo il destino che ci aspetta sarà uguale a quello già sperimentato da una maestra di Bergamo: licenziata a gennaio, continua ad insegnare grazie alle liste fuori graduatoria. Proprio come lei, ogni italiano diventerà ben presto il supplente di se stesso.

3 maggio 2016 (modifica il 3 maggio 2016 | 21:11)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/16_maggio_04/magistrati-441c78f4-1161-11e6-950d-3d35834ec81d.shtml


Titolo: MICHELE AINIS. La lezione del 2 giugno
Inserito da: Arlecchino - Giugno 03, 2016, 12:15:30 pm

La lezione del 2 giugno
Il tradizionale passaggio delle Frecce tricolori sull'Altare della Patria in occasione del 2 giugno

Di MICHELE AINIS
02 giugno 2016

ITALIA in bianco e nero, siamo tutti juventini. Magari vinceremo gli scudetti, però abbiamo perso il gusto dei colori. O di qua o di là, senza vie di mezzo: chi dubita fa il gioco del nemico, e ogni nemico è un infedele. Non è forse questo il vento che ci spettina mentre andiamo incontro al referendum costituzionale? Tifoserie urlanti sugli spalti, comitati del no reciprocamente in gara su chi scandisce il niet più roboante, comitati del sì armati di moschetto. Sull’analisi prevale l’anatema.

Eppure il referendum d’ottobre potrebbe offrirci il destro per una riflessione collettiva sulle nostre comuni appartenenze, sul senso stesso del nostro stare insieme. Giacché la Costituzione rappresenta la carta d’identità di un popolo, ne riflette il vissuto, ne esprime i valori. Ma noi italiani la conosciamo poco: non la studiamo a scuola, non la pratichiamo quasi mai da adulti. Sarà per questo che siamo diventati incerti sulla nostra stessa identità. Sarà per questo che ci specchiamo nella Costituzione come su un vetro infranto, da cui rimbalza un caleidoscopio d’immagini parziali, segmentate. È l’uso politico della Carta costituzionale, nel tempo in cui la politica consiste in una lotta tra fazioni. Di conseguenza, alle nostre latitudini ciascun tentativo di riforma aggiunge ulteriori divisioni, quando sulle regole del gioco occorrerebbe viceversa il massimo di condivisione.

Ecco perché cade a proposito questo 70° compleanno della Repubblica italiana. Fu battezzata anch’essa con un referendum, il 2 giugno 1946. Quel giorno ogni elettore ricevette una scheda con due simboli: una corona per la monarchia; una testa di donna con fronde di quercia per la repubblica.

E il referendum spaccò il Paese in due come una mela; perfino l’esito venne contestato, tanto che il dato ufficiale si conobbe soltanto il 18 giugno, dopo i controlli della Cassazione. Tuttavia dalla frattura è germinata l’unità. C’è forse qualcuno, settant’anni più tardi, che non si riconosca nella Repubblica italiana?

D’altronde lo stesso referendum del 1946 svolse una funzione pacificatrice. Intanto, la soluzione referendaria fu negoziata con la monarchia. In secondo luogo, essa evitò una conta all’interno dell’area moderata, divisa a metà fra monarchici e repubblicani; e infatti De Gasperi ne fu strenuo sostenitore. In terzo luogo, il referendum permise di saldare due Italie e due generazioni, i vecchi e i giovani, gli operai del nord e i contadini del sud, convocati per la prima volta dinanzi a un’urna elettorale. E infine i vincitori seppero rispettare i vinti, senza calpestarli sotto un tacco chiodato. Non a caso, i primi due presidenti della nuova Repubblica furono entrambi uomini di simpatie monarchiche: Enrico De Nicola e Luigi Einaudi.

