LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. => Discussione aperta da: Admin - Ottobre 25, 2007, 03:34:46 pm



Titolo: ALDO CAZZULLO.
Inserito da: Admin - Ottobre 25, 2007, 03:34:46 pm
Nel libro di Sergio Luzzatto ricostruite anche le diffidenti valutazioni del pontefice

«Padre Pio, un immenso inganno»

Giovanni XXIII annotava: «I suoi rapporti scorretti con le fedeli fanno un disastro di anime»

 
«Stamane da mgr Parente, informazioni gravissime circa P.P. e quanto lo concerne a S. Giov. Rotondo. L’informatore aveva la faccia e il cuore distrutto». L’informato è Giovanni XXIII. P.P. è Padre Pio. E queste sono le parole che il Papa annota il 25 giugno 1960, su quattro foglietti rimasti inediti fino a oggi e rivelati da Sergio Luzzatto. «Con la grazia del Signore io mi sento calmo e quasi indifferente come innanzi ad una dolorosa e vastissima infatuazione religiosa il cui fenomeno preoccupante si avvia ad una soluzione provvidenziale. Mi dispiace di P.P. che ha pur un’anima da salvare, e per cui prego intensamente» annota il Pontefice. «L’accaduto—cioè la scoperta per mezzo di filmine, si vera sunt quae referentur, dei suoi rapporti intimi e scorretti con le femmine che costituiscono la sua guardia pretoriana sin qui infrangibile intorno alla sua persona— fa pensare ad un vastissimo disastro di anime, diabolicamente preparato, a discredito della S. Chiesa nel mondo, e qui in Italia specialmente. Nella calma del mio spirito, io umilmente persisto a ritenere che il Signore faciat cum tentatione provandum, e dall’immenso inganno verrà un insegnamento a chiarezza e a salute di molti».

«Disastro di anime». «Immenso inganno ». Una delle «tentazioni» con cui il Signore ci mette alla prova. Espressioni durissime. Che però non si riferiscono alla complessa questione delle stigmate, su cui si sono concentrate le prime reazioni al saggio di Luzzatto, «Padre Pio. Miracoli e politica nell’Italia del Novecento», in uscita la prossima settimana da Einaudi. All’inizio dell’estate 1960, Papa Giovanni è appena stato informato da monsignor Pietro Parente, assessore del Sant’Uffizio, del contenuto delle bobine registrate a San Giovanni Rotondo. Da mesi Roncalli assume informazioni sulla cerchia delle donne intorno a Padre Pio, si è appuntato i nomi di «tre fedelissime: Cleonilde Morcaldi, Tina Bellone e Olga Ieci», più una misteriosa contessa che induce il Pontefice a chiedere se il suo sia «un vero titolo oppure un nomignolo». Nel sospetto—cui il Papa presta fede—che la devozione delle donne nei confronti del cappuccino non sia soltanto spirituale, Roncalli vede la conferma di un giudizio che aveva formulato con decenni di anticipo.

Al futuro Giovanni XXIII, Padre Pio non era mai piaciuto. All’inizio degli Anni ’20, quando per due volte aveva percorso la Puglia come responsabile delle missioni di Propaganda Fide, aveva preferito girare alla larga da San Giovanni Rotondo. Ma è soprattutto la fede ascetica, mistica, quasi medievale di cui il cappuccino è stato il simbolo, per la Chiesa modernista di inizio secolo come per la Chiesa conciliare a cavallo tra gli Anni ’50 e ’60, a essere estranea alla sensibilità di Angelo Roncalli. Che, sempre il 25 giugno, annota ancora: «Motivo di tranquillità spirituale per me, e grazia e privilegio inestimabile è il sentirmi personalmente puro da questa contaminazione che da ben 40 anni circa ha intaccato centinaia di migliaia di anime istupidite e sconvolte in proporzioni inverosimili». E, dopo aver ordinato una nuova visita apostolica a San Giovanni Rotondo, ad appunto quasi quarant’anni da quella compiuta nel 1921, il Papa conclude che «purtroppo laggiù il P.P. si rivela un idolo di stoppa».

