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Autore Discussione: MICHELE AINIS.  (Letto 129319 volte)
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« Risposta #150 inserito:: Dicembre 13, 2013, 06:27:13 pm »

Michele Ainis
Legge e Libertà

Mille anime morte vagano per Roma

Il Parlamento conta sempre meno. E perde autorità e prestigio: le leggi si fanno altrove,e la politica pure.
Come si vede dalle regole elettorali e dalle riforme costituzionali. Forse hanno ragione in Islanda...

E voi, ai fantasmi, ci credete? Probabilmente no, ma probabilmente ne avete già incontrati un paio, benché non ve ne siate accorti. D’altronde non servono sedute spiritiche, basta una passeggiata nel centro di Roma. Dove due antichi edifici (Montecitorio e palazzo Madama) sono infestati da mille larve trasparenti: anime morte, di cui però nessuno piange la scomparsa. I mille parlamentari della Repubblica italiana.

No, non è antiparlamentarismo, non è il sentimento becero che un secolo fa dilatava le pupille a Benito Mussolini. È un dato di fatto, ahimè, e sarebbe stolto polemizzare con i fatti: hanno la testa dura, come diceva Lenin. È un fatto la perdita d’autorità e prestigio delle assemblee rappresentative. È un fatto la crisi nera della loro stessa funzione, dato che Scilipoti e Razzi non rappresentano nessuno. È un fatto che la politica sia emigrata altrove - nei movimenti, nelle piazze, nel popolo del Web. È infine un fatto che persino la loro occupazione principale (mettere un timbro sulle leggi) venga ormai esercitata in altre stanze, da altri pubblici esercenti.

Le prove? Fermiamo l’orologio su una data: 29 aprile 2013. Quel giorno Enrico Letta espone il suo programma di governo, dichiarando che intende riesumare la centralità del Parlamento. Meglio tardi che mai, dopo le angherie del gabinetto Berlusconi, dopo l’algido disprezzo del gabinetto Monti. Dunque stop all’abuso dei decreti, ai maxiemendamenti, ai voti di fiducia che sequestrano le assemblee legislative. Ma si dà il caso che un mese dopo erano già 5 i decreti legge sfornati dal nuovo esecutivo. Mentre in quest’ultimo mese di novembre serve un pallottoliere per contare gli atti normativi del governo: 4 decreti del presidente del Consiglio, 2 regolamenti, 15 disegni di legge, 9 decreti legislativi esaminati dal Consiglio dei ministri. Nello stesso arco di tempo il Parlamento ha licenziato un’unica legge solitaria (la n. 128), peraltro sotto dettatura di palazzo Chigi, trattandosi della conversione d’un decreto. Anzi no, si è sobbarcato pure un’altra fatica: l’approvazione notturna del maxiemendamento alla legge di stabilità. Come da tradizione confezionato dal governo, e senza risparmiare sulla stoffa: 531 commi, 57.907 parole.

Insomma, i nostri cari estinti non hanno un gran daffare. Si sono fatti confiscare da Letta e Quagliariello pure le riforme costituzionali; eppure questo menu, da che mondo è mondo, dovrebbe cucinarsi in Parlamento. Perché i cambiamenti della Carta toccano tutti, maggioranza e opposizione. E perché l’opposizione abita alle Camere, non a palazzo Chigi. Del resto l’inedia s’estende all’altra regola del gioco, la legge elettorale. Ci avevano promesso in mille lingue di correggerla, sono rimasti con la lingua penzoloni. E il rapporto di fiducia con l’esecutivo? Non serve un nuovo voto, dopo l’addio di Forza Italia? Sì, no, forse. Intanto la Camera vota a ranghi compatti la fiducia al ministro Cancellieri (405 in favore, 154 contro), mentre gli italiani ne invocano, altrettanto compatti, le immediate dimissioni (89 per cento, in base a un sondaggio del “Messaggero”). Ma il Parlamento ormai non parla con l’Italia. Né con i principali leader politici italiani (Renzi, Grillo, Berlusconi), che lì dentro non hanno diritto di parola, dato che non hanno neanche un seggio.

Domanda: e allora a che diavolo serve farsi eleggere? Risposta: serve a procurarsi una ricca busta paga, nonché l’indennità dagli arresti. Quanto meno alle nostre latitudini; ma sta di fatto che l’eclissi delle assemblee rappresentative è un fenomeno mondiale. Negli Usa il politologo Benjamin Barber propone di sostituirle con un congresso di sindaci (If Mayors Ruled the World, Yale University Press, 2013). In Francia Ségolène Royal, già nel 2006, evocò giurie di cittadini sorteggiati. In Islanda, nel 2011, hanno emendato la Costituzione aprendo una pagina su Facebook. Ovunque si moltiplicano esperienze di democrazia diretta, partecipativa, deliberativa. E in Italia? Tutti conservatori. Non hanno capito che non c’è rimasto nulla, proprio nulla, da conservare in frigorifero.

10 dicembre 2013 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/legge-e-liberta/2013/12/04/news/mille-anime-morte-vagano-per-roma-1.144290
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« Risposta #151 inserito:: Dicembre 28, 2013, 11:39:59 pm »

Michele Ainis

Legge e Libertà
Abolire il Senato per riformare la Costituzione

Il bicameralismo ci ha dato in sorte una pletora di parlamentari che riempirebbe San Siro. Introdurre una sola Camera sembrerebbe essere l'unica soluzione praticabile per cambiare la nostra Carta. Ma serviranno altri contrappesi: più poteri al Capo dello Stato e il ricorso diretto alla Consulta delle minoranze
      
Riforme costituzionali? A parlarne, rischi una denuncia per maltrattamenti: chi ti ascolta finirà per slogarsi le mascelle a forza di sbadigli. Perché l'argomento non è fra i più eccitanti, e perché il chiacchiericcio dura da trent'anni, senza cavare un ragno dal buco. Meglio, molto meglio, concentrarsi sui temi dell'occupazione, della concorrenza, dei salari. C'è tuttavia un legame fra le nostre ingessate istituzioni e la camicia di gesso che blocca l'economia italiana. Quando il sistema si rivela incapace di produrre decisioni, quando è perennemente ostaggio dei veti incrociati, quando infine la voce del padrone ha il timbro rauco delle lobby, l'unica industria è quella dei favori. E infatti l'Italia, dal 2000 in poi, ha registrato la crescita più bassa del pianeta, se si eccettua Haiti.

Da qui l'urgenza di correre ai ripari. Sbarazzandosi in primo luogo di due Camere gemelle, che s'intralciano a vicenda. Il bicameralismo paritario ci ha donato in sorte un procedimento legislativo macchinoso, una pletora di parlamentari che riempirebbe la tribuna di San Siro, governi ballerini come Carla Fracci. Sicché, almeno in questo caso, l'accordo è trasversale. Però, attenzione: meglio nessuna riforma che una cattiva riforma. E d'altronde - come osservò Aristotele - se una Costituzione si può migliorare, significa che si può anche peggiorare. Eppure i nostri eroi promettono di riuscire nell'impresa.

Quale mai sarebbe la loro ricetta? A quanto pare, un bicameralismo differenziato, assegnando in esclusiva ai deputati il potere di vita e di morte sui governi, nonché l'officina delle leggi. E i senatori? Verificano, ispezionano, controllano, manco fossero altrettanti Sherlock Holmes. Richiamano in seconda lettura le leggi più importanti, quindi andranno in porto solo le leggi più insignificanti. Rappresentano i territori regionali, come se invece la Camera debba rappresentare Marte.

E in che modo varcano l'uscio del Senato?

Attraverso un'elezione a suffragio universale, secondo una corrente di pensiero; ma allora ci risiamo col doppione. Attraverso un seggio di diritto per governatori regionali e sindaci, secondo un'altra opinione; però il doppio mestiere riesci a farlo se la tua giornata è di 48 ore. E no, messa così diventa un pateracchio. In primo luogo perché questo colpo d'ingegno s'iscrive non tanto nell'ingegneria, quanto nell'archeologia costituzionale: la «Camera delle regioni» era un'idea di quarant'anni fa (Nicola Occhiocupo ci scrisse sopra un libro nel 1975). In secondo luogo perché il Senato diverrebbe - come pure è stato detto - non tanto una seconda Camera, quanto una Camera secondaria. E in terzo luogo, chi li convince i senatori a segarsi gli attributi? Eppure alla riforma servirebbe pur sempre il loro assenso, cozzando contro il paradosso illustrato nel 1932 da Fraenkel: quando il riformatore coincide con il riformato, nessuna riforma sbuca mai fuori dal cilindro.

