LA-U dell'OLIVO
Novembre 27, 2024, 01:18:29 pm *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: 1 ... 8 9 [10] 11 12 ... 17
  Stampa  
Autore Discussione: ALDO CAZZULLO.  (Letto 144707 volte)
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #135 inserito:: Gennaio 25, 2013, 03:38:04 pm »

IL DECENNALE DELLA SCOMPARSA DI GIANNI AGNELLI

«L'Avvocato che mi tolse all'Olivetti era quello sciatore nella bufera»

Il ricordo di Gianluigi Gabetti, il manager al suo fianco: «Resistono il suo europeismo e l'indipendenza del gruppo»

di  ALDO CAZZULLO


«Crans, Svizzera, fine Anni 80. Penso di approfittare della presenza di André Meyer per far incontrare Giovanni Agnelli con il grande banchiere americano e due importanti finanzieri europei, ospiti nella sua villa. Mi trasferisco là il giorno prima. Nevica tutta la notte, il traffico è bloccato, le linee telefoniche da Sion in su interrotte. All’evidenza, Agnelli non potrà venire. Stiamo guardando il bianco paesaggio attraverso le vetrate, quando notiamo uno sciatore che scende velocemente attraverso il campo di golf davanti alla villa, arriva a pochi metri da noi, si ferma e ci sorride, slacciando la corazzatura allacciata alla gamba destra. Era l’Avvocato. Saputo della nevicata, si era fatto portare in elicottero su un colle vicino a Crans per poi scendere con gli sci. Chiese qualche minuto per mettersi in ordine e alle 10 in punto la riunione ebbe inizio. Del resto teneva molto alla puntualità, capitava spesso di arrivare in orario e trovarlo già lì ad aspettare…».

Dottor Gabetti, cosa resta di Agnelli a dieci anni dalla sua scomparsa?
«Non riesco a pensare alla sua morte come a una scomparsa, perché la sua figura è presente nelle molte vicende da lui originate. Non scomparsa, quindi, e neppure mestizia o malinconia: sono termini incompatibili con il suo modo di vedere la vita come continua alternanza di forti sentimenti e di forti azioni».

A quali vicende si riferisce?
«L’europeismo. Il rapporto con l’America. L’unità della famiglia. L’indipendenza del gruppo Fiat e la sua espansione internazionale».

Gianni Agnelli e Gianluigi GabettiGianni Agnelli e Gianluigi Gabetti
Alla fine della sua vita, l’Avvocato amava ricordare che l’acronimo Fiat era ancora valido: «Siamo ancora una fabbrica, abbiamo sede in Italia, facciamo automobili, la testa è a Torino». Secondo lei sarà ancora così?
«Guardi che Giovanni Agnelli aveva chiarissima la necessità di aprirsi al mondo. Per decenni la Fiat ha trattato un’alleanza in America. Prima con la Ford. Poi con la General Motors; e si profilava la possibilità di una vendita. Alla fine è stata la Fiat a rilevare la Chrysler. L’America era il suo orizzonte. Ma aveva un forte legame con l’Europa, ereditato dal nonno, che negli anni del fascismo prefigurò in un libro gli Stati Uniti d’Europa. Lui poi aveva conosciuto Schuman, Monnet, Altiero Spinelli, Luigi Einaudi, che oltretutto era piemontese. Era amico di Delors e di Gaston Thorn, suo predecessore alla presidenza della Commissione europea. Vedeva spesso Kohl».

Torino ricorda l'avvocato Agnelli

Quando vi siete incontrati per la prima volta?
«Negli anni 60. Allora lavoravo in America per l’Olivetti. Mi mandò a chiamare, mi fece molte domande. A lungo non si fece più vivo. Poi nell’aprile 1970 mi telefonò: "Sono a New York. Lei cosa sta facendo?". D’istinto gli dissi la verità».

Vale a dire?
«Stavo andando a giocare a tennis con mia moglie. Lui si scusò: "Speravo mi potesse raggiungere". Rinunciai al tennis».

E le chiese di guidare l’Ifi, la finanziaria di famiglia.
«A dire il vero, come prima cosa mi chiese, visto che ero nel board del Moma, se potevo aiutarlo a visitare il museo nel giorno di chiusura: c’era una mostra dedicata alla collezione di Gertrude Stein che gli interessava. Ci riuscii, e lui ne fu molto felice. Volle rivedere anche la collezione permanente. Riconosceva tutti i quadri da lontano: "Quello è Braque, quello Picasso" e così via. E comunque sì, mi chiese di lasciare l’Olivetti per l’Ifi. Avvertii il mio presidente di allora, Visentini».

Come la prese?
«Malissimo. Cossa vol queo lì? (Gabetti si produce in un’imitazione perfetta di Visentini). Partì subito per gli Stati Uniti. Dovetti dirgli che avevo deciso di accettare. Lo riaccompagnai all’aeroporto in un silenzio tombale. Poi telefonai ad Agnelli».

Lei non lo chiamava Avvocato, vero?
«No. In presenza di altri, lo chiamavo presidente. E ci siamo sempre dati del lei. Stavo attento a non avvicinarmi troppo a lui, e glielo dissi. Il rischio era restare schiacciati dalla sua personalità: avrei perso il mio punto di vista, e non avrei più potuto essergli utile».

Com’erano i vostri rapporti?
«Mi telefonava tutti i giorni, sempre alle 6 e 40: "Gabetti, cosa c’è di nuovo?". In realtà, lui ne sapeva molto più di me: aveva già letto i giornali - li mandava a prendere alle 5 del mattino alla stazione di Porta Nuova - e telefonato in America a Kissinger, che non amava ricevere chiamate la sera, ma per Agnelli faceva eccezione. Ogni tanto mi invitava a pranzo a Villa Frescot. Pranzi simbolici: un piccolo risotto, un trancio di pesce, un bicchiere di vino francese. Solo alla fine sono riuscito a fargli scoprire i vini piemontesi: prima Gaja, poi Ceretto e Bartolo Mascarello con la complicità del suo fidatissimo Bruno Gasparini».

Il leggendario maggiordomo Brunetto.
«Lui. Si stava a tavola meno di mezzora. Poi Agnelli andava a riposare».

Parlava piemontese?
«Un poco. L’aveva imparato dal nonno, e lo citava volutamente. Di una persona immatura diceva: A l’è ’na masnà, è un bambino. Era profondamente legato a Torino. Si è battuto molto per l'assegnazione delle Olimpiadi invernali: stava già male, si fece caricare a forza di braccia sull’elicottero che doveva portarlo a Sion, dove si teneva la riunione decisiva».

Lei è stato partigiano. Parlavate mai della guerra e della Resistenza?
«Qualche volta sì. In guerra Agnelli aveva fatto più di quel che gli era richiesto. Passò un inverno in Russia. Poi la sua unità fu spostata in Africa. Il carro armato davanti al suo, su cui stava il comandante, il colonnello Lequio, fu falciato da uno Spitfire inglese».

E dopo l’8 settembre?
«Non ebbe dubbi su quale fosse la parte giusta. Del resto non aveva mai avuto simpatia per il fascismo. Certo, a Roma aveva conosciuto Ciano. Ma a Torino il nonno gli aveva messo accanto Massimo Mila e Franco Antonicelli, di cui tutti sapevano che erano antifascisti. Un giorno Antonicelli non venne: era stato arrestato. Dopo l’8 settembre Agnelli passò le linee per unirsi alle formazioni italiane che combattevano con la Quinta Armata. Ebbe un grave incidente, fu assistito dalla sorella Suni, che faceva la crocerossina. Erano giorni di grande incertezza, l’Europa era stata divisa a Yalta ma non si sapeva ancora se l’Italia sarebbe stata nella sfera d’influenza americana o in quella sovietica. Corse voce che Stalin avesse rinunciato perché preferiva non avere direttamente a che fare con il Papa».

È vero che lei era contrario al primo intervento della Fiat nel Corriere?
«Sì. Gli dissi che non la vedevo chiara, che in Rizzoli avremmo trovato molte realtà che non conoscevamo».

E lui?
«Per lui il Corriere era un simbolo. Un giorno mi mandò a chiamare. Mi dissero che stava scendendo, lo aspettai in cortile. Parlammo a lungo. Poi salì in macchina - gli piaceva guidare di persona, usando solo la mano destra - e prima di partire abbassò il finestrino e disse solo: "Ah, alla fine il Corriere l’abbiamo preso". E filò via».

Com’era il suo rapporto con l’America?

«A dicembre ho rivisto David Rockefeller e Kissinger: entrambi sono convinti che Agnelli sia stato, su scala mondiale, l’italiano più significativo e importante del secolo breve. Capitava che avvertisse all'ultimo momento del suo arrivo a New York, e ogni volta era facile organizzare una colazione alla quale si premuravano di venire, annullando sovente impegni, oltre a Kissinger e a David Rockefeller, suo fratello Nelson, Warren Buffett, André Meyer. Una volta c’era David Paley, presidente della Cbs, un’altra Katherine Graham proprietaria del Washington Post, un’altra ancora il direttore del New York Times. Tutti vedevano in Agnelli la persona che meglio poteva metterli al corrente non solo delle cose italiane, ma anche dei principali Paesi europei e sudamericani. Quanto fu felice quando acquisimmo un pacchetto importante di azioni del Rockefeller Center…».

Come andò?
«David Rockefeller era rimasto molto dispiaciuto che, per una serie di vicende alle quali eravamo rimasti estranei, il Rockefeller Center, simbolo della potenza americana, fosse finito in mano ai giapponesi. Con i colleghi studiai una soluzione che avrebbe consentito di porre rimedio. Ne feci menzione ad Agnelli e lui si elettrizzò a quella idea. Con il concorso di Jerry Speyer, importante esponente del real estate americano e con l’appoggio di Goldman Sachs, riuscimmo nell’impresa. Non posso dimenticare lo scoppio di allegria dell’Avvocato quando poté darne notizia al suo amico David. Intendiamoci: non avrebbe mai fatto, con i soldi dei suoi familiari e degli azionisti terzi, un affare per un amico personale; ma l'idea che un’operazione di quella importanza, che molto giovò anche al prestigio del nostro gruppo, potesse essere condivisa non solo con un grande americano, ma a con un grande amico, lo rese felice. Agnelli non era un sentimentale, ma era capace di forti sentimenti e di forti amicizie».

Lei non sapeva di fondi dell’Avvocato all’estero?
«Non mi sono mai occupato del patrimonio personale dell’Avvocato, in Italia o all’estero. Per quanto riguarda l’Ifi, dal '71 in avanti preparai con ottimo successo un programma di diversificazione degli investimenti sui mercati internazionali. Ma negli ultimi anni della sua vita l’Avvocato mi disse di liquidare gli investimenti esteri dell’Ifi e delle sue controllate Ifil e Ifint (poi affluite nell’attuale Exor) in modo che i ricavi fossero impiegati per far fronte alle esigenze della Fiat, la cui situazione si era venuta sempre più aggravando. Dopo la sua morte, quelle risorse vennero in effetti utilizzate anzitutto per la ricapitalizzazione a cascata dell’intero gruppo, con sbocco finale sulla Fiat. Dopo la scomparsa di Umberto, attingemmo a quelle stesse risorse per finanziare la nostra operazione di equity swap».

Cioè l’operazione che consentì alla famiglia di mantenere il controllo della Fiat, ma costò a lei e a Grande Stevens un processo.
«Fu un’operazione di difesa da iniziative speculative che avrebbero minato la compattezza del patrimonio del principale gruppo industriale del Paese, facendone uno "spezzatino"».

Iniziative da parte di chi?
«Non l’ho mai saputo con certezza. Nel 2006 la procura di Torino eccepì sul testo della nostra comunicazione alla Consob e iniziò una vicenda giudiziaria che ci ha visti vincenti in primo grado. Ora il processo è in grado di appello».

È vero che Agnelli aveva soggezione di Cuccia?
«Non direi. Ammirava molto la sua cultura, era affascinato dal suo stile monastico e dalle maniere perfette, lo divertiva il suo humour - Cuccia esplodeva talora in risate improvvise -, ma badava a che il rapporto rimanesse sempre in equilibrio. Se Cuccia si addentrava nelle vicende del nostro gruppo al di là di un certo segno, Agnelli non lo assecondava, anche perché lui non si sarebbe mai peritato di occuparsi delle cose di Mediobanca. Avevano in comune la stima per Adolfo Tino e per Ugo La Malfa, l’unico politico che l’Avvocato tenesse davvero in grande considerazione. Le conversazioni tra Agnelli e Cuccia erano uno spettacolo. Davano su vari personaggi giudizi taglienti, anche se mai feroci».

Quali personaggi?
«Mai su dirigenti del nostro gruppo. Più facilmente sui politici».

Quali erano i difetti dell'Avvocato?
«Erano il reciproco delle sue qualità. Era molto rapido, e questo poteva andare a scapito dell’approfondimento. Va detto però che la sua capacità di capire al volo cose e persone era impressionante. Non è vero che soffrisse la noia. Lo facevano soffrire le persone noiose; ma non al punto da farlo diventare scortese».

Com’era il rapporto con il nipote John?
«Il modello era il rapporto che lui a sua volta aveva avuto con il nonno, il Senatore. L’Avvocato puntava su John e sono certo che non ne fu mai deluso. Lo mandò a conoscere Cuccia e Kissinger. Una volta incontrai l’Avvocato a Parigi con John e Lapo: li stava portando a visitare un museo, era molto serio».