Che lezione si può trarre da quei remoti avvenimenti? Una su tutte: la democrazia non deve aver paura dei conflitti, perché dai conflitti nascono i diritti. Però nessuna democrazia può sopravvivere in un conflitto permanente, che s’estende alle stesse norme costituzionali. Come regolarmente ci succede in questo primo scorcio di millennio. Nel 2001 la riforma del Titolo V fu approvata dal centro-sinistra con una maggioranza risicata (4 voti alla Camera, 9 al Senato). Nel 2005 la devolution del centro- destra passò con 8 voti di scarto. Nel 2016, all’atto del voto finale sulla riforma del bicameralismo, le opposizioni hanno abbandonato l’aula: il massimo di ripulsa.

Eppure non è vero, non è del tutto vero, che ci dividiamo sempre tra guelfi e ghibellini. Nel 2012, all’epoca del governo Monti, la riforma costituzionale sul pareggio di bilancio fu timbrata all’unisono, e in appena tre mesi, dal nostro Parlamento. Perché infuriava la crisi dei mercati, perché l’Italia si sentiva sotto assedio. Morale della favola: riusciamo a stare uniti solo durante un’emergenza. Ma la disunione è in se stessa un’emergenza. Anche perché non s’accanisce sui principi, bensì sulle loro concrete applicazioni. Siamo tutti d’accordo sul superamento del bicameralismo paritario, salvo questionare su quanto divenga dispari il Senato. Tutti desideriamo una giustizia più efficiente, però giudici e politici si scaricano addosso le colpe dell’inefficienza. Siamo tutti disposti a riconoscere i diritti delle coppie gay, ma al contempo scateniamo la guerra civile sulle nozze omosessuali o sulla stepchild adoption. Conclusione: non abbiamo bisogno d’un teologo, e nemmeno di un filosofo. Ci serve un ingegnere.

michele.ainis@uniroma3.it. L’autore è giurista e costituzionalista. Con questo articolo inizia la sua collaborazione con Repubblica

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02 giugno 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/06/02/news/la_lezione_del_2_giugno_michele_ainis-141134170/?ref=HRER2-1


Titolo: MICHELE AINIS. Ius soli, quei riflessi fascisti in Parlamento
Inserito da: Arlecchino - Giugno 17, 2017, 11:23:16 pm
Ius soli, quei riflessi fascisti in Parlamento

In quanto accaduto ieri al Senato c'è come un déjà vu. Qui è in questione la buona creanza, categoria a quanto pare ormai obsoleta, come il "galateo parlamentare"

di MICHELE AINIS
16 giugno 2017


DOPO un paio d'anni di stallo, con quella legge sepolta da migliaia di emendamenti, cominciavamo a sospettare che i nostri senatori fossero insensibili alla riforma della cittadinanza. Alleluia, ieri ci hanno offerto la prova contraria. Sono così sensibili da dover ricorrere agli antidolorifici, dopo una giostra di mischie, spinte, pestoni, dopo un andirivieni concitato verso l'infermeria di Palazzo Madama.

Merito della Lega, che ha innescato la bagarre. Ma questo genere di spettacoli mortifica l'intero Parlamento, non soltanto chi se ne renda artefice. Perché non è in questione il diritto al dissenso, anche nelle sue forme estreme, anche con l'ostruzionismo che proprio le destre imbastirono da quegli stessi banchi, negli anni Settanta, contro le Regioni o contro la riforma della Rai. No, qui è in questione la buona creanza, categoria a quanto pare ormai obsoleta, come il "galateo parlamentare" di cui ancora si legge nei manuali di diritto. Eppure la prima seduta della Camera, a Roma, fu inaugurata da una votazione sul cappello: succedeva infatti che l'aula fosse ancora priva di termosifoni, sicché alcuni deputati chiesero di derogare al protocollo indossando un berretto di lana, per proteggersi dal freddo. E la presidenza mise ai voti la richiesta.

Altri tempi, altre tempre. Ma in tutta questa storia c'è un altro sapore del passato che ci sale alla gola, c'è come un déjà vu. C'è un riflesso fascista, proprio così. Non solo per i saluti romani che contemporaneamente s'impennavano a piazza Vidoni, a qualche metro di distanza dal Senato, per una manifestazione di Forza nuova. Non solo perché anche il fascismo additava lo straniero come nemico potenziale, tenendolo in un perenne stato d'incertezza circa la sua permanenza nel Paese. È fascista, in sé, la violenza (ahimè, da ieri pure fisica, oltre che verbale) opposta a una legge che l'Italia attende da un quarto di secolo, che ci era stata già promessa nella legislatura scorsa, che ha addensato 26 progetti di legge nel 2013, all'alba di questa legislatura.