La via d'uscita? Una sola Camera, e buonanotte ai suonatori, pardon, ai senatori. Ma buonanotte pure ai deputati, sicché nessuno ci rimette, nessuno ci guadagna. Politicamente, è l'unica soluzione praticabile. Giuridicamente, soddisfa quattro imperativi: rappresentare, decidere, semplificare, ridurre (il numero dei parlamentari). Una proposta di cui si discusse quest'estate in seno alla commissione governativa sulle riforme, e sulla quale due costituzionalisti (Ciarlo e Pitruzzella) hanno scritto un documento dettagliato.

Ma soprattutto un sistema ormai vigente in 39 Stati, e non soltanto in contrade esotiche e remote. Hanno un Parlamento monocamerale Paesi come la Svezia, la Scozia, l'Ucraina, il Portogallo, Israele, la Danimarca, la Grecia, la Norvegia. Certo, rinunziando a una Chambre de reflection serviranno altri contrappesi, per scongiurare i colpi di mano. Ma si può fare potenziando il ruolo del capo dello Stato, permettendo il ricorso diretto delle minoranze parlamentari alla Consulta, prescrivendo maggioranze qualificate per determinate leggi. Tutto si può fare, se c'è un grammo di buon senso. Ma in Italia - diceva Manzoni - il buon senso se ne sta ben nascosto, per paura del senso comune.

michele.ainis@uniroma3.it
27 dicembre 2013 © Riproduzione riservata
Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/legge-e-liberta/2013/12/27/news/abolire-il-senato-per-riformare-la-costituzione-1.147293
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« Risposta #152 inserito:: Gennaio 11, 2014, 11:29:51 am »

Se tutto passa per le Camere
Troppe leggi poche regole
Abbiamo in circolo leggi sui tosaerba, sulle camicie da notte, sulle galline, sui pedaggi stradali dei camionisti

La madre dei cretini è sempre incinta, diceva Flaiano. Anche la patria del diritto, però, farebbe bene a usare qualche pilloletta anticoncezionale. Perché le sue creature sono troppe, e ciascuna indossa l’ermellino di Sua Maestà la Legge. Abbiamo in circolo leggi sui tosaerba, sulle camicie da notte, sulle galline, sui pedaggi stradali dei camionisti. Il virus legiferatore ha contagiato pure i prosciutti, con tre leggi sul San Daniele (rispettivamente del 1970, del 1990, del 1999) e un’altra sul pignoramento dei prosciutti (vi si provvede «con l’apposizione sulla coscia di uno speciale contrassegno indelebile»: legge n. 401 del 1985).

Tuttavia non basta, non basta mai. E il parapiglia normativo che s’è scatenato attorno al decreto salva Roma ne è solo l’ultima esibizione: regole sulle lampade a incandescenza, sulle slot machine, sui chioschi in spiaggia, sulle sigarette elettroniche. Non regole qualunque, no: regole di legge. Quelle che Calderoli, nel 2010, finse di bruciare col suo lanciafiamme spento. Quelle che Bassanini, nel 1997, voleva eliminare attraverso un ampio processo di delegificazione, rimpiazzandole con altrettanti regolamenti. Senza curare il male alla radice, dato che il male è il troppo diritto che ci portiamo in groppa, e dato che per noi asinelli cambia poco se a spezzarci la schiena è una norma regolamentare anziché legislativa. Ma almeno i regolamenti sono flessibili, rapidi da approvare così come da abrogare. Se invece confezioni il prosciutto in una legge, per sconfezionarlo avrai bisogno del voto di mille parlamentari, della promulgazione del capo dello Stato, del visto di legittimità della Consulta.

Risultato: se il secondo millennio si è chiuso all’insegna della delegificazione, il terzo ha inaugurato l’epoca della rilegificazione. Magari con meno provvedimenti rispetto alla prima legificazione (negli anni Sessanta le Camere approvavano una legge al giorno, escluse le domeniche), tuttavia con provvedimenti più corposi, ciascuno gonfio come un panettone. E con una pletora di norme astruse, di ridondanze, di strafalcioni sintattici e giuridici. La qualità della nostra legislazione è peggiorata, come no. Anche la quantità, però: nel 1962 le 437 leggi decise in Parlamento sviluppavano 2 milioni di caratteri; nel 2012 le leggi sono state 101, ma i caratteri sono diventati 2,6 milioni.

Da qui un paradosso: l’Italia delle troppe leggi è un Paese senza legge. Perché nel diritto, così come nella vita, dal pieno nasce un vuoto. Se ti martellano troppe informazioni t’ubriachi, e alla fine resti senza informazioni. Se la legislazione forma una galassia, nessuna astronave potrà esplorarla per intero. E il cittadino sarà solo, ignaro dei propri poteri, alla mercé d’ogni sopruso. Succede quando nel diritto amministrativo tutto è legge, quando nel diritto penale tutto è processo. Sicché cresce la discrezionalità di giudici e burocrati: sono loro, soltanto loro, a scegliere la stella che brillerà davanti al tuo portone. Ma c’è una causa sistemica dietro l’esplosione del sistema. Difatti se la legge elettorale genera coalizioni ballerine, se in Parlamento i numeri sono risicati, ciascuno diventa indispensabile, e allora potrà imporre il proprio comandamento, pardon, emendamento. Se l’autobus legislativo fa troppe fermate tra Camera e Senato, finirà per imbarcare troppi viaggiatori, pardon, legislatori. Servono riforme, in conclusione. Altrimenti annegheremo tutti nell’oceano delle leggi.

30 dicembre 2013
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Michele Ainis

Da - http://www.corriere.it/editoriali/13_dicembre_30/troppe-leggi-poche-regole-29bafae4-711d-11e3-acd7-0679397fd92a.shtml
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« Risposta #153 inserito:: Gennaio 21, 2014, 05:59:53 pm »

La legge elettorale
Italicum: bene, con due dubbi

C’è differenza tra un illusionista e un prestigiatore? Sì che c’è: il primo ti fa credere a una realtà che non esiste, il secondo rende invisibile la realtà visibile, quella che avresti sotto gli occhi, se non t’abbagliasse il trucco del prestigiatore. E che cos’è la nuova legge elettorale, un’illusione o un gioco di prestigio? Davvero Renzi ha tirato fuori dal cappello il coniglio che la politica cerca da tre legislature?

Per scoprirlo, non resta che guardare nel cappello. Fin qui ne avevamo osservato soltanto la réclame , con il sospetto che si trattasse di pubblicità ingannevole. Perché aleggiava la promessa d’azzerare i veto players , il potere d’interdizione dei piccoli partiti, ma con l’assenso dei piccoli partiti. Di non ripetere le malefatte del Porcellum , ripetendo tuttavia liste bloccate e premi inventati dal Porcellum . E infine una promessa di governi stabili; anche se per afferrare la Chimera non basta una buona legge elettorale, serve la riforma della Costituzione. Con due Camere gemelle però espresse da elettorati differenti, non ci riuscirebbe neppure mago Zurlì.

E allora interroghiamo il coniglietto su tre parole chiave, cominciando per l’appunto dalla domanda di governabilità. L’avrebbe forse saziata il sistema spagnolo, che non impedisce tuttavia la divisione della torta in tre fettone uguali, replicando il presente per tutti i secoli dei secoli. Ma l’Italicum va meglio, molto meglio. Un doppio turno «eventuale»: se prendi il 35% diventi maggioranza con il premio, altrimenti ballottaggio fra le due coalizioni più votate. Bravo il prestigiatore, bene, bis. Sia per essere riuscito a ipnotizzare Berlusconi, che del doppio turno non ne voleva sapere. Sia per la soglia di sbarramento (5%), un antidoto contro la frantumazione della squadra di governo. Sia perché al ballottaggio il premio te lo mettono in tasca gli elettori, non la legge.

Secondo: la rappresentatività del Parlamento. È il punto su cui batte e ribatte la Consulta, nella sentenza con cui ha arrostito il Porcellum . Significa che i congegni elettorali non possono causare effetti troppo distorsivi rispetto alle scelte dei votanti, come accadeva con un premio di maggioranza senza soglia. E il premio brevettato da Renzi? 18%, mica poco: fanno quattro volte i seggi della Lega, recati in dono a chi vince la lotteria delle elezioni. Crepi l’avarizia, ma in questo caso rischia di crepare pure la giustizia.