Gli appunti di Roncalli rappresentano uno dei passaggi salienti dell’opera di Luzzatto. E, se letti con animo condizionato dal pregiudizio, possono indurre a giudicarla o come una demolizione definitiva della figura del santo, o come un’invettiva laicista contro un fenomeno devozionale duraturo e interclassista. Ma sarebbero due letture sbagliate. Il giudizio di Luzzatto su Padre Pio non è quello sommariamente liquidatorio, che si è potuto leggere ad esempio nel recente e fortunato pamphlet di Piergiorgio Odifreddi. Luzzatto prende Padre Pio molto sul serio. E, con un lavoro durato sei anni, indaga non solo sulla sua biografia, ma anche e soprattutto sulla sua mitopoiesi: sulla costruzione del mito del frate di Pietrelcina e sulla sua vicenda, profondamente intrecciata non solo con quella della Chiesa italiana, ma anche con la politica e pure con la finanza. Unmito che nasce sotto il fascismo (Luzzatto dedica pagine che faranno discutere al «patto non scritto» con Caradonna, il ras di Foggia; ed è un fatto che le prime due biografie di Padre Pio sono pubblicate dalla casa editrice ufficiale del partito, la stessa che stampa i discorsi del Duce). Ciò non toglie che l’esito di quella ricerca sarà inevitabilmente elogiata e criticata, com’è giusto che sia. Ma anche gli stroncatori non potranno non riconoscere che uno studioso estraneo al mondo cattolico ha affrontato la figura del santo con simpatia, nel senso etimologico, e non è rimasto insensibile al fascino di una figura sovrastata da poteri—terreni prima che soprannaturali—più grandi di lei, e (comunque la si voglia giudicare) capace di alleviare ancora oggi il dolore degli uomini e di destare un interesse straordinario.

Scrive Luzzatto che «l’importanza di Padre Pio nella storia religiosa del Novecento è attestata dal mutare delle sue fortune a ogni morte di Papa». Benedetto XV si dimostrò scettico, permettendo che il Sant’Uffizio procedesse da subito contro il cappuccino. Più diffidente ancora fu Pio XI: sotto il suo pontificato si giunse quasi al punto di azzerarne le facoltà sacerdotali. Pio XII invece consentì e incoraggiò il culto del frate. Giovanni XXIII autorizzò pesanti misure di contenimento della devozione. Ma Paolo VI, che da sostituto alla segreteria di Stato aveva reso possibile la costruzione della Casa Sollievo della Sofferenza, da Pontefice fece in modo che il frate potesse svolgere il suo ministero «in piena libertà». Albino Luciani, che per poco più di un mese fu Giovanni Paolo I, da vescovo di Vittorio Veneto scoraggiò i pellegrinaggi nel Gargano. Mentre Wojtyla si mostrò sempre profondamente affascinato dalla figura del cappuccino, che sotto il suo pontificato fu elevato agli altari.

 Non è in discussione ovviamente la continuità morale e teologica tra i successori di Pietro.Però è impossibile negare che i Pontefici succedutisi nel corso del Novecento abbiano guardato a Padre Pio con occhi diversi, comprese le asprezze giovannee. E, come documenta Luzzatto, quando «La Settimana Incom illustrata» sparò in prima pagina il titolo «Padre Pio predisse il papato a Roncall »”, compreso il dettaglio di un telegrammadi ringraziamento che il nuovo Pontefice avrebbe inviato al cappuccino, Giovanni XXIII ordina al proprio segretario di precisare all’arcivescovo di Manfredonia che era "tutto inventato": «Io non ebbi mai alcun rapporto con lui, né mai lo vidi, o gli scrissi, né maimi passò per la mente di inviargli benedizioni; né alcuno mi richiese direttamente o indirettamente di ciò, né prima, né dopo il Conclave, né mai».

