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Autore Discussione: ALDO CAZZULLO.  (Letto 137319 volte)
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« Risposta #165 inserito:: Settembre 06, 2014, 04:54:35 pm »

«Salotti buoni»
Renzi e la diffidenza (ricambiata) di banchieri e manager
L’habitué di Cernobbio: «Non parla neanche col governatore Visco, figuriamoci con noi».
E l’ex ministro Tremonti: «Matteo mi copia»

Di ALDO CAZZULLO

«Non parla neanche con il governatore Visco, figuratevi se considera noi» dice un habitué di Cernobbio. Renzi non va nei «salotti buoni», oggi verrà qui in Lombardia ma in visita a un rubinettificio, «da chi investe soldi veri». Al Workshop Ambrosetti ci sono però i suoi nominati - Starace, Marcegaglia, Grieco, Caio - e i suoi trombati. «I’m a very important man!» dice, certo scherzando, l’ex capo dell’Eni Scaroni a un giornalista straniero, porgendogli il suo biglietto da visita. «La situazione? Disastrosa. Siamo in mani altrui. Se il New York Times scrive che Renzi è un pirla, va a casa». Renzi è un pirla? «No - si fa serio Scaroni -. Ma ha fatto il ganassa. E ora deve passare ai fatti. Il banco di prova sarà la riforma del lavoro. Se la fa davvero, la sua credibilità cresce. Altrimenti...». Insomma, il premier è atteso al varco. Per sua fortuna, c’è qui anche Renato Brunetta, suo grande estimatore: «Renzi è il peggior presidente del Consiglio della storia unitaria, a parte Monti, che è fuori concorso». Il Professore, a Cernobbio tradizionalmente molto omaggiato, arriva malinconico a tarda sera vestito di grigio, sotto una pioggerella autunnale, nel disinteresse dei presenti: oggi lo attende una mattinata di ex - Barroso, Almunia, Trichet, Prodi, ulteriormente moderati da Enrico Letta - il cui tema è, non a caso, «realizzare le riforme».

Nel 1999 qui venne Aznar, Silvio Berlusconi disse che bisognava fare la riforma del lavoro sul modello spagnolo. Sono le stesse frasi che ricorrono oggi, quindici anni dopo. Berlusconi tornò a Cernobbio nel 2005, per un passaggio memorabile: arrivò in elicottero, unico senza cravatta a parte i sommozzatori in muta che vigilavano dal lago, rivendicò di aver fatto incontrare Putin e gli ayatollah, corteggiò Paola Saluzzi, e previde che l’Italia era attesa da un periodo di formidabile sviluppo. In sala c’era Romano Prodi, che ribatté: le riforme della giustizia e del lavoro le faremo noi. Si attende da allora. Brunetta: «Meglio che non le faccia Renzi. Quel che tocca, peggiora. Palazzo Chigi non esiste più: lui ha fatto fuori tutti. Il risultato è che i provvedimenti sono scritti malissimo, pieni di strafalcioni. Gli uffici legislativi del Quirinale sono disperati: devono riscrivere ogni parola».

Non che il premier stia così antipatico a tutti. Non a Francesco Merloni, ad esempio. «Non lo conoscevo. Mi chiamano dalla sua segreteria con tre giorni di preavviso e mi dicono: il presidente del Consiglio farà visita alla vostra fabbrica in Vietnam. Mi scapicollo in Vietnam. Il mattino riunione in ambasciata, ci sono anche Colaninno e una ventina di colleghi. Dico che noi imprenditori siamo accusati di delocalizzare, invece internazionalizziamo le nostre imprese: sono due cose molto diverse.
Renzi all’apparenza è distratto, annoiato. Poi nello stabilimento prende la parola e dice: “Voi imprenditori siete accusati di delocalizzare, invece internazionalizzate le vostre imprese: sono due cose molto diverse...”. Una spugna. Lo stesso discorso l’ha rifatto altre quattro volte in Cina». E l’amministratore delegato di Google Italia, Fabio Vaccaroni: «Renzi ha riacceso interesse attorno al nostro Paese, non è vero che non contiamo nulla: Eric Schmidt, il mio presidente, vuol sempre venire qui da noi. Ora però il premier dovrebbe fare qualche riforma che all’estero riusciamo a spiegare. Se agli americani parlo di flessibilità del lavoro, mi capiscono. Se parlo di bicameralismo perfetto e superamento del Senato, mi guardano con gli occhi sbarrati». Arriva Prodi. Brunetta: «Romano aveva Ciampi all’Economia, Napolitano agli Interni, Dini agli Esteri, Andreatta alla Difesa. Renzi ha la Giannini e la Madia». Che le ha fatto la Madia? «Non sa niente. Niente!».

Arriva il grande vecchio Shimon Peres, che discute con John McCain la sua visionaria e geniale idea di un’Onu delle religioni per fermare le guerre. Più modestamente, gli ospiti italiani discutono la profezia di Berlusconi: «Sosteniamo Renzi, altrimenti arrivano la troika e i prelievi dai conti correnti». «Magari arrivasse la troika...» mormora un banchiere. Spiega però l’ex ministro dell’Economia Grilli di aver rifiutato a suo tempo il commissariamento perché «non sarebbe servito a nulla. Si prendevano la nostra sovranità in cambio di 80-90 miliardi. Ma cosa ce ne facciamo di 80-90 miliardi?». Tremonti da Renzi si considera lusingato: «Mi copia. Ha proposto di mandare in tv i film in inglese in prima serata e di detassare i piccoli lavori condominiali.

Rivendica il primato della politica sulla burocrazia. Dovrei chiedere il copyright». Poi l’ex ministro si fa serio: «Il problema non è la burocrazia; è la matematica. Non è un caso che tutti i premier, compresi Monti e Letta, siano caduti sulla finanziaria: mica erano tutti sciocchi. I numeri non li cambiava neppure Stalin. Dove li trova Renzi 20 miliardi di tagli, in un bilancio che - interessi a parte - è già in attivo?». Lei fece i tagli lineari. «E feci bene: sono gli unici che hanno funzionato. Lo dice pure Cottarelli». Passa Umberto Veronesi: «Mai visto Renzi in vita mia. Mi pare giovanilmente spregiudicato. Ma un po’ di spregiudicatezza giovanile in questa Italia ci vuole».

Gnudi, ministro con Monti, ora commissario all’Ilva: «Renzi deve costruirsi una squadra. Non è che può passare le notti a lavorare da solo con Delrio». Arriva Enrico Letta. Brunetta: «In Europa si poteva piazzare lui. Invece Renzi ha messo la Mogherini, giovane priva di esperienza, in un posto che non conta nulla e conterà meno di prima. Lady Ashton aveva dietro l’eredità dell’Impero britannico. La Mogherini dietro che cosa ha? L’Italietta di Faccetta Nera ?».
Nella discussione sulle riforme si apre talora uno spiraglio di speranza. Claudio Costamagna, l’ex banchiere più vicino a Prodi, ora presidente Impregilo, dice che «le nostre potenzialità sono enormi. E non solo per le cose che si dicono sempre: arte, bellezza, cultura, made in Italy . Per i nostri talenti. Abbiamo ragazzi che a Londra e in Germania si sognano. Basterebbe poco per ripartire: una giustizia con regole e tempi certi, un mercato del lavoro moderno. Il premier si muova». «Il problema - conclude Grilli - è che le riforme gli italiani non le vogliono. Il Paese non vuole cambiare: tra garanzie e opportunità, sceglie sempre le garanzie». Brunetta: «Ma che vi importa se Renzi non è venuto?».

6 settembre 2014 | 07:05
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_settembre_06/renzi-diffidenza-ricambiata-banchieri-manager-827bfe6a-3582-11e4-bdcf-fc2cde10119c.shtml
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« Risposta #166 inserito:: Settembre 07, 2014, 05:16:08 pm »

Renzi, asse anti «salotti» con Squinzi
«A Cernobbio chiacchiere, qui si fa» «Quelli di Cernobbio non ne azzeccano una»

Di ALDO CAZZULLO

Dice Renzi: «Di là c’è un convegno in un hotel cinque stelle sul lago con Barroso, Trichet, Almunia ed Enrico» (Letta). «Di qua si apre un rubinettificio alla periferia di Brescia con Annibale, Domenico, Luciano, Elio. Quale crede che sia il mio posto?». Chi sono Annibale e gli altri? «Sono i vecchi operai della Bonomi, quelli che ho citato dal palco. Li ho visti all’ingresso e mi sono fatto dire i nomi». Annibale è un bel vecchio con una benda su un occhio e il bastone; Aldo Bonomi, che nella nuova fabbrica ha investito 50 milioni di euro e darà lavoro a 220 operai, lo abbraccia: «Annibale mi portava a scuola quand’ero piccolo e mi pompava le ruote della bicicletta». Guardi Renzi che anche sul lago, a Cernobbio, si impara qualcosa, venerdì c’erano Shimon Peres e John McCain. «Infatti ci vanno cinque ministri, ci saranno più ministri a Cernobbio che a Bologna per la chiusura della festa dell’Unità, compreso il compagno Poletti», ride indicando il ministro del Lavoro, molto applaudito per il discorso più breve della storia: 40 secondi praticamente in dialetto emiliano. Si inserisce il presidente di Confindustria Squinzi: «A Cernobbio non mi hanno mai visto e mai nemmeno mi vedranno», dice citando forse inconsapevolmente una canzone di De Gregori a proposito del festival di Sanremo. «Cernobbio è una fiera delle vanità - conclude Squinzi -. Io sono uno abituato a stare in fabbrica».

Poletti accusa un improvviso mal di schiena e decide di non andare a Cernobbio neanche lui. Riprende Renzi: «Noi andiamo avanti. Cattivi e determinati. Io accetto le critiche, ma preferisco quelle della gente a quelle dei soliti noti, che stanno lì da trent’anni e non ne hanno mai azzeccata una. Per fortuna, vedo che tra la gente il sentimento nei miei confronti è ancora positivo. E non perché amino me. Perché in me vedono uno che nell’Italia ci crede davvero». È davvero convinto di aver fatto la scelta giusta per l’Italia, impuntandosi sulla Mogherini? «Certo. Non è stata una vittoria di qualcuno; è stata una vittoria del Paese, cui viene affidato un ruolo cruciale in un momento cruciale. Mi verrebbe voglia di tirare fuori i titoli di quest’estate, quando dicevano: “Tornerà a mani vuote...”». D’Alema ha riaperto le ostilità. «Perfetto. Mi attaccano D’Alema e Bersani: cosa posso volere di più dalla vita? Mancava Rosy Bindi, la attendevo con ansia, e ora si è aggiunta pure lei. En plein».

