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Autore Discussione: MICHELE AINIS.  (Letto 129390 volte)
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« Risposta #90 inserito:: Aprile 03, 2011, 11:38:24 pm »

Il merito non è di destra né di sinistra. E neanche Italia Futura

Talento e coesione per il terzo millennio

di Michele Ainis , pubblicato il 30 marzo 2011


Italia futura è di destra o di sinistra? Domanda fuori luogo, nel senso che il luogo di questa associazione si situa nella società civile, non nella società politica. Ma in una società virtuosa popolo e Palazzo dovrebbero abitare nello stesso condominio, mentre in Italia vivono da tempo in due città lontane. E allora proviamo a declinare la risposta, un po’ per gioco, un po’ per misurare le categorie della politica con il nostro metro di sudditi, pardon, di cittadini.

La meritocrazia, per fare un primo esempio. La rivoluzione dei talenti promessa dai costituenti francesi nel 1789, e rispolverata da quelli italiani nel 1947, attraverso la norma forse più suggestiva della nostra Carta: «I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi». Vale per gli studenti, vale per i lavoratori in generale. Ma la promessa si è trasformata in un miraggio, e il miraggio in un raggiro, in questo Paese dove l’ascensore sociale è sempre fermo al piano, dove la diseguaglianza cresce come un fungo, dove insomma la tua carriera dipende dal certificato anagrafico che hai ricevuto in sorte, oppure dalla voglia di venderti l’anima a questa o a quella lobby.

Da qui le campagne (e le proposte concrete) di Italia Futura per insediare il merito nel nostro vissuto collettivo. Con un profilo di destra o di sinistra? Né l’uno né l’altro, se ci muoviamo dentro il perimetro delle categorie tradizionali. Bobbio diceva che la sinistra si distingue dalla destra perché ha nel cuore l’eguaglianza più della libertà, mentre la destra predilige la libertà sull’eguaglianza.

Fino a venerare, nei suoi accenti estremi, il mercato come una divinità pagana, rifiutando qualsivoglia regola che possa imbrigliare gli spiriti selvaggi del capitalismo. All’opposto, la sinistra estrema ha teorizzato l’eguaglianza nei punti d’arrivo, fino al paradiso in terra del presidente Mao: a tutti lo stesso salario, la stessa divisa grigioverde, lo stesso paio di scarpe. Ma il merito significa eguaglianza nei punti di partenza, poi chi ha più polmoni taglierà per primo i nastri del traguardo. Significa perciò eguaglianza e libertà congiunte in matrimonio, attraverso l’eguale libertà di diventare diseguali. Non è destra, non è sinistra – o forse tutt’e due, il meglio dell’una e dell’altra tradizione.

E la legalità?
Nessuno ha il diritto di farne una bandiera solitaria, benché in Italia destra e sinistra s’accusino a vicenda d’affondare sino alle caviglie nella melma dell’illegalità. Con qualche fondamento, a scorrere le cronache locali e nazionali.

E l’efficienza?
Nella seconda Repubblica destra e sinistra hanno governato a turno, mentre l’economia italiana viaggiava a passo di lumaca, precipitando in tutte le classifiche internazionali.

E il ricambio delle nostre inossidabili classi dirigenti? E il valore della coesione nazionale? Sono di destra o di sinistra?
Chissenefrega, verrebbe da rispondere. Il fatto è che queste due vestali della politica sono figlie del Novecento, nipotine dell’Ottocento, ma non sanno più aiutarci nel mondo del terzo millennio. Né loro, né i partiti che vi si riflettono come un’immagine sbiadita.
Consegniamole agli archivi della storia, e non ne parliamo più.


---


Michele Ainis, membro del comitato direttivo di Italia Futura, è ordinario di Istituzioni di diritto pubblico all'Università di Teramo.
E' editorialista de La Stampa e Il Sole 24 Ore. Ha fatto parte di varie commissioni ministeriali di progettazione e di studio e scritto numerosi saggi, l'ultimo pubblicato è L’assedio. La Costituzione e i suoi nemici (Longanesi, 2011).


da - italiafutura.it/dettaglio/111332/
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« Risposta #91 inserito:: Aprile 21, 2011, 06:00:42 pm »

PROPOSTE INUTILI E PERICOLOSE

La plastica istituzionale

Potremmo iscrivere alla fiera dell'ovvio la proposta dell'onorevole Ceroni, benché il Palazzo l'abbia salutata con fragore. Potremmo gettare nel cestino dei farmaci scaduti quest'ultima iniezione ri-costituente. A che serve infatti dichiarare - già nel primo articolo della nostra Carta - che il Parlamento è l'organo centrale del sistema, che per suo tramite s'esprime la volontà del popolo, che il popolo a sua volta designa deputati e senatori attraverso un rito elettorale? Magari può servire a ricordarci che in quel posto lì ci si va per elezione, non per cooptazione, non per nomina d'un signorotto di partito, come c'è scritto nel «Porcellum». Ma tutto il resto è già nero su bianco nella Costituzione: articoli 55 e seguenti. Basta sfogliarne qualche pagina, dopotutto non è una gran fatica.
Le leggi inutili, diceva Montesquieu, indeboliscono quelle necessarie. E infatti almeno un quarto del tempo speso dai costituenti nel 1947 fu dedicato a interrogarsi su quanto avesse titolo per entrare nella Carta, allo scopo di non sottrarle dignità e prestigio. Scrupoli d'altri tempi, diremmo col senno di poi. D'altronde, proprio l'articolo 1, con questa folla di chirurghi plastici che sgomita attorno al suo capezzale, ne è la prova più eloquente. C'è per esempio la proposta - avanzata a turno da Segni e da Brunetta, dai radicali, dallo stesso Berlusconi - d'espellere il lavoro dai fondamenti della nostra convivenza. Parola comunista, dicono: meglio libertà. Anche se la libertà già alberga, come noce nel mallo, nella democrazia evocata dall'articolo 1. Non importa, costruiremo una democrazia al quadrato. E poi, libertà di chi? Del popolo, ovviamente. Sicché potremmo scrivere così: «L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul Popolo della libertà».

Il guaio è che proprio questa parrebbe l'intenzione di Ceroni, nonché dei molti che annuiscono in silenzio. Se non il testo, stavolta fa fede il contesto. Ossia la relazione che accompagna la proposta, dove s'alza il tiro contro gli organi di garanzia costituzionale, a partire dal capo dello Stato. Dove si denunciano abusi e prepotenze a scapito della «centralità parlamentare» (a proposito, ma non fu uno slogan degli anni Settanta, i nostri anni più rossi? Si vede che i politici sono diventati un po' daltonici). Dove infine si disegna un modello di democrazia plebiscitaria. Conviene allora dirlo con chiarezza: così usciremmo fuori dalla Costituzione. Non solo da quella italiana, ma da qualunque altra. Come scrissero i rivoluzionari del 1789, se una società non regola la separazione dei poteri, non ha una Costituzione.

Eppure è esattamente questo che ci sta succedendo. La proposta Ceroni è figlia d'un clima che nega il valore stesso delle regole, perché l'unica regola vigente è quella che ciascuno sagoma attorno al suo pancione, come una cintura. Non a caso la parola più abusata è «eversione», e infatti ieri è risuonata mille volte. Nel frattempo sulla Consulta piovono conflitti come rane (l'ultimo è sempre di ieri). Servirebbe una tregua, una vacanza, un giorno di riposo. Ma intanto ci servirà l'ombrello.