E il rapporto con il figlio Edoardo?
«La sua morte fu un colpo durissimo, reso ancora più grave dal dolore di non essere mai riuscito a stabilire un rapporto con lui».

Credeva in Dio? Era religioso?
«Negli ultimi tempi si poneva la questione. Ne parlava in particolare con Bobbio, che vedeva con regolarità. Aveva apprezzato molto “De senectute”, il suo libro sulla vecchiaia; casa Bobbio era diventato il suo confessionale. Aveva avuto un’educazione religiosa, la domenica andammo qualche volta a messa insieme a Villar Perosa. È vero che lui qualche volta stava in piedi; ma in fondo alla chiesa».

Quand’è stata l'ultima volta che l’ha visto?
«Era già molto provato, costretto sulla sedia a rotelle, con le mani rovinate dai segni delle flebo. Era sempre molto composto però. Sino alla fine ha avuto un atteggiamento quasi da soldato: ad esempio non ci stringevamo quasi mai la mano, secondo le migliori tradizioni militari. Al momento di lasciarci, però, mi prese la destra e se la posò sulla guancia. Mi chiese di tenere unita la famiglia. Poi mi fece una sorta di saluto militare, e mi congedò».

23 gennaio 2013 (modifica il 24 gennaio 2013)

da - http://www.corriere.it/cultura/13_gennaio_23/agnelli-intervista-gabetti_d82ea060-65a4-11e2-a9ef-b9089581fbcf.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #136 inserito:: Febbraio 01, 2013, 12:09:51 am »

I PARTITI E IL RITORNO DI ANTICHI STECCATI

Il richiamo della foresta


Se questa campagna elettorale fosse un film o un romanzo, il titolo non potrebbe che essere «Il richiamo della foresta». Anziché rivolgersi nel complesso a un elettorato mai così incerto, i leader preferiscono rinfocolare i propri sostenitori. Si spiegano così non soltanto la grottesca uscita di Berlusconi sul Duce, ma anche la composizione delle liste del Pd e la sua strategia di comunicazione: «silenziare» renziani e veltroniani, privarsi volentieri di riformisti come Pietro Ichino, puntare su ex leader della Cgil e pure su operaisti anni 70 come Mario Tronti. Quanto alla lista Monti, non è riuscita a scrollarsi di dosso l'immagine di «partito dei notabili»; tanto più che la «terremotata povera» vantata dal presidente del Consiglio era in realtà la moglie di un funzionario del Senato. Se poi si considerano le leghe Nord e Sud, che per definizione presidiano il proprio territorio, la sindrome del «richiamo della foresta» appare ormai conclamata.

Il risultato sarà un voto molto diverso da quello del 2008. All'epoca l'elettorato si concentrò su due grandi partiti. Per la prima volta dal 1976, l'Italia aveva due forze, Pdl e Pd, al 38 e al 34 per cento (curiosamente nello stesso rapporto numerico che legava Dc e Pci). Il voto del 2013 si annuncia molto più frammentato. Dopo le ultime elezioni entrarono in Parlamento cinque partiti (oltre ai due maggiori e ai rappresentanti delle minoranze linguistiche, anche Lega Nord, Italia dei valori e Udc). Stavolta, considerate le casacche oggi mimetizzate in aggregazioni come quelle di Ingroia ma pronte domani per essere esibite dopo il voto, il numero dei partiti potrebbe uscirne moltiplicato o elevato a potenza.

Intendiamoci: mobilitare i propri elettori è una necessità in qualsiasi sistema politico, compresi quelli bipartitici come gli Stati Uniti.
Ma non si vincono le elezioni, e non si pongono le premesse per un governo solido, senza parlare all'intero Paese, senza avanzare una proposta valida per la gran parte dell'opinione pubblica. L'occasione del 24 febbraio è irripetibile. Perché non ci sono mai stati tanti cittadini che non sanno per chi votare. Giovani chiamati alle urne per la prima volta. Cattolici disorientati dalla fine di una stagione. Associazioni deluse dai punti di riferimento tradizionali. Mai come ora ci sarebbe spazio per politiche in grado di andare oltre antichi steccati: come non vedere, ad esempio, che imprenditori e lavoratori hanno interessi analoghi di fronte alla declinante egemonia della finanza? Che temi come il sostegno alla natalità e alle donne che lavorano sono sentiti in ceti sociali e territori molto diversi?

C'è poi una questione cui gli elettori sono estremamente sensibili ma che i candidati esitano a mettere al centro della discussione: i tagli al costo della politica. Il tema è affrontato con una sorta di virginale pudore; forse perché comporta un'autocritica per il passato.
Ma non basta qualche nota in fondo a pagine di programmi verbosi e inutili. Serve un impegno chiaro, da assumere non come corollario ma come premessa di qualsiasi azione riformatrice: ridurre drasticamente il numero dei parlamentari, le loro indennità, i loro privilegi.

Chi assumesse oggi con forza questo impegno sarebbe ancora in tempo per mutare il destino di una campagna, che sinora sembra fatta apposta per aizzare i tifosi e allontanare gli indecisi.

Aldo Cazzullo

31 gennaio 2013 | 11:32© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_gennaio_31/richiamo-foresta_e46eb7aa-6b6e-11e2-bfdf-0d9d15b9395f.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #137 inserito:: Febbraio 14, 2013, 05:21:00 pm »

CONTRO

Un’impresa a rischio forzatura

L'esordio dell'atleta sudafricano, bi-amputato, ai Giochi olimpici. In pista con le protesi va in semifinale nei 400


Vi è parso che la presenza di Pistorius alle Olimpiadi fosse una bella storia innestata su una forzatura? Non siete gli unici. Sono d’accordo con voi. Partecipare alle Olimpiadi è il sogno di tutti i ragazzi. Miliardi di ragazzi. Purtroppo, solo diecimila ci riescono. E la grande maggioranza di loro resterà del tutto anonima. La crudeltà della natura e i limiti della volontà umana effettuano una spietata e a volte ingiusta selezione. Altre volte la natura, e la sorte, sono particolarmente ingiuste. Una mutilazione o una malattia spezzano carriere o vocazioni da atleti. Per questo hanno inventato le Paralimpiadi.

Un grande successo. Ci sono atleti, pubblico, entusiasmo, anche sponsor. Perché quasi in ogni famiglia c’è una storia che può riconoscersi nell’evento. Anche Pistorius ha il suo sponsor. Che ieri ha comprato paginate su tutti i giornali inglesi, per propagandare la sua impresa: partecipare alle Olimpiadi, quelle «vere». Legittimo. All’apparenza, la sua è una storia fuori dall’ordinario. In realtà, è tutta dentro la logica promozionale sintetizzata dallo slogan «nothing is impossible», traduzione del latino «nihil difficile volenti»: nulla è impossibile, se davvero lo vuoi. Neppure gareggiare con sofisticatissimi attrezzi che è politicamente corretto chiamare gambe. Purtroppo, la realtà è diversa. Nella realtà, tantissime cose sono impossibili, anche se le desideriamo con tutto il nostro cuore. Banalmente, è ormai impossibile anche salire sul podio di una gara veloce se si è bianchi e non dopati; condizione abbastanza diffusa. La tecnologia avanza, e presto potrà risolvere molti problemi che a noi sembrano senza soluzione. Presto ogni deficit di natura o di accidente sarà almeno in superficie risolto, ogni limite congenito o dettato dalla sorte sarà colmato. Ma non credo che le persone diversamente abili abbiano bisogno di questo. Hanno già adesso, qui e ora, molti modi di mettere la loro forza morale al servizio della comunità, o anche solo di se stessi. Wolfgang Schaeuble, l’uomo più potente d’Europa, che governa l’economia tedesca e modera gli eccessi della donna più potente, la Merkel, è da decenni su una sedia a rotelle. Lui e i tanti come lui non hanno bisogno di un Pistorius per sentirsi padroni di se stessi e partecipi di una realtà comune. Il resto è una forzatura. Più che ai bambini afghani senza gambe, serve allo sponsor che compra paginate sui giornali inglesi.

Aldo Cazzullo

5 agosto 2012 | 11:56© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://olimpiadi.corriere.it/2012/notizie/05-agosto-un-impresa-a-rischio-cazzullo_8fac4cd2-dee2-11e1-9e96-0d6483763225.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #138 inserito:: Febbraio 26, 2013, 05:12:55 pm »

Il loden, il cane, l'ombra della Merkel

«Incompresa» l'idea del Professore

Con le parole d'ordine Europa e rigore, è diventato il candidato del sistema. La scomparsa del centro.


Ancora due mesi fa, pareva la volta buona che il centro, per quasi mezzo secolo luogo storico della Prima Repubblica e poi sepolto dalla Seconda, potesse risorgere. Le condizioni all'apparenza erano propizie. La sinistra, persa incredibilmente la chance Renzi, appariva - ed era - inchiodata al suo insediamento tradizionale.

La destra, ostaggio dei ripensamenti e dei guai di Berlusconi, sembrava sul punto di frantumarsi. E il centro trovava in Mario Monti un candidato autorevole, per giunta presidente del Consiglio uscente e punto di riferimento per Bruxelles, i partner europei, le gerarchie ecclesiastiche, i mercati, l'establishment internazionale. Ma il voto di ieri segna una rivolta proprio contro l'Europa, contro le gerarchie di qualsiasi segno, contro ogni establishment. I favori di Angela Merkel, come già dimostra la sconfitta di Sarkozy, non portano bene. E la Chiesa ha altro a cui pensare.

Al di là del risultato finale di Monti, che date le circostanze potrebbe anche non essere disprezzabile, non c'è dubbio che l'operazione centrista sia fallita. Perché il presupposto era la disgregazione della destra, il crollo del blocco sociale Berlusconi-Lega, la ricostruzione di una casa per i moderati italiani sulle macerie di leaderismi e populismi. Il Ppe, il fantomatico Partito popolare europeo, era pronto. Il Paese no. Il centro sotto il profilo politico quasi non esiste più. Prima ancora, si è volatilizzato sotto il profilo sociale, quasi antropologico.

I moderati italiani, nella loro maggioranza, non sono più gli stessi; e non sono più neppure così moderati. Vent'anni di berlusconismo e leghismo hanno cambiato rappresentanza, toni, linguaggio del centrodestra; o forse ne hanno rivelato la vera natura, liberata dalle mediazioni e dalle cautele del quarantennio democristiano. Dopo averlo bene o male sostenuto in Parlamento, Berlusconi ha incentrato la sua campagna elettorale contro Monti e contro tutto quel che Monti rappresenta: l'Europa, la moneta unica, il rigore finanziario, e ovviamente l'Imu, additato come il simbolo del governo tecnico. E il fatto che l'accordo tra il centro e la sinistra fosse l'unica coalizione di governo ipotizzabile alla vigilia non ha certo aiutato Monti nella difficile operazione di recupero dei delusi dalla destra.

Ancora peggio è andata a Fini e Casini. Assurti a paradigma dei politici di professione, pagano al di là dei loro demeriti. Fini non rientra alla Camera, di cui era presidente, perché si è ritrovato solo; la destra lo considera un traditore per la sua battaglia antiberlusconiana, i riformisti cui sperava di rivolgersi non si riconoscono in lui. Casini aveva scommesso sul crollo del bipolarismo, e in effetti un terzo Polo è emerso; ma non è il suo. L'Udc non ha mai avuto un grande peso elettorale, ma in questi mesi aveva esercitato un ruolo importante, dal Csm alla Rai, che da oggi farà certo più fatica a rivendicare. Chi pensava che il mondo cattolico si schierasse, è rimasto deluso: dalle Acli a Sant'Egidio, il peso di associazioni e movimenti non è stato affatto decisivo, anche perché talora le prime file non sono scese in battaglia; il che vale ovviamente pure per gli industriali, a cominciare da Montezemolo.

Alla Camera la lista Monti fagocita gli alleati, ma non c'è dubbio che pure il Professore abbia sbagliato campagna elettorale: i tentativi di «umanizzarlo» spogliandolo del loden e mettendogli in braccio cagnolini randagi gli ha tolto autorevolezza senza dargli popolarità; il resto l'ha fatto la legge dei media, che ogni giorno estraeva dal suo periodare denso una frasetta che irritava ora Bersani, ora i cattolici - l'indicazione della Bonino al Quirinale -, ora persino l'«amica» Merkel. Però la vera incomprensione è stata con gli italiani. Da premier, Monti ha imposto sacrifici inevitabili ma pesanti, e da candidato ha proposto riforme radicali e ragionamenti complessi a un elettorato disilluso e arrabbiato.

Berlusconi, che è in politica da vent'anni, è in parte riuscito a presentarsi come forza antisistema. Monti, che era all'esordio, ha finito per divenire l'emblema del sistema stesso. Paradossalmente, se avesse rinunciato a candidarsi oggi potrebbe rimanere al suo posto, a Palazzo Chigi, unico punto di riferimento di un Paese ingovernabile. La scelta di giocare la partita di persona rende tutto più difficile. Forse, tra qualche tempo, quando la rabbia si sarà attenuata, si potrà giudicare l'anno di governo tecnico in modo più generoso. Resta il fatto che gli italiani non sono più gli stessi, o sono sempre di meno coloro che si riconoscono in un certo linguaggio, in uno stile, in una visione del Paese e dell'Europa. Non è ancora, o forse non è più, tempo per centristi.