L’avversario è connaturato al renzismo, il nemico è fondamentale per uno che si è costruito contro la classe dirigente del suo partito, e ora che è al governo continua a muoversi come se fosse all’opposizione: non a caso applaude quando il padrone di casa Bonomi ricorda l’insostenibilità del fisco e il peso della burocrazia. L’occasione di avere nelle stesse ore e a pochi chilometri un simbolo dell’establishment come Cernobbio è ghiotta, e infatti davanti agli operai bresciani il premier accenna più volte a «grandi convegni» da disertare, a «luoghi in cui si discute mentre qui si fa», a «coloro che enunciano i problemi anziché risolverli»; perché «i grandi esperti hanno fallito, mentre la rubinetteria è un settore d’eccellenza del made in Italy». Ma l’applauso più facile e più fragoroso lo ottiene quando grida che «abbiamo troppi politici, e con la riforma del Senato abbiamo finalmente cominciato a ridurli». Il retrotesto è evidente, e rimanda alle categorie grilline: io sono uno di voi, non uno di loro; «il presidente del Consiglio non è che un bonus pater familias».

All’ingresso della fabbrica, tricolore, inno di Mameli e il prete - don Virgilio Tonetti da Lumezzane San Sebastiano - con turibolo per la benedizione. Servizio d’ordine agitatissimo. Il senatore Mucchetti sul palco delle autorità. La soubrette russa Natasha Stefanenko saluta «il nostro presidente del Consiglio». La folla lo chiama da dietro il cancello, lui si nega, «scusate sono in un ritardo vergognoso, ci salutiamo dopo», ma neppure alla fine troverà il tempo di stringere qualche mano (a parte gli operai dello stabilimento).

Renzi esordisce promettendo che non parlerà più di gufi, «per non offendere i gufi», intesi come specie ornitologica. Non si tiene però dal raccontare l’aneddoto prediletto, quello di «Ginettaccio Bartali» che diceva sempre «l’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare» ma poi «rischiava la pelle per portare in bicicletta i documenti falsi per salvare gli ebrei» (qui Annibale, che a differenza dei cronisti non l’ha mai sentita, si commuove, «anche se io ero per Coppi»). Il discorso è improntato sulle due Italie: l’Italia dei professoroni, dei pessimisti, «di quelli che chiacchierano», insomma di Cernobbio; e l’Italia «di quelli che fanno, che hanno costruito il Paese, che ancora oggi si spaccano la schiena», insomma dei rubinettifici, «punto di forza del Bresciano che è uno dei cuori dell’economia italiana».

Il mondo globalizzato, è l’idea di Renzi, finora è stato vissuto come una minaccia; «in realtà il nostro spazio-nazione è maggiore che in passato. Tra dieci anni avremo 800 milioni di nuovi consumatori. Non dobbiamo solo attrezzarci per accoglierli come turisti; dobbiamo puntare sulla qualità del made in Italy, fare qui prodotti che nessuno riesce a fare altrove, anche se in tanti provano a copiarli». Il premier cita Carlo Maria Cipolla: la nostra forza non è solo la cultura, ma «la capacità di fare cose straordinarie». L’Obama della notte della rielezione (senza nominarlo: «Anche qui da noi il meglio deve ancora venire»). E Adriano Olivetti: «Nel settore pubblico abbiamo applicato il suo principio: il dirigente non può guadagnare più di dieci volte l’ultimo impiegato, e pazienza per i dirigenti convinti di esercitare una missione divina. C’è ancora molto grasso che cola nell’amministrazione pubblica». Indulge fin troppo nell’autoironia: «Saluto i fratelli Aldo e Carlo Bonomi, so che ci sono anche delle sorelle, volevo cominciare con “fratelli e sorelle”, ma avreste pensato: questo qui si è montato la testa». Un’operaia grida «bravo Matteo!», e lui: «È mia cugina, l’ho pure pagata». «Uno vede chi è oggi il presidente del Consiglio, e pensa: come siete caduti in basso». Poi alla fine non si trattiene e attacca «i gufi che cominciano a criticare fin dalla mattina presto, che schiaffeggiano pure le nuvole, che tengono il broncio pure all’arcobaleno», contrapposti a «coloro che ce la mettono tutta perché ancora credono al futuro del Paese; a cominciare da voi bresciani, teste dure che avete fatto la storia d’Italia», non a caso «il Nord cresce come e a volte meglio della Germania».

Chiusura con il consueto «non molleremo di un centimetro», «costi quel che costi». Squinzi lo bacia sulle guance. Renzi scappa, gli altri passano al brindisi con franciacorta e bagoss. Il punto è che pure a Cernobbio, accanto a chi attende il cadavere del governo lungo il lago, qualcuno diceva più o meno le stesse cose: l’Italia ha potenzialità immense; deve rinunciare a pigrizie e facili garanzie per poterle cogliere. Certi ambienti però, nella strategia di Renzi, è meglio averli nemici che alleati. «Avanti così, cattivi e determinati».

7 settembre 2014 | 08:37
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_settembre_07/renzi-asse-anti-salotti-squinzi-a-cernobbio-chiacchiere-qui-si-fa-cb623c3a-3658-11e4-b5da-50af8bd37951.shtml
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« Risposta #167 inserito:: Settembre 14, 2014, 06:46:44 pm »

La visita
Redipuglia e le radici italiane del Papa
Il passaggio di un Papa straniero in un luogo simbolo della nostra identità

Di Aldo Cazzullo

La visita di Francesco a Redipuglia, in programma stamattina, non segna soltanto il passaggio di un Papa straniero in un luogo simbolo della nostra storia e della nostra identità. Rappresenta anche il recupero delle sue radici italiane, che il Pontefice ha sempre rivendicato. Bergoglio è e si sente argentino. Però porta nel cognome le origini astigiane. E parla il dialetto meglio della gran parte dei piemontesi (a Roma ancora si stampano manifesti con le frasi di Wojtyla, «semo romani, damose da fa’»; in Piemonte, regione dall’identità meno definita, non ha lasciato tracce la strepitosa espressione dialettale che Francesco usò in piazza San Pietro, «non bisogna fare la munia quaccia», letteralmente la monaca accovacciata: in italiano si potrebbe dire «gatta morta» o in alternativa «moralista ipocrita», ma non è la stessa cosa). Era della provincia astigiana il nonno di Bergoglio, Giovanni, nato a Bricco Marmorito di Portacomaro Stazione, combattente della Grande Guerra.

«Ho sentito tante storie dolorose sulla guerra dalle labbra di mio nonno, che l’ha fatta sul Piave» disse il Papa il 6 giugno scorso, parlando in piazza San Pietro ai carabinieri nel bicentenario della fondazione dell’Arma. Giovanni Bergoglio fu chiamato alla visita di leva il 28 giugno 1904, riformato per «deficienza toracica», richiamato nel 1915 allo scoppio della guerra, a trentun anni. Matricola 15.543, «professione caffettiere, capelli castani, mento tondo, naso aquilino», viene assegnato al 78° reggimento di fanteria. Arriva in prima linea il 10 luglio 1916, sul Medio Isonzo. Partecipa alla sesta battaglia, l’unica in cui l’esercito italiano compie progressi significativi: il Sabotino è preso in 38 minuti, grazie anche all’accorgimento di mettere dischi bianchi sulla schiena dei fanti, per evitare che l’artiglieria italiana tiri come di consueto su di loro; «fu come l’ala che non lascia impronte/ il primo grido avea già preso il monte» poetò D’Annunzio. Seguirono la rotta di Caporetto e la difesa sul Piave. Ma non sono ricordi di gloria quelli che Giovanni Bergoglio ha tramandato al nipote. Era il dolore al centro dei suoi racconti. Il 78° reggimento (come hanno ricostruito Avvenire e Tv2000 ) ebbe 882 morti, 1.573 dispersi, 3.846 feriti. Giovanni fu congedato con una dichiarazione di buona condotta e un premio di 200 lire.

A Redipuglia, davanti ai resti di centomila soldati - e della crocerossina Margherita Kaiser Parodi Orlando, morta di spagnola -, il Papa pregherà per i caduti di tutte le guerre, comprese quelle in corso, che ha definito «la terza guerra mondiale», sia pure «a intervalli» di spazio e di tempo. Non a caso porterà in dono la lampada del patrono d’Italia, San Francesco, che viene dal convento di Assisi. Resta valido il significato profondo di quel che Redipuglia rappresenta per la nostra storia: il più grande sacrario di una guerra che era meglio non fare, che impose un prezzo inaccettabile di sofferenza e di sangue, ma segnò anche la prima prova per una nazione giovane e fragile: una prova che fu superata. E ora sappiamo che tra i nostri antenati che quella guerra combatterono c’era anche il nonno di un Papa argentino, che sta cambiando la storia della Chiesa e lavora per aprire nuove prospettive di pace.

13 settembre 2014 | 08:58
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_settembre_13/redipuglia-radici-italiane-papa-f0d5e636-3b0f-11e4-9b9b-3ef80c141cfc.shtml
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« Risposta #168 inserito:: Ottobre 21, 2014, 11:14:29 pm »

L’INTERVISTA - Andrea ORLANDO
«Per i pm più discrezionalità sui reati Il Pd? Rischio comitato elettorale»
Il ministro: sulla riforma della giustizia giusto andare oltre la maggioranza. San Vittore va chiuso

Di Aldo Cazzullo

Ministro Orlando, anche lei pensa che i magistrati facciano troppe ferie? «Penso che il taglio delle ferie si sia caricato di un significato ulteriore. Non è certo la pietra angolare della riforma; ma non è neppure un atto di lesa maestà, o un’aggressione».

È evidente che le ferie sono un simbolo. Il punto è che la giustizia è lenta e incerta.
«Non sono solo un simbolo. È uno dei tanti provvedimenti per migliorare le performance della giustizia. Pur riconoscendo la specificità del lavoro dei magistrati, credo se ne possa e se ne debba discutere».

Questa settimana arrivano alla Camera il decreto e la legge delega sulla riforma del civile. Il governo punta sulla composizione extragiudiziale. Che esiste già; e non funziona.
«Ampliamo percorsi che già ci sono. Ne apriamo di nuovi. E facciamo diventare gli avvocati promotori di questi percorsi. L’avvocato non ha interesse solo a mantenere la causa; diventa un soggetto che previene e ricompone il conflitto».

Così il cittadino deve pagare per avere giustizia.
«Non è vero. Lavoriamo a un sistema di incentivi: una parte delle spese per gli arbitri e per la negoziazione sarà detraibile. E non è vero che la giustizia viene privatizzata: se le parti non si ritengono soddisfatte, possono tornare alla giustizia ordinaria. La vera privatizzazione è un processo che dura 10 o più anni, in cui soccombe la parte più debole, che non è nelle condizioni di aspettare».

In Italia ci sono troppi avvocati?
«Il blocco del turn-over ha spinto una generazione verso la libera professione. La crisi dello status dell’avvocato diventa un problema democratico: l’avvocatura era un bacino in cui si selezionava la classe dirigente del Paese. Miglioreremo la formazione dei giovani, che potranno fare il tirocinio accanto a un giudice, e attueremo la riforma dell’ordinamento: avremo avvocati specializzati, come i medici».

È possibile rivedere l’obbligatorietà dell’azione penale?
«Il principio costituzionale deve restare. Però leggi già votate dal Parlamento hanno già ampliato la flessibilità. La riforma introduce un ulteriore elemento di discrezionalità per il pm, la condotta riparatoria: chi fa un danno si impegna a risarcirlo, ripristina la situazione precedente, e il reato si estingue prima del processo».