Anche perché la proposta in discussione non è affatto un colabrodo. Allarga la cittadinanza, però la sottopone a condizioni e limiti stringenti. È il caso dello ius culturae, che trasforma i minori stranieri in italiani, purché abbiano fatto ingresso nel nostro territorio entro i 12 anni, e purché frequentino le nostre scuole per almeno cinque anni. Ma è anche il caso dello ius soli, che rovescia lo ius sanguinis (è cittadino chi sia figlio di un genitore italiano) cui s'ispira la legge in vigore. Significa che d'ora in poi la cittadinanza s'accompagnerebbe alla nascita nel territorio dello Stato, come avviene negli Usa e in varie altre contrade; tuttavia soltanto per chi abbia almeno un genitore munito del permesso di soggiorno dell'Unione europea.

D'altronde qual è l'alternativa a questa legge? Lo status quo, ovvero un doppio danno: alla sicurezza e alla giustizia. Quanto alla prima, non c'è dubbio che la minaccia terroristica sia figlia della separazione, non dell'integrazione; i muri lì per lì ti rassicurano, ma alla lunga sono scelte suicide. Quanto alla giustizia, ne circola ben poca in un sistema che tiene fuori dall'uscio un milione di ragazzi per lo più nati in Italia, iscritti in un istituto scolastico italiano, che tifano Juve o parlano in dialetto calabrese.

Potranno forse chiedere la cittadinanza più tardi, quando diventeranno grandicelli; ma con le norme vigenti servono dieci anni di residenza ininterrotta sul suolo italiano, che in pratica diventano perlomeno 13 anni. Nel frattempo a un cittadino bastano 30 giorni per rinnovare il passaporto, a uno straniero ne occorrono in media 291 per rinnovare il permesso di soggiorno. E gli immigrati regolari non votano però pagano le tasse, mentre gli italiani residenti all'estero votano senza pagare dazio.

Insomma, mettiamoci rimedio. Per loro, ma dopotutto anche per noi: l'ingiustizia è un veleno che intossica tanto le vittime quanto gli assassini.

© Riproduzione riservata 16 giugno 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/06/16/news/ius_soli_lega_nord_quei_riflessi_fascisti_in_parlamento-168265574/?ref=fbpr


Titolo: MICHELE AINIS: “Gli irregolari possono revocare candidature”.
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 16, 2018, 05:20:54 pm
Caso restituzioni M5S, Ainis: “Gli irregolari possono revocare candidature”. Di Maio: “Chiederemo che lo facciano”
Il costituzionalista ha spiegato che l'atto di rinuncia all'elezione vale poco perché non ha valore pubblicistico. In compenso la legge elettorale dispone che si possa presentare in qualsiasi momento la rinuncia "alla cancelleria della Corte d'Appello o del Tribunale del capoluogo della regione". Il candidato premier: "Chiedo anche agli altri partiti di fare altrettanto con i loro impresentabili"

Di F. Q. | 16 febbraio 2018

 “Gli elettori possono votare tranquillamente il M5s” perché non solo i candidati che si sono rivelati massoni ma anche “coloro che non hanno rispettato il patto delle donazioni e che sono candidati, gli sarà chiesto di rinunciare alla proclamazione andando alla Corte d’Appello“. Lo ha annunciato il candidato premier M5s Luigi Di Maio in un video su Facebook. “Devo chiedere anche agli altri partiti di fare altrettanto: quelli del Pd e del centrodestra chiedano ai candidati impresentabili di rinunciare alla proclamazione”, aggiunge Di Maio.