Michele Ainis

21 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_aprile_21/
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« Risposta #92 inserito:: Maggio 07, 2011, 07:30:11 pm »

ISTITUTI DEMOCRATICI
Salvare i referendum

Tra poche settimane voteremo quattro referendum.

O no?

Sta di fatto che per raggiungere il seggio elettorale ci costringono alle montagne russe. Prima scegliendo una data balneare (e almeno in questo caso la perfidia costa: 300 milioni, 5 euro a ogni italiano, per il rifiuto d'accorpare i referendum alle amministrative). Poi sommergendo i quesiti con una coltre di silenzio nelle televisioni (da qui il richiamo sacrosanto di Napolitano). Infine sfogliando la margherita, strappandone un petalo alla volta. Dopo gli emendamenti introdotti nel decreto omnibus, il referendum sul nucleare attende solo che la Cassazione ne celebri i funerali. I due sull'acqua stanno per essere azzoppati attraverso la creazione di un'authority. Resterà in piedi il referendum sul legittimo impedimento, che a quel punto avrebbe bisogno di un paio d'ali per superare il quorum. D'altronde già da adesso il suo valore è per lo più simbolico, dato che la Consulta ha tagliato le unghie alla disciplina originaria. Sicché finirà per trasformarsi in un plebiscito pro o contro Berlusconi. Ai quesiti referendari capita sovente: nascono cavalli, lungo la strada diventano giraffe. Togliendoci oltretutto la possibilità di votare su questioni specifiche e concrete, anziché su animali mitologici.

Eppure dovremmo averci fatto il callo. Tutti i governi, di destra o di sinistra, di centro o di lato, hanno sempre avuto in gran dispetto il referendum. E infatti in Italia la sua storia è scandita da trucchetti. Comincia con 22 anni di ritardo rispetto all'orologio dei costituenti (la legge istitutiva è del 1970). Continua frodando il voto popolare (celebre il caso della consultazione sul finanziamento pubblico ai partiti, che nel 1993 venne abrogato dal 90% dei votanti, ma fu immediatamente riesumato sotto mentite spoglie dai partiti). S'interrompe quando i suoi nemici ricorrono allo scioglimento anticipato delle Camere pur di rinviarlo alle calende greche (è accaduto nel 1972, nel 1976, nel 1987, nel 1994). E in ultimo agonizza bevendo la cicuta dell'astensionismo organizzato, che ha via via fatto saltare 24 referendum dal 1997 in poi.

Questo livore contro il referendum maschera in realtà un'antica diffidenza dei politici italiani verso gli italiani. Per loro siamo soltanto un popolo bambino, ciascuno con indosso il suo grembiule. E d'altronde che ne sappiamo noi di questioni scientifiche complesse come l'elettrosmog (su cui votammo nel 2003), la fecondazione assistita (referendum del 2005), o per l'appunto il nucleare? Potremmo rispondere osservando che se l'elettore è incompetente, lo è altrettanto l'eletto. O forse anche di più, almeno a guardare le pupille vuote che si spalancano in tv. Potremmo ricordare che la prima Repubblica fu battezzata da un referendum (quello del 1946), e che un altro referendum (nel 1993) ha schiuso i battenti alla seconda. Ma il fatto è che la crisi della democrazia diretta, insieme al veleno inoculato dal «Porcellum» sul corpo della democrazia indiretta, ha reso traballanti le nostre istituzioni. Per forza: nessuno può reggersi su una gamba sola, per giunta malaticcia. E ogni democrazia viaggia su due schede, l'elezione e il referendum.

Ecco perché è diventato urgente correggere la fisionomia di quest'ultimo istituto, anziché baloccarsi con riforme impalpabili e improbabili. Il governo vorrebbe correggere la Carta scrivendo che l'amministrazione è al servizio del bene comune (come se fin qui fosse una vestale del Maligno). Altri vorrebbero espellere il lavoro dai fondamenti della nostra convivenza (proprio adesso, mentre 3 giovani su 10 sono disoccupati, e gli altri 7 costretti a un lavoro ballerino). Dedichiamoci piuttosto a restituire la sovranità al popolo bambino. Per esempio eliminando dai referendum il quorum di validità: non lo rimpiangeremmo.

Michele Ainis

07 maggio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #93 inserito:: Maggio 15, 2011, 10:56:33 am »

LE PAROLE DELLA POLITICA

Strategie e furori elettorali

Davvero gli elettori sono diventati ormai come tifosi da aizzare per evitare l'astensionismo?

di  MICHELE AINIS


Riassumendo: i pm di Milano sono un cancro, quelli di Napoli una discarica. I parlamentari sono altrettanti perditempo, ma l'ozio in questo caso produce un doppio effetto: quelli di destra diventano alienati, perché hanno lasciato fior di professioni per servire il Palazzo; quelli di sinistra si trasformano in alieni. Gli alieni di sinistra puzzano, avendo litigato col sapone. Ma stonano anche il Csm, il capo dello Stato, la Consulta. O comunque sa di congiura questo loro accanimento contro la volontà del popolo sovrano, espressa dal megafono del leader.

E allora basta con le lungaggini procedurali in Parlamento. Basta con le pignolerie costituzionali. Basta con questa Corte che abroga le leggi (in realtà le annulla, presidente). E già che ci siamo, basta pure con l'altro presidente: è sufficiente quello del Consiglio, l'altro ormai è di troppo.

Vabbè, siamo in campagna elettorale, e si è aperta una gara a chi la spara più grossa. Vabbè, la paura fa novanta, e c'è il rischio che il voto non vada bene. Ma il guaio è che in Italia la campagna elettorale dura tutto l'anno. Ogni limite ha una pazienza, diceva Totò; e francamente li abbiamo superati entrambi, sia il limite sia la nostra pazienza. Davvero gli italiani meritano questo trattamento? Davvero gli elettori sono ormai come i tifosi? E davvero aizzando gli opposti furori delle curve Berlusconi allontanerà lo spettro dell'astensionismo? Più facile che questo spettro si gonfi come l'Aladino della lampada: dopotutto, gli attaccabrighe rimangono un'esigua minoranza. E se il menu servito in tavola diventa, lui sì, maleodorante, saranno in pochi a sedersi al banchetto elettorale.

Qualcuno prima o poi dovrebbe dirlo al presidente del Consiglio: la sua strategia non paga. Offende la buona creanza, ma cozza inoltre con la logica. A cominciare dalla logica giuridica, che nella patria del diritto dovrebbe pur avere un posto al sole. Vale per esempio circa l'intenzione, ripetuta come una cantilena, d'istituire una commissione parlamentare d'inchiesta sulle inchieste dei pm: l'inchiesta al quadrato. Vale quanto al progetto di dimezzare deputati e senatori, annunciato proprio mentre il governo vuole l'aumento dei sottosegretari. Vale per lo sdegno che in Berlusconi provoca la lunga mano dei partiti sui membri del Csm, quando il suo partito ha appena nominato cinque consiglieri su otto. Ma vale soprattutto per gli organi di garanzia costituzionale: Consulta e capo dello Stato.