Perché si parla sempre di svuotare le carceri? E’ impossibile costruirne di nuove? Riconvertendo quelle nei centri storici, da San Vittore a Milano a Regina Coeli a Roma?
«Costruire è necessario. Va anche detto che l’aumento dei detenuti non è dovuto a un aumento dei reati, ma a una scelta politica. L’Italia ha deciso di aumentare il ricorso al carcere per droga e immigrazione. Meglio puntare sulla pena in comunità, sui lavori di pubblica utilità. Con Regioni e Comuni rimoduleremo il piano carceri, anche per cogliere l’occasione urbanistica legata a immobili di grande valore. Io sono per chiudere le carceri ottocentesche con i raggi, come San Vittore, non per riaprirlo altrove ma per sostituirlo con un carcere più piccolo fuori Milano».

È possibile limitare l’appello e il ricorso in Cassazione?
«Ci confronteremo con l’associazione magistrati e con gli avvocati. Non credo a ricette tranchant, tipo abolire l’appello. Ma si può far sì che non tutto sia appellabile, e non tutto possa finire in Cassazione. Nella riforma è prevista una sorta di “superpatteggiamento”: una confessione con sconto di pena, una “condanna concordata” non appellabile».

La responsabilità civile dei magistrati non sarà una punizione?
«Modificare la legge Vassalli del 1988 era una necessità, imposta anche dall’Unione Europea, che ci obbliga a varare una nuova legge entro fine anno. Se il Parlamento non farà in tempo dovremo intervenire per decreto; ma la considero un’extrema ratio. La responsabilità dei magistrati resta indiretta: paga lo Stato, che può rivalersi sul magistrato, che però risponderà per l’errore, non in base alla grandezza della causa. Altrimenti nessuno vorrà fare processi grandi e quindi rischiosi».

La magistratura ha un atteggiamento conservatore?
«Avevamo avviato un dialogo costruttivo. Ho visto un cambio di atteggiamento molto forte legato alla vicenda delle ferie, forse perché le si è attribuita un’enfasi che è stata scambiata per un’aggressione».

Renzi ha sbagliato?
«Penso abbia voluto emblematizzare alcuni interventi, come in altri campi. C’è bisogno di parlare con l’opinione pubblica, di semplificare il messaggio. Credo che l’Anm sappia che noi non abbiamo mai fatto di questa misura un punto centrale. Mi auguro che si riprenda la discussione, ora che la legge di stabilità risponde a molte richieste dei magistrati. Ci sono i soldi per mille assunzioni nelle cancellerie, per stabilizzare i precari della giustizia, per riqualificare il personale».

L’Anm critica le nuove norme sull’autoriciclaggio: limitarlo alle attività economiche e speculative consente ad esempio di comprarsi una villa con i fondi neri.
«Se il reato di autoriciclaggio fosse una cosa semplice sarebbe già stato introdotto non tanto dalla destra, che non l’ha mai voluto, quanto dalla sinistra. Si tratta di una misura storica. Il cuore è impedire l’inquinamento dell’economia da parte di capitali illeciti, che alterano la concorrenza. Possiamo stabilire che comprare una villa con i fondi neri alteri il mercato immobiliare. Ma non possiamo semplicemente moltiplicare le sanzioni già previste per il reato presupposto, quello per intenderci con cui si è fatto il nero».

Come cambieranno le intercettazioni?
«Il tema va affrontato. La delega lo prevede. Dobbiamo conciliare le esigenze delle indagini con quelle della privacy e del diritto all’informazione. Serve un filtro per non far finire nei fascicoli ciò che non è penalmente rilevante».

Il patto del Nazareno prevede un accordo sulla giustizia?
«No. E non ne ho avuto alcun tipo di segnale. Non ho mai ricevuto un diktat legato a patti segreti. Ma l’esigenza del confronto è fisiologica. Nella maggioranza ci sono forze che avevano programmi sulla giustizia molto diversi. E i numeri molto risicati al Senato ci impongono il confronto con le opposizioni. So che la navigazione è difficile: bisogna cercare ogni giorno punti di contatto. Ma andare oltre la maggioranza non è solo un’esigenza numerica; è un esigenza politica. Non è un obbligo previsto dalla Costituzione. Ma dopo lo scontro di questi vent’anni costruire una grande infrastruttura come la giustizia è una questione di rilevanza democratica».

Sta dicendo che il governo vuole fare la riforma della giustizia con le opposizioni?
«Sul civile c’è stato in commissione un atteggiamento costruttivo da parte di tutte le opposizioni. Mi auguro prosegua in Aula. Il consenso cambia a seconda del tema. Ci sono priorità simili sui reati di criminalità economica con i 5 Stelle e con settori di Forza Italia sulla responsabilità dei magistrati. Sul civile si possono ridurre le distanze con tutti. Del resto non esiste “la” riforma della giustizia. Esistono molti provvedimenti».

Un eventuale appoggio di Berlusconi su alcuni punti farà pensare a patti inconfessabili. Grazia compresa.
«La storia di questi mesi dimostra che si tratta di allarmi infondati. Un genere letterario, più che un’azione del legislatore o del governo».

Che voto dà a Renzi?
«Sicuramente positivo. Renzi sta cercando di rompere la temperie tecnocratica degli ultimi vent’anni, sorprendendo tutti. Renzi ha smentito Renzi. Ai tempi di Monti lo ricordo tra i più convinti supporter della sua agenda. Ora ha ridato respiro alla politica, incrinando la logica ragionieristica della gestione europea della crisi. Non solo rigore, ma redistribuzione del reddito e incentivi. Ora va proposta una politica industriale».


Lei però viene da una parte del Pd che rischia di essere spazzata via. Il partito diventerà il comitato elettorale di Renzi?
«Il rischio comitato elettorale c’è. Ma non inizia con Renzi. Non si tratta di coltivare la nostalgia del tempo delle sezioni. Dobbiamo costruire il partito facendo i conti con le nuove tecnologie, dando uno sbocco alla partecipazione attiva dei cittadini, in altre forme oltre a quelle delle primarie. Altrimenti sono in pericolo, oltre al partito e alla qualità democratica, anche le riforme. Che non dipendono solo dalle norme, ma da quel che si riesce a cambiare nel profondo del Paese».

D’Alema e Bersani faranno la scissione?
«Sono convinto di no. Non è nella loro cultura politica un posizionamento di mera testimonianza».

19 ottobre 2014 | 10:23
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_ottobre_19/per-pm-piu-discrezionalita-reati-pd-rischio-comitato-elettorale-5504d58a-5768-11e4-8fc9-9c971311664f.shtml
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« Risposta #169 inserito:: Ottobre 22, 2014, 06:08:09 pm »

Ruini: io dico no alle unioni civili
L’ex presidente dei vescovi italiani, Camillo Ruini, parla di Chiesa, gay e divorziati: «Questa ondata libertaria potrebbe defluire»

