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Autore Discussione: ALDO CAZZULLO.  (Letto 137259 volte)
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« Risposta #150 inserito:: Settembre 03, 2013, 09:59:29 am »

ITALIA FUORI (BENE) MA LE CAMERE NE DISCUTANO

UN DIBATTITO NON INUTILE

La crisi in Siria e i rischi di un conflitto


Quando dal pareggio elettorale del 2005 nacque in Germania la Grande Coalizione, Cdu e Spd trattarono per settimane sino a definire un programma concordato. I partiti che in Italia hanno costituito il governo delle larghe intese non sono d'accordo su nulla, tranne una cosa. Paradossalmente, è la stessa, unica cosa che riunifica le correnti del Pd, divise su tutto il resto. L'oggetto di questo grande embrassons-nous è il disinteresse per la Siria. Un coro senza stonature: per carità, meglio il dialogo, noi non c'entriamo, se la vedano loro.
Per giorni tra destra e sinistra è stato tutto un compiacersi per la nostra estraneità, il nostro pacifismo, il nostro buonsenso che ci tiene fuori dai guai. Mario Mauro: «Senza l'Onu non ci muoviamo». Emma Bonino (irriconoscibile): «La partecipazione italiana non è scontata neanche con l'ok dell'Onu». La Bernini (Pdl): «Il ministro Bonino ha perfettamente ragione». Calderoli: «Ci è bastato il Kosovo». Gozi (Pd): «Non è il Kosovo, no all'intervento». Epifani: «Dietro la mossa di Usa, Francia e Gran Bretagna c'è solo una volontà di ritorsione». D'Alema: «Un attacco non risolverà niente». Il blog di Grillo: «Ridicolo Obama Nobel per la pace! Questo nero ben felice di servire l'uomo bianco». Rodotà, Landini e Cecilia Strada: «Le armi non serviranno certo a pacificare la Siria».

Questa non è la reazione di un grande Paese, che ha nel Mediterraneo i suoi interessi vitali, il suo futuro, e pure i suoi militari. Né si devono strumentalizzare le parole del Papa: è giusto auspicare la pace; ma la guerra in Siria non l'ha portata Obama, c'è già, semmai la si deve fermare. Il problema è come. Contro l'intervento ci sono molte buone ragioni, espresse sul Corriere da Angelo Panebianco e Sergio Romano: non ultima appunto la presenza in Libano di oltre mille nostri soldati, che rischiano di trovarsi tra due fuochi. L'Italia ha già dato molto alla comunità internazionale: non si tratta di esporre altri uomini, e di spendere altro denaro pubblico. Ma proprio perché l'impegno delle forze armate e dei contribuenti ci ha restituito una dignità e un ruolo, una questione tanto cruciale non può essere liquidata con una scrollata di spalle.

Le orrende immagini dei civili massacrati dal loro stesso governo sono il punto di non ritorno per un regime tra i più abietti della terra. Gli Assad hanno mantenuto il potere in questi anni con l'appoggio iraniano e russo e grazie a torture e fosse comuni. Nei loro arsenali ci sono tonnellate di iprite, sarin e altri gas letali. La storia insegna che in questi casi far finta di nulla non è una soluzione; e purtroppo talora non lo è neppure l'Onu, dove siedono anche i protettori del regime. È possibile in effetti che l'Italia sia più utile in un ruolo politico che militare. Ma non possiamo sottrarci almeno alla discussione. La questione riguarda tutti, e in particolare il centrosinistra. Nel momento in cui gli unici due leader progressisti del G8, Obama e Hollande, sostengono l'intervento, il Pd pensa di ritrovarsi di fatto sulla linea di Putin? Letta ha mosso un passo, esprimendo «comprensione» per le ragioni della Casa Bianca; ma una simile formula rischia di ricordare gli equilibrismi andreottiani, se non sarà seguita da gesti concreti. Il primo potrebbe essere una seria disamina della crisi alla Camera, quando (entro fine mese) si voterà il rifinanziamento delle missioni di pace. Si discute del Mediterraneo in tutti i Parlamenti, da Londra a Washington; sarebbe il caso di dedicarvi una sessione pure a Roma. Non per discutere interventi militari, ma per delineare a pieno un ruolo politico, oggi del tutto oscuro.

3 settembre 2013 | 7:53
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ALDO CAZZULLO

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_settembre_03/dibattito-non-inutile_feb7d218-1456-11e3-9c5e-91bdc7ac3639.shtml
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« Risposta #151 inserito:: Gennaio 08, 2014, 10:34:00 pm »

PARMA

La fenomenologia dell’insulto in Rete
Le maledizioni via web rivolte all’ex segretario Pd operato per emorragia cerebrale

È un fenomeno ormai noto, e certo non solo italiano: la rivolta contro l’establishment e contro ogni forma di rappresentanza, i partiti e i sindacati, le élites e le istituzioni. È ormai palese che la rabbia alimentata dalla crisi e moltiplicata dai social network brucia nello stesso rogo colpevoli e innocenti, senza badare alle responsabilità e neppure alle fragilità della morte e della malattia. Ma la gragnuola di insulti e maledizioni seguita alle notizie sul malore di Bersani va al di là di qualsiasi previsione e consapevolezza. Sapevamo che il pozzo dei livori e dei rancori si fa sempre più oscuro. Ma non ci eravamo accorti di quali profondità avesse raggiunto. Tra i tanti messaggi di odio, spesso firmati con nome, cognome e fotografia, ce n’è uno che colpisce in particolare. Dice: «Anche mio nonno è stato in ospedale, ma non se n’è fregato nessuno». Non è certo uno dei più crudeli, anzi. Altri interventi, nell’esprimere feroce giubilo e malauguri di sofferenza, fanno capire come la Rete abbia infranto tabù e freni inibitori che resistevano dai tempi delle società tribali.

I SOCIAL NETWORK E LE VICENDE PERSONALI - Ma la frustrazione e la solitudine che emergono da quel «post» sono davvero lo specchio del disagio del tempo in cui ci è dato vivere. Quelle parole indicano che non c’è più - o si vorrebbe che non ci fosse - la giusta distanza tra dimensione intima e vita pubblica. Nel villaggio globale, che i social network hanno nello stesso tempo dilatato e rimpicciolito, ognuno ha l’illusione che le proprie vicende personali diventino o debbano diventare di interesse generale. Tutti parlano, molti gridano, minacciano, offendono; e non si capacitano che nessuno ascolti. Il crollo di credibilità della politica (di cui i politici portano grande responsabilità) viene dopo. Prima ancora viene l’insoddisfazione del ritrovarsi nella piazza elettronica del tutto soli con un dolore privato che non è possibile condividere con nessuno. Non l’uomo, ma il proprio io diventa misura di tutte le cose. E il legittimo amore di se stessi si fa ossessione egolatra, destinata ad avvitarsi sempre più nel rancore. Il Novecento dei grandi lutti popolari è finito per sempre, e non è il caso di rimpiangerlo. Ma questa somma di solitudini incapaci di pietà per gli altri e anche solo di consolazione reciproca fa paura; perché, da uomini, non vi riconosciamo nulla di umano.

07 gennaio 2014
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Aldo Cazzullo

Da - http://www.corriere.it/politica/14_gennaio_07/fenomenologia-dell-insulto-rete-e958203a-7766-11e3-823d-1c8d3dcfa3d8.shtml
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« Risposta #152 inserito:: Febbraio 15, 2014, 10:29:00 am »

IL RETROSCENA

Il sindaco e il primo giorno da «quasi premier»: non avevo scelta
Il colloquio con Delrio Cuperlo lo chiama: no a un liberista all’Economia

«Non era il modo in cui lo sognavo. Ma non avevo altra scelta». È il ritornello del giorno dopo. Matteo Renzi lo ripete a tutti i suoi interlocutori. «Mi ero fatto un altro film: vincere le elezioni, prendere milioni di voti, battere la destra. Non è il consenso che mi manca: per me, sarebbe stato meglio andare a votare subito; ma non per il Paese. Non era possibile. Non senza legge elettorale: con il proporzionale avremmo avuto le larghe intese a vita. Non senza aver riformato il Senato». E poi - questo Renzi non lo dice, ma è ben presente nelle sue valutazioni - Napolitano non avrebbe concesso le elezioni anticipate né ora, né durante il semestre europeo; e il capo dello Stato ha anche ventilato la possibilità di dimissioni, qualora il leader del Pd si fosse mosso in modo da rendere necessario lo scioglimento delle Camere. Un nuovo governo Letta con qualche ministro renziano, oltre a responsabilizzare ancora di più il partito e il suo segretario, avrebbe significato prolungare per un altro anno quella che lui definisce «la palude». «Sarebbe stata la fossa del Pd. E sia ben chiaro - è il ragionamento che Renzi fa nelle conversazioni private - che Enrico non si è mai dichiarato disponibile a un Letta bis, a un vero, nuovo governo nato attraverso una crisi, ma soltanto a un rimpasto. Noi non gli abbiamo mai fatto mancare un voto, neppure in passaggi su cui eravamo perplessi, tipo la fiducia alla Cancellieri. Ma non potevamo sostenere un governicchio per mesi e mesi». Anche gli uomini più vicini a Renzi negano di aver teso un tranello a Letta, di avergli mai fatto credere che «Matteo» si sarebbe accontentato di un rimpasto.

Il sindaco riconosce che forse avrebbe fatto meglio a non usare provocazioni tipo «Enrico stai sereno». Ma questa è la sua natura, il suo stile, il suo linguaggio. «Se non altro, non diranno che sono democristiano». E poi due settimane fa, quando Renzi si chiamava fuori dall’ipotesi del cambio in corsa a Palazzo Chigi, davvero non pensava che la situazione precipitasse così in fretta. Hanno influito, certo, le pressioni delle forze sociali, da Squinzi alla Camusso, per un nuovo governo che rilanciasse l’economia e garantisse i partner europei. Ma sono state decisive da una parte l’apertura di Napolitano, che ha rinunciato a difendere a oltranza Letta rimettendo la questione al partito, e dall’altra appunto l’atteggiamento del Pd, a cominciare dagli uomini di Bersani.

Nel vertice ristretto di lunedì sera, il capo dei deputati Speranza ha avvertito Renzi di non poter assicurare la tenuta del gruppo sulla legge elettorale, con il voto segreto. Di fronte alla prospettiva che saltasse la riforma, il segretario ha rotto gli indugi, e nella riunione di martedì mattina con i parlamentari ha fatto in modo di accelerare, dicendo: «O si ricarica la batteria, o la si cambia». Anche l’opposizione interna ha scelto di cambiarla. Alfano e Scelta civica non aspettavano altro, pur di allontanare lo spettro delle elezioni anticipate (anche se alla prospettiva di arrivare al 2018 non crede quasi nessuno).

«La verità è che mille parlamentari non avevano alcuna intenzione di andare a casa», sintetizza un uomo distante dal Palazzo (né vi entrerà come ministro: «troppi impegni in azienda») ma che sente Renzi tutti i giorni, Oscar Farinetti. «Io ero tra coloro che lo consigliavano di andare a votare subito, come credo volessero i militanti della sinistra e la maggioranza degli italiani. Ma gli ho anche detto che il Paese non può aspettare l’estate. Ci sono cose da fare subito, qui e ora, altrimenti l’Italia muore. Chiudono cento aziende al giorno. Se in pochi mesi non si dimezza la pressione fiscale sulle imprese, non si taglia la burocrazia, non si semplificano le norme sul lavoro con il contratto unico, non si creano nuovi incentivi all’export, moriamo. Non c’è un minuto da perdere. Matteo si stava incartando in una melina in cui aveva tutto da perdere. Qui non c’è da usare il cacciavite di Letta; ci vuole uno schiacciasassi».

