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Autore Discussione: MICHELE AINIS.  (Letto 129414 volte)
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« Risposta #135 inserito:: Giugno 11, 2013, 05:45:18 pm »

L'Editoriale

Lo scandalo del «Prism» negli USA

La difficile difesa della privacy

Come pesci nell'acquario

Lo scandalo del «Prism», il sistema di controllo usato dal Dipartimento di Stato americano per spiare milioni di cittadini


L'uomo moderno ha rinunziato alla possibilità d'essere felice in cambio di un po' di sicurezza, diceva Sigmund Freud. Se la felicità degli uomini è come quella degli uccelli, se vibra attraverso un battito d'ali libere nell'aria, allora sì: siamo meno liberi, e siamo più infelici. È questa la lezione che ci impartisce lo scandalo del «Prism», il sistema di controllo usato dal Dipartimento di Stato americano per spiare email, telefonate, carte di credito, contatti informatici di milioni di cittadini.
Nel loro interesse, come no: per proteggerli dagli attentati. Ma anche a loro insaputa, e questo apre un fronte che ci riguarda tutti, non solo chi abita sotto una bandiera a stelle e strisce. Perché ormai viviamo tutti in una sorta di libertà vigilata (in Gran Bretagna le telecamere a circuito chiuso sono già 4 milioni). Perché ciascuno di noi lascia una scia elettronica quando parla al cellulare o chatta con gli amici. E perché siamo inquilini d'una «società del rischio», come la definisce Beck: rischio atomico, ecologico, finanziario, migratorio, terroristico. Ma il rischio alleva la paura, e le paure si convertono in pulsioni autoritarie - a scapito, per l'appunto, delle nostre libertà.

Da qui un grumo di domande: fin dove può spingersi la protezione dello Stato? Ed è lecito che lo Stato ti protegga, non solo dagli altri, bensì pure da te stesso? Succede quando al divieto di fumo s'accompagna un interdetto per le bibite gassate, o castighi fiscali per gli obesi. Quando insomma il salutismo converte il diritto alla salute in un dovere: sicché lo Stato, per salvarti la pelle, t'impedisce di vivere. Anche in questo caso è la privacy che va a farsi benedire, non meno che durante un'intercettazione telefonica. Perché la privacy costituisce un argine contro l'invadenza dei poteri pubblici e privati, e segna quindi la linea di confine che protegge l'individuo dallo Stato protettore. The right to be let alone , dicono gli americani: il diritto d'essere lasciati soli. Anche nelle proprie scelte, nei propri stili di vita.

Ma sta di fatto che non ne abbiamo mai avuta così poca come da quando sulla privacy vigila un plotone di garanti, ciascuno col suo codice in mano (quello italiano comprende 186 articoli). Colpa della tecnologia, che ci denuda come pesci nell'acquario. Colpa altresì delle nostre insicurezze. Quelle invocate da Obama a sua discolpa, in nome della prevenzione. D'altronde ormai pure le guerre sono quasi sempre preventive: si fa la guerra per evitare la guerra.

Mentre ci aggiriamo in questo teatro dell'ossimoro, mentre ci interroghiamo a vuoto sul bilanciamento fra libertà e sicurezza, esistono però tre condizioni che andrebbero sempre rispettate. Primo: serve un preavviso. Quando lo Stato si arroga il diritto d'origliare, noi abbiamo il diritto di saperlo. Secondo: il preavviso si giustifica solo in situazioni d'emergenza. Terzo: ogni emergenza è per definizione temporanea, ed è regolata dal diritto. E infatti loro, gli americani, dal 2001 hanno il Patriot Act. Invece da noi è ancora vigente un decreto regio del 1938, che ospita la legge di guerra. Magari sarà il caso d'aggiornarlo.

Michele Ainis
michele.ainis@uniroma3.it

9 giugno 2013 | 9:58© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_giugno_09/come-pesci-acquario_1b0657a0-d0be-11e2-9e97-ce3c0eeec8bb.shtml
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« Risposta #136 inserito:: Giugno 27, 2013, 04:01:48 pm »

I PARTITI E LA CACCIA AL NEMICO INTERNO

Un'ossessione trasversale

In un memorabile saggio del 1927, Carl Schmitt individuò le categorie fondamentali della politica nella coppia amico-nemico. Come nell'estetica il bello si profila in opposizione al brutto, come nella morale il buono s'oppone al cattivo, così in politica ogni identità si forgia in contrasto all'identità dell'altro, dello straniero. E lo straniero è il tuo nemico, lo specchio che ti restituisce l'immagine rovesciata di te stesso. Da qui il cemento dei popoli in armi non meno che dei partiti in piazza, da qui la rissa permanente fra destra e sinistra, che ha scandito i vent'anni del bipolarismo all'italiana. Ma dov'è, qui e oggi, il nemico? Quali sembianze assume, mentre i vecchi antagonisti siedono l'uno accanto all'altro sui banchi del governo?

Fateci caso: negli ultimi mesi i partiti sono diventati afoni. L'assenza d'un nemico da combattere ne ha sfibrato il corpo, ne ha disseccato le energie, al pari dei guerrieri spartani reduci da mille battaglie, che poi tornati in patria morivano di malinconia.

Vale per la maggioranza, vale - singolarmente - pure per l'opposizione. Dove il Movimento 5 Stelle è avvolto in una spirale autodistruttiva, che sommerge ogni progetto.

La Lega Nord ha abbandonato Roma per rincantucciarsi nei propri territori, peraltro ormai scarsamente popolati dai suoi stessi elettori.
E l'opposizione di Sel non è convinta, dunque non è nemmeno convincente. Del resto mettersi in trincea sarebbe un'impresa complicata, per un partito che si è presentato alle elezioni insieme alla principale forza di governo, e che esprime pur sempre la presidenza della Camera.

Nel silenzio dei partiti, un'unica voce risuona nei palazzi: quella del potere esecutivo. S'ascoltano dichiarazioni del premier, annunci dei ministri, promesse di decreti. È la rivincita delle istituzioni sulle segreterie politiche, che le avevano così a lungo sequestrate. Ma è anche il presagio d'uno Stato amministrativo, dove la gestione prevale sulla progettazione. E dove non c'è spazio per la politica, e non c'è nemmeno posto per i partiti politici. Loro lo sanno, o almeno ne avvertono confusamente il pericolo letale. Sicché reagiscono nell'unico modo che conoscono: cercandosi un nemico.
E trovandolo, se non all'esterno, dentro le proprie fila. Ora la vitalità residua dei partiti si scarica su un nuovo bersaglio: il nemico interno.

Le prove? Scelta civica fa notizia solo per le baruffe quotidiane fra i suoi troppi colonnelli. Nella Lega il nemico è diventato Bossi, che ne era stato il fondatore. Il Movimento 5 Stelle ha già perso 6 parlamentari: un'espulsione al giorno toglie il medico di torno. Nel Pd Renzi è vissuto come una minaccia, non come una risorsa. Nel Pdl i falchi incrociano gli artigli con le colombe, ma la sentenza costituzionale sul processo Mediaset, e a seguire quella di Milano sul caso Ruby, hanno offerto all'unità del partito il suo antico nemico: il potere giudiziario.

Tutto sommato Berlusconi dovrebbe ringraziare i magistrati.

C'è un che di claustrofobico in questo diffuso atteggiamento. C'è un disturbo paranoide nel concepire il tuo compagno come un sabotatore o un traditore. Ma non è forse il morbo di cui soffriamo tutti? L'anno scorso abbiamo contato 124 casi di femminicidio, per lo più fra le mura domestiche.
Sono volatili gli affetti, i sodalizi culturali, i rapporti di lavoro. Perché abbiamo smarrito ogni fiducia, in noi stessi prima che negli altri.
E disgraziatamente la politica non ci aiuta con l'esempio.