Di Aldo Cazzullo

Eminenza, dal Sinodo esce una Chiesa divisa. Si è votato, le posizioni sostenute dal Papa hanno prevalso, ma di misura. Che impressione ne ha tratto?
«Quella che papa Francesco ha espresso nel discorso conclusivo: non una Chiesa divisa, ma una Chiesa con posizioni differenti. Una Chiesa che è comunione: l’unico corpo di Cristo, in cui siamo membri gli uni degli altri. Mi pare un po’ forzato dire che certe posizioni erano sostenute dal Papa piuttosto che certe altre. Lui stesso ha voluto che ci fosse piena libertà di parola. Ed è anche molto arrischiato parlare di maggioranze e minoranze».
Però si sono coagulati elementi di dissenso e di malumore verso Francesco. È normale? O ne possono derivare conseguenze negative?
«Questi elementi ci possono essere, non è certo la prima volta. Accadde anche al Concilio. Conseguenze negative si possono verificare se qualcuno dimentica che il Papa è il capo e il fondamento visibile dell’unità della Chiesa».
Francesco ha criticato «gli zelanti, gli scrupolosi, i premurosi, i cosiddetti tradizionalisti, gli intellettualisti». A chi si riferiva?
«Ma ha criticato anche i buonisti, chi vorrebbe scendere dalla croce o truccare il depositum fidei per accontentare la gente. Collocare il Papa da una parte contro l’altra è fare il contrario di quanto il Papa stesso ci domanda».
Nell’intervista con Ferruccio de Bortoli, Francesco ha detto di non riconoscersi nella formula dei valori non negoziabili. Ma quella formula è stata centrale negli ultimi anni per il Vaticano, e anche per la Cei.
«La formula risale a una nota del novembre 2002 della congregazione per la dottrina della fede, guidata allora dal cardinale Ratzinger, che l’ha usata talvolta anche da Papa. L’espressione riguardava l’impegno dei cattolici nella vita politica e il senso era precisato nella nota stessa: serviva a distinguere le esigenze etiche irrinunciabili dalle questioni su cui è legittima per i cattolici una pluralità di orientamenti. Io stesso usai quella formula. Ma non amo fare questioni di parole e non ho difficoltà a rinunciare a un’espressione che in effetti è stata spesso equivocata; come se privasse i cattolici impegnati in politica della loro libertà e responsabilità, mentre si limita a richiamarli alla coerenza, affidando questa richiesta di coerenza alla libertà di ciascuno».
È vero che un gruppo di cardinali durante il Sinodo è andato da Ratzinger per chiedere un suo intervento, ricevendone un rifiuto?
«Non ne ho mai sentito parlare. Sarei un po’ sorpreso se si fosse verificato, senza che prima o poi qualche voce mi giungesse alle orecchie».
Qual è oggi il ruolo del Papa emerito? Le capita di parlargli?
«Sono stato a trovarlo due volte, l’ultima nel settembre scorso. Abbiamo parlato soprattutto di teologia. Il suo ruolo l’ha precisato lui stesso: non esercita alcuna funzione di governo; sostiene la Chiesa dal di dentro, con la preghiera e con la forza del suo pensiero teologico».
È davvero impossibile dare la comunione a un divorziato senza violare l’indissolubilità del matrimonio?
«Se il matrimonio rimane indissolubile, e quindi continua a esistere, contrarre un nuovo matrimonio sarebbe un caso di bigamia; e avere rapporti sessuali con altre persone sarebbe un adulterio. Non si può pretendere che il matrimonio sia indissolubile e che ci si possa comportare come se non lo fosse».
Regola immutata, prassi più elastica: sarà questo il compromesso finale?
«È probabile. Nella messa di ieri si cita un salmo che dice: “Verità e misericordia si sono baciate”. Questa idea è già nell’Antico Testamento, è nel mistero di Dio. Realizzarla nel mondo creato può essere faticoso. Ma abbiamo un anno di tempo per trovare la strada giusta».
Lei ha parlato di diritto divino. Il Papa vi ha invitati a farsi sorprendere da Dio.
«Io penso così, e devo dire quello che penso. Anche il Papa ha riaffermato l’indissolubilità, l’unità, la fedeltà, la procreatività del matrimonio, in termini molto netti».
Sta dicendo che Francesco ha cambiato linguaggio e temi, puntando sul sociale, ma non la dottrina?
«Ogni Papa ha la sua sensibilità. Wojtyla era un polacco che si era temprato nella battaglia contro il comunismo, e per questo passò per un Papa conservatore: in realtà definiva il Concilio “la più grande grazia del XX secolo”. Ratzinger è un grande teologo tedesco. Francesco è il primo Papa latinoamericano, e ha una sensibilità diversa».
La valutazione corrente è che la Chiesa sia passata dal conservatorismo al progressismo. È sbagliato?
«L’ottica non è appropriata, ma se si vogliono usare categorie mondane si può dire anche questo. E può accadere che noi uomini di Chiesa diamo a questo linguaggio improprio qualche pretesto. Rimane il fatto che la Chiesa è una cosa diversa. È una comunione».
Esiste oggi un’opposizione nella Chiesa? Con un suo capo?
«Non c’è un’opposizione, e tanto meno un capo dell’opposizione. Non riesco a immaginare a chi si possa aver pensato per un ruolo di questo genere: nessuno ne ha la velleità».
Ha letto il libro di Antonio Socci, «Non è Francesco»?
«Non l’ho letto. Se vuole sapere cosa penso della tesi secondo cui il Papa sarebbe stato eletto invalidamente, le dico subito che la considero totalmente infondata e abbastanza ridicola. Non ho mai sentito un solo cardinale che abbia partecipato al conclave dire qualcosa che in qualche maniera le assomigliasse».
Non trova che nell’editoria laica sia partito un «attacco da destra», che dà voce a una parte del mondo cattolico che non si riconosce in questo papato?
«Un piccolo attacco di questo genere purtroppo esiste; forse anche per reazione alla tendenza di altri editori laici ad appropriarsi di papa Francesco, per trasformarlo in un sostenitore delle tesi contrarie al cattolicesimo. Le due cose si rimpallano; ma la potenza mediatica di questo secondo atteggiamento è molto più forte. Gli uni hanno i fucili ad avancarica, gli altri hanno l’aviazione».
Simboli, vestiario, stile: l’hanno colpita le scelte di Francesco? Compresa quella di non vivere nell’Appartamento?
«Mi hanno colpito molto, ma in maniera decisamente favorevole. Credo siano state una vera benedizione per la Chiesa: hanno contribuito a farle superare un momento difficile. In particolare, il Papa sta a Santa Marta non per motivi “ideologici”, ma perché si trova meglio a contatto costante con la gente, come ha detto lui stesso».
Lei è d’accordo con il cardinale Scola, quando dice che la Chiesa è in ritardo sull’omosessualità?
«La questione del ritardo o dell’anticipo dipende dalla direzione di marcia in cui si va. Quando da giovane sacerdote venivano a parlarmi e talora a confessarsi vari omosessuali, dicevano di trovare nella Chiesa un ambiente rispettoso e comprensivo. Di alcuni divenni amico. Adesso la Chiesa è considerata in ritardo perché continua a ritenere l’omosessualità non conforme alla realtà del nostro essere, che è articolata in due sessi dal punto di vista organico, psicologico e più in generale antropologico. Sarà il tempo a dire se, sostenendo questo, la Chiesa è in ritardo o in anticipo rispetto all’opinione prevalente».
In Italia pare vicina l’intesa sulle unioni civili, con il consenso di Berlusconi. È un errore?
«Su questo punto mi sono espresso al tempo dei Dico, e non ho cambiato parere. È giusto tutelare i diritti di tutti; ma i veri diritti, non i diritti immaginari. Se c’è qualche diritto attualmente non tutelato che è giusto tutelare, e ne dubito, per farlo non c’è bisogno di riconoscere le coppie come tali; basta affermare i diritti dei singoli. Mi pare l’unico modo per non imboccare la strada che porta al matrimonio tra coppie dello stesso sesso».
Ma in Italia si parla di unioni civili, non di matrimonio.
«Se il contenuto è molto simile, serve poco cambiare il nome del contenitore».
Cosa pensa di Marino che a Roma registra le nozze gay?
«Un sindaco ha il diritto di sostenere le proprie posizioni, ma non può per questo violare le leggi dello Stato».
Ci sarà anche in Italia un movimento di protesta?
«Nessuno può escluderlo. In Francia il movimento “Manif pour tous” non è certo stato organizzato dalla Chiesa: è una forza grande e variopinta, che ha indotto il governo a essere più prudente».
Sta dicendo che l’ondata libertaria può defluire?
«Negli Anni 70 anche molti non marxisti erano convinti che il marxismo fosse un orizzonte insuperabile per la cultura e la storia. Ma poi il marxismo si è dissolto e sono subentrate prospettive diverse. Allora mi occupavo di giovani: nel giro di pochi anni è cambiato tutto; Marx non interessava più. Non so dire se accadrà qualcosa di analogo con l’attuale tendenza libertaria; ma non lo escludo».

22 ottobre 2014 | 07:05
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_ottobre_22/ruini-io-dico-no-unioni-civili-a7ff7ba6-59a6-11e4-b202-0db625c2538c.shtml
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« Risposta #170 inserito:: Novembre 03, 2014, 05:51:01 pm »

DUE EPOCHE
Le due sinistre parallele che non si appartengono più

di Aldo Cazzullo

La sinistra del futuro è il mungitore sikh con bandiera rossa o Fabio Volo con telecamera? I precari dei trasporti o il finanziere Serra che propone di impedire loro di scioperare? I tipografi dell’Unità con la foto degli occhiali rotti di Gramsci o i nuovi alfieri del made in Italy Bertelli, Farinetti, Cucinelli?

La mattinata al corteo della Cgil e il pomeriggio alla Leopolda hanno mostrato che la scissione - anche cromatica - non è nelle volontà, è nelle cose. Mai vista a Roma una manifestazione così rossa, ognuno con la sua pettorina: chimici, tessili, agroindustria, costruzioni e legno, energia e manifattura, trasporti e Nil, Nuove identità di lavoro, che non si sa come chiamare. A Firenze in molti hanno avvertito l’opportunità di indossare la camicia bianca. Contro Berlusconi la Cgil sfilava in un’atmosfera di rabbia e di gioia, si sentivano tensione ed energia. Stavolta il sentimento prevalente è l’angoscia. Certo, si canta e si balla con gli inni tradizionali - Bandiera Rossa, Bella Ciao, Contessa - e la musica etnica. Ma i manifestanti raccontano storie di sconfitte e talora di disperazione, come quelle degli ex lavoratori dell’ex stabilimento Montana di Paliano, Frosinone: «Sono venuti di notte con i Tir, hanno portato via i macchinari e la merce, non abbiamo più trovato nulla. In 36 siamo rimasti senza lavoro». Alla Leopolda si tenta di rappresentare la fiducia e si finisce per esprimere soddisfazione, talora compiacimento. Rituale tra la convention Usa e la seduta degli alcolisti anonimi: «Mi chiamo Alfredo, sono il direttore di una piccola società di biotecnologia...». Slogan: «Il futuro è solo l’inizio».

Anche Landini con felpa Fiom dice che «questo corteo è solo l’inizio». Se Renzi ha conquistato il centro, è inevitabile che alla sua sinistra nasca un nuovo partito; e i punti di riferimento non saranno certo D’Alema e Bersani, cui neppure la minoranza Pd obbedisce più, e forse neanche la Camusso, che con tono lamentoso critica la prima manovra espansiva di un governo italiano da tempo. Landini appare il leader predestinato della sinistra che verrà, l’antagonista naturale di Renzi, cui lo avvicina un feeling personale ma da cui lo separa il sospetto di essere stato usato, anche in funzione anti-Cgil. In futuro potranno ancora rendersi utili l’uno all’altro: il premier confermerà di aver rotto con la sinistra tradizionale, il sindacalista di essere l’unico vero oppositore. Per Renzi il corteo non esprime odio ma estraneità, i pensionati della Spi imbacuccati contro il primo freddo ne parlano come di un nipotino deviato, i percussionisti africani in maglietta portano un cartello con la sua caricatura.

Renzi si improvvisa conduttore e chiama sul palco i «cortigiani» come li definisce Vendola, in realtà tra i più importanti imprenditori italiani, qualcuno sin troppo entusiasta. Cucinelli vaticina «un grande rinnovamento morale, civile, economico, spirituale». Oggi è atteso Farinetti: «Dirò che sono un renzista, non un renziano; fedele al metodo, non all’uomo». Dall’ultima Leopolda è cambiato tutto, Renzi è andato al governo, ha ricompattato il partito chiudendo l’accordo con Errani in Emilia e Rossi in Toscana, ha messo ai margini gli uomini del rinnovamento come Richetti, che è venuto lo stesso. La sinistra è al potere ma l’Unità ha chiuso, «il voto a tempo indeterminato non esiste più» dice del resto il premier, tra due anni potrebbe avere un Parlamento docile nelle sue mani con Salvini sindaco di Milano e la Meloni di Roma.

Patrizio Bertelli, il signor Prada: «Io rispetto gli operai, ho passato la vita con loro, ma questo corteo mi è sembrato una liturgia, come la Pasqua e il Natale».

Alla fine si è andati o di qua o di là, nessuno ha osato farsi vedere sia al corteo sia a Firenze, neppure l’ex segretario del sindacato e del partito, Epifani: «Ho scelto Roma, non ce la faccio ad andare alla Leopolda, che comunque considero interessante. Il problema è come il Pd possa tenerla insieme con una piazza in cui la maggioranza l’ha votato». Un problema irrisolvibile. Non è come quando i ministri comunisti di Prodi protestavano contro il loro stesso governo: quella fu una contraddizione, o un’astuzia, subito punita dagli elettori. Ora ci sono due mondi separati, che non si riconoscono e non si appartengono più.

26 ottobre 2014 | 08:45
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_ottobre_26/due-sinistre-parallele-che-non-si-appartengono-piu-30335ace-5ce0-11e4-abb7-a57e9a83d7e3.shtml
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« Risposta #171 inserito:: Novembre 04, 2014, 11:51:54 am »

Significato di una ricorrenza
Il filo sottile della memoria
Di Aldo Cazzullo

Oggi il presidente Napolitano consegnerà la medaglia d’oro al valor militare ad Andrea Adorno, alpino di Catania, ferito in combattimento sulle montagne dell’Afghanistan. Una cerimonia che in altre democrazie sarebbe routine; ma non in Italia. È la prima volta che si tiene al Vittoriano. È la prima volta che il soldato insignito non è un ufficiale, ed è vivo. In altri tempi, l’alpino siciliano sarebbe parso un ossimoro. Oggi l’esercito ha riconquistato prestigio, grazie ai militari in missione di pace nei territori più difficili del pianeta. E grazie anche al nostro legame con la storia e l’identità italiana, che si sta rivelando più forte di quanto pensassimo.