Terzo: la sovranità. Spetta al popolo votante, non certo al popolo votato. Da qui l’incostituzionalità delle pluricandidature, dove il plurieletto decideva l’eletto; ma su questo punto Renzi tace, e speriamo che non sia un silenzio-assenso. Da qui, soprattutto, l’incostituzionalità delle liste bloccate. Tuttavia la Consulta ha acceso il verde del semaforo quando i bloccati siano pochi, rendendosi così riconoscibili davanti agli elettori. Quanto pochi? Secondo la scuola pitagorica il numero perfetto è 3; qui invece sono quasi il doppio. Un po’ troppi per fissarne a mente i connotati.

C’è infatti un confine, una frontiera impercettibile, dove la quantità diventa qualità. Vale per il premio di maggioranza, perché il 40% dei consensi sarebbe di gran lunga più accettabile rispetto al 35%. E vale per le liste bloccate, che si sbloccherebbero aumentando i 120 collegi elettorali. In caso contrario, il prestigiatore rischia di trasformarsi in un illusionista. Ma gli sarà difficile illudere di nuovo la Consulta, oltre che gli italiani.

21 gennaio 2014
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Michele Ainis

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_gennaio_21/bene-due-dubbi-16b1841e-8265-11e3-9102-882f8e7f5a8c.shtml
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« Risposta #154 inserito:: Gennaio 24, 2014, 05:52:07 pm »

Michele Ainis
Legge e Libertà

Al Gran Ballo dei supplenti

La sovrapposizione di ruoli e competenze è il morbo endemico delle istituzioni. Renzi fa quello che dovrebbe fare Letta, Napolitano forza i partiti, la Consulta sostituisce il parlamento. E anche i cittadini propongono leggi
   
C’è un doppio autista alla guida del nostro taxi collettivo, e ciascuno stringe un volante fra le dita. Da un lato Enrico Letta, il pilota ufficiale, con la sua divisa blu. Dall’altro Matteo Renzi, il pilota da Formula 1, con il piede sull’acceleratore. Il guaio è che non sempre i conducenti eseguono la medesima manovra, sicché il taxi va a zigzag. E quando va bene, ci costringono a ripetere due volte la gita, sprecando tempo e benzina. È successo, per esempio, il 7 gennaio: Letta incontra a Roma la Giannini, segretaria di Scelta civica, per discutere il contratto di coalizione; nelle stesse ore Renzi incontra a Firenze Mario Monti, fondatore del partito, per trattare l’identica questione.

SITUAZIONE INEDITA? Non troppo. Magari ormai non ci facciamo caso, però la sovrapposizione dei ruoli e delle competenze è il morbo endemico delle nostre istituzioni. Nessuno fa il proprio lavoro, tutti s’incapricciano del lavoro altrui. E c’è una parola magica, anzi no, stregata, per descrivere questa malattia: supplenza. Napolitano viene accusato a giorni alterni d’aver inaugurato una monarchia repubblicana, benché nel suo caso l’accusa suoni ingenerosa. È innegabile però che in varie circostanze il presidente, per scongiurare guai peggiori, abbia forzato lo stallo dei partiti. Si chiama horror vacui, terrore del vuoto, e funziona in natura così come nelle istituzioni: se ciascuno lascia libera la poltrona su cui stava seduto, qualcun altro vi poserà le chiappe.

E infatti, chi ha cambiato la legge elettorale? La Consulta, benché non sarebbe il suo mestiere; colpa tuttavia del Parlamento, che non è riuscito a sbarazzarsi del Porcellum. E le leggi, chi le scrive? Spetterebbe, di nuovo, al Parlamento; è diventata viceversa la prima occupazione del governo, attraverso un’alluvione di decreti legge, di maxiemendamenti, di leggi delegate. E chi decide la carriera dei politici? Dovrebbe toccare agli elettori; ma da Tangentopoli in avanti sono i giudici, i loro giustizieri. E il carico fiscale? Qui è più facile: ogni decisione ricade sul ministro dell’Economia. Mica vero, come dimostra il pasticcio sugli scatti d’anzianità per gli insegnanti (150 euro al mese da restituire): baruffa tra Carrozza e Saccomanni, poi si scopre che ne erano entrambi inconsapevoli, avendo stabilito tutto i loro uffici. Cerchi il ministro, trovi il burocrate.
Sarà per questo, sarà per via del balletto che hanno messo in scena le nostre istituzioni, che adesso a ogni italiano è venuta voglia di ballare. Indossando i panni di Licurgo, il grande legislatore. O di Napoleone, il grande governatore. Sta di fatto che sono 27 le proposte di legge popolare all’esame delle Camere, anche se fin qui loro ne hanno discusse appena tre, ovviamente senza mai deciderle. C’è dentro un intero programma di governo: idee sul reddito minimo, le servitù militari, l’eutanasia, il diritto allo studio, le fonti rinnovabili, l’immigrazione, il lavoro, la giustizia, la legge elettorale, Equitalia, le pensioni, i costi della politica. Una pioggerellina normativa che rimbalza sull’ombrello dei parlamentari, anche se in futuro potrà forse riuscire a perforarlo: è alle viste una riforma del regolamento della Camera, che renderebbe obbligatoria la trattazione delle iniziative popolari.

NEL FRATTEMPO ciascuno s’arrangia come può. Chi è il premier, Letta o Renzi? E chi è più grillino, Grillo o Berlusconi? Al sodo: con chi dobbiamo prendercela quando succede (e succede) che le cose vanno storte? Con il governo? Con il partito? Con lo Stato oppure con la Regione? Vattelappesca. Giacché l’unica regola osservata in questo Paese senza regole è che il “supplito” non accetta di buon grado le incursioni del supplente. No: s’oppone, strepita, protesta. Soltanto nell’ultimo mese (dicembre 2013) sono stati sei i conflitti d’attribuzione decisi dalla Consulta. «C’è grande confusione sotto i cieli: eccellente situazione», diceva il presidente Mao. In Cina, forse, sotto il comando delle Guardie rosse. Ma qui in Italia, per orientare il traffico, dovremmo mettere al governo un vigile urbano.

michele.ainis@uniroma3.it
21 gennaio 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/legge-e-liberta/2014/01/15/news/al-gran-ballo-dei-supplenti-1.148795
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« Risposta #155 inserito:: Gennaio 28, 2014, 05:59:22 pm »

LE REGOLE PER CHI FA (MALE) LE NORME

La fabbrica più antiquata

Cambiare la legge elettorale, cambiare la Costituzione. Puntiamo sui due lati di quest’angolo per uscire dall’angolo. Errore: ci salverà solo un triangolo, dove il terzo lato conta quanto e più degli altri due. Se il Parlamento è incapace di decidere; se decide (ahimè, molto di rado) con la velocità d’un treno a vapore; se ogni scelta rimane ostaggio dei veti incrociati; se infine le assemblee legislative non timbrano più una legge che sia una; allora è da lì che bisogna cominciare, dai regolamenti parlamentari. Anche se quest’argomento è scivolato sotto un cono d’ombra, anche se suona assai meno eccitante dei premi di maggioranza, delle soglie d’accesso, delle liste bloccate.

Ma adesso c’è una buona nuova: la riforma sta prendendo forma. Non al Senato, dove la bozza Quagliariello-Zanda non è mai sbucata dal suo bozzolo, restando nei cassetti della legislatura scorsa. Alla Camera, e per impulso della presidente Boldrini. La Giunta ci ha lavorato per sei mesi, macinando articoli a decine. E con un accordo corale, sopravvissuto alla stagione delle larghe intese. L’unica voce dissenziente s’è levata dal Movimento 5 Stelle, annunciando che la nuova normativa uccide il Parlamento. Una notizia fortemente esagerata, come disse Mark Twain leggendo il proprio necrologio sul New York Journal .

Perché c’è bisogno d’un regolamento al passo del terzo millennio? Intanto per la sua data di battesimo: 1971, quando Enrico Letta frequentava l’asilo, quando Matteo Renzi non era ancora nato. L’ultimo aggiornamento risale al 1997, e sono trascorse 5 legislature. Ce n’è bisogno perché quel testo prescrive la votazione con le palline bianche e nere, mentre nel frattempo siamo entrati nell’era digitale. Perché contempla la diretta televisiva sui dibattiti, non lo streaming via web. Ma soprattutto c’è bisogno d’ammodernamenti per sveltire l’iter legis . Per rendere più incisivo il sindacato ispettivo sul governo. Per sottoporre a un’audizione pubblica chi si candida a una poltrona pubblica. Per rafforzare le leggi popolari, insieme alla trasparenza dei lavori. Per garantire l’esame delle iniziative normative formulate dalle minoranze. Per mettere al bando le leggi scritte in ostrogoto. Per connettere il nostro Parlamento al Parlamento dell’Europa.