Michele Ainis

27 giugno 2013 | 8:04© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_giugno_27/ossessione-trasversale-ainis_e64a3180-dee6-11e2-b08d-5f4c42716abd.shtml
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« Risposta #137 inserito:: Luglio 20, 2013, 06:30:53 pm »

IL RAPPORTO TESO TRA POLITICA E BUROCRAZIA

La confusione e le inefficienze

 Michele AINIS

Dal male nasce il bene, recita un vecchio proverbio. Il male è il caso Shalabayeva: una vicenda che ci ha fatto diventare rossi di vergogna.
Il bene alberga nel dibattito che ne è scaturito, scoperchiando il vaso di Pandora dei rapporti fra politica e amministrazione. Però anche dal bene può nascere il male. Succede quando le diagnosi si rivelano fallaci, quando perciò le terapie possono infliggere il colpo di grazia all'ammalato, invece di guarirlo.

Ma perché, non è forse vero che in Italia l'alta burocrazia ha troppi poteri? Certo che sì, e l'espulsione di quella giovane mamma con la sua bambina - decretata dopo un giro di valzer fra dirigenti del ministero dell'Interno e della Polizia di Stato - ne costituisce la prova provata.
Le opposizioni hanno reagito chiamando a risponderne il ministro, secondo le regole della democrazia parlamentare; dimenticando che una crisi di governo, mentre tutto il Paese è in crisi, sarebbe una sciagura. Per un momento l'ha dimenticato anche il Pd, benché questo partito esprima il presidente del Consiglio. Poi Napolitano ha richiamato tutti alla realtà, e almeno per adesso il pericolo parrebbe scongiurato. Però alla fine della giostra resta un delitto senza un assassino. E in secondo luogo rimane in circolo il sospetto - di più, la convinzione - che ministri e ministeri vivano in stanze separate. Da qui la debolezza dei governi, da qui l'arroganza delle burocrazie. Da qui, in breve, l'esigenza di mettere un guinzaglio politico al collo dei grand commis di Stato.

Errore: è casomai l'opposto che dovremmo fare. Se la dirigenza amministrativa ha ormai usurpato le funzioni del governo, se blocca qualunque taglio alla spesa pubblica per non cedere quote di potere, se una circolare vale più di cento leggi, se insomma chi decide non è più l'eletto bensì il burocrate negletto, ebbene tutto questo accade per un eccesso di contiguità - non di separatezza - fra politica e amministrazione. Ma la colpa è dei partiti, del loro pantagruelico appetito. Hanno divorato il Parlamento, annullandone l'autonomia costituzionale. Poi hanno divorato gli apparati burocratici, distruggendone l'imparzialità prescritta dall'articolo 97 della Carta. Lo hanno fatto pretendendo di scegliersi capi e sottocapi attraverso lo spoils system : una razzia benedetta da una legge del 1997, allargata da un altro intervento normativo nel 2002, arginata a fatica dalla Consulta in numerosissime pronunzie. Ma il dirigente selezionato per meriti politici diventa giocoforza un politico lui stesso, acquista l'autorità per governare in luogo del governo, si sostituisce legittimamente al suo ministro. E infine assiste con un ghigno al suicidio dei partiti: divorando tutto, hanno divorato anche il proprio potere.

Morale della favola: fuori la politica dall'amministrazione. E fuori anche dalla giurisdizione: che altro sono le correnti della magistratura se non partiti in toga? Servono perciò riforme, come ha ammonito ancora ieri il capo dello Stato. Per sottrarre, tuttavia, non per aggiungere. Servono riforme che sappiano amputare gli artigli dei politici. Che svuotino il gran mare delle leggi, dove ogni burocrate trova sempre un'onda compiacente su cui galleggiare. Che cancellino le zone franche della responsabilità amministrativa e giudiziaria. Che disarmino le troppe camarille in marcia sulle rovine del Paese. Insomma usate le forbici, per favore. Le forbici.


19 luglio 2013 | 7:46
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da - http://www.corriere.it/editoriali/13_luglio_19/la-confusione-e-le-inefficienze-michele-ainis_6ccb1f54-f02f-11e2-ac13-57f4c2398ffd.shtml
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« Risposta #138 inserito:: Luglio 26, 2013, 10:18:24 am »

DOMANDE ATTUALI, STRUMENTO LOGORO

Gli indiscreti referendum

Michele Ainis

Agli esordi pareva un'avventura temeraria. Senza spettatori, con un manipolo d'attori, e nello scetticismo degli stessi promotori. Poi il pubblico si è via via gonfiato. Le tv hanno mandato qualche troupe a filmare lo spettacolo. E infine sul palco sono salite anche le star. Ok da Berlusconi, la new entry più pesante. Sì da Grillo, poi no (dopo uno scambio d'amorosi sensi con Di Pietro), ma a quanto sembra la risposta per adesso è nì. Un sì parziale anche da Sel e altre forze politiche minori. Pieno consenso dall'Organismo unitario dell'avvocatura. Oltre che dal Codacons, dall'Associazione per la tutela dei diritti del malato, da vari gruppi che difendono i consumatori.

Sono i referendum radicali: 12, come gli apostoli. Solo che in questo caso a benedirli non c'è un Cristo bensì piuttosto un Anticristo (Marco Pannella). Che infatti scaglia i suoi fulmini contro l'otto per mille destinato alle casse vaticane. Tuttavia non è la questione religiosa a occupare il centro della scena. No, è la giustizia. Dieci quesiti su 12 toccano - direttamente o di straforo - la materia giudiziaria. Lasciata prudentemente (pavidamente?) fuori dalla revisione costituzionale che il Parlamento sta intessendo, eccola sbucare nelle piazze da una via referendaria. Per forza: sui referendum si scarica un'energia riformatrice che i partiti sono incapaci di raccogliere. Loro semmai v'oppongono una strategia paralizzante, usando l'arma dello scioglimento anticipato delle Camere pur di rinviarli alle calende greche (è successo nel 1972, nel 1976, nel 1987, nel 1994), organizzando l'astensione, o male che vada frodando il voto popolare.

Sicché in ultimo l'oggetto di questi referendum è lo stesso referendum, la sua immagine riflessa in uno specchio. È la seconda scheda, quella che dovrebbe servirci per decidere, non per delegare. Se otterrà 500 mila firme entro settembre, la useremo nuovamente sull'abrogazione del finanziamento pubblico ai partiti (approvata nel 1993 dal 90,3% degli elettori, ripristinata sotto mentite spoglie dai partiti, sommersa in questi giorni da 150 emendamenti, poiché il governo Letta ha osato proporre una mezza abolizione). Per la seconda volta sulla responsabilità dei magistrati (nel 1987 i sì furono l'80,2%, nel 1988 una legge li ha trasformati in boh ). E dopotutto è un secondo tempo pure il divorzio breve, dato che il referendum del 1974 ci ha recato in sorte un divorzio lungo da 10 a 12 anni (in Francia e in Spagna bastano 3 mesi). Vedremo se almeno in questo caso repetita iuvant .

Poi, naturalmente, c'è dell'altro. Dalla cancellazione dell'ergastolo a limiti stringenti per la custodia cautelare, dall'immigrazione alle droghe leggere, dai magistrati fuori ruolo alla separazione delle carriere giudiziarie. Questioni variegate, su cui ciascuno può nutrire opinioni variegate. O altrimenti, fin qui, nessuna opinione. Ma in ogni caso dovremmo sforzarci d'approfondire i temi che ci vengono proposti: senza conoscenze siamo sudditi, non cittadini. C'è un dato, tuttavia, che è impossibile conoscere, e non per colpa nostra. Mettiamo pure da parte Scelta civica, o quel che ne rimane; ma qual è la posizione del Pd, che ne pensa il maggiore partito di governo? Come diceva Oscar Wilde, le domande non sono mai indiscrete; però talvolta suonano indiscrete le risposte.

25 luglio 2013 | 7:28
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da - http://www.corriere.it/editoriali/13_luglio_25/gli-indiscreti-referendum-michele-ainis_6f873800-f4e3-11e2-b38b-ce85f307318c.shtml
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« Risposta #139 inserito:: Agosto 02, 2013, 11:13:44 am »

NORME SCRITTE PER NON ESSERE CAPITE

Lo sformato legislativo


Michele Ainis


D'estate, puntualmente, fioccano i divieti. L'ultima invenzione è il porto d'armi (pardon, di sigarette) in automobile, che ha impegnato in singolar tenzone le ministre Bonino e Lorenzin. Ma la pioggia di regole ci bagna tutto l'anno, e nessun ombrello è abbastanza largo da proteggerci. Nel 2007 la commissione Pajno ha fatto un po' di conti: avremmo in circolo 21.691 leggi dello Stato. Tuttavia la stima è viziata per difetto, e non solo perché il trascorrere del tempo ci ha recato in dote nuovi acciacchi normativi. Dobbiamo aggiungervi le leggi regionali (all'incirca 30 mila). Quelle delle due Province autonome (il sito web della Provincia di Bolzano ne vanta oltre 2 mila). Nonché il profluvio dei regolamenti: 70 mila.