Un allarme che Renzi si è sentito ripetere ieri anche da interlocutori che non entreranno al governo (oggi ci sarà un colloquio decisivo con Andrea Guerra di Luxottica, cui verranno offerte le Attività produttive, ma che è orientato a rifiutare). Il primo giorno da premier virtuale è stato in realtà una giornata da sindaco. Il pomeriggio passato con 1268 coppie di anziani, venute a Palazzo Vecchio per festeggiare San Valentino, ha ulteriormente migliorato l’umore di Renzi, che vi ha letto un segno: al di là delle perplessità che arrivano dalla base, e sono diffuse anche nella sua cerchia, l’investimento emotivo che il Paese ha fatto su di lui resta forte, almeno a giudicare dalla furia con cui le anziane signore cercavano di baciarlo e parlargli dei nipoti. Due ore di colloquio a quattr’occhi con Delrio, il suo vero numero 2, lo hanno riportato alla realtà. Così come una telefonata di Cuperlo, che gli ha chiesto di «non mettere un liberista al ministero dell’Economia». Poi Renzi ha visto gli assessori, per chiudere due pratiche prima di lasciare il Comune: il regolamento urbanistico, per attuare il piano a volumi zero (sarà possibile «costruire solo sul costruito»); e il nuovo stadio della Fiorentina a Mercafir, nella zona dei mercati, un investimento dei Della Valle da 200 milioni di euro. I ritmi ora si fanno serrati: domani o lunedì l’incarico di formare il nuovo governo, lunedì mattina l’ultima giunta prima di scendere a Roma. Renzi non si dimetterà da sindaco, per evitare l’arrivo del commissario. Attenderà di decadere per incompatibilità, in modo da lasciare la gestione del Comune a un nuovo vicesindaco, che potrebbe essere già l’uomo scelto per la successione (fiorentini permettendo), Dario Nardella. «L’avresti detto un anno fa che saremmo arrivati fin qui?» gli ha chiesto Renzi, rievocando la sconfitta alle primarie. Già allora il sindaco si era candidato per andare a Palazzo Chigi. E già quando, dopo le elezioni, Napolitano si trovò a scegliere tra Letta, Amato e lui, era pronto ad accettare. La scelta di questi giorni non può essere definita un sacrificio, ma il coronamento di un sogno, sia pure non nei modi in cui sperava. «Alla terza possibilità, stavolta non potevo tirarmi indietro».

15 febbraio 2014
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Aldo Cazzullo

Da - http://www.corriere.it/politica/14_febbraio_15/sindaco-primo-giorno-quasi-premier-non-avevo-scelta-9b566092-9609-11e3-9817-5b9e59440d59.shtml
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« Risposta #153 inserito:: Febbraio 19, 2014, 11:35:32 am »

Il ritratto del sindaco di Firenze / «Lo chiamavano il Bomba, le sparava grosse»
Quando Renzi al liceo voleva cacciare Forlani
Le battute, il look, gli scout.
La carriera costruita (sin da piccolo) sulla guerra all’establishment

Al liceo lo chiamavano il Bomba, perché le sparava grosse. Così almeno raccontò un suo ex compagno in una perfida telefonata a un’emittente fiorentina, Lady Radio. Avevano sorriso anche i professori, leggendo il suo articolo su «Il divino», mensile del liceo ginnasio Dante di Firenze: «Forlani ha commesso molti errori, anche nella formazione delle liste, e dovrà passare la mano, com’è giusto che sia per un segretario che perde il 5%. La Dc deve veramente cambiare, in modo netto e deciso, mandando a casa i Forlani, i Gava, i Prandini e chi si oppone al rinnovamento...». Era il 1992. Matteo Renzi aveva 17 anni.

È laureato in giurisprudenza (con 109; mancò il 110 perché discutendo la tesi litigò con il relatore), ma non ha un curriculum di eccellenza. Parlotta l’inglese con l’accento toscano, ma non ha fatto master all’estero. Matteo Renzi non è frutto delle élites. È un politico puro. Con i suoi limiti, e con due punti di forza: il fiuto e l’energia. Il fiuto gli ha suggerito che l’unico modo per emergere a sinistra era andare contro la vecchia guardia, cavalcando l’insofferenza della base per leader che non vincevano mai. Poi ha usato contro l’intera classe politica lo stesso linguaggio e gli stessi argomenti della gente comune. Infine ha alzato il tiro contro l’establishment, dalle banche ai sindacati. Si è insomma costruito contro il Palazzo. Per questo l’opinione pubblica è perplessa, ora che lui nel Palazzo entra senza passare dal voto popolare. Ma la sua energia può imprimere uno scossone a un Paese sprofondato in una crisi di fiducia.

Il più giovane presidente del Consiglio è nato l’11 gennaio 1975 a Rignano sull’Arno, 9 mila abitanti, 23 chilometri da piazza della Signoria. Il padre Tiziano - piccolo imprenditore che diventerà consigliere comunale per la Dc - e la madre Laura Bovoli vivono in un palazzone di via Vittorio Veneto, con la primogenita Benedetta di tre anni (nel 1983 arriverà Samuele e nel 1984 Matilde, l’unica impegnata nei comitati elettorali del fratello). Dopo un mese di prima elementare, la maestra, signora Persello, lo promuove: il bambino è sveglio, può passare in seconda. Serve messa a don Giovanni Sassolini, parroco di Santa Maria Immacolata. Gioca stopper nella Rignanese, ma riesce meglio come arbitro e come radiocronista. (Ancora l’anno scorso, in una partita di beneficenza, ha preteso di tirare un rigore: parato, per giunta dal sottosegretario Toccafondi, alfaniano). Si fa eleggere rappresentante di classe. Entra negli scout. Guida un gruppo in una gita in Garfagnana: si perdono in un bosco, passano la notte all’addiaccio. I compagni lo chiamano «Mat-teoria», perché parla parla ma poi a lavorare sono sempre gli altri. Il capo scout Roberto Cociancich scrive: «Matteo ha doti di leader. Lo vedremo crescere». Oggi Cociancich è senatore pd, inserito nel listino in quota Renzi.

Nel 1994, mentre l’Italia antiberlusconiana inorridisce nel vedere il padrone delle tv private entrare a Palazzo Chigi, Renzi va nelle tv private di Berlusconi: in cinque puntate della «Ruota della fortuna» con Mike Bongiorno vince 48 milioni. L’anno dopo, a vent’anni, fonda a Rignano un circolo in sostegno di Prodi. Nel 1999 si laurea con una tesi su «La Pira sindaco di Firenze» e sposa Agnese Landini, conosciuta agli esercizi spirituali nell’Agesci.

Organizza la rete di strilloni per conto dell’azienda del padre, per distribuire La Nazione in strada. Con i soldi che ha guadagnato parte assieme agli amici scout per il Cammino di Santiago: una settimana di pellegrinaggio a piedi. Al ritorno i capi gli propongono di candidarsi alla guida del partito popolare di Firenze, che ha appena toccato il minimo storico: 2 per cento. Renzi accetta e vince il congresso. Segretario nazionale è Franco Marini.

Palazzo Vecchio è in mano ai postcomunisti. Ai cattolici, cioè a lui, tocca la Provincia. La trasforma «da cimitero degli elefanti a fucina della propria carriera», come scrive il suo biografo David Allegranti. Si inventa la kermesse culturale «Il Genio fiorentino», la società di comunicazione Florence Multimedia, e Florence Tv, un canale che ne illustra le gesta. Il primo a invitarlo in una tv vera è Corrado Formigli su Sky. Gli spettatori scoprono un ragazzo che non parla come un politico ma come uno di loro. Fa gaffe e le racconta, confonde Churchill con De Gaulle e ne ride. Nel 2006 passa in città Berlusconi. Ai suoi uomini confida: «Quel Matteo è bravo, ma sbaglia a vestirsi di marrone: fa tanto sinistra perdente».

Scrive Claudio Bozza del Corriere Fiorentino che qualcuno lo riferisce all’interessato. Il marrone è abolito. Da allora, Renzi evita anche di vestirsi come un politico. Preferisce i jeans Roy Rogers Anni 80 e il giubbotto di pelle da Fonzie («ma la pelletteria è un settore trainante dell’export italiano!»), oppure le camicie bianche senza cravatta con le giacche blu elettrico di Scervino. Taglia il ciuffo. Dimagrisce mangiando banane e iniziando a correre. Martella i colleghi. Corteggia la categoria che lo attrae di più: gli imprenditori. Una città abituata a perpetrare le sue gerarchie si riconosce nel giovanotto venuto dal contado.

Nel 2009 Renzi si candida alle primarie per Palazzo Vecchio. Il partito ha prescelto Lapo Pistelli, di cui è stato assistente parlamentare. Lo batte con il 40,5% contro il 26,9. Dirà un anno e mezzo dopo: «Non ho vinto io perché ero un ganzo, è che gli altri erano fave». Supera al ballottaggio il portiere Giovanni Galli ed è sindaco. Come primo provvedimento, elimina le auto blu: tutti a piedi. Lui gira in bicicletta (prova anche l’auto elettrica: tampona la macchina davanti. Poi impara). Comunica che la tranvia in centro, di cui si discute da anni, non si farà, anzi: piazza Duomo diventerà pedonale. Addio comunicati stampa: le notizie le dà direttamente lui, su Facebook e poi su Twitter. Nomina dieci assessori, cinque uomini e cinque donne, tra cui Rosa Maria Di Giorgi, che gli chiede: «Ma in giunta si vota?». Lui risponde: «Certo. Però il mio voto vale undici». Oggi non ne è rimasto neanche uno. Il sindaco li ha sempre scavalcati, parlando direttamente con i funzionari. Quando intuisce che qualcuno passa informazioni riservate ai giornalisti, per scovarlo racconta con tono da cospiratore a tre assessori tre piani diversi per il traffico: individua così il colpevole.

Il presidente di Confindustria Firenze, Giovanni Gentile, critica la sua proposta di introdurre la tassa di soggiorno, lui replica: «Gentile conta come il presidente di un club del burraco». In una vecchia stazione ferroviaria, la Leopolda, riunisce i giovani del partito, affida il format a Giorgio Gori e la regia a Fausto Brizzi. Dice che la classe dirigente del Paese va «rottamata», come le automobili. La settimana dopo, va a pranzo da Berlusconi ad Arcore. «Per Firenze questo e altro» si giustifica. In realtà, Renzi non è antiberlusconiano; semmai postberlusconiano. Frase-chiave: «Io lo voglio mandare in pensione, non in galera».

Nell’estate 2012 sfida Bersani per la candidatura a Palazzo Chigi. Ma il vero obiettivo polemico è D’Alema. D’Alema consiglia a Bersani di evitare lo scontro, il segretario fa cambiare lo statuto per indire le primarie: «Renzi non vince». Il giro d’Italia di Renzi in camper è trionfale. Lo slogan: «Adesso!». La nomenklatura del Pd lo avversa come un usurpatore. Bersani è costretto al ballottaggio, ma prevale, anche a causa del regolamento che restringe la partecipazione. Renzi respinge l’idea di una lista con il suo nome, quotata nei sondaggi al 15%. L’appoggio alla campagna del partito è blando; ma neppure lui immagina la débâcle. Quando Bersani tenta di aprire ai Cinque Stelle, Renzi lo gela: «Si è fatto umiliare». Bersani rinuncia a formare il governo.

Si vota per il Quirinale. Marini gli telefona per chiedere appoggio. Renzi sbotta con i presenti: «Ma vi rendete conto? Mi ha chiamato per dirmi di aiutarlo a diventare presidente della Repubblica, perché lui è cattolico. Che vuol dire? Anche io sono cattolico, ma per me è un valore prezioso e privato». I renziani votano Chiamparino, poi Prodi, infine Napolitano. Lui si illude per un giorno che il presidente rieletto possa affidargli l’incarico, che tocca a Letta. È allora che decide di candidarsi alla segreteria del Pd. Per la nomenklatura l’usurpatore è diventato un male necessario. L’obiettivo minimo è evitare che Letta e Alfano si accordino per una legge elettorale proporzionale che renda eterne le larghe intese. L’obiettivo massimo è Palazzo Chigi. Frase-chiave: «La vecchia sinistra ha sempre voluto cambiare gli italiani. Io voglio cambiare l’Italia».

