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« Risposta #60 inserito:: Marzo 20, 2009, 11:33:31 am » |
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In cinque anni già dati permessi per 94 milioni di metri cubi
Il Veneto e il piano inutile: case sufficienti fino al 2022
Negli anni Ottanta si costruivano 10 milioni di metri cubi di capannoni, saliti fino a 38 milioni nel 2002
MILANO - Tirar su l'equivalente d'una palazzina di tre piani alta dieci metri, larga 10 e lunga 1.800 chilometri può davvero rilanciare l'Italia «nel pieno rispetto dell'ambiente», come dice Claudio Scajola? In un paese dove solo lo 0,97% degli abusi «non sanabili» è stato demolito? Auguri. Tanto più che una regione simbolo qual è il Veneto, stando a uno studio universitario, ha già oggi tante abitazioni e cantieri aperti da soddisfare la domanda di case, onda immigratoria compresa, fino al 2022. Se poi dovesse calare l'immigrazione, fino al 2034. Quando l'oggi giovanissimo Pato sarà già in marcia verso la cinquantina.
Prendiamo la tabella dei metri quadri a disposizione oggi degli europei. Ogni italiano ha in questo momento 36,3 metri quadri di casa. Cioè quasi il doppio di un ceco o di un ungherese, più o meno quanto un francese o uno spagnolo (che vivono in territori enormemente più vasti), un po' più di un greco o di un belga. Davanti a noi stanno più comodi i tedeschi (41,3 metri quadrati a testa), gli svedesi (43,6) gli olandesi (48,3), gli austriaci (50,4), i danesi (53) e gli inarrivabili abitanti del Lussemburgo, uno staterello urbanizzato che svetta con 62,7 metri pro capite, ma per la particolarità e dimensione non andrebbe manco messo nel mazzo. Si dirà: «Visto? Siamo nella media». Vero. Tutti gli europei che hanno case più grandi, però, hanno due caratteristiche. O godono di spazi molto maggiori dei nostri, come gli austriaci che hanno il doppio di territorio pro capite di noi o gli svedesi che ne hanno quasi il decuplo. Oppure, a differenza di noi che abbiamo il 33% della superficie montagnosa e forestale, vivono in territori molto più pianeggianti, quali i tedeschi, gli olandesi o i danesi, il cui cucuzzolo più alto, il Moellehoi, svetta a 170 metri e 86 centimetri sul livello del mare.
Per capire quanto pesino queste differenze basta rileggere gli atti di un seminario di qualche anno fa promosso tra gli altri dalla allora presidente provinciale leghista Manuela Dal Lago sul consumo del suolo in una delle province forti dell'Italia, Vicenza. Seminario dal quale emerse che l'uomo, in tutta la sua storia, aveva occupato dall'età della pietra ai primi anni Cinquanta 8.674 ettari. Per poi occuparne, nell'ultimo mezzo secolo, molto più del doppio: 19.463. Una colata di cemento che ha stravolto la campagna descritta da Goffredo Parise e Luigi Meneghello fino al punto che il calcolo della «impronta ecologica» (un indice che attraverso sistemi complessi misura il livello dei nostri consumi) ogni vicentino si ritrova oggi a disporre di poco più di tremila metri quadri di territorio, ma ne consuma per 39.000.
Una scelta obbligata per uscire da secoli di fame, miseria, emigrazione? In parte, se è vero che nella seconda metà del Novecento l'aumento della popolazione non ha superato il 32% e la superficie urbanizzata è aumentata dieci volte di più: 324%. Un'accelerazione spettacolare, ma accompagnata da contraccolpi sul paesaggio, sull'inquinamento, sulla viabilità. E addirittura accentuata nell'ultimo decennio del Novecento con un aumento della popolazione del 3% (52 mila abitanti in più dei quali 37 mila immigrati) e un'impennata dell'edilizia abitativa del 13%. Per non dire della parallela impennata industriale che, seminando dubbi perfino fra i più eccitati esaltatori del mitico Nordest, portò a un dato paradossale: ogni neonato vicentino arrivato nel decennio si ritrovava in dote un blocco di 3.718 metri cubi di calcestruzzo. Il tutto distribuito non uniformemente, ma quasi sempre in pianura. Esattamente come nel resto del Veneto dove, tolti quelli di montagna e larga parte di quelli collinari, i 444 comuni adagiati nell'ormai ex campagna hanno quattro o cinque aree industriali ciascuno se non, in certi casi, otto o nove.
Il prezzo? Elevatissimo, rispondono gli esperti: ogni miliardo di euro di crescita reale in più sarebbe costato un consumo di mille ettari di campagna. Il che significherebbe, appunto, che se avesse ragione il ministro Scajola a sostenere che il «piano casa» può mettere in moto 60 miliardi di euro, questo porterebbe a occupare come minimo 60 mila ettari di territorio con l'equivalente in cemento d'un mostro come quello calcolato all'inizio. Ne vale la pena? Mah... Una ricerca di Tiziano Tempesta, ordinario del Dipartimento Territorio dell'Università di Padova, lascia qualche perplessità. Almeno nel Veneto. E non solo sul piano dell'ambiente, del paesaggio, delle margherite e delle violette.
Spiega il professore che non solo una nuova colata di cemento rischia di dare il colpo di grazia a una pianura dove negli anni Ottanta si costruivano mediamente 10 milioni di metri cubi di capannoni l'anno saliti via via fino a una mostruosa quota di 38 milioni nel 2002, tirati su spesso solo per approfittare della Tremonti Bis e oggi malinconicamente vuoti. Ma che la case a disposizione sono già più che abbondanti. Se è vero che lo standard di riferimento per ogni programmazione di questi anni è stato di 120 metri cubi per abitante (cioè 40 metri quadri: quattro più dell'attuale media nazionale), «tra 2001 e 2006 sono state rilasciate concessioni edilizie per nuove abitazioni o ampliamenti per un volume pari a 94,6 milioni di metri cubi» contro un aumento della popolazione intorno all'1% l'anno. Risultato: sono già state costruite in questi anni «abitazioni sufficienti a dare alloggio a circa 788.000 persone». Il triplo delle 243.000 in più (in buona parte straniere) registrate.
Morale: se anche proseguissero (difficile, di questi tempi) gli «elevatissimi tassi d'immigrazione degli ultimi anni, le concessioni edilizie» già rilasciate saranno «sufficienti a soddisfare la domanda di case per i prossimi 13 anni». Con un tasso immigratorio ridotto a quello (che già era alto) degli anni Novanta, basterebbero per altri 25. Fino, appunto, al lontano 2034. Non basta. Nello studio di Tempesta si sottolinea una contraddizione che farà drizzare le orecchie a diversi: negli ultimi anni di risacca segnati da un calo del manifatturiero del 5,6%, «uno dei motori dell'immigrazione è stato il boom edilizio: il 65% dei nuovi posti di lavoro creati nel Veneto dal 2001 al 2006 ha riguardato il settore delle costruzioni».
Non basta ancora: «Analizzando i dati Istat sul rilascio di concessioni edilizie e sul valore aggiunto del settore costruzioni, si può stimare che nel Veneto, per aumentare dell'1% il prodotto interno lordo, sia necessario realizzare ogni anno non meno di 6,5 milioni di metri cubi di abitazioni, pari a una capacità insediativa aggiuntiva di circa 55.000 abitanti». Irreale, secondo i demografi. Tanto più se qualcuno puntasse a 55 mila neonati di «pura razza Piave». E allora? Allora «non sembra plausibile che, in una situazione di crisi del credito e di eccesso di offerta di abitazioni» la faccenda possa tradursi davvero in un affare. Se poi ci mettiamo anche le ferite che rischiano di essere inferte al patrimonio artistico e monumentale che è il tesoro dell'Italia...
Gian Antonio Stella 20 marzo 2009
da corriere.it
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« Risposta #61 inserito:: Marzo 23, 2009, 11:17:07 am » |
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I croati autorizzano l'apertura: un segnale di riconciliazione per entrare nell'Ue
Zara, dopo 65 anni torna l'asilo italiano
Dopo interminabili trattative il via libera nella città ex vanto della Serenissima: sarà inaugurato in autunno
«Din din. Chi xé? L'angiolin. Cossa el vòl? Un color. Che color? Bianco! Che color? Rosso! Che color? Verde!». Sessantacinque lunghissimi anni dopo, nei campielli di Zara i bambini torneranno a fare i girotondi con le filastrocche di un tempo. Ormai è fatta: ancora pochi mesi e in autunno, dopo interminabili trattative, nella città di San Simòn e Sant'Anastasia sta per aprire un asilo per bambini di lingua italiana. Una notizia piccola piccola. Eppure storica. L'anima veneziana di quella dolce contrada serenissima, infatti, pareva ormai irrimediabilmente perduta. Che l'antica Jadera voluta da Cesare Augusto con un cardo (la Calle Larga), un decumano (Via Roma) e un foro, fosse fino a pochi decenni fa la più veneziana di tutte le città dalmate lo sapeva anche l'imperatore Francesco Giuseppe che, sbarcato nel 1875 sull'isola lunga un po' più di un chilometro e larga mezzo e unita dal '600 con un ponte alla terraferma, salutò le autorità locali così: «Buon giorno, signori».
Era allora, la cittadina, una specie di sestiere serenissimo con 72 calli e 15 campielli protetto da mura nelle quali si aprivano due grandi porte. Quella di Terraferma aveva un Leone marciano che nel 1953, durante un'accesa manifestazione nazionalista anti-italiana, sarebbe stato amputato a martellate delle zampe anteriori, quella Marina aveva un San Grisogono a cavallo. Si parlava veneziano, si rideva veneziano, si mangiava veneziano. Come scrisse un secolo fa Luigi Federzoni, che sarebbe poi diventato presidente del Senato e dell'Accademia d'Italia, «Venezia non partorì mai, nella sua lunga e copiosa maternità, figliola più somigliante di questa, né più degna, né più devota. Zara è adorabile. Zara dovrebbe essere in cima ai pensieri di tutti gli italiani. Per il labirinto delle calli pittoresche formicola tanta festevole, graziosa e appassionata venezianità».
Uno scrigno prezioso, incorniciato dalla bellezza mozzafiato dell'arcipelago delle Coronate. «Nella via Larga - scriveva Giuseppe Madrich nel 1892 - vedete sfilare un mondo supremamente aggraziato: dame dal portamento principesco e maestoso, signorine vispe, gaie, slanciate come gazzelle, cavalieri galanti, perfetti, cortesissimi. Le mode più recenti, le stoffe più ricercate danno l'intonazione all'ambiente. È un gusto squisitissimo di toelette, da gareggiare con qualunque altro centro europeo. Perfino le sartine sfoggiano, nel loro vestitino, ricercatezza ed eleganza ». Ai tavoli dei caffè si sorseggiava il maraschino fatto con certe ciliegie squisite ed esportato ovunque: «Se ne beve alle tavole signorili della più alta aristocrazia d'Europa, se ne serve nei pranzi di gala a corte; se ne smercia in America, nelle Indie, nel Giappone, in China, in Egitto. Il suo grato profumo è una poesia, il suo sapore è un idillio...».
Era un piccolo mondo legato a Venezia da un amore che si può capire solo rileggendo lo straziante addio alla patria pronunciato nel 1797, ammainando la bandiera, da Giuseppe Viscovisch, Capitano di Perasto, l'ultimo baluardo della Serenissima a cedere alle truppe napoleoniche: «Par 377 ani le nostre sostanse, el nostro sangue, le nostre vite, le xe senpre stae par Ti, San Marco; e felicisimi sempre se gavemo reputà, Ti co nu, nu co Ti; e sempre co Ti sul mar». Un piccolo mondo sopravvissuto quasi intatto ai francesi e agli austriaci e spazzato via nell'inverno 1943-44 da 54 pesantissimi bombardamenti aerei anglo-americani che distrussero oltre l'85% degli edifici. Un bombardamento feroce e insensato, rispetto allo scarso valore militare o strategico della cittadina. Dovuto per alcuni all'insipienza, per altri a notizie false passate apposta agli alleati dai titini perché fosse spazzata via per sempre quell'isola venezianissima dalla Dalmazia destinata ad essere slavizzata.
Certo è che nel 1945, dopo un esodo di massa che aveva preceduto quello delle altre città istriane e quarnerine e aveva avuto un sanguinoso strascico di vendette, nella «Zadar» ormai slava erano rimaste in tutto, secondo qualche storico, dodici famiglie italiane. Pareva finita, la storia veneziana di Zara. Finita. Per decenni e decenni erano rimasti solo una giunta comunale in esilio che si era data come sindaco lo stilista Ottavio Missoni, alcune fabbriche di maraschino trasferite nel Veneto come la celebre Luxardo, i groppi in gola di tanti zaratini che sospiravano sulla patria perduta. E via via, con lo scorrere del tempo, gli ultimi bambini italiani che avevano giocato laggiù tra le calli di San'Elia o di Campo Castello, sono diventati vecchi.
Il tempo però, talvolta, medica davvero le ferite. Merito dell'aspirazione dei croati a entrare nella nuova comune casa europea a dispetto dell'ostilità degli sloveni che si mettono di traverso per una bacinella di acqua territoriale nel golfo di Pirano, merito di una maggiore serenità nei rapporti che puntano finalmente a una riconciliazione al di là dei torti dell'una e dell'altra parte, merito del paziente lavoro di ricucitura e di mediazione avviato da anni dall'Unione Italiana. Fatto sta che dopo un lungo percorso diplomatico perseguito soprattutto dal deputato istriano a Zagabria Furio Radin e dal presidente dell'Unione Maurizio Tremul, il «sogno impossibile» sta appunto andando in porto: 65 anni dopo, a Zara, riaprirà un asilo per piccoli italiani dove si manderanno a memoria le poesiole di una volta: «Ghe gera na volta / Piero se volta, / casca na sopa / Piero se copa / casca un sopin / fa un tombolin». Per ora sarà solo una sezione dell'asilo croato. Ma forse è meglio così: bambini slavi e italiani insieme. I loro nonni si sono già fatti troppo male.
Gian Antonio Stella 23 marzo 2009
da corriere.it
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« Risposta #62 inserito:: Marzo 31, 2009, 03:36:43 pm » |
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I casi dei bambini costretti a tornare in patria
Alidad, a 12 anni in fuga dai talebani
Ma l'Italia l'ha respinto: «Fuori!»