Troppo? No, è troppo poco. Nel Paese in cui perfino i carabinieri sono dotati di un ufficio legislativo, in questo Paese senza autorità ma con cento authority, le sartorie del diritto s'incontrano a ogni angolo di strada, e ciascuna ha un abito normativo che ci cuce addosso. Il 18 luglio il Garante della privacy ha varato un provvedimento sulle intercettazioni: 41.196 caratteri. Il 4 luglio ne aveva licenziato un altro sul contrasto allo spam: 7.767 parole. Risale invece a maggio il regolamento della Banca d'Italia sulla gestione collettiva del risparmio: 171 pagine. Senza contare statuti e regolamenti comunali (a Parma ce n'è uno sulla Consulta del verde, un altro dedica 14 articoli al Castello dei burattini). O senza ricordare le mitiche ordinanze dei sindaci-sceriffi, dal divieto della sosta di gruppo in panchina (Voghera) a quello dei bagni notturni (Ravenna), fino al divieto d'imbrattare i cartelli di divieto.

Ma di che pasta è fatto questo sformato normativo? Proviamo ad assaggiare il menu del governo Letta, accusato ingiustamente di battere la fiacca, mentre ha messo in forno 20 provvedimenti negli ultimi 30 giorni. Il più importante è il «decreto del fare», dove figura un capitolo sulle semplificazioni burocratiche. Vivaddio, era ora. Peccato tuttavia che per semplificare il decreto spenda 93 commi, oltretutto scritti nel peggior burocratese. Così, il comma 1 dell'articolo 52 si suddivide in 11 punti contrassegnati in lettere (dalla A alla M); la lettera I s'articola poi in 3 sottopunti, numerati con cifre arabe come gli articoli; e il sottopunto 2 si scinde in altri 2 sotto-sottopunti, ciascuno distinto da una lettera.

Diceva Seneca: la legge dev'essere breve, affinché possa comprenderla pure l'inesperto. E Tacito, a sua volta: quando le leggi sono troppe, la Repubblica è corrotta. Ecco, è questo doppio male che in Italia offusca il senso stesso della legalità. Sono le 63 mila norme di deroga, che mettono in dubbio la residua sopravvivenza della regola, con buona pace del principio d'eguaglianza. Sono i 35 mila reati che ci portiamo sul groppone, e che la Cancellieri non ha mai cancellato. Sono i 66 mila detenuti stipati in 47 mila posti letto, al cui destino il nostro Parlamento è indifferente, mentre viceversa grazia i colpevoli di stalking o di abuso di ufficio, con un emendamento approvato l'altroieri. Ed è, in ultimo, l'incertezza del diritto, che trasforma ogni poliziotto in giudice, ogni giudice in un legislatore. Perché in questo caso funziona un paradosso: le troppe leggi s'elidono a vicenda, dal pieno nasce il vuoto. E nel deserto dei valori torreggia uno Stato ficcanaso, che adesso vorrebbe perfino mandare a scuola chi possiede un cane, per insegnargli la buona educazione. Che maleducato.

michele.ainis@uniroma3.it
31 luglio 2013 | 7:38

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Michele Ainis
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« Risposta #140 inserito:: Agosto 07, 2013, 05:25:56 pm »

L'AFFANNO INTERPRETATIVO DELLE LEGGI

L'incertezza del diritto

Carta vince, carta perde. Ma a vincere, in questo caso, è la carta bollata. Quella che raccoglie la lingua del diritto, non le lingue dei politici. Un'esperienza inedita, quantomeno alle nostre latitudini. Anche perché il diritto parrebbe sottomesso alla politica: dopotutto ogni legge non è che il veicolo d'una decisione politica. Nell'affaire Berlusconi succede tuttavia il contrario. Succede che il leader più popolare dell'ultimo ventennio venga sconfitto dal diritto, anziché dagli elettori. E dunque, conta di più la regola o il consenso? Nel dubbio, lo scontro politico ha ormai cambiato segno: dai vecchi cavalli di battaglia siamo passati a una gara fra cavilli, dopo le leggi ad personam subentrano le interpretazioni ad personam . Ma almeno in questo non c'è nulla di nuovo: le leggi si applicano ai nemici e si interpretano per gli amici, diceva Giolitti.

Tutto comincia con la sentenza della Cassazione, attesa come un'ordalia sulle sorti del governo; e già qui c'è una nota singolare, perché gli esecutivi cadono nelle assemblee legislative, non nelle aule giudiziarie. Alla condanna dell'illustre imputato segue la sua ineleggibilità sopravvenuta, in forza della legge Severino; però la decadenza deve pur sempre pronunziarla il Parlamento, e in Parlamento c'è chi vi s'oppone, perché altrimenti la sanzione avrebbe un'efficacia retroattiva. Se ne parlerà, semmai, alle prossime elezioni. Dove Berlusconi è incandidabile, giacché chi sia stato condannato a pene superiori ai due anni sprofonda in un limbo elettorale per sei anni; ma intanto che si candidi, poi sarà pur sempre il Parlamento prossimo venturo a interpretare la validità della sua candidatura. Sempre che, nel frattempo, non sopravvenga un provvedimento di clemenza: da qui il pressing su Napolitano per la grazia, uno scudo giuridico contro il bastone della legge. Peccato tuttavia che il potere di grazia venga a sua volta circoscritto da una sentenza costituzionale (la n. 200 del 2006). E che quest'ultima ne renda l'uso problematico rispetto a Berlusconi, nonostante i precedenti di Sallusti e dell'agente Cia che rapì Abu Omar.

Questa sfida tra politica e diritto si ripete pure nell'accampamento avverso. Che altro significa, difatti, la querelle che oppone giustizialisti e garantisti di sinistra? E quale altro valore assume l'estenuante dibattito sulle primarie del Pd? Chi le vorrebbe chiuse ai militanti, chi aperte ai passanti: questione di regole, per l'appunto. Ma le regole vengono stirate da ciascuno in base al proprio tornaconto, e infatti la vera posta in gioco è il successo di Renzi alle primarie. Senza dire della legge elettorale, un incubo giuridico sia a destra che a sinistra. Perché su entrambi i fronti c'è chi vorrebbe andare presto alle elezioni, magari già in ottobre. E perché non è possibile lo scioglimento anticipato delle Camere, non almeno prima di dicembre, quando la Consulta emanerà un verdetto sul Porcellum . In caso contrario il nuovo Parlamento rischierebbe di morire mentre è ancora in fasce, essendo stato eletto tramite una legge ormai incostituzionale.

Potremmo rallegrarci del ruolo esercitato dal diritto nella nostra vita pubblica. Ma alla fine della giostra potremmo anche uscirne più malconci.
Se alla forza delle regole si sostituirà l'interpretazione capziosa delle regole. E se i politici, non avendo più un'idea politica da consegnare agli elettori, si trasformeranno in altrettanti legulei. I sintomi già ci sono tutti.

7 agosto 2013 | 7:54
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Michele Ainis

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_agosto_07/l-incertezza-del-diritto-michele-ainis_9b51daa8-ff1a-11e2-a99f-83b0f6990348.shtml
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« Risposta #141 inserito:: Settembre 01, 2013, 11:33:06 am »

QUANDO SI DECIDE PER NON DECIDERE

Le troppe leggi rimaste vuote

 
Due anni fa il governo Berlusconi decise d'investire sui prestiti d'onore agli studenti. Ottima idea, ottima iniziativa. Scopriamo adesso che fin qui ne hanno fruito in 597, quando negli Usa sono 39 milioni gli ex studenti che stanno saldando il loro prestito d'onore. Insomma l'ennesima promessa tradita, anche se il tradimento non fa mai notizia. La notizia sta sempre nell'annuncio, nel messaggio che accompagna l'ultima lieta novella normativa. Come l'abolizione del precariato nella pubblica amministrazione, decisa ieri dal governo Letta; e speriamo che sia vero. Altrimenti inciamperemmo su un'altra legge-manifesto: le «grida in forma di legge» su cui levava l'indice, già nel 1979, il Rapporto Giannini. A chi convengono? Perché restano orfane di ogni applicazione? E come mai alle nostre latitudini fioccano come la grandine?