16 febbraio 2014
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Aldo Cazzullo

Da - http://www.corriere.it/politica/14_febbraio_16/quando-renzi-giornale-liceo-voleva-mandare-casa-forlani-0cf39f80-96dc-11e3-bd07-09f12e62f947.shtml
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« Risposta #154 inserito:: Febbraio 22, 2014, 06:09:29 pm »

IL COMMENTO

E Matteo puntò tutto sull’età
Svolta generazionale in attesa del resto
Novità sottolineata anche dal presidente Napolitano.
Ora la sfida è cambiare davvero


Quando al Quirinale è iniziato a circolare il nome di Guidi, molti cronisti hanno pensato a Guidalberto, storico dirigente degli industriali italiani. Era invece Federica: sua figlia. Non potendo avere il braccio destro Delrio al ministero dell’Economia, dovendo accontentare gli alleati e le correnti avverse del suo stesso partito, Renzi ha puntato sul ricambio generazionale per marcare la propria impronta sul governo. Si è impuntato per avere agli Esteri una neoquarantenne, Federica Mogherini, al posto di un politico esperto come Emma Bonino. Ha accorpato due incarichi - Riforme e Rapporti con il Parlamento - affidandoli al ministro più giovane, Maria Elena Boschi, 33 anni compiuti il 24 gennaio, unica esponente del «giglio magico» fiorentino. Anche vedere al governo una giovane donna con il pancione, come Marianna Madia, 33 anni e incinta di otto mesi, rappresenta un segno di apertura al futuro, in un Paese a volte gerontocratico.

Da sola, però, l’età non basta. Essere giovani non è un difetto, come appare talora in Italia; ma neppure un merito. Il ricambio generazionale non è soltanto un fatto anagrafico; consiste nel fare cose nuove, o nel fare le cose di prima in modo diverso. Renzi va al governo in modo vecchio. Non con un voto popolare, ma con una manovra interna a quel Palazzo contro cui si era scagliato con parole e toni non così diversi da quelli di Grillo. Per redimersi dal «peccato originale», come l’ha definito l’Osservatore Romano , il nuovo premier ha bisogno di ricostruire il proprio rapporto con l’opinione pubblica. Per questo ieri sera al Quirinale, con la voce arrochita da due ore e mezza di colloquio con Napolitano (e con gli interlocutori chiamati al telefono), si è rivolto direttamente ai suoi coetanei, sottolineando l’età media della squadra, mai così bassa - 48 anni -, e rivolgendo «un messaggio ai ragazzi: non è vero che la politica non è una cosa seria; non è vero che in Italia nulla è possibile».

Già dieci mesi fa l’investitura di Enrico Letta, cui Napolitano aveva poggiato fisicamente il braccio sulle spalle, segnava un passaggio di generazione. Ma i quarantenni sono troppo poco solidali tra loro per riuscire a fare rete, a sostenersi l’un l’altro. Una condanna confermata dalla sorte di Letta, abbandonato dai coetanei del suo partito e alla fine anche da Alfano. Ora tocca ai trentenni. L’età di Renzi rappresenta in sé una novità, ribadita anche dal capo dello Stato. Il Paese, non soltanto il presidente del Consiglio, assume un rischio, in parte mitigato dalla presenza al suo fianco di uomini di maggiore esperienza e rapporti internazionali. La sfida ora è dimostrare che l’Italia può cambiare davvero, può dare una chance non solo a ragazzi fortunati cooptati ai vertici della politica (Mogherini, Madia, Orlando, Lorenzin sono entrati in Parlamento con il Porcellum) ma anche ad ambienti e ceti rimasti finora ai margini della vita pubblica. Grillo, il leader più votato dai giovani alle ultime elezioni, sa che qualora Renzi avesse successo le proprie fortune declineranno, ed è pronto a un’opposizione durissima, al limite dell’ostruzionismo fisico alle Camere.

La strada del premier si preannuncia in salita, fin dal voto di fiducia. I nomi e l’anagrafe sono importanti, ma non sufficienti. Se il nuovo governo saprà parlare a generazioni lontanissime dalla politica, se dimostrerà che è davvero possibile intaccare il muro dei privilegi e dei conservatorismi italiani, soltanto allora si potrà parlare di autentico ricambio.

22 febbraio 2014
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Aldo Cazzullo

Da - http://www.corriere.it/politica/14_febbraio_22/matteo-punto-tutto-sull-eta-svolta-generazionale-attesa-resto-7893e30e-9b90-11e3-87f4-ff088781357a.shtml
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« Risposta #155 inserito:: Febbraio 24, 2014, 06:43:20 pm »

L’ex premier: nella macchina dello Stato si mandino via i diecimila che non servono e si assumano mille competenti
«Basta con le élite arteriosclerotizzate Ma non tutti i vecchi sono da rottamare»
Amato: «Credo molto al ringiovanimento. Bene la lotta alla burocrazia. Ma Letta ha 47 anni e ha un grande futuro davanti»

Professor Giuliano Amato, Renzi indica nella lotta alla burocrazia «la madre di tutte le battaglie». Gli uomini a lui più vicini mettono sotto accusa l’intero establishment italiano. Il quale, dicono, considera il nuovo premier come un «barbaro».
«A me non è sembrato proprio che lo sia».
Ma la storia di Renzi è tutta dentro un fenomeno non solo italiano: la rivolta contro le élite.
«Esistono élite innovative, che portano innovazione, ed élite arteriosclerotizzate, che ostacolano l’innovazione. Renzi non deve fare la guerra alle élite, ma alle élite arteriosclerotizzate. Abbiamo bisogno di specialisti dell’innovazione che ci aiutino a cambiare. Altrimenti si ricade in quella che proprio sul Corriere abbiamo definito “la sindrome dell’uno di noi”».
L’alta burocrazia e tutta la macchina dello Stato sono viste sempre più come un blocco ostile alla crescita e al ricambio. Non crede?
«Trovo interessante che si ponga oggi come questione da risolvere il rapporto tra la politica e l’establishment burocratico. All’estero mi hanno fatto notare: quando parlate di riforme di struttura, puntate l’occhio sempre e solo sul mercato del lavoro; ma la prima questione italiana sono gli apparati amministrativi, e le esternalità negative che generano».
Appunto.
«Ma la battaglia contro la burocrazia può essere una delle tante battaglie retoriche contro un facile nemico. Non dimentichiamoci che la burocrazia, proprio per la regolarità delle sue norme, venne ritenuta da Max Weber l’espressione necessaria della razionalità dello Stato rispetto all’arbitrio, al carisma, alle varietà delle tradizioni che prima di essa esistevano. È significativo però che lo stesso Weber nei suoi ultimi anni, prima di morire ancora giovane di febbre spagnola, parlò della burocrazia come di “macchina senz’anima”, “spirito coagulato”. Lui stesso coglieva nella burocrazia l’entropia cui era soggetta, perdendo di vista il fine per cui sono state create le norme, pensando all’autotutela dei propri interessi piuttosto che alla tutela degli interessi per cui viene mantenuta dalla società».
È quello che accade in Italia: la burocrazia che si autoalimenta.
«Sì, ci sono momenti in cui di queste malattie della burocrazia si risente in modo particolare. L’Italia oggi attraversa uno di quei momenti. Ma ci sono anche momenti in cui la burocrazia di cui si dispone viene vissuta come strumento delle innovazioni che si vogliono introdurre. Pensi al New Deal, all’importanza che ebbero gli apparati nel realizzare le riforme impostate nei cento giorni. Pensiamo a noi stessi, alle grandi figure tra il politico e il burocratico che trasformarono l’Italia nei primi decenni del Novecento».
A chi pensa?
«Ad Alberto Beneduce: figura tecnica che riformò tutto il rapporto tra Stato ed economia; l’uomo dell’Iri, del Crediop, dell’Imi e, insieme con altri, della riforma della Banca d’Italia. Penso a figure come Arrigo Serpieri, che dà un assetto nuovo alla nostra agricoltura, e come Oscar Sinigaglia, primo presidente dell’Ilva, poi della Finsider. Ancora pochi anni prima, però, mentre Giolitti sta cercando di trasformare l’Italia ancora gretta nell’Italia che riconosce gli scioperi e i diritti sociali, un uomo come Salvemini fa una sparata contro “l’albero mortifero della burocrazia, lenta, complicatissima, non rispondente affatto ai bisogni delle popolazioni perché risponde esclusivamente ai propri bisogni”».
Pare il ritratto dell’Italia di oggi.
«Oggi l’Italia deve cambiare e percepisce come allora che la burocrazia, anziché veicolo di cambiamento, è un freno. Già negli Anni 50 Peter Drucker intuisce che, in un mondo che si sta globalizzando, quei grandi conglomerati burocratici che sono gli apparati pubblici e gli stessi apparati delle imprese sono destinati ad andare a sbattere, e occorrono organizzazioni più flessibili, capaci di mettere alla prova tutte le nuove professionalità di cui si può disporre. Da qui la domanda se debbano cambiare le regole o le persone e la loro cultura. Sono vere entrambe le cose: le regole alimentano una vecchia cultura; ma senza nuove persone e una nuova cultura, le vecchie regole prevalgono».
Mi spiace riportarla da Peter Drucker a Luca Lotti...
Per arrivare all’attualità serve ancora un passaggio. Il reinventing governement del tandem Clinton e Gore, che avevano capito la lezione di Drucker, fu un grande piano di riorganizzazione del personale pubblico volto a cambiare le professionalità, e a portare non le procedure ma gli obiettivi al centro dell’azione pubblica».
Perché da noi non è accaduto?
«Perché negli ultimi decenni le figure tecniche sono scomparse dall’amministrazione pubblica. Fino agli anni 50 e 60 esistono ruoli tecnici che fanno capo in particolare ai ministeri più operativi: Lavori pubblici, Trasporti, Agricoltura. Questo personale tecnico va in pensione e non viene sostituito. Prevale il laureato in giurisprudenza, con una media cultura in diritto, che è la figura tipica per la quale la preoccupazione di non avere problemi con la Corte dei conti è naturalmente prevalente sulla preoccupazione di raggiungere il risultato dell’azione pubblica. Facciamo anche noi tentativi di reinventing governement ...».
Ad esempio?
«Nei primi anni 80 Giorgio La Malfa da ministro del Bilancio introduce l’analisi costi-benefici per la valutazione degli investimenti pubblici. Pochi anni dopo Mario Sarcinelli, grande direttore generale del Tesoro, fa passare una legge per assumere giovani con nuove professionalità, come budget e management del debito, di cui l’Italia aveva bisogno. È la stagione in cui il Tesoro si rinnova, in cui arrivano Draghi e Bini-Smaghi. Ci si rende conto che il controllo di ciò che fa lo Stato non può essere solo giuridico, e che la Corte dei conti deve essere formata anche da economisti».
Oggi nella Corte dei conti gli economisti si contano sulle dita di una mano.
«È così. Lo sforzo maggiore lo fa Franco Bassanini, con le leggi di fine anni 90 che introducono il controllo gestionale e il controllo strategico. È l’intervento riformatore più esplicitamente derivato dal modello di Clinton e Gore. Loro però ebbero otto anni, durante i quali lavorarono anche sul personale. Bassanini ebbe solo due anni: cambiò le regole, non il personale; e le nuove regole vennero assorbite dalle vecchie».
Ora è arrivata la crisi del debito, e la spending review.
«E lo Stato non riesce a dotarsi di nuove professionalità. Per spendere il meno possibile fa il blocco del turn-over, trattiene finché morte non li separi coloro che non gli servono, e chiude la porta a coloro che gli servirebbero. Dove operano dirigenti nuovi, portatori di un nuovo spirito, l’amministrazione riesce a funzionare. Non va cancellato tutto, non vanno eliminati tutti. Ci sono molte persone disponibili a cambiare. Se ne mandino via diecimila che non servono, e se ne mettano mille nei punti giusti: giovani che siano fattori di cambiamento».
Il ricambio non è solo un fatto anagrafico, quindi.
«Deve cambiare non solo l’età, ma anche la formazione. Non insegniamo più diritto e basta: l’analisi economica è ingrediente essenziale della formazione del giovane giurista. Il medico non studia più solo medicina, ma le scienze della salute, che implicano la conoscenza del funzionamento delle strutture sanitarie. Abbiamo straordinari sovrintendenti, ma i Beni culturali hanno uno spaventoso bisogno di manager di Beni culturali; non necessariamente chi ha gestito un McDonald’s riesce a esserlo, ma difficilmente può esserlo un bravo archeologo».
Dario Nardella ha indicato tra i “poteri costituiti” che esercitano un freno all’innovazione, o un’influenza eccessiva sul sistema, anche la Banca d’Italia. Lei che ne pensa?
«Anche se il sistema bancario va tutto in direzione europea, da noi la esercita perché è diventata l’ultima scuola che è rimasta. Io ho grande stima delle persone che escono dalla Banca d’Italia, in genere hanno una preparazione economica superiore; ma considero non felice il destino di un Paese che ha come unica scuola di formazione la sua banca centrale. Noi avevamo avuto le partecipazioni statali come grandi scuole di formazione. Io sono tra coloro che ha contribuito alla liquidazione dell’Iri, e non ne sono pentito; ma certo perdemmo un patrimonio positivo di formazione».
Come trova Renzi? Che effetto le fa vedere a Palazzo Chigi, dove lei è stato due volte, un “ragazzo” di 39 anni?
«Al ringiovanimento dell’Italia credo moltissimo. Mi auguro che sia così. Ormai sono chiuso in convento, faccio il giudice costituzionale, non mi occupo di politica; ma quando ho visto in tv confrontarsi per le primarie del Pd tre giovani di cui il più vecchio aveva 50 anni, da italiano ho provato d’istinto un senso di soddisfazione».
L’hanno chiamata rottamazione.
«Be’, non sono perché vengano rottamati tutti i vecchi. Un minimo di spirito di autodifesa lo dovrò pure avere... Sono un ultrasettantenne, ma sono ancora meglio di tanti cinquantenni, sul campo».
Si riferisce al tennis?
«Ovviamente. Il segreto è giocare con avversari più forti di te. C’è sempre qualcosa da imparare».
C’è anche chi esce di scena precocemente. Letta è stato trattato in modo ingeneroso?
«Proprio perché ha 47 anni, Enrico Letta ha un grande futuro davanti. Di questo sono sicuro».