Quest’anno l’Europa ha celebrato i cent’anni della Grande guerra. Il 4 novembre, anniversario della vittoria, chiama in causa l’Italia, che il prossimo 24 maggio ricorderà l’ingresso nel conflitto. Fu l’inizio di un calvario, dagli assalti sconsiderati alle decimazioni, che costò sofferenze terribili. Davanti ai centomila morti di Redipuglia, papa Francesco ha già avuto parole di condanna per tutte le guerre; e sarebbe giusto che lo Stato italiano, unico a non aver riabilitato i fanti fucilati per volontà di una casta militare sprezzante delle vite umane, trovasse parole di pietà per tutte le vittime. Nello stesso tempo, non è inutile ricordare che quella guerra l’Italia la vinse. Poteva essere spazzata via; invece superò la prima prova della sua storia unitaria. E dimostrò di non essere più un nome geografico, come la volevano gli austriaci, ma una nazione.

Ogni paragone con il passato è fuorviante: il Paese che oggi si allarma per Ebola non è lo stesso che seppellì 350 mila morti di febbre spagnola in un mese. Ma ogni generazione ha la sua guerra da combattere. Quella contro la crisi è lontana dall’essere vinta. Siccome la capacità di resistenza e la forza morale che i nostri antenati dimostrarono cent’anni fa non possono essere andate disperse nel tempo, sta a noi ritrovarle dentro noi stessi e riaccenderle dentro i nostri figli. Questo vale per gli uomini e a maggior ragione per le donne, che un secolo fa dimostrarono di saper prendere il posto dei mariti, nelle campagne, nelle fabbriche, nelle università.

Oggi i fanti non ci sono più. La memoria è un dovere nei confronti dei nostri padri, e ancor più nei confronti dei 650 mila ragazzi che padri non sono diventati. La riscoperta dei simboli dell’unità può essere retorica, quindi inutile, e consolatoria, quindi controproducente. Ma si rivela utilissima, quando sentiamo che la vicenda nazionale incrocia quella delle nostre famiglie. È di noi, come sempre, che parla la storia.

4 novembre 2014 | 07:42
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_novembre_04/filo-sottile-memoria-fb2da526-63e9-11e4-8b92-e761213fe6b8.shtml
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« Risposta #172 inserito:: Novembre 15, 2014, 05:36:32 pm »

L’intervista Carlo De Benedetti

«Renzi energico e spregiudicato Mi ricorda il Fanfani degli anni ‘50»
L’ingegnere: il nuovo presidente? Il premier non lascerà che sia uno che distragga l’attenzione da lui»

Di Aldo Cazzullo

«Compio ottant’anni, sono un uomo fortunato e sono vissuto in un’epoca straordinaria: dalla fabbrica - nel 1958 mio padre fermò il lavoro alla Gilardini per festeggiare Tunìn, il primo operaio arrivato con l’auto anziché in bici - all’economia digitale. Mi sono ammazzato di lavoro, poi a sessant’anni mi è successa una cosa che non credevo possibile: mi sono innamorato, e mi sono risposato. Grazie a mia moglie Silvia ho scoperto un’altra vita. Abbiamo girato il mondo in barca, ho coltivato interessi in campi che già prediligevo: arte, collezioni, musei...».

Ingegner De Benedetti, è sicuro di non avere nulla da rimproverarsi? Sull’Olivetti, ad esempio.
«Assolutamente no. Nessuna azienda europea dell’informatica è sopravvissuta. Olivetti fu l’unica a entrare nella telefonia mobile, realizzando la più grande creazione di valore in Italia in cinque anni. Certo, io avevo una bulimia di lavoro, e anche di conquista. Tentai di scalare la Sgb, comprai la Buitoni, la Perugina, le figurine Panini, Yves Saint Laurent, Valeo... Così distolsi non quattrini ma mie personali energie dall’Olivetti. Però la diversificazione nella telefonia fu un successo: Omnitel fu venduta a Mannesmann per 14.500 miliardi di lire».

Non si rimprovera neppure di aver pagato tangenti?
«Sono stato l’unico ad andare da Di Pietro a dire: “Mi assumo tutte le responsabilità, per quel che so e per quel che non so, ma voglio che nessun dirigente dell’Olivetti sia coinvolto”. Altri prestigiosi miei colleghi non si regolarono allo stesso modo».

Come fu la giornata passata a Regina Coeli?
«Del carcere ricordo la consegna dei documenti. L’ispezione anale. Ma le esperienze dure fanno bene. A 10 anni ero in un campo di concentramento svizzero. Nulla di paragonabile a Mauthausen, dove morirono i miei cugini. Però la doccia fredda all’alba d’inverno, senza asciugamani, con soltanto la paglia dove dormivi per asciugarti, l’ho provata. Una lezione di vita utilissima».

Cos’altro ricorda della guerra?
«Mio padre faceva tenere a mio fratello Franco e a me un album di ritagli con le notizie della persecuzione degli ebrei e le foto dei campi di concentramento. Chiedemmo perché dovessimo farlo. Lui rispose: “Perché un giorno qualcuno dirà che tutto questo non è successo”».

Come tessera numero 1 del Pd, riconosce...
«Questa è una favola: non ho mai avuto tessere».

...Riconosce di aver cambiato giudizio su Renzi? Nel 2011 lei disse al Corriere: “Di Berlusconi ne abbiamo già avuto uno, e ci è bastato”.
«Sì: per quanto i due personaggi abbiano qualche punto di contatto, mi sono ricreduto. Renzi è un fuoriclasse. Per quattro motivi. Innanzitutto, è molto intelligente».

Berlusconi non è intelligente?
«Berlusconi è furbo».

E gli altri motivi?
«L’energia: non ne ho mai vista tanta in un politico. Forse si può fare un paragone con il Fanfani degli Anni ‘50. L’empatia. Dicono che Renzi ricordi Craxi, per decisionismo e abilità politica; Craxi però era antipatico. E poi Renzi è una spugna. Di economia non sa molto; ma in un attimo assorbe tutto. È veloce e spregiudicato».

Eppure non ha portato il Paese fuori dalla recessione.
«Questa manovra non è risolutiva. Il vincolo del 3% è incompatibile con riforme vere. E le riforme senza soldi non si fanno. Il premier dovrebbe fare come Schröder, quando ottenne di sforare i parametri per tre anni. Oggi Renzi non se la sente; ma sono certo che, quando avrà avviato le riforme, lo farà. Fino ad allora, l’Italia non uscirà da recessione e deflazione».

È così pessimista sulla nostra economia?
«Sono pessimista sulla tenuta europea. E condivido quanto sostiene Larry Summers: ci attende una stagnazione secolare. La distruzione del ceto medio creerà una società con pochi ricchi, molti poveri e molti eroi che cercheranno di costruire una famiglia con 1500 euro al mese».

Facciamo 1580.
«Gli 80 euro sono stati un brillante spot elettorale. Ma è difficile pensare che rimettano in moto l’economia. Detto questo, Renzi è l’unico che possa riportare l’Italia al suo standard».

Non salva neanche Prodi?
«Buone intenzioni. Ma non si governa mettendo insieme Ciampi e Bertinotti, Padoa-Schioppa e Ferrero».

D’Alema?
«Non ha lasciato segno».

Renzi però governa con Berlusconi.
«Non è detto che lo farà ancora a lungo».

Cosa pensa del patto del Nazareno?
«Il premier ha fatto benissimo a stringerlo. E Berlusconi per sopravvivere non poteva fare altro. È innamorato di Renzi e disgustato dal suo partito».

Cosa farà Berlusconi?
«Penso che venderà tutto a uno straniero, e per farlo non può avere il governo contro. In Italia non c’è nessuno disposto a comprare le sue aziende. La tv generalista è messa molto peggio dei giornali».

Quindi su Renzi, tra Scalfari e Mauro, ha ragione Mauro?
«Scalfari è un mio grandissimo amico oltre che geniale imprenditore e innovatore nel campo del giornalismo. Ma - lo dico scherzando - lui vorrebbe vedere Reichlin primo ministro. Ogni domenica mattina mi confronto con tre novantenni. Piero Ottone. Gianluigi Gabetti: un uomo che ha meriti colossali. E Scalfari, cui mi lega un’affinità: entrambi siamo dentro e fuori il sistema; lo critichiamo, ma ne facciamo parte».

Chi sarà il prossimo direttore di Repubblica ?
«Finché Ezio ne ha voglia, il direttore sarà Ezio. Si è preso Repubblica non solo “a collo”, come diciamo noi piemontesi, ma addosso. Oggi Repubblica è lui».

L’editoria però è in crisi. Come uscirne?
«Dobbiamo far crescere i nostri brand. Repubblica ha un milione e mezzo di follower su Twitter, molti di più su Facebook».

Come monetizzare tutto questo?
«Siete la concorrenza, non lo dico. Ma se i giovani pensano che il nostro brand sia importante, significa che sentono l’esigenza di una gerarchia tra le troppe notizie da cui sono bombardati. Noi forniremo questa gerarchia. Non si tratta più di raccontare quel che è accaduto, ma perché è accaduto».

Anche sulla Fiat deve ricredersi: lei ne prevedeva il fallimento.
«Marchionne si è rivelato un genio della finanza. Ha avuto un successo straordinario. Ma non è un uomo di automobili. In materia finanziaria vorrei essere bravo come Marchionne. So che qualcuno mi ritiene un finanziere...».

Sta dicendo che lei non è un finanziere?
«Io sono sempre stato un imprenditore che ha capito la leva della finanza. E nei 100 giorni in cui rimasi in Fiat, con Giorgetto Giugiaro inventammo la Panda».

Cos’ha rappresentato per lei l’Avvocato?
«È stato l’unico uomo che mi ha affascinato. Ho stimato La Malfa, Berlinguer, Ciampi e Visentini: sono state tutte persone importanti per me. L’Avvocato mi affascinò: gli invidiavo l’impalpabile. Mi sedusse pur con i suoi limiti, che riconosceva lui per primo; perché era cinico anche con se stesso».

È vero che Steve Jobs da giovane le propose di investire in Apple, e lei rifiutò?
«Ero a Cupertino con Elserino Piol. Erano le 7 di sera. Ero esausto per le riunioni e per il fuso. Piol mi dice di passare in un garage dove ci sono due capelloni con i jeans stracciati che lavorano a un mini-computer: erano Wozniak e Jobs. Steve mi propose di rilevare il 20% della sua società per 30 milioni di dollari. Me ne andai. Oggi quella quota varrebbe 100 miliardi. Ma quella partita non la persi solo io, l’ha persa l’industria europea che sulle nuove tecnologie ha rinunciato a un pezzo di futuro».

Non ha nulla da rimproverarsi nemmeno su Sorgenia?
«Non sono mai stato neppure in consiglio. Da presidente Cir approvai l’investimento. La facilità di accesso al credito, tipica di quegli anni, ha indotto la società a indebitarsi troppo; il resto l’ha fatto il crollo dei prezzi e del consumo di energia. Penso che la società, una volta portato l’indebitamento a livelli più sostenibili, abbia buone prospettive».

E sull’indagine per omicidio colposo per l’amianto all’Olivetti?
«Ribadisco la mia estraneità. Non tutti hanno idea di cosa significhi governare un gruppo di 70 mila dipendenti. Secondo l’indagine l’amianto era anche negli uffici dove ho lavorato per 18 anni. Se lo avessi saputo e ne avessi conosciuto la pericolosità, non crede che l’avrei fatto togliere?».