Per quale ragione? Non solo perché questi due cani da guardia intervengono con moderazione. E infatti l'annullamento delle leggi rimane un'eccezione, dato che nove volte su dieci la Corte costituzionale le lascia in vigore. Mentre fin qui Napolitano ha rifiutato di timbrare una sola legge (quella sul lavoro), un solo decreto legge (quello per Eluana Englaro), un solo decreto legislativo (quello sul federalismo municipale). Significa che in tutti gli altri casi ha detto sì, non c'è da lamentarsene. Ma ci lamenteremmo eccome, senza questi due garanti. Perché toglierli di mezzo, o comunque degradarli a figuranti senza voce, significherebbe amputare lo Stato di diritto. Sarà fin troppo banale ricordarlo, ma senza un controllore con la paletta in mano la maggioranza avrebbe i poteri d'un tiranno. E dei nostri diritti resterebbe soltanto un guscio vuoto.


11 maggio 2011
da - corriere.it/politica/11_maggio_11/
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« Risposta #94 inserito:: Maggio 31, 2011, 11:22:07 pm »

TANTE PROPOSTE, POCHE LEGGI

LA BONACCIA DELLE ANTILLE

La politica è in vacanza. Non i politici, però: loro lavorano fin troppo. O meglio urlano, sgomitano, s'accalcano in tv. Per forza: c'è in vista un'elezione. E allora giù con un diluvio di parole, promesse reboanti per gli amici, accuse infanganti per i nemici. Ma i fatti no: non si sa mai, gli elettori potrebbero distrarsi.

Sicché in Parlamento è calata la grande bonaccia delle Antille, avrebbe detto Italo Calvino. Vanno in votazione solo i decreti legge, com'è successo ieri; altrimenti scadono, e dopo sono guai. Ma la riforma dello Stato? Non ve n'è traccia, al pari della soppressione delle Province, del bicameralismo prossimo venturo, del premierato, per non parlare poi della legge elettorale. E il nuovo articolo 41, che a giudizio del governo libererà da vincoli e laccioli la nostra economia? La Camera l'ha messo in calendario a giugno, sempre che la commissione abbia concluso i suoi lavori. Vatti a fidare, quando in Senato 22 disegni di legge attendono da mesi che la commissione Bilancio esprima il suo parere, mentre altri 7 sono orfani della relazione tecnica da parte della Ragioneria generale. Un caso per tutti: le norme contro la corruzione. Scritte e pure emendate, ma per 230 giorni chiuse a chiave nei cassetti della commissione, in attesa di responso. Evidentemente i politici italiani sono più pensosi di Diogene dentro la sua botte.

E la giustizia? Un'emergenza a corrente alternata. Perché dopo gli annunci, i dibattiti, gli appelli, ha avuto il sopravvento questa lunga pausa elettorale. E dunque stop alla riforma costituzionale, stop alla legge sulle intercettazioni, al processo breve, alla prescrizione fulminante. Stop anche ai temi etici: la legge sull'omofobia è su un binario morto, quella sul testamento biologico va alle calende greche, grazie a un rinvio bipartisan benedetto sia a destra che a sinistra. Già che ci siamo, stop all'elezione del quindicesimo giudice che ormai da un mese manca alla Consulta. E la verifica sul governo reclamata da Napolitano? In pausa pure quella. Se ne parlerà dopo i ballottaggi, e sempre che la vigilia dei referendum non consigli un'altra pausa. Durante quella breve intermittenza, forse la Camera troverà anche il tempo di discutere la mozione Gnecchi sulla riforma pensionistica, in calendario a giugno. Però con calma, senza fretta. D'altronde quest'anno l'aula del Senato ha lavorato per 176 ore, quella di Montecitorio ha dedicato 143 ore appena all'attività legislativa.

Ma nessuna democrazia al mondo può correre con un Parlamento zoppo. Le istituzioni rappresentative assolvono a una duplice funzione: riflettere e deliberare. Invece queste Camere immerse in una perenne campagna elettorale non sanno fare né l'uno né l'altro mestiere. Non riflettono l'energia che nonostante tutto accende i nostri giovani, i ceti produttivi, i lavoratori al servizio dello Stato. Non decidono più nulla, perché i politici italiani hanno ormai paura dei propri elettori. D'altronde si sa come vanno queste cose: tu scrivi una legge che parrebbe dettata da Minerva, poi c'è sempre qualcuno che spara a palle incatenate. Sarà anche vero, ma non è affatto una buona ragione per starsene inchiodati al palo.

Michele Ainis

25 maggio 2011(ultima modifica: 26 maggio 2011)© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_maggio_25/
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« Risposta #95 inserito:: Giugno 15, 2011, 06:47:01 pm »

REFERENDUM / 2

L'energia positiva di un voto


Saranno ormai tre lustri che i referendari vivono in una riserva indiana, circondati da forze sovrastanti; e dopo 24 referendum senza quorum ci avevamo fatto il callo, stavamo cominciando a rassegnarci. Tanto più in quest'occasione, con il voto trasformato in una gara d'alpinismo (terzo appuntamento elettorale in quattro settimane). Con un'informazione tardiva e insufficiente nelle Tv di Stato. Con mezzo governo che ci ammoniva a non sprecare tempo: quesiti inutili, inutili pure gli elettori. Infine con l'esperienza fresca fresca delle Amministrative, dove il partito del non voto è stato di gran lunga il più (non) votato. E allora com'è che l'onda d'astenuti alle elezioni provinciali (55%) è diventata uno tsunami di votanti (il 57%) sui 4 referendum?

Risposta: perché gli italiani non ne possono più dei politici italiani. Non della politica, però. Non se esprime facce nuove, meno logore di quelle che frequentano il Palazzo da vent'anni. Non se interroga questioni di fondo del nostro vivere comune. Sicurezza, ambiente, eguaglianza, confine tra pubblico e privato: dopotutto erano queste le domande sollevate dai referendum. Gli elettori hanno risposto bocciando altrettante leggi del governo, e bocciando perciò il governo nel suo insieme.
Ma l'opposizione farebbe molto male a sfilare sotto l'Arco di Trionfo. C'è infatti un collante, c'è un denominatore comune fra le Amministrative e i referendum: il ritiro della delega. Perché adesso gli italiani hanno deciso di decidere, senza subire le scelte di partito, quale che sia il partito. Ne è prova il voto del 30 maggio a Napoli, dove metà degli elettori si è tenuta lontana dalle urne, mentre l'altra metà ha espresso un plebiscito per un uomo fuori dai partiti, persino il proprio. Ne è prova la manifestazione del 10 giugno che ha chiuso la campagna per i referendum, rigorosamente senza bandiere di partito: gli organizzatori sapevano quanto fossero indigeste.

Da qui una duplice lezione, sempre che la politica abbia voglia d'ascoltarla. Primo: il testo del referendum dipende dal contesto. È infatti il clima del Paese che imprime forma e forza ai singoli quesiti, caricandoli di significati generali. Funzionò così per il divorzio e per l'aborto (un'iniezione di laicità nel nostro ordinamento), per i referendum elettorali dei primi anni Novanta (una domanda di ricambio nelle classi dirigenti), o altrimenti per le tante consultazioni andate a vuoto, senza un vento popolare a soffiare sulle vele. Perché ogni referendum ha questa valenza: serve a incanalare un'energia. Non a caso l'istituto fu battezzato in due Stati (Usa e Svizzera) che non contemplavano lo scioglimento anticipato delle Camere. Ma il referendum non può creare un'energia politica, può solo intercettarla. Quando c'è, e adesso ce n'è a iosa. Il lungo sonno è terminato.