© RIPRODUZIONE RISERVATA
24 febbraio 2014
ALDO CAZZULLO

Da - http://www.corriere.it/politica/14_febbraio_24/basta-le-elite-arteriosclerotizzate-ma-non-tutti-vecchi-sono-rottamare-a7a1d7cc-9d21-11e3-bc9d-c89ba57f02d5.shtml
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« Risposta #156 inserito:: Febbraio 26, 2014, 05:44:34 pm »

Renzi e la fiducia, diretta sms

di Aldo Cazzullo

    Lunedì, 24 febbraio 2014

22:52 La saggezza del leggendario Marzullo incrociato alla buvette. "Se R. va, va; ma se non va..."
22:51 R ha ribadito che vuole arrivare al 2018. Sottinteso: se cado prima, cado sul cambiamento, non sulla conservazione; e vado a chiedere la fiducia agli italiani
22:49 La senatrice Merloni: "R non ha tutti i torti, qui dentro c'è gente che non ha un grande collegamento con la vita reale..."
22:44 Sull'intervento del sudtirolese R è sul punto di assopirsi
22:42 E' tornata la Boschi, oggi in nero
22:41 R è ormai esausto. I senatori prima di essere aboliti ancora parlano. La fiducia arriverà a notte fonda
22:14 "Forse avrei dovuto fare un discorso più cerimonioso. Ma questo non è un lifting, non è un'operazione di potere. Noi ci giochiamo tutto".
22:14 R. "L'Italia non può essere il paese del "grazie vi faremo sapere", è un paese che può essere leader nel mondo..."
22:08 R. "Ho provato un senso di vergogna" quando non siete riusciti a trovare un successore a Napolitano
22:06 Sacrosanto il passaggio sui 60 miliardi di mercato dei prodotti "Italian sounding", che "suonano" italiani ma non lo sono
21:59 "Non siete in un Truman Show! Io non avrò mai un doppio registro. Vi rispetto ma non chiedeteci di essere diversi da come siamo fuori"
21:58 Ora R rivendica di aver parlato in aula con lo stesso linguaggio e lo stesso tono di sempre e denuncia lo scollamento tra il Palazzo e i cittadini
21:55 Renzi vagamente ironico: "E' stato un pomeriggio istruttivo per me..."
21:38 Delrio: "Matteo non si aspettava questo gelo". Casini: "Socmel, cosa si aspettava? Ci ha detto che ci manda tuttti a casa..."
21:24 La Finocchiaro al nome Renzi increspa il bel volto in un'espressione di disgusto: "diciamo che non mi entusiasma..."
21:20 Rubbia: "ma R i soldi dove li trova?"
21:19 Bonaiuti: a Berlusconi il discorso di R è piaciuto
20:27 Giovanardi alla buvette è sinceramente indignato: "ci ha preso per 315 beoti! Come se non avessimo mai visto una scuola, una comunità di recupero, un incidente stradale!"
20:18 Finalmente un leghista, Volpi: "Non venga qui a fare Candy Candy..."
20:17 Blundo, 5 stelle: "dietro di lei c'è De Benedetti!". I grillini devono avere con De Benedetti un fatto personale


    20:15 Purtroppo Grasso toglie la parola al leggendario Scilipoti
    20:15 Scilipoti ottimista: "la grande maggioranza degli italiani sta scivolando della povertà..."
    20:14 Parla il leggendario Scilipoti e non delude le attese: "intravedo un aspetto anticipatorio di elementi che conducono a una critica risoluta e implacabile..."
    20:13 Albert Laniece della Val d'Aosta annuncia che voterà la fiducia ma gradirebbe che R annullasse i tagli fatti da Trenitalia alle linee per la Val d'Aosta
    20:08 R si riscuote solo quando sente la parola "sindaco"
    20:02 Renzi ha due libri sul banco. Uno è Murakami, l'altro il saggio di Ichino sul lavoro. Sta sfogliando Murakami.
    19:59 Stefano di Sel: "Abolire il Senato non risolve certo i problemi del Paese!". Viva approvazione in aula: e allora teniamocelo!
    19:56 La grillina Simeoni richiama R distratto: "Presidente! Presidente!". E lui: "Chi? Io?"
    19:54 L'ex magistrato Casson fa capire che voterà la fiducia a R nonostante gli faccia orrore
    19:54 Arriva la Finocchiaro, R strizza l'occhio pure a lei che lo definì "miserabile", lei risponde con un cenno della mano
    19:50 Diciamo che finora il livello della discussione in Senato ha abbastanza giustificato l'idea di abolirlo
    19:43 Il grillino Puglia la sa lunga: "accà nisciuno è fesso...voteremo la sfiducia al governo Berlusconi, anzi Renzi, tanto è lo stesso...ci scatenerete contro le truppe mediatiche ma non ci fermerete!"
    19:41 Minzolini recapita messaggio di B: "se la legge elettorale non si fa subito e non entra in vigore subito, il patto salta"
    19:39 Minzolini curvo sul foglio alza il tiro su Alfano cui ricorda "il caso kazako" e su Napolitano: "c'è qualcuno cui non piacciono le elezioni..."
    19:38 L'unico intervento di vera opposizione da Forza Italia è di Minzolini che alla Cinquetti contrappone i Jalisse: "ho sentito fiumi di parole..."
    19:37 Altro gioco di parole della Fuksia: "siamo alla pace dei Renzi..."
    19:36 La Fukia continua a poetare: "il governo sará foscolianamente una corrispondenza di amorosi Renzi..."
    19:35 La grillina Fuksia: "il governo è un misto di comunione e fatturazione e falce e carrello, più lei con l'aria fresca e scanzonata come se fosse al campo dei boy scout"
    19:28 Zanda capogruppo Pd sempre più scapigliato continua ad andare a trovare R
    19:24 Ecco Tremonti, una smorfia di disgusto sul volto
    22:42 E' tornata la Boschi, oggi in nero
    22:41 R è ormai esausto. I senatori prima di essere aboliti ancora parlano. La fiducia arriverà a notte fonda
    22:14 "Forse avrei dovuto fare un discorso più cerimonioso. Ma questo non è un lifting, non è un'operazione di potere. Noi ci giochiamo tutto".
    22:14 R. "L'Italia non può essere il paese del "grazie vi faremo sapere", è un paese che può essere leader nel mondo..."
    22:08 R. "Ho provato un senso di vergogna" quando non siete riusciti a trovare un successore a Napolitano
    22:06 Sacrosanto il passaggio sui 60 miliardi di mercato dei prodotti "Italian sounding", che "suonano" italiani ma non lo sono
    21:59 "Non siete in un Truman Show! Io non avrò mai un doppio registro. Vi rispetto ma non chiedeteci di essere diversi da come siamo fuori"
    21:58 Ora R rivendica di aver parlato in aula con lo stesso linguaggio e lo stesso tono di sempre e denuncia lo scollamento tra il Palazzo e i cittadini
    21:55 Renzi vagamente ironico: "E' stato un pomeriggio istruttivo per me..."
    21:38 Delrio: "Matteo non si aspettava questo gelo". Casini: "Socmel, cosa si aspettava? Ci ha detto che ci manda tutti a casa..."
    21:24 La Finocchiaro al nome Renzi increspa il bel volto in un'espressione di disgusto: "diciamo che non mi entusiasma..."
    21:20 Rubbia: "ma R i soldi dove li trova?"
    21:19 Bonaiuti: a Berlusconi il discorso di R è piaciuto
    20:27 Giovanardi alla buvette è sinceramente indignato: "ci ha preso per 315 beoti! Come se non avessimo mai visto una scuola, una comunità di recupero, un incidente stradale!"
    20:18 Finalmente un leghista, Volpi: "Non venga qui a fare Candy Candy..."
    20:17 Blundo, 5 stelle: "dietro di lei c'è De Benedetti!". I grillini devono avere con De Benedetti un fatto personale
    20:15 Purtroppo Grasso toglie la parola al leggendario Scilipoti
    20:15 Scilipoti ottimista: "la grande maggioranza degli italiani sta scivolando della povertà..."
    20:14 Parla il leggendario Scilipoti e non delude le attese: "intravedo un aspetto anticipatorio di elementi che conducono a una critica risoluta e implacabile..."
    20:13 Albert Laniece della Val d'Aosta annuncia che voterà la fiducia ma gradirebbe che R annullasse i tagli fatti da Trenitalia alle linee per la Val d'Aosta

24 febbraio 2014

Da - http://www.corriere.it/direttasms/renzielafiducia_95/index_renzielafiducia_95.shtml
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« Risposta #157 inserito:: Marzo 04, 2014, 07:23:54 pm »

Oscar a «la grande bellezza»
Premio a un film su Roma, ma non pensiamo che tanto ce la caveremo sempre
Riconoscimento alla pellicola sulla Capitale mentre vive un periodo di massimo discredito

Di Aldo Cazzullo

Toni Servillo in una scena de «La grande bellezza» di Paolo Sorrentino (Ansa/Fiorito)Toni Servillo in una scena de «La grande bellezza» di Paolo Sorrentino (Ansa/Fiorito)

La coincidenza è perfetta. «La grande bellezza», film ambientato, dedicato, ispirato a Roma fin dal titolo, vince l’Oscar proprio mentre Roma vive il tempo del suo massimo discredito: finanziariamente fallita, amministrata in modo pessimo, prigioniera dello smog e della sporcizia, impoverita dalla maleducazione di molti suoi abitanti e dall’incapacità di molti suoi politici. Così è Roma: una capitale non sempre all’altezza di se stessa, e nel contempo unica al mondo.

L’unica città del pianeta con quasi tre millenni di storia, morta e risorta più volte dalle sue stesse ceneri, fondatrice di un impero universale e centro della Chiesa cattolica, la quale in venti secoli non ha avuto solo demeriti e ha saputo rigenerarsi in modo straordinario proprio un anno fa, con l’elezione di Papa Francesco. (Si potrebbe fare un paragone con Il Cairo. Ma le piramidi sono un monumento morto a una civiltà morta; per visitarle si paga un biglietto. Il Pantheon è vivo, la gente entra ed esce liberamente, vi è sepolto il re che ha fatto l’Italia, vi riposa Raffaello; e, come fece scrivere il Bembo sulla sua tomba, la natura - definita «rerum magna parens», la grande madre delle cose - quando era vivo temette di essere vinta, e quando morì temette di morire con lui).