Nei giorni scorsi l’M5s ha chiesto ai propri rappresentati risultati “indegni” di firmare un atto di rinuncia all’elezione, ma giovedì sera a Piazza pulita il giurista e costituzionalista Michele Ainis ha ricordato che non è una soluzione perché quella dichiarazione è un mero atto tra privati e in ogni caso le dimissioni devono poi essere votate dal Parlamento e possono essere respinte, come accaduto più volte al senatore Giuseppe Vacciano. In compenso, come Ainis spiega nel dettaglio su Repubblica, c’è una strada più diretta: i candidati che hanno mentito sulle restituzioni al Fondo per il microcredito “possono togliersi di mezzo anche domani, rinunciando alla candidatura”. Ed è quello che ora Di Mario intende chiedere.

Il fatto che “a liste chiuse la candidatura diventi irrinunciabile è una fake news messa in giro non dai pentastellati bensì dai loro avversari”, ha chiarito Ainis. “La smentita si trova nero su bianco nella legge che disciplina le elezioni, basta allungare l’occhio fra i suoi commi”. L’articolo 22 del testo unico delle leggi elettorali, modificato dal Rosatellum, disciplina infatti la modifica della composizione delle liste da parte dell’Ufficio centrale circoscrizionale “a seguito di eventuale rinuncia”: in quel caso si verifica “un effetto di slittamento verso l’alto di tutta la lista, facendo diventare nuovo capolista il secondo candidato”.

La facoltà di rinunciare peraltro non ha un termine: può essere esercitata “fino alla conclusione di tutti gli adempimenti dell’Ufficio centrale circoscrizionale”. E’ sufficiente che il rinunciante, scrive Ainis, “usi le medesime formalità osservate per l’accettazione della candidatura; perciò va bene anche la dichiarazione autenticata da un notaio, purché non rimanga nei cassetti dei cassetti dello studio notarile”. Occorre infatti presentarla “alla cancelleria della Corte d’Appello o del Tribunale del capoluogo della regione”. Morale, secondo il costituzionalista: se i “reprobi del Movimento” lo vogliono, “possono togliersi di mezzo anche domani. Se non lo fanno, smettano d’incolpare le maglie troppo strette della legge”. Giovedì sera l’esponente M5S Paola Taverna ha assicurato: “Ci adopereremo, Di Maio sarà ben felice di farlo”.

Di F. Q. | 16 febbraio 2018

Da - https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/02/16/caso-restituzioni-m5s-ainis-gli-irregolari-possono-revocare-candidature-di-maio-chiederemo-che-lo-facciano/4164485/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=newsletter-2018-02-16


Titolo: MICHELE AINIS. Alle spalle del Presidente
Inserito da: Arlecchino - Maggio 17, 2018, 12:22:25 pm
Alle spalle del presidente

15 MAGGIO 2018

DI MICHELE AINIS

C'è una crisi, c'è un tira e molla che si prolunga ormai da troppo tempo, e c'è pure un presidente. Mestiere complicato, il suo. Perché gli tocca garantire il rispetto delle forme in questo tempo informe. Eppure la democrazia è forma, procedura. È un insieme di regole la cui osservanza permette la composizione dei conflitti per vie pacifiche, anziché muscolari. E la regola sulle crisi di governo si conserva in una minuscola norma della Costituzione. Articolo 92: "Il presidente della Repubblica nomina il presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri". Qualcuno l'ha letta? Qualcuno se ne cura? Parrebbe di no, a misurare i comportamenti dei partiti durante questa vicenda elettorale.

La scelta dei ministri, innanzitutto. Spetta in condominio al Premier in pectore e al capo dello Stato. Uno propone, l'altro dispone. Ma la proposta andrebbe formulata a bassa voce, non sotto i riflettori. Perché altrimenti diventa un aut aut, un prendere o lasciare. E perché in quel caso al presidente riuscirebbe impossibile distribuire moniti e consigli, senza sbugiardare i suoi interlocutori. Non per nulla la Consulta vietò le intercettazioni di cui era stato vittima Napolitano: la moral suasion del capo dello Stato - si legge nella sentenza numero 1 del 2013 - "sarebbe destinata a sicuro fallimento, se si dovesse esercitare mediante dichiarazioni pubbliche". Qual è invece lo spettacolo rappresentato sulla scena? I 5 Stelle hanno annunziato la propria squadra di governo il 1º marzo, a urne ancora chiuse. E dopo il voto è cominciato il balletto dei nomi e dei cognomi, però non al Quirinale, non davanti al presidente, piuttosto alle sue spalle, nei conciliaboli dei capipartito.