Secondo: la nostra bistrattata Carta si è presa una rivincita. La «gemma della Costituzione» - come a suo tempo Bobbio aveva definito il referendum - è tornata a brillare. E forse questo sussulto di democrazia diretta convincerà la maggioranza a curare i mali della democrazia indiretta, a partire dalla legge elettorale. Forse ci convertirà un po' tutti a un atteggiamento di maggiore lealtà verso le istituzioni. Ieri abbiamo letto editoriali che bacchettavano il capo dello Stato per essersi permesso di votare. La risposta più sonante l'ha offerta quel 5% di italiani che ha votato «no» ai quesiti, evitando le scorciatoie dell'astensione. Perché ogni referendum fallito nel vuoto delle urne rappresenta pur sempre una sconfitta della democrazia. E perché nessun principio di sovranità popolare può mai attecchire senza un popolo disposto a esercitarla. Votando in massa i referendum, il popolo italiano si è dunque riappropriato della sua Costituzione. Eravamo sudditi, stiamo tornando cittadini.

Michele Ainis

14 giugno 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #96 inserito:: Luglio 19, 2011, 10:52:21 am »

La proposta di Calderoli

Le spese della casta si possono tagliare in fretta, e senza «grandi disegni»


Ora finalmente lo sappiamo: è colpa della Costituzione. Se non si fossero messi per traverso quei nostri perfidi nonnetti del 1947, la bulimia della politica sarebbe già stata guarita da un bel pezzo. E allora via con la riforma, scrivendo nella Carta che l’indennità parlamentare è legata alle presenze. E perché, non basta dirlo in una legge? Anzi: non è già sufficiente che lo decidano gli uffici di presidenza di Camera e Senato? Eppure è a loro che spetta determinare la misura della diaria, al pari dell’indennità mensile: legge n. 1261 del 1965. Coraggio, usate un po’ le forbici. Ce le avete già, non serve acquistarle in un emporio costituzionale.

E magari provate anche a correggere qualcuno degli eccessi che ieri elencavano Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, dalla settimana corta (quest’anno a Montecitorio 2 soli venerdì lavorativi su 28) ai rimborsi elettorali (cresciuti in un decennio 26 volte in più degli stipendi pubblici). No, messa così questa riforma è uno specchietto per le allodole. Ma lo specchietto può accecarci tutti, perché la bozza Calderoli abbozza nientepopodimeno che uno Stato tutto nuovo. Come nell’estate del 2003, ai tempi della bozza di Lorenzago; anche quella vergata di suo pugno dal ministro, sia pure in compagnia di tre signori. Poi, nel 2006, gli italiani la gettarono nel cesto dei rifiuti: e fecero bene, non foss’altro perché le riforme costituzionali nascono da un afflato collettivo, non dal genio di Aladino. Ma evidentemente Calderoli ormai ci ha preso gusto.

Nell’aprile 2010 la sua ennesima bozza dettava un modello semipresidenziale, ora è la volta del premierato. Con chi, quando, come l’ha discussa? Vattelapesca. Non che la Costituzione sia un tabù, una mummia imbalsamata. Qualche ritocco è necessario, e anche in quest’ultimo progetto non tutto è da respingere. Per esempio la sfiducia costruttiva, per esempio il potere consegnato al premier di nominare e revocare i suoi ministri. O ancora l’abolizione del voto degli italiani all’estero, che ci ha cacciato dentro un paradosso. No taxation without representation, senza rappresentanza niente tasse, recita l’antico motto dei coloni americani. Invece i nostri fratelli separati votano ma non pagano dazio, mentre gli immigrati pagano e non votano. Ma in generale si tratta d’un progetto abborracciato, dove non mancano le follie costituzionali.

Per esempio la partecipazione di delegati regionali ai lavori del Senato, però senza diritto di voto (avranno il diritto di fischio?). Il superamento del bicameralismo perfetto, correggendo tuttavia uno dei pochi elementi di diversità fra Camera e Senato, ossia il numero dei loro componenti (diventano 250 in entrambe le assemblee). La cancellazione dei senatori a vita per meriti artistici o scientifici (giusto, così la Costituzione prenderà atto che questo Paese non sa più allevare le eccellenze). Lo scioglimento delle Camere su richiesta non vincolante del premier (e allora che lo chiede a fare?). Insomma, se la musica è questa fateci un piacere: spegnete il giradischi.

Michele Ainis

19 luglio 2011 07:31© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_luglio_19/ainis-spese-casta_2eee8b6a-b1c7-11e0-962d-4929506ed0a9.shtml
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« Risposta #97 inserito:: Agosto 06, 2011, 04:05:40 pm »

Casta

Onorevole, basta cantartela

di Michele Ainis


In Italia deputati e i senatori decidono tutto da soli: gli stipendi, la possibilità di essere arrestati, la compatibilità degli incarichi, perfino la validità della loro elezione. Ma così la democrazia non può funzionare

(03 agosto 2011)

Il Parlamento ha un gran daffare. Per forza, con questa pioggia d'accuse che la magistratura gli rovescia addosso. Colpa della condotta malandrina dei nostri politici? No, colpa di una garanzia costituzionale: articolo 68. Dove c'è scritto che occorre il disco verde delle Camere per intercettare, perquisire, arrestare i loro membri. Ma guardacaso il Parlamento fa sempre lampeggiare il rosso del semaforo, anche perché altrimenti le sedute si terrebbero davanti a banchi vuoti: per il momento sono otto gli onorevoli che senza il mantello dell'immunità entrerebbero in galera, ma questa cifra balla, sale di ora in ora.

Il sì all'arresto del deputato Pdl Alfonso Papa ha interrotto una lunga tradizione (da 27 anni la risposta era sempre un no tonante), però non è servito a lenire l'impopolarità dell'autorizzazione parlamentare (l'80 per cento degli italiani se ne sbarazzerebbe volentieri). Le cause? In primo luogo quello stesso giorno il Senato ha invece graziato Alberto Tedesco del Pd, ribadendo la vecchia regola non scritta. In secondo luogo il gioco dei sommersi e dei salvati obbedisce esclusivamente a calcoli politici, a regolamenti di conti fra i partiti e fra le correnti di partito: il fumus persecutionis non c'entra un fico secco. In terzo luogo l'onda di sdegno per la nuova Tangentopoli travolge prudenze e garantismi. La prima cominciò con l'arresto di Mario Chiesa; stavolta tocca a Papa. A quanto pare siamo saliti di livello.

Ma c'è soprattutto un sentimento offeso dalle immunità parlamentari: l'eguaglianza. Quando la politica argomenta che la carcerazione preventiva colpisce spesso gli innocenti, quando aggiunge che prima d'usare le manette bisogna attendere la chiusura dei processi, dimentica che le carceri italiane ospitano 30 mila detenuti in attesa di giudizio. Perché noi sì e loro no? La risposta dettata dalla Costituzione è perentoria: per il principio della separazione dei poteri. Così come il Parlamento non può ribaltare in via legislativa una sentenza, non spetta ai giudici stabilire la composizione delle assemblee elettive.