Il padre è stato assassinato, lui ha viaggiato per tre anni In Italia era arrivato a bordo di un Tir Alidad Rahimi, 12 anni, afghano, respinto poche ore dopo essere sbarcato ad Ancona
Non l'hanno mica chiesto al piccolo Alidad, perché fosse scappato dal Paese degli aquiloni e dell'orrore. Avrebbero saputo che suo papà era stato assassinato dai talebani, che a 9 anni era scappato con la mamma e i fratellini in Iran, che aveva impiegato mesi e mesi per arrivare clandestinamente lì al porto di Ancona e insomma aveva diritto a essere accolto. Come rifugiato politico e come bambino. Ma non gliel'hanno chiesto. Come non lo chiedono ogni giorno a decine e decine di altri. L'hanno caricato su una nave e spedito via: fuori! A dodici anni.
Eppure le leggi italiane e quelle europee, come sarà ribadito oggi in un convegno a Venezia con Massimo Cacciari, Gino Strada, i rappresentanti di Amnesty International e altre organizzazioni umanitarie, sarebbero chiarissime: non si possono respingere alla frontiera tutti quelli che arrivano così, all'ingrosso. Certo, il questore (anche senza il via libera del magistrato, secondo l'interpretazione più dura) può decidere il «respingimento con accompagnamento alla frontiera nei confronti degli stranieri che sottraendosi ai controlli di frontiera, sono fermati all'ingresso o subito dopo», ma con eccezioni. Le regole «non si applicano nei casi previsti dalle disposizioni vigenti che disciplinano l'asilo politico, il riconoscimento dello status di rifugiato ovvero l'adozione di misure di protezione temporanea per motivi umanitari». Ovvio: non si possono ributtare le vittime in pasto ai carnefici. Così come la Francia, per fare un solo esempio tratto dalla storia nostra, non riconsegnò il futuro presidente della Repubblica, Sandro Pertini, agli assassini fascisti di Giacomo Matteotti.
Sui minori, poi, l'articolo 19 del Decreto legislativo 28 gennaio 2008, che neppure la destra al governo ha toccato (anche per rispettare la convenzione di New York sui diritti del fanciullo) è netto. Punto primo: «Al minore non accompagnato che ha espresso la volontà di chiedere la protezione internazionale è fornita la necessaria assistenza per la presentazione della domanda. Allo stesso è garantita l'assistenza del tutore in ogni fase della procedura per l'esame della domanda...». Punto secondo: «Se sussistono dubbi in ordine all'età, il minore non accompagnato può, in ogni fase della procedura, essere sottoposto, previo consenso del minore stesso o del suo rappresentante legale, ad accertamenti medico-sanitari non invasivi al fine di accertarne l'età». Punto terzo: «Il minore deve essere informato della possibilità che la sua età può essere determinata attraverso visita medica, sul tipo di visita e sulle conseguenze della visita ai fini dell'esame della domanda. Il rifiuto, da parte del minore, di sottoporsi alla visita medica, non costituisce motivo di impedimento all'accoglimento della domanda, né all'adozione della decisione».
E allora, chiede l'avvocato Alessandra Ballerini che con un gruppo di altri legali ha preparato un esposto alla Corte Europea dei diritti dell'uomo, come può l'Italia ignorare nei fatti, nei porti di Ancona, Bari, Brindisi o Venezia, quanto riconosce sulla carta? Come si possono respingere le persone caricandole sbrigativamente sulle navi, dalle quali sono sbarcati appesi sotto i Tir o assiderati nelle celle frigorifere, senza controllare neppure se sono in fuga da dittatori sanguinari? Come si possono buttar fuori uomini, donne, bambini senza neppure farli parlare con un interprete o un avvocato, così come dicono ad esempio decine e decine di testimonianze raccolte da giornalisti e operatori sociali quali Alessandra Sciurba, tra i disperati accampati nella baraccopoli di Patrasso? Risposta standard: mica li rimandiamo in Afghanistan o in Iraq, li rimandiamo in Grecia da dove erano venuti. Vero, in astratto. In realtà, spiega la denuncia, l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati consiglia ufficialmente «i governi dei Paesi che hanno sottoscritto il Regolamento di Dublino di non rinviare i richiedenti asilo in Grecia» perché lì «nell'assegnazione dello status di rifugiato non sono garantite al momento le più basilari tutele procedurali». I numeri, accusa il Consiglio Italiano per i Rifugiati, dicono tutto: «La percentuale di riconoscimenti dello status di rifugiato in Grecia è prossima allo zero: nel 2007 è stata dello 0,4%, nel 2006 dello 0,5...». Le obiezioni di quanti sbuffano sono note: «Troppo comodo, spacciarsi tutti per rifugiati politici!». Sarà... Ma anche ammesso che qualcuno faccia il furbo facendosi passare per un perseguitato, le regole internazionali vanno rispettate.
E queste regole dicono che ogni singola persona ha diritto a essere «pesata». Succede? Prendiamo Venezia. Partendo dalle parole della Responsabile del Consiglio Italiano Rifugiati, Francesca Cucchi, a un convegno di qualche mese fa. Come mai le autorità portuali avevano denunciato dal gennaio 2008 ad allora 850 clandestini se il Cir era stato informato solo di 110? E gli altri 740? Tutti caricati sulle navi e ributtati indietro senza controllare se avessero o meno diritto allo status di rifugiati? Una cosa è certa: ammesso (e non concesso) che alcuni si spaccino per rifugiati, certo è che nessun adulto può spacciarsi per un bambino. Ed era un bambino quell'Alidad Rahimi scacciato a 12 anni dopo che ne aveva passati tre a sfuggire attraverso l'Iran e la Turchia e la Grecia ai talebani che gli avevano ammazzato il padre ed era sbarcato solo per poche ore ad Ancona dentro la pancia di un camion. Era un ragazzino Alisina Sharifi che a 14 anni era scappato ai guardiani della fede afghani ed era arrivato in Italia semiassiderato per essere buttato fuori appena ripresi i sensi. Era un ragazzino Salahuddin Chauqar, scappato dall'Afghanistan quando aveva sette anni e arrivato dopo mille odissee, nascosto in un Tir, a Venezia: «Il ricorrente continuava a ripetere di avere 15 anni e di voler chiedere asilo ma i poliziotti lo costringevano a firmare due fogli a lui incomprensibili (...) Il ricorrente veniva poi condotto a forza in una cabina di ferro all'interno di una nave diversa da quella con la quale era arrivata e rinchiuso con altri 3 minorenni, fino all'arrivo a Patrasso». Certo era più comodo commuoversi per il piccolo Marco in viaggio «dagli Appennini alle Ande»...
Gian Antonio Stella 31 marzo 2009
da cortriere.it
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« Risposta #63 inserito:: Aprile 07, 2009, 10:32:45 am » |
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La Terra impazzita e i giuramenti mai mantenuti
di Gian Antonio Stella
«Bare. Mandate altre bare». «Ancora? ». «Ancora». Alle quattro del pomeriggio, tra i ciliegi e i meli in fiore di Onna, l’antica Villa Unda nota al papa Clemente III, è già chiaro che non bastano, tutte quelle casse di legno chiaro fatte arrivare a più riprese fin dalla mattina e allineate da una parte, sotto il tronco di una robinia. Un poliziotto stende sull’ultimo poveretto estratto dalle macerie, infagottato tra coperte e lenzuola, un pezzo di nastro adesivo da pittori. Ci scrive un nome col pennarello.
Non c’è un passero che voli, nel cielo azzurro di Onna. Non una rondine che sfrecci. Non una cinciallegra che canti. Solo il silenzio. Un silenzio gonfio di disperazione. Rotto solo dal pianto di qualche parente e dal rumore dei caterpillar che affondano le pale tra le rovine tirando su enormi cucchiaiate di quotidianità annientata. Frigoriferi sepolti sotto tonnellate di pietra con una confezione di uova rimaste miracolosamente intatte che si rompono rotolando via nella polvere. Stufe a gas. Credenze dai vetri scoppiati coi bicchierini del vermouth della domenica rovesciati tutti da una parte. Spalliere di ottone che emergono tra i travi e i mattoni luccicando gialle sotto il sole.
Silvio Berlusconi, che si è precipitato nel cuore di questo Abruzzo ferito annullando il viaggio in Russia dove era in programma una missione a fianco degli imprenditori, ha un maglioncino nero, la faccia nera e assicura che «nessuno verrà lasciato solo» ma la situazione è davvero pesantissima: «Per quanto riguarda il centro storico di L'Aquila c'è inagibilità assoluta: tutti gli edifici pubblici sono inagibili».
Invita «gli abitanti a non restare nelle case lesionate: se si ha la possibilità di portare famiglia e bambini da amici e parenti, è meglio dislocarsi altrove». Ammette che no, «non c'è nessuna possibilità di effettuare previsioni: non c'è nessuno che può dire che non ci saranno scosse nelle prossime ore o nei prossimi giorni».
Gli aquilani del centro storico e delle frazioni vicine si accoccolano spossati sui sedili delle auto parcheggiate il più lontano possibile dalle case e sospirano come don Mauro, il parroco della contrada di Sant’Elia dove il campanile si è piegato tutto da una parte e minaccia di cadere sulla canonica e la chiesa dedicata a San Lorenzo pare colpita da una granata che abbia buttato giù l’intera facciata a destra del portone e sventrato l’interno risparmiando solo la statua del santo, bianca come un fornaio.
«Si dovrà capire, poi, questa storia dell’esperto. Si dovrà capire perché non gli hanno dato retta». Ecco il dubbio che ronza nella testa di tutti: perché non è stato ascoltato Giampaolo Giuliani, il ricercatore che nei giorni scorsi aveva lanciato l’allarme avvertendo che sarebbe arrivato uno scossone devastante? «L’avevano perfino denunciato», borbotta don Mauro, sistemandosi il colletto bianco rigido slacciato, «Perfino denunciato. E invece aveva ragione lui».
Un vigile del fuoco sfatto di fatica tiene al guinzaglio un cane che tira di qua e di là annusando la morte. L’uomo si toglie la mascherina, risponde al cellulare, cerca di mettere insieme l’ennesimo bilancio. Cento morti, forse. Forse di più. Forse centocinquanta. Più di centocinquanta. A L’Aquila, dove si è accasciata la Prefettura e si è piegata tutta da una parte la Casa dello studente e si è schiantato su se stesso un condominio che svettava su un sereno giardino di pini il cui profumo si fa largo con un soffio, appena c’è un refolo di vento, tra la polvere sollevata dalle ruspe. A Paganica, la patria di Sallustio ai piedi del massiccio del Gran Sasso dove passava la via romana Claudia e dove è crollato il monastero di San Chiara ed è stata devastata la Chiesa grande. A San Pio delle Camere, che sta adagiato ai piedi del monte Gentile e prima di finire sui giornali il giorno in cui il suo paesano Franco Marini diventò presidente del Senato, era famoso per lo zafferano, che è così delicato ed esposto ai capricci del tempo che «un anno t’arricca e uno ti spianta».
La vecchia signora Rita viveva in via Massale, ai bordi di Onna. Una casetta come tante, a due piani. Prima di andare a letto, aveva accomodato ordinatamente la camicetta e la gonna su una sedia posata contro il muro della camera. La casa è venuta giù ma la sedia è rimasta lì. Al suo posto. Salda su un orlo del pavimento rimasto miracolosamente aggrappato alla parete azzurra. Dove spiccano un crocefisso e il quadretto di una madonnina. La ruspa scava sotto gli occhi dei figli, che assistono inebetiti. A un certo punto un pompiere fa un gesto. La ruspa si ferma. Un vigile si china e tira su una coperta. Poi una trapuntina. Poi un lenzuolo. Ci siamo, forse. «Indietro! Per favore, indietro », chiede un poliziotto. «È lei?» «È lei».
Il parco giochi della scuola materna, coi suoi castelletti e gli scivoli e i tavolini e i recinti gialli e rossi e verdi e blu è rimasta l’unica cosa colorata della contrada. Tutto il resto, nella devastazione che ha annientato in pochi istanti due terzi del paese sfregiando l’ultimo terzo con crepe e finestre accecate e cornicioni precipitati al suolo, ha assunto un uniforme colore grigiastro. Il vecchio Giuseppe, il viso segnato dal sangue di una ferita alla fronte che non è ancora riuscito a lavare via, mostra la distruzione della cascina e del cortile e delle tettoie dove teneva le macchine agricole: «Io e mia moglie ci siamo salvati per un pelo. Fortuna. Vuol sapere la cosa più assurda? Si è sentito uno schianto e ci tremava la terra sotto i piedi e venivano giù le pareti e io mi sono trovato a imprecare: “Le scarpe! Dove ho messo le scarpe?”».
Suor Lucia, che con le consorelle si è sistemata su alcune seggiole davanti a ciò che resta del «Pontificio Istituto Maestre Pie Filippini», si lagna per la gamba. Si è buttata sulle ginocchia una coperta ma dice che non è servita a molto. Dolori. Dolori forti. «Siamo qui da stanotte. Ormai sta scendendo la sera e non abbiamo idea di cosa fare». Dalla vicina Casa dello studente, quando già comincia a calare la luce, salgono urla di gioia. Hanno trovato i ragazzi che erano sotto. Vivi. Si rivelerà un’illusione, ma per un po’ sembra un miracolo. Suor Lucia pensa che è merito anche delle preghiere di santa Lucia Filippini, che è riuscita a rimanere dritta sulla sua colonnina mentre tutto intorno crollava e si è guadagnata un posto accanto al buon Dio grazie al fatto che, come dicevano i santini di un tempo, «scansava le amicizie delle compagne cattive che avvelenano coi loro vizi le anime innocenti e si guardava dalla vanità ».
Quel che è sicuro, a girare per le strade del capoluogo e dei borghi dei dintorni e a vedere come sono andati giù anche certi edifici costruiti dieci o venti anni fa, è che un Paese come il nostro non può affidarsi a santa Lucia o a sant’Emidio, protettore dai terremoti. Sull’elenco telefonico di Los Angeles appena aperto, come ricordò un giorno Giorgio Dell’Arti, c’è una frase: «Ci saranno sempre terremoti in California». A seguire, tutte le istruzioni su come comportarsi: tenere a portata di mano torce e radio con batterie, una valigetta con il materiale minimo di pronto soccorso, dieci litri d’acqua… Certo, tutto ciò non basta quando la terra, per usare la frase sentita ieri ad Onna in bocca a una ragazzina che trema come una foglia al ricordo, «comincia a sbattere come la coda di un drago impazzito». Ma i morti sì, possono essere limitati. I danni sì, possono essere contenuti, quando le case sono costruite con i progetti giusti e gli accorgimenti giusti e i materiali giusti. E nessuno dovrebbe saperlo meglio di noi italiani. Che viviamo in una terra tra le più inquiete di un mondo in cui avvengono ogni anno un milione di terremoti piccolissimi e tra questi almeno un centinaio del quinto grado della scala Richter, cioè uno ogni tre-quattro giorni e ogni tanto ne arriva uno che sconquassa tutto. E per giorni giurano tutti che basta, occorre cambiare le regole e bisogna adottare una volta per tutte i sistemi che aiutano a limitare i danni perché è stupido spendere i soldi come per decenni ha fatto lo Stato che secondo i dati del Servizio geologico nazionale è riuscito a spendere solo dal 1945 al 1990 per tamponare i danni di catastrofi naturali varie oltre 75 miliardi di euro e cioè quasi 140 milioni di euro al mese. Più quelli spesi dal 1990 in qua per il sisma nella Sicilia Orientale nel dicembre 1990 e per quello nell’Umbria e nelle Marche del settembre 1997 e per quello a San Giuliano di Puglia dell’ottobre 2002… Tutti lutti seguiti da una promessa solenne: mai più. E presto dimenticata sotto la spinta di nuovi condoni, nuove elasticità urbanistiche, nuove regole più generose…
Mentre cala la notte, nei paesi sotto il Gran Sasso la terra, ogni tanto, dà un nuovo scossone. Piccolo. Leggero. Sinistro. Così, tanto per ricordare chi comanda.