Secondo: la scelta del presidente del Consiglio. Ossia il rebus da cui dipende la soluzione della crisi, l'accordo di governo fra Lega e 5 Stelle. I due leader ne stanno discutendo giorno e notte, ma ne verranno a capo, dichiarano all'unisono, e in ultimo detteranno un nome secco a Mattarella. Ma perché, lui agisce sotto dettatura? In passato, talvolta, succedeva. Specie ai tempi del maggioritario, quando la contesa elettorale si sviluppava fra due poli, quando il voto offriva un responso univoco, preciso. Così, il 9 giugno 2001 Berlusconi, uscendo dal Quirinale, dichiarò che il presidente Ciampi gli aveva assegnato l'incarico di formare il nuovo gabinetto, "conformemente al risultato elettorale". Come a dire: non avrebbe potuto fare altro. Ma adesso non c'è nulla di meccanico, di necessitato, nel quadro politico disegnato dalle urne. La situazione è fluida, pure troppo. E in questi frangenti il capo dello Stato recupera tutti i suoi poteri. Dimenticarsene è uno sgarbo, sia pure commesso in buona fede.

Terzo: i tempi. "Dammi solo un minuto, un attimo ancora", cantavano nel 1977 i Pooh. Quarant'anni dopo, lo stesso motivetto viene intonato da Salvini e Di Maio. Solo che i minuti scadono l'uno dopo l'altro, trascorrono ore, giorni, settimane. E ogni rinvio mette alla prova la pazienza: del presidente, oltre che degli italiani. Lui, indulgente, concede proroghe su proroghe. Sa che i suoi due interlocutori hanno qualche problema con il calendario, con le date. Lo sa da quando avevano decretato nuove elezioni l'8 luglio, benché quel decreto sia di competenza del capo dello Stato. Nel frattempo, tra una proroga e l'altra, ha dovuto riporre in un cassetto il suo governo "neutrale", pur avendolo annunziato a reti unificate. Nell'Italia repubblicana non era mai successo. Del resto, anche il doppio referendum sul programma di governo - che s'apprestano a indire Lega e 5 Stelle - è una novità procedurale. Ma il nuovo che avanza non dovrebbe calpestare il galateo del tempo che fu. Dopotutto, le nazioni muoiono d'impercettibili scortesie, diceva Giraudoux.

Da - https://rep.repubblica.it/pwa/commento/2018/05/15/news/_l_analisi_alle_spalle_del_presidente-196494179/?ref=nl-Ultimo-minuto-ore-13_16-05-2018


Titolo: MICHELE AINIS Dalla legge elettorale al Mes maggioranza indecisa per sopravviver
Inserito da: Arlecchino - Agosto 07, 2020, 05:59:10 pm
Il rinvio, elisir del governo

Dalla legge elettorale al Mes: maggioranza indecisa per sopravvivere

DI MICHELE AINIS


Che hanno in comune le concessioni balneari e lo stato d'emergenza? Nulla, a parte il fatto che in entrambi i casi regna Sua Maestà la Proroga: rispettivamente fino al 2033 (campa cavallo) e al 15 ottobre prossimo. E quale spago unisce la (non) scelta d'impiegare i fondi del Mes con la riforma dei decreti sicurezza o con la nuova legge elettorale? Di nuovo nulla, o meglio nulla di nuovo: se ne riparlerà domani, forse dopodomani. Per il momento la maggioranza ha deciso di non decidere, tutti d'accordo nel loro disaccordo.