Tuttavia il problema non sta nel principio, bensì nella sua applicazione. Sta nel voto segreto che protegge tali decisioni, impedendoci di valutare l'operato dei nostri (si fa per dire) rappresentanti. Sta nei tempi biblici con cui le Camere rispondono (quando rispondono) al potere giudiziario. Sta nell'istinto corporativo che scatta in questi casi: per dirne una, in nome dell'insindacabilità la Camera ha stoppato i giudici 92 volte su 100, il Senato 95 volte su 100. Sta infine nella regola che trasforma l'imputato in giudice di se medesimo. La stessa regola che permette a deputati e senatori di decidere sulla validità della propria elezione, sulla misura dell'indennità, sulle cause d'incompatibilità (nel 2008, all'avvio della legislatura, erano 172 i parlamentari con doppio o triplo incarico, alla faccia dei divieti).

E allora teniamoci il principio, però cambiamo le regole del gioco. Affidiamo queste scelte a un organo terzo e imparziale, come la Consulta. Dopotutto in Francia il Conseil constitutionnel vigila sulla regolarità delle elezioni fin dal 1958. E già che ci siamo, sminiamo le nostre istituzioni da tutti i privilegi analoghi. E' il caso degli stessi giudici, che attraverso il Csm dovrebbero autoinfliggersi sanzioni disciplinari. Degli ordini professionali rispetto ai loro iscritti. Del governo, quando nomina un quarto del Consiglio di Stato o 39 membri della Corte dei conti, benché tali magistrature dovrebbero difenderci dagli abusi del governo. E' il caso dei sindaci, che hanno il potere - addirittura - di licenziare il proprio controllore, ovvero il segretario comunale.

L'antidoto? Una massima che suonava in bocca a Cicerone: "Nemo iudex in causa sua", nessuno giudichi se stesso. Altrimenti il giorno del giudizio sarà sempre un giorno di festa.

 
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« Risposta #98 inserito:: Agosto 08, 2011, 04:10:37 pm »

Casta

Onorevole, basta cantartela

di Michele Ainis


In Italia deputati e i senatori decidono tutto da soli: gli stipendi, la possibilità di essere arrestati, la compatibilità degli incarichi, perfino la validità della loro elezione. Ma così la democrazia non può funzionare

(03 agosto 2011)

Il Parlamento ha un gran daffare. Per forza, con questa pioggia d'accuse che la magistratura gli rovescia addosso. Colpa della condotta malandrina dei nostri politici? No, colpa di una garanzia costituzionale: articolo 68. Dove c'è scritto che occorre il disco verde delle Camere per intercettare, perquisire, arrestare i loro membri. Ma guardacaso il Parlamento fa sempre lampeggiare il rosso del semaforo, anche perché altrimenti le sedute si terrebbero davanti a banchi vuoti: per il momento sono otto gli onorevoli che senza il mantello dell'immunità entrerebbero in galera, ma questa cifra balla, sale di ora in ora.

Il sì all'arresto del deputato Pdl Alfonso Papa ha interrotto una lunga tradizione (da 27 anni la risposta era sempre un no tonante), però non è servito a lenire l'impopolarità dell'autorizzazione parlamentare (l'80 per cento degli italiani se ne sbarazzerebbe volentieri). Le cause? In primo luogo quello stesso giorno il Senato ha invece graziato Alberto Tedesco del Pd, ribadendo la vecchia regola non scritta. In secondo luogo il gioco dei sommersi e dei salvati obbedisce esclusivamente a calcoli politici, a regolamenti di conti fra i partiti e fra le correnti di partito: il fumus persecutionis non c'entra un fico secco. In terzo luogo l'onda di sdegno per la nuova Tangentopoli travolge prudenze e garantismi. La prima cominciò con l'arresto di Mario Chiesa; stavolta tocca a Papa. A quanto pare siamo saliti di livello.

Ma c'è soprattutto un sentimento offeso dalle immunità parlamentari: l'eguaglianza. Quando la politica argomenta che la carcerazione preventiva colpisce spesso gli innocenti, quando aggiunge che prima d'usare le manette bisogna attendere la chiusura dei processi, dimentica che le carceri italiane ospitano 30 mila detenuti in attesa di giudizio. Perché noi sì e loro no? La risposta dettata dalla Costituzione è perentoria: per il principio della separazione dei poteri. Così come il Parlamento non può ribaltare in via legislativa una sentenza, non spetta ai giudici stabilire la composizione delle assemblee elettive.

Tuttavia il problema non sta nel principio, bensì nella sua applicazione. Sta nel voto segreto che protegge tali decisioni, impedendoci di valutare l'operato dei nostri (si fa per dire) rappresentanti. Sta nei tempi biblici con cui le Camere rispondono (quando rispondono) al potere giudiziario. Sta nell'istinto corporativo che scatta in questi casi: per dirne una, in nome dell'insindacabilità la Camera ha stoppato i giudici 92 volte su 100, il Senato 95 volte su 100. Sta infine nella regola che trasforma l'imputato in giudice di se medesimo. La stessa regola che permette a deputati e senatori di decidere sulla validità della propria elezione, sulla misura dell'indennità, sulle cause d'incompatibilità (nel 2008, all'avvio della legislatura, erano 172 i parlamentari con doppio o triplo incarico, alla faccia dei divieti).

E allora teniamoci il principio, però cambiamo le regole del gioco. Affidiamo queste scelte a un organo terzo e imparziale, come la Consulta. Dopotutto in Francia il Conseil constitutionnel vigila sulla regolarità delle elezioni fin dal 1958. E già che ci siamo, sminiamo le nostre istituzioni da tutti i privilegi analoghi. E' il caso degli stessi giudici, che attraverso il Csm dovrebbero autoinfliggersi sanzioni disciplinari. Degli ordini professionali rispetto ai loro iscritti. Del governo, quando nomina un quarto del Consiglio di Stato o 39 membri della Corte dei conti, benché tali magistrature dovrebbero difenderci dagli abusi del governo. E' il caso dei sindaci, che hanno il potere - addirittura - di licenziare il proprio controllore, ovvero il segretario comunale.

L'antidoto? Una massima che suonava in bocca a Cicerone: "Nemo iudex in causa sua", nessuno giudichi se stesso. Altrimenti il giorno del giudizio sarà sempre un giorno di festa.

 
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« Risposta #99 inserito:: Settembre 02, 2011, 06:01:40 pm »

IL PATTO TRA STATO E CITTADINI

Fidarsi delle leggi e delle istituzioni

Almeno oggi l'abbiamo fatta franca. Domani, chi lo sa: la nostra via è piena di trappole, ci vuol poco a mettere un piede in fallo. Ma sono trappole di Stato, inganni tessuti da Sua Maestà la Legge. Come l'idea di revocare il riscatto della laurea e del servizio di leva ai fini pensionistici, con buona pace dei 665 mila italiani che ci avevano creduto, sborsando anche fior di quattrini. O come la trovata speculare del Pd, che ha proposto una tassa aggiuntiva del 15% per chi aveva profittato dello scudo fiscale del 2009, confidando nella garanzia di pagare non più del 5% sui capitali rientrati dall'estero.