07 aprile 2009
da corriere.it
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« Risposta #64 inserito:: Aprile 08, 2009, 12:31:06 pm » |
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Il terremoto in abruzzo
Eroi e vecchi camion, le due Italie
Fantastica dedizione e piccoli egoismi, i contrasti (storici) di un Paese in emergenza
Il caposquadra dei pompieri Marco Cavagna ci ha lasciato la pelle, nel tentativo di salvare quella degli altri. Era partito coi colleghi da Bergamo per L'Aquila all'alba. La sera era già al lavoro tra le rovine della città fantasma. Una fitta e si è accasciato. C’è da sperare che almeno l’ambulanza fosse in ordine. Perché, insieme con tanti eroi ricchi di coraggio e generosità come lui, i vigili del fuoco arrivati da tutto il Paese sono stati costretti a portare in Abruzzo anche vecchi camion scassati.
Bestioni appesantiti da venti anni di servizio o ancora di più. Che a volte, dopo un rantolo del motore, si sono fermati in autostrada e, come certi muli di una volta, non han voluto saperne di ripartire. Eccole qui, le due facce dello Stato sul fronte di quella che Guido Bertolaso ha chiamato «la tragedia del millennio». Due facce complementari, come tante volte accade. Da una parte l’Italia dei vetusti «Fiat Om 90», «AF Combi» o «APS Eurofire» in servizio dai tempi lontani in cui il centravanti della nazionale era Paolino Rossi, carrette di lamiera che dopo essere state lasciate «dieci anni nei capannoni » (parole di un comunicato ufficiale del sindacato di base Rdb-Cub) sono finite «fuori uso per problemi di ribaltamento e rotture ai supporti del serbatoio dell’acqua» e abbandonate lungo il percorso.
Dall’altra l’Italia che nel giro di poche ore, in condizioni di assoluta emergenza, riesce a portare a L’Aquila un camion di computer nuovi di zecca, subito allacciati da una squadretta di sistemisti per allestire una centrale operativa d’avanguardia. E non puoi arrabbiarti con la prima Italia senza guardare con ammirazione quell’altra. Non puoi sentirti orgoglioso di come sgobbano i carabinieri e i poliziotti, le guardie di finanza e i forestali e tutti gli altri senza ribollire d’insofferenza a guardare la mattina, tra le macerie di Onna, la delusione dei volontari della Protezione civile del Friuli, che sono venuti giù coi loro cani e le loro tende e le loro attrezzature e stanno lì impotenti nelle loro divise nuove di zecca che non riescono a sporcare: «Sono già le dieci, siamo qua da ieri sera e nessuno ci ha ancora detto come possiamo renderci utili. Che modo è?».
È l’Italia. La «nostra» Italia. Piccoli egoismi e fantastica dedizione, efficienza e sciatteria, ripiegamenti individualisti e straordinario altruismo di uomini e donne accorsi da tutte le contrade a dare una mano. Nonostante le paure per uno sciame sismico che pare non finire mai. I cani, nel centro del capoluogo, sono nervosi. Sembrano sentirli prima, loro, gli scrolloni della terra. Gli esperti dicono che è così da sempre. Che secondo Diodoro Siculo, pochi giorni prima che un sisma annientasse la città greca di Elice, nel Peloponneso, nel 373 a.C., i ratti e le donnole e i serpenti avevano abbandonato la città. E che tre giorni prima della spaventosa scudisciata che qualche tempo fa sconquassò la cinese Mianzhu uccidendo duemila persone, migliaia di rospi in fuga si erano riversati per le strade. E che gli etruschi, per capire, guardavano le vipere. Come noi oggi, mentre i sismologi si avventurano tra i diagrammi, ci accorgiamo di buttare un occhio, inquieti, su ogni bastardino che scodinzola tra i cornicioni sbriciolati. Mentre una Volante passa per il corso principale con l’altoparlante a tutto volume per cacciare i rarissimi passanti che affrettano il passo: «Via da queste strade! Via da queste strade!».
Il gran Sasso, lassù in alto, domina severo. L’impresario edile Bruno Canali, ai margini di quella Onna in cui le ruspe scavano solchi tra le montagne di macerie per ricostruire il tracciato delle vecchie strade, mostra il suo villino: «Non c’è una crepa ». Spiega che l’ha costruita seguendo «tutti i criteri antisismici». A pochi metri, le altre case si sono sgretolate. Da lui non è caduto un soprammobile. Come fai a non arrabbiarti, a guardare le fotografie della biblioteca della scuola elementare crollata a Goriano Sicoli o, peggio ancora, dell’ospedale (l’ospedale!) dell’Aquila? Sono anni che si sa come si dovrebbe costruire, nelle aree a rischio. Non sono serviti a niente la durissima lezione del terremoto ad Avezzano né gli avvertimenti degli esperti che da decenni ricordano come le zone più esposte siano quella a cavallo dello Stretto di Messina, la Sila in Calabria, il Forlivese, la Garfagnana e la Marsica né il disastro di qualche anno fa in cui morirono i piccoli di san Giuliano. A niente. «Dopotutto non è la natura che ha ammucchiato là ventimila case di sei-sette piani», disse furente Jean-Jacques Rousseau a proposito del catastrofico terremoto di Lisbona del 1755. L’uomo non può sfidare impunemente la natura: questo voleva dire. Non può contare, spensieratamente, solo sulla buona sorte. Eppure così è sempre stato, da noi. E decine di migliaia di persone hanno continuato ad ammucchiarsi disordinatamente intorno al Vesuvio nonostante siano passati solo pochi decenni dall’ultima eruzione del 1944 quando la gente pazza di paura prese a girare con la statua di San Gennaro perché fermasse la lava già bloccata quarant’anni prima dal santo a un passo da Trecase. E migliaia di sindaci e assessori e vigili urbani hanno chiuso gli occhi per anni sul modo in cui, anche nelle zone più pericolose, venivano tirati su spesso con cemento scadente e piloni gracili i condomini e le scuole e gli edifici pubblici. Per non dire di chi aveva le responsabilità più gravi. «Mai più», aveva giurato Silvio Berlusconi nel novembre del 2002, dopo la tragedia di san Giuliano di Puglia. Sono passati più di sei anni, da allora. Ma, come accusava ieri mattina Il Sole 24 ore, il varo delle nuove regole si è via via impantanato di ritocco in ritocco, di rinvio in rinvio, di proroga in proroga. Colpa della destra, colpa della sinistra. Basti ricordare che fu solo la Corte Costituzionale, tre anni fa, tra i lamenti e gli strilli dei costruttori («Siamo molto preoccupati per il rischio di paralisi nei cantieri, si potrebbe bloccare l’edilizia!») a bloccare una legge troppo permissiva della Regione Toscana spiegando che no, «in zona sismica, non si possono iniziare i lavori senza la preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico».
Ed è sbalorditivo, oggi, tornare indietro soltanto di qualche giorno. E trovare la conferma che mai, prima dell’apocalisse di lunedì notte, erano state nominate parole come sisma o terremoti nella proposta edilizia del governo alle Regioni del giugno scorso, mai nella prima bozza di un mese del «piano casa», mai nell’intesa del 31 marzo. Mai. Oggi Claudio Scajola detta alle agenzie che il piano casa «dovrà essere utile anche per le protezioni antisismiche» e il nuovo documento dato alle Regioni, ritoccato l’altro ieri in tutta fretta, ha un «articolo 2» nuovo nuovo. Dove si spiega, sotto il titolo «misure urgenti in materia antisismica» che «gli interventi di ampliamento nonché di demolizione e ricostruzione di immobili e gli interventi che comunque riguardino parti strutturali di edifici, non possono essere assentiti né realizzati e per i medesimi non può essere previsto né concesso alcun premio urbanistico sotto alcuna forma ed in particolare come aumento di cubatura, ove non sia documentalmente provato il rispetto della vigente normativa antisismica».
Evviva. Ci sono voluti i lutti di Onna e la distruzione dell’Aquila e quelle file di bare allineate, però, per cambiare il testo originale dato alle Regioni solo una settimana fa. Dove l’articolo 6, precipitosamente soppresso dopo il cataclisma abruzzese, era intitolato «Semplificazioni in materia antisismica». Meglio tardi che mai. Purché fra una settimana, un mese, un anno, non torni tutto come prima. C’è un Galiani che forse Berlusconi non conosce. Si chiamava Ferdinando e non Adriano, aveva una «elle» sola, vestiva l’abito da abate ed era un dotto economista. Disse: «Molte volte le calamità distruggono le nazioni senza risorgimento, ma talvolta sono principio di risorgimento e di riordinamento di esse. Tutto dipende da come si ristorano». Sarà il caso di ricordarlo.
Gian Antonio Stella 08 aprile 2009
da corriere.it
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« Risposta #65 inserito:: Aprile 16, 2009, 12:36:36 am » |
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Sparite le sigle storiche, è il partito più «antico» presente in Parlamento
E il Carroccio dei record compie 25 anni
Passato e presente: quando il capo leghista scriveva slogan sui muri e scappava dalle pattuglie con Maroni
di GIAN ANTONIO STELLA
«Il sistema era questo: Maroni guidava l’auto, mi scaricava con vernice e pennelli, proseguiva e faceva inversione al casello successivo, per poi tornare a prelevarmi. (...) Quella volta arrivò una pattuglia, io me ne accorsi con un attimo di ritardo e quando scavalcai la rete mi avevano già urlato: 'Fermo o sparo' (...)». «Sentii i proiettili fischiare sopra la testa». Umberto Bossi non poteva immaginare, allora, che un giorno lui sarebbe stato il ministro delle Riforme e Bobo il ministro degli interni. Così come mai avrebbe potuto immaginare che la sua creatura sarebbe diventata il più «vecchio» dei partiti italiani. Almeno di quelli presenti in Parlamento.
Primo giuramento di Pontida, 22 maggio 1990: Bossi lancia la Repubblica del Nord (Emblema/Sioli) Certo, nel gruppo misto c’è chi rappresenta la Südtiroler Volkspartei, il Pri o il Pli, che possono a ragione rivendicare storie radicate in un passato più antico se non addirittura nel XIX secolo. Così come i pannelliani eletti coi democratici vantano a buon diritto la longevità del Partito Radicale, che partecipa alla vita politica dal 1955, quando Roberto Calderoli, Luca Zaia e Roberto Cota dovevano ancora nascere. È altrettanto vero però, come notò qualche mese fa il politologo Ilvo Diamanti, che proprio il partito che storicamente nacque per contestare radicalmente la politica, i partiti, il Parlamento e la capitale, proprio il partito ancora oggi percepito dal suo elettorato come l’alfiere dell’opposizione al «sistema », è paradossalmente, oggi, il partito insediato da più tempo, col suo simbolo, sui banchi della Camera e del Senato. Di più: è il partito guidato da più tempo dallo stesso uomo. Tanto da meritare ieri un titolone della Padania che diceva: «Buon compleanno, Lega Lombarda».
«La Lega Nord è al tempo stesso il più 'giovane' e il più 'antico' movimento politico del paese - esultava sul giornale del Carroccio Paolo Bassi -. Con i suoi 25 anni di storia, festeggiati proprio l’altro ieri, il partito fondato da Umberto Bossi rimane il soggetto più dinamico e innovativo fra le forze che competono alle urne in Italia. E al tempo stesso, è il simbolo che vanta più anni di presenza sulle schede elettorali. Tutti gli altri sono scomparsi, mutati, trasformati...». Sono spariti la Dc, il Pci, il Msi, il Psi, il Psdi, il Pds, i Ds, il Ppi e perfino Forza Italia e Alleanza Nazionale... Sono evaporati il Pdup e Democrazia Proletaria e la Nuova Sinistra Unita e la Rete e liste come «Federalismo - Pensionati Uomini Vivi» e la Lega Alpina Lumbarda e l’Alleanza Democratica e il Patto Segni e la Lega d’Azione Meridionale e il Girasole e la Lista Emma Bonino. Per non dire delle decine e decine di partitini spuntati dal nulla ed eclissati nel nulla.
Loro, i leghisti, no. A dispetto non solo degli avversari storici ma degli stessi alleati di oggi. Come Silvio Berlusconi, che dopo la decisione del Senatur di buttar giù il primo governo del Polo delle Libertà, nel ’95, si avventurò in una diagnosi che si sarebbe rivelata sbagliatissima: «Bossi è ormai un cadavere politico». Di più: disse che secondo i suoi sondaggi era «precipitata dall’8 al 4 per cento», che si sarebbe spaccata e che all’ex amico Umberto, che l’aveva messo in croce fin dalla leggendaria «estate della canottiera», quando il segretario leghista si era presentato tra i ricconi della Costa Smeralda con una maglietta da operaio in gita all’Idroscalo, sarebbe rimasto «uno zoccolo duro del 2 per cento». Previsione sventurata. Che sarebbe stata smentita dai fatti e gli sarebbe costata la sconfitta alle Politiche del ’96.