Su tutte queste deficienze il progetto di riforma procura un’iniezione d’efficienza. E tuttavia non basta. Se la fabbrica legislativa è diventata improduttiva, non basta cambiare turno agli operai: occorre sostituire la catena di montaggio. Da qui una doppia proposta.

La Costituzione (art. 72) stabilisce che i disegni di legge vengano istruiti in commissione, dopo di che piombano nella bolgia dell’Aula. Ma aggiunge che il procedimento può ben concludersi nella stessa commissione, salvo che per le leggi più importanti. Finora è stata interpretata come un’eccezione, ma si può invece convertire in regola. A condizione che le 14 commissioni della Camera divengano all’incirca la metà, raddoppiando i propri componenti (da 40 a 80). E offrendo quindi al loro interno un’ampia garanzia di partecipazione, oltre che un ampio risparmio di quattrini. Se poi le minoranze (o il governo) chiedono la rimessione all’Aula, tempi contingentati, voto certo.

Due: per compensare le minoranze rispetto alla perdita del loro potere d’interdizione, facciamo come in Inghilterra, dove c’è un governo ombra, dove il leader del principale gruppo d’opposizione riceve perfino uno stipendio dallo Stato. Insomma maggioranza più forte, opposizione più forte. Non è un ossimoro, ci si può riuscire.

28 gennaio 2014
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Michele Ainis

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_gennaio_28/fabbrica-piu-antiquata-55b6aa1e-87e1-11e3-bbc9-00f424b3d399.shtml
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« Risposta #156 inserito:: Febbraio 11, 2014, 05:19:32 pm »

Michele Ainis
Opinioni

Paradossi da legge elettorale
Ci sono almeno cinque stranezze nel progetto Renzi.Quella più assurda? Si rischia di finire con due semifinali: tra Pd e grillini alla Camera (dove l’elettorato è più giovane) e tra Pd e Forza Italia al Senato. La finale? In manicomio
   

Vai all’osso, e trovi il paradosso. È la regola non scritta della politica italiana, l’unica costantemente rispettata. Idee, proposte, innovazioni: magari rivestite di buon senso, poi ci guardi dentro e ti trafigge il nonsense. Poteva fare eccezione la legge elettorale? Intendiamoci: quella congegnata da Renzi è una buona soluzione, perché tende a riappacificare due nemici, rappresentanza e governabilità. Ma s’inserisce in un sistema che è diventato un manicomio, e in manicomio c’entri savio, ne esci pazzo. Più che un leader, servirebbe uno psichiatra.

È il caso, anzitutto, del sistema dei partiti. Il doppio turno è sempre stato doppiamente inviso alla destra, giacché a quanto pare i suoi elettori sono pigri, nessuno li convincerà mai a votare per due volte di fila. In compenso rappresenta la ricetta storica della sinistra: D’Alema lo prospettava già nel 1997, e poi a seguire Fassino nel 2002, Veltroni nel 2008, Bersani nel 2011. Adesso lo propone Renzi, sicché il rottamatore è in continuità con i suoi illustri rottamati. Risultato? Fuoco di sbarramento dal Pd, un abbraccio da Silvio Berlusconi.

A lui, però, conviene mettere una mina sotto i tacchi di Letta, e qui allora si profila il secondo paradosso. Perché la legge elettorale, insieme alla riforma del bicameralismo, allunga la vita del governo, ma al contempo rompe la coalizione di governo. Da un lato, regala un po’ d’ossigeno all’esecutivo, gli restituisce un orizzonte temporale (almeno un anno per correggere anche la Costituzione); dall’altro lato, uccide in culla i piccoli partiti (e infatti Scelta civica si è immediatamente dissociata), che magari reagiranno aprendo una crisi di governo. Dunque l’esecutivo è vivo, dunque l’esecutivo è morto.

E c’è poi il sistema delle regole, dove il paradosso s’annida in ogni comma. A partire dalla soglia di sbarramento: 5 per cento, altrimenti nessun seggio. Ma se poi la coalizione ottiene il 35 per cento, premio di maggioranza al 53 per cento. Qui entrano in campo i numeri, e sono numeri impazziti. Poniamo che il Pd confermi l’alleanza con Sel; poniamo ancora che il Pd guadagni il 32 per cento, Sel il 3 per il cento; quest’ultimo partito risulterà determinante per il successo elettorale, senza incassare tuttavia nemmeno un deputato. Oppure immaginiamo una coalizione affollata come un tram: 7 liste. La prima tocca l’11 per cento, tutte le altre si fermano al 4 per cento; e fa di nuovo 35 per cento, quindi il 53 per cento dei seggi in Parlamento. Col risultato che il premio moltiplica per 5 i voti della prima lista, ed è un premio del 42 per cento: tombola! O infine, dato che la fantasia non è mai troppa, dato che in Italia la realtà politica supera spesso la fantasia giuridica, supponiamo che le liste coalizzate siano una decina, quante ne imbarcò nel 2006 l’Unione di Romano Prodi. Supponiamo inoltre che la loro somma raggiunga il 40 per cento dei consensi, senza che nessuna lista valichi la vetta del 5 per cento: zero seggi per la coalizione più votata, il premio si trasforma in un castigo.

Quarto paradosso: la questione femminile. Su cui il progetto Renzi detta una linea radicale, tanto da fare invidia agli svedesi: 50 e 50, per ogni pantalone una gonnella. Difatti le liste non possono ospitare più di due candidati consecutivi dello stesso sesso. Ma dove si nasconde il paradosso? Nella possibilità che il nuovo Parlamento risulti viceversa il più maschile della storia. Basta collocare gli uomini nelle prime due posizioni, le donne in terza e quarta fila; dopo di che, siccome ogni collegio esprimerà 5 o 6 deputati, siccome le liste migliori al massimo potranno conquistarne un paio, le quote rosa diventeranno nere. Dalla Svezia all’Arabia saudita.

Ma il paradosso più paradossale è il quinto, perché il doppio turno serve a comprare un governo chiavi in mano, e perché il bicameralismo sequestra le chiavi. Al Senato, difatti, non votano i pischelli (dai 18 ai 25 anni); alla Camera sì. E se il voto giovanile si riversasse in massa sui grillini? Potrebbero uscirne due semifinali: alla Camera, fra Pd e M5S; al Senato, fra Pd e Forza Italia. E la finale? In manicomio.

michele.ainis@uniroma3.it
04 febbraio 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/2014/01/29/news/paradossi-da-legge-elettorale-1.150429
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« Risposta #157 inserito:: Marzo 01, 2014, 07:48:56 pm »

EDITORIALE

Troppi decreti poche decisioni Nuove regole o sarà paralisi

Il decisionista, in Italia, è sempre un decretista. Detta legge per decreto, sicché ci inonda di decreti legge. Ne fu campione Berlusconi, con 80 decreti nei suoi 42 mesi di governo; e certamente Renzi non sarà da meno. Non a caso ha evitato di replicare l’incauta promessa del suo predecessore. Quando ottenne la fiducia, Enrico Letta dichiarò che avrebbe riesumato la centralità del Parlamento, e dunque della legge, in luogo del decreto; invece ha fatto le valigie per una crisi extraparlamentare, dopo aver firmato 25 decreti in 10 mesi. La sua colpa? L’avarizia: ne ha scritti troppo pochi. E infatti la prima decisione del gabinetto Renzi veste i panni del decreto, quello adottato ieri per scongiurare il default della Capitale.

Proprio il salva Roma, tuttavia, ci impartisce una lezione. Siamo al terzo colpo di fucile: gli altri due hanno sparato a vuoto. Prima per le critiche di Napolitano rispetto a un decreto che era diventato un fritto misto; poi per l’ostruzionismo di Lega e M5S. Perciò in entrambi i casi il governo ha battuto in ritirata, mentre i suoi decreti svanivano come bolle di sapone. Qui difatti casca l’asino, anzi il decreto. Perché ogni decreto va convertito in legge dalle Camere entro 60 giorni, e perché ogni conversione si traduce in una perversione del decreto, sfigurandone l’aspetto originario. Quando va bene, quando non succeda viceversa che il tempo scada invano. E succederà sempre più spesso, dato che il Parlamento non ha tempo. Per dirne una, il messaggio alle Camere di Napolitano - trasmesso l’8 ottobre - verrà discusso il 4 marzo: 5 mesi d’attesa, quanto ci tocca pazientare per una visita in un ambulatorio Asl.