A occhio e croce, questo fenomeno si manifesta in due sembianze. In primo luogo, le leggi fatte apposta per non funzionare. Fra cui s'inscrive, per l'appunto, la disciplina sui prestiti d'onore: un misero fondo di 19 milioni, un tasso d'interesse che scatta il primo giorno dopo il prestito (anziché dopo la laurea), e che fa schizzare la rata a mille euro al mese. Ovvio che non ci sia poi la fila agli sportelli. In secondo luogo, le leggi che reclamano ulteriori adempimenti normativi, per esprimere tutti i propri effetti. E se l'adempimento non viene mai adempiuto? Amen, la legge rimarrà una pia intenzione, una nuvola di parole mute.

Questi corpi celesti solcano da tempo il nostro orizzonte giuridico. Celebre il caso della vecchia legge sulla Protezione civile, inoperante perché priva del suo regolamento esecutivo. Da qui ritardi e disfunzioni nei soccorsi, quando nel novembre 1980 un terremoto devastò l'Irpinia; da qui un messaggio televisivo di Pertini, con parole di fuoco nei confronti del governo per la sua omissione normativa. Ma sta di fatto che negli ultimi anni gli episodi si moltiplicano, sicché l'eccezione è ormai diventata regola. Durante il gabinetto Berlusconi, per esempio, fu annunciata in pompa magna la riforma Gelmini dell'università, la cui efficacia dipendeva tuttavia da un centinaio di regolamenti futuri. Mentre il gabinetto Monti concluse la propria esperienza lasciando ai posteri 490 norme da rendere pienamente vincolanti, con regolamenti o con atti amministrativi.

Ma per quale ragione la politica italiana ha trasformato ogni legge in un inganno? Semplice: perché è incapace di decidere, e allora finge di produrre decisioni. Disegna acrobazie verbali, sciorina commi incomprensibili, che volano come coriandoli nel Carnevale del diritto. Oppure pratica l'arte del rinvio, confezionando norme che restano altrettanti corpi senza gambe, fin quando non interverrà la disciplina d'attuazione. D'altronde le leggi in quarantena possono ben rivelarsi utili dal punto di vista dei partiti. Nel 1945, dopo la guerra, in Norvegia conservatori e laburisti bisticciavano circa il mantenimento della legge sul controllo dei prezzi: i primi volevano abrogarla, i secondi no. Finì che la legge rimase in vigore, però soltanto sulla carta, giacché non venne più applicata; e così entrambi i partiti cantarono vittoria davanti al proprio elettorato.

Mezzucci, espedienti da magliaro. Ma in questo gioco illusionistico siamo noi i maestri, mica i norvegesi. Sicché, quando vi folgora l'annuncio dell'ultima rivoluzione normativa, mentre vi buca i timpani il coro contrapposto dei detrattori e degli entusiasti, sappiate che non è il caso di scaldarsi. In Italia la legge non è sempre una cosa seria.

28 agosto 2013 | 7:51
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Michele Ainis

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_agosto_28/troppe-leggi-rimaste-nuove-ainis_44c751fa-0f9f-11e3-b921-7cfcbde2c622.shtml
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« Risposta #142 inserito:: Settembre 15, 2013, 05:14:06 pm »

IL DIBATTITO SULL'ARTICOLO 138

Chi ha paura delle riforme

 
Il finimondo è un numero a tre cifre: 138. Scritto con un pennarello nero sulle mani sventolanti dei grillini, agitato come un altolà da quanti s'oppongono al disegno di riforma, o al contrario usato a mo' di grimaldello per forzare la serratura della Costituzione. Sicché è guerra sulle regole, tanto per cambiare. Però stavolta la guerra investe il «come», non il «cosa». Perché l'articolo 138 detta le procedure per correggere la Carta. E perché in questo caso il Parlamento sta applicando il 138 per introdurre una procedura in deroga al medesimo 138. Da questa seconda procedura nascerà (forse) la riforma. Ma c'è già chi la reputa illegittima, al di là dei suoi eventuali contenuti. Per il metodo, prima ancora che nel merito. Cominciamo bene.
Messa così, verrebbe da dire: lasciate perdere. Tornate alla via maestra del 138, senza cercare scorciatoie. E guardate alla sostanza, piuttosto che alla forma. Tanto più se la forma diventa un elemento divisivo, quando ogni riforma costituzionale andrebbe viceversa condivisa. D'altronde non è forse vero che l'articolo 138 incarna la sentinella della Costituzione? Vero, al punto che un celebre paradosso (quello di Alf Ross) lo dichiara immodificabile. Ma sta di fatto che noi italiani abbiamo già sfidato un paio di volte il paradosso: nel 1993 e nel 1997, quando due leggi costituzionali battezzarono altrettante Bicamerali, e dunque un procedimento specialissimo per rovesciare come un calzino usato la Carta del 1947. Senza barricate in Parlamento, né tumulti nelle piazze. Però magari a quel tempo eravamo un po' distratti.

E allora esaminiamo la forma della riforma, non foss'altro che per vederci chiaro. Primo: stavolta non è alle viste una rivoluzione, bensì una semplice manutenzione della Carta. Difatti ne rimane fuori il sistema delle garanzie (dalla magistratura ordinaria alla Consulta), su cui aveva invece carta bianca la Bicamerale presieduta da D'Alema. Secondo: non c'è nemmeno un ordine di sfratto per le assemblee parlamentari, come sarebbe accaduto viceversa con la Convenzione (aperta a membri esterni) evocata dal presidente Letta nelle sue dichiarazioni programmatiche. Terzo: la nuova procedura rafforza il potere di controllo degli elettori sugli eletti, e perciò rafforza la rigidità costituzionale. Giacché permette un referendum conclusivo, anche se la riforma fosse approvata a maggioranza dei due terzi. E in secondo luogo perché i referendum saranno tanti quanti i capitoli costituzionali riformati (bicameralismo, forma di governo, Regioni e via elencando). Mentre l'articolo 138 può aprire la strada a un plebiscito, a un prendere o lasciare, com'è avvenuto nel 2006 con la maxiriforma (55 articoli) cucinata dal centrodestra.

Dov'è quindi la ferita alla legalità costituzionale? In una modesta compressione dei tempi del dibattito, nonché del potere d'emendamento dei singoli parlamentari. Ampiamente compensata, tuttavia, dai referendum, in cui s'esprime la sovranità popolare. Sicché alla fine della giostra fa capolino un sospetto, un punto di dubbio, una domanda: non è che dietro lo schermo delle procedure c'è dopotutto una volontà conservatrice, l'idea che la Costituzione sia una mummia imbalsamata? Idea rispettabile, per carità; ma allora vorrà dire che i suoi nuovi paladini sono diventati dei necrofili.

12 settembre 2013 | 8:19
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MICHELE AINIS

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_settembre_12/chi-ha-paura-delle-riforme-ainis_ee2e7610-1b6b-11e3-bb5a-be580d016df6.shtml
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« Risposta #143 inserito:: Settembre 20, 2013, 04:37:52 pm »

editoriale

Il rispetto delle regole

Noi italiani scambiamo le regole per tegole. Sicché, quando ci cascano addosso, le schiviamo. E un minuto dopo corriamo a fabbricare un'altra tegola (pardon, regola), cercandovi riparo. È già successo mille volte, sta forse per succedere di nuovo. Oggi il Movimento 5 Stelle proporrà una modifica al regolamento del Senato, allo scopo d'ottenere un voto palese sulla decadenza di Silvio Berlusconi. Consensi dalla Lega, applausi da Sel, aperture dall'Udc e da Scelta civica, benedizioni da autorevoli esponenti del Pd. E ovviamente un altolà dal Pdl, che difende la regola vigente, ossia lo scrutinio segreto.