Estate '94: Bossi da Berlusconi in Costa Smeralda. Nella foto Sestini la celebre apparizione in canottiera È vero, nelle due paginate di rievocazione dedicate dal quotidiano leghista alla lunga cavalcata iniziata con quei ponti autostradali marcati con slogan bellicosi (la famosa notte delle pallottole finì così: «Poco dopo arrivò Maroni, non mi vide e si preoccupò. Sbucai dal mio nascondiglio solo dopo mezz’ora, tutto imbrattato di vernice perché m’ero rovesciato addosso il secchio durante la fuga. Povero Maroni, come gli conciai i sedili della macchina nuova!») ci sono diversi vuoti di memoria. Vengono ricordati, ad esempio, l’amicizia nata nel 1979 tra il futuro leader del Carroccio (il primo che ne parlò a livello nazionale fu il Mondo, scrivendo che il capolista a Milano era «Umberto Bossi, un dentista di 42 anni di Varese ») e l’allora consigliere regionale dell’Union Valdôtaine Bruno Salvadori e poi la registrazione nel 1982 della testata Lombardia autonomista e infine la nascita ufficiale, davanti al notaio Franca Bellorini di Varese, il 12 aprile 1984, cioè un quarto di secolo fa, della «Lega autonomista lombarda», che i leghisti vivono un po’ come la madre di tutte le leghe ma non altri passaggi.
Non un cenno, ad esempio, come nelle fotografie comuniste delle cerimonie militari sulla Piazza Rossa in cui venivano volta per volta rimosse le facce dei leader del Pcus caduti in disgrazia, ai tanti altri protagonisti degli esordi. Come Franco Rocchetta, che giura di essere stato il primo a parlare di autonomia «in polacco, nella chiesa di Santa Maria di Danzica, nell’agosto del ’68» e si considera «il padre della madre di tutte le leghe», quella Liga Veneta fondata quattro anni prima della sorella lombarda ma soprattutto la prima forza autonomista a eleggere dei rappresentanti alle elezioni provinciali di Vicenza e comunali a Marostica e Valdagno. Per poi essere la prima, alle Politiche di fine giugno del 1983, a mandare due parlamentari a Roma: al Senato il trevisano Graziano Girardi, che col banchetto da ambulante in giro per i mercati si era fatto la campagna elettorale vendendo mutande e canottiere e alla Camera l’insegnante padovano Achille Tramarin.
Un vuoto di memoria non secondario. Che consente di scrivere oggi che alle politiche del 12 aprile 1987 arriva lo «sbarco» a Roma grazie al voto di 137.276 persone per il Senato e di 186.255 per la Camera che «fanno la croce sul simbolo del Guerriero di Legnano con la spada sguainata ed eleggono per la prima volta due parlamentari leghisti. Sono Umberto Bossi a palazzo madama e Giuseppe Leoni a Montecitorio». Un «ritocco» che non cambia la sostanza delle cose: al di là delle gelosie venete per la primogenitura, dei litigi dei primi anni, dell’equivoco spesso voluto tra «Lega Lombarda» e «Lega Nord», delle espulsioni a catena di chi non era d’accordo (dei dieci fondatori della Lega Nord dopo una manciata di anni ne restavano nel partito solo tre), è fuori discussione che il leader assoluto è Bossi. Fine.
Lui spostò il partito dai rimpianti dialettali alla rivendicazione del «partito dei produttori», lui ne ha fatto un «movimento di raccolta» radicato sul territorio, lui ha rosicchiato giorno dopo giorno spazi alla sinistra fino a conquistare roccaforti rosse che parevano imprendibili, lui è riuscito a conservarne per tre lunghi lustri l’autonomia del Carroccio battagliando giorno dopo giorno non solo con gli avversari ma anche con quel sorridente schiacciassi che è il Cavaliere. Col quale, come dimostra anche il braccio di ferro di questi giorni, ha conservato sempre un rapporto di collaborazione guardinga fino a essere ringhiosa. Pronto perfino ai compromessi più scomodi (basti ricordare i mal di pancia leghisti il giorno del salvataggio di Previti o il recente appoggio a Reggio Calabria area metropolitana) ma mai a cedere un millimetro di libertà d’azione.
E proprio i «vuoti» nella ricostruzione di ieri, in fondo, mostrano come sia cambiata la Lega. Non un cenno al ricordo della «secessione», non un cenno agli anni di insulti sanguinosi a «Berluscaz», non un cenno alle polemiche più ringhiose contro i «terroni» o alle battute sulle «impronte dei piedi da prendere ai negri»... È il passato. Punto. Dice tutto la carrellata di vecchi manifesti. Dove manca proprio quello più famoso, contro «Roma ladrona». Prova provata di come la Lega «di lotta e di governo» sia decisa ad essere realista fino in fondo. Anche se sotto sotto...
15 aprile 2009 da corriere.it
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« Risposta #66 inserito:: Aprile 19, 2009, 04:39:14 pm » |
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L'analisi
Il vero nemico: se tutti diventano terremotati
Ricostruzione, la prassi di allargare gli aiuti. In Campania i comuni salirono da 36 a 687
Chi spartisce gioisce, dice un vecchio adagio. Sarà... Ma certo non vale nel caso delle ricostruzioni dopo le catastrofi. Al contrario, la storia degli ultimi decenni dimostra che gli aquilani dovranno difendersi da un nemico più infido della peste: l'«occasionismo». Che con la scusa di «usare» il disastro come occasione per «una grande rinascita dell'area» potrebbe allargare a dismisura l'area terremotata e disperdere gli aiuti in migliaia di rivoli.Rivoli che, storicamente, hanno finito per premiare i furbi togliendo risorse ai terremotati veri. C’è chi dirà che è troppo presto per porre questo tema. Che questo maledetto sciame sismico non si è ancora placato. Che gli scienziati stanno registrando un continuo spostamento degli epicentri. Che non è ancora chiaro cosa sarà della frattura della crosta terrestre che si è attivata ai piedi del Gran Sasso e dunque è impossibile definire oggi i confini della zona disastrata. Vero. Il passato, però, ammonisce che in questi casi occorre stare in guardia.
Perché, sul fronte della cosiddetta «economia della catastrofe», ne abbiamo viste di tutti i colori. Due esempi? Li racconta Luciano Di Sopra, l'architetto che firmò la relazione sui danni del terremoto e il piano di ricostruzione in Friuli. «Primo caso: dopo la sciagura del Vajont il governo concesse alle vittime dell'onda che aveva spazzato via Longarone una serie di benefici tra cui l'esenzione pluriennale dalle tasse e come finì? Che la licenza d'una bottega di alimentari di Erto fu ceduta, compresa la preziosa esenzione in allegato, a un grande supermercato di Lignano Sabbiadoro, a 120 chilometri di distanza, sul mare. Secondo caso: quale fu il comune che chiese il più alto risarcimento danni in rapporto agli abitanti per il terremoto in Irpinia del 1980? C'è chi risponderà: Sant’Angelo dei Lombardi. No: Maratea. Che stava a più di centoquaranta chilometri dall'epicentro».
Di Sopra, dopo essersi occupato di vari terremoti anche all’estero, dall'Armenia a Città del Messico, si è fatto un'idea precisa: «Più gli interventi sono mirati, più alta è la probabilità di una ricostruzione rapida, efficace, corretta. Più si allargano 'politicamente' i confini dell'area interessata, più si rischia la dispersione dei fondi, l'uso clientelare dei soldi, l'infiltrazione di chi è interessato solo a speculare sulla sventura delle popolazioni.
Con danni gravissimi a chi è stato più colpito. Delineare correttamente l'area colpita è dunque la scelta fondamentale ». Le diverse vicende dei più luttuosi cataclismi degli ultimi decenni questo dicono: la ricostruzione ha dato i risultati migliori là dove si sono concentrati gli sforzi. L'onda assassina del Vajont, il 9 ottobre 1963, devastò tre comuni: Longarone, Castellavazzo ed Erto-Cassio. I morti furono 1.917, i senzatetto 9mila.
«I gera in leto drio dormir / no' s'à salvà gnanca un cussìn », canta Alberto D'Amico: erano a letto a dormire, non si salvò manco un cuscino. La politica fece una scelta: cogliere l'occasione per rilanciare la montagna bellunese minata da secoli di povertà ed emigrazione. Ampliando l’area interessata fino a 18 volte e riconoscendo danni a 42 comuni per un totale di 156mila abitanti. Senza mai rendere giustizia fino in fondo, neanche in tribunale, come ricorda Marco Paolini, a chi aveva perso tutto. Cinque anni dopo, nel Belice, la replica. I comuni devastati dal terremoto di 6,4 gradi della scala Richter la notte del 15 gennaio 1968 sono 13, per un totale di 97mila abitanti. A Gibellina, Poggioreale, Salaparuta e Montevago i morti sono 370. Ma poco alla volta, in nome della solita «occasione» per «rilanciare» l'area, il perimetro viene allargato di nove volte fino a interessare una buona parte della Sicilia occidentale per un totale di 850mila abitanti. Col risultato che trent’anni dopo, nella sola Santa Margherita, ci saranno ancora 150 famiglie ospitate nelle baracche. Anche nel Friuli, piegato nel ’76 da un sisma che uccide 989 persone, devasta 94 comuni e demolisce 200 industrie, rischia di passare la stessa scelta: perché non cogliere l'occasione? I friulani dicono no. E Manzano, come raccontavamo giorni fa, arriva al punto di deliberare in consiglio comunale la rinuncia ad essere inserito tra i centri terremotati. Certo, la definizione dei confini dell' area colpita, a mano a mano che si verificano i danni paese per paese, anche qui si allarga. Ma in dimensione più ridotta: da 94 a 137 comuni, da 256 a 570mila abitanti.
I risultati si vedranno: alla resa dei conti l'intera ricostruzione, sulla quale si innescherà il boom degli anni ’80 e ’90, costerà circa 10 miliardi di euro. Poco più di quanto verrà previsto, in questi giorni, per restituire la vita all'Aquila e all’Abruzzo. O di quanto sarà speso solo per il «piano Napoli» del 1980. Ed è infatti la gestione della ricostruzione in Campania dopo il terremoto del 23 novembre 1980 che più dovrebbe mettere in guardia, oggi, gli abruzzesi. Ricordate? Le due scosse di magnitudo 6,4 della scala Richter per una durata complessiva di un minuto e venti secondi fanno 2.914 morti, circa 9mila feriti, 300mila senzatetto. Una catastrofe apocalittica. Che sconvolge, secondo la prima stima, 36 comuni. Presto saliti a 280 e poi su su fino a 687. Per un’area talmente vasta, chiarirà un rapporto di Legambiente, che non solo coinvolge massicciamente Napoli col progetto di fare «in diciotto mesi ventimila alloggi» (ipotesi fallimentare) ma «la punta più avanzata a nord diviene Teano, ai confini con il Lazio, la linea si chiude a sud con Sapri, sul golfo di Policastro, e a est con Ferrandina, nella piana che finisce sullo Jonio ».
Vista l’aria che tira il sindaco di Grottolella, in provincia di Avellino, fa ricorso al Tar, «pur di vedere il suo paese incluso tra quelli che hanno subìto 'danni gravi'». Quello di Castellabate, sul mare del Cilento, spiega al «Mattino»: «Ci accusano di sciacallaggio sostenendo che non abbiamo avuti danni dal sisma. Facciamo conto che ciò sia vero, per comodità di discorso. Mi dica lei però chi ci avrebbe salvato dall'accusa di omissione di atti di ufficio per non aver fatto ottenere al paese quello che la legge gli concede». E Ciriaco De Mita, il presidente del Consiglio, arriva ad ammettere in Parlamento che sì, «le pressioni politiche e sociali» hanno condotto a «successivi allargamenti dei Comuni beneficiari delle provvidenze» che non rispettavano «la verità naturale dei fatti». I risultati, come denunceranno la Commissione Parlamentare d’inchiesta presieduta da Scalfaro e il rapporto Ecomafia, saranno disastrosi. «Per ogni vecchia abitazione distrutta dal sisma si ricostruiscono due, qualche volta tre appartamenti». Centinaia di sindaci e assessori fanno contemporaneamente i progetti e i collaudi intascando miliardi. Vengono «inventate» aree industriali assurde come a Isca Pantanelle: due assunti su 287 previsti, al punto che ogni posto «è costato la cifra record di 14 miliardi e 753 milioni». Infiltrazioni camorriste. Omicidi. Regalie incredibili a tanti «furbi» arrivati dal Nord per costruire imprese fantasma.
Morale: dieci anni dopo, dicono i dati ufficiali, tantissimi terremotati sono ancora nei container: «a Calabritto (Av) gli interventi finanziati ultimati sono poco più del 10% (148 su 1.126), a Lioni (Av) sono meno del 5%, a Morra de Sanctis solo il 3%. A Sanza sono ultimati solo 4 interventi su 465 finanziati, a S. Mango sul Calore il 13% dei 389 finanziati, a S. Angelo dei Lombardi il 5,6% dei 1568 interventi finanziati». Vanno ricordate, queste storie. Tutte. Soprattutto oggi. Per dire: mai più. Mai più.
Gian Antonio Stella 19 aprile 2009
da corriere.it
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« Risposta #67 inserito:: Aprile 22, 2009, 12:51:43 pm » |
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europarlamento Italiani a Strasburgo: assenze record
Tra i 20 peggiori metà sono «nostri»
La ricerca (privata) di un assistente parlamentare.
Basse anche le presenze in commissione
di GIAN ANTONIO STELLA
L’onore dell'Italia in Europa lo salva un tedesco. Si chiama Sepp Kusstatscher, è sudtirolese, fa parte del gruppo dei Verdi e su 270 sedute plenarie ne ha bucate 2. Evviva. Su gran parte degli altri è meglio stendere un velo. Basti dire che tra i primi cento eurodeputati più presenti a Strasburgo i nostri sono 3. Meno di un terzo dei tedeschi e degli inglesi, un quinto dei polacchi. In compenso, sono nostri 10 dei 20 più assenteisti. Da arrossire. I dati sono stati raccolti da Flavien Deltort, un giovane assistente che, dopo avere lavorato in passato con Marco Pannella, si è messo cocciutamente a raccogliere uno dopo l’altro tutti i documenti ufficiali a disposizione. Con l’intento di metterli on-line.
Un lavoro certosino. Interminabile. Deciso per supplire alla riluttanza dimostrata dall’Europarlamento nel fornire i dati che potrebbero consentire ai cittadini dell’Unione di vedere come lavorano i loro rappresentanti a Bruxelles e a Strasburgo. Riluttanza confermata nell’ottobre scorso quando il radicale Marco Cappato chiese ufficialmente, per avere infine un panorama chiaro, le tabelle delle presenze di tutti gli europarlamentari. Richiesta respinta dal segretario generale Harald Rømer, che gli spiegò: lei, come deputato, può chiedere solo i dati suoi. E basta: «Non esiste alcun documento consolidato che riporti il numero totale di presenze per Deputato alle diverse riunioni ufficiali» e il regolamento «non obbliga in alcun modo le Istituzioni a creare documenti per rispondere ad una richiesta». Una scelta da più parti contestata. E corretta tre mesi fa, nelle intenzioni, dal voto di una risoluzione presentata dallo stesso Cappato e approvata dall’assemblea a larga maggioranza: 355 a favore, 18 astenuti e 195 contrari, tra i quali quasi tutti i membri del Popolo delle libertà. Si trattava solo di una dichiarazione d’intenti. Ma esplicita: impegnava infatti l’assise continentale a «varare, prima delle elezioni europee del 2009, un piano d’azione speciale per assicurare sul proprio sito web, ad esempio nel quadro dell’iniziativa e-Parlamento, una maggiore e più agevole disponibilità di informazioni ».