Da qui un paradosso: l’eccesso di decisioni paralizza qualsiasi decisione. Se i decreti sono troppi s’intralciano a vicenda, intasano le assemblee parlamentari, rendono l’ostruzionismo un’arma vincente. Ma senza decreti non si decide, e perciò non si governa. Possiamo salvarci da questo paradosso senza romperci l’osso? Sì, possiamo: con una corsia preferenziale sulle iniziative legislative del governo. Insomma leggi, non decreti. Per restituire al sistema qualche grammo d’efficienza, per restaurare la perduta autorità del Parlamento. Ma a questo scopo urge una riforma: quella dei regolamenti parlamentari. La Camera ci ha già messo mano, la presidente Boldrini ci ha messo la faccia. Dopo 7 mesi di lavoro della Giunta, la riforma sta per approdare in Aula; e speriamo che non faccia la stessa fine dei decreti.

D’altronde non c’è solo da sveltire l’iter legis ; c’è altresì da riannodare il filo spezzato fra noi e loro, fra popolo votante e popolo votato. In vista di quest’obiettivo, correggere i regolamenti non è meno importante che correggere la Costituzione o la legge elettorale. Due soli esempi. Primo: il trasformismo. C’erano 6 gruppi parlamentari alla Camera; in meno d’un anno sono diventati 8, con una girandola di scissioni e ricomposizioni. Vietiamo la girandola, avremo qualche capogiro in meno. Secondo: le leggi popolari. Fin qui ne sono state presentate 27, ma laggiù nessuno se le fila. Frustrante, anzi incavolante. Il nuovo regolamento ci metterà una pezza, e sarebbe pure l’ora. Nel frattempo è l’ora di Renzi, della sua avventura di governo. Ma senza la riforma dei regolamenti, rischia di concludersi con un déjà vu : «Non mi hanno fatto governare». Almeno questa no, l’abbiamo già sentita. E siamo già abbastanza risentiti.

01 marzo 2014
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Michele Ainis

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_marzo_01/troppi-decreti-poche-decisioni-d34da39a-a110-11e3-b365-272f64db5437.shtml
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« Risposta #158 inserito:: Marzo 05, 2014, 06:15:23 pm »

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Legge elettorale, Ainis: “Italicum solo alla Camera? Incostituzionale e folle”
Il costituzionalista: "Si possono avere sistemi diversi di voto, ma in questo caso avremmo due modelli del tutto incongruenti.
Metteremmo una Camera contro l'altra: è irragionevole"

di Redazione Il Fatto Quotidiano
4 marzo 2014

Incostituzionale e un poco folle. E’ il giudizio che dà dell’operazione sull’Italicum Michele Ainis, il costituzionalista del Corriere della Sera (e ritenuto vicino al Colle), intervistato dall’agenzia Ansa. Incostituzionale “non perché non si possano avere sistemi diversi di voto per Camera e Senato, ma perché in questo caso avremmo due modelli del tutto incongruenti tra loro, col risultato di mettere una Camera contro l’altra. Questo è irragionevole. E quindi, incostituzionale. L’unica via costituzionalmente corretta per uscirne, secondo me, è scrivere la legge elettorale e poi se il Senato verrà abolito, cadrà anche la parte di legge che lo riguardava”.

“In questa vicenda – osserva il giurista – c’è un problema politico che stanno trasformando in un danno giuridico. E, per dirla tutta, sembra di stare in una gabbia di matti. La filosofia che stanno seguendo è quella del ‘fare come se’. Fare come se il Senato non esistesse. Ma il Senato esiste, così come esiste un sistema bicamerale, con due Camere che danno la fiducia ai governi e timbrano le leggi. Un esempio, per capire. Agli inizi degli anni Novanta si fece una legge elettorale che stabiliva delle quote per cui nessuno dei due sessi poteva essere rappresentato in misura inferiore a un terzo. La Consulta la annullò, perché l’articolo 51 della Costituzione originario non prevedeva il principio delle pari opportunità. Questo principio fu poi introdotto e l’articolo 51 riscritto, dando spazio alle pari opportunità, e ora la legge può stabilire le quote. La strada che si sta seguendo in questo caso è simile: in sostanza, si precorre una riforma costituzionale con una legge ordinaria e così facendo la legge ordinaria rischia di essere illegittima rispetto alla Costituzione vigente”. Cioè, si precorre l’abolizione del Senato senza prevedere una riforma della legge elettorale per la scelta dei senatori, lasciando in vita per questo ramo del parlamento il Consultellum, la legge proporzionale uscita dalla Consulta; e nel contempo si emana solo per la Camera una norma a rischio impugnazione.

“Le due Camere – spiega Ainis – possono avere sistemi elettorali diversi purché ispirati alla stessa logica. Si può decidere, per esempio, in base a un sistema maggioritario, di perseguire il fine della governabilità con il premio di maggioranza alla Camera e con i collegi uninominali al Senato. Ma non si possono mettere le Camere l’una contro l’altra, sennò il risultato è irragionevole e quindi incostituzionale. La ragionevolezza è data da due principi: rappresentanza e governabilità. Il primo spingerebbe verso un parlamento in cui tutti, anche i più piccoli, devono avere un posto al sole. Il secondo, va in direzione opposta. Questi principi devono essere bilanciati: si può fare un sacrificio della rappresentanza, ha detto la Consulta, purché sia parziale, non assoluto e in cambio dia governabilità. L’emendamento Lauricella-D’Attorre, invece, sacrifica la rappresentanza col rischio di produrre un sistema maggioritario alla Camera non omogeneo con quello del Senato, senza ottenere la governabilità. E questo è incostituzionale e, mi pare, anche un poco folle“.

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/03/04/legge-elettorale-ainis-italicum-solo-alla-camera-incostituzionale-e-folle/902558/
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« Risposta #159 inserito:: Marzo 10, 2014, 12:21:27 pm »

Michele Ainis

Legge e Libertà
Presidente Matteo Renzi, di' qualcosa di sinistra

Il presidente del Consiglio ha indicato quattro emergenze: lavoro, tasse, burocrazia e giustizia. Ce n’è una quinta, l’eguaglianza. Ecco tre proposte per raggiungerla. Che arrivano da altre sponde politiche. Mentre il Pd le osteggia

Lavoro, tasse, burocrazia, giustizia. Sono le quattro emergenze che Renzi ha promesso d’affrontare nei suoi primi quattro mesi di governo. Ma c’è una quinta emergenza sullo sfondo, c’è un male che comprende tutti gli altri mali, tanto da profilarsi come la più grande questione nazionale: l’eguaglianza. O meglio la diseguaglianza, la divaricazione inaccettabile fra gli ultimi e i primi della fila. Nelle retribuzioni così come nel trattamento fiscale, dinanzi alle vessazioni burocratiche così come rispetto ai disservizi giudiziari, perché con 130 mila processi che si prescrivono ogni anno (vedi il numero scorso de “l’Espresso”) il disservizio diventa un salvagente per i ricchi, per quanti possono pagare un avvocato che sappia tirarla per le lunghe.

I dati, del resto, suonano eloquenti. La Banca d’Italia attesta che il 10 per cento delle famiglie italiane possiede quasi la metà (46,6 per cento) della ricchezza nazionale. L’Istat aggiunge che una famiglia su 4 versa in condizioni di disagio. Negli ultimi vent’anni il reddito dei giovani è sceso di 15 punti percentuali, quello degli anziani è salito di 8 punti. La crisi economica ha falcidiato posti di lavoro soprattutto fra le donne, i cui stipendi rimangono peraltro più bassi dell’11,5 per cento rispetto agli uomini. Dal Nord al Sud si rovescia la qualità dell’istruzione, della sanità, perfino dell’acqua potabile. E in conclusione il divario fra i redditi aumenta senza sosta: negli anni Novanta era di 8 a 1, adesso è 10 a 1.

Questa sproporzione è un danno per l’economia, perché se i poveri diventano troppi crollano i consumi. È un rischio per la democrazia, perché non c’è democrazia senza ceto medio: c’è solo l’America latina, con le favelas da una parte e le ville blindate dall’altra. Ma è soprattutto una ferita al senso di giustizia. Da qui un problema che tocca la sinistra, dunque il Pd, dunque Matteo Renzi. Ma in Italia la sinistra è ancora di sinistra? Stando alle categorie di Bobbio, l’eguaglianza dovrebbe custodirne l’ideale, mentre la destra ha per valore di riferimento la libertà. Adesso, viceversa, proposte e soluzioni vengono da altre sponde, e il Pd le osteggia. Ecco tre esempi.