Pur non essendo romano, o forse proprio per questo, Paolo Sorrentino ha capito tutto. Mai nessun artista della sua, della nostra generazione aveva raccontato in modo così definitivo Roma, nella sua meraviglia e nella sua prosaicità, per il suo universale e per il suo provinciale, fin dalla prima inquadratura del film: la signora appoggiata ai gloriosi busti del Gianicolo con le ragnatele e la Gazzetta dello Sport aperta sul titolo «Allarme per Totti» (scena che sarebbe stata perfetta se al posto della milanese Rosea ci fosse stato il Corriere dello Sport). Il fatto che l’America premi un film su Roma proprio nell’ora del suo massimo discredito, non deve indurci a pensare che tanto alla fine ce la caveremo sempre. Deve farci sperare che non sia detta l’ultima parola, sulla nostra capitale e sul nostro Paese.

03 marzo 2014
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://cinema-tv.corriere.it/cinema/14_marzo_03/premio-un-film-roma-ma-non-pensiamo-che-tanto-ce-cavaremo-sempre-8ef26924-a2e6-11e3-b600-860f014e2379.shtml
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« Risposta #158 inserito:: Marzo 24, 2014, 05:19:52 pm »

LE DIFFICILI SCELTE SUI TEMI ETICI
Dialogo sereno senza ideologie

Di Aldo Cazzullo

Sempre più sindaci aprono registri delle unioni civili e dei testamenti biologici. È possibile che qualcuno sia mosso dall’ideologia. L’impressione è che molti rispondano a una domanda dei cittadini. Sono segni; che però non bastano. Servono leggi. Norme chiare, universali, condivise.

Di solito si obietta che in Parlamento non c’è una maggioranza definita, di sinistra o di destra, e quindi i temi etici vanno rinviati alla prossima legislatura: il vincitore deciderà. Ma è vero il contrario. Proprio perché il governo Renzi si regge su una maggioranza eterogenea (cui su alcune riforme si aggiunge Berlusconi), è questo il momento per trovare un’intesa al di là degli schieramenti e quindi rappresentativa delle varie sensibilità e culture del Paese, destinata a durare (almeno nelle linee di fondo) senza essere legata all’esito delle prossime elezioni.

L’Italia è l’unico Paese dell’Occidente a non avere una legge sulle unioni civili - che non sono il matrimonio omosessuale - e sul fine vita, che non è sinonimo di eutanasia. Il presidente Napolitano ha già sollecitato il Parlamento a intervenire. Sulle unioni civili e sul testamento biologico la Chiesa ha dato segnali di apertura al dialogo, a cominciare dal superamento dell’espressione stessa dei «valori non negoziabili», come ha chiarito papa Francesco nell’intervista al Corriere della Sera. Il buon senso e la cura delle persone sono parte della misericordia civile e religiosa. Devono prevalere sui modelli ideologici e sul disinteresse per la vita vera e il dolore altrui.

Finora i partiti hanno affrontato i temi etici più come una bandiera da sventolare che come una questione da risolvere. Non si sono confrontate due visioni dell’uomo e dei suoi diritti-doveri; si sono scontrate due opposte propagande. Il clima politico di questa legislatura, che sta cominciando a sciogliere con maggioranze ampie nodi ingarbugliati da anni, permette di proseguire lungo altre strade su cui serve un consenso vasto. Ad esempio, è possibile anche superare la rigidità di regole che rendono stranieri in patria i figli degli immigrati fino a diciotto anni, trovando un compromesso che leghi la cittadinanza al completamento di un ciclo di studi. Se le aule parlamentari saranno intasate per mesi dalle misure economiche e dalle riforme istituzionali, ciò non toglie che si possa lavorare alle nuove norme nelle commissioni, senza sottrarre tempo a una discussione approfondita ma anche senza rimandare tutto alla prossima legislatura, che tra l’altro potrebbe essere remota.

Ci sono diversi modi per tutelare i diritti, le aspettative, gli affetti, le cure. Il compito della politica è trovare una soluzione mediana tra impostazioni differenti. Quel che proprio non si può fare è chiamarsi fuori, rifiutare di assumersi responsabilità, rinviare sine die o limitarsi a gridare per rinfocolare la propria parte, lasciando i cittadini e le famiglie da soli con la frustrazione e la sofferenza.

© RIPRODUZIONE RISERVATA
20 marzo 2014 | 09:05

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_marzo_20/dialogo-sereno-senza-ideologie-db0e2a62-aff4-11e3-a027-9deb5b03f50b.shtml
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« Risposta #159 inserito:: Aprile 04, 2014, 04:37:12 pm »

Il premier spiega i quattro punti del piano: facciamo sul serio, anche Berlusconi deve rispettare il patto
«No, il Senato non sarà più elettivo»
Renzi striglia Grasso: «Lancia avvertimenti. Se la riforma non passa, mollo tutto. Ho giurato sulla Costituzione, non sui professoroni. Faremo il salario minimo»
di ALDO CAZZULLO

«Il Senato non deve essere eletto, se non passa la riforma finisce la mia storia politica. Se Pera o Schifani avessero lanciato avvertimenti come Grasso, la sinistra avrebbe fatto i girotondi sotto Palazzo Madama». Matteo Renzi, in un’intervista al Corriere, reagisce così alle parole del presidente del Senato sulla riforma. «Basta con i professionisti dell’appello - insiste -, ho giurato sulla Costituzione non su Rodotà e Zagrebelsky. Se vogliamo ribaltare burocrazia ed establishment dobbiamo partire dalla politica».

Matteo Renzi, il presidente del Senato è contro la sua riforma costituzionale. La leader della Cgil è contro la sua riforma del lavoro. Più in generale, l'impressione è che l'establishment, il sistema, non sia entusiasta dell'esordio del suo governo.
«L'impressione è che se ne siano accorti, che facciamo sul serio. Ci hanno messo un po', ma se ne sono accorti. Domani (oggi per chi legge) presenteremo il disegno di legge costituzionale per superare il Senato e il titolo V sui rapporti Stato-Regioni. Sarà uno spartiacque tra chi vuole cambiare e chi vuole far finta di cambiare. Entriamo nei canapi. Vedremo chi correrà più forte».
Le rimproverano proprio questo: l'impazienza, la precipitazione.
«Sono trent'anni che si discute su come superare il bicameralismo perfetto. Questo stesso Parlamento doveva approfondire il tema con la commissione dei 42. Non è più possibile giocare al "non c'è stato tempo per discutere". Ne abbiamo discusso. Venti giorni fa, nella conferenza stampa su cui avete tanto ironizzato, quella della "televendita", abbiamo presentato la nostra bozza di riforma costituzionale. L'abbiamo messa sul sito del governo. Abbiamo ricevuto molti spunti e stimoli, anche da Confindustria e Cgil, gente che non è che ci ami molto. Abbiamo incontrato la Conferenza Stato-Regioni e l'Anci. Abbiamo fatto un lavoro serio sui contenuti. Ora è il momento di stringere. Il dibattito parlamentare può essere uno stimolo, un arricchimento. Ma non può sradicare i paletti che ci siamo dati» .
Quali sono i punti irrinunciabili del vostro disegno di legge?
«Sono quattro. Il Senato non vota la fiducia. Non vota le leggi di bilancio. Non è eletto. E non ha indennità: i rappresentanti delle Regioni e dei Comuni sono già pagati per le loro altre funzioni».
L'elezione diretta dei senatori è il cardine della proposta di Pietro Grasso. E anche Forza Italia pare d'accordo.
«L'elezione diretta del Senato è stata scartata dal Pd con le primarie, dalla maggioranza e da Berlusconi nell'accordo del Nazareno. Non so se Forza Italia ora abbia cambiato idea; se è così, ce lo diranno. L'accordo riduce il costo dei consiglieri regionali, che non possono guadagnare più del sindaco del comune capoluogo. Elimina Rimborsopoli. È un'operazione straordinaria, un grande cambiamento. È la premessa perché i politici possano guardare in faccia la gente. Se vogliamo eliminare la burocrazia, le rendite, le incrostazioni, la logica di quella parte dell'establishment per cui "si è sempre fatto così", dobbiamo dare il buon esempio. Dobbiamo cominciare a cambiare noi. Con la legge elettorale, con l'abolizione delle Province, con il superamento del Senato. Rimettere dentro, 24 ore prima, l'elezione diretta dei senatori è un tentativo di bloccare questa riforma. E io domani (oggi, nda ) la rilancio. Scendo io in sala stampa a Palazzo Chigi, con i ministri, a presentarla».
Sarà un altro show?
«Ma no, lascio fare a loro. Però scendo anche io, ci metto la faccia. Quel che dev'essere chiaro è che su questo punto mi gioco tutto».
Sta dicendo che se non passa la vostra riforma del Senato cade il governo?
«Non solo il governo. Io mi gioco tutta la mia storia politica. Non puoi pensare di dire agli italiani: guardate, facciamo tutte le riforme di questo mondo, ma quella della politica la facciamo solo a metà. Come diceva Flaiano: la mia ragazza è incinta, ma solo un pochino. Nella palude i funzionari, i dirigenti pubblici, i burocrati ci sguazzano; ma nella palude le famiglie italiane affogano. Basta con i rinvii, con il "benaltrismo". Alla platea dei "benaltristi", quelli per cui il problema è sempre un altro, non ho alcun problema a dire che vado avanti: non a testa bassa; all'opposto, a testa alta. Noi il messaggio dei cittadini l'abbiamo capito, non a caso il Pd vola nei sondaggi: la gente si è resa conto che ora facciamo sul serio. Avanti tutta».
Ma cosa rimarrebbe da fare al Senato secondo lei?
«Il nuovo Senato non lavora tutti i giorni su tutte le proposte di legge, ma su quelle che riguardano la Costituzione, i territori, l'Europa. Vogliamo discutere una funzione in più o in meno? Benissimo».
Mario Monti propone di inserire rappresentanti della società civile.
«La proposta di Monti è dentro il pacchetto del governo, e ne rappresenta uno dei pezzi più delicati e discussi dai costituzionalisti: lasciamo ventuno senatori non scelti dalle Regioni e dai Comuni ma indicati dal capo dello Stato, in rappresentanza della società civile. Se non si deve costituzionalizzare la Camera delle autonomie, non per questo il Senato deve diventare il "Cnel-2, la vendetta". Il Cnel è uno dei grandi fallimenti della storia repubblicana. Non a caso tentano di difendere il Cnel parti sociali e associazioni di categoria che prima ci chiedono di cambiare tutto, poi ci mandano documenti affinché tutto resti com'è».
Grasso le ha detto con chiarezza che in Senato non ci sono i numeri per la riforma che vuole lei.
«Sono molto colpito da questo atteggiamento del presidente Grasso. Io su questa riforma ho messo tutta la mia credibilità; se non va in porto, non posso che trarne tutte le conseguenze. Mi colpisce che la seconda carica dello Stato, cui la Costituzione assegna un ruolo di terzietà, intervenga su un dibattito non con una riflessione politica e culturale, ma con una sorta di avvertimento: "Occhio che non ci sono i numeri". Mai visto una cosa del genere! Se Pera o Schifani avessero fatto così, oggi avremmo i girotondi della sinistra contro il ruolo non più imparziale del presidente del Senato. Io dico al presidente Grasso: non si preoccupi se non ci sono i voti; lo vedremo in Parlamento. Vedremo se i senatori rifiuteranno di ascoltare il grido di cambiamento che sale dall'Italia, il grido che tocco con mano con evidenza direi da sindaco quando vado in giro, quando leggo le mail che ricevo. C'è un Paese che ha voglia di cambiare. Noi al Paese avanziamo una proposta per ridurre i costi e aumentare l'efficienza della politica. Siamo disponibili a migliorarla; non a toccare i paletti concordati. Oggi vedremo se qualcuno si tirerà indietro. Lo dico per il presidente Grasso, che stimo: lanciare avvertimenti prima che la riforma vada in discussione è un autogol. Non lo dice il segretario del partito che l'ha voluto in lista, né il presidente del Consiglio. Lo dice un ormai ex studente di diritto parlamentare».
Guardi che i professori, da Rodotà in giù, le danno torto.
«Ho letto altri commenti di tanti professori, molto interessanti. Non è che una cosa è sbagliata se non la dice Rodotà. Si può essere in disaccordo con i professoroni o presunti tali, con i professionisti dell'appello, senza diventare anticostituzionali. Perché, se uno non la pensa come loro, anziché dire "non sono d'accordo", lo accusano di violare la Costituzione o attentare alla democrazia? Io ho giurato sulla Costituzione, non su Rodotà o Zagrebelsky».
La sua riforma costituzionale include le norme per rafforzare i poteri del premier, compresa la revoca dei ministri?
«Ne ha parlato Forza Italia. Ma non erano nell'accordo del Nazareno, e non le abbiamo messe».
Sulla riforma del lavoro il no viene dai sindacati, e dalla sinistra del Pd. Oggi i contratti a termine possono essere rinnovati una volta sola. Con il decreto del governo potranno essere rinnovati otto volte per 36 mesi. Non significa aumentare la precarietà?
«In questo momento la vera sfida è far lavorare la gente. Oggi la gente non sta più lavorando. La disoccupazione ha raggiunto percentuali enormi, atroci. Ne parlavamo con Obama, colpito dalla tenuta sociale di un Paese con il 12% di disoccupazione. È vero che noi abbiamo un welfare molto diverso da quello americano. Ma in questo scenario io credo che ci fosse bisogno di dare subito un segnale netto sul lavoro, in particolare su apprendistato e contratti a termine. Non si utilizzi questo segnale per trasmettere un'idea sbagliata. Il nostro obiettivo è rendere più conveniente assumere a tempo indeterminato piuttosto che a tempo determinato; ma non lo si raggiunge mettendo blocchi. Si può usare la leva fiscale, e vedremo se ci sono le condizioni. E si devono modificare in modo complessivo le regole, come faremo con il disegno di legge delega. Vedo che sta crescendo l'attenzione degli investitori sul nostro Paese. Certo, è il frutto di fenomeni macroeconomici nelle Borse di tutto il mondo, delle attese sulle nostre aziende. Ma ci sono anche grandi attese sul nostro governo: che sta portando gli interessi al livello più basso da anni; che sta portando capitali non dico a investire ma ad affacciarsi sul mercato italiano. Questo lo si deve pure alla determinazione con cui abbiamo voluto iniziare dalle riforme della politica e del lavoro».
Nel disegno di legge delega ci sarà pure il salario minimo?
«Ci saranno sia il salario minimo sia l'assegno universale di disoccupazione. Ne discuterà il Parlamento, anche delle coperture. Affronteremo una delle grandi questioni del nostro Paese: trovo sconvolgente che l'Italia abbia il tasso di natalità più basso. Dobbiamo garantire le tutele della maternità alle donne che non le hanno».
È imminente una tornata di nomine: Eni, Enel, Finmeccanica, Terna, Poste. Ci saranno uomini nuovi?
«Illustreremo le nostre scelte nei prossimi giorni. "Uno alla volta, per carità..."».
Le privatizzazioni delle aziende a controllo pubblico andranno avanti?
«La prossima settimana approveremo il Def che individua nel dettaglio le coperture per i tagli all'Irpef, all'Irap, alla bolletta energetica delle piccole e medie imprese, e individuerà la linea d'orizzonte economica di questo governo».
Sull'economia lei non mi sta rispondendo.
«Ma se la politica dimostra di saper riformare se stessa, l'Italia diventa credibile in Europa, e anche la sua credibilità economica cresce. Il nostro pacchetto di riforme ha impressionato i partner internazionali. Quel che conta adesso non è il programma; è il crono-programma. Tutti hanno sempre detto che bisogna superare il bicameralismo e ridurre i parlamentari; ora noi dobbiamo farlo, in tempi certi. Questo crea imbarazzi e difficoltà. Ma a me non interessa il futuro di un centinaio di politici. A me interessa il futuro delle famiglie italiane. Quando vado ai vertici internazionali immagino come sarà l'Italia da qui a cinque anni. Come sarebbe bello che l'Italia fosse più semplice, più smart, più attrattiva, che spendesse meno per gli interessi sul debito e più per il futuro. Io la vedo, questa Italia. Mi pare di toccarla. Ma il cambiamento deve partire dai politici. Come puoi cambiare il Paese e l'Europa, se non hai il coraggio di cambiare il Senato?».
A che punto è la storia delle sue case? Oggi il Fatto quotidiano scrive che, prima dell'appartamento pagato da Carrai, lei a Firenze aveva affittato una mansarda «a prezzo simbolico» da Luigi Malenchini, marito di Livia Frescobaldi, nominata dal Comune nel gabinetto Vieusseux.
«Capisco il tentativo di dimostrare che tutti sono uguali. Ma cascano male. L'appartamento non era semplicemente pagato da Carrai: era di Carrai. Chi doveva pagarlo, scusi! I miei contratti, come il mio conto corrente, sono pubblici e trasparenti. Io ho una sola casa e ho il mutuo sopra. Il cda del Vieusseux, come sanno tutti i fiorentini, è gratis, e comunque le nomine sono state fatte anni dopo il periodo dell'affitto, che tutto era tranne che simbolico, tanto e vero che ho disdettato dopo un anno perché non riuscivo a pagarlo. Ma visto che è stata chiamata in ballo la magistratura, che ha aperto un fascicolo, aspettiamo e vediamo cosa diranno i giudici. Capisco l'astio, ma su queste cose con me cascano male».