Ci si arriverà davvero? Difficile. Anzi: ormai, agli sgoccioli della legislatura, sembra praticamente impossibile. Peccato. Perché solo quei dati ufficiali potrebbero spazzare via polemiche, contestazioni e accuse di assenteismo e «fannullonismo » che si trascinano da anni un po’ in tutti i paesi. Ma soprattutto in Italia. Basti ricordare, tra i tanti, lo studio dell’Università tedesca di Duisburg che nel 2004 accertò come nella legislatura che si chiudeva, la presenza italiana alle sessioni di voto fosse stata del 56,2%, contro l’80,9 dei greci o l’ 82,5% dei tedeschi. Capiamoci: non c’è stata occasione in cui i dati siano stati accettati senza rivolte corali. «Non contano le presenze alle assemblee plenarie, conta il lavoro in commissione!». «Non conta il numero degli interventi in aula, conta il loro peso politico!». «Non contano le interrogazioni in aula, contano i risultati che si ottengono magari con un solo dossier!». Per carità, osservazioni legittime. Come è legittima la prudenza nel maneggiare lo studio dal quale attingiamo i dati di oggi. La sostanza delle cose, però, è inequivocabile. Prendiamo il lavoro nelle commissioni. I deputati che ne fanno parte possono provare la loro presenza mettendo la firma su due diversi registri: quello della commissione o quello generale. Ma tra i due c’è una differenza sostanziale. Il primo è pubblico e consultabile (con un po’ di pratica) da tutti, il secondo no: segreto.
Risultato: ogni parlamentare beccato con un numero di presenze basso può sempre cavarsela giurando di avere partecipato molto più di quanto risulti. Anche a prendere i numeri con le pinze, però, ci sono domande che non trovano risposta. Come è possibile che pur avendo l’Italia un decimo dei seggi europei (78, come la Francia e la Gran Bretagna: solo la Germania coi suoi 82 milioni di abitanti ne ha di più: 99) ci ritroviamo con soli 6 rappresentanti nella classifica dei 250 più presenti nelle varie commissioni? Come mai possiamo schierare solo Vittorio Prodi (345 presenze), Umberto Guidoni (270), Patrizia Toia (255), il solito Kusstatscher (195), Pia Elda Locatelli (192) e Pasqualina Napoletano (155) per un totale appunto di sei parlamentari contro 13 dell’Olanda (che ha poco più d’un terzo dei nostri seggi), 22 della Spagna, 26 della Gran Bretagna e addirittura 49 della Germania? Gli italiani che in questa legislatura fino al 31 dicembre scorso si sono avvicendati sulle 78 euro-poltrone (una girandola pazzesca, frutto del disinteresse che la nostra classe politica prova nei confronti dell’Europa, vista troppo spesso soltanto come fonte di stipendi e prebende e benefit spettacolari) sono stati 109: è un disguido se solamente 25 risultano fra i 500 (cinquecento!) deputati più presenti nelle commissioni?
È un disguido se su 921 euro-deputati transitati per Strasburgo in questa legislatura (anche negli altri paesi capita che alcuni scelgano di abbandonare, sia pure molto meno che da noi) quelli che risultano oltre la 800esima posizione sono addirittura 37 e oltre la 900esima ben 9? Quanto alle presenze alle sedute plenarie, come dicevamo all’inizio, la situazione è forse ancora più pesante. Non solo abbiamo solo tre parlamentari (Kusstatscher, Francesco Ferrari e Pasqualina Napoletano) tra i primi cento più assidui ma ne abbiamo soltanto 10 tra i primi trecento. Contro 17 spagnoli (che hanno ventidue seggi in meno), 25 britannici, 39 tedeschi. In compenso dominiamo le posizioni di coda, quelle oltre il 900esimo posto, con Fabio Ciani, Gianni De Michelis, Gian Paolo Gobbo, Armando Veneto, Alessandra Mussolini, Rapisardo Antinucci, Paolo Cirino Pomicino, Raffaele Lombardo, Adriana Poli Bortone e Umberto Bossi. Qualcuno, come ad esempio Pomicino e Bossi, può invocare problemi di salute. Altri no. «Pesati» i valori massimi e i valori minimi, i più presenti e i più assenti, i più loquaci e i più muti, i più attivi nel presentare interrogazioni e i più pigri, le tabelle offrono anche una specie di classifica finale. Da cui viene fuori che, tra i primi cento deputati europei, ne abbiamo otto. Con in testa, unica tra i primi dieci, Luisa Morgantini. Può bastare, insieme con la presenza di un po’ di «mediani » che fanno dignitosamente il loro lavoro, per consolarci?
22 aprile 2009 da corriere.it
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« Risposta #68 inserito:: Aprile 26, 2009, 05:18:11 pm » |
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Solo ai Beni Culturali sono 770, il triplo dell’intero parco dirigenziale lombardo
E la Sicilia si concede 500 dirigenti in più
La Regione autonoma sta per approvare un’infornata di assunzioni.
Risultato: un capo ogni 8,4 sottoposti
Ancora poche ore e la regione Sicilia batterà un record planetario: su 3.450 dipendenti, ai Beni Culturali, ci saranno 770 dirigenti. Il triplo dell'intero parco dirigenziale della regione Lombardia. Il tutto grazie a un'infornata di assunzioni e promozioni che vedrà l'ente isolano regalarsi, a dispetto della Corte dei Conti che aveva denunciato come abnorme la presenza di un «colonnello » ogni 8,4 «soldati semplici», altri 500 nuovi dirigenti in un colpo solo.
Certo, non è solo la Sicilia a essere di manica larga. Spiegava l’anno scorso uno studio dell’Università di Milano, che dai dati 2006 risultava una media nazionale di un dirigente ogni 15 dipendenti ma che questa media era composta da realtà assai differenti: da un minimo di un dirigente ogni 31 sottoposti in Puglia a uno ogni 7,7 nel Lazio. Numeri aggiornati meno di un mese fa, sulla base dei dati della Ragioneria Generale dello Stato, dal Sole 24 ore: un dirigente ogni 25 dipendenti scarsi nelle Marche, ogni 22 in Emilia Romagna, ogni 17 circa in Lombardia e nel Veneto, ogni 18 in Liguria, ogni 16 in Piemonte... Fino agli eccessi: uno ogni 8,3 in Molise e ancora ogni 7,7 nel Lazio. Vogliamo rileggere l’atto di accusa lanciato nel 2008 dalla Corte dei Conti alla Sicilia? «I dipendenti a carico del bilancio regionale raggiungono la notevole cifra di 21.104 unità (erano 20.781 nel 2006), di cui 2.320 dirigenti (erano 2.150 nel 2005, anno a cui risale l’ultimo rilevamento nazionale pubblicato in tabella), con un rapporto di un dirigente ogni 8,4 dipendenti.
Il confronto con altre realtà regionali è improponibile sol che si consideri che in Sicilia vi è un dipendente ogni 239 abitanti, in Lombardia uno ogni 2.500 lombardi ». Conosciamo l’obiezione: la Sicilia gode di uno statuto speciale quindi ha tutta una serie di competenze che le regioni a statuto ordinario non hanno. Giusto. La stessa tabella del Sole riporta però il dato, per fare un esempio, del Friuli Venezia Giulia. Anche quella è una regione autonoma. Ma ha un dirigente ogni 28 dipendenti. Prova provata che l’autonomia forse c’entra con le competenze, e non c’è dubbio che le regioni a statuto ordinario ne hanno di meno, ma non c’entra un fico secco con la gerarchia interna. Che nell’isola non è solo speciale ma specialissima. Basti dire che non solo la Sicilia ha tanti «regionali» quanto Piemonte, Lombardia, Lazio, Veneto, Emilia Romagna, Friuli e Liguria messe insieme. Ma che oltre alle figure di dirigenti prima e di seconda fascia, la Regione ha inventato quella di terza fascia.
Il risultato lo spiega Marcello Minio dei Cobas/ Codir, che insieme con altri due sindacati autonomi (Sadirs e Siad) ha denunciato l’infornata in arrivo di assunzioni e promozioni: su 18.508 dipendenti regionali (ai quali vanno aggiunti quelli a carico dell’Ars, l’assemblea regionale più altri ancora) ci sono oggi un dirigente di prima fascia, 199 di seconda e 2.146 di terza per un totale di 2.346. Vale a dire che c’è un colonnello ogni 7,8 «marmittoni». Ma questo solo se si contano i 4.571 precari. Tolti quelli, il rapporto sarebbe ancora più assurdo: un dirigente ogni 5,9 dipendenti. Cosa farebbe, davanti a un panorama così, il «buon padre di famiglia » tante volte invocato da Silvio Berlusconi? Cercherebbe di dare un «drizzone», per usare una parola sbandierata qualche mese fa dal Cavaliere. Macché.
La manovra intitolata «Disposizioni programmatiche e correttive per l’anno 2009» che è firmata dal presidente Raffaele Lombardo e dall’assessore al Bilancio Michele Cimino e arriva domani in aula dopo avere ottenuto qualche giorno fa il via libera in Commissione Bilancio, allarga la manica ulteriormente. Avvia infatti la sistemazione come dirigenti di seconda fascia (un paradosso: quelli di terza fascia furono inventati con l’impegno che si trattava di un provvedimento non rinnovabile, quindi non se ne possono fare altri) di 55 precari un tempo a busta paga di due aziende parastatali (Italter e Sirap) sciolte perché improduttive e rimasti per anni a carico prima dello Stato e poi della Regione. Più un’altra cinquantina di dipendenti di altre amministrazioni da tempo distaccati all’Assessorato regionale al Bilancio. Più altre 250 persone dichiarate idonee anni fa al concorso per storici dell’arte, architetti, fisici, archeologi e archivisti. Più altri 150 vincitori di questo concorso già inquadrati ai beni Culturali con contratti da funzionari direttivi. Per un totale, appunto, di circa 500 nuovi dirigenti. Che porteranno a un nuovo rapporto interno: un colonnello ogni 6,6 dipendenti. Tolti i soliti precari, che hanno anzianità di precariato a volte intorno ai venti anni, uno ogni 4,9. Numeri da brivido. Che diventeranno ancora più incredibili, come dicevamo, al dipartimento dei Beni culturali: un dirigente ogni dipendenti e mezzo.
«Un vero e proprio assalto alla diligenza», denuncia il comunicato dei tre sindacati autonomi, «che trasformerebbe la Regione Siciliana in una macchina clientelare al servizio d’una classe politica capace di varare soltanto norme per i propri accoliti». Ma passeranno anche in aula queste scelte, che il governo regionale motiva con la necessità di chiudere col passato, sanare quanto va sanato e chiudere i contenziosi aperti? E’ probabile. Anche perché una parte non secondaria dei promossi sarebbe vicina alla sinistra. Che avrebbe grosse difficoltà a mettersi di traverso. Si vedrà... Certo è che la scelta, accusa il presidente della commissione Antimafia siciliana Calogero Speziale, arriva in un momento in cui la Regione non trova la copertura finanziaria per la legge varata solo sei mesi fa per combattere la piovra mafiosa. «Non c’è un euro», come scrive Emanuele Lauria su Repubblica, a sostegno degli sgravi contributivi e fiscali alle imprese che denunciano il racket. E non ci sono risorse per diffondere la cultura nelle scuole e alimentare il fondo di rotazione per i beni confiscati alla mafia». E meno male che quella legge era stata salutata come «una svolta epocale»...
Gian Antonio Stella 26 aprile 2009
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« Risposta #69 inserito:: Aprile 28, 2009, 06:05:59 pm » |
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Una conferenza-spettacolo riporta alla ribalta il padre della fisiognomica
Lombroso, il catalogo delle assurdità
Illusioni, pasticci e paradossi dello scienziato che aprì le porte al razzismo. Una celebrità dell’800
Cosa c’entrano i cammelli coi camalli? Niente, si dirà. Eppure, partendo anche dall’assonanza dei nomi, che verrebbero dall’arabo hamal, Cesare Lombroso si spinse nel 1891 a teorizzare che tra gli animali e gli scaricatori di porto ci fosse una sorta di parentela dovuta alla gibbosità. Al punto che, con Filippo Cougnet, firmò un saggio dal titolo irresistibile: Studi sui segni professionali dei facchini e sui lipomi delle Ottentotte, cammelli e zebù.
La folgorante idea, scrive Luigi Guarnieri nel suo irridente L’atlante criminale. Vita scriteriata di Cesare Lombroso (Bur), gli viene «esaminando un paziente, di professione brentatore, il quale ha sulle spalle, nel punto in cui appoggia il carico, una specie di cuscinetto adiposo. Vuoi vedere, almanacca prontamente Lombroso, che la gobba dei cammelli e dei dromedari ha la stessa origine del cuscinetto del brentatore? Subito esamina tutti i facchini di Torino e scrive a legioni di veterinari perché studino a fondo gli animali da soma, in special modo gli asini. Non pago dell’imponente massa di dati raccolti, Lombroso indaga con grande scrupolo i misteri del cuscinetto adiposo delle Ottentotte», cioè le donne del popolo africano dei Khoikhoi.
C’è da riderne, adesso. Come c’è da sorridere a rileggere gran parte dell’opera dell’antropologo veronese. Basti ricordare, tra gli altri, lo studio su La donna delinquente, la prostituta e la donna normale, dove sosteneva, in base all’esame delle foto degli schedari del capo della polizia parigina, Goron (il quale scoprì poi che per sbaglio aveva mandato al nostro le immagini di bottegaie in lista per una licenza...), che «le prostitute, come i delinquenti, presentano caratteri distintivi fisici, mentali e congeniti» e hanno l’alluce «prensile». O quello su Il ciclismo nel delitto, pubblicato su «Nuova Antologia», nel quale teorizzava che «la passione del pedalare trascina alla truffa, al furto, alla grassazione ».
Non c’è opera lombrosiana in cui non sia possibile trovare, a voler essere maliziosi, spunti di comicità. A partire da certi titoli: «Sul vermis ipertrofico», «La ruga del cretino e l’anomalia del cuoio capelluto», «Fenomeni medianici in una casa di Torino», «Sulla cortezza dell’alluce negli epilettici e negli idioti », «Rapina di un tenente dipsomane », «Il vestito dell’uomo preistorico», «Il cervello del brigante Tiburzio», «Perché i preti si vestono da donna»...