PRIMO: le gabbie salariali. Cancellate nel 1969, rilanciate nel 2009 dalla Lega. Niet da sinistra e sindacati, perché s’indebolirebbe la coesione nazionale. Come se gli Usa, dove il salario minimo cambia da Stato a Stato, fossero un Paese disunito. Ma se un carciofo a Catanzaro costa la metà che a Milano, perché un postino dovrebbe ricevere il medesimo stipendio? Senza dire che il redditometro, varato nel 2013, adotta già le gabbie. E senza contare i benefici che potrebbe trarne il Mezzogiorno: attraendo investimenti per il minore costo del lavoro, e frenando perciò l’emigrazione. Insomma, parliamone.

SECONDO: il reddito di cittadinanza. Cavalcato dai grillini, nel silenzio dei sinistrini. Perché? Non è forse vero che la sopravvivenza andrebbe garantita a tutti, non solo a chi lavora? E non è vero che l’Italia rimane l’unico Stato europeo (insieme alla Croazia) che non contempla una forma di sussidio universale? Poi, certo, c’è sussidio e sussidio: in Europa i modelli sono molto variegati, come ha documentato «L’Espresso» il mese scorso. E d’altra parte la soluzione che propone il M5S prescinderebbe dalla situazione economica individuale; funziona così solo in Alaska, dove c’è il petrolio e dove la popolazione è scarsa. Però, ancora una volta, parliamone.

TERZO: gli ordini professionali. Lascito imperituro del fascismo (la legge istitutiva è del 1938), con un volume d’affari che vale il 15 per cento del Pil, e con un patrimonio complessivo di 50 miliardi. Formano un tappo sulla libertà di concorrenza, oltre che una diga per i giovani. Ma non per tutti i giovani: per quelli senza un babbo iscritto all’ordine. Sicché in Italia il 44 per cento degli architetti è figlio d’architetti, il 42 degli avvocati genera figli avvocati, così come il 39 dei medici o degli ingegneri. Sennonché gli unici a reclamarne la chiusura sono i radicali, i liberisti alla Giannino, associazioni liberali come l’Istituto Bruno Leoni. Non invece la sinistra. Ma che sinistra è?
04 marzo 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/legge-e-liberta/2014/02/26/news/presidente-di-qualcosa-di-sinistra-1.155031
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« Risposta #160 inserito:: Marzo 21, 2014, 11:51:04 pm »

Michele Ainis
Legge e Libertà

Come ti fermo il deputato mobile
Dall’inizio della legislatura hanno cambiato casacca 135 parlamentari. Al Senato e alla Camera ogni giorno nascono nuovi gruppi.
Due proposte per mettere un argine al trasformismo e tornare al rispetto degli elettori
   

Quest’anno le Idi di marzo sono giunte in anticipo, come la primavera. All’inizio del mese il Movimento 5 Stelle si è sbarazzato di altri 5 senatori; stavolta non con i pugnali che ferirono a morte Giulio Cesare, bensì con una scomunica sul blog di Beppe Grillo. Sta di fatto che nella pattuglia grillina del Senato, dall’avvio della legislatura, gli espulsi sono ormai 13 su 54. Ma c’è anche chi s’espelle da solo, ottenendo in cambio un bouquet di rose, anziché una pugnalata. È il caso di Gabriele Albertini, ex sindaco di Milano: in un anno è passato dal Pdl di Berlusconi a Scelta civica di Monti, da Scelta civica ai Popolari di Mauro, dai Popolari al Nuovo Centrodestra di Alfano. Sempre accolto come un figliol prodigo dai suoi tanti papà.

Sicché va in scena la Grande Transumanza: in 11 mesi hanno cambiato gruppo 135 parlamentari (70 a Palazzo Madama, dunque un quarto rispetto alla composizione del Senato). Altri sono rimasti fedeli al proprio partito, ma non al proprio generale; ne sa qualcosa Bersani, il cui esercito si è trasformato in un manipolo di sopravvissuti.

Nel frattempo i due governi della XVII legislatura - prima Letta, poi Renzi - si reggono sui transfughi, ovvero sulla diaspora del Pdl. Grande scissione fra Berlusconi e Alfano, ma la politica sperimenta pure la scissione dell’atomo: Udc e Popolari, dopo la separazione da Scelta civica, stanno per separarsi da se stessi. Risultato? Aumentano i gruppi parlamentari, con due new entry sia al Senato che alla Camera. S’ingrassa il gruppo misto, che a Montecitorio si divide in 4 componenti. Senza dire degli ex grillini, anch’essi in procinto di formare un gruppo autonomo. E in conclusione la geografia parlamentare è come quella dell’Europa durante le guerre napoleoniche: muta ogni settimana.

C’è una vittima, però, di queste manovre militari: l’elettore. Tu voti Scilipoti in odio a Berlusconi, te lo ritrovi abbracciato a Berlusconi. Sicché ti rimbomba nelle orecchie il verso di Carducci: «Trasformismo, brutta parola a cosa più brutta. Trasformarsi da sinistri a destri senza però diventare destri e non però rimanendo sinistri». Dice: ma c’è l’art. 67 della Costituzione, che protegge la libertà dei parlamentari. Anche la libertà degli elettori, tuttavia, meriterebbe qualche protezione. Si può ottenere correggendo i regolamenti delle Camere, attraverso due soluzioni alternative.

Primo, l'intervento minimale. Niente deroghe per costituire un gruppo autonomo, rispetto ai numeri prestabiliti (20 deputati o 10 senatori). In questa legislatura ne beneficia Fratelli d’Italia, che ha eletto 9 deputati; in passato è accaduto anche di peggio. Il 17 marzo 2006 l’Ufficio di presidenza della Camera concesse 5 deroghe per altrettanti gruppi, compreso quello capitanato da Rotondi, dove i commensali erano soltanto 6. Insomma, maxideroghe per i microgruppi, basta che questi ultimi dimostrino di rappresentare «un partito organizzato nel Paese». No, il partito dev’essere votato, non organizzato; anche perché altrimenti si disorganizza il Parlamento, trasformandolo in un suq dove gli ambulanti vendono le merci più svariate, e per lo più avariate.

Secondo, l’intervento massimale. Niente gruppi parlamentari in corso di legislatura, anche se ne avesserero i numeri. Non conta il regolamento, conta il voto. E il voto scatta una fotografia degli elettori così come degli eletti, ciascuno con la sua divisa, e senza il guardaroba di cui era provvisto Fregoli. Poi, certo, nei cinque anni d’una legislatura la politica va avanti, al pari della vita. Ma allora potremmo siglare un compromesso: ok ai nuovi gruppi, purché siano d’accordo gli elettori, oltre che gli eletti. Come appurarlo? Con una consultazione online, con un referendum, con un successo del neopartito alle regionali o alle europee, con una petizione popolare. Insomma fate voi, ma non fate senza di noi.

michele.ainis@uniroma3.it
18 marzo 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/legge-e-liberta/2014/03/12/news/come-ti-fermo-il-deputato-mobile-1.156869
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« Risposta #161 inserito:: Aprile 08, 2014, 04:23:38 pm »

IL NUOVO SENATO E LE FUNZIONI DI GARANZIA

I virtuosismi che non servono

Di Michele Ainis

La nave delle riforme veleggia in mare aperto. Ma il Capo delle Tempeste è al largo del Senato, dove soffiano venti da destra e da sinistra. Da un lato, l’altolà di Forza Italia: meglio abolirlo che farne un ente inutile. Dall’altro, lo stop dei professori: attenti alla deriva autoritaria. Può darsi che queste riserve siano figlie dei calcoli politici, degli egoismi di parte o di partito. Non sarebbe il primo caso. Tuttavia chi tratta gli argomenti altrui partendo dalla malafede del proprio interlocutore, dimostra d’essere a sua volta in malafede. E anche questo è ormai un vizio nazionale.

Domanda: c’è modo di rispettare le obiezioni senza sfregiare le intenzioni? Quelle del governo, ma altresì degli italiani, che non ne possono più di veti incrociati. E c’è modo di tradurre le riserve in una riserva di consensi, senza abbattere i quattro paletti issati da Renzi? Nell’ordine: no alla fiducia, no al voto sul bilancio, no all’elezione diretta, no all’indennità dei senatori. Risposta: gli strumenti esistono, se i musicisti avranno voglia di suonarli. Se per una volta eseguiranno il medesimo spartito, smentendo l’apologo filmato nel 1979 da Fellini (Prova d’orchestra). E se ciascuno saprà ascoltare le note degli altri orchestrali, senza eccedere in virtuosismi da solista.