Aldo Cazzullo

26 febbraio 2013 | 8:13© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/speciali/2013/elezioni/notizie/26-febbraio-loden-cane-ombra-merkel-cazzullo_f9b469e4-7fe0-11e2-b0f8-b0cda815bb62.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #139 inserito:: Marzo 14, 2013, 03:57:04 pm »

I riferimenti al fondatore dei gesuiti. E il pensiero al poverello di Assisi

«Le nuove vesti? Prima si va dalla Madonna»

La prima giornata da pontefice di Papa Francesco.

La preghiera davanti all'icona Salus populi romani

di  ALDO CAZZULLO


Ai cerimonieri che come prima cosa volevano portarlo dal sarto, Papa Francesco l’ha detto fin dalle 5 e mezza di stamattina: prima si va dalla Madonna. E i francescani della basilica di Santa Maria Maggiore l’hanno appreso quando, aprendo la chiesa, hanno trovato la gendarmeria vaticana in perlustrazione.

Jorge Mario Bergoglio è arrivato alle 8 e ha compiuto pochi gesti, tutti significativi. Ha pregato sull’antichissima icona della Madonna, la «Salus populi romani», dipinta secondo la tradizione da San Luca, cui i gesuiti come lui sono legatissimi: i missionari della Compagnia di Gesù che andarono ad annunciare il Vangelo in Cina portavano proprio la riproduzione di questa icona. Poi Papa Francesco ha pregato nella cappella Sistina di Santa Maria Maggiore, dove Ignazio da Loyola, fondatore dei gesuiti, ha celebrato la prima messa. Ha sostato davanti alla tomba di san Pio V, il Papa di Lepanto e anche unico Papa piemontese della storia, prima di Bergoglio, che è argentino ma di genitori piemontesi. Si è inginocchiato davanti ai resti della mangiatoia di Betlemme. Prima di andarsene, ha raccomandato a padre Ennio Monteleone, a padre Angelo Gaeta a agli altri confessori della basilica: «Siate misericordiosi».

Infine ha pregato san Francesco Saverio, altro gesuita, e san Francesco d’Assisi, davanti alla pala d’altare nella navata sinistra che raffigura l’estasi del Poverello. Ma tutti in chiesa hanno pensato a un’altra immagine, quella affrescata da Giotto nella basilica superiore ad Assisi: il sogno di Innocenzo III, con Francesco che sostiene la Chiesa e ne evita il crolllo.

14 marzo 2013 | 10:33

da - http://www.corriere.it/esteri/speciali/2013/conclave/notizie/14-cazzullo-papa-francesco-santa-maria-maggiore_38b99f32-8c8a-11e2-ab2c-711cc67f5f67.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #140 inserito:: Marzo 15, 2013, 06:29:07 pm »

Una scossa per tutti

La sfida al mondo vecchio che Jorge Mario Bergoglio ha lanciato con i primi, rivoluzionari gesti del suo pontificato, a cominciare dalla scelta del nome, non è rivolta solo alla Chiesa. È rivolta anche a noi. Ci riguarda. Il coraggio con cui il nuovo Papa intende combattere la corruzione, gli intrighi, l'ostentazione, l'egoismo non si fermerà alle mura del Vaticano o sul sagrato delle parrocchie. Investirà la comunità dei credenti e l'intera società: non solo le autorità politiche, con cui Bergoglio ha sempre avuto rapporti franchi e tutt'altro che compiacenti, dai militari a Menem, da De la Rua ai Kirchner; ma pure le coscienze di tutti e di ciascuno.

È bello avere un Papa che dopo l'elezione non sale sulla Mercedes scura ma sul pullmino con i cardinali, che rimanda i sarti venuti a prendergli le misure per andare a portare un mazzo di fiori alla Madonna, che paga il conto della stanza dov'era ospitato a Roma dopo aver cambiato da solo la lampadina bruciata. Però il carisma fortissimo di papa Francesco non va ridotto a questo, non si esaurisce nel rappresentarlo come «uno di noi». Certo, in una stagione di impoverimento, l'esempio della massima autorità religiosa dell'Occidente che vive - nei limiti che saranno possibili - con uno stile semplice è incoraggiante, e dovrebbe essere di monito a cardinali e politici. Ma la rivoluzione di papa Francesco è più ampia. Le sue spalle non intendono solo sostenere la chiesa che crolla, come nel sogno di Innocenzo III affrescato ad Assisi da Giotto. Non è solo la crisi economica la sua angoscia. È la crisi della modernità, che ci colpisce tutti, religiosi e laici, ricchi e poveri.

Fa impressione sentire il Papa parlare di «mondanità del demonio», che consiste nel «mettere al centro se stessi. È quello che Gesù vede tra i farisei: "Voi che date gloria a voi stessi, gli uni agli altri"». Non a caso, affacciandosi su piazza San Pietro, Francesco ha invitato i fedeli a dare gli uni agli altri non gloria ma «amore, fratellanza, fiducia». Il Papa denuncia un mondo in cui non c'è rispetto per il prossimo e non c'è fiducia nel domani. Nessuno si fida dell'altro e a maggior ragione della Chiesa e dello Stato. In molti confondono la mitezza con la debolezza, non onorano i debiti, non confessano più i crimini o anche solo gli errori.

Al nichilismo dei tempi il Pontefice ha opposto ieri «edificazione, confessione, cammino». L'ha fatto con stile umile ma potente, da discepolo di san Francesco e da rigoroso soldato della Compagnia di Gesù. Il suo motto è Miserando atque eligendo : avere misericordia per tutti, ma scegliere; distinguere l'innocente e il colpevole, il giusto e l'ingiusto, il meritevole e l'ignavo. Per questo voler imprigionare papa Francesco nelle categorie di conservazione e progressismo, o peggio ancora destra e sinistra significa perdere l'occasione che ci offre. Perché quando suonano le campane di San Pietro, non dobbiamo chiederci se suonano per il segretario di Stato o per la Curia o per lo Ior; esse suonano per noi.

Aldo Cazzullo

15 marzo 2013 | 9:11© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_marzo_15/scossa-per-tutti_4d91cb3e-8d32-11e2-b59a-581964267a93.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #141 inserito:: Aprile 04, 2013, 05:22:17 pm »

L'intervista «In sei mesi si può cambiare la legge elettorale e anche abolire le Province»

Renzi: «Ora patto con il Pdl oppure alle urne

Bersani si è fatto umiliare dagli arroganti M5S»

Il sindaco di Firenze: basta vivacchiare, bisogna avere le idee chiare. Riuniamo i gruppi e lanciamo una proposta forte


«Pensiamo a cos'è successo nel mondo dal 25 febbraio a oggi. In Vaticano c'era ancora Ratzinger; in un mese è stata scritta una pagina di storia. Il pianeta corre. E l'Italia è totalmente ferma. Le aziende chiudono. La disoccupazione aumenta. E la politica perde tempo. La tempistica prevista dalla Costituzione va rispettata. Ma qui si sta facendo melina. Si rinvia tutto alla scelta di un presidente della Repubblica più sensibile a dare l'incarico a Tizio o a Caio. Ma questo alimenta l'antipolitica. La vera moralità non è solo tagliare i costi; è rendere efficiente quel che fai».

Matteo Renzi, cosa dovrebbe fare il Pd? Un governo con il Pdl, o no?
«Il Pd deve decidere: o Berlusconi è il capo degli impresentabili, e allora chiediamo di andare a votare subito; oppure Berlusconi è un interlocutore perché ha preso dieci milioni di voti. Non è possibile che il noto giurista Migliavacca un giorno proponga ai grillini di votare insieme la richiesta di arresto per Berlusconi, che tra l'altro non è neanche arrivata, e il giorno dopo offra al Pdl la presidenza della convenzione per riscrivere la Carta costituzionale. In un momento si vagheggia Berlusconi in manette, in un altro ci si incontra di nascosto con Verdini. Non si può stare così, in mezzo al guado. Io ho tutto l'interesse a votare subito. Ma l'importante è decidersi».

Se si torna a votare subito con Bersani candidato premier, lei che fa?
«Guardi, non nego che fino a qualche settimana fa la mia valutazione passava dal capire cosa potevo fare da grande. Ma in questo momento è secondario quel che fa Renzi o quel che fa Bersani. Qui c'è una crisi talmente profonda che una sola cosa conta davvero: quel che fa l'Italia.
Io parlo contro il mio interesse. In tanti mi dicono: "Matteo stai buono, non fare interviste, stai zitto, tanto la prossima volta tocca a te". Ma io non ragiono in questo modo. Non voglio stare buono così qualcosa mi tocca. Non voglio essere cooptato da altri. Non voglio essere l'ultimo di quelli che c'erano prima. Semmai vorrei essere il primo di una fase nuova. E mi stupisco quando sento dire da alcuni dei nostri: "Non possiamo fare questa cosa perché gli italiani non ci capirebbero". Non sono gli italiani che non ci capiscono; siamo noi che non capiamo loro.
Come se gli italiani fossero meno capaci di noi di intendere o di volere....».

Quindi il Pd secondo lei dovrebbe fare un accordo con Berlusconi.
«Non necessariamente. Deve smettere di fare melina. Non parto dall'accordo con Berlusconi. Parto dal fatto che si devono avere idee chiare.
O si va a votare, e la cosa non mi spaventa; anche se, ad andare in Parlamento, non trovi un deputato convinto in cuor suo che si debbano sciogliere le Camere, per quanto nessuno abbia il coraggio di dirlo fuori. Altrimenti si fa un patto costituente da cui nasce la Terza Repubblica. Qui invece si punta a prendere tempo e a eleggere un capo dello Stato che ci dia più facilmente l'incarico di fare il nuovo governo».

Lei chi vedrebbe al Quirinale?
«Si figuri se mi metto a fare dei nomi. L'importante è che sia una personalità autorevole, scelta pensando ai prossimi 7 anni, non alle prossime 7 settimane».

Ma il Pd deve scegliere il capo dello Stato con Grillo o con Berlusconi?
«Non si deve partire dagli equilibri tattici, ma dalle persone. Si trovi una candidatura forte; poi chi ci sta ci sta. Allo stesso modo, per il governo si deve partire dalle cose da fare».

Quali cose?
«Anziché vivacchiare, rendiamo utile questo tempo. Bersani riunisca fin dalla prossima settimana i gruppi parlamentari. Non l'ennesima direzione che diventa una seduta di autocoscienza; i gruppi parlamentari, che tra l'altro sono quasi tutti bersaniani. Giovani in gamba, persone di valore, che però si sono riuniti finora, credo, solo tre volte. Lanciamo una proposta forte. Il sindaco d'Italia: una nuova legge elettorale, grazie a cui si sa subito chi ha vinto. Abolizione del Senato, che diventa la Camera delle autonomie, con i rappresentanti delle Regioni e i sindaci delle grandi città che vanno a Roma una volta al mese e lavorano senza ulteriori indennità; così il Parlamento è più efficiente e costa la metà».

Sono leggi costituzionali. Ci vuole tempo.
«In sei mesi si può fare. Come anche l'abolizione delle Province; per davvero però, non per finta come si è fatto finora. Se invece riteniamo che lo spazio per parlare con il centrodestra non ci sia, allora andiamo a votare. Ma in fretta».

Comunque il patto costituzionale passa attraverso un accordo di governo con il Pdl. Proprio quello che Bersani esclude.
«Andare al governo con Gasparri fa spavento, lo so. Non a caso io sono pronto a votare subito. Ma se il Pd ha paura delle urne deve dialogare con chi ha i numeri. Il Pd avanzi la sua proposta, senza farsi umiliare andando in streaming a elemosinare mezzi consensi a persone come la capogruppo dei 5 Stelle, che hanno dimostrato arroganza e tracotanza nei nostri confronti».

Che impressione le ha fatto quella diretta?
«Mi veniva da dire: "Pierluigi, sei il leader del Pd, non farti umiliare così!". Ho pensato a cosa doveva provare una volontaria che va a fare i tortellini alla festa dell'Unità: credo ci sia rimasta male nel vedere il suo leader trattato così, alla ricerca di un accordicchio politico».

Grillo è il vero vincitore delle elezioni, con lui si dovrà pur parlare.
«Se avessimo fatto ciò che dovevamo fare Grillo non arrivava a doppia cifra. Se un marziano fosse arrivato in Italia il 25 febbraio, avrebbe visto tre leader tutti e tre convinti di aver vinto o comunque di essere andati bene, più un quarto, Monti, che diceva: in pochi giorni non potevo fare di più. Nel frattempo l'economia attraversa una crisi drammatica. E noi passiamo le giornate a farci spiegare dalla Lombardi, con un'arroganza che non si vedeva dai tempi della Prima Repubblica, cosa siamo e cosa non siamo? Rivendico il diritto alla dignità della politica, che è una cosa seria. Noi non dobbiamo inseguire Grillo. Facciamo noi i tagli alla politica, aboliamo il finanziamento pubblico ai partiti e poi vediamo chi insegue».