31 marzo 2014 | 07:46
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_marzo_31/no-senato-non-sara-piu-elettivo-7985844e-b895-11e3-917e-4c908e083af6.shtml
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« Risposta #160 inserito:: Aprile 28, 2014, 12:28:46 pm »

Canonizzazione La celebrazione, l’abbraccio con Ratzinger, l’annuncio di novità importanti sulla famiglia
Francesco e due uomini coraggiosi
Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II santi, l’elogio di Bergoglio

di ALDO CAZZULLO

Alla fine il Papa è, come deve essere, uno solo. Per quanto la folla saluti con un applauso le immagini di Roncalli e di Wojtyla sulla facciata di San Pietro, per quanto Ratzinger concelebri con 150 cardinali e 700 vescovi, il «giorno dei quattro Papi» consacra in realtà la rinascita della Chiesa, a poco più di un anno dall’elezione di Francesco. E Francesco ha voluto santificare nello stesso mattino due predecessori oggettivamente diversi come Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, ha abbracciato due volte - all’inizio e alla fine della cerimonia - il Papa emerito, e in questo modo ha collocato se stesso nel loro solco, in un’originale continuità, proprio nel momento in cui va misurando l’entusiasmo che accompagna la sua opera di rigenerazione del Vaticano e del cattolicesimo.

Due anni fa, in questi stessi giorni, i reporter di tutto il mondo venivano a Roma a raccontare di scandali, corvi, carte trafugate, spiritualità corrotte, poteri declinanti. Oggi, i volti associati a quelle vicende, al di là delle colpe e dei meriti, son ancora tutti qui. Sull’altare, insieme con l’arcivescovo di Cracovia Dziwisz e il vescovo di Bergamo Beschi, ci sono i due decani della Curia, Re e Sodano, e in prima fila l’ex segretario di Stato Bertone e l’ex potente capo dei vescovi italiani Ruini. C’è padre Georg. E c’è Ratzinger, palesemente emozionato, prima quando Napolitano va a chiedergli notizie della sua salute, poi quando Bergoglio gli rende omaggio, perché - come ha detto al Corriere - «il Papa emerito non è una statua in un museo, partecipa alla vita della Chiesa». Ma la stagione recente del Vaticano appare paradossalmente molto più remota rispetto a quelle evocate dalle immagini di Roncalli e Wojtyla e dai racconti dei pellegrini, raccolti in piazza e davanti ai diciotto maxischermi sparsi per Roma, dalle basiliche al policlinico Gemelli dove a Wojtyla salvarono la vita.

Oggi la Chiesa è Francesco. Apparso con i suoi due volti. Prima solenne con la mitra e gli occhiali, asciutto nell’omelia più breve che si ricordi, a volte in difficoltà nel respirare e nello scendere le scale. Poi del tutto trasformato a bordo della papamobile, ringiovanito, di buon umore, capace di riconoscere senza occhiali gli amici nella folla - «ti chiamo dopo» dice facendo con le dita il segno della rotella del telefono come si usava qualche tempo fa -, capace soprattutto di dare a ognuno l’illusione di essere riconosciuto, come se il Papa stesse indicando, benedicendo, parlando proprio con lui.

Di fronte alla complessità e alla durata del pontificato di Wojtyla, Bergoglio ha scelto di indicarlo come «il Papa della famiglia», ricordando i due Sinodi che nei prossimi mesi il Pontefice e i suoi vescovi dedicheranno appunto al matrimonio, alla maternità, all’atteggiamento verso i divorziati, su cui si annuncia un confronto serrato. Sarà quasi una sorta di Concilio, come quello legato alla memoria di Giovanni XXIII, che Bergoglio ha definito «il Papa della docilità allo Spirito Santo»: come a dire che il Vaticano II non è legato a una singola personalità - per quanto grande e ora anche santa - ma fu voluto da forze superiori a quelle umane; che la grande modernizzazione avviata da Roncalli, «guida guidata», è ormai inscritta nella storia della Chiesa, una volta superate le degenerazioni, che lo stesso Bergoglio in Sud America ha combattuto, e respinte le tentazioni di tornare indietro, che la sua elezione e il suo pontificato hanno spazzato via.

I fedeli sono qui dalle due del mattino. Quando si sono aperti i cancelli di via della Conciliazione, le avanguardie hanno preso posto e atteso l’alba pregando e cantando. Bivacchi attorno a Castel Sant’Angelo, sacchi a pelo, coperte termiche. I pellegrini hanno ritrovato luoghi e riti antichi: i francesi e gli africani francofoni in piazza Farnese, sotto la loro ambasciata e gli affreschi dei Carracci; i polacchi in piazza Navona, senza neanche un bagno. Calca e risse nei tentativi di avvicinamento a San Pietro, grida, malori, ambulanze: cento i ricoverati, nessuno grave. L’atmosfera del mattino ricorda i funerali di Wojtyla: vento, aria di tempesta, ma nonostante le previsioni il tempo tiene, le cento delegazioni entrano in piazza, resterà qualche sedia vuota ma non quelle di Mugabe e dei suoi cari che si portano in Vaticano a ogni occasione, i tiratori scelti sui tetti tengono nel mirino il Cupolone, 830 sacerdoti e diaconi si schierano in vista della comunione, 10 mila tra poliziotti, carabinieri e gendarmi vaticani fanno il loro lavoro; alla fine i pellegrini saranno un milione, inquadrati dal vero simbolo di Roma, che non è la lupa ma la transenna.

Ogni generazione parla del Papa della sua giovinezza. È anche la festa dell’identità nazionale polacca, e della piccola patria bergamasca. La teca con il sangue di Wojtyla è portata da Floribeth Mora Diaz, la costaricana guarita dopo aver sentito la sua voce; un’altra miracolata, suor Marie Simon Pierre, uscita dal Parkinson, legge una preghiera. L’urna con un frammento di pelle di Roncalli è portata dai quattro nipoti, dal sindaco di Sotto il Monte Eugenio Bolognini che è suo pronipote, da una suora delle Poverelle e da don Ezio Bolis, presidente della Fondazione che ne porta il nome. Il Papa buono non fa miracoli. Il suo miracolo, come nota l’altro pronipote Emanuele Roncalli, è aver condotto la Chiesa nella modernità, lui figlio di contadini ottocenteschi, è aver parlato la lingua dei semplici, lui che era un raffinato diplomatico ma come il gesuita Francesco sapeva, dopo aver molto studiato, rivolgersi a tutti.

Bergoglio bacia le reliquie e pronuncia in latino la formula della canonizzazione, interrotto dagli applausi: «Beatos Ioannem Vigesimum tertium et Ioannem Paulum secundum sanctos esse decernimus et definimus...». È l’unico momento medievale o comunque legato alla tradizione di una cerimonia globale. Anche il Novecento è finito: Wojtyla e Roncalli «sono stati sacerdoti, vescovi e Papi del ventesimo secolo, ne hanno conosciuto le tragedie, ma non ne sono stati sopraffatti - dice Francesco -. Più forte, in loro, era Dio; più forte era la fede in Gesù Cristo Redentore dell’uomo e Signore della storia; più forte in loro era la misericordia di Dio». Non hanno «avuto vergogna delle piaghe di Cristo», né hanno avuto pudore delle proprie sofferenze: se le immagini dell’agonia pubblica di Wojtyla sono nella memoria collettiva, anche Roncalli visse la malattia con dignità e forza morale; furono «due uomini coraggiosi».