Ecco, l’ascolto. Non è vero che il nuovo Senato sia poco più d’un soprammobile, come sostiene Forza Italia. È vero tuttavia che fin qui rimane povero di competenze e di funzioni. Partecipa al processo normativo dell’Unione Europea, valuta l’impatto delle politiche pubbliche sul territorio. E vota le leggi costituzionali, soltanto quelle. Sulle altre conserva unicamente i poteri della suocera: consiglia, rimbrotta, sermoneggia. Al contempo perde la titolarità del rapporto fiduciario, e perde quindi il sindacato ispettivo sul governo. Curioso: questa riforma abolisce il Cnel, organo consultivo mai consultato da nessuno; però rischia di sostituirlo con un Senato di superconsulenti.

E la minaccia autoritaria, evocata sulla sponda sinistra del fiume? Esagerata anch’essa. Dopotutto, non c’è alcun intervento sui poteri del premier, che resta un primus inter pares rispetto ai ministri. E se con una mano l’esecutivo incassa il voto a data fissa sui propri disegni di legge, con l’altra rinunzia al dominio illimitato sui decreti legge. È vero, però, che il bicameralismo paritario offre una garanzia, nel bene e nel male. Anche se l’eccesso di garanzie uccide il garantito. Ma quante leggi scellerate avremmo avuto in circolo senza il disco rosso del Senato? A una garanzia in meno, pertanto, ne va affiancata una di più. Da Pericle in poi, la democrazia funziona in questo modo.

La via d’uscita? Rafforzare il ruolo del Senato come organo di garanzia. Innanzitutto attribuendogli il voto sulle leggi elettorali, che d’altronde sono leggi materialmente costituzionali, nel senso che innervano la Costituzione materiale di un Paese: se decidi sulle seconde, puoi ben decidere pure sulle prime. E inoltre conferendo al Senato un monopolio su tutte le materie che trovano i deputati in conflitto d’interesse, al pari della legge elettorale. Nemo iudex in causa propria, nessuno può giudicare se stesso; meglio perciò rimettere al Senato ogni decisione sulle immunità, sulle cause d’ineleggibilità e d’incompatibilità, sulla verifica dei poteri, sulla misura dell’indennità dovuta ai membri della Camera, o più in generale sul finanziamento alla politica.

Dopo di che non è vietato immaginare ulteriori contrappesi. Per esempio allargando l’accesso alla Consulta anche da parte delle minoranze parlamentari, come succede in Francia. O potenziando il controllo del capo dello Stato sulle leggi: con un secondo rinvio, superabile a maggioranza assoluta. Ma in ultimo i guardiani della legalità costituzionale sono gli stessi cittadini. Siamo noi italiani, che negli anni Venti applaudimmo Mussolini, che negli anni Quaranta andammo sulle montagne per combatterlo. Nessuna norma scritta, nessun marchingegno costituzionale, può sostituirsi al sentimento civile. Ma certo può aiutarlo, può allevarlo. Su questo punto, viceversa, la riforma ospita silenzi imbarazzanti. Niente recall, né referendum propositivo, né corsia preferenziale per le leggi popolari. Dunque una buona riforma per quanto c’è scritto, un po’ meno per quanto non c’è scritto. Si tratta d’aggiungervi ancora qualche parolina.
8 aprile 2014 | 07:56
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_aprile_08/i-virtuosisimi-che-non-servono-e38f8cf2-bedc-11e3-9575-baed47a7b816.shtml
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« Risposta #162 inserito:: Aprile 11, 2014, 11:34:22 pm »

Michele Ainis
Legge e Libertà

Tutta l’ingiustizia scritta nelle multe
Destra e sinistra, governi di ogni epoca, burocrati sembrano vedere nell’automobilista un suddito da vessare e tartassare. Ecco un campionario delle piccole e grandi iniquità cui viene sottoposto il cittadino al volante

La giustizia? Cerchiamola nelle piccole cose. Se i grandi mali dell’umanità sono inguaribili, potremmo occuparci degli acciacchi più lievi, ma non meno dolenti. Ne sa qualcosa il popolo delle quattro ruote. Tartassato da governi tecnici e politici, di destra e di sinistra. E senza la possibilità di scioperare, per difendersi dalle angherie di Stato. Altrimenti avrebbe incrociato le braccia (pardon, le ruote) nel giugno 2013, quando l’esecutivo Letta decise un prelievo di 120 milioni, aumentando tasse e balzelli tre mesi dopo l’aumento precedente. D’altronde gli automobilisti italiani pagano 50 centesimi al litro in accise sul prezzo della benzina, compresa quella per la guerra d’Abissinia del 1935. Nel frattempo le infrazioni calano, ma le contravvenzioni aumentano; soprattutto per sosta vietata. Per forza, quando a Roma circolano 2 milioni e 800 mila vetture, mentre i posti auto sono poco più di 100 mila. E i divieti? In California è proibito superare le 60 miglia l’ora per i veicoli senza guidatore; in Italia chi viaggia con un cocker addormentato sul sedile posteriore paga una multa di 65 euro. Poi si può scrivere un bel ricorso al prefetto, benché si traduca quasi sempre in un’ulteriore perdita di tempo. Nel febbraio 2011 ne ha scritto uno lo stesso prefetto di Milano: il ricorso a se medesimo.

Ma chi è il medesimo, quale cosa può dirsi la medesima cosa? Ecco, la materia della circolazione stradale offre un buon banco di prova per questi interrogativi filosofici. Proprio perché è materia infima, pedestre (nel senso dei piedi, ma anche dei pedoni). E perché dunque ci permette d’osservare le diseguaglianze al microscopio, piccole e maiuscole al contempo. Succede quando a Napoli la RC auto costa il triplo rispetto alle città del Settentrione: troppe truffe, sicché le compagnie assicurative si cautelano. E l’automobilista onesto sconta una responsabilità per fatto altrui. Succede quando il motociclista paga lo stesso pedaggio autostradale dell’automobilista; eppure il primo inquina meno, occupa meno spazio, usura di meno l’asfalto autostradale. Senza dire che ogni vettura può trasportare 4 o 5 persone, le quali potranno poi dividere il costo del pedaggio; mentre in motocicletta ci si va al massimo in 2. E infatti nella maggior parte degli Stati europei (ma anche in Italia, fino al 1989) s’applicano tariffe differenziate. Succede, in ultimo, quando il governo Monti (dicembre 2011) introduce il superbollo per le supercar, cioè quelle che superano i 185 kW; dunque paga la Mercedes, non paga la Porsche Cayenne turbodiesel. E l’importo resta uguale per l’auto di lusso con 5 giorni di vita e per quella che gira da 5 anni sulle strade, ammaccata e svalutata.

Ma un epitaffio all’ingiustizia è iscritto in ogni multa. Perché vi si riflette una giustizia di classe, come direbbe un bolscevico. Prendiamo l’infrazione più comune: l’uso del telefonino durante la guida. 5 punti patente, 160 euro da scucire. Sennonché per non perdere i punti basta omettere la comunicazione di chi fosse il conducente. Dopo di che scatta un’ulteriore multa di 284 euro: i ricchi possono pagarla, i poveri no. E gli altri 160 euro? Il codice stradale non distingue fra Berlusconi e il suo garzone; ma per il primo corrispondono a una mancia, il secondo con quella cifra ci mangia. L’azione è uguale, la sanzione disuguale, quantomeno a misurarne la capacità afflittiva, l’effetto deterrente. Difatti altrove (per esempio in Svizzera o in Finlandia) si tiene conto della potenza del motore, oppure dei redditi del conducente. In Italia la prima soluzione è stata prospettata dal deputato grillino Michele Dell’Orco, in un progetto di legge depositato nell’ottobre 2013; tuttavia può risultare punitiva per le famiglie numerose, che hanno bisogno di potenza perché la loro autovettura deve trasportare molti passeggeri. La seconda soluzione ha avuto come sponsor l’ex sottosegretario Erasmo D’Angelis; ma alle nostre latitudini rischiano di farla franca gli evasori, dato che i gioiellieri dichiarano in media 15 mila euro l’anno. Dalla teoria alla pratica, l’eguaglianza è sempre un rompicapo.

michele.ainis@uniroma3.it
09 aprile 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/legge-e-liberta/2014/04/02/news/tutta-l-ingiustizia-scritta-nelle-multe-1.159396
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« Risposta #163 inserito:: Aprile 21, 2014, 11:29:33 pm »

IL VERO E IL FALSO SULLA BUROCRAZIA
Un labirinto inestricabile
Di Michele Ainis

I dipendenti pubblici? Una mandria di sfaticati. I loro dirigenti? Mandarini del Celeste Impero. Le burocrazie locali? Centri di spreco e corruzione. Nella furia iconoclasta che s’abbatte sugli uomini (e le donne) dello Stato, non si salva più nessuno. E il presidente del Consiglio offre un megafono a questo sentimento popolare, trasformando il rancore in urlo di battaglia: promette una lotta «violenta» alla burocrazia, annuncia che a maggio il suo governo entrerà «con la ruspa» nelle casematte della pubblica amministrazione. Giusto, se l’offensiva riuscirà a sgominare le inefficienze e prepotenze burocratiche. Sbagliato, se vi fiammeggia un odio verso tutto ciò che è pubblico, di tutti.