Ci sono i dieci saggi al lavoro.
«Cosa ci possono dire di nuovo Violante e Quagliariello? Non sono certo la soluzione, al più possono essere concausa della crisi. Lo dico con grande rispetto per il presidente Napolitano: dare la colpa a lui per l'impasse è come dare la colpa al vigile se in città c'è traffico.
Ma ora il Pd deve avere un sussulto di orgoglio: via il Senato, via le province, legge elettorale dei sindaci. Una gigantesca operazione di deburocratizzazione, con una grande scommessa sull'on line. E un piano per il lavoro, che dia risposte al dolore delle famiglie e alle sofferenze delle imprese. Vedo invece che hanno ancora rinviato il decreto per pagare i debiti della pubblica amministrazione, e mi chiedo: ma questi da quanto tempo non vanno in un'azienda?».

Ce l'ha con Monti?
«Monti ha fatto un lavoro importante, soprattutto all'inizio. Ora deve proseguire, fino a quando non avremo un nuovo governo».

E Berlusconi? Come sono in realtà i vostri rapporti? E' vero che le ha proposto di fare un partito insieme?
«Macché. L'ho visto quattro volte in vita mia. Ad Arcore, com'è noto. All'inaugurazione dell'alta velocità. In prefettura a Firenze nel 2006.
E, nel novembre 2011, a San Siro, dove lui era per il Milan e io per il mio amico Pep Guardiola. Non lo vedo da allora. L'accusa di intelligenza con il nemico è tipica di una parte del nostro schieramento. Io non voglio Berlusconi in galera. Voglio Berlusconi in pensione».

E intanto va da Maria De Filippi.
«La polemica su Amici è emblematica di un astio ideologico verso gli italiani che non sopporto. Rivendico il diritto e il dovere di parlare ai ragazzi che seguono Amici, che non sono meno italiani dei radical chic che mi criticano. Io voglio cambiare l'Italia mentre una parte della sinistra vuole cambiare gli italiani. Sono due cose diverse...».

Ma perché andarci proprio con il "chiodo"?
«Chi mi rimprovera di aver scelto un abbigliamento alla Fonzie forse si sente un po' Ralph Malph».

Se si torna a votare, lei chiederà al Pd nuove primarie?
«Sì. Non posso essere legittimato dal gruppo dirigente che intendo cambiare. Ma in questo momento non mi pongo il problema.
Certo non posso dimettermi da italiano. Voglio bene al Pd, ma prima ancora voglio bene all'Italia. E non riesco a restare in silenzio di fronte allo spettacolo di una politica che continua a pescare la carta "tornate al vicolo corto". Dobbiamo dare un orizzonte al Paese, perché anche le aziende che vanno bene o i privati che potrebbero consumare oggi sono rannicchiati, impauriti».

Lei vorrebbe una politica finanziata solo da privati. Ma così, dice Bersani, la faranno soltanto i ricchi. Gli imprenditori che la finanziano non le hanno mai chiesto qualcosa in cambio?
«A Firenze ho varato un piano regolatore a volumi zero: non si può più costruire, solo restaurare; non mi sono certo fatto condizionare da interessi privati. E poi in Italia abbiamo il più grande finanziamento pubblico ai partiti dall'Occidente; non mi pare che questo abbia dissuaso i ricchi dal fare politica».

Aldo Cazzullo

4 aprile 2013 | 8:55© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_aprile_04/intervista-renzi-bersani-si-e-fatto-umiliare_d6de1dac-9ce6-11e2-a96c-45d048d6d7eb.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #142 inserito:: Aprile 07, 2013, 06:22:43 pm »

L'intervista

«Con Monti ho fatto una scelta sbagliata La prossima volta il centro si schiererà»

Casini: abbiamo lottato contro il bipolarismo ma lo ha superato Grillo


«Davanti all'Italia vera, la politica è in ritardo inammissibile. Le aziende chiudono. Gli esodati si suicidano. L'edilizia è ferma. Un sistema politico che, in questa situazione, non riesce in 40 giorni a formare un governo dà di sé una prova devastante».

Pier Ferdinando Casini, lei per 40 giorni ha praticamente taciuto. Del resto ha preso una bella botta.
«Nella vita si vince e si perde; l'importante è avere il tempo per la rivincita. È successo questo: il bipolarismo che io ho sempre combattuto, secondo me con buone ragioni, è stato messo in crisi non dall'irruzione dal centro, ma dall'esplosione di Grillo. Un fenomeno che unisce tante cose: antipolitica, invidia sociale, giusto bisogno di partecipazione, il senso dei giovani di una mancanza di futuro. Un fenomeno che si nutre di sentimenti anche divaricanti; per questo non si può contaminare, Grillo deve fare il cane da guardia e dire no a tutto. Alla prima scelta che il movimento fa, si spacca, fosse pure il no alla Tav; perché c'è anche chi le infrastrutture le vuole. Nel frattempo immette nel sistema politico tossine oggi molto sottovalutate. Il ritiro immediato dall'Afghanistan, subito apprezzato da una certa sinistra, sarebbe una Caporetto, uno "sciogliete le righe" che comprometterebbe i sacrifici che l'Italia ha fatto per avere voce nella comunità internazionale».

Tra le cause del boom di Grillo dimentica i ritardi di voi "professionisti della politica".
«Chi è senza peccato scagli la prima pietra; però bisognerebbe riportare un po' tutti al senso della realtà. Vengono annunciate come svolte epocali cose sempre accadute: i dipendenti della Camera mi hanno visto spesso alla loro mensa, e nell'appartamento presidenziale credo di aver dormito non più di due o tre sere in cinque anni. Noi politici dobbiamo liberarci dal complesso di colpa: l'esperienza e la tecnica sono necessarie; guardi questa discussione surreale sulle commissioni, che palesemente non si possono costituire finché non c'è un governo e non si sa quale sia la maggioranza e quale l'opposizione. Il problema vero non è mangiare alla mensa dei dipendenti; è rendere la politica efficiente».

Il centro è pronto a un governo con Pd e Pdl?
«Oggi la sfida non è più tra destra, centro e sinistra, ma tra un'idea della democrazia rappresentativa che si vuole conservare e un'idea della democrazia diretta via Web, che porta alle drammatiche contraddizioni di parlamentari scelti on line con 50 voti, che arrivano a Roma convinti che la perestrojka l'abbia fatta Stalin. Oggi questa è la nostra sfida. Abbiamo cercato di fare una battaglia limpida per superare il bipolarismo, e l'hanno superato gli altri. Noi abbiamo scosso l'albero, altri hanno raccolto i frutti. E il tentativo di Monti di ammiccare all'antipolitica non ha intercettato gli elettori, che all'imitazione preferiscono l'originale».

È deluso da Monti?
«Monti ha fatto sino in fondo il suo dovere: l'Italia rischiava la deriva greca, lui l'ha evitata. Va ricordato da una parte che tutti hanno votato i provvedimenti di Monti ma solo noi ci abbiamo messo la faccia, e dall'altra che Monti non può essere responsabile di tutti i ritardi italiani. Questo calcio dell'asino collettivo, questo tentativo di rimozione mi pare prova di immaturità».

Ma come leader politico Monti ha fallito.
«Non sono deluso da Monti, sono deluso da una scelta cui anche io ho concorso e che si è rivelata sbagliata. Io ne porto parte di responsabilità: non vado a emendare gli altri, emendo me stesso. Abbiamo cambiato noi stessi i connotati di Monti: da servitore dello Stato, da Cincinnato che era, abbiamo pensato potesse essere l'uomo della Provvidenza per l'affermazione del centro. E in campagna elettorale noi abbiamo donato il sangue, ma alla fine il centro ha preso appena 3 o 4 punti in più di quando andai da solo contro Veltroni e Berlusconi».

Quindi ora cosa farete?
«Oggi noi dobbiamo essere i collanti di chi ritiene che la partita sia tra populismo e difesa della democrazia rappresentativa. In questo senso si deve affrontare la sfida del Quirinale e del governo. Se il calvario cui Bersani si è sottoposto con i Cinque Stelle era il modo per tranquillizzare un'ala del Pd e dimostrare che lui non ha pregiudizi ma li ha subìti, lo capisco. Se invece l'idea è sperare di governare con la complicità un movimento che non solo non intende essere complice ma rischia di cambiare i connotati della nostra idea di democrazia, allora è un gravissimo errore. Non possiamo inseguire Grillo, mettendoci metaforicamente con i cronisti che devono raccontare le pratiche quasi esoteriche cui sottopone i suoi adepti. L'unico modo di battere Grillo è riformare le istituzioni».

Sono vent'anni che parlate di legislatura costituente.
«Sì. Oggi però c'è l'occasione per farlo davvero. Capisco che per i militanti di sinistra pensare di sostenere un governo con il Pdl sia un pugno nello stomaco; lo stesso vale per gli aficionados che vanno in piazza con Berlusconi. Ma se noi vogliamo vincere questa sfida dobbiamo fare un percorso limitato nel tempo, di uno o due anni, affidato a un governo che prenda i provvedimenti più urgenti per l'economia e faccia le riforme indispensabili: superamento del bicameralismo, abolizione del Senato - e parlo da senatore -, legge elettorale che consenta agli italiani di scegliersi i parlamentari».

Quale legge elettorale?
«Dobbiamo riflettere seriamente se tornare o meno ai collegi uninominali. Insomma, occorre un'operazione gigantesca di restyling istituzionale. Solo così i partiti possono sconfiggere l'antipolitica; perché l'antipolitica non si farà mai cooptare. Se no, meglio votare subito; però rischiamo di prorogare questo stallo per sei mesi avendo gli stessi risultati».

Il premier può essere Bersani?
«Monti è stato un tecnico chiamato al capezzale dell'Italia: le sue scelte migliori le ha fatte nei primi tempi, quando appariva chiaro che c'era un sostegno del Pd e del Pdl; più si è appannato il sostegno, più i tecnici hanno cominciato ad avanzare senza bussola, come nel caso dei marò. Oggi occorre un'assunzione di responsabilità della politica. O accettiamo l'idea di essere tutti ladri e tutti incapaci; oppure, se vogliamo riscattare la politica, dobbiamo farcene carico. Senza delegare a terzi».

Questo implica un'intesa con Berlusconi.
«Io non sono mai stato tenero con Berlusconi negli ultimi anni. Ma dobbiamo prendere atto che una fetta di italiani crede in lui. Mi auguro un patto leale tra Bersani e Berlusconi per rimettere in moto la politica. Altrimenti, chiunque vincesse, vincerà sulle macerie».

Chi va al Quirinale?
«Un uomo o una donna frutto di una scelta condivisa, che non sia percepito dal popolo di centrodestra come nemico e dal popolo di centrosinistra come imposto da Berlusconi. La legge ha dato alla coalizione che ha prevalso per lo 0,5% un premio di maggioranza spropositato. Fare un'operazione da 51% per il Quirinale sarebbe una lesione fortissima».

Cosa pensa di Renzi?
«Leggo la sua intervista al Corriere , e penso che abbia ragione. Poi lo guardo da Maria De Filippi vestito come Fonzie, e mi cadono le braccia. Vedremo se è più un maratoneta o un centometrista».

Colpisce che proprio lei parli di collegi uninominali. Questo implica che il centro scelga dove andare. A destra o a sinistra?
«Il centro cos'è? Una cultura della responsabilità, che vuole le riforme mai fatte per i veti ideologici della sinistra e una certa incapacità della destra. Ora comincia una nuova stagione. È evidente che la prossima volta dovremo schierarci. Faremo una scelta coerente con l'idea che abbiamo della democrazia, dell'Europa, delle riforme sociali. Misureremo le alleanze sul grado di affinità che avremo nel processo costituente».

Come va in famiglia? Sua moglie Azzurra ha smentito via Twitter le voci di separazione...
«Cosa vuole che le dica? Sto felicemente con mia moglie da più di 13 anni. c'è ancora chi non si rassegna. Si mettano il cuore in pace».

ALDO CAZZULLO

7 aprile 2013 | 8:29© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_aprile_07/cazzullo-con-monti-fatto-scelta-sbagliata_c5bc1eb0-9f49-11e2-bce6-d212a8ef12b1.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #143 inserito:: Aprile 09, 2013, 11:22:51 am »

Il caso

La vittoria di Marino e il grande equivoco delle primarie

Da quando la scelta è diventata «vera» vince sempre il candidato più a sinistra


Non si vorrebbe mancare di rispetto al mitico «popolo delle primarie», sempre entusiasta e numeroso (anche se domenica a Roma meno del solito); ma si ha l'impressione che questo «popolo» non abbia compreso bene a cosa servono, le primarie.
In America, dove le hanno inventate, l'obiettivo non è scegliere il personaggio più simpatico, identitario, vicino alla sensibilità dei militanti, portatore della linea più dura, pura, radicale. L'obiettivo è scegliere il candidato che ha più chances di battere gli avversari. L'uomo in cui possono riconoscersi non tanto i «compagni», quanto la maggioranza dei concittadini o dei connazionali. Allo stesso modo si sono comportati i socialisti francesi, che in entrambe le occasioni in cui sono stati consultati per le presidenziali hanno scelto un esponente del centro del partito: prima la Royal, che prese un dignitoso 46,5%; poi Hollande, che sconfisse Sarkozy.