"Tra un rinvio e l'altro la vita se ne va", scriveva Seneca nelle Lettere a Lucilio. Per il governo Conte, viceversa, i rinvii sono un elisir di lunga vita. Perché mettono i problemi in frigorifero, perché un problema rinviato è anche un giorno guadagnato. Riecheggia qui, d'altronde, un'antica arte di governo: quella di Fabio Massimo, "il Temporeggiatore". Nessuna battaglia in campo aperto, piuttosto una strategia di logoramento, di raffreddamento delle pulsioni contrapposte. E infatti il presidente del Consiglio resta saldo al timone della propria navicella, pur avendo a bordo un equipaggio perennemente litigioso.

Buon per lui, un po' meno per noi. Giacché non è vero, non è affatto vero, che il rinvio d'ogni decisione sia sempre preferibile a una cattiva decisione. Talvolta, o forse spesso, l'inerzia genera un danno peggiore. È il caso della riforma del Csm, chi se ne ricorda? Dopo lo scandalo Palamara sembrava urgente, impellente, dirimente. Invece lorsignori non hanno cavato un ragno dal buco; di conseguenza il discredito attorno alla giustizia cresce, anziché diminuire. Come il malanimo verso la burocrazia italiana, un'altra riforma sempre annunciata e sempre rimandata.

È inoltre il caso - per fare un altro esempio - dei diritti negati al popolo dei più deboli, dei non garantiti. I malati: dato che nell'ultimo decennio il servizio sanitario nazionale ha ricevuto una sforbiciata di 37 miliardi, e dato che i fondi europei del Mes valgono 36 miliardi per la sanità italiana. Dovremmo affrettarci a spenderli, anziché tergiversare.

O ancora i 900 mila ragazzi stranieri che studiano nelle nostre scuole, che magari s'esprimono in dialetto veneto o campano, e che aspettano da anni la nuova legge sulla cittadinanza, sempre rinviata in nome di chissà quale altra priorità. O infine i profughi, chi fugge da una guerra, sbattendo contro i decreti sicurezza timbrati da Salvini. La Consulta ne ha già amputato un pezzo, a suo tempo il capo dello Stato ne aveva denunciato l'ingiustizia, sicché in ultimo la maggioranza di governo ha raggiunto un'intesa. C'è in bozzolo una bozza, ma si deciderà con calma, ora fa caldo, è tempo di vacanze. Nel frattempo i progetti per l'accoglienza chiudono, i migranti annegano.

È infatti questa la lezione che ci impartisce l'esperienza: ogni rinvio è per definizione provvisorio, ma i suoi effetti possono ben risultare permanenti.

Se il decreto Rilancio rimanda alle calende greche il momento della gara pubblica sulle concessioni demaniali marittime o sui servizi portuali, i costi salgono, la concorrenza scende. Se il governo proroga lo stato d'emergenza, pur in assenza dei presupposti che a gennaio ne avevano giustificato l'adozione, si forma un precedente, piantato come un chiodo nel nostro ordinamento; e domani qualcuno potrà usare il martello.

Se la maggioranza promette una nuova legge elettorale per bilanciare il taglio dei parlamentari, ma poi rinnega la promessa o comunque la rinvia, al referendum liberi tutti, e magari vinceranno i no. "L'indecisione e il rinvio" diceva George Canning, primo ministro inglese durante l'Ottocento "sono i genitori del fallimento".


Titolo: M. AINIS. Dalla riforma della legge elettorale dipende la qualità della ...
Inserito da: Admin - Agosto 13, 2020, 06:51:33 pm
Commento Riforme Costituzionali

La sciarada elettorale
24 LUGLIO 2020

Dalla riforma della legge elettorale dipende la qualità della democrazia italiana ma è di nuovo bloccata

DI MICHELE AINIS

Legge, leggere, eleggere: la legge elettorale è una sciarada, un gioco di parole. Che non interessa più i lettori, né tantomeno gli elettori. Dovremmo forse trovarle un altro nome, per ricongiungere la forma alla sostanza. O trovare altri partiti, capaci di ravvivare l'entusiasmo. Dopotutto da quella legge dipende la qualità della democrazia italiana. Ma i partiti stanno imbastendo la solita manfrina, dove ogni mossa è uno sgambetto, dove l'alleato è il tuo primo nemico. Ciascuno con un retropensiero, con in testa soltanto il proprio tornaconto. E i conti non tornano, nemmeno con l'ausilio d'una calcolatrice. Sicché la Camera, giovedì, ha preso atto dello stallo: rinvio alle calende greche.