Insomma di volta in volta cambiano le vittime, non l'abitudine di stracciare i patti stipulati con l'una o l'altra categoria di cittadini. Eppure quest'abitudine inocula un veleno nella nostra convivenza, perché ci insegna a diffidare delle istituzioni, e a disprezzare in ultimo tutto ciò che è pubblico, di tutti. C'è infatti un principio che in ogni Stato di diritto regola i rapporti fra governanti e governati: il principio dell'affidamento. Non è scritto nero su bianco nei testi normativi, tanto non serve, sarebbe come scrivere che la legge è fatta di parole. Ciò nonostante, la Consulta vi si è riferita in 500 casi, mentre in altre centinaia di decisioni ha usato l'espressione «buona fede», «fiducia», «correttezza» e via elencando. D'altronde pure la Costituzione evoca il concetto di lealtà (art. 120), non meno che la fedeltà e l'onore (art. 54). Non è un caso, così come non è affatto fortuita l'assonanza fra leale e legale. Altrimenti - dice Pericle ad Alcibiade, in un dialogo che ci ha trasmesso Senofonte - la legalità sleale diventerebbe una sopraffazione.

Quante volte ce n'è invece toccata l'esperienza? Succede quando le leggi parlano ostrogoto per non farsi capire, per occultare regalie a questa o a quella lobby. Quando si travestono per mostrarsi caste e sante (la legge n. 194 del 1978, quella che ha depenalizzato l'aborto, s'intitola «Norme per la tutela sociale della maternità»). Quando mettono in circolo 35 mila fattispecie di reato - come avviene in Italia - sicché un poverocristo può inciamparvi senza nemmeno sospettarne l'esistenza. Quando sono retroattive, stabilendo oggi le regole di ieri (così trasformando l'innocenza in una colpa, e degradando i giudici ad altrettanti poliziotti, come osservava Montesquieu). Quando ipocritamente si qualificano leggi d'interpretazione «autentica» (furono appena 6, nei primi quarant'anni del Regno d'Italia; ne sono state approvate 150, nei primi quarant'anni della Repubblica), per conseguire effetti retroattivi senza dichiararlo. Quando frodano i risultati d'un referendum (come sul finanziamento pubblico ai partiti, abrogato nel 1993 dagli italiani, riesumato sotto mentite spoglie da una legge del 1997). O infine quando revocano promesse dettate dalla legislazione preesistente.

Non che la lealtà alloggi nelle tombe. Le situazioni cambiano, la borsa della spesa non è sempre tintinnante. E c'è inoltre da pensare a quelli che verranno, ai diritti delle generazioni future cui si riferisce la Carta di Nizza del 2000. Ma c'è una condizione, una soltanto, che può farci accettare la revoca degli impegni assunti dallo Stato. Eguaglianza, ecco il suo nome. La legge leale è una legge eguale, che non separa i figli dai figliastri.

Michele Ainis

01 settembre 2011 07:49© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_settembre_01/ainis_fidarsi-di-leggi-istituzioni_e3368d58-d458-11e0-b70d-4333dfe15096.shtml
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« Risposta #100 inserito:: Settembre 28, 2011, 09:58:15 am »

TROPPE NORME E TEMPI INCERTI

La carta sbiadita del federalismo


E il federalismo? Che fine ha fatto la promessa che ha illuminato l'alba di questa legislatura? Risposta: giace sepolta sotto un cumulo di detriti normativi. Di proroghe, deroghe, cavilli. Di commi che si contraddicono a vicenda. Di decreti che annunciano il decentramento fiscale, mentre le manovre economiche centralizzano la politica fiscale, togliendo ossigeno alle Regioni non meno che ai Comuni.

Sicché il federalismo, che avrebbe dovuto rafforzare la coesione nazionale (federare significa unire), ha invece creato nuove spaccature: degli enti locali contro lo Stato, delle Regioni ordinarie contro quelle a statuto speciale, del Nord contro il Sud. Mentre il federalismo fiscale, che avrebbe dovuto alleggerire il carico di tasse che ci portiamo sul groppone (se il sindaco ci va giù troppo pesante, la volta dopo non verrà rieletto), nel frattempo ha generato l'esito contrario. Secondo uno studio della Cgia di Mestre, dal 1995 al 2010 (gli anni della Lega di governo) le tasse nazionali sono aumentate del 6,8%, quelle locali del 138%.

Eppure l'idea federalista è dirompente, anche se è poi finita sotto un cono d'ombra rispetto alla crisi economica o alle vicende giudiziarie del presidente Berlusconi. Un'idea capace di rigenerare il nostro tessuto connettivo, e infatti in molti casi i provvedimenti del governo hanno ottenuto l'assenso delle opposizioni. Ma il suo nemico è in primo luogo un nostro antico vizio: troppo diritto. La legge delega n. 42 del 2009 ha fin qui allevato 8 decreti delegati. A loro volta, questi decreti s'affidano a ulteriori atti normativi: ne serviranno una ventina soltanto per il fisco dei Comuni, 67 per mettere a regime i primi 5 decreti varati dal governo. Ma non è finita, perché c'è sempre l'eventualità di altri decreti integrativi e correttivi. E soprattutto perché a giugno il termine biennale della delega è stato prorogato: di 6 mesi o anche di un anno, a seconda dei casi.

E i contenuti? Talvolta in odore d'incostituzionalità, come la rimozione dei governatori che non rispettino i piani di rientro dal deficit sanitario. Talvolta assemblati in fretta e furia con uno strappo procedurale (da qui l'unico decreto legislativo respinto da Napolitano durante il suo settennato). Talvolta lacunosi (manca per esempio un riferimento chiaro ai livelli essenziali delle prestazioni, manca più in generale un coordinamento fra i decreti). Talvolta incongruenti (ai Comuni va tutto il «fisco del mattone», ma non il gettito dell'Iva sulle nuove costruzioni). E in ogni caso sempre sperimentali, sempre rinviati alle calende greche (il nuovo tributo locale, l'Imu, decollerà nel 2014, ammesso che il prossimo governo lo mantenga in vigore).

Non è una novità: le norme italiane o sono retroattive o veleggiano in un futuro imperscrutabile. Abitano in un altrove, come i politici che vi danno fiato. Ma qui e adesso, la politica ha segato le risorse degli enti territoriali per il 2012 di 4 miliardi, che s'aggiungono agli 8,5 miliardi già defalcati. Significa che la Lombardia dovrà tagliare un treno su due, ha detto Formigoni; o altrimenti alzare il prezzo del biglietto, che però negli ultimi mesi è cresciuto del 25%. Significa che Regioni e Comuni dovranno chiedere più quattrini, più ticket, più tasse ai loro cittadini; ma senza restituire più servizi. In breve, significa che gli enti locali non hanno mai avuto così poca autonomia come negli anni ruggenti del federalismo fiscale.

michele.ainis@uniroma3.it

Michele Ainis

27 settembre 2011 08:05© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_settembre_27/ainis_9a45b986-e8ce-11e0-ba74-9c3904dbbf99.shtml
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« Risposta #101 inserito:: Ottobre 01, 2011, 03:29:41 pm »

TROPPE NORME E TEMPI INCERTI

La carta sbiadita del federalismo

E il federalismo? Che fine ha fatto la promessa che ha illuminato l'alba di questa legislatura? Risposta: giace sepolta sotto un cumulo di detriti normativi. Di proroghe, deroghe, cavilli. Di commi che si contraddicono a vicenda. Di decreti che annunciano il decentramento fiscale, mentre le manovre economiche centralizzano la politica fiscale, togliendo ossigeno alle Regioni non meno che ai Comuni.