In Italia, all'inizio le primarie sono state il modo di confermare una decisione già presa dai partiti (Prodi, Veltroni). Poi la scelta è diventata «vera». Da allora, vince quasi sempre il candidato più a sinistra. Pisapia a Milano. Doria a Genova. Zedda a Cagliari. Lo stesso Bersani, due volte: contro Franceschini, e soprattutto contro Renzi. E' vero che i sindaci hanno tutti vinto, a volte rispettando la tradizione come a Genova, a volte ribaltandola come a Milano. Ma è noto che alle amministrative la sinistra ha gioco più facile rispetto alle politiche. Dopo il deludente risultato del 24 febbraio, è stato scritto che Renzi non si sarebbe certo fermato sotto il 30%. Ma questo era chiaro già al tempo delle primarie: non c'era un sondaggio che non indicasse in lui il candidato più competitivo. Ha prevalso il richiamo dell'identità (e anche dell'apparato).

Le primarie di Roma indicano che la lezione non è stata appresa. Non c'erano candidati di primo piano, è vero. C'era però un recordman delle preferenze come David Sassoli. E c'era soprattutto Paolo Gentiloni, l'unico ad avere un'esperienza nell'amministrazione della capitale e nel governo del Paese; ma nonostante l'appoggio di Renzi e di Veltroni ha avuto un risultato imbarazzante. I militanti romani hanno plebiscitato come d'abitudine il candidato più a sinistra, Ignazio Marino (dietro cui pure si intravede l'apparato, nella forma della macchina organizzativa di Goffredo Bettini). Marino è un personaggio per certi aspetti interessante: chirurgo prestato alla politica, all'avanguardia sui diritti civili. Magari potrà pure vincere (anche a Roma, come in quasi tutte le grandi città italiane, il centrosinistra ha una base di partenza più ampia del centrodestra). Restano alcune perplessità oggettive. Nato a Genova da madre svizzera e padre siciliano, un percorso professionale tra Cambridge, Pittsburgh, Filadelfia e Palermo, Marino non c'entra molto con la capitale. Potrà anche strappare qualche voto grillino; ma avrà parecchie difficoltà a intercettare moderati e cattolici.

Presto potrebbero essere convocate nuove primarie nazionali, in vista del voto anticipato. Siccome la sinistra viaggia con un'elezione di ritardo - nel 2006 fu schierato Prodi anziché Veltroni, mandato a perdere due anni dopo; nel 2013 è stato schierato Bersani anziché Renzi -, stavolta dovrebbe toccare al sindaco di Firenze. L'Italia non schierata lo aspetta, a torto o a ragione. Ma già spunta Fabrizio Barca, i cui meriti come ministro sfuggono ai più, ma che può vantare un impeccabile pedigree rosso (a cominciare dal padre, intellettuale di punta del Pci, direttore dell'Unità e di Rinascita); che non è un torto ma, agli occhi dell'ostinata maggioranza degli italiani, neppure un merito. Se ne possono trarre molte considerazioni, tutte legittime. Tra le quali c'è anche questa: non esistono, come la sinistra tende a credere, un'Italia immatura, sempre pronta a bersi le promesse di Berlusconi, e un'Italia "riflessiva"; esistono due minoranze di militanti - numerose se misurate in piazza o ai gazebo, piccole in termini assoluti -, pronte a seguire l'istinto e la passione, ma incapaci di indicare una soluzione condivisa a una vastissima Italia di mezzo, che alla politica crede sempre meno.

Aldo Cazzullo

9 aprile 2013 | 7:54© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_aprile_09/marino-pd-primarie_6e29c69e-a0d8-11e2-9e3c-268a004da2ea.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #144 inserito:: Aprile 11, 2013, 05:24:40 pm »

L'intervista L'ex capogruppo del Pdl: l'altra possibilità è Gianni Letta

Cicchitto: «Violante al Quirinale Può guidare la pacificazione»

«Scrissi un libro contro di lui, ma ora è cambiato».

Governo con il meglio di Pdl e Pd, a cominciare da Alfano e Bersani


«Non possiamo ricorrere a una formula sbiadita, mandare al Quirinale una figura smorta. Serve una scelta al massimo livello. Una personalità che pacifichi il Paese, chiuda una stagione, e vari un governo d'emergenza, con il meglio delle classi dirigenti dei due grandi partiti e dei due mondi, centrosinistra e centrodestra».

A quale figura pensa, Fabrizio Cicchitto?
«Prima mi lasci dire i motivi. La situazione è la più drammatica dalla fine della guerra. Non penso che gli industriali abbiano sempre ragione, anzi spesso hanno torto; ma non possiamo ignorarli, quando dicono che non ce la fanno più. Il Paese rischia di andare a sbattere per il combinato disposto della crisi internazionale, dell'approccio rigorista imposto dall'Europa, del movimento protestatario che vuole distruggere le istituzioni e scassare tutto. Un movimento alimentato da casi di perversione: Fiorito, Penati, Lusi, Regione Lombardia, Monte dei Paschi di Siena; ma soprattutto dal fatto che la politica un tempo distribuiva risorse, per cui i cittadini ne tolleravano i privilegi, mentre ora le drena. Giocare sul tatticismo e sui palliativi è assolutamente sbagliato. Occorre una risposta all'altezza della gravità del momento».

Qualcosa si muove, o no? Bersani e Berlusconi si sono visti.
«Un incontro che mi ha ricordato Leopardi: "Vaghe stelle dell'orsa......"».

Cioè non hanno concluso nulla?
«Mi pare che Bersani abbia scisso il Quirinale dal governo per poter dire ai suoi di aver stabilito un rapporto per nulla compromettente, nella speranza di portare sul Colle un uomo che gli dia quell'incarico pieno che saggiamente Napolitano gli ha negato».

Un'ambizione legittima per il leader del partito di maggioranza relativa, non trova?
«Ma cosa può fare un governo che dovrebbe mendicare ogni volta i voti grillini al Senato? Bersani dovrebbe aver capito, dopo le umiliazioni cui si è sottoposto, che l'accordo con i Cinque Stelle è impossibile. E che noi non siamo disposti a farci umiliare a nostra volta, consentendo la nascita di un governo in cui non siamo ammessi in quanto impresentabili».

Qual è l'alternativa?
«Un governo con il meglio di Pd e Pdl. A cominciare da Bersani e Alfano. E con esperti di alto livello che siano espressione delle due culture. Monti e la tecnocrazia sostenuta dai grandi giornali hanno fallito. Ora serve un governo politico destinato a durare tre anni, che prenda le misure economiche necessarie a salvare il Paese e ridisegni la struttura dello Stato: presidenzialismo alla francese, sistema elettorale a doppio turno, monocameralismo, abolizione delle Province».

Sono anni che ne parlate, e non avete fatto nulla.
«Infatti la premessa di questa grande operazione è un'autocritica, che vale sia per noi sia per il Pd. Il prossimo governo dovrà andare a Berlino e a Bruxelles a chiedere il rinvio del pareggio di bilancio, per poter ridurre le tasse e fare una politica espansiva. Altro che governicchio; dovrà essere un governo fortissimo».

E chi potrebbe essere allora il capo dello Stato in grado di inaugurare la nuova stagione?
«Vedo solo due possibilità. Gianni Letta: il meglio della sensibilità istituzionale del centrodestra, che ha sempre svolto un ruolo di alto profilo e su questo terreno darebbe garanzie a tutti...».

E la seconda?
«Dall'altra parte, paradossalmente, Luciano Violante».

Violante? Ma se voi socialisti l'avete sempre accusato di essere il vostro carnefice...
«Io ho scritto un libro, "L'uso politico della giustizia", contro di lui. Lo considero il responsabile della gestione unilaterale di Mani Pulite e dell'antimafia, per colpire la Dc moderata, i laici e i socialisti, salvare la sinistra Dc e un Pds che aveva tutte le forme di finanziamento irregolare possibili e immaginabili. Ma proprio perché Violante ha guidato quel tipo di operazione, ha poi manifestato una consapevolezza in parte togliattiana che una stagione va chiusa».

Violante come Togliatti?
«Togliatti ne chiuse una ancora più drammatica: la guerra civile. Negli articoli e nei libri di questi anni, l'evoluzione del pensiero di Violante è evidente. Lui che viene da lì, lui che ha cavalcato la fase dell'uso politico della giustizia, è l'unico ad avere la forza per provare a chiuderla, e promuovere una nuova pacificazione italiana. Violante non vuole rimanere appiccicato all'immagine di chi ha guidato dal '92 in poi i momenti più duri di una guerra civile fredda. Vuole superarla. E ha l'autorità per farlo».

Ne ha parlato con Berlusconi?
«La riflessione è mia. Comunque sì, ne ho parlato. C'è un dibattito in corso. Al momento accordi non ce ne sono».

Si rende conto che, se l'accordo si facesse su Violante, non sarebbero solo i grillini a gridare non dico a un "inciucio", ma più seriamente a un patto di potere e impunità?
«Ma chiunque venga proposto sarà massacrato. Ad Amato tireranno fuori la storia della pensione, Marini sarà liquidato come un vecchio democristiano. Il gioco al massacro ci sarà comunque. Questo stallo va affrontato virilmente, non con un atteggiamento subalterno. La situazione presenta tali elementi di rischio che ci vuole uno scatto della classe dirigente di Pd e Pdl. Due partiti che sono stati non solo avversari, ma per certi aspetti nemici, ora devono incontrarsi per chiudere la storia durissima che dura dal '94 e fare un salto di qualità. Investendo i loro uomini migliori in un nuovo governo. E mandando al Quirinale una personalità di alto profilo: Gianni Letta, o Luciano Violante. Altrimenti, purtroppo, l'unica via d'uscita, come dice anche Renzi, sono le elezioni. Ma io mi auguro proprio che lo sbocco sia positivo».

Aldo Cazzullo

11 aprile 2013 | 9:59© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_aprile_11/cicchitto-violante-quirinale_43d482ea-a267-11e2-b92e-cf915efd17c3.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #145 inserito:: Maggio 20, 2013, 11:57:19 pm »

L'intervista

«Matrimonio nell'interesse del Paese Il governo non è legato ai processi»

Alfano: faremo solo le riforme condivise. Sul resto deciderà chi vince alle urne. Al centro dell'accordo la questione economica


Ministro Alfano, il governo ha avuto una partenza difficile. Una grana a settimana: l'Imu, Brescia, la giustizia, la legge elettorale...

«Questo è il governo che nessuno si aspettava prima del voto. Ed è il governo che solo Silvio Berlusconi aveva pensato fosse quello giusto dopo il voto. Ci sono voluti due mesi, ma alla fine l'Italia ha avuto un governo. È chiaro che il governo non vive della solidarietà delle forze politiche che lo compongono; vive della comune volontà di realizzare il programma. Il destino del governo è legato al destino del programma».

Questo significa che il governo non ha limiti temporali? Può essere un governo di legislatura?
«Non bisogna farsi illusioni, ma non bisogna deprimersi. Piedi per terra e sguardo rivolto al futuro: non dobbiamo aumentare l'Iva, dobbiamo detassare l'assunzione dei giovani per incentivare gli imprenditori a fare occupazione, semplificare la burocrazia, riaffermare che essere proprietari di una casa non è una colpa. Lo scopo che realmente sorregge tutto è tirare fuori l'Italia dalla crisi economica. L'obiettivo ultimo è tirarci fuori dal guaio in cui una serie di scelte sbagliate anche di politica economica ci ha cacciati».

Si riferisce a Monti?
«Non è il tempo delle lamentazioni. È il tempo di pensare al futuro e di come regalare ai nostri figli giorni migliori di questi».

Scusi, il governo appare già in bilico, e lei pensa ai figli, al futuro remoto?
«Sì, proprio ai nostri figli. Sa qual è una considerazione che ho fatto? Che i miei due figli Cristiano e Federico sono coetanei dei figli di Enrico Letta e delle nipoti di Anna Maria Cancellieri. Nunzia De Girolamo ha una bambina piccola. Al Quirinale ho visto i ragazzi di Josefa Idem. Una caratteristica di questo governo è che tutti hanno dei bambini in casa. Se questo governo dice di voler regalare giorni migliori ai propri figli non è una metafora, non è un'immagine letteraria; è esattamente l'idea di un'Italia che pensa al futuro, con lo sguardo di un padre che lo vorrebbe regalare bellissimo ai propri figli».

Nel frattempo avete cominciato a litigare sulla giustizia e sul Porcellum.
«Il primo Consiglio dei ministri non l'abbiamo dedicato alla giustizia e neanche alla legge elettorale, ma all'economia e alla sobrietà della politica. Chi vuol fare il ministro lo fa gratis. I lavoratori in difficoltà sono aiutati con la cassa integrazione guadagni. Alle famiglie viene detto con chiarezza che supereremo la tassazione sulla casa. Devo riconoscere una perfetta corrispondenza tra il discorso di Enrico Letta che ha avuto la fiducia delle Camere e quello che è stato fatto nel primo Consiglio dei ministri operativo».

Vale a dire?
«È stato chiaro lo scarto tra le polemiche sui giornali e l'azione del governo. I giornali si sono occupati di una cosa, i partiti hanno litigato su altre cose, il governo ha preso decisioni che servono a tirare fuori l'Italia dalla crisi e altre ne deve prendere. È evidente che questo governo è stato accolto con favore dall'opinione pubblica, che chiede provvedimenti che aiutino le famiglie e i lavoratori in difficoltà, e con la grande diffidenza, se non con l'ostilità, di quello che chiamerei il "comparto dell'indotto del conflitto"».