Quando si vota, secondo lei?
«Nella primavera 2015. Dopo che il 31 dicembre Napolitano si sarà dimesso».

Chi sarà il presidente della Repubblica?
«Posso dirle quali connotati dovrà avere, coniugando realismo e aspirazione. Renzi non lascerà che sia eletto qualcuno che distragga l’attenzione da lui. Ma il presidente dovrà essere un politico dal grande profilo istituzionale, che conosca a fondo il funzionamento delle Camere».

Renzi dura?
«Dipende dall’economia. Se avrà il coraggio di sfondare gli assurdi parametri di Maastricht e capirà che i corpi intermedi costituiscono parte della struttura di una società democratica, ce la farà».

E l’Europa durerà?
«Bob Dylan 50 anni fa cantava “è tempo di cambiare il mondo”; forse aveva capito molto più di tanti economisti. Davanti a noi abbiamo due problemi: la deflazione e la recessione; non stiamo combattendo né l’una né l’altra. L’Europa è dominata da spinte nazionaliste, e in Germania c’è la Merkel, non Kohl. Se alle prossime elezioni greche vince Tsipras, per l’euro saranno giorni durissimi, e a quel punto si dovrà cambiare per forza. Ma non so se nella direzione giusta».

14 novembre 2014 | 13:47
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_novembre_14/renzi-energico-spregiudicato-mi-ricorda-fanfani-anni-50-c1be146a-6bfa-11e4-ab58-281778515f3d.shtml
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« Risposta #173 inserito:: Novembre 25, 2014, 04:30:13 pm »

Crisi e conflitti, senza rispetto
L’età dell’odio che va fermata

Di Aldo Cazzullo

Pare di vivere nell’età dell’odio. Dopo anni passati a stupirci che la crisi non producesse conflittualità sociale, ora lo scenario è cambiato. Il linguaggio della discussione pubblica ha quasi raggiunto la virulenza degli anni 70, e alle parole cominciano a seguire i fatti. Gli incendiari grillini sono stati scavalcati dalla rivolta di Tor Sapienza, mentre i centri sociali aggrediscono leader sgraditi (e provocatori), e quasi ogni giorno viene devastata una sede di partito.

Le cause sono molte. La sofferenza di chi perde il lavoro. La disperazione dei giovani che non lo trovano e talora neppure lo cercano. Ma anche la diffidenza reciproca di categorie che si detestano, di corporazioni che additano nelle altre la causa del male italiano assolvendo solo se stesse. E l’immigrazione senza controllo ha acceso una guerra tra poveri, scatenando la rabbia delle periferie e generando negli stranieri estraneità e frustrazione che, sommate al senso di impunità che lo Stato italiano comunica ai nuovi arrivati, minacciano di innescare tensioni già esplose ai margini delle metropoli europee.

La risposta della politica è debole. L’allarme di Napolitano sugli estremismi interni e sul timore di «lupi solitari» islamici è passato quasi inosservato. Il durissimo scontro tra Renzi e la Cgil non aiuta. Il baratro apertosi a destra è stato riempito da Salvini, che ha schierato la Lega con i nazionalisti francesi.

Sia chiaro: il passato non torna. Ma può insegnarci qualcosa. Il pericolo non viene solo dalle centrali del terrore; anche la violenza diffusa, l’odio manifesto, la crisi morale che ha il suo riflesso quotidiano nel degrado dei rapporti umani possono fare molto male alle nostre vite. La lezione della storia recente è che la violenza non va tollerata; altrimenti si riprodurrà in modo esponenziale. Com’è ovvio, il diritto a manifestare pacificamente non può essere messo in discussione: le prove di forza, di solito esercitate sui deboli, non servono a nulla se non ad alimentare la spirale dell’odio. Si tratta invece di ripristinare la legalità: non è possibile che chi si ritrova la casa «sequestrata» dal racket delle occupazioni non abbia gli strumenti per riprendersela, non è possibile rassegnarsi all’idea che in Italia sia lecito fare qualsiasi cosa senza prendersene la responsabilità. Nello stesso tempo chi partecipa alla vita pubblica dovrebbe tenere i nervi saldi, ristabilire un minimo di rispetto reciproco, e impegnarsi perché il governo italiano e quello europeo mettano in campo una politica sociale, che attenui la sofferenza e crei opportunità per i giovani. Il rogo dell’odio va spento, prima che ci avveleni l’aria e bruci le nuove generazioni.

23 novembre 2014 | 08:56
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_novembre_23/eta-dell-odio-che-va-fermata-8182f0dc-72e4-11e4-9964-9b0d57bdf835.shtml
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« Risposta #174 inserito:: Dicembre 13, 2014, 04:38:58 pm »

L’intervista

Goffredo Bettini: «Ora è peggio che nel ‘92. Marino? Lasci e si ricandidi»
L’eurodeputato del pd smentisce di aver favorito la cooperativa di Buzzi.
E su Renzi dice: «Giusto commissariare ma non ha impresso la svolta decisiva al paese»

Di Aldo Cazzullo

Al citofono la voce dal finto accento siciliano è scherzosa: «Sono l’onorevole Bettini, quello della cupola; quarto piano». Di persona, però, Goffredo Bettini è molto arrabbiato. «Non dimenticherò mai di aver visto la mia foto al Tg1, il mio nome accostato a quello di delinquenti. Sono entrato in politica notevolmente ricco uscendone non dico povero, ma assai meno ricco. E querelo chiunque dica o scriva che io ho favorito la cooperativa 29 Giugno o qualunque altro soggetto coinvolto nell’inchiesta».

Salvatore Buzzi, il capo della cooperativa, diceva: «Ce manda Goffredo».
«Da me non venne Buzzi ma il suo vice, Carlo Guaranì: uno che assomiglia a Danny De Vito, bassetto, con la cravatta scompigliata. Mi parlò di cinema, di teatro, e di un progetto in Sicilia. Gli dissi che non ne sapevo nulla e di rivolgersi alle persone competenti: se non sbaglio, il “giro” finì in prefettura, pensi un po’. Alla mia segreteria risulta un incontro. Io ne ricordo due».

Quindi li conosceva.
«Certo che li conoscevo. Non era il mio mondo, come loro stessi dicono nelle intercettazioni; ma la cooperativa 29 Giugno è un pezzo della sinistra romana. Sono quelli che hanno aiutato a fare il film dei fratelli Taviani che vinse l’Orso d’oro a Berlino. La fondazione è nata alla presenza di Di Liegro e Laura Ingrao. Furono i primi a occuparsi non di edilizia ma di detenuti, malati psichici, immigrati. Nessuno poteva immaginare che quella fosse solo una faccia della medaglia, e l’altra faccia fosse rivolta verso la criminalità».

Davvero non potevate immaginare?
«No. Qui è diventato impossibile fare politica. Si crocefigge Micaela Campana per un sms in cui chiama Buzzi “capo”; ma sono cose che si fanno, anche se a me non piacciono, era il modo per gratificare un compagno che si riteneva importante. Rivendico che nessuno potesse immaginare, ad esempio, che Odevaine avesse una doppia vita. Parliamo di persone abilissime nel camuffarsi. Odevaine aveva persino cambiato cognome. Si è scoperto perché gli è stato negato il visto per gli Usa a causa di una condanna per droga».

Però il sistema era trasversale. E il Pd non può chiamarsi fuori.
«Le rispondo con quello che scrissi in un libro del 2011, Oltre i partiti: “Non c’è più la forza del leone, ma della volpe, più della furbizia, rimane l’appetito. E la corruzione non si ferma sulla soglia del centrosinistra”. Oggi la crisi della rappresentanza si è aggravata; e non è che ce ne siamo accorti quando l’ha detto la simpatica Madia. Siamo in una situazione peggiore di quella del ‘92. Si parla di Roma perché Roma è stata scoperchiata; ma non credo che molte altre città siano meglio».

Sa cosa colpisce di Mafia Capitale? La permeabilità. Il calciatore e il personaggio tv che non chiamano la polizia ma la malavita. La commistione.
«Questa commistione ha date molto chiare. Dopo Mani Pulite e fino al 2008 Roma è stata un modello di buona amministrazione».

Di cui lei era considerato l’uomo forte.
«Io mi sono occupato di amministrazione solo con Rutelli. Poi sono andato all’Auditorium e alla Festa del cinema, continuando a occuparmi di politica. È stata una stagione straordinaria. Abbiamo fatto i grandi lavori del Giubileo senza un avviso di garanzia».

L’età dell’oro?
«Non sorrida. Il modello Roma regge fino alla vittoria di Alemanno, che subito inizia una campagna per distruggerlo. E Alemanno aveva le cambiali di una vita politica da pagare. Non dico fosse ricattato; diciamo che era premuto da personaggi che l’hanno portato al disastro».

Volenterosamente aiutati dalla sinistra.
«È vero. Liquidata una classe dirigente, con me in testa, i nuovi leader locali del Pd hanno avviato in Campidoglio una stagione consociativa, che è diventata un terreno sfruttato dall’affarismo criminale, animato da sopravvissuti all’eversione e alla delinquenza politica degli Anni 70, di destra ma anche di sinistra».

E lei cosa faceva? Allora era il coordinatore nazionale del Pd di Veltroni.
«Chiesi il congresso. Berlusconi aveva vinto le elezioni, ma Walter aveva costruito un partito del 34%: poteva guidare l’opposizione e preparare la rivincita. In direzione erano d’accordo con me Gentiloni e Tonini, lo stesso Bersani era disponibile; gli altri erano contro. Veltroni fu costretto a creare il “caminetto”, a far entrare le correnti, che lo indussero alle dimissioni. Tutto comincia da lì. E io me ne andai all’estero. È ignobile e fa comodo dipingermi come uno che decideva tutto: ho vissuto anni di solitudine totale. Mi occupavo di cinema a Bangkok, Manila, Rangoon e ho scritto libri».

Da dove è tornato per rifilare ai romani Marino.
«Sì. Ma io non ho imposto nessuno. Il sindaco lo doveva fare Nicola Zingaretti, che politicamente considero figlio mio. A settembre però Nicola è venuto a dirmi che non se la sentiva. E io l’ho apprezzato, in un Paese in cui tutti vogliono fare tutto e c’è la fila pure per fare il presidente della Repubblica. Ne parlai con Barca, ma anche lui rifiutò. Allora furono indette le primarie. E io dissi che non bastavano Gentiloni e Sassoli: buoni candidati, che però rischiavano di essere travolti dai grillini».

Le primarie vinte da Marino sono state regolari?
«Non regolari; regolarissime. Quando si muove il voto d’opinione, le primarie non possono essere inquinate. Invece le primarie per designare i parlamentari sono state, almeno a Roma, una farsa. Ogni candidato doveva essere sostenuto da 500 iscritti, nessun iscritto poteva sostenere più di un candidato: era tutto chiaramente deciso prima dai capibastone».

Sta dicendo che i parlamentari romani del Pd sono «abusivi»?
«Sto dicendo che le primarie così non hanno senso. Andrebbero riservate a cariche monocratiche: sindaco, presidente di Regione, premier».