Sicché il federalismo, che avrebbe dovuto rafforzare la coesione nazionale (federare significa unire), ha invece creato nuove spaccature: degli enti locali contro lo Stato, delle Regioni ordinarie contro quelle a statuto speciale, del Nord contro il Sud. Mentre il federalismo fiscale, che avrebbe dovuto alleggerire il carico di tasse che ci portiamo sul groppone (se il sindaco ci va giù troppo pesante, la volta dopo non verrà rieletto), nel frattempo ha generato l'esito contrario. Secondo uno studio della Cgia di Mestre, dal 1995 al 2010 (gli anni della Lega di governo) le tasse nazionali sono aumentate del 6,8%, quelle locali del 138%.

Eppure l'idea federalista è dirompente, anche se è poi finita sotto un cono d'ombra rispetto alla crisi economica o alle vicende giudiziarie del presidente Berlusconi. Un'idea capace di rigenerare il nostro tessuto connettivo, e infatti in molti casi i provvedimenti del governo hanno ottenuto l'assenso delle opposizioni. Ma il suo nemico è in primo luogo un nostro antico vizio: troppo diritto. La legge delega n. 42 del 2009 ha fin qui allevato 8 decreti delegati. A loro volta, questi decreti s'affidano a ulteriori atti normativi: ne serviranno una ventina soltanto per il fisco dei Comuni, 67 per mettere a regime i primi 5 decreti varati dal governo. Ma non è finita, perché c'è sempre l'eventualità di altri decreti integrativi e correttivi. E soprattutto perché a giugno il termine biennale della delega è stato prorogato: di 6 mesi o anche di un anno, a seconda dei casi.

E i contenuti? Talvolta in odore d'incostituzionalità, come la rimozione dei governatori che non rispettino i piani di rientro dal deficit sanitario. Talvolta assemblati in fretta e furia con uno strappo procedurale (da qui l'unico decreto legislativo respinto da Napolitano durante il suo settennato). Talvolta lacunosi (manca per esempio un riferimento chiaro ai livelli essenziali delle prestazioni, manca più in generale un coordinamento fra i decreti). Talvolta incongruenti (ai Comuni va tutto il «fisco del mattone», ma non il gettito dell'Iva sulle nuove costruzioni). E in ogni caso sempre sperimentali, sempre rinviati alle calende greche (il nuovo tributo locale, l'Imu, decollerà nel 2014, ammesso che il prossimo governo lo mantenga in vigore).

Non è una novità: le norme italiane o sono retroattive o veleggiano in un futuro imperscrutabile. Abitano in un altrove, come i politici che vi danno fiato. Ma qui e adesso, la politica ha segato le risorse degli enti territoriali per il 2012 di 4 miliardi, che s'aggiungono agli 8,5 miliardi già defalcati. Significa che la Lombardia dovrà tagliare un treno su due, ha detto Formigoni; o altrimenti alzare il prezzo del biglietto, che però negli ultimi mesi è cresciuto del 25%. Significa che Regioni e Comuni dovranno chiedere più quattrini, più ticket, più tasse ai loro cittadini; ma senza restituire più servizi. In breve, significa che gli enti locali non hanno mai avuto così poca autonomia come negli anni ruggenti del federalismo fiscale.

michele.ainis@uniroma3.it

Michele Ainis

27 settembre 2011 08:05© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_settembre_27/ainis_9a45b986-e8ce-11e0-ba74-9c3904dbbf99.shtml
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« Risposta #102 inserito:: Ottobre 01, 2011, 04:46:35 pm »

Amari inganni

In Italia capita che l’ovvio suoni come una bestemmia in chiesa. O perlomeno nella chiesa in cui dice messa la politica, certa politica. Quella che a sua volta contrabbanda come verità lapalissiane il diritto a battersi per il libero Stato di Padania (Bossi) o le virtù mirabolanti d’una legge elettorale definita addirittura Porcellum. Ha fatto male il capo dello Stato a smascherare questo doppio inganno? No, ha fatto bene: a lungo andare il silenzio si trasforma in connivenza.

Costituzione alla mano, l’inganno vale innanzitutto per la presunta secessione del presunto popolo padano. Perché l’Italia è «indivisibile », dice l’articolo 5; e quindi l’unità del nostro territorio rappresenta un limite assoluto alla revisione costituzionale. Significa che non possiamo cambiare la Costituzione per dividere il Paese in due come una mela, nemmeno usando le procedure dettate dalla Costituzione.
A meno che non decidessimo di gettare nel cestino dei rifiuti l’intera Carta del 1947, sostituendovi delle cartoline, tante quanti gli staterelli che precedettero l’Unità. Ma allora servirebbe una guerra, una rivoluzione. E soprattutto servirebbe il responso della storia, l’unica che può trasformare il bandito in un eroe, il criminale politico in un padre della Patria, come diceva Vezio Crisafulli.

Ma fin qui la Lega ha sparato soltanto proiettili verbali, ed è assai dubbio che alla prova dei fatti troverebbe qualche soldatino.
Meglio così, naturalmente. Tuttavia le parole pesano, specie quando s’avvalgono del mantello del diritto. C’è un principio di sovranità popolare, affermano in coro gli esponenti della Lega: conta o non conta l’articolo 1? Certo che sì, ma la sovranità s’esercita «nelle forme e nei limiti» della Costituzione, stabilisce quella stessa norma. E infatti l’articolo 5 pone un limite testuale. Vabbé, allora c’è il principio di autodeterminazione dei popoli, aggiunge la Lega volgendo gli occhi al Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite. Peccato che nel nostro caso l’autodeterminazione non c’entri un fico secco. Perché quest’ultimo principio vincola i governi stranieri a liberare i territori occupati con la forza, tanto che ispirò l’intero processo di decolonizzazione. Ma né la Lombardia né il Veneto sono colonie dell’Italia. Se lo fossero, i ministri della Repubblica italiana Bossi, Maroni e Calderoli sarebbero i colonizzatori.

E c’è poi il secondo guaio su cui ieri ha puntato l’indice Napolitano: la legge elettorale. Sempre ieri, il comitato promotore ha depositato in Cassazione un milione e 200 mila firme per l’abrogazione del Porcellum. In un paio di mesi, senza tv e senza quattrini, una sorta di miracolo. Ma forse è un miracolo il nostro risveglio collettivo, dopo un decennio passato a spiare la politica dal buco della serratura. Perché gli italiani stanno ritrovando la voglia di far politica in prima persona, senza delegarla. Perché attraverso il cambiamento delle regole del gioco vogliono cambiare pure i giocatori. Logori e acciaccati. E non solo al governo.