Chi c'è dietro "l'indotto del conflitto"?
«È un comparto trasversale tra politica, economia e giornalismo, che dal conflitto trae lucro. Pensi a certi giornali "rosiconi" che, di fronte ai dati positivi della Borsa, additano solo i buoni risultati del gruppo fondato da Berlusconi. Pensi all'enorme letteratura antiberlusconiana, che perde appeal nel momento in cui la sinistra fa l'accordo con lui».

Lasci stare i giornali. In realtà la sinistra è in grande sofferenza, proprio per l'accordo con Berlusconi.
«Anche il nostro elettorato non ama la sinistra. Né sarebbe veritiero, sebbene romantico, definire questo come un matrimonio d'amore. È un matrimonio d'interesse: la cosa bella è che l'interesse non è quello degli sposi, delle parti, ma quello del Paese. Finché i coniugi avranno la percezione di fare l'interesse del Paese, e il Paese condividerà questa percezione, allora il governo andrà avanti. Per questo occorre tenere al centro la questione economica, che è la ragione più profonda dell'accordo».

Siete soddisfatti del compromesso sull'Imu?
«Le esclusioni in riferimento al blocco dell'Imu coincidono con quelle del 2008, quando fu eliminata l'Ici. Mi sento portatore di un fortunato e singolare record: al primo Consiglio dei ministri operativo della scorsa legislatura facevo parte del governo che tolse l'Ici; ora, con una coalizione molto differente, il primo Consiglio dei ministri segna il blocco dell'Imu. Senza considerare il pagamento dei debiti della pubblica amministrazione, e il riconoscimento del principio che i debiti fiscali dei privati e i loro crediti siano compensabili».

In effetti lei è l'unico a essere stato ministro sia nel governo Berlusconi sia ora. È anche vicepresidente del Consiglio e segretario del Pdl. Non è un po' troppo?
«Io sono vicepresidente in quanto segretario del Popolo della libertà. E sono segretario di un partito che ha il suo leader, che è Silvio Berlusconi. Una leadership forte, vitale e indiscussa».

Appunto. Il "matrimonio d'interesse" ha un suocero ingombrante. Non c'è il rischio che lei e i suoi combattiate una battaglia al governo e fuori Berlusconi e i suoi combattano la loro battaglia, contro la magistratura e non solo?
«La battaglia nostra al governo è la battaglia per fare uscire l'Italia dalla crisi. E il governo nasce per la tenace volontà di Silvio Berlusconi di farlo nascere. Quindi nasce grazie a Berlusconi, non nonostante Berlusconi. Altro che suocero».

Questo significa che la sorte del governo non è legata alle sentenze dei suoi processi?
«È così. Gli interessi a confondere le acque sono stati tali da non aver valorizzato un concetto molto chiaro e molto forte espresso proprio da Silvio Berlusconi: nessun fallo di reazione sulle vicende giudiziarie. Del resto ci sarà un motivo per cui l'opinione pubblica sta premiando il suo atteggiamento responsabile, "pro patria"...»

Sulle intercettazioni come finirà?
«Lei parla con chi ha dato il nome a un tentativo di riforma, ma qui siamo in presenza di una situazione molto chiara: ci sono iniziative e leggi, in ogni ambito, che solamente un governo di centrodestra potrebbe portare avanti. E ci sono iniziative e leggi che potrebbe portare avanti solamente un governo di centrosinistra. La conseguenza è che questo Parlamento e questo governo non faranno ciò che solo il centrodestra potrebbe fare, né ciò che solo il centrosinistra potrebbe fare...».

Quindi niente stretta sulle intercettazioni da una parte, niente "ius soli" e unioni di fatto dall'altra?
«...Per fare ciò che ciascuna parte vorrebbe fare, occorrerà attendere le prossime elezioni. Chi vincerà, realizzerà il proprio specifico programma, quello che esprime la propria identità in ogni ambito. Adesso invece si potranno fare solamente ciò che il centrodestra e il centrosinistra sono capaci di condividere».

Ma come si può cancellare dall'agenda di governo un tema decisivo come quello della giustizia?
«Ho grande considerazione e rispetto per Annamaria Cancellieri. Sarà lei a individuare ciò che in materia di giustizia può essere condiviso dal Pdl, dal Pd e da Scelta civica».

È vero che siete disposti a cambiare l'attuale legge elettorale solo accanto a una riforma presidenzialista?
«Noi non abbiamo una posizione che dipenda dalle nostre utilità. Il Mattarellum, basato sui collegi uninominali, è stato usato tre volte: due volte, nel '94 e nel 2001, abbiamo vinto noi. Anche l'attuale sistema è stato usato tre volte: nel 2006 hanno vinto loro, nel 2008 noi, la terza volta è questa... Non c'è un sistema che ci fa vincere e uno che ci fa perdere. Il sistema elettorale serve a contare i voti; se non hai i voti, non vinci. È evidente che adesso sarebbe sbagliato trovare la soluzione definitiva sulla legge elettorale. Se si va a Parigi, trovi semipresidenzialismo e doppio turno. A Berlino trovi il cancellierato e il proporzionale».

Voi quale sistema preferite?
«La nostra posizione è quella consolidata dal voto al Senato nella primavera scorsa: elezione diretta da parte dei cittadini del presidente della Repubblica; disponibilità ad approvare una legge con il doppio turno di collegio. Sto leggendo il libro di Veltroni e vedo che su questo punto la pensiamo allo stesso modo».

Com'è andato il litigio con Letta nel viaggio verso il convento?
«Guardi, con Letta ci conosciamo da più di vent'anni, ma abbiamo sempre militato su fronti diversi. Veniamo da due diverse metà campo e questo è emerso spesso, l'ultima volta a Spineto. È possibile che riemerga in futuro».

E di Renzi cosa pensa?
«Abbiamo collaborato sul tribunale di Firenze quand'ero ministro della Giustizia. Ma mi pare evidente che stia giocando una partita sempre più dentro la sinistra italiana, per assumerne la leadership».

Con Letta state litigando anche sulla scelta del capo della polizia?
«La decisione è imminente e di certo non deve avere la spillina di partito appuntata al petto. Spero verrà fuori la scelta migliore per il nostro Paese. È chiaro che la prima richiesta che farò al prossimo capo della polizia sarà catturare Matteo Messina Denaro».

Lei ora è al Viminale e deve battersi contro le mafie che gravano sul Sud e si infiltrano al Nord.
«Lei mi sta intervistando nel giorno del compleanno di Giovanni Falcone. Stamattina (ieri, nda ) ho dedicato un pensiero di gratitudine a lui. Credo che chi milita nelle istituzioni, e soprattutto in ministeri delicati, debba sempre sforzarsi di onorare la memoria dei tanti eroi che famosi o no hanno dedicato la propria vita e il proprio sangue alla nostra Italia. Ci sono anche eroi che nessuno conosce. Giovedì alla festa della polizia ho visto più di un bambino accanto alla propria mamma ritirare la medaglia del padre poliziotto che non c'è più, dopo aver salvato altre vite dagli esiti di un catastrofico incidente stradale o vittime innocenti da un rapinatore. Un bambino ha salutato mio figlio e mi si è stretto il cuore. Quei bambini devono sempre sapere che il loro papà è morto per un qualcosa di grande, per un qualcosa di giusto. E noi dobbiamo essere capaci di onorarne la memoria».

Aldo Cazzullo

19 maggio 2013 | 8:43© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_maggio_19/alfano-matrimonio-governo_c2c799a0-c04b-11e2-9979-2bdfd7767391.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #146 inserito:: Maggio 27, 2013, 04:38:40 pm »

L'intervista - «Renzi l'unico che mi ha difeso. Vedo bene lui, Letta e Franceschini»

Brunetta: ferocia solo perché sono basso

«Io come Balotelli. Per tanti a sinistra sono un'ossessione»


«Bastaaa!!! C'è una differenza profonda tra come io sono e come mi descrivono. Sono ossessionati da me».
Chi è ossessionato da lei, onorevole Brunetta?
«La sinistra. D'Alema mi ha chiamato energumeno tascabile, Furio Colombo mini-ministro. La damnatio di Gino Strada, la "seggiola" di Dario Fo, gli psicologismi d'accatto di Francesco Merlo, per cui la mia politica sarebbe frutto del mio complesso... Bastaaa!!!».
La critica giornalistica è sacra. Le altre sono battute, per quanto infelici.
«Una battuta la accetterei. Ma in queste parole infami c'è lo sguardo che mi è dedicato, ed è profondamente razzista. Fanno come con Balotelli: siccome è un vincente, gli fanno buu».
Balotelli è nero e lei...
«E io sono piccolo. Perché tanta ferocia nei miei confronti? Per la mia altezza? Perché un nano osa pensare e non solo fare la comparsa nei film di Fellini? Osa parlare di tutto e non solo della sua statura? Osa far politica a tutto tondo e con grinta, senza limitarsi a raccontare le discriminazioni subite perché povero e basso nel liceo dei signori? Persino Renzi...».
Renzi l'ha difesa.
«...Sì, a sinistra è stato l'unico, e lo ringrazio. Poi però dice che stanno prevalendo le idee di Brunetta come se fossero cosette, roba da poco. Ho qui l'agenzia: l'altro giorno ha detto che "era meglio prendere i voti di destra che avere Brunetta". Anche Fonzie-Renzi è ossessionato da me. Fa comodo ignorare che mi sono guadagnato la cattedra universitaria con studi e sudore, facendomi largo tra i soliti pregiudizi; e che con Tarantelli sono stato il progettista dell'accordo di san Valentino, il blocco della scala mobile che salvò l'Italia; da allora vivo sotto scorta. Ora sono un leader culturale di un'area. Però non mi attaccano per le mie tesi, ma per la mia statura. Anche Monti l'ha fatto. Pur di non darmi ragione, ridono di me. Cercano di ridicolizzarmi».
L'hanno sempre presa in giro, fin da quando era ragazzo?
«No. Nella Venezia popolare dove sono nato mi rispettavano. Tutto è cominciato con la politica. Quando ho messo mano alla riforma della pubblica amministrazione, non hanno reagito nel merito, ma prendendosela con il mio fisico e il mio carattere».
Viene in mente De André.
«Lo so: "Un nano è una carogna di sicuro/ perché ha il cuore troppo troppo vicino al buco del culo". Basta con la storia del nano e del complesso che ne avrei derivato. Balle. È come dire: quello è così perché è povero, quello ha la faccia da delinquente... Ma siamo pazzi? Così si torna a Lombroso: e il passo tra Lombroso e Mengele, tra il determinismo e l'eugenetica, è breve. Come può un medico come Gino Strada dire che io sono "esteticamente incompatibile con Venezia?". Per fortuna la natura umana non è solo nel dato biologico. Lo dico da laico: c'è l'anima, c'è l'intelligenza, c'è lo spirito, c'è la poesia, c'è l'emozione. C'è il sublime. E, per tornare a De André, nessuno conosce "la statura di Dio". Il mio punto di forza è essere me stesso, tutto intero. Ho il carattere che ho: un cattivo carattere come tutti quelli che ne hanno uno. Sono uno che si arrabbia; ma poi se uno mi tende un mignolo gli do il braccio. E qualche idea buona l'ho avuta. Ricorda l'intervista che diedi al Corriere nel 2009?».
Certo. Diceva che di troppo rigore si muore e bisognava fare una politica per lo sviluppo.
«Ero il solo a contestare la linea di Tremonti. Sono stato il primo a denunciare l'imbroglio dello spread e la pretesa della trazione germanica dell'Europa. Ho scritto con Enrico Letta la risoluzione congiunta di centrodestra e centrosinistra sull'Europa. Berlusconi ha preso sul serio le mie analisi, ponendo le basi per il rilancio del Pdl. Le mie tesi sono mie, di neo-keynesiano, uomo di sinistra. Nano di sinistra? Basta, con questa autodefinizione spero si chiuda per sempre questo capitolo».
Come fa un uomo di sinistra a stare con Berlusconi?
«Sono un socialista riformista. Guardo dove stanno i comunisti, e sto dalla parte opposta».
Ora siete al governo insieme però.
«Non è il mio governo. Ciascuno ha chiesto il voto per il suo programma. Tuttavia, un minuto dopo l'esito del voto sono diventato uno dei più convinti assertori della necessità di una grande coalizione, di questo governo, che chiamo di pacificazione nazionale. Una pacificazione non seduta, una grande coalizione che non si contempla l'ombelico ma realizza un programma necessario. Io come capogruppo del Pdl mi comporto da cane da guardia del programma. E sinora la mia guardia funziona. Sull'Imu ha funzionato. Ora si tratta di congelare l'Iva. Umanizzare Equitalia. E imporre un passo diverso all'Europa. Siamo l'unico Paese in cui destra e sinistra sono d'accordo nel voler mutare la politica europea di austerità».
Più che capogruppo la descrivono come un satrapo. I deputati Pdl non possono fare un'interrogazione senza concordarla con lei.
«Lo prevede lo statuto. Un partito non può andare in ordine sparso, altrimenti si combinano i pasticci, come quello sulle intercettazioni. Ma io non ho un rapporto gerarchico con gli altri deputati. Siamo tutti colleghi. E quando parlo alla Camera avverto la loro sintonia con me». I suoi saranno in sintonia, ma si fatica a vederla nel ruolo di pacificatore.
«Ho già dimostrato di saper lavorare per la grande coalizione senza strombazzamenti. L'ultima finanziaria del governo Monti in realtà è l'esito di un incontro tra due compagni di scuola veneziani, uno del Pd e uno del Pdl, Pierpaolo Baretta e Renato Brunetta, che hanno riscritto il testo di Grilli».
È un tono brusco quello con cui lei parla di pacificazione.
«Dopo la fine della guerra di resistenza, non è che i costituenti parlassero spargendo petali. Usavano un linguaggio duro. Un duro linguaggio di pace. Anche noi oggi dobbiamo chiudere una guerra civile. Per questo me la sono presa con l'afasia della presidente Boldrini dopo l'aggressione che abbiamo subìto a Brescia, a opera di militanti che avevano le insegne di Sel, il suo partito. Gliel'ho detto: Bertinotti non avrebbe taciuto».
Cosa farà nella commissione vigilanza Rai? Chiederete un cambio ai vertici?
«I vertici furono scelti ai tempi di Monti. Il nuovo governo deciderà. Io chiederò di far rispettare la legge: si mettano on line tutti gli stipendi; dirigenti, giornalisti, artisti. E proporrò di abbassare il canone e metterlo in bolletta: pagare meno, pagare tutti. Dipendesse da me, la Rai la privatizzerei. Due reti ai privati, una di servizio pubblico. Basta follie: basta Benigni, basta Camilleri, basta sudditanza culturale».
A Berlusconi cosa conviene?
«Basta anche con questa ossessione. L'antiberlusconismo - senza paragonare i fenomeni, ci mancherebbe - ha aspetti eclatanti e altri sottili e non detti, come l'antiebraismo. Gli zar quando avevano problemi interni risvegliavano l'odio antiebraico, e trasformavano la ribellione in pogrom. Così accade oggi a sinistra. Se vuole avere un futuro diverso dalla tristizia dei manettari, la sinistra deve smettere di alimentare l'antiberlusconismo come collante velenoso, che uccide i suoi stessi ideali. Non parlo tanto dei professionisti dell'insulto greve, come Fo e Strada. Parlo dei radical chic come Scalfari, Merlo, Colombo, D'Alema...».
Bisognerebbe smettere pure di parlare di radical chic. C'è qualcuno che le piace a sinistra?
«Intravvedo qualcosa di nuovo e promettente in Letta, Franceschini, Renzi. Pur nelle ambiguità, anche in Epifani; se non altro per le sue origini socialiste».
Ma in cosa consisterebbe poi questa pacificazione?
«Ad esempio, a me piacerebbe vedere senatore a vita Umberto Veronesi con Silvio Berlusconi».
Quanto dura il governo?
«Mi ricorda la visita di leva di Andreotti, che secondo l'ufficiale medico doveva defungere in pochi mesi e campò più di settant'anni. Ogni governo nasce per durare una legislatura. E dura finché governa. Nessuno è così pazzo da far cadere un governo che governa».