Nulla è più facile, un secolo dopo la sua morte avvenuta nel 1909, che ridurre l’antropologo, criminologo e giurista veronese a una macchietta. Un ciarlatano. Eppure, come scrisse Giorgio Ieranò, andrebbe riscoperta «la complessità di una figura che, nel bene e nel male, ha lasciato un segno nella cultura italiana». Se non altro perché «c’era del metodo nella follia di Lombroso. C’era l’illusione di poter offrire di ogni aspetto, anche minuto, dell’universo una spiegazione scientifica, la ferma convinzione di poter misurare quantitativamente ogni fenomeno. Lombroso era un utopista che credeva nella missione redentrice della scienza».
Certo, spiega l’antropologo Duccio Canestrini, che insegna a Trento e a Lucca e per celebrare il centenario della scomparsa ha allestito una conferenza- spettacolo (Lombroso illuminato. Delinquenti si nasce o si diventa?) al debutto domani sera a Torino al Circolo dei lettori, era un uomo pieno di contraddizioni: «Socialista, criminalizza di fatto i miserabili. Ebreo, pone le basi del razzismo scientifico. Razionalista, partecipa a sedute spiritiche nel corso delle quali una medium gli fa incontrare persino la mamma defunta e spiega il paranormale con l’esistenza di una 'quarta dimensione'. Le sue teorie, affascinanti e spesso assurde, ebbero un successo internazionale, condizionando sia la giurisprudenza, sia la frenologia».
Con Verdi e Garibaldi, fu probabilmente uno degli italiani più famosi del XIX secolo. Le sue opere erano tradotte e pubblicate in tutto il mondo, dall’America alla Russia, dall’Argentina (dove lo studioso lombrosiano Cornelio Moyano Gacitúa arrivò a rovesciare certe analisi contro i nostri immigrati: «La scienza ci insegna che insieme col carattere intraprendente, intelligente, libero, inventivo e artistico degli italiani c’è il residuo della sua alta criminalità di sangue») fino al Giappone. I convegni scientifici di tutto il pianeta se lo contendevano. Vittorio Emanuele III salutava in lui «l’onore d’Italia». I socialisti lo omaggiavano regalandogli un busto di Caligola. Émile Zola lo elogiava come «un grande e potente ingegno». Il governo francese gli consegnava la Legion d’Onore. Gli scienziati, i medici e i prefetti si facevano in quattro per arricchire la sua stupefacente collezione di crani, cervelli, maschere funerarie, foto segnaletiche, dettagli di tatuaggi di criminali e prostitute e deviati di ogni genere, oggi raccolti al «Museo Lombroso» di Torino. Lo scrittore Bram Stoker lo tirava in ballo scrivendo Dracula. Il filosofo Hippolyte Adolphe Taine gli si inchinava: «Il vostro metodo è l’unico che possa portare a nozioni precise e a conclusioni esatte».
E questo cercava Cesare Lombroso, misurando crani e confrontando orecchie e calcolando pelosità in un avvitarsi di definizioni «scientifiche» avventate: l’esattezza. Capire il perché delle cose. Così da migliorare la società. «Il traguardo che spero di raggiungere completando le mie ricerche», dice in un’edizione de L’uomo delinquente del 1876, «è quello di dare ai giudici e ai periti legali il mezzo per prevenire i delitti, individuando i potenziali soggetti a rischio e le circostanze che ne scatenano l’animosità. Accertando rigorosamente fatti determinati, senza azzardare su di essi dei sentimenti personali che sarebbero ridicoli» .
Il guaio è che proprio quel «rigore scientifico» appare oggi sospeso tra il ridicolo e lo spaventoso. Il consiglio dato al Pellegrosario di Mogliano Veneto di curare la pellagra con «piccole dosi di arsenico». Il marchio sugli africani: «Del tetro colore della pelle, il povero Negro ne va tinto più o meno in tutta la superficie, e in certe provincie, anche interne, del corpo, come il cervello e il velo pendulo». Il giudizio sulla donna che tende «non tanto a distruggere il nemico quanto a infliggergli il massimo dolore, a martoriarlo a sorso a sorso e a paralizzarlo con la sofferenza». La ricerca «sul cretinismo in Lombardia » dove descrive una «nuova specie di uomini bruti che barbugliano, grugniscono, s’accosciano su immondo strame gettato sul terreno». Le parole sull’anarchico Ravachol: «Ciò che ci colpisce nella fisionomia è la brutalità. La faccia si distingue per la esagerazione degli archi sopracciliari, pel naso deviato molto verso destra, le orecchie ad ansa». La teoria che «il mancinismo e l’ambidestrismo sensorii sono un po’ più frequenti nei pazzi».
Un disastro, col senno di poi. Gravido di conseguenze pesanti. Eppure a quell’uomo incapace di trovare il bandolo della matassa e liquidato da Lev Nikolaevic Tolstoj (che in base alla bruttezza lui aveva classificato «di aspetto cretinoso o degenerato») come un «vecchietto ingenuo e limitato», una cosa gliela dobbiamo riconoscere. Non si stancò mai di cercare. A che prezzo, però...
Gian Antonio Stella 28 aprile 2009
da corriere.it
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« Risposta #70 inserito:: Maggio 05, 2009, 11:21:11 am » |
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La denuncia del prete-direttore: l'Italia ultima in Europa per il sostegno ai figli
La denuncia di Don Sciortino
La famiglia cristiana in macerie
«I francesi terranno aperti gli asili nido 11 mesi all'anno, nel nostro Sud è coperto appena il 6 % del fabbisogno»
Un'immagine di Virgilio toglie il sonno al direttore di «Famiglia Cristiana»: «Enea che fugge da Troia in fiamme porta l'anziano padre Anchise sulle spalle e tiene per mano il giovane figlio Ascanio. L'Enea del futuro, invece, avrà sulle spalle il peso di quattro vecchi genitori e non avrà accanto nessun figlio che gli assicurerà, un giorno, di portarlo in salvo». Per questo don Antonio Sciortino, spiegando come i francesi (che «non ci stanno a finire al tappeto») abbiano «deciso di tenere aperti gli asili nido 11 mesi all'anno per 11 ore al giorno» mentre da noi il Sud ha «un indice di copertura del fabbisogno di asili nido di appena il 6%» accusa chi è stato al potere in questi anni: «Assistiamo, impotenti, al fallimento. Sulla famiglia tutti i governi, di destra, di sinistra e di centro, finora hanno sempre fallito. Non hanno mai capito che è l'unico vero ammortizzatore sociale. Aiutarla serve innanzitutto allo stesso Paese».
Il libro «La famiglia cristiana», in vendita da questa mattina, infilza gli uomini del Palazzo fin dal sottotitolo: «Una risorsa ignorata dalla politica». Chi si aspettasse una nuova puntata della schermaglia che vede battagliare il prete-giornalista (che non a caso si firma «don», per sottolineare l'appartenenza alla Chiesa) con certi provvedimenti della destra come sull'immigrazione, avrà materia da riflettere. Perché, certo, non mancano le critiche, talora pesanti, al governo e al padrone della stessa Mondadori («nessun imbarazzo: sono venuti a cercarmi loro e ho scritto in piena libertà») che pubblica il saggio, cioè Berlusconi. E c'è da scommettere che qualcuno tornerà a dipingere il direttore del settimanale coi toni usati da uomini come l'azzurro Maurizio Lupi («Famiglia Cristiana sembra sempre ormai allineata sulle posizioni del manifesto») o il leghista Matteo Salvini, il quale arrivò a dire che «Se fosse per lui Famiglia Cristiana si chiamerebbe Famiglia musulmana». Ma sarebbe assai riduttivo.
Non solo don Sciortino se la prende anche con la sinistra, appaiando per esempio a Tremonti il suo predecessore Padoa Schioppa («quando nelle pieghe di bilancio si scova qualche "tesoretto", la priorità va sempre al debito pubblico. Alle famiglie solo poche briciole. I "tesoretti" vengono dispersi in mille rivoli, per ingraziarsi tutti») ma su tanti punti torna a ribadire cose che a sinistra non piaceranno affatto. Come l'opportunità di rivedere le norme sull'aborto («nessuna legge è tabù, intangibile, tanto meno il mito della 194») o il giudizio sui Pacs, i Dico e anche i Di.do.re. proposti da Brunetta e Rotondi: «In cima alle preoccupazioni dei pubblici poteri coscienti delle loro responsabilità non possono che esserci le famiglie "normali", quelle "vere" fondate sul matrimonio». Tutte cose che probabilmente tireranno addosso al direttore della rivista (buon segno, direbbe Indro Montanelli) i mugugni dei faziosi dell'una e dell'altra sponda. Al di là delle polemiche spicciole che solleverà, però, «La famiglia cristiana» è soprattutto un reportage accorato attraverso le macerie della famiglia. Un grido di dolore lanciato contro tutti quelli che non vogliono vedere quella miriade di cifre, episodi, annotazioni e dettagli che segnalano una crisi così profonda da togliere il sonno a tutti. Cattolici e laici, parroci e mangiapreti. «In Italia l'irrilevanza della spesa sociale si nota subito se consideriamo il tasso di povertà dopo l'intervento pubblico», scrive don Sciortino, «In media in Europa si riduce di 10 punti, in Norvegia scende di 19 punti, in Svezia di 17, in Germania di 14 punti, in Francia di 12 e in Olanda di 11.
In Italia abbatte di soli 4 punti la quantità di popolazione povera. Segno che la nostra spesa sociale è inefficiente e inefficace, oltre a non essere alta. Rimane sotto la media europea sia in termini di percentuale sul pil, sia in termini di spesa pro capite». Perché dunque si riempiono la bocca con la parola famiglia? «L'Italia sembra volere fargliela pagare cara a quei genitori che fanno più figli. Oltre a punire questi loro ragazzi che, nella vita, nel lavoro e nella società, avranno meno opportunità dei loro coetanei figli unici. Trenta famiglie su 100 con 3 figli sono povere (al Sud l'incidenza sfiora il 49%). È facile l'equazione: più figli si fanno, più poveri si diventa. Esattamente l'opposto di quanto avviene in Norvegia, dove avere più bambini corrisponde a un tasso di povertà più basso». «Se si analizzano i trasferimenti monetari e le misure fiscali a favore delle famiglie», insiste l'autore, «l'Italia si piazza al quartultimo posto tra i Paesi dell'Ocse. Molto indietro rispetto a Germania, Francia e Regno Unito. Se entriamo nel dettaglio, i Paesi scandinavi dedicano lo 0,6% del pil solo ai congedi parentali, percentuale che in Italia è talmente bassa da essere irrilevante... ».
Di più: «La Francia in pochi anni è tornata a superare i 2 figli per donna, grazie a una tenace e consistente politica di sostegno. Che è sopravvissuta ai ripetuti cambi di maggioranza». Da noi no: «vige la regola della "tela di Penelope": ogni maggioranza impegna le migliori energie solo per disfare quello che è stato fatto dal governo precedente». Risultato: «La Francia destina alla famiglia il 2,5% del suo pil, l'Italia si ferma a poco più dell'1%: una politica stitica e suicida verso la famiglia». Non solo «siamo la maglia nera» in Europa, in fondo alle classifiche, ma mentre «la Francia ha scelto la famiglia, e non l'individuo, come unità di misura per l'imposizione delle tasse (...) il bonus fiscale di Tremonti e Sacconi finisce, per l'82%, nella tasche dei single (unica categoria protetta del Paese) e di coppie senza figli». Una scelta, «che va contro la famiglia». La quale avrebbe invece bisogno, subito, di «una legge organica che la metta al centro di ogni processo, come forza di coesione sociale». Ma «questa Italia», si chiede, «è ancora cristiana, quando indebolisce e svaluta la famiglia?». Domanda scomoda. Molto scomoda...
Gian Antonio Stella 05 maggio 2009
da corriere.it
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« Risposta #71 inserito:: Maggio 09, 2009, 10:25:18 am » |
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IL CASO DEL «RESPINGIMENTO»
L’asilo negato senza verifiche
Il Consiglio dei rifugiati: a un centinaio spettava il soccorso. Tra Europa e Africa Tripoli non ha mai riconosciuto la Convenzione internazionale ROMA - Chissà quanti erano, tra quei clandestini ributtati in Libia, ad avere diritto allo status di rifugiati. Uomini, donne e bambini in fuga da regimi assassini che forse sono già stati ammassati in un container e stanno ora viaggiando attraverso il deserto per esser scaricati in mezzo al Sahara. Bobo Maroni, fiero della scelta, ha detto che se vogliono chiedere asilo possono farlo lì.
Anche in Libia c'è un Cir, un centro italiano per i rifugiati, aperto a tutti», ha detto il ministro dell’Interno. Sapete quante persone ci lavorano? Una. E solo da lunedì. E senza mezzi. E senza il riconoscimento di Tripoli. Che del resto non ha mai riconosciuto manco la Convenzione di Ginevra sui rifugiati. È chiarissima quella carta ginevrina del 1951. Ha diritto all'asilo chi scappa per il «giustificato timore d'essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche». Altrettanto netto è l'articolo 10 della Costituzione: «Lo straniero al quale sia impedito nel suo Paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge».
Vogliamo prendere una storia a caso, dall'inferno dei campi libici? Ecco quella di una donna eritrea, cristiana, nel documentario «Come un uomo sulla terra» di Andrea Segre: «Ero in prigione con un'amica eritrea incinta, la rabbia le aveva deformato il viso. Il marito cercava di difenderla perché il poliziotto le premeva la pancia col bastone dicendole: 'Hai in pancia un ebreo, andate in Italia e poi in Israele per combattere gli arabi'». Un'altra donna: «Preferivamo morire piuttosto che doverci togliere la croce al collo. Piangevamo, se questa era la volontà di Dio l'accettavamo, ma la croce non la volevamo togliere. Cristiani siamo e cristiani rimarremo. E loro ci sbattevano contro il muro. Mentre gli uomini venivano picchiati noi urlavamo. Gli uomini venivano frustati sotto la pianta dei piedi fino a perdere i sensi».
Situazioni agghiaccianti. Denunciate già nel 2004 da una Missione tecnica in Libia dell'Unione europea, dove si parlava di abusi, arresti arbitrari, deportazioni collettive... Confermate nel febbraio 2006 dalla deposizione del prefetto Mario Mori, il direttore del Sisde, in una audizione al Comitato parlamentare di controllo: «I clandestini vengono accalappiati come cani, messi su furgoncini pick-up e liberati in centri di accoglienza dove i sorveglianti per entrare devono mettere i fazzoletti intorno alla bocca per gli odori nauseabondi...». La visita al centro di accoglienza di Seba lo aveva turbato: «Prevede di ospitare cento persone ma ce ne sono 650, una ammassata sull'altra senza rispetto di alcuna norma igienica e in condizioni terribili».