Alla fine Francesco ringrazia il suo vicario Vallini, il sindaco Marino e le forze dell’ordine. Poi affronta le delegazioni, dopo aver reso omaggio alla statua lignea della Madonna. Il primo è Napolitano con la moglie Clio, poi il presidente polacco Komorowski, «los reyes catolicos» Juan Carlos e Sofia vestita di bianco di fronte al Papa, i reali del Belgio e altri ventuno capi di Stato, quindi i capi di governo, Renzi con la moglie Agnese, il nuovo premier francese Manuel Valls, e una teoria di africani e asiatici che abbracciano Bergoglio, si fanno imporre una mano sulla testa, chiedono di benedire la foto dei nipoti o invocano un selfie, accontentati a volte con un sorriso a volte con impazienza: la cerimonia dura da quasi due ore e mezza, e i fedeli in piazza aspettano di vedere Francesco da vicino.

Infatti la folla, rimasta a lungo in un silenzio impressionante, ora impazzisce, sulla Papamobile arriva di tutto, anche una sciarpa della Roma: lui ovviamente la prende e si fa fotografare. Marino balza a bordo e bacia il Papa sulle guance: lo fanno scendere. L’auto percorre il sagrato, la piazza, poi via della Conciliazione. La solennità della cerimonia si stempera nella festa, il vento sempre più impetuoso fa sventolare i vessilli polacchi e un po’ tutte le bandiere della cristianità. Si aprono le porte di San Pietro, i fedeli sfilano a rendere omaggio alle tombe dei nuovi santi, si annuncia che la basilica resterà aperta fino a notte, mentre finalmente la tensione del cielo si spezza in un temporale.

28 aprile 2014 | 07:06
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_aprile_28/francesco-due-uomini-coraggiosi-c7d00056-ce8f-11e3-b1ed-761dab5779b9.shtml
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« Risposta #161 inserito:: Maggio 26, 2014, 06:11:55 pm »

La sconfitta di un sistema
Il rigetto della classe dirigente europea


Di ALDO CAZZULLO

Non è il «voto di protesta» annunciato dai sondaggisti, e forse neppure lo «choc salutare» evocato da Prodi. È qualcosa di più. Le elezioni del 2014 saranno ricordate come la sconfitta storica di un sistema politico. L’eclissi dei partiti tradizionali. Il rigetto dell’establishment europeo. Proprio quando i cittadini sono chiamati per la prima volta a indicare il presidente della Commissione di Bruxelles, scelgono invece in percentuale mai viste movimenti che negano l’Europa e sostengono il ritorno al passato delle monete e delle sovranità nazionali.

Nel Regno Unito l’Ukip triplica il 3% delle Politiche del 2010, umiliando conservatori e laburisti. Il Front National passa dal 6% delle scorse Europee al 25, diventando il primo partito di Francia. E la bassa affluenza (a Londra ha votato solo un terzo dell’elettorato, a Parigi meno della metà, sia pure in leggera crescita rispetto al 2009) non può essere certo un alibi; semmai è un aggravante. Tanto più che le forze ostili all’Europa crescono dappertutto, dalla Danimarca all’Austria.

Il risultato di ieri indica due cose. L’Europa ha sbagliato la risposta alla crisi. Tutto il mondo ha reagito al crollo finanziario e industriale con una politica di espansione e di investimenti; solo l’Europa a guida tedesca ha seguito la linea dei tagli e del rigore, impoverendo tutti i Paesi tranne la Germania. Non deve stupire che il voto in Germania sia stato l’unico a riprodurre schemi tradizionali, isola rocciosa e refrattaria nel cuore della tempesta. Ma non è solo questione di politica economica. Il voto europeo conferma una tendenza diffusa ben oltre il continente: il segno del nostro tempo è la rivolta contro le élites, contro le istituzioni, contro le forme tradizionali di rappresentanza. E l’Europa è sentita come fondamento e garante di quelle élites contro cui ci si ribella: perché, come ha detto Marine Le Pen, «il popolo è stanco di obbedire a leggi che non ha votato e di sottomettersi a commissari che non hanno ricevuto la legittimità del suffragio universale».

Ovviamente, il successo di forze xenofobe e scioviniste deve preoccupare. Ma la risposta non è gridare allo scandalo. È un cambiamento profondo: apparati meno costosi, burocrazia più snella, un ceto politico capace di riformare se stesso, di rinunciare ai privilegi, di combattere la corruzione. In quasi tutta Europa, la sinistra non approfitta del fallimento di una Commissione di Bruxelles egemonizzata dal centrodestra, anzi arretra: perché la sinistra stessa è vista come parte di quelle élites, di quell’establishment, di quel sistema che viene rifiutato. Ma leggere un risultato epocale con le lenti tradizionali della dicotomia destra-sinistra non aiuta a capire. Il vero confronto di queste elezioni è stato tra l’alto e il basso della società: un confronto senza vincitori tra classi dirigenti anchilosate e populismo, tra il pensiero unico monetarista e la velleità di un impossibile balzo all’indietro.

L’Italia non fa affatto eccezione. Mai si era visto in una democrazia occidentale il movimento fondato da un ex comico arrivare alle percentuali raggiunte da Grillo un anno fa e quasi confermate ieri... E il Pd si afferma perché si affida a un giovane considerato fino a ieri un usurpatore, un alieno, un corpo estraneo al partito, emerso grazie alla rude richiesta di rottamare la nomenklatura della sinistra, e che pure a Palazzo Chigi ha continuato a costruire la propria politica «contro»: scegliendo come obiettivo polemico i sindacati, Confindustria, la burocrazia, le prefetture, la Rai, insomma il sistema. Un’Europa che funzioni meglio e una politica economica che mobiliti risorse ed energie contro la crisi saranno domani i rimedi migliori. Ma l’onda populista non refluirà tanto facilmente. E ogni Paese cercherà la propria soluzione. In Francia, ad esempio, il trionfo del Front National finirà per rimettere in campo l’unico che, piaccia o no, ha il carisma per contrastare Marine Le Pen: il vituperato Nicolas Sarkozy.

26 maggio 2014 | 06:55
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Da - http://www.corriere.it/politica/speciali/2014/elezioni-europee/notizie/sconfitta-un-sistema-1b57524e-e491-11e3-8e3e-8f5de4ddd12f.shtml
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« Risposta #162 inserito:: Maggio 29, 2014, 11:00:22 pm »

L’intervista al leader che nel 2008 aveva fatto raggiungere al partito il risultato più alto
Veltroni: «Grazie a Matteo si è avverata la vocazione maggioritaria»
Il fondatore del Pd: «Veniamo da mondi diversi, ma l’idea è la stessa. Lui ha quella cattiveria che io non ho saputo avere»

Di ALDO CAZZULLO

Walter Veltroni, il suo «record» delle elezioni 2008 è stato spazzato via.
«Sono tra quelli che hanno festeggiato il superamento di quella soglia, raggiunta in condizioni di grande difficoltà: la crisi del governo dell’Unione, la forza di Berlusconi».

Quella volta però vinse la destra.
«Il 2008 fu una tappa per insediare la ragione stessa della nascita del Pd: dare all’Italia quel grande partito riformista di massa che non aveva mai avuto. Un partito a vocazione maggioritaria, che andasse oltre le colonne d’Ercole dei 12 milioni di voti che la sinistra ha raggiunto nei suoi momenti più alti. Un partito votato dai piccoli imprenditori e dagli operai, perché ha a cuore la comunità nazionale, l’interesse generale del Paese. Un partito non “socialdemocratico” ma democratico, aperto a identità diverse. Per me è un sogno che si avvera».

In mezzo però c’è stata la rottamazione. La vittoria di Renzi non nasce anche dal fallimento della vostra generazione?
«Non mi pare la cosa più rilevante. La nostra generazione ha commesso molti errori, ma non si può dimenticare che ha portato per la prima volta la sinistra al governo, e ha posto le premesse, dal Lingotto al Circo Massimo, perché la vocazione maggioritaria del Pd si realizzasse. Renzi ha fatto emergere una nuova classe dirigente. Succede, è giusto, ed è nel corso della storia. Anche noi lo facemmo, quando passammo dal Pci al Pds».

Ma ci voleva uno che non venisse da quel mondo per raggiungere il risultato.
«Renzi e io veniamo da mondi diversi, ma abbiamo la stessa idea: il Pd non deve limitarsi a riempire il proprio recinto, per poi unirlo al recinto dei vicini. Il Pd deve saper parlare a tutti gli italiani. Questo risultato storico è frutto di due circostanze oggettive: il fatto che Renzi sia al governo da poco, e abbia indicato la possibilità di un cambiamento; e la crisi di Berlusconi. Ma c’è anche una circostanza soggettiva: la personalità stessa di Matteo, la sua determinazione, la “cattiveria” che io non ho saputo avere; cosa che mi sono sempre rimproverato come un difetto. Se il sogno si è avverato, il merito è suo. Compreso il merito di aver sfidato, da riformista, tutti i conservatorismi».

Come giudica il risultato di Grillo?
«L’esasperazione del linguaggio non ha pagato. Né ha pagato la logica dello scontro tra amico e nemico. Detto questo, Grillo è ancora sopra il 20%. Non ho mai creduto al parallelo con Marine Le Pen: l’elettorato dei Cinque Stelle è molto più complesso, esprime una richiesta di innovazione che in parte Renzi è riuscito a intercettare».

L’estrema destra nazionalista è il primo partito sia in Francia sia in Inghilterra.
«Questo rende ancora più prezioso il risultato raggiunto in Italia da un partito che ha un’idea indiscutibile e insieme innovativa dell’Europa. Ma sarebbe un grave errore che la Commissione di Bruxelles pensasse di averla sfangata e continuasse come prima. La crisi istituzionale ed economica genera paura, chiusura sociale, populismo: una somma di ingredienti che può creare guai spaventosi. L’Europa è come un aereo che ha superato la fase del decollo: o prosegue il volo, o si schianta. Dobbiamo fare gli Stati Uniti d’Europa, costruire l’Europa della tecnologia, dello sviluppo, dell’ambiente, delle politiche sociali».

In Italia si tornerà presto a votare per le Politiche?
«Non credo. Ho apprezzato le prime dichiarazioni degli esponenti di Forza Italia, che non rinnegano gli accordi sulle riforme elettorali e istituzionali. Nel progetto del Pd ci sono bipolarismo e alternanza, più capacità di decisione democratica, più poteri del governo, più controllo delle Camere, partiti aperti e trasparenti, una macchina dello Stato più leggera ed efficiente. Fare le riforme è il compito di questo Parlamento».

Berlusconi è finito?
«Se con tutto quello che è successo Berlusconi riesce ancora a mettere insieme il 16,8%, vuol dire che ha ancora un’area di consenso. Cercherà di mettere in campo una nuova leadership: probabilmente quella di sua figlia Marina».

Alfano tornerà con Berlusconi o resterà alleato del Pd?
«Sono contento che sia Vendola sia Alfano abbiano raggiunto il quorum. Alfano lavora per costruire un centrodestra moderato, nell’ambito di un bipolarismo normale. Non credo però che potrebbe stare in una destra antieuropea».

Ma con Grillo i poli non sono tre?
«Se le istituzioni funzionano, se la politica decide, anche Grillo non potrà limitarsi a dire no ma dovrà partecipare ad azioni positive. Attenzione però a non sottovalutarlo. E a non perdere di vista il 40% di italiani che si è astenuto, nonostante si votasse in due Regioni e in 4 mila Comuni».

Che effetto le ha fatto sentire piazza San Giovanni scandire il nome di Berlinguer, rispondendo all’invito di Casaleggio che evocava la questione morale?
«Berlinguer aveva ragione a porre la questione morale, che vale sempre, per tutti, ogni giorno. Ma è sbagliato usare Berlinguer nella battaglia politica. Io nel mio film l’ho raccontato fermandomi al giorno in cui è morto. Non si possono attribuire le proprie idee a chi non c’è più. Berlinguer è un patrimonio della democrazia italiana; come Moro, La Malfa, Pertini, Parri».

Se la legislatura continua, tra i compiti di questo Parlamento potrebbe esserci l’elezione del nuovo presidente della Repubblica.
«Tra i motivi per cui mi piace questo risultato, c’è la sconfitta dell’attacco a Napolitano. So quanto gli è costato restare al suo posto. Ora si può lavorare a quel percorso di riforme istituzionali che il presidente ha sollecitato al momento della sua rielezione».