Aldo Cazzullo

26 maggio 2013 | 9:31© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_maggio_26/brunetta-feroci-perche-sono-basso_09985f0c-c5cb-11e2-91df-63d1aefa93a2.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #147 inserito:: Giugno 06, 2013, 03:16:35 pm »

Renzi pronto a correre per la guida del Pd

«Segretario e sindaco non sono incompatibili»

«Sono stanco di passare per il monello in cerca di un posto. Il pranzo con Briatore? No a questo moralismo senza morale»


BRESCIA - Matteo Renzi fatica a camminare tra la stazione e la metropolitana di Brescia, tutti tentano di fermarlo, qualcuno ha scritto a mano su foglietti di carta: «Renzi segretario». «È così dappertutto. Sono stato in posti dove non è andato nessuno: prima in Friuli per la Serracchiani, poi a Treviso, Vicenza, San Donà di Piave, Villafranca. Visti i risultati dei nostri candidati sindaci, mi sono convinto che il Pd può vincere ovunque, anche in Veneto, anche qui in Lombardia. La nostra gente ci chiede soprattutto questo: stavolta fateci vincere davvero. Perché noi non abbiamo mai davvero vinto: nel '96 facemmo la desistenza che provocò poi la caduta di Prodi; nel 2006 arrivammo primi con 24 mila voti mettendo insieme Turigliatto e Mastella, Luxuria e Lamberto Dini; stavolta abbiamo mancato un gol a porta vuota. Noi dobbiamo dare una risposta alla nostra gente, agli emiliani che sono stati i primi a dire no a Marini, ai bersaniani che in queste ore mi chiedono: Matteo ora basta, ci stai o no?».
Appunto: ci sta o no? Si candiderà alle primarie per la segreteria del Pd?
«Dipende dal Pd, non da me. Se riusciamo a uscire dalla palude, a imporre i nostri temi, la nostra gente capirà il governo con il Pdl. Se tiriamo a campare, se ci facciamo dettare l'agenda da Berlusconi, se non riusciamo a fare le riforme, allora...».
Le pare che le riforme siano partite bene?
«La prima cosa dovrebbe essere la legge elettorale. Invece vedo che la si vuol mettere per ultima. È sbagliato. È l'idea che "il problema è ben un altro" che porta a non far niente. Se non si trova un accordo sul sistema elettorale, mi pare difficile che lo si trovi su tutta la riforma dello Stato».
La vedo scettico.
«Sento che si parla di saggi, di commissioni. Ma non occorre un saggio per dire ad esempio che la burocrazia italiana è da rifare; te lo dice anche uno scemo. Quando la politica non vuole risolvere le cose, fa una commissione. Invece bisognerebbe chiudersi in una stanza e decidere».
Quindi lei è a un passo dalla candidatura.
«Io mi sono stancato di passare per il monello in cerca di un posto, il ragazzo tarantolato con la passione del potere. Sono l'unico che non si è seduto su nessuna poltrona ed è rimasto dov'era prima. Se c'è bisogno di me, me lo diranno i sindaci, i militanti. Persone che stimo molto, mi consigliavano di non farlo; ora però si vanno convincendo anche loro. Di sicuro, se succede, non sarà come l'altra volta una campagna improvvisata, per quanto bella. C'è bisogno di una squadra ben definita».
A quali nomi pensa?
«I migliori in ogni campo: energia, scuola, innovazione tecnologica. Di solito ai politici interessa il loro futuro personale. Io non ho ancora le idee chiare sul mio futuro, ma le ho chiarissime sul Pd e sull'Italia. Noi tra dieci anni possiamo essere la locomotiva d'Europa. Ma dobbiamo cambiare. Dobbiamo aiutare gli imprenditori invece di ostacolarli. Dobbiamo abbassare il costo dell'energia. Dobbiamo avere il coraggio di dire al Sulcis che non ha senso andare avanti con il carbone di Mussolini pagato dallo Stato».
Perché non può farle il governo Letta queste cose?
«Io spero che Letta abbia successo. Lo stimo, abbiamo un bel rapporto. Apprezzo il suo equilibrio; mi convincerà meno se cercherà l'equilibrismo. Non so fino a quando potremo governare con Schifani e Brunetta, i loro capigruppo. Il governo dura se fa le cose. È come andare in bicicletta: se non pedali, cadi. Io posso anche uscire a cena con gente che non sopporto, ma solo se il cibo è buono, la conversazione decolla e dopo si va a vedere un bel film. Se invece si resta in silenzio, meglio alzarsi e andarsene».
A leggere il suo libro, sembra quasi che le abbiano fatto intravedere Palazzo Chigi mentre c'era già un accordo alle sue spalle...
«Non credo sia così. La verità è che non era il mio turno. A Palazzo Chigi io andrei per smontare tutto e ricostruire daccapo: il fisco, la burocrazia. Per fare questo occorre un mandato forte. Letta dice che ci vuole il cacciavite. Io userei il trapano».
Non crede che se lei fosse eletto segretario il governo rischierebbe di cadere in pochi mesi, come Prodi quando divenne segretario Veltroni?
«Il rischio c'è. Anche più grave di quello del 2007: allora c'era un governo di centrosinistra, questo è un governo che vede sinistra e destra insieme. Ma sarebbe ancora peggio vivacchiare senza risolvere nulla, perdere un altro giro».
Dovrà scegliere tra segretario del Pd e sindaco di Firenze?
«Il problema non si pone, almeno non si pone adesso. Non c'è incompatibilità. Avere una funzione nazionale sinora ha aiutato a fare meglio il sindaco, ad esempio a trovare i fondi per salvare il Maggio fiorentino. Ora poi l'Europa finanzierà direttamente i Comuni e non solo le Regioni. Con la riforma del titolo V della Costituzione abbiamo fatto un grosso errore: alla burocrazia statale si è aggiunta la burocrazia regionale».
Berlusconi chiede il presidenzialismo, lei frena. Ma non era presidenzialista pure lei?
«Non ho in mente una soluzione piuttosto di un'altra. Si può pensare all'elezione diretta del premier, che rafforza il governo, o del presidente della Repubblica, che però a questo punto non potrebbe più essere una figura di garanzia, dovrebbe essere un capo. L'importante è che ci sia qualcuno che si assuma la responsabilità, a cui dire grazie se ha successo o dare la colpa se fallisce».
Ma lei si vedrebbe al Quirinale?
«Le ho già detto che la mia preoccupazione non è il mio futuro politico. Ho 38 anni. Sa quali sono le due cose che mi danno più fastidio?».
Dica.
«La prima è quando mi descrivono roso dall'invidia, come se il mio treno fosse passato. Quando attribuiscono a me trame contro Letta, tipo la mozione di Giachetti per il ritorno ai collegi uninominali. Ora, se c'è uno che ha diritto di parlare di legge elettorale è Giachetti, ha fatto pure lo sciopero della fame, io non lo farei neppure se mi pagassero, ma rispetto le battaglie dei radicali. Nel merito sono d'accordo con lui; ma non ne sapevo nulla. Paradossalmente, sono proprio gli ex democristiani a dipingermi come un piantagrane. Tentano di logorarmi».
E la seconda?
«Quando mi dicono che non sono di sinistra. A me, il primo sindaco ad aver fatto un piano a volumi zero che ferma la cementificazione, con l'obbligo di aprire un giardino a dieci minuti di passeggiata da ogni casa, con le chiavi affidate alle mamme. Ora ho pedonalizzato un'altra parte del centro, dietro Palazzo Vecchio. Ma di questo non parla nessuno. Si parla solo del pranzo con Briatore».
Anche lei, però...
«Mi hanno dipinto come un'olgettina perché sono andato ad Arcore da Berlusconi, e ora con Berlusconi hanno fatto un governo. Mi hanno attaccato perché sono andato dalla De Filippi; dopo di me sono andati don Ciotti e Gino Strada e nessuno ha detto niente. Mi prendono in giro per il giubbotto di pelle, e non sanno che la pelletteria è un settore che tira, in dieci anni ha raddoppiato l'export. Ora mi attaccano perché ho incontrato Briatore. Io non la penso come lui. L'imprenditore cuneese con cui sono più in sintonia è Oscar Farinetti. Però sono curioso. Non voglio chiudermi nel mio steccato. Penso di poter imparare qualcosa da qualsiasi persona; a maggior ragione se è diversa da me, se ha avuto successo in quello che ha fatto, nello sport e nel lusso, se crea posti di lavoro».
Con il Billionaire?
«Non vado al Billionaire, non ho il fisico. Ma questo moralismo senza morale lo trovo insopportabile, questa saccenteria, questa pretesa di superiorità etica è la maledizione della sinistra. Per me la politica è una prateria, non una riserva indiana. Tra poco faccio il comizio. Sa qual è il passaggio su cui prenderò più applausi? Quando dirò che bisogna andare a cercare i voti della destra. Berlusconi vinse nel '94 con il milione di posti di lavoro e il nuovo miracolo italiano, nel 2001 con "meno tasse per tutti", e noi ironizzammo su questo. Fu un errore. Il Paese ha bisogno di speranza, sogni, fiducia. Berlusconi ha illuso gli italiani. Poi è seguita la disillusione. Ora è il tempo delle decisioni».
Lei ha preso l'abitudine di vedere pure D'Alema.
«Ma quale abitudine! Solo perché adesso ci parliamo... Ammiro il suo humour. Alla direzione Pd è andato da Matteo Orfini e gli ha detto: "Vedo che finalmente ci sono giovani turchi che fanno qualcosa di interessante. Peccato che siano a Istanbul».
Con D'Alema avete un patto?
«No. Con D'Alema è interessante discutere. Come con Veltroni. Io non rinnego la battaglia per la rottamazione. La rifarei; anche se rinunciare a D'Alema e tenersi Fioroni non è stato un affare. Però un partito ha bisogno di molte intelligenze e voglio ripartire dalle giovani leve, anche chi ha votato per Bersani. Voglio un partito vivo, in cui vengo fatto fuori e faccio fuori, ma in modo aperto, trasparente. Non chiedo fedeltà. Chiedo lealtà».
Non ha paura, da segretario di partito, di non avere più l'appeal sull'opinione pubblica che ha ora? Di non essere più Renzi?
«Io funziono solo se sono Renzi. Non sarò mai la copia di un funzionario di partito. La questione è un'altra: rimettere l'Italia in gioco, recuperare un pensiero lungo, passare dal Paese del piagnisteo al Paese dell'opportunità».
Il decreto sull'abolizione del finanziamento pubblico ai partiti la convince?
«Ho fatto voto di non parlare male del governo; quindi taccio».
Non può cavarsela così.
«Mi pare la logica dell'"adelante con juicio". Si poteva avere più coraggio. Spero che il Parlamento lo migliori. E che venga abolito il Senato, trasformandolo in camera delle autonomie: 315 parlamentari in meno significano meno costi e più efficienza. Ma l'importante oggi non è dire; è fare. Subito. Non le sembra che a Roma abbiano già perso troppo tempo?».