Per non dire di certe deportazioni nei container blindati come quella raccontata da Anna («Presto sotto il sole di luglio il container diventò un forno, l'aria era sempre più pesante, era buio pesto. I bambini piangevano. Due giorni di viaggio senza niente da bere, né da mangiare. Alcuni bevevano le proprie urine») in «Fuga da Tripoli / Rapporto sulle condizioni dei migranti in transito in Libia», a cura dell'Osservatorio sulle vittime delle migrazioni «Fortress europe». Osservatorio secondo il quale in soli cinque anni «dal 1998 al 2003 più di 14.500 persone sono state abbandonate in mezzo al deserto lungo la frontiera libica con Niger, Ciad, Sudan ed Egitto. Molti deportati, una volta abbandonati nel deserto hanno perso la vita». E per non dire ancora degli stupri, come nella testimonianza di Fatawhit: «Ho visto molte donne violentate nel centro di detenzione di Kufrah. I poliziotti entravano nella stanza, prendevano una donna e la violentavano in gruppo davanti a tutti. Non facevano alcuna distinzione tra donne sposate e donne sole, Molte di loro sono rimaste incinta e molte di loro sono state obbligate a subire un aborto, fatto nella clandestinità, mettendo a forte rischio la propria vita».
Forzature? Lasciamo la risposta al comunicato ufficiale del Servizio Informazione della Chiesa Italiana: «Non possiamo tollerare che le persone rischino la vita, siano torturate e che l'85 per cento delle donne che arrivano a Lampedusa siano state violentate». Per questo i vescovi non hanno dubbi: è «una vergogna» che siano state respinte persone che «hanno già subito delle persecuzioni nei rispettivi Paesi». Posizione ribadita dall'Osservatore Romano: «Preoccupa il fatto che fra i migranti possa esserci chi è nelle condizioni di poter chiedere asilo politico. E si ricorda anzitutto la priorità del dovere di soccorso nei confronti di chi si trova in gravi condizioni di bisogno ».
Questo è il nodo: la scelta di tenere verso gli immigrati in arrivo una posizione più o meno dura, compassionevole o «cattiva», come ha teorizzato tempo fa Maroni, spetta a chi governa. Ed è giusto che sia così. La decisione di «fare di ogni erba un fascio», rifiutare ogni distinzione e respingere chi arriva senza neppure concedergli, per dirla coi vescovi, almeno la possibilità di dimostrare che ha diritto all'asilo, è però un'altra faccenda. Che non solo rinnega una storia piena di esuli politici (da Dante a Mazzini, da Garibaldi ai fratelli Rosselli a don Luigi Sturzo) ma, secondo Laura Boldrini e l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, fa a pezzi le regole vigenti poiché «tutti gli obblighi internazionali» e anche la legge italiana «vietano tassativamente il respingimento di rifugiati o richiedenti asilo».
Quanti erano, su quella barca respinta, quelli che avrebbero avuto diritto ad essere accolti? Risponde Christopher Hein, Direttore del Cir, il Consiglio italiano per i rifugiati: «Generalmente tra i disperati che arrivano a Lampedusa quelli che chiedono diritto d'asilo sono il 70% ma di questi solo la metà ottiene lo status di rifugiato. Gli egiziani o i maghrebini, per esempio, difficilmente lo chiedono. Del resto difficilmente lo otterrebbero. Gli stessi cinesi non lo chiedono mai. Ora, poiché tra i passeggeri di quella nave riportati in Libia non c'erano maghrebini, egiziani o cinesi, è presumibile che almeno il 70% avrebbe chiesto asilo. E di questi, con ogni probabilità, la metà ne aveva diritto. Il che significa che l'Italia ha respinto almeno un centinaio di persone alle quali la nostra Costituzione garantiva il soccorso». Non possono farlo adesso? «La vedo dura. In tutta la Libia, dico tutta (non sappiamo neppure quanti siano i centri libici di detenzione, pare 25) abbiamo una persona. Che si è insediata da quattro giorni. Senza avere ancora il riconoscimento delle autorità. Veda un po’ lei...».
Gian Antonio Stella 09 maggio 2009
da corriere.it
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« Risposta #72 inserito:: Maggio 13, 2009, 04:20:05 pm » |
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IL COMMENTO
Forti con i clandestini Deboli con i razzisti
Quegli insulti a Gad Lerner e la promessa (dimentica) del ministro Maroni
di Gian Antonio Stella
«Sono lieto di dire che ci costituiremo parte civile contro questa persona», aveva detto Roberto Maroni a un convegno rilanciato in tv davanti a centinaia di migliaia di telespettatori. Non poteva sopportare, lui, come ministro degli Interni e come leghista, che un conduttore di «Radio Padania Libera» si sfogasse con parole razziste e antisemite contro quel «nasone» di Gad Lerner. Quindi si impegnava ufficialmente: al processo intentato contro Leo Siegel, «voce» dell'emittente del Carroccio, lui sarebbe stato al fianco del direttore de «L'Infedele». È da tempo che Maroni batte e ribatte sullo stesso tema: «Sono anni che dicono che siamo razzisti. All'inizio mi dava fastidio. Ora non ci bado più. Lo vedo come uno stereotipo che non ha effetto nell'opinione pubblica che sa bene che non lo siamo». E le sparate di Bossi sui neri chiamati «bingo bongo»? «L'ha detto un secolo fa!». E i barriti di Borghezio contro i «marocchini di merda»? «Posizioni isolate dalle quali ci dissociamo». L'ultima volta l'ha detto tre giorni fa a Vicenza, ribadendo che la Lega vuole sì essere «essere padrona a casa propria» ma «non è razzista e xenofoba».
La decisione di costituirsi parte civile al fianco di Gad Lerner e contro il conduttore di «Radio Padania Libera» per quegli sfoghi razzisti (il testo è non solo agli atti del processo ma anche sul sito internet del giornalista) sarebbe stato insomma un gesto di svolta. La prova provata che il ministro degli Interni usa il pugno duro non solo coi clandestini che vengono da fuori ma anche con gli xenofobi intestini. Un gesto importante soprattutto in questi giorni in cui la linea durissima sul fronte dell'immigrazione, compresi coloro che avrebbero diritto all'asilo politico, rischia di essere come minimo «fraintesa». Macché. L'ultimo giorno utile per la costituzione è scaduto ieri. E come sia finita lo ha raccontato lo stesso Lerner in una lettera al presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Renzo Gattegna: «Mi duole segnalarti che oggi — nella prima udienza del processo cominciato davanti al giudice monocratico dell'ottava sezione penale di Milano — né il Viminale né l'onorevole Maroni hanno presentato richiesta di costituzione come parte civile. E ciò nonostante mi fossi premurato di ricordare per tempo al suo staff che si trattava dell'ultima scadenza utile per mantenere quella promessa». Titolo della lettera messa online: «La promessa del marinaio Maroni». Per carità, il ministro dirà che chi di dovere gli aveva spiegato che non era possibile tecnicamente. Può darsi. Ma ci poteva almeno provare. Poteva farsi dire di no dal giudice. A volte anche un gesto può avere un significato profondo. Un piccolo gesto, nei giorni giusti. E non è arrivato.
13 maggio 2009
da corriere.it
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« Risposta #73 inserito:: Maggio 17, 2009, 12:18:33 am » |
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la tragedia del '97
Quando il premier disse: «Quelle navi non vanno fermate»
Berlusconi, la tragedia degli albanesi in Puglia del ’97 e le critiche a Prodi: no ai blocchi, il diritto non lo prevede
«Dov’è la cipolla, piagnina?» Erano i primi di aprile del ’97 e il leghista Daniele Roscia, sfottendo Silvio Berlusconi per le lacrime versate sugli albanesi morti sulla nave speronata da una corvetta della Marina italiana, non poteva immaginare che un giorno il Cavaliere avrebbe blindato con la fiducia un decreto come quello di ieri fortissimamente voluto dalla Lega.
Rileggere quanto disse allora il leader azzurro, deciso a sottolineare i contrasti dentro il governo Prodi che per arginare gli sbarchi in Puglia aveva varato il pattugliamento delle coste andando incontro alla spaventosa tragedia della «Kater I Rades » affondata con una manovra sbagliata dalla «Sibilla», è fonte di sorprese. Per cominciare, secondo l’Ansa, il leader azzurro accorso a Brindisi a incontrare i sopravvissuti, ricordò che «l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati aveva espresso deplorazione su questa misura del blocco navale: ora dopo quello che è successo, dobbiamo riscattare la nostra immagine e dobbiamo fare tutto ciò che le nostre possibilità ci consentono, non solo con il nostro esercito per proteggere gli aiuti, ma dobbiamo essere tutti noi generosi». Quindi, offerta ospitalità personale a una dozzina di profughi, espresse «le sue riserve sul pattugliamento» e smentì assolutamente a Repubblica che Romano Prodi l’avesse preavvertito: «Non sono stato informato né di blocchi né di pattugliamenti. Prodi mi aveva informato dell’intervento finalmente possibile in Albania, dicendomi che era stato trovato un accordo con i paesi di cui mi ha fatto i nomi — Portogallo, Francia, Grecia ed altri — per una missione di pace. Su questo, io ho detto 'Sono pienamente d’accordo'. Tra l’altro ho studiato diritto della navigazione, a suo tempo: so che nessuno può fermare navi civili in acque non territoriali, non è previsto assolutamente un diritto di questo genere da parte di nessuno Stato. Se avessi sentito parlare di blocco navale, avrei subito drizzato le antenne».
Di più, aggiunse all’Ansa: «Credo che l’Italia non possa accettare di dare al mondo l’immagine di chi butta a mare qualcuno che fugge da un Paese vicino, temendo per la sua vita, cercando salvezza e scampo in un paese che ritiene amico. Il nostro dovere è quello di dare temporaneo accoglimento a chi si trova in queste condizioni ». E chiuse: «Dobbiamo lavare questa macchia, che sarà pure venuta dalla sfortuna, ma che è venuta da una decisione che non si doveva prendere».
Il giorno dopo, mentre a sinistra si sbranavano sul tema dell’accoglienza e tentavano di arginare l’indignazione sventolando un sondaggio secondo cui, come avrebbe scritto Filippo Ceccarelli, appena un quarto degli intervistati giudicava il pianto berlusconiano «sincero », il Cavaliere spiegava a Raffaella Silipo, de La Stampa d’essere schifato dalle reazioni: «Vogliono strumentalizzare il mio gesto e trasformare una grande tragedia in una piccola e sciagurata polemica politica. D’altronde è inevitabile, quando si guarda con occhi sporchi a cose chiare e pulite». A farlo precipitare in Puglia, spiegò, era stata l’indifferenza degli altri: «Vede, io li ho visti, i superstiti del naufragio. Erano disperati. E nessuno era lì con loro, nessuno gli ha detto niente, capito? Si parla di settanta morti, venti bambini, una tragedia paragonabile a Ustica, e questi qui, dal presidente della Repubblica al presidente del Consiglio al ministro della Difesa, restano a casa loro? È drammatico ». Dodici anni dopo, riesaminati gli studi di «diritto della navigazione» a proposito dei pattugliamenti navali, ha cambiato parere: «Fuori dai confini vale il nostro diritto, previsto dai trattati internazionali, di respingerli ». E il voto di ieri, marcato dal trionfo della Lega Nord, sigilla la conclusione di un percorso di progressivo avvicinamento ai temi cari al Carroccio.
Daremo a Silvio la tessera perché si è 'pontidizzato'», gongolava giorni fa Roberto Calderoli. Padano ad honorem. Una onorificenza che gli sarebbe stata difficile da guadagnare quel giorno in cui, nella intervista citata a La Stampa dopo la tragedia della nave albanese, confidò pensieri che in bocca altrui gli suonerebbero, diciamo così, «buonisti» e «cattocomunisti »: «Siamo stati chiusi nell’egoismo, non possiamo permettere che succeda più nel nostro Paese. Non possiamo chiudere le porte, 58 milioni di italiani che stanno bene non possono respingere povere persone che vengono qui per cercare un po’ di libertà. Domandiamoci se la tragedia non è anche dovuta, almeno in parte a quel coro di ''gettateli a mare, sono tutti delinquenti'' sentito nei giorni scorsi».
Un monito antirazzista, ironizzerà qualcuno, arrivato dodici anni prima di quello di Giorgio Napolitano...
Gian Antonio Stella
15 maggio 2009 da corriere.it
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« Risposta #74 inserito:: Maggio 20, 2009, 10:53:34 am » |
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RITRATTO D’AUTORE
Al Veneto dei record nato dalla povertà serve un nuovo miracolo
Una memoria di fame ed emigrazione; una capacità di lavoro straordinaria.
Il successo economico si è costruito così, in pochi decenni. Ma ora la crisi internazionale richiede un altro scatto
Gian Antonio Stella, 56 anni, giornalista del Corriere della Sera e scrittore, è nato ad Asolo (TV) ma è originario di Asiago (VI). Autore, con Sergio Rizzo, del best seller «La casta» (2007, 1.200.000 copie), ha dedicato al Nord Est il libro «Schei» (1996). Sulla storia degli emigranti italiani ha scritto «L’Orda - Quando gli albanesi eravamo noi» (2003)
Fandorin non c'entra proprio niente con Scapìn, Cadorìn, Trentìn, Bedìn, Padoìn e insomma con tutti quei cognomi veneti che finiscono con la «n» e l'accento sulla i. Non è un vicentino di esportazione come Federico Faggìn, che qualche anno fa inventò in California il microprocessore e fu salutato dalla rivista Forbes come «lo scienziato più importante d'Italia dopo Enrico Fermi». Non è stato adottato dai francesi come Piero Cardìn che, partito da Sant'Andrea di Barbarana, in provincia di Treviso, è diventato immensamente noto a Parigi come Pierre Cardin, à la française.
Eppure è Fandorin, che ha l'accento sulla «a» e di nome fa Erast Petrovic, il nuovo simbolo del Veneto che fa ancora «schei» perfino in un momento di crisi come questo. L'ultimo libro dello scrittore Boris Akunin, che racconta le avventure dell'infallibile investigatore Fandorin (una via di mezzo tra il commissario Montalbano, Sherlock Holmes e Steven Seagal per la passione verso le arti marziali) è stato stampato dalla Grafica Veneta di Trebaseleghe. Dieci milioni di copie. In caratteri cirillici. Destinate interamente al mercato russo.