Eppure la riforma elettorale fu il solenne giuramento da cui il governo Conte bis trasse la sua linfa. Serve un sistema più rappresentativo, disse la nuova maggioranza nell'agosto 2019. Però anche allora c'era un non detto, più sonoro delle parole dette: via i collegi uninominali del Rosatellum, altrimenti al prossimo giro vincerà Salvini. E infatti, nel gennaio 2020, tutti d'accordo sul proporzionale. Il Germanicum, che altri chiamano Brescellum, tanto per rendere il quadro ancora più confuso. L'unico punto chiaro sta nella soglia di sbarramento concordata: 5 per cento, chi non la raggiunge è fuori. Per i piccoli partiti, più che una soglia rappresenta una mannaia.

Sicché adesso Leu ha i dolori delle doglie, Iv vuole abortire il feto. Ma non si sa, magari Renzi alza la posta per ottenere qualche presidenza nelle commissioni parlamentari, di cui è atteso il rinnovo. Mentre si sa che il Pd richiama i 5 Stelle al rispetto degli impegni a suo tempo sottoscritti: io voto il referendum sul taglio dei parlamentari, tu voti la mia legge elettorale. Con un retropensiero, anche in questo caso. Giacché la riforma elettorale può ben essere la buccia di banana su cui cadrà il governo, e d'estate le banane mettono appetito.

Sarà per questo che gli italiani ricambiano questa messinscena con una mitragliata di sbadigli. La nuova legge elettorale è affare degli eletti, non degli elettori. O forse sarà che ne abbiamo viste troppe, e lo spettacolo ci è ormai venuto a stufo. Da quando l'Italia è una Repubblica, abbiamo via via sperimentato sette leggi elettorali (nel 1946, nel 1948, nel 1953, nel 1993, nel 2005, nel 2016, nel 2017). Passando dal proporzionale che elesse l'Assemblea costituente al maggioritario che spinse l'altalena fra Berlusconi e Prodi, fino al "maggiorzionale" di questa stagione tripolare. Ogni legge recava in seno un virus, uno sbaglio che ne rendeva poi urgente la riforma, e dunque lo sbaglio successivo. Ora è in gestazione l'ottavo sbaglio della serie: niente di nuovo, niente di speciale.

Però stavolta un fatto nuovo c'è, anzi un non fatto: il silenzio del governo. Curioso, giacché dal Porcellum in poi tutte le riforme elettorali sono state scritte sotto dettatura dell'esecutivo. L'ultima volta il governo Gentiloni mise addirittura la fiducia, pur d'incassare il risultato. Perché ora l'inerzia? Probabilmente per paura della buccia di banana: se resti immobile, non ci potrai inciampare. Ma la legge in vigore, con un Parlamento dimagrito di 345 membri, diventerà un inciampo per la democrazia italiana. Per dirne una, la Basilicata esprimerebbe tre senatori appena, lasciando a digiuno le forze politiche minori. Mentre nei collegi uninominali ogni senatore finirebbe per rappresentare 800 mila elettori, più della popolazione di Stati come Malta o Lussemburgo. Un problema di legittimità costituzionale, oltre che una distorsione del gioco democratico. Meglio evitarlo; di problemi ne abbiamo già troppi.

Da - https://rep.repubblica.it/pwa/commento/2020/07/24/news/la_sciarada_elettorale-262816681/?ref=nl-rep-a-out


Titolo: Legge, leggere, eleggere: la legge elettorale è una sciarada, un gioco di parole
Inserito da: Admin - Agosto 14, 2020, 09:38:36 pm

Commento Riforme Costituzionali

La sciarada elettorale
24 LUGLIO 2020

Dalla riforma della legge elettorale dipende la qualità della democrazia italiana ma è di nuovo bloccata