Renzi ha commissariato il Pd romano.
«Ha fatto bene; ma non ha ancora impresso al partito la svolta che sta tentando di imprimere al Paese. Non a caso a Roma la segreteria del Pd ha aiutato la costituzione di una nuova corrente spuria, i neo-dem».

Invece cosa dovrebbe fare?
«Azzerare tutte le tessere. Tutti gli iscritti dovrebbero essere ricontattati. E i nuovi dovrebbero essere ricevuti per due ore dal segretario di sezione: il tempo necessario per capire se uno vuole la tessera per un ideale o perché ha preso dei soldi. Bisogna ridare potere alle persone. E toglierlo alle correnti. È sufficiente non riconoscere più alle correnti rappresentanza nei gruppi dirigenti e nelle istituzioni; ne resteranno pochissime».

Renzi ce la farà?
«Non sono renziano, ma appoggio e ammiro la sua battaglia contro tutte le rendite di posizione. Purtroppo nel Paese si è creata una santa alleanza contro di lui, che mi fa rabbia e mi rende estremamente pessimista. Renzi deve restare al governo se ha i mezzi per produrre il cambiamento che ha promesso. Altrimenti ci conviene andare dritti a votare. E io credo che in questo momento sia meglio andare dritti a votare».

Anche a Roma? Il prefetto dovrebbe sciogliere il Comune?
«Il Comune della capitale italiana sciolto per mafia avrebbe un effetto devastante all’estero».

Quindi Marino deve restare al suo posto?
«Fossi in lui, di fronte a uno stillicidio di notizie che finirebbe per condizionare tutto, sarei io stesso a dimettermi e poi ricandidarmi. Marino stravincerebbe e sarebbe, a quel punto, molto più libero».

Non vorrà dire che Marino è un buon sindaco?
«La stampa ne scriveva come di un deficiente, ora ne scrive come di un santo. In realtà, Marino è uomo di grandi capacità. Ma è un uomo solo. Abbiamo un rapporto di affetto e di rispetto, ma mi ha chiesto raramente consigli, tantomeno per la squadra. Che è debole. A Marino servirebbe quel che aveva Rutelli: 2 o 300 persone - imprenditori, intellettuali, sindacalisti, lavoratori - che portino ogni giorno avanti la sua idea di città».

12 dicembre 2014 | 07:38
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_dicembre_12/goffredo-bettini-ora-peggio-che-92-marino-lasci-si-ricandidi-bbc25908-81c7-11e4-bed6-46aba69bf220.shtml
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« Risposta #175 inserito:: Gennaio 01, 2015, 04:32:25 pm »

L’onore di un’altra Italia

Di Aldo Cazzullo

Sono ancora troppi i punti oscuri nel naufragio del Norman Atlantic. Il giallo dei dispersi, la presenza di clandestini a bordo, le cause dell’incendio, forse collegate alle lacune nel sistema di sicurezza del traghetto. Due soli fatti sono sicuri. Ci sono almeno dieci morti: stiamo parlando di una tragedia. Cui però l’Italia ha saputo reagire.

È difficile dare torto all’ammiraglio De Giorgi, quando parla di «impresa storica». Salvare 427 persone da una nave in fiamme, con venti a cento chilometri l’ora e onde alte cinque metri, non richiede soltanto una buona organizzazione e un coordinamento efficiente; richiede un’abnegazione di fronte alla quale noi che commentiamo sui giornali o sui social network dovremmo esprimere soltanto gratitudine.

Gli elicotteristi che hanno messo in pericolo le proprie vite per salvare quelle degli altri, i marinai della San Giorgio che si sono fatti carico di responsabilità altrui, il ruolo della guardia costiera e dell’aeronautica: c’è un’Italia che in giorni considerati di tregua ha saputo rischiare in proprio.

Questo è il punto: in un Paese efficiente, in cui ognuno fa fronte ai propri compiti, i rischi dovrebbero essere limitati alle situazioni imponderabili. Nelle situazioni imponderabili non rientra l a storia del Norman Atlantic. Le inchieste della magistratura dovranno fare il loro corso; fin da ora però è possibile avanzare il dubbio che quel traghetto non avrebbe dovuto imbarcare passeggeri - oltretutto in circostanze confuse -, né tantomeno Tir con clandestini a bordo, e lasciare il porto.

Il comandante della nave, Argilio Giacomazzi, è indagato; com’è naturale in un caso di naufragio. Ma già il fatto che abbia lasciato l’imbarcazione per ultimo - circostanza che dovrebbe essere normale - evoca inevitabilmente il disastro della Concordia, che è costato vite e ha molto nuociuto alla reputazione del nostro Paese, ulteriormente peggiorata dalla scena di Schettino in cattedra nella prima università della capitale.

Non è davvero il caso di trarre metafore affrettate da una vicenda ancora da chiarire, che pure avviene proprio nei giorni in cui si tende a fare bilanci. Come ogni volta, le tragedie in mare sollecitano il meglio e il peggio della natura umana. Così abbiamo ascoltato le testimonianze sugli uomini che picchiavano le donne per farsi trarre in salvo al loro posto; ma abbiamo anche letto sul Corriere della Sera l’intervista ad Antonio Laneve, il pilota del 36° stormo dell’aeronautica che ha salvato trenta passeggeri, tra cui tre bambini, pensando che avrebbero potuto essere i suoi figli. L’Italia si conferma ancora una volta il Paese in cui c’è sempre qualcuno che deve farsi carico degli errori e delle approssimazioni di altri.

Ora occorre andare sino in fondo, chiarire e punire le responsabilità, prevenire nuovi drammi applicando con serietà le regole. Intanto, in queste ultime notti di un anno difficile, in cui ci è accaduto spesso di vergognarci di essere italiani, diciamo grazie a uomini di cui possiamo andare orgogliosi.

30 dicembre 2014 | 08:08
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_dicembre_30/naugrafio-norman-onore-un-altra-italia-fed284a8-8fea-11e4-a207-f362e6729675.shtml
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« Risposta #176 inserito:: Gennaio 10, 2015, 03:53:55 pm »

La strage di Charlie Hebdo
Le mille matite della libertà

Di Aldo Cazzullo

I giornali latini ripubblicano le vignette di Charlie Hebdo. I giornali anglosassoni tendono a nasconderle, talvolta a condannarle. Non sono soltanto diverse scelte editoriali; corrispondono a una diversa lettura della tragedia di Parigi, e del passaggio storico che stiamo vivendo. Atto di guerra o terrorismo? Scontro tra culture o attacchi di una minoranza nemica della sua stessa comunità?

Alcune di quelle vignette sono efficaci. Altre non fanno ridere. Altre ancora appaiono inopportune. Si possono criticare. Ma sarebbe un errore grave dividersi oggi sulla libertà d’espressione, che va difesa sempre, anche quando diventa libertà di dissacrazione. Il contrasto tra il riso e l’integralismo religioso è antico di secoli. Umberto Eco ne ha tratto un best seller mondiale, sostenendo che l’uomo è l’unico animale che ride, ed è l’unico animale che sa che deve morire; se il riso è l’antidoto alla paura della morte, è logico che il nichilismo islamista ne abbia orrore. Ogni terrorista ha trovato giustificazioni e alibi, pure nel recente passato italiano. Questa volta non ne dovrà trovare. Non ci sono provocatori e provocati; ci sono vittime e carnefici.

Dissacrare però non basta. È anche il momento di costruire: valori, regole, convivenza basata sul rispetto reciproco e sulla legalità. Negare che sia in corso una guerra, che l’altra sponda del nostro mare sia il campo di battaglia e l’Europa la retrovia in cui l’esercito islamico tenta di reclutare o infiltrare i suoi combattenti, sarebbe negare la realtà. Ma il confronto con l’Islam non può essere ridotto alla guerra. È un tema cruciale della modernità, del nostro tempo segnato dalle migrazioni e dal mondo globale. I l confronto con l’Islam è un tema che attraverserà le nostre vite. Chiama in causa non soltanto le capacità militari e di intelligence dell’Europa; ne sollecita l’identità culturale, la coesione sociale. Contrapporre violenza a violenza, uniformare tutti i musulmani in un’unica condanna farebbe il gioco degli assassini di Parigi; che sperano di suscitare l’intolleranza proprio nella terra di Voltaire, che contano di seminare l’odio tra popoli che la storia ha condannato a combattersi, come nell’Algeria degli Anni Cinquanta, ma anche a convivere, attorno a un unico mare e talora nella stessa terra.

La Francia è il Paese più esposto, non solo perché ha avuto un impero coloniale; è il Paese del velo vietato per legge, della Repubblica laica in piena crisi identitaria. Ma anche l’Inghilterra multiculturale ha generato terroristi e tagliagole. L’Italia il suo Islam lo sta importando, ed è cruciale costruire argini più efficaci all’immigrazione senza controllo. Possiamo essere orgogliosi delle vite salvate in mare, e nello stesso tempo agire contro gli scafisti e impedire atti di aperta ostilità, come le imbarcazioni lanciate con il pilota automatico contro le nostre coste. È importante tenere alta la guardia, rafforzare la prevenzione e la sicurezza. Ma non è meno importante costruire - con la scuola, con la politica, anche con la discussione pubblica che passa attraverso i media - un sistema di princìpi condivisi da trasmettere ai nostri figli e ai nuovi italiani.

A maggior ragione ora che il disagio legato alla distruzione del lavoro tradizionale rende più difficile accogliere profughi e immigrati, il confronto con l’Islam va affrontato sapendo chi siamo e in cosa crediamo. La risposta migliore all’offensiva fondamentalista è consolidare la nostra democrazia, riaffermare i nostri valori. Tra questi, oltre alla laicità dello Stato e al rispetto della donna, c’è anche il diritto a criticare e, se si vuole, a ridere del fanatico il quale «vi diceva che la verità ha il sapore della morte; e voi non credevate alla sua parola, ma alla sua tetraggine».

9 gennaio 2015 | 07:48
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_gennaio_09/mille-matite-liberta-charlie-hebdo-1f071da6-97ca-11e4-bb9d-b2ffcea2bbd2.shtml
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« Risposta #177 inserito:: Gennaio 12, 2015, 10:01:20 pm »

Il commento
L’Europa tenga la guardia alta
Ma chiudersi adesso è un errore
Forse per la prima volta nella storia, ieri a Parigi si è vista in campo l’Europa

Di Aldo Cazzullo

Forse per la prima volta nella storia, ieri a Parigi si è vista in campo l’Europa. L’Unione disunita, pavida, insicura sin quasi al disprezzo di se stessa, almeno nel lutto si è ritrovata. L’immagine dei leader sottobraccio - Hollande accanto alla Merkel, Rajoy a Cameron -, o che si abbracciano come parenti che partecipano dello stesso dolore, è speculare all’onda di commozione e solidarietà che ha attraversato il continente: élite e popolo per una volta dalla stessa parte. Questa è l’Europa migliore: quella che porta nella prima fila di una manifestazione Netanyahu e Abu Mazen, quella che accoglie il premier ucraino Yatseniuk. Non era mai accaduto prima; e non è un caso.