C'è una nobile ragione di principio sotto quest'ennesima baruffa sulle regole? Macché, c'è un calcolo politico. Il Pdl spera che il segreto dell'urna favorisca smottamenti nel fronte avverso, sulla carta largamente superiore. Perché la decadenza di Berlusconi rischia di trascinarsi dietro la decadenza della legislatura, con una crisi di governo e poi con lo scioglimento anticipato delle Camere. E perché, si sa, nessuno degli eletti ha voglia di fare le valigie. Dal canto suo il Pd teme giochetti da parte dei grillini: potrebbero salvare in massa l'illustre condannato, per poi addossarne la colpa alla sinistra. Ma soprattutto teme imboscate al proprio interno, giacché i 101 franchi tiratori che affondarono la candidatura di Prodi al Quirinale sono ancora lì, e tramano nell'ombra. Dunque la nuova parola d'ordine è la stessa che Gorbaciov coniò negli anni Ottanta: glasnost , trasparenza. D'altronde come si fa a non essere d'accordo?

Si fa, si fa. Intanto per una ragione di merito, perché non è affatto vero che la segretezza convenga solo ai ladri. Non a caso la Costituzione proclama il nostro voto d'elettori «libero e segreto». Questi due attributi si tengono a vicenda: il voto è libero unicamente se resta segreto. Altrimenti potremmo subire ritorsioni dal datore di lavoro, minacce dai politici, o più semplicemente potremmo farne mercatino, vendendolo al miglior offerente. E il voto degli eletti? Qui la libertà deve coniugarsi con la loro responsabilità verso gli elettori. Dopotutto se ti ho dato fiducia devo pur sapere se la meriti, se stai mantenendo le promesse. Però siccome ogni democrazia parlamentare accoglie il divieto di mandato imperativo, siccome ormai l'imperatore non è tanto il cittadino bensì il capopartito, allora la segretezza dei voti espressi nelle assemblee legislative suona come il riscatto dei peones, l'ultimo presidio della loro dignità.

Queste due opposte esigenze possono combinarsi in varia guisa. Fino al 1988 era regola il voto segreto, mentre quello palese veniva usato in casi eccezionali. Dopo la riforma dei regolamenti parlamentari s'applica la regola contraria; tuttavia l'eccezione - e cioè il voto segreto - continua a governare le votazioni sui diritti di libertà, sui casi di coscienza o infine sulle singole persone. Il caso Berlusconi, per l'appunto; quantomeno al Senato, giacché alla Camera funziona anche qui il voto palese. Merito di Craxi, salvato nel 1993 dai franchi tiratori, sicché Montecitorio s'affrettò a riformare la riforma. Alla fine della giostra la questione sta allora nel metodo, prima ancora che nel merito. Possiamo calibrare come più ci aggrada il rapporto fra scrutini segreti e palesi. Possiamo anche sbarazzarci della prerogativa che rende i parlamentari giudici di se medesimi, trasferendola per esempio alla Consulta. Ciò che invece non possiamo fare è di scrivere un'altra regola ad personam o meglio contra personam . Per rispetto delle regole, se non della persona.

17 settembre 2013 | 8:10
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Michele Ainis

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_settembre_17/rispetto-delle-regole-ainis_7015e0a2-1f57-11e3-9636-b0708204026a.shtml
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« Risposta #144 inserito:: Settembre 28, 2013, 04:47:40 pm »

I PARADOSSI DELLE DIMISSIONI

Uno sparo nel buio

Che invidia per le squadre di calcio, lì almeno c'è una regola chiara. Poniamo che un allenatore dica all'arbitro: guai a te se mi fischierai un rigore contro, perché subito dopo la mia squadra abbandonerà il campo di gioco. Risultato? L'allenatore sarà squalificato per condotta antisportiva, la squadra uscirà sconfitta a tavolino per 3 a 0. Dopo di che il campionato prosegue senza interruzioni. E se invece non c'è di mezzo una partita ma un partito? Se quel partito (il Pdl) annuncia le dimissioni in massa dei suoi parlamentari?

Idea geniale, ma non del tutto originale. Nel gennaio 1864 si dimise Garibaldi, insieme ad altri 9 deputati: i garibaldini, per l'appunto. Tuttavia il precedente non fa testo, e non solo perché il partito di Silvio Berlusconi è allergico alle camicie rosse. Stavolta cambiano i numeri dell'esodo, dunque pure le sue conseguenze. Non cambiano però le procedure, o almeno non del tutto. Cerchiamo di metterle in fila.

Primo: le dimissioni sono un atto individuale, non collettivo. Vanno perciò presentate una per una. E vanno altresì votate in Parlamento, per giunta a scrutinio segreto, dato che si tratta d'una votazione su singole persone. Anche questa regola ha origini remote: risale al 20 dicembre 1850 il primo voto negativo sulle dimissioni del deputato Incisa Beccaria, che dunque rimase inchiodato al proprio scranno. Oggi però vige una regola al quadrato, giacché per prassi la richiesta non viene mai accolta alla prima votazione. Un antidoto contro le dimissioni in bianco, che qualche partito faceva firmare ai propri candidati alle elezioni (se sgarri, ti licenzio). Anche il secondo voto, però, non sempre è positivo. Nel 2006 Prodi governava sul filo del rasoio, sicché al Senato ogni assenza diventava una tragedia. Da qui le dimissioni dei sottosegretari-senatori, regolarmente impallinate nel segreto dell'urna. Per forza: la destra sperava nel rasoio, i sottosegretari (e i loro amici) disperavano della longevità di Prodi.

Secondo: il Porcellum. Significa che ogni eletto ha alle calcagna un non eletto, che ne prenderà le veci se lui libera la poltrona in Parlamento. Sicuro che avrà voglia di dimettersi a sua volta? Tanto per dire, dietro Berlusconi incalza il molisano Di Giacomo, che ha già fatto sapere di non volerne sapere. Ma ammettiamo pure che obbediscano tutti come soldatini, benché fra voti e controvoti ci vorranno mesi prima d'arrivare al capolinea. Scatterà a quel punto un autoscioglimento delle Camere? Manco per niente. La «dissoluzione» avviene quando manchi il numero legale, e non è questo il caso. Alla Camera il Pd ha la maggioranza assoluta, al Senato il Pdl - anche sommandovi la Lega e Grandi autonomie - raggiunge 117 seggi, mentre il numero legale viaggia a quota 161. Quindi si può andare avanti, come d'altronde è già successo: la XIV legislatura (2001-2006) s'aprì e concluse con 12 scranni vuoti.

Insomma: un colpo fragoroso, però senza proiettile. E al contempo una litania di paradossi. Con l'annuncio d'una crisi istituzionale senza crisi di governo, mentre semmai dovrebbe succedere il contrario. Con la lettera a Napolitano contro gli abusi della Giunta firmata ieri da Brunetta e Schifani, come se fosse lui la Giunta del Senato. Con un'interminabile querelle sulla retroattività della legge Severino, quando comunque fra un paio di settimane Berlusconi verrà interdetto dai pubblici uffici. Infine con un drappello di ministri che si dimettono da parlamentari ma intanto restano ministri. È ormai la cifra della Repubblica italiana: una Repubblica dimessa, non dimissionaria.

28 settembre 2013 | 7:18
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Michele Ainis

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_settembre_28/uno-sparo-nel-buio-michele-ainis_a046d3a2-27fa-11e3-a563-c8f4c40a4aa3.shtml
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« Risposta #145 inserito:: Ottobre 13, 2013, 05:04:33 pm »

PROMEMORIA PER CHI NON VUOLE LE RIFORME

L’indigestione delle deroghe


Il governo Letta ha passato la nottata, ma per l’Italia è ancora notte fonda. Viviamo in un sistema che alleva disoccupazione e recessione, prigioniero di lobby armate fino ai denti, lacerato dal divorzio fra popolo e Palazzo. Zero efficienza economica, zero equità sociale, zero legittimazione democratica. C’è un nesso fra queste tre voragini? Sì che c’è, ma per illuminarlo dobbiamo aprire gli occhi sul quarto zero tondeggiante sullo sfondo: quello delle riforme istituzionali e costituzionali. Ci sarà pure una ragione se alle nostre latitudini fa notizia la sopravvivenza del governo, non già la sua caduta. Se ciascun potere dello Stato, nessuno escluso, appare debole ma al contempo rissoso, sleale, prepotente. Se infine il sistema nel suo complesso è incapace di produrre grandi scelte, però microdecisioni sì, e sono sempre decisioni di favore.