Lei da segretario Pd avanzò la candidatura di Ciampi. Stavolta?
«Non ho più queste responsabilità. Si può amare il potere, e si può amare la politica. Se ami il potere, quando lo perdi è tutto finito. Se ami la politica, continui a farla per tutta la vita. Io sono fatto così: potrei avercela con Renzi; invece lo apprezzo. E ho fatto campagna per lui in giro per l’Italia come centinaia di migliaia di militanti».

27 maggio 2014 | 07:56
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DA - http://www.corriere.it/politica/14_maggio_27/grazie-matteo-si-avverata-vocazione-maggioritaria-1500e450-e563-11e3-8e3e-8f5de4ddd12f.shtml
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« Risposta #163 inserito:: Agosto 06, 2014, 04:30:06 pm »

Il sindaco di Firenze: I senatori sembrano marziani, lontani dalla vita reale
Nardella: contro i no meglio le urne
«Renzi lavora su una nuova classe di dirigenti al governo e nei ministeri.
Il caso Cottarelli? I tecnici devono eseguire, le scelte sono politiche»

Di Aldo Cazzullo

Dario Nardella, lei ha preso il posto di Renzi come sindaco di Firenze. Ma il renzismo oggi appare impantanato. Mentre il Senato da mesi discute di se stesso, l’economia è ferma. Cos’è successo?
«È successo che l’arrivo dei “barbari”, come siamo considerati dall’establishment e dalla vecchia classe politica, ha suscitato una reazione durissima e trasversale, che raggruppa partiti, economia, sindacati nella difesa del vecchio sistema. È un’Italia malata di accidia, che si macchia del peccato peggiore: l’avversione a operare. Un’Italia che giudica con insofferenza tutto ciò che spinge al cambiamento. La vicenda del Senato è emblematica».

Vista la crisi drammatica del Paese, non era meglio cominciare con l’economia, anziché con una prova di forza sulle riforme istituzionali?
«È vero che con il Senato non si mangia. Ma il bicameralismo causa gravi danni. Un provvedimento impiega 300 giorni a essere approvato in prima lettura; nel frattempo sono fallite centinaia di migliaia di aziende. La riforma del Senato è una condizione necessaria per recuperare la fiducia dei cittadini nella politica. Proprio per questo le ultime sedute, viste da fuori, sono imbarazzanti. I senatori sembrano marziani, lontani anni luce dalla vita reale. Ogni seduta è una pugnalata alla credibilità delle istituzioni».

Non sono soltanto le opposizioni ad accusarvi di fretta eccessiva e di autoritarismo.
«Fretta? Sono decenni che si discute. Anche la sinistra ha sbagliato quando contrastò in modo ideologico la riforma costituzionale del 2005».

Quella che aumentava i poteri del premier?
«E riduceva il numero dei parlamentari. Renzi ha fatto bene a cercare il più ampio consenso possibile sulle riforme. Ma le opposizioni sinora non hanno dimostrato di perseguire davvero il bene comune: altrimenti avrebbero presentato 10 o 20 emendamenti incisivi e per loro importanti, non ottomila. L’imboscata con il voto segreto è stata un avvertimento, un dispetto che peggiora la riforma, mantenendo al Senato competenze che non c’entrano nulla con la Camera delle autonomie. Spero ancora che la situazione si sblocchi. Anche sulla legge elettorale».

Credere di cambiare la Costituzione in poche settimane era un’illusione, non pensa?
«Come sindaco mi fa rabbia vedere una classe politica così ripiegata su se stessa, che attacca le riforme con argomenti assurdi. Mai come ora, il meglio è nemico del bene. A forza di cercare la riforma perfetta, si continua a rinviare. Questo è il momento di tirare le somme. Invece c’è tutta una parte del Paese, dai 5 Stelle a Sel ad altri mondi fuori dalla politica, convinta che debba trionfare Sisifo. Vorrebbero vedere Renzi e il governo trascinare ogni volta un masso sulla cima del monte, per poi farlo precipitare verso il basso e ricominciare da capo».

Quindi come se ne esce? Con le elezioni anticipate?
«Di fronte all’accidia di forze politiche che sanno dire solo no, tanto varrebbe fare la nuova legge elettorale e andare al voto. Il pantano del Senato fa male a tutti, e mina la nostra credibilità anche a livello internazionale. Resto convinto che si debba tentare sino alla fine di andare avanti con questo Parlamento e affrontare le riforme del lavoro e della pubblica amministrazione. Una verifica politica l’abbiamo avuta, anche se qualcuno vorrebbe dimenticarla: il 40,8% di appena due mesi fa. L’atteggiamento di chi contrasta l’esigenza di superare il bicameralismo offende la maggioranza degli italiani».

Ma si votava per il Parlamento europeo.
«Voto o non voto, comunque ci vuole una svolta. Bisogna sbloccare questa situazione. Così non si può procedere. Anche perché ci rimette tutta l’Italia».

Che effetto le hanno fatto le critiche di Diego Della Valle al premier?
«Sono rimasto sorpreso. Ho grande stima sia di Renzi sia di Della Valle. I loro rapporti sono sempre stati molto buoni. Sono sicuro che sia un’incomprensione superabile».

Della Valle ha posto anche la questione della squadra di governo. Dice che ci vorrebbero «molti Padoan». Uomini di maggior esperienza. Lei che ne dice?
«Matteo ha detto che quest’estate si concentrerà proprio sul rafforzamento della squadra, dal punto di vista sia tecnico sia politico. Le riforme ambiziose che Renzi vuole portare in fondo hanno bisogno di persone competenti e credibili. Oltre al leader, la cui bravura non è in discussione, molto dipenderà dal suo entourage. Sarà un passaggio decisivo».

Cambierà qualche ministro?
«Secondo me, i ministri lavorano bene. Fossi in lui cambierei quello che c’è sotto i ministri. Partirei dal rivedere l’assetto tecnico; anche perché è proprio tra i tecnici e nelle burocrazie che si annidano le maggiori resistenze. Renzi è andato a toccare punti sensibili: la battaglia sugli stipendi dei dirigenti pubblici, la riforma della pubblica amministrazione, i permessi sindacali, i tagli alla Rai. Tutte cose che sino a qualche mese fa erano tabù. Ora sono usciti allo scoperto non voglio dire i privilegi, ma uno status quo che nessuno aveva osato mettere in discussione. Sarebbe ingenuo pensare che non ci siano contraccolpi. Accanto a una classe politica nuova, occorre una nuova classe di dirigenti: a Palazzo Chigi, nei ministeri, nelle organizzazioni di rappresentanza sociale ed economica, nel privato».

Nel frattempo perdete Cottarelli. Che denuncia: i tagli sono già stati vanificati da nuove spese.
«A me pareva che si riferisse soprattutto al Parlamento. In ogni caso, Cottarelli non può fare la foglia di fico di una classe politica che non sa decidere. Condivido le parole del premier: le scelte di spending review sono scelte politiche; i politici che si nascondono dietro i supercommissari non sono convincenti. Da sindaco, dovendo tagliare la spesa e migliorare i servizi, non mi sono rivolto ai tecnici. I tecnici devono eseguire. Su stipendi, abolizione delle Province, costo del lavoro, pensioni decide la politica».

Si riferisce al taglio delle pensioni più alte?
«Immagino che l’esecutivo ci lavorerà dopo l’estate, insieme al Jobs Act».

Servirà anche una manovra correttiva?
«Non sono in grado di dirlo. Dipenderà da quello che ci dirà il governo, dai dati che arriveranno dopo l’estate. Da Firenze, città metropolitana che vale 31 miliardi di Pil, posso dirle quel che ci chiedono le aziende: infrastrutture e ripresa dei consumi».
Che languono.

«Debba arrivare o no una manovra, resto convinto che occorra proseguire sulla strada intrapresa con lo sblocca-Italia, per far ripartire le opere pubbliche, e con gli 80 euro, per spingere sui consumi».

La «svolta» che lei chiede significa anche allargare la maggioranza di governo a Berlusconi?
«Non mi pare un’ipotesi all’ordine del giorno. Diverso è il discorso sulla riforma del Senato e sulla legge elettorale. Sarebbe opportuno rivedere il patto del Nazareno su alcuni punti, ad esempio le preferenze. Con una sola Camera elettiva, è ancora più importante che i parlamentari siano rappresentativi del territorio e vengano scelti con il voto dei cittadini. Il modello dei Comuni resta un buon esempio».

3 agosto 2014 | 12:04
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« Risposta #164 inserito:: Agosto 06, 2014, 04:56:41 pm »

L’INCONCLUDENZA A CINQUE STELLE
Come disperdere un patrimonio

di Aldo Cazzullo

Esiste un confine tra la protesta e la sceneggiata, tra la critica anche dura e la sparata quotidiana, tra amministrare in modo più vicino alla sensibilità dei cittadini e assecondare le pulsioni istintive e disperate. Questo confine i 5 Stelle lo stanno oltrepassando. Al punto che il movimento, divenuto appena 18 mesi fa il primo d’Italia, rischia oggi di sgretolarsi, senza che i partiti abbiano concluso molto più di nulla nella riforma della politica e nel rilancio dell’economia.

Certo, le cose non vanno bene per nessuno. Il governo Renzi, dopo un avvio promettente e il successo elettorale, procede alternando proclami ed errori. Berlusconi sembra aver rinunciato a fare del centrodestra un’alternativa credibile, accontentandosi di una sorta di appoggio esterno all’esecutivo per gestire il proprio declino. L’Italia è l’unico grande Paese che non ha ripreso a crescere: la sfiducia e il disagio sociale si toccano con mano. Eppure la forza che si proclama unica opposizione non soltanto non trae alcun beneficio dall’impasse, ma continua a dare prove di inconsistenza.

La battaglia contro una riforma che non convince i costituzionalisti e non appassiona certo i cittadini è senz’altro legittima; ma i grillini non sono riusciti ad aggregare il dissenso né dentro né fuori dal Senato, e ne escono di fatto sconfitti, con il consueto corollario di scene imbarazzanti e difficoltà ortografiche. Mentre i parlamentari dimostrano la loro inadeguatezza, il Comune più importante conquistato dai 5 Stelle alle ultime e elezioni, Livorno, si schiera in difesa di Stamina. Alla crisi del movimento si aggiunge quella del leader. Beppe Grillo in questi anni ha dimostrato straordinarie doti di rabdomante e di comunicatore, ha intercettato e dato voce a un disagio trascurato dai partiti; ma ora appare intento a disperdere quel patrimonio con una serie di dichiarazioni balneari - è l’unico politico già in vacanza - con cui un giorno definisce Bossi «il più grande statista degli ultimi cinquant’anni», il giorno dopo sostiene che i suoi avversari sono peggio di un dittatore da migliaia di morti, in un crescendo che sarebbe ridicolo se non fosse preoccupante.

Liquidare il Movimento 5 Stelle come un’ondata populista destinata a rifluire rapidamente sarebbe sbagliato, oltre che irrispettoso del vastissimo consenso raggiunto alle elezioni politiche (e in parte confermato alle Europee). Al netto di un linguaggio inaccettabile, Grillo poteva rappresentare non soltanto uno sfogo alla protesta, ma anche una novità utile a scardinare un sistema ingessato. Chi l’ha votato, oltre a denunciare corruzione e privilegi scandalosi, voleva sbloccare un assetto in cui al fallimento di Berlusconi corrispondeva l’inadeguatezza del Pd di Bersani. Grillo è stato il volto italiano di una tendenza diffusa in tutto l’Occidente (determinante anche per il successo di Renzi): la rivolta contro le élites , il rigetto dell’establishment ; e la dinamica in cui i 5 Stelle si muovono non è più tra destra e sinistra, ma tra l’alto e il basso della società. È un fenomeno che può anche avere effetti positivi, se diventa motore del cambiamento. Ma se alimenta un falò di rabbia in cui ardono allo stesso modo colpevoli e innocenti, se liquida il dissenso con il rito catartico del linciaggio e dell’espulsione online, se asseconda le paure e le superstizioni antiscientifiche, se specula sulla fragilità e sulla rassegnazione di un Paese piegato dalla crisi, allora Grillo non serve a nessuno, neppure a se stesso.

6 agosto 2014 | 08:17
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