DI MICHELE AINIS

Legge, leggere, eleggere: la legge elettorale è una sciarada, un gioco di parole. Che non interessa più i lettori, né tantomeno gli elettori. Dovremmo forse trovarle un altro nome, per ricongiungere la forma alla sostanza. O trovare altri partiti, capaci di ravvivare l'entusiasmo. Dopotutto da quella legge dipende la qualità della democrazia italiana. Ma i partiti stanno imbastendo la solita manfrina, dove ogni mossa è uno sgambetto, dove l'alleato è il tuo primo nemico. Ciascuno con un retropensiero, con in testa soltanto il proprio tornaconto. E i conti non tornano, nemmeno con l'ausilio d'una calcolatrice. Sicché la Camera, giovedì, ha preso atto dello stallo: rinvio alle calende greche.

Eppure la riforma elettorale fu il solenne giuramento da cui il governo Conte bis trasse la sua linfa. Serve un sistema più rappresentativo, disse la nuova maggioranza nell'agosto 2019. Però anche allora c'era un non detto, più sonoro delle parole dette: via i collegi uninominali del Rosatellum, altrimenti al prossimo giro vincerà Salvini. E infatti, nel gennaio 2020, tutti d'accordo sul proporzionale. Il Germanicum, che altri chiamano Brescellum, tanto per rendere il quadro ancora più confuso. L'unico punto chiaro sta nella soglia di sbarramento concordata: 5 per cento, chi non la raggiunge è fuori. Per i piccoli partiti, più che una soglia rappresenta una mannaia.

Sicché adesso Leu ha i dolori delle doglie, Iv vuole abortire il feto. Ma non si sa, magari Renzi alza la posta per ottenere qualche presidenza nelle commissioni parlamentari, di cui è atteso il rinnovo. Mentre si sa che il Pd richiama i 5 Stelle al rispetto degli impegni a suo tempo sottoscritti: io voto il referendum sul taglio dei parlamentari, tu voti la mia legge elettorale. Con un retropensiero, anche in questo caso. Giacché la riforma elettorale può ben essere la buccia di banana su cui cadrà il governo, e d'estate le banane mettono appetito.

Sarà per questo che gli italiani ricambiano questa messinscena con una mitragliata di sbadigli. La nuova legge elettorale è affare degli eletti, non degli elettori. O forse sarà che ne abbiamo viste troppe, e lo spettacolo ci è ormai venuto a stufo. Da quando l'Italia è una Repubblica, abbiamo via via sperimentato sette leggi elettorali (nel 1946, nel 1948, nel 1953, nel 1993, nel 2005, nel 2016, nel 2017). Passando dal proporzionale che elesse l'Assemblea costituente al maggioritario che spinse l'altalena fra Berlusconi e Prodi, fino al "maggiorzionale" di questa stagione tripolare. Ogni legge recava in seno un virus, uno sbaglio che ne rendeva poi urgente la riforma, e dunque lo sbaglio successivo. Ora è in gestazione l'ottavo sbaglio della serie: niente di nuovo, niente di speciale.

Però stavolta un fatto nuovo c'è, anzi un non fatto: il silenzio del governo. Curioso, giacché dal Porcellum in poi tutte le riforme elettorali sono state scritte sotto dettatura dell'esecutivo. L'ultima volta il governo Gentiloni mise addirittura la fiducia, pur d'incassare il risultato. Perché ora l'inerzia? Probabilmente per paura della buccia di banana: se resti immobile, non ci potrai inciampare. Ma la legge in vigore, con un Parlamento dimagrito di 345 membri, diventerà un inciampo per la democrazia italiana. Per dirne una, la Basilicata esprimerebbe tre senatori appena, lasciando a digiuno le forze politiche minori. Mentre nei collegi uninominali ogni senatore finirebbe per rappresentare 800 mila elettori, più della popolazione di Stati come Malta o Lussemburgo. Un problema di legittimità costituzionale, oltre che una distorsione del gioco democratico. Meglio evitarlo; di problemi ne abbiamo già troppi.

Da - https://rep.repubblica.it/pwa/commento/2020/07/24/news/la_sciarada_elettorale-262816681/?ref=nl-rep-a-out