Perché siamo noi, lo Stato. È la maestra che insegna matematica ai nostri bambini, guadagnando meno d’una colf. È il poliziotto che fa il turno di notte nelle strade, a bordo di volanti scalcinate e sempre a corto di benzina. È il medico del Pronto soccorso, che s’arrangia risparmiando sulle garze. Ed è anche il burocrate con la sua penna d’oca in mano, come no. Ma per difenderci dalle vessazioni burocratiche, per ritrovare la nostra libertà perduta, dobbiamo restituire all’amministrazione pubblica la sua propria dignità perduta. Sfatando innanzitutto dicerie e leggende sul corpaccione dello Stato.

Non è vero che l’Italia sia la patria dei dipendenti pubblici: ne abbiamo 3,4 milioni, contro i 5,5 milioni del Regno Unito o della Francia. E sono 58 per ogni mille abitanti, come in Germania. Peraltro in calo del 4,7% nell’ultimo decennio, a differenza di tutti gli altri Stati europei. Non è vero che costano troppo: pesano l’11,1% del Pil, circa la metà di quanto si spende in Danimarca. Mentre il loro contratto di lavoro è bloccato dal 2010. È vero però che sono troppo vecchi (solo il 10% ha meno di 25 anni), con troppi marescialli e pochi soldati semplici (la Francia ha un terzo dei nostri dirigenti), ed è vero infine che sono mal ripartiti (in Calabria gli statali rappresentano il 13% degli occupati, in Lombardia il 6%).

Da qui il farmaco più urgente: razionalizzare. Con l’intelligenza, non con la violenza. Significa distribuire meglio i ruoli, ma significa altresì semplificare i procedimenti e gli accidenti del diritto amministrativo. Dove la legge annuale di semplificazione non interviene mai ogni anno, e si traduce per lo più nell’ennesimo fattore di complicazione. Dove regna (dal 1889) l’astrusa distinzione fra diritti soggettivi e interessi legittimi, ciascuno col suo giudice, ciascun giudizio un rebus per i cittadini. E dove s’accalca una folla di custodi, che ovviamente passano i giorni a litigare sulle rispettive competenze. Ma in un Paese che ospita 6 forze di polizia nazionali e 2 locali questa è la regola, non certo l’eccezione.

Ecco, è lì il virus che infetta l’organismo dello Stato. S’annida nell’eccesso dei controlli, delle giurisdizioni, dei procedimenti, delle norme (che peraltro fanno da scudo ai poco volenterosi). Quante ne abbiamo in circolo? Nel 2007 la commissione Pajno ha fatto un po’ di conti: 21.691 leggi statali, cui però dovremmo aggiungere 30 mila leggi regionali e 70 mila regolamenti. Ma in un sistema tortuoso come un labirinto nessuno risponde più di nulla: c’è sempre un comma che ti lava la coscienza.
La fuga dalle responsabilità ha origine perciò da un pieno, non da un vuoto. Giacché troppi controllori vanificano il controllo, giacché troppe leggi equivalgono a nessuna legge. E allora tagliamo le norme, non le teste.
17 aprile 2014 | 07:55
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_aprile_17/labirinto-inestricabile-12c7e14c-c5ed-11e3-8866-13a4dbf224b9.shtml
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« Risposta #164 inserito:: Maggio 01, 2014, 07:04:59 pm »

Michele Ainis

Legge e Libertà
Sport nazionale: la caccia al vecchio

Dopo decenni di gerontocrazia siamo passati all’estremo opposto.

Così gli anziani sono diventati vittime di un furore senza pietà. E di autentiche discriminazioni. Mentre in altri paesi si fa tutto l’opposto
   
C’erano un tempo la destra e la sinistra, sempre in baruffa come cani e gatti. Adesso quella contrapposizione non va più di moda: in politica, lo scontro si consuma ormai fra vecchio e nuovo. E ovviamente il nuovo è cool, è giovane per definizione. L’aria che tira è questa: addosso agli anziani. Discriminati, cacciati, rottamati in ogni ufficio pubblico o privato. E chissenefrega se l’anagrafe non costituisce un merito, né più né meno del colore degli occhi, o della statura che il Padreterno ci ha donato in sorte. Chissenefrega del passato, delle sue lezioni. «Giovinezza, primavera di bellezza»: era l’inno del fascismo, ma oggi trionferebbe pure a Sanremo.

In quest'astio verso i capelli bianchi si riflette senza dubbio una reazione (comprensibile, anzi sacrosanta) contro la gerontocrazia che ci ha dominato negli ultimi vent’anni. Politici immarcescibili: durante la seconda Repubblica sono cambiate vorticosamente le sigle dei partiti, mai le facce dei signori di partito. Classi dirigenti immobili, nella burocrazia, nelle banche, all’università, nel mondo delle imprese. Promozioni per anzianità, anziché per merito. Favori di legge agli ultrasessantenni, dalla pensione sociale all’assegnazione degli alloggi nell’edilizia pubblica, dalle detrazioni fiscali alle tariffe agevolate in treno o sulla bolletta del gas (grazie a due delibere delle authority: 237 e 314 del 2000).

E ora? Dalla carezza alla monnezza. Ma noi italiani siamo fatti così: detestiamo le mezze misure. Da qui l’idea della (giovane) ministra Marianna Madia: staffetta generazionale nella pubblica amministrazione. Tre dirigenti in pensione anticipata, un giovane funzionario assunto. Anche se magari quei tre sono pure bravi, il nuovo non si sa. Anche a costo di passare dagli esodati agli staffettati. Da qui, già in precedenza, un decreto del governo Letta: nel giugno 2013 decise incentivi per l’assunzione a tempo indeterminato dei giovani sotto i trent’anni. E chi di anni ne ha 31? E i cinquantenni che perdono il lavoro, troppo giovani per andare in pensione, troppo vecchi per trovarne un altro?

Ma non è solo la politica, a dichiarare guerra agli attempati. Un’inchiesta della “Stampa” (marzo 2013) ha rivelato il caso degli annunci di posti di lavoro alla Camera e al Senato, dove quasi sempre viene indicata un’età massima. Idem in tv, per fare un altro esempio; in Italia come nel Regno Unito, dove le donne over 50 rappresentano il 7 per cento appena fra i lavoratori della Bbc. A sua volta la Bocconi (febbraio 2012) attesta che gli ultraquarantenni sono carne morta, per i selezionatori di risorse umane nelle aziende: non li considerano. Mentre il Tribunale di Milano (luglio 2010) ha giustificato la discriminazione anagrafica sancita in un bando d’assunzione per gli autisti. Chissà perché, dal momento che l’esperienza casomai migliora le capacità di guida. E chissà se un tribunale si ribellerà una volta o l’altra alle persecuzioni e vessazioni che colpiscono gli ultrasettantenni, per esempio nell’assistenza sanitaria: uno studio di “eCancer Medical Science” (novembre 2013) dimostra che non ricevono cure oncologiche adeguate, perché i trattamenti all’avanguardia sono riservati ai giovani.

C'è un a parolina che denomina questa forma di discriminazione: “ageism”. Si traduce come “ageismo” oppure “anzianismo”, ma non a caso la parolina ha un conio americano. Negli Usa l’Employment Act del 1967 protegge chi ha almeno 40 anni; fanno altrettanto il codice dell’Ontario e la legge sui diritti umani dello Stato di New York, con un lungo elenco di divieti. Fa lo stesso il Regno Unito, con l’Employment Equality Age Regulations del 2006. Viceversa in Italia non c’è legge, a eccezione d’un decreto legislativo del 2003, di cui nessuno (neppure il governo) conosce l’esistenza. Sicché la caccia è aperta, senza pietà per le anziane prede. Però, attenzione: siamo stati tutti più giovani in passato.

michele.ainis@uniroma3.it
30 aprile 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/legge-e-liberta/2014/04/23/news/sport-nazionale-la-caccia-al-vecchio-1.162483
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