Le prove? Alla data del 2012 il nostro ordinamento ospitava 63 mila norme di deroga. Significa che la regola non esiste più: defunta, insieme al principio d’eguaglianza. Perché la deroga, l’eccezione, non è che l’abito normativo cucito indosso su misura a questa o a quella camarilla. E perché i sarti sono tanti, quando i Consigli regionali mettono becco sugli affari nazionali, quando le coalizioni di governo sono affollate come vagoni della metropolitana, quando ogni progetto di legge fa la spola tra due Camere, e ciascuna può aggiungervi il suo bel vagoncino colorato.

Nel 2006 il gabinetto Prodi esordì con un record planetario: 1.364 commi stipati in un solo articolo di legge. L’anno dopo diede il suo addio alle scene con una Finanziaria un po’ più magra: 97 articoli, che tuttavia in Parlamento si gonfiarono fino a diventare 151, e infine 1.201 commi. Nei suoi quattro anni di gloria, il gabinetto Berlusconi sfornò una manovra dopo l’altra, salvo rimangiarsele come il conte Ugolino. Sicché, per esempio, l’ultima (agosto 2011) dettava un contributo di solidarietà per i redditi più alti, ma alla fine della giostra il contributo restò sul collo dei soli dipendenti pubblici. Nel 2012 il gabinetto Monti annunziò una stangata fiscale per tassisti e farmacisti, il Parlamento stangò la stangata. Per forza: in Italia le manovre si varano immancabilmente per decreto, i decreti devono ottenere la conversione in legge, ma ogni decreto convertito diventa un decreto pervertito.

Da qui l’urgenza di porre mano alle riforme. Stabilendo la fine del bicameralismo paritario, una trovata che non ha eguali al mondo. Disegnando rapporti più nitidi fra il centro e la periferia del nostro vecchio impero. Attivando canali di partecipazione e decisione da parte del corpo elettorale. E in ultimo rafforzando la stabilità degli esecutivi, giacché in caso contrario anche l’economia sarà sempre instabile e precaria. Insomma, non è vero che le riforme costituzionali non diano da mangiare: semmai è questo lungo digiuno di riforme ad averci affamato. Ma a quanto pare non ne parla più nessuno. E nel silenzio degli astanti, s’ode unicamente la voce dei loro detrattori. Che però non entrano nel merito, non sanno misurarsi con la sostanza dei problemi. No: si trincerano dietro questioni procedurali (l’articolo 138) o personali, profittando di un’inchiesta che coinvolge 5 membri della commissione di studio per delegittimare l’intera commissione, quindi il suo lavoro, quindi la riforma in sé.

Un classico paralogismo: Pietro e Paolo erano apostoli, gli apostoli erano dodici, dunque Pietro e Paolo erano dodici. Come a dire che se nel mio condominio abita un clandestino, allora siamo tutti clandestini. Però siccome quella vicenda giudiziaria è ancora da chiarire, siccome fin qui volano sospetti ma non fatti, il paralogismo non è che paranoia.
Diciamolo senza troppi giri di parole: il fallimento di questo processo di riforma ucciderebbe la residua credibilità dei nostri politici. Anche delle nuove leve, dei quarantenni che stanno scalzando i loro padri. Non foss’altro perché gli italiani, viceversa, alle riforme mostrano di crederci: alla consultazione in rete indetta dal governo hanno partecipato all’incirca 170 mila cittadini, e il 13% sono giovani sotto i 28 anni. Non trasformate i credenti in creduloni.
michele.ainis@uniroma3.it

10 ottobre 2013
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Michele Ainis
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« Risposta #146 inserito:: Novembre 03, 2013, 06:48:03 pm »

L’EDITORIALE

Il saliscendi delle regole

Etica, politica e legalità

Uno vince, l’altro perde: è la vita. Ma nella vita politica può succedere che perdano tutti, nessuno escluso. Che l’impeto di segnare un gol nella porta avversaria generi viceversa un autogol. Che ogni giocatore rimanga intrappolato in un reticolo di paradossi, nonsense, capriole logiche. E che ciascuno contraddica ciascun altro, finendo per contraddire anche se stesso.


La vicenda che tocca Silvio Berlusconi ne offre la rappresentazione più eloquente. A partire dal diretto interessato: in passato si dichiarò d’accordo sulle liste pulite, votò pure a favore della legge Severino, ma adesso che lui è un pregiudicato non vuol proprio saperne di liberare la poltrona. E il voto palese sulla sua decadenza? Un successo del Movimento 5 Stelle, che ha fatto della trasparenza una bandiera. Peccato che giusto un mese fa ammainò quella bandiera chiedendo lo scrutinio segreto per la legge sull’omofobia. Senza dire del Pd, che difendeva come Lancillotto la Consulta quando Berlusconi le sparava contro a palle incatenate. Ora se ne fida così poco da alzare un veto contro le richieste del Pdl, che vorrebbe interrogarla sulla costituzionalità della legge Severino.

Questo saliscendi percorre i tre gradini sui quali s’arrampica il caso Berlusconi: etico, giuridico, politico. C’è una motivazione etica per espellere dal Parlamento i colpevoli di gravi reati? Certo che sì, ne è prova la Costituzione stessa: gli onorevoli devono per l’appunto essere persone onorate (articolo 54), dunque non moralmente indegne (articolo 48). E il giudizio sull’immoralità va assunto a scrutinio palese? Alla Camera sì; al Senato vige la regola contraria. Disapplicandola, senza peraltro riscriverla daccapo, i membri della Giunta hanno inferto una ferita alla legalità. Sicché l’etica divorzia dal diritto, la trasparenza si guadagna per vie assai poco trasparenti. Ma è giusto fare giustizia (sostanziale) negando la giustizia (procedurale)? E una finalità morale può raggiungersi con mezzi illegali?

No, non può. E gli argomenti tirati in ballo dalla maggioranza risicata (7 a 6) cui si deve il verdetto della Giunta sono a loro volta risicati. Dicono che quel voto attiene alla composizione del Senato, non già a una singola persona, cui s’applicherebbe viceversa la regola del voto segreto: insomma, il destino di Berlusconi non riguarda Berlusconi. Dichiarano che il caso è inedito, ma a sprezzo della logica aggiungono che esiste un precedente (Andreotti). D’altronde i precedenti parlamentari sono come il sacco della Befana, c’è dentro un po’ di tutto. E dopo l’appello c’è sempre un contrappello, come ben sanno le milizie dell’illustre condannato, che da parte loro meditano di predisporre un ordine del giorno contrario alla decisione della Giunta, facendolo votare a scrutinio segreto. Dalla legalità al legalismo, che ne disegna la caricatura. Perché in questa partita non c’è spazio per l’etica, né per il diritto: c’è solo la politica, con i suoi tornaconti.