Michele Ainis

01 ottobre 2011 11:51© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_ottobre_01/ainis-amari-inganni_72cb7006-ebeb-11e0-827e-79dc6d433e6d.shtml
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« Risposta #103 inserito:: Ottobre 13, 2011, 12:00:17 pm »

Chirurgia plastica

L'incidente tecnico, come lo definisce la maggioranza di governo, rischia di mandare lo Stato italiano gambe all'aria. Per forza: se non approvi il rendiconto consuntivo non puoi varare gli assestamenti di bilancio, non puoi spostare somme sui capitoli incapienti traendole dai capitoli in eccesso, non puoi scattare una fotografia dei conti pubblici. Ecco perché l'iniziativa della legge di bilancio è al tempo stesso riservata (al governo) e vincolata (deve avvenire ogni anno). È dunque vincolata anche l'approvazione delle Camere; però la Costituzione detta una via di fuga solo per il bilancio di previsione, quello con lo sguardo al futuro, anziché al passato. In questo caso viene in soccorso l'esercizio provvisorio, ma per non più di quattro mesi; tanto che i vecchi Parlamenti usavano l' escamotage di fermare gli orologi, quando non arrivava per tempo un voto positivo.

E se invece viene bocciato il rendiconto? Eccolo il pasticcio nel quale ci ha cacciato questa maggioranza ballerina: un rebus giuridico, oltre che politico. Perché la Camera ha rigettato il primo articolo della legge in questione, tagliandole la testa; e ha dovuto quindi arrestarne l'esame, dato che non avrebbe senso offrire braccia e gambe a un corpo ormai decapitato. Perché in secondo luogo c'è un istituto del diritto parlamentare che si chiama improcedibilità, e che vieta di ripresentare prima di sei mesi un testo già respinto. Anche se il governo chiede e ottiene una nuova fiducia, come si propone il presidente del Consiglio. E perché in qualche modo tuttavia bisogna uscirne, ne va dell'interesse generale.

Come? O disapplicando la regola dell'improcedibilità, e perciò ponendo subito in votazione una fotocopia del testo bocciato: si può fare, ma serve un consenso unanime, ed è improbabile che l'opposizione si commuova. O forzando il tenore della regola, benché quest'ultima s'estenda ai progetti che riproducono sostanzialmente quelli appena bocciati. Ma i numeri sono numeri, non ci si può giocare. E allora non resta che giocare con le parole, in questo noi italiani siamo bravi. Cambiare un aggettivo, una virgola, un avverbio. Dopotutto la legge di bilancio è un atto costituzionalmente necessario. E dopotutto la necessità è più forte della legge, anzi è essa stessa legge.
Domanda: ma spetta al governo Berlusconi quest'opera di sartoria istituzionale? Costituzione alla mano (articolo 94), un infortunio parlamentare non comporta l'obbligo delle dimissioni; la crisi di governo è doverosa unicamente dopo un voto di sfiducia. Sennonché la legge di bilancio tocca al cuore il rapporto fiduciario. Se viene respinta, significa che le Camere disapprovano l'indirizzo politico dell'esecutivo. Anche quando respingono il rendiconto consuntivo, certo. Perché in tale circostanza è come se gli imputassero d'aver tradito gli accordi contenuti nel bilancio di previsione approvato l'anno prima. O peggio ancora, d'aver proposto dati falsi.

Insomma, per il governo l'«incidente tecnico» equivale a una verginità perduta. C'è un'unica via per superare l'incidente: cucinando le riforme che servono al Paese, mostrando una rinnovata compattezza, al di là dei voti di fiducia sventolati come bandierine.

Michele Ainis

13 ottobre 2011 07:38© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_ottobre_13/ainis_chirurgia-plastica_414c1c80-f558-11e0-9479-439a0eb41067.shtml
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« Risposta #104 inserito:: Ottobre 28, 2011, 05:39:01 pm »

LA PARALISI DELLA LEGISLATURA

Quelle Camere ormai bloccate


Il Parlamento parla, come no. O meglio strepita, gesticola, s'azzuffa; ma decisioni nisba. Appena 42 leggi d'iniziativa parlamentare approvate in questa legislatura, però soltanto una negli ultimi 6 mesi. Se aggiungiamo quelle scritte sotto dettatura del governo (i tre quarti del totale), la cifra cresce un po', ma poi neppure tanto. È il capitolo - per esempio - dei decreti legge, sparati a raffica dal IV gabinetto Berlusconi con una media di 2 provvedimenti al mese; ma guardacaso adesso non ce n'è più nemmeno uno da convertire in legge.

Sarà che sono tutti stanchi, deboli, influenzati. O forse dipenderà dal fatto che il Parlamento, per questa maggioranza, è diventato un luogo di tortura. Troppo pericoloso mettergli carne sotto i denti, quando alla Camera ti capita d'andare sotto per 94 volte (l'ultimo episodio mercoledì). E meno male che t'aiuta l'opposizione, le cui assenze - come ha documentato Openpolis - sono risultate determinanti nel 35% delle votazioni. Sicché come ti salvi? Rinviando tutto alle calende greche. Anche i provvedimenti che stanno a cuore al premier, come la legge sulle intercettazioni: sparita dal calendario dei lavori. La Conferenza dei capigruppo ha avuto un soprassalto di prudenza, e ha deciso di non decidere.

Non che le Camere abbiano ormai chiuso i battenti. Nell'arco della XVI legislatura si contano 535 sedute per i deputati, mica poco. Ma a quale scopo? Per ascoltare annunci di riforme che non vedranno mai la luce, come l'obbligo costituzionale del pareggio di bilancio, cancellato anch'esso dal calendario di novembre. Per votare mozioni (539), risoluzioni (96), atti d'indirizzo: insomma, chiacchiere. O altrimenti per esprimere fiducia nei riguardi del governo, un tormentone che fin qui si è ripetuto in 51 casi. Trasformando l'esecutivo in un fidanzato trepidante: mi ami, ti fidi del mio amore? Dimmelo di nuovo, la volta scorsa non ho sentito bene.

È la parabola finale della legislatura: un governo commissariato dall'Europa, un Parlamento commissariato dal governo. D'altronde è proprio così che è cominciata. Negando alle assemblee legislative il loro mestiere principale, spostando l'officina delle leggi nei sottoscala del governo. Con i decreti legge, ma soprattutto con i decreti legislativi: 143, in media 4 al mese. Oppure sequestrando le due Camere con i maxiemendamenti, che oltretutto rendono le nostre leggi assolutamente incomprensibili. Ora siamo all'ultima stazione: siccome il governo non si fida più della propria maggioranza, ha deciso di mandare il Parlamento in quarantena.

Un bel guaio per la democrazia italiana, non foss'altro perché si spegne l'unica sede istituzionale in cui le opposizioni hanno spazio e voce. Perché inoltre l'eclissi delle Camere sbilancia il sistema dei poteri, togliendo un contrappeso al peso del governo. Perché infine la loro inerzia semina discredito sulla forma di governo, dunque sulla Costituzione che l'ha disegnata. Ma almeno in questo caso la responsabilità è tutta politica, non delle istituzioni. Non è vero che il Parlamento sia sempre un treno a vapore: nel luglio 2008 il lodo Alfano venne licenziato in 4 settimane. È vero tuttavia che questo Parlamento giace su un binario morto. E a questo punto non servono più cure, ci vuole un'autopsia.

Michele Ainis

28 ottobre 2011 07:41© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_ottobre_28/quelle-camere-ormai-bloccate-michele-ainis_bd55a316-0122-11e1-994a-3eab7f8785af.shtml
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