Fabio Franceschi, il presidente e amministratore unico della società, rilevò gli stabilimenti meno di sette anni fa. Primo libro stampato: 12 giugno 2002. L'azienda, in profonda crisi, aveva un bilancio di 1 milione e mezzo di euro e sette dipendenti. Sette anni dopo viaggia intorno ai 100 milioni di fatturato, ha 220 addetti e stampa libri non solo in italiano e inglese e francese ma anche in bulgaro, in greco, in portoghese... «È sufficiente che spediscano via e-mail il pdf e noi in 24 ore siamo in grado di consegnare 50.000 copie», spiega Franceschi. Se la consegna è in America, le ore diventano 48: «È così che abbiamo guadagnato la fiducia del New York Times che ci affida una serie di supplementi e tutti gli istant-book. Se ci danno il pdf alle otto di mattina del lunedì, alle otto di mattina del mercoledì noi consegnamo 50.000 copie a New York».
Ultimi mercati sui quali sono stati puntati gli occhi, quelli dell'editoria scolastica in Africa. Dal Kenia all'Angola. Possibile che agli africani convenga stampare all'ombra di Sant'Antonio nonostante la manodopera lì costi molto ma molto meno? «Certo. La nostra forza sono i macchinari d'avanguardia. Il costo del lavoro è un aspetto quasi secondario. Il suo peso è appena del 10%. Anche i supplementi dei maggiori giornali rumeni (parliamo di 12 milioni di copie di libri nel solo 2009) non ci conviene stamparli in Romania. La delocalizzazione a noi non interessa affatto. Molto meglio fare tutto qui, contando su una manodopera specializzata e straordinaria».
La storia della Grafica Veneta di Trebaseleghe è tutta nel solco del «miracolo» del Veneto e del Nord est. Vale a dire di una terra poverissima che nel giro di pochi decenni, a partire dal secondo dopoguerra, è riuscita a diventare la «locomotiva» d'Italia. Una storia che in questi ultimi tempi è un po' «ammaccata». Ma che ancora mostra di reggere meglio del resto del Paese la crisi finanziaria internazionale.
Merito della dimensione ridotta delle imprese, più agili nell'affrontare la navigazione senza un filo di vento a soffiare nelle vele. Di uno spirito d'avventura che ha infettato col virus dell'«imprenditorite» anche gli immigrati, al punto che nella sola provincia di Padova la Camera di Commercio ha contato oltre 3.300 imprese in mano a stranieri con punte del 17% nella moda (grazie ai cinesi), del 7,4% nel commercio al dettaglio, del 7,1% negli alberghi e nei ristoranti. Merito di una apertura alla integrazione dei nuovi arrivati che va oltre gli stereotipi e le battute xenofobe di qualche cattivo politico deciso a cavalcare cattivi sentimenti. Merito d'una amministrazione pubblica più attenta e più sobria che in altre parti del Paese, sia che governi la destra come in regione o a Treviso, sia che governi la sinistra come a Venezia o Padova. Merito infine di una capacità di sacrificio «addestrata» in secoli di vita dura. Così che anche in questi tempi difficili e di ordinazioni che non arrivano, tanti veneti si incaponiscono a lavorare come dovessero fare una consegna da lì a due ore. Fedeli al motto degli alpini del II° Reggimento Artiglieria da Montagna Gruppo Asiago: «Tasi e tira».
Taci e tira. Non puoi capire il Veneto se non parti da questo. Dalla memoria di un passato di fatica, di dolore, di fame. Quello cantato coi versi di Gigi Fossati: «Tera e aqua, aqua e tera / da putini e da grandi / "Siora tera, ai so comandi" / po' se crepa e bonasera...». Campagne, colline, montagne, lagune dove tutta la vita, per centinaia di migliaia di contadini, ruotava intorno a quel binomio: la terra e l'acqua, l'acqua e la terra. Una vita durissima. Segnata da malattie della miseria come la gastroenterite o la pellagra («polenta da formenton / aqua de fosso / lavora ti paron / che mi no posso») che uccidevano più che tutti i tumori messi insieme. Marcata dall'esodo di interi paesi verso le Meriche, l'Australia o tutte le contrade d'Europa, compresa la Romania, come spiega un libro appena uscito («Veneti in Romania») di Roberto Scagno, Paolo Tomasella e Corina Tucu e come già diceva una canzone di oltre un secolo fa: «Andiamo in Transilvania / a menar la carioleta / ché l'Italia povareta / no' l'ha bezzi da pagar».
Una storia rimossa dalla nostra memoria collettiva perché ancora sentiamo una fitta al cuore quando leggiamo il diario del medico condotto Luigi Alpago Novello che aveva lavorato, agli sgoccioli dell'Ottocento nelle campagne tra il Trevigiano e il Pordenonese: «Gli individui di una famiglia di contadini sono valutati in ragione dell'utile che apportano. La morte di quelli che sono impotenti o poco adatti al lavoro o giacciono a letto da qualche tempo è un fatto che ha minore importanza e cagiona molte volte minor dolore della morte, non dirò di un grosso animale bovino, ma anche di una semplice pecora». Partirono almeno in tre milioni, dal solo Veneto, a cominciare dagli anni della grande crisi contadina nella seconda metà dell'Ottocento fino alla metà degli anni 70 del Novecento. Mossi da una disperazione riassunta nella struggente poesia di Berto Barbarani intitolata «I va in Merica»: «Crepà la vaca che dasea el formaio, / morta la dona a partor 'na fiola, / protestà le cambiale del notaio, / una festa, seradi a l'ostaria, / co un gran pugno batù sora la tola / "Porca Italia" i bastiema : "andemo via!"».
Sono in tanti a non avere colto fino in fondo quanto sia stata importante la lunga stagione dell'emigrazione. Basti ricordare un libro di qualche anno fa fortissimamente voluto dall'allora assessore leghista alla cultura Ermanno Serrajotto, intitolato «Noi Veneti» e distribuito in tutte le scuole della regione. In 127 pagine c'era un po' di tutto, dall'origine leggendaria dei veneti in Paflagonia (una regione sulla costa turca del Mar Nero, da dove gli antenati dei Brustolon e dei Vianello sarebbero partiti inizialmente per difendere Troia dai greci per essere poi costretti dopo la sconfitta a emigrare coi barconi verso le coste dell'alto Adriatico) al boom economico degli anni Novanta, dal teatro dialettale alla «traduzione» in veronese di una poesia di Catullo dedicata a Sirmione: «Cossa de mejo gh'è del riposarse / infin, dal peso e dal strassinamento...». C'era di tutto: meno l'epopea dell'emigrazione veneta, alla quale erano dedicate in tutto otto righe, scarse, a corredo di un disegnino dal quale pareva che i veneti fossero emigrati solo in Brasile e in Argentina.
Il Titanic dei poveri - La famiglia di Felice Serafini, partita da Arzignano (VI) verso il Brasile, fu decimata dal naufragio del piroscafo Sirio avvenuto il 4 agosto 1906 davanti alle coste della Spagna. Si salvarono solo il padre e due dei bambini. Gli altri figli e la moglie incinta morirono annegati. La foto fu scattata pochi giorni prima di partire come ricordo da lasciare ai parenti Eppure, il miracolo del Nord est di oggi, quel Nord est che dopo la formidabile accelerata degli ultimi decenni affronta un po' inquieto («che sarà di noi, che eravamo appena diventati ricchi?») gli anni di magra, è figlio di quei nostri nonni. Della loro forza d'animo davanti ai rovesci. Della loro dedizione. Del loro rigore. Ma più ancora, a vedere i poveri utensili di un tempo, utensili che si possono oggi ritrovare con ammirato stupore nel centro dedicato ai fondatori di «Cea Venessia» nell'australiano Queensland o in tanti altri musei dell'emigrazione sparsi per il mondo, è figlio della loro abilità artigianale. Della loro perizia nel maneggiare il martello, la pialla o lo scalpello. Della loro cura del dettaglio. Della loro precisione. Della loro capacità di individuare soluzioni semplici a problemi complicati. Certo, quella crisi che, come ha spiegato Marco Onado a un recente dibattito alla Bocconi, ha fatto scoppiare una bolla finanziaria 16 volte più grande del Pil mondiale, bruciato nei soli Stati Uniti 11 trilioni di dollari, ricacciato centinaia di milioni di abitanti del mondo sotto la soglia di povertà, ha avuto pesanti effetti anche nel Veneto. Che essendo tradizionalmente legato all'economia tedesca, soffre particolarmente per le difficoltà di Berlino.
Stando al rapporto Unioncamere sul 2008, le imprese manifatturiere con meno di nove addetti (l'ossatura del sistema Veneto col 92,2% delle partite Iva) hanno visto una flessione traumatica del 13,2%. La rete autostradale, che per anni aveva fatto ammattire gli abitanti, gli imprenditori e i trasportatori di mezza Europa, ha fatto segnare per la prima volta, proprio alla vigilia dell'apertura del passante di Mestre, un calo di traffico, segno inequivocabile delle difficoltà del sistema produttivo. Il porto di Venezia, nonostante un aumento intorno ai 15 punti del movimento container e del movimento passeggeri, non è riuscito a rosicchiare che un piccolissimo +0,1%. In provincia di Vicenza, protagonista nel recente passato di un boom industriale senza precedenti, sono andati in crisi perfino i tre settori che parevano più al riparo da ogni tempesta. Quelli della moda (-25%), dell'oreficeria (-15%) e della concia (-18%). Per non dire del settore edilizio, che dopo anni di espansione pagata a caro prezzo dalla campagna, qua e là devastata dal cemento (24 milioni di metri cubi di capannoni nel 2000, 27 nel 2001, 38 nel 2002, 24 nel 2003...), ha fatto segnare un calo del 3,8% con un crollo di quasi il 7% nel «nuovo non residenziale privato».
Perfino il turismo alberghiero, nonostante nella crisi le persone si concentrino là dove l'offerta è più forte, come nel caso della regione che è la prima in Italia, ha perso 4 punti delle presenze e 2 negli arrivi. Nonostante l'incanto delle città d'arte, la bellezza delle Dolomiti, le spiagge, il lago di Garda, le lagune che fanno del Veneto, probabilmente, una delle terre più generose di emozioni...
Insomma, è dura. E oggi più di prima si vede quanto sia stato un peccato non utilizzare gli anni delle vacche grasse, quando intorno ai Benetton, ai Del Vecchio, ai De Longhi, ai Marzotto, agli Zamperla, pareva quasi che tutte le cose che i veneti toccavano diventassero oro, per investire sul futuro. Intendiamoci, c'è chi l'ha fatto. Ce lo ricorda il caso della Grafica Veneta, coi suoi cento milioni di libri stampati nel 2008. O quello della Aprilia di Noale, dove Roberto Colaninno, sul terreno seminato da Ivano Beggio (che, prima di dover cedere, aveva costruito un'azienda tesa ad assumere più ingegneri che manovali) ha deciso di portare il centro di sviluppo tecnologico, ricerca, innovazione dell'intero gruppo Piaggio.
In linea di massima, però, la grande occasione è stata sprecata. E lo dimostra proprio un rapporto nato nel Veneto, quell'«Annuario Scienza e Società» a cura di Valeria Arzenton e Massimiano Bucchi, di «Observa», che studia lo stato della scienza e della tecnologia nella penisola. Gli studenti veneti sono i migliori in Italia, dopo i «cugini» del Trentino Alto Adige e del Friuli Venezia Giulia nelle scienze, segno che la scuola da noi è in condizioni migliori che altrove, ma tra le regioni italiane con più persone impiegate nel mondo della ricerca, il Veneto viene soltanto al quinto posto. E con 13.196 addetti è nettamente staccato non solo dalla Lombardia (37.150) e dal Lazio (30.578), ma anche dal Piemonte (20.451) e dall'Emilia-Romagna (19.625). La classifica delle regioni italiane che spendono più soldi in assoluto nella ricerca è ancora peggiore: qui il Veneto è superato anche dalla Campania e dalla Toscana. Eppure, c'è chi l'aveva detto. Negli anni del miracolo, dell'orgoglio per la spettacolare accelerata (un solo dato: l'escalation della provincia di Treviso cresciuta nell'export, dal 1968 al 1998, da 140 a 14.000 miliardi di lire, un prodigio per una terra che aveva visto negli anni 50 emigrare da paesi come Gorgo al Monticano quasi un terzo della popolazione), dell'improvviso benessere e della convinzione di essere la locomotiva d'Italia, c'era chi aveva avvertito: non basta lavorare tanto. Occorre puntare sul futuro, sulle nuove tecnologie, sulla ricerca, su un uso intelligente dell'ambiente, troppo spesso sprecato per costruire capannoni su capannoni.
Il più duro fu proprio quel Federico Faggin di cui dicevamo all'inizio, che dopo essere tornato nella «sua» Vicenza per fondarvi un'impresa avveniristica, se ne era rientrato deluso a Palo Alto, in California: «Io sono italiano e amo l'Italia, ma nelle tecnologie d'avanguardia c'è un buco inaccettabile», mi avrebbe poi confessato in un'intervista al Corriere: «Siamo i quinti al mondo? Bene: dovremmo essere i quinti anche nell'informatica. E invece siamo molto, molto, molto più indietro. L'Italia va bene per far camicie, non i prodotti d'avanguardia». Colpa dell'Università: «Troppo distacco tra la ricerca e le imprese. Troppa burocrazia. Troppi docenti chiusi nelle torri d'avorio. Quando cominciai a lavorare all' Olivetti eravamo tre o quattro anni indietro rispetto all'America. Oggi la distanza è abissale. Io mi tolgo il cappello davanti ai padroncini del Nord est. Sono bravissimi, costruiscono macchine straordinarie. La parte elettronica, però, è fatta da altre parti. Nulla è italiano: nulla di nulla».
Colpa della politica, disse: «Non aiuta chi fa ricerca». Ma anche degli imprenditori: «Non hanno coraggio, non credono nella cultura, vogliono tutto subito, non mettono i soldi per scommettere sul dopodomani come gli americani o i cinesi di Taiwan. Per carità: scelte. Ci sarà sempre bisogno di pasta, maglioni e sellini. Ma io resto qua».
Chissà che questi tempi di difficoltà non aiutino. «Una crisi come questa non va sprecata», ha detto Barack Obama. Se i veneti riuscissero a dare una nuova accelerata... In fondo, forse, fu più difficile per i nostri nonni partire dalle colline trevigiane oltre un secolo fa per la Nouvelle France, al di là del Borneo, e raggiungere dopo 368 giorni, decimati dalle malattie e dai lutti, il porto di Sydney...
Gian Antonio Stella 18 maggio 2009
da corriere.it
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