Però, attenzione: quando sei troppo furbo rischi la fine del grullo. Nel 1993 Craxi venne salvato dai franchi tiratori; ma da lì a poco fuggì ad Hammamet, mentre il Parlamento cancellava a furor di popolo l’immunità penale. Succede quando stiri le regole per un utile immediato, e poi la regola ti si ritorce contro. O quando inchiodi il passo su un unico gradino della scala democratica (etica, politica, diritto), senza sobbarcarti la fatica d’arrivare in cima.
01 novembre 2013
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Michele Ainis

Da - http://www.corriere.it/editoriali/13_novembre_01/saliscendi-regole-05a3852a-42bc-11e3-bd09-5fafe7fa6f7b.shtml
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« Risposta #147 inserito:: Novembre 13, 2013, 03:51:51 pm »

L'opinione

Macché raccomandati, aboliamo i concorsi

Un conto è un prof che aiuta suo figlio, altro un docente che dà una chance a un allievo capace. Se non li favoriamo avremo sempre più cretini in cattedra

   
In questa opinione, pubblicata sull'Espresso n. 42 in edicola venerdì 18 ottobre, Michele Ainis fa una distinzione tra la raccomandazione e la cooptazione che "non è un peccato né un reato, è la legge non scritta dell’università" e si traduce nel favorire, da parte degli accademici, la scelta dell'allievo ritenuto migliore. Una provocazione che ha suscitato il commento di un lettore, che con la sua lettera che pubblichiamo qui in calce dà il via a un dibattito sul tema. Voi che ne pensate? Potete commentare in fondo ai due interventi

Confesso: ho peccato. E prima di me ha peccato il mio maestro, e il suo maestro, e di maestro in maestro per generazioni. Tutti colpevoli d’aver raccomandato i propri allievi, d’aver brigato per appoggiarli nei concorsi. Ma il peccato si traduce in un reato?

A leggere le cronache, parrebbe di sì: decine di prof indagati dalla procura di Bari, concorsi truccati in undici università italiane. Poi, certo, la notizia meriterebbe una verifica. In primo luogo perché gli unici nomi rimbalzati sui giornali chiamano in causa cinque membri della commissione di “saggi”, quella incaricata dal governo d’indicare le riforme costituzionali necessarie. Ma guarda un po’, che coincidenza. Proprio nel mezzo d’uno scontro politico rovente sulle medesime riforme, proprio alla vigilia della manifestazione indetta a Roma da quanti vi s’oppongono. Fin troppo comodo screditare il saggio per screditare la riforma.

E in secondo luogo, c’è trucco e trucco. Noi non sappiamo di quali malefatte vengano accusati questi professori, e il bello è che non lo sanno neanche loro, avendo ricevuto un’informazione a mezzo stampa, anziché un’informazione di garanzia. Ma un conto è favorire i propri allievi, altro i propri figli (ahimè, succede: come diceva l’ex ministro Mussi, certi Consigli di facoltà sembrano Natale in casa Cupiello). Un conto è che il concorso venga vinto da candidati con zero pubblicazioni accreditate, o che i commissari di concorso abbiano, tutti insieme, meno titoli del candidato trombato (ahimè, succede pure questo: a Parma nel 2001, a Bari nel 2002, a Reggio Calabria nel 2004, a Messina nel 2005, alla San Pio V di Roma nel 2006).

Un altro conto è stringere alleanze fra scuole accademiche, chiedere un bando da ricercatore all’ateneo per offrire una chance all’allievo migliore, magari chiedere voti dichiarando già in partenza d’appoggiarlo, come succedeva quando le commissioni venivano elette fra professori della stessa disciplina, anziché designate per sorteggio.

E allora mettiamoci d’accordo: la cooptazione non è un peccato né un reato, è la legge non scritta dell’università. Perché il giudizio culturale non spetta al popolo elettore, bensì - come diceva Adorno - al «denigrato personaggio dell’esperto». È il prof di diritto costituzionale che valuta le qualità del costituzionalista in erba, non può certo farlo il sindaco. E d’altra parte ogni giovane studioso s’avvia alla ricerca sotto la guida d’un docente, che poi lo aiuta a far carriera. Sempre che, beninteso, lui abbia stoffa da cucire. Questo sistema incoraggia comportamenti borderline, al confine fra il lecito e l’illecito? Può darsi, ma se è così tanto vale prendere il toro per le corna. Con una soluzione radicale: via i concorsi, che ogni professore si scelga il suo assistente, che ogni ateneo si scelga i propri professori. Magari stabilendo i requisiti minimi per essere chiamati in Paradiso, dal titolo di dottore di ricerca a un certo numero di pubblicazioni. Altrimenti rischieremmo la promozione in massa del cretino.

E se il cretino trova comunque spazio in Paradiso? Ne risponde chi lo ha scelto, ma a tale scopo serve una doppia condizione: via il valore legale della laurea, via il valore legale della cattedra. Dunque competizione fra i singoli atenei, sicché chi recluta i peggiori docenti si troverà senza studenti. E stop all’inamovibilità dei professori, stop allo stipendio a vita, stop alla stessa busta paga per i prof che scrivono libroni e per quelli che coltivano le rose. È la soluzione proposta mezzo secolo fa da Luigi Einaudi, ma è anche il perno del sistema americano. Dove gli unici docenti a tempo indeterminato sono quelli con tenure (incarico stabile); gli altri lavorano, per così dire, in prova. Ovvero con contratti per lo più triennali, che agli studiosi più brillanti fruttano un milione di dollari. E che fruttano il licenziamento agli incapaci. Morale della favola? Da concorsopoli ci salverà il mercato.

La lettera giunta in redazione dopo la pubblicazione sull'Espresso dell'opinione del professor Ainis



Gentile Direttore,

ho letto l'articolo di Michele Ainis e ne sono rimasto sconcertato. Non credo che Ainis abbia, come lui dice, peccato, né sono in grado di dire se abbia commesso un reato. Credo che, molto più semplicemente, abbia dimostrato un basso livello di “etica civile”. È vero che siamo in Italia e l'etica civile è una merce rara. Il professore membro di una commissione di concorso ha il dovere di valutare con cura e attenzione tutti i candidati, selezionando alla fine quello che lui, in modo argomentato e documentato, ritenga il migliore e non certo di “favorire i propri allievi”.

Questo è non solo richiesto dalla legge, ma anche un dovere nei riguardi della ricerca scientifica, dell'università e più in generale del paese. Almeno questo è ciò che ho sempre creduto negli oltre trenta anni in cui sono stato professore ordinario, prima di andare in pensione un anno fa. Il prof. Ainis sa bene che, in un concorso, nella riunione preliminare della commissione vengono definiti i criteri e sulla base di essi dovrebbero poi essere prese le decisioni. Dubito fortemente che il prof. Ainis, nei concorsi in cui si è trovato a essere commissario, abbia mai fatto inserire fra i criteri uno del tipo “l'essere allievo di uno dei commissari costituisce titolo preferenziale ai fini della valutazione”.

Il favorire sistematicamente i propri allievi, come è purtroppo consuetudine in alcuni settori dell'università italiana è una delle cause della decadenza, non solo scientifica ma anche etica, della nostra università. L'allievo imparerà a muoversi, nella ricerca, nel solco del proprio maestro, cioè di colui che “lo aiuta a far carriera”, evitando percorsi scientifici troppo personali o innovativi. Ma soprattutto imparerà che la fedeltà al capo è la dote più importante.

Il prof. Ainis fa anche riferimento al sistema americano, che probabilmente non conosce bene. Nelle università americane è quasi impensabile che un giovane, una volta ottenuto il dottorato, rimanga nella stessa università e continui a fare ricerca sotto la guida del supervisore che lo ha seguito nella tesi. Si assume che chi ha ottenuto un dottorato abbia ormai acquisito gli strumenti per fare ricerca in modo autonomo ed è molto raro che lo faccia nella stessa università.

Mi scusi la lunghezza, ma l'articolo di Ainis mi ha davvero indignato, e penso che sia proprio la mentalità che vi traspare quella che fa sì che il nostro paese sia, per citare Bill Emmott, una “girlfriend in a coma”.

Giorgio Gallo
18 ottobre 2013 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/attualita/2013/10/18/news/macche-raccomandati-aboliamo-i-concorsi-1.139409
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« Risposta #148 inserito:: Novembre 23, 2013, 04:13:20 pm »

Michele Ainis

Legge e Libertà
Dalla referenza alla preferenza

Esistono più livelli di raccomandazione: c’è quella del potente, del cliente, del connivente, del parente. Nel caso della Cancellieri e della Ligresti qualche dubbio sull’opportunità dell’intervento del ministro sorge...
Qualche settimana fa ho osato infrangere un tabù. Ho scritto un elogio della raccomandazione, nero su bianco in questa rubrica. Quella fra universitari, però, soltanto quella. La spinta del maestro ai propri allievi, per aiutarli a farsi largo nei concorsi. Nel mondo accademico, difatti, vige la regola della cooptazione: spetta al cattedratico di storia dispensare le cattedre di storia, non può certo farlo l’assessore. E quasi sempre il cattedratico conosce il giovane studioso che deve valutare. Ecco perché le selezioni universitarie sono ben diverse da un concorso alle poste. D’altronde c’è una comunità scientifica, ma non esiste una comunità postale.