Gli attentati islamici di Madrid (11 marzo 2004, 191 morti) e di Londra (7 luglio 2005, 52 vittime più i 4 terroristi) furono molto più sanguinosi delle giornate di Parigi, ma non suscitarono una mobilitazione altrettanto vasta. Londra reagì senza emotività, come una città abituata alle bombe: «Business as usual», si lavora come sempre. A Madrid, come a Parigi, ci fu una marcia con due milioni di persone, cui parteciparono personalità straniere: l’allora premier francese Raffarin, Berlusconi che era presidente del Consiglio, Prodi che guidava la Commissione europea (Prodi c’era anche ieri, con Renzi e la Mogherini). Ma non soltanto il cancelliere tedesco Schröder restò a casa; la Spagna stessa si divise, la destra tentò sino all’ultimo di incolpare i baschi dell’Eta, la sinistra vinse elezioni che avrebbe perduto e che non era preparata a vincere. Ieri si è vista una Francia compatta, sia pure con Marine Le Pen ai margini. Potrebbe rivelarsi il giorno della svolta per la presidenza Hollande, sino a qualche giorno fa il leader più impopolare al mondo, e del vero ritorno in campo di Sarkozy. Ma è più importante notare che almeno per un giorno l’Europa ha ritrovato una sintonia di spirito; e chiedersi perché questo sia accaduto proprio adesso, e proprio a Parigi. Nelle altre occasioni gli assassini islamici avevano colpito nel mucchio: in una stazione, nella metropolitana. Questa volta l’attacco è stato mirato alla libertà d’espressione. E l’Europa ha reagito all’aggressione contro uno dei suoi valori fondativi. Non era scontato che accadesse. Perché nessun valore è conquistato per sempre.

Sarebbe illusorio pensare che, siccome quattro secoli fa abbiamo avuto Locke e tre secoli fa Voltaire, la laicità dello Stato e la tolleranza per le religioni e le opinioni altrui siano acquisite; esse vanno fatte vivere ogni giorno, trasmesse ai nostri figli, insegnate ai nuovi europei. Certo, non c’è motivo di rallegrarsi; e non solo perché è stata una giornata di lutto. I propri valori l’Europa li ha contraddetti troppe volte, per imperizia o per egoismo. Umiliata in Bosnia, precipitosa nella Libia abbandonata a se stessa dopo la caduta di Gheddafi, assente nella Nigeria flagellata ancora ieri da Boko Haram, ferma ai margini nel Medio Oriente in guerra, l’Europa è chiamata a due sfide decisive già nei prossimi giorni. Ieri i ministri degli Interni si sono scontrati sull’opportunità di rivedere gli accordi di Schengen sulla libera circolazione; forse non a tutti è chiaro che la priorità non è reintrodurre le frontiere interne, ma difendere quelle esterne, soccorrendo i profughi siriani e libici sul posto, fermando gli scafisti, chiudendo le rotte dei moderni mercanti di uomini. E il 25 gennaio il voto della Grecia, che non può essere coartata nella sua libertà, metterà alla prova le capacità di visione di Bruxelles e Berlino, chiamate ad allentare il rigore che soffoca il Sud dell’Unione senza suscitare una nuova tempesta finanziaria. I fatti diranno presto se l’Europa è davvero nata a Parigi, o se avrà il destino che il poeta Aragon attribuiva alla Gauche francese: «Sempre divisa, si riunisce solo dietro a una bara».

12 gennaio 2015 | 08:43
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« Risposta #178 inserito:: Gennaio 31, 2015, 04:47:36 pm »

Quirinale, le manovre
Una scelta senza veti e interessi

Di Aldo Cazzullo

La scenografia dell’incontro di Firenze tra la Merkel e Renzi - cena a Palazzo Vecchio, visita notturna alla Venere di Botticelli, conferenza stampa congiunta ai piedi del David di Michelangelo - è parsa andare oltre la routine dei vertici bilaterali, e anche oltre la costruzione di un rapporto personale. È sembrato che Renzi, inconsapevolmente o scientemente, volesse comunicare un messaggio: il premier tiene in prima persona e se possibile nella sua città i contatti con l’estero, a cominciare da quelli con il Cancelliere della prima potenza europea; non ha bisogno di avere al fianco o sopra di sé una personalità di rilievo internazionale. Del resto, Renzi ha tratteggiato in modo esplicito la figura di presidente della Repubblica a cui pensa: un arbitro, certo saggio, ma con un ruolo limitato dalla nuova legge elettorale, che grazie al ballottaggio designa un vincitore e circoscrive i poteri del Quirinale al perimetro della rappresentanza.

Ora, nessuno augura all’erede di Napolitano di affrontare le crisi istituzionali toccate in sorte al predecessore. Ma la fase storica che stiamo attraversando - con un’instabilità finanziaria latente che può essere innescata già dal voto di oggi in Grecia, una battaglia interna per il taglio del debito e una europea per gli investimenti pubblici ancora tutte da vincere, una ripresa economica ancora tutta da costruire - suggerisce l’esigenza di scegliere un presidente conosciuto e autorevole dentro e fuori i confini. C erto, figure di questo profilo non si trovano a ogni angolo. Inevitabilmente si finisce per cercarle in una cerchia spesso logora e impopolare, contro la quale Renzi ha costruito la propria politica e la propria ascesa. Attento com’è al consenso, il premier appare preoccupato dall’idea di legare il proprio nome a una scelta invisa all’opinione pubblica; e lo si può capire. Eppure, come conferma il sondaggio del Corriere , la maggioranza dei cittadini vorrebbe un capo dello Stato che avesse esperienza politica e statura internazionale. Renzi dovrebbe considerare che il presidente risponde al Paese e non a lui; e che una figura di alto profilo potrebbe servire anche a lui, oltre che al Paese, nel difficile tempo a venire.

Per questo non sarebbe male se nei prossimi giorni si avviasse un confronto aperto e trasparente sull’identikit e pure sul nome del successore di Napolitano, al di là del rituale scaramantico per cui indicare un candidato equivale a eliminarlo. Qualche cena semisegreta a Trastevere in meno, qualche discussione pubblica in più. Un’elezione di secondo grado a scrutinio segreto è esposta per natura all’inquinamento dei veti, delle rivalità, degli interessi di parte. Due anni fa andò così. La richiesta che stavolta sale dai cittadini è trovare in tempi brevi una soluzione all’altezza delle incognite e delle opportunità che abbiamo di fronte.

25 gennaio 2015 | 09:32
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_gennaio_25/quirinale-editoriale-scelta-senza-veti-interessi-6d6005da-a45e-11e4-9025-a3f9ec48a2fa.shtml
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« Risposta #179 inserito:: Febbraio 06, 2015, 05:55:57 pm »

L’AVVERSIONE PER LA SINISTRA DC

Quirinale, per l’ex Cavaliere il sapore di un affronto
La scelta dem di Sergio Mattarella per il Colle e le tensioni con Matteo Renzi

Di Aldo Cazzullo

Più che un patto, si è rivelato una beffa. Il nome che il suo alleato ed erede putativo Renzi ha tirato fuori è il simbolo di quel che Berlusconi detesta di più. Da sempre l’ex premier considera gli uomini della sinistra Dc i suoi atavici nemici: quello che per loro è rigore, per lui è grigiore; quello che per loro è moralità, per lui è moralismo. Loro si chiamano cattolici democratici, lui li chiama cattocomunisti. Così Berlusconi si è sentito tradito da un governo di cui si considerava il socio di minoranza. M entre tra gli ex comunisti Berlusconi ha spesso scelto uomini con cui dialogare - D’Alema innanzitutto, ma per qualche tempo anche Veltroni -, i cattolici di sinistra sono da sempre in conflitto con i suoi referenti politici, fin da prima della discesa in campo: dorotei e socialisti. E loro non hanno mai nascosto di provare nei suoi confronti una distanza antropologica prima che politica.

Sergio Mattarella non è soltanto il ministro che si dimette perché Andreotti ha posto la fiducia sulla legge Mammì, che salvaguarda il monopolio di Arcore sulle tv private; è il dirigente del Partito popolare europeo che definisce «un incubo irrazionale» l’ingresso di Forza Italia nel Ppe, appoggiato dallo stesso Kohl.

La sobrietà del personaggio agli occhi di Berlusconi diventa noia; la sua passione per la giustizia, giustizialismo. Quel che per l’uno è una virtù, per l’altro è un vizio. Per questo, e non soltanto perché ieri mattina l’ha trattato male al telefono, Berlusconi è davvero risentito con Renzi. Che ha tenuto insieme il Pd e individuato una figura moralmente inattaccabile che difficilmente gli farà ombra, almeno dal punto di vista mediatico. Ma ha capovolto lo schema con cui aveva governato per un anno, in sostanziale accordo con Forza Italia.

Enrico Letta, ieri insolitamente loquace, si augurava che l’ex Cavaliere ci ripensasse, e finisse per sostenere o almeno non ostacolare Mattarella: «La legge Mammì è storia di venticinque anni fa. Anch’io vengo dalla sinistra Dc; eppure Berlusconi ha votato il mio governo. Fare politica significa cambiare. Dicono che Mattarella alla Corte costituzionale si è sempre opposto alle istanze di Berlusconi? E come fanno a dirlo? I giudici costituzionali si esprimono in segreto». Un ripensamento in effetti è sempre possibile, sollecitato da Confalonieri e Gianni Letta, oltre che dai centristi affezionati ai loro posti di governo e preoccupati da una rottura con Renzi. Ma Berlusconi dovrebbe davvero far violenza a se stesso.

Non è affatto detto che, se salirà al Colle, Mattarella si rivelerà un presidente apertamente ostile all’ex premier, come Scalfaro (che non veniva dalla sinistra Dc).

Il processo che preoccupa di più Berlusconi è quello sulla compravendita dei senatori, dove non ci sono «olgettine» che negano, ma un parlamentare, Sergio De Gregorio, che sostiene di aver ricevuto denaro in cambio del passaggio da sinistra a destra, dalla risicata maggioranza di Prodi (lui sì ex dc di sinistra) all’opposizione. In caso di condanna, un gesto di clemenza proveniente dalla parte lesa sarebbe più praticabile e utile per Berlusconi di un impossibile salvacondotto generale.
Si apre uno scenario lungo sette anni, in cui gli umori e le attitudini del Quirinale, di Palazzo Grazioli e di Palazzo Chigi possono incrociarsi ed evolvere in modi oggi imprevedibili. Resta il fatto che oggi Berlusconi si è sentito tradito dall’uomo che percepiva come il proprio autentico erede politico. È probabile che i due facciano pace. Renzi se lo augura, anche perché - a differenza di Scalfaro, di Prodi, di Fini e di altri - non ha ancora sperimentato cosa significa avere contro la macchina editoriale berlusconiana.

30 gennaio 2015 | 07:58
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Da - http://www.corriere.it/politica/speciali/2015/elezioni-presidente-repubblica/notizie/quirinale-mattarella-berlusconi-sapore-un-affronto-a06a8436-a84c-11e4-9642-12dc4405020e.shtml
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