Aldo Cazzullo

6 giugno 2013 | 10:01© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_giugno_06/renzi-corsa-segreteria-pd_0d2b2c74-ce6a-11e2-869d-f6978a004866.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #148 inserito:: Luglio 10, 2013, 09:54:34 am »

Esame di maturità


La crisi italiana non è soltanto di competitività e di liquidità. È anche una crisi di fiducia. Il governo può e deve prendere misure per sostenere le imprese e favorire l'accesso al credito; ma la fiducia non può essere restituita per decreto.
Fa bene il capo dello Stato a richiamare l'attenzione sul «Paese che non si ripiega su se stesso», e sulle opportunità che lo attendono. Come ha detto Giorgio Napolitano, c'è un'Italia che resiste alla crisi e non si arrende all'idea che il futuro coincida con il destino; e c'è un mondo che guarda all'Italia come alla patria della creatività e della cultura, delle cose buone e delle cose belle. Il mondo globale è un fattore di crisi, perché il lavoro viene esportato, con la delocalizzazione, e importato, con l'immigrazione. Ma il mondo globale è anche una grande chance per il Paese dell'artigianato di qualità, della manifattura di pregio, del design, dell'arte, che non ha motivo di sottovalutarsi e deve spezzare la cappa di autolesionismo.

Per il suo richiamo alla coesione e alla fiducia, il presidente della Repubblica non poteva scegliere una circostanza più adatta del lancio dell'Expo 2015 - voluto da governi di ogni colore - e un luogo più indicato di Monza, alle porte di Milano. Per quanto tempo si sia perduto, l'Expo può ancora essere un grande successo. Intanto perché verte sul cibo - un settore di punta per il nostro export - e sullo sviluppo sostenibile, il che chiamerà in causa il volontariato, il no profit, le energie sociali e anche il ruolo della Chiesa cattolica, rigenerata dall'avvento di Papa Francesco. E perché l'Expo sarà per l'Italia una vetrina affacciata sul mondo di domani, sulla Cina, sull'India, sul Brasile, sull'Africa, sul nuovo Medio Oriente che uscirà da una travagliata stagione. Questa vetrina non poteva che essere a Milano, una metropoli che porta la vocazione alla centralità nel suo stesso nome: Mediolanum, la città che sta in mezzo. Finanza, editoria, design, moda, lirica, calcio, ospedali d'avanguardia, università d'eccellenza: Milano ha radici solide, come il Paese che rappresenterà nel 2015. L'importante è che l'Italia sappia ritrovare se stessa.

Molto dipende anche dal governo Letta. Un governo che non era nei desideri di nessuno, ma è l'unico possibile. Il Paese non reggerebbe all'ennesima legislatura perduta: le misure per rilanciare l'economia, le riforme per rendere la politica più efficiente e meno costosa, il semestre di presidenza Ue sono prove da non fallire. Enrico Letta sta confermando la sua competenza e la sua preparazione, ma deve andare oltre. Non si pretende da lui il carisma, che per le larghe intese sarebbe più di ostacolo che di aiuto. Guidare un governo però richiede comunque capacità di leadership. Un premier può essere tecnicamente bravissimo, ma se non «sente» il Paese, se non lo ascolta e non lo interpreta, se non va nelle aziende e nelle scuole, se si lascia trascinare dal gorgo dell'agenda istituzionale, non riuscirà a restaurare la fiducia che oggi manca. Napolitano chiede giustamente stabilità. E la stabilità dei governi dipende anche dalla loro capacità di entrare in sintonia con un Paese che mantiene fondamenta salde, ma ha bisogno di essere rinfrancato sulle proprie capacità di ripresa.

8 luglio 2013 | 7:57
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Aldo Cazzullo

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_luglio_08/esame-maturita_f0fea1d0-e78b-11e2-898b-b371f26b330f.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #149 inserito:: Agosto 02, 2013, 11:15:09 am »

Il cantautore torna a parlare di politica sei anni dopo le critiche a Veltroni

De Gregori: non voto più La mia sinistra si è persa tra slow food e No Tav

«Ringrazio Dio che il Pd non governi con Grillo»

Forse potevamo farci meno domande su Noemi e più sull'Ilva


Aldo Cazzullo

Francesco De Gregori, sono sei anni, da quando in un'intervista al «Corriere» lei demolì la figura allora emergente di Veltroni, che non parla di politica. Che cosa le succede?
«Succede che il mio interesse per la politica è molto scemato. Ha presente il principio fondativo delle rivoluzioni liberali, "no taxation without representation?". Ecco, lo rovescerei: pago le tasse, sono felice di farlo, partecipo al gioco. Però, per favore, tassatemi quanto volete, ma non pretendete di rappresentarmi».

Cos'ha votato alle ultime elezioni?
«Monti alla Camera e Bersani al Senato. Mi pareva che Monti avesse governato in modo consapevole in un momento difficile. Sono contento di com'è andata? No. Oggi non so cosa farei. Probabilmente non voterei. Con questo sistema, tanto vale scegliere i parlamentari sull'elenco del telefono».

Dice questo proprio lei, considerato il cantautore politico per eccellenza? L'autore de «La storia siamo noi», per anni colonna sonora dei congressi della sinistra italiana?
«Continuo a pensarmi di sinistra. Sono nato lì. Sono convinto che vadano tutelate le fasce sociali più deboli, gli immigrati, i giovani che magari oggi nemmeno sanno cos'è il Pd. Sono convinto che bisogna lavorare per rendere i poveri meno poveri, che la ricchezza debba essere redistribuita; anche se non credo che la ricchezza in quanto tale vada punita. E sono a favore della scuola pubblica, delle pari opportunità, della meritocrazia. Tutto questo sta più nell'orizzonte culturale della sinistra che in quello della destra. Ma secondo lei cos'è oggi la sinistra italiana?».

Me lo dica lei, De Gregori.
«È un arco cangiante che va dall'idolatria per le piste ciclabili a un sindacalismo vecchio stampo, novecentesco, a tratti incompatibile con la modernità. Che agita in continuazione i feticci del "politicamente corretto", una moda americana di trent'anni fa, e della "Costituzione più bella del mondo". Che si commuove per lo slow food e poi magari, "en passant", strizza l'occhio ai No Tav per provare a fare scouting con i grillini. Tutto questo non è facile da capire, almeno per me».

Alla fine la sinistra si è alleata con Berlusconi.
«Questo governo non piace a nessuno. Ma credo fosse l'unico possibile. Ringrazio Dio che non si sia fatto un governo con Grillo e magari un referendum per uscire dall'euro. Se poi molti nel Pd volevano governare con Grillo e io non sono d'accordo non è un dramma. Ora il Pd è di moda occuparlo, prendere la tessera per poi stracciarla. Non ne posso più di queste spiritosaggini».

Apprezza Letta?
«Le ho detto che seguo poco. Se mi chiede chi è ministro di cosa, magari non lo so. Quando viaggio compro sei giornali, ma dopo dieci minuti li poso e comincio a guardare fuori dal finestrino...».

Colpa dei giornali o della politica?
«Magari è colpa mia. Mi sento, mischiando Prezzolini e Togliatti, un "inutile apota". Comunque nutro un certo rispetto per il lavoro non facile di Letta e di Alfano. Sono stufo del fatto che, appena si cerca un accordo su una riforma, subito da sinistra si gridi all'"inciucio", al tradimento. Basta con queste sciocchezze. Basta con l'ansia di non avere nemici a sinistra; io ho sempre avuto nemici a sinistra, e non me ne sono mai occupato. Ho votato Pci quando era comunista anche Napolitano. Ma viene il momento in cui la realtà cambia le cose, bisogna distaccarsi da alcune vecchie certezze, lasciare la ciambella di salvataggio ed essere liberi di nuotare, non abbandonando per questo la tua terra d'origine. Non ce la faccio più a sentir recitare la solita solfa "Dì qualcosa di sinistra". Era la bellissima battuta di un vecchio film, non può diventare l'unica bandiera delle anime belle di oggi. Proviamo piuttosto a dire qualcosa di sensato, di importante, di nuovo. Magari scopriremo che è anche di sinistra».

Di Berlusconi cosa pensa?
«Berlusconi è stato fondamentalmente un uomo d'azienda. Nel suo campo e nel suo tempo una persona molto abile, non un vecchio padrone delle ferriere. Ha fatto politica solo per proteggere i suoi interessi, senza avere nessun senso dello Stato, nessun rispetto per le regole e, credo, con alle spalle una scarsa cultura generale. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. È imputato di reati gravi e si è difeso dai processi più che nei processi. Che altro vuole sapere? Aveva ragione l'Economist : Berlusconi era inadatto a governare l'Italia. Mi chiedo però anche se l'Italia sia adatta a essere governata da qualcuno».

Un premier non telefona in questura per far liberare un'arrestata dicendo che è la nipote di Mubarak, non crede?
«Certo. Andreotti non si sarebbe mai esposto così. Però, guardi, ho seguito con crescente fastidio e disinteresse l'accanimento sulla sua vita privata. Forse potevamo farci qualche domanda in meno su Noemi e qualcuna di più sull'Ilva di Taranto? Pensare di eliminare Berlusconi per via giudiziaria credo sia stato il più grande errore di questa sinistra. Meglio sarebbe stato elaborare un progetto credibile di riforma della società e competere con lui su temi concreti, invece di gingillarsi a chiamarlo Caimano e coltivare l'ossessione di vederlo in galera. Non condivido nulla dell'etica e dell'estetica berlusconiana, ma mi irrita sentir parlare di "regime berlusconiano": è una falsa rappresentazione, oltre che una mancanza di rispetto per gli oppositori di Castro o di Putin che stanno in carcere. E ho trovato anche ridicolo che si sia appiccicata una lettera scarlatta al sindaco di Firenze per un suo incontro col premier».

Renzi appare l'uomo del futuro.
«Renzi è uno che ha sparigliato. Se il Pd avesse candidato lui probabilmente avrebbe vinto. Ma la scelta del termine rottamazione non mi è mai piaciuta, mi è sempre parsa volgare e violenta. E poi non sono più disposto a seguire nessuno a scatola chiusa».

Quindi non crede in lui? E non voterà alle primarie?
«Il verbo "credere" non dovrebbe appartenere alla politica. Non basta promettere bene e saper comunicare. E poi penso di non votare alle secondarie, si figuri se voterò alle primarie. Il Pd sta passando l'estate a litigare. E magari anche Renzi ne uscirà logorato».

Aveva acceso speranze Grillo e l'idea della rete come veicolo di partecipazione.
«Ho trovato inquietante la campagna di Grillo, il suo modo di essere e di porsi, il rifiuto del confronto, le adunate oceaniche. Condivido i tagli ai costi della politica e la richiesta di moralizzazione che viene da molti e che Grillo ha saputo ben intercettare. Molti elettori e molti eletti del M5S sono sicuramente persone degne e capaci di fare politica. Ma questa idea della Rete come palingenesi e istituzione iperdemocratica mi ricorda i romanzi di Urania».

Con Veltroni avete fatto pace?
«Per quell'intervista mi saltarono addosso in molti, compresi alcuni colleghi cantanti. Qualcuno mi chiese addirittura "Chi ti ha pagato?". Con Veltroni ci siamo incontrati per caso un paio di mesi fa al Salone del Libro a Torino, abbiamo parlato qualche minuto e credo che questo abbia fatto piacere a tutti e due. È sempre una persona molto ricca sul piano umano. Ma non mi andava di essere catalogato tra i Veltroni Boys».

Non c'è proprio nessuno che le piaccia?
«Papa Francesco, la più bella notizia degli ultimi anni. Ma mi piaceva anche Ratzinger. Intellettuale di altissimo livello, all'apparenza nemico del mondo moderno e in realtà avanzatissimo, grande teologo e per questo forse distante dalla gente. Magari i fedeli in piazza San Pietro non lo capivano. Ma il suo discorso di Ratisbona fu un discorso importante».

Oggi non canterebbe più «Viva l'Italia»?
«Al contrario. Sono convinto che l'Italia abbia grandi chance per il futuro. E ogni volta che canto quella canzone sento che ogni parola di quel testo continua ad avere un peso. "L'Italia che resiste", ad esempio; e solo le anime semplici potevano pensare che c'entrasse qualcosa con lo slogan giustizialista "resistere resistere resistere". "L'Italia che si dispera e l'Italia che s'innamora". L'Italia che ogni tanto s'innamora delle persone sbagliate, da Mussolini a Berlusconi. Ma il mio amore per l'Italia, e per gli italiani, non è in discussione. Sono stato berlusconiano solo per trenta secondi in vita mia: quando ho visto i sorrisi di scherno di Merkel e Sarkozy».

31 luglio 2013 | 7:51
© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_luglio_31/de-gregori-non-voto-piu-cazzullo_ae273fd8-f9a2-11e2-b6e7-d24d1d92eac2.shtml
Registrato
Pagine: 1 ... 8 9 [10] 11 12 ... 17
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!