Apriti cielo: mi hanno fucilato in piazza. Ma davvero le raccomandazioni sono tutte uguali? Prendiamo il caso Cancellieri, che mena scandalo proprio in questi giorni. Un ministro si prodiga per la liberazione di Giulia Ligresti, detenuta con problemi di salute. Slanci umanitari? Può darsi. Ma sta di fatto che i Ligresti sono vecchi amici del ministro; e sta di fatto inoltre che il figlio del ministro ha lavorato alle loro dipendenze, percependo tra buonuscita e competenze varie 5 milioni. Sicché fa capolino, testarda, la domanda: sul piano etico, o magari anche giuridico, non c’è forse da distinguere la raccomandazione del potente da quella del cliente, del connivente, del parente?

Due secoli fa Gaetano Filangieri scrisse la “Scienza della legislazione”; ora sarebbe il momento d’abbozzare una Scienza della raccomandazione. Del resto alle nostre latitudini questa disciplina ha già molti discepoli, anche se tutti la professano in segreto. Un italiano su due ne ha approfittato per trovar lavoro, dichiara una ricerca Isfol del 2006. E sette studenti su dieci pensano che l’“aiutino” sia prezioso per laurearsi in fretta. Nelle aziende private le conoscenze servono nel 51,8 per cento dei casi, aggiunge un’indagine Infojobs del 2009. Mentre l’anno prima Medialab aveva fissato le quote delle spintarelle chieste e ottenute da ciascun italiano: il 66,1 per cento bussando alla porta di un familiare, il 60,9 da un amico, il 33,9 da un collega di lavoro.
Nella nostra bandiera nazionale, diceva Longanesi, dovremmo scriverci: «Tengo famiglia». E in Italia, si sa, le famiglie sono tante. Come le raccomandazioni, per l’appunto. Ma in onore della nuova scienza, possiamo suddividerle in tre categorie.

Estorsioni. Di norma, il raccomandante domanda un favore per qualche suo protetto, e lo domanda a chi ha in concreto il potere d’aiutarlo. Nella gerarchia della raccomandazione, al grado più basso c’è perciò il raccomandato; poi il raccomandante; ma sopra di lui impera il raccomandatario, se così vogliamo definirlo. Dopotutto, dipende dal suo “sì” la buona riuscita dell’impresa. Può succedere però che la gerarchia s’inverta, che quest’ultimo sia un sottoposto del raccomandante, anziché soltanto un conoscente. In questo caso la raccomandazione diventa un ordine, un diktat. Non è più una forma di pressione, quanto di compressione per il suo destinatario. E allora il peccato può tradursi in un reato. Magari non proprio l’estorsione, magari si tratterà di concussione. Ne sa qualcosa Berlusconi, che da premier telefonò alla questura di Milano per il rilascio di Ruby, la nipotina di Mubarak: 7 anni di galera.

Segnalazioni. Se non hai un santo non entri in Paradiso, recita il proverbio. E noi italiani al Paradiso ci teniamo, non per nulla ospitiamo il Cupolone. Sarà per questo che ciascuno ha il proprio santo cui votarsi. È un reato? Al massimo una contravvenzione per aver rallentato il traffico (“Favori in corso”). Però, attenti: le troppe segnalazioni si elidono a vicenda. Quando il prof riceve una telefonata per ogni suo studente, farà gli esami a cuor leggero, tanto lì davanti sono tutti uguali.

Referenze. Sono scritte, non sussurrate. E servono ad attestare le qualità di una persona da parte di chi l’ha già messa alla prova. Dunque stavolta la raccomandazione è pubblica, trasparente; mette in gioco la credibilità di chi la firma. Funziona così nei paesi anglosassoni. E in Italia? E nel caso Cancellieri? A occhio e croce, qui c’è una preferenza, non una referenza.

michele.ainis@uniroma3.it

 
13 novembre 2013 © Riproduzione riservata
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« Risposta #149 inserito:: Novembre 25, 2013, 04:50:03 pm »

Troppe spese e fallimenti delle regioni

Colazione da Tiffany

In Piemonte risultano indagati 43 consiglieri regionali su 60. Tagliaerba, mazze da golf, cravatte, lavatrici: spese personali, ma con quattrini istituzionali. In Emilia fra i rimborsi a piè di lista sbuca fuori anche un gioiello di Tiffany. In Sardegna orologi Rolex e penne Montblanc. In Abruzzo l’assessore alla Cultura finisce in galera per mazzette culturali. In Liguria si dimette il presidente del Consiglio regionale, sotto indagine per peculato. In Lazio spunta la truffa dei tirocini, in Sicilia quella dei corsi di formazione. E via via: le inchieste giudiziarie chiamano in causa 17 Regioni e oltre 300 consiglieri regionali.

 No, non era questa l’idea federalista, che nell’Ottocento illuminò lo sguardo di Jacini e di Minghetti, nel Novecento di don Sturzo. Non era questo l’orizzonte dei costituenti, che concepirono il decentramento regionale per rinvigorire il corpaccione dello Stato. Ahimè, cura fallita: la creatura è più obesa, più viziosa. Per forza, se la periferia riflette - come in uno specchio infranto - le nefandezze di cui si macchia Roma. Se ogni Regione moltiplica i centri di spesa (quando va bene) o d’illegalità (quando va male, e va quasi sempre male). Se infine i politici locali restano impassibili dinanzi allo sdegno che li sommerge fino al naso. Che altro serve per svegliarli? Non è bastato lo scandalo Fiorito, il successo dei grillini, l’astensionismo elettorale?

Risultato: gli italiani si sono disamorati di queste Regioni, ammesso che se ne fossero mai davvero innamorati. Il loro grado di fiducia viaggia rasoterra (4 su 10, in base all’ultimo Rapporto Istat), e infatti circa la metà del popolo votante ne farebbe a meno volentieri. Perché la spesa regionale è lievitata di 90 miliardi in un decennio. Perché di conseguenza aumentano le tasse locali (del 138% fra il 1995 e il 2010, secondo la Cgia di Mestre). Perché questa tenaglia di costi e di tributi viene oliata dallo spreco: come in Molise, dove i consiglieri senza doppia poltrona (e doppia indennità) sono 3 su 21; o come in Sicilia, dove la buonuscita dei direttori regionali s’è impennata del 225% dal 2001 in poi. E perché infine la loro festa di merende e di prebende non ci ha donato in cambio servizi più efficienti, bensì piuttosto disservizi. Altrimenti, forse, li avremmo pure perdonati.

 Le prove? Basta chinarsi sul pozzo nero della sanità, la principale competenza regionale. Nel Mezzogiorno il medico migliore è il treno, oggi come ieri. E ovunque liste d’attesa interminabili, ovunque sperequazioni inaccettabili (un sondaggio gastrico in Campania costa 6 euro, in Piemonte 125). E il dissesto idrogeologico? C’è voluta l’alluvione in Sardegna per scoprire che la metà delle Regioni, dieci anni dopo la riforma della Protezione civile, non ha le carte in regola. Eppure di carte, laggiù, se ne scrivono anche troppe, dato che abbiamo in circolo 20 mila leggi regionali. È il nodo scorsoio con cui si sono impiccate le Regioni: un groviglio di competenze, di burocrazie cinesi, di norme strampalate. Dal basso, ma ormai pure dall’alto: sul federalismo amministrativo, il sito web del ministro Delrio sforna 204 documenti . Sicché è venuta l’ora di prendere in mano un paio di forbici. È indispensabile tagliare norme e posti, funzioni e sovrapposizioni, enti ed accidenti. In caso contrario dovremo rassegnarci a tagliare le Regioni.

 michele.ainis@uniroma3.it
© RIPRODUZIONE RISERVATA
24 novembre 2013

http://www.corriere.it/editoriali/13_novembre_24/colazione-tiffany-696829c4-54d9-11e3-97ba-85563d0298f0.shtmlMichele Ainis
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