Aldo Cazzullo
25 ottobre 2007

da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO.
Inserito da: Admin - Dicembre 29, 2007, 09:56:34 pm
Amato: no a un governo istituzionale

Se cade Prodi si vada alle elezioni

«Veltroni? Non si limiti a parlare a nome del Pd ma lavori per costruirlo»


 Giuliano Amato — «non può mai dirsi soddisfatto, alle prese com’è con il pozzo senza fondo della criminalità, se possibile aumentato di dimensioni con la criminalità importata. Anche in ragione della novità e della diversità di alcuni fenomeni criminali, gli italiani si sentono più insicuri di prima; e io devo tenerne conto. Posso però dire che diversi fenomeni di criminalità e di attentati alla sicurezza li abbiamo ridotti; e ciò, lo dico senza false umiltà, è dovuto almeno in parte al lavoro che abbiamo fatto nel corso dell’anno. Penso al decreto contro la violenza negli stadi, subito dopo l’uccisione del povero Filippo Raciti: a seguito delle misure di regolarizzazione degli stadi imposte da quel decreto, e della severità che abbiamo assunto, c’è stato un calo impressionante— oltre il 30%—dei feriti e degli incidenti.

Abbiamo adottato ad agosto il decreto di modifica al codice della strada: i controlli sono quadruplicati, e gli incidenti e i morti sono diminuiti. Con i patti per la sicurezza è aumentato il controllo nelle città: è stato il "Corriere" a pubblicare, tre giorni fa, dati che dimostrano come la maggior parte dei reati siano in diminuzione; come minimo, abbiamo riassorbito gli indubbi effetti dell’indulto. Ma abbiamo avuto grandi risultati anche nei confronti della criminalità organizzata.

In Sicilia, la mafia ha subìto un colpo dopo l’altro. Dopo la strage di Duisburg, abbiamo preso a radere le teste della ‘ndrangheta. La pressione sulla camorra e il numero dei camorristi presi sono elevatissimi. Questo si deve a un mix tra la continuità del lavoro di questo governo con il lavoro del governo precedente, e la qualità delle forze dell’ordine». Amato tiene in particolare a questo punto. «A volte noto che nella polemica politica si comincia a enfatizzare la percezione dell’insicurezza, per bollare di inettitudine la gestione della sicurezza in atto. Dimenticando che, se noi abbiamo adottato misure che hanno contribuito a rafforzare la sicurezza, chi la gestisce sono le centinaia di migliaia di persone che fanno parte delle forze dell’ordine.

Quando si è all’opposizione, è bene si sia consapevoli che se si sfotte la politica economica si sfottono i ministri e il governo che la fanno; se si dice che non c’è sicurezza, che la gestione della sicurezza è tale che prevale la paura, non si sta criticando solo un governo, si stanno criticando quelle forze dell’ordine che dopodomani ci si troverà ad avere quando si assumeranno responsabilità di governo. La sicurezza non la fa un ministro, anche se un ministro può concorrervi. In passato, questa consapevolezza aveva indotto in genere le opposizioni a mantenere verso la sicurezza un atteggiamento che la isolava dalla polemica quotidiana.

Tra i tanti fenomeni sgradevoli, alienanti di questa legislatura c’è stata anche l’occasionale caduta della stessa sicurezza nel calderone della dilaniante polemica politica. Questa è una pessima cosa, e finisce tra l’altro per creare situazioni che non basta il volontarismo o l’astratta geometria dei desideri politici a sciogliere». Ecco quindi la conseguenza politica, secondo il ministro dell’Interno. «Si parla di fare governi istituzionali. Ma come si possono fare governi sostenuti in modo bipartisan dagli uni e dagli altri, se questi uni e altri passano il tempo a mordersi i polpacci? C’è in Italia il clima necessario per soluzioni del genere? Io ritengo che il clima non ci sia.

Ritengo che un’intesa sia possibile, ma in Parlamento, sul terreno delle regole del gioco, non sulle politiche che qualunque governo è tenuto a fare. Credo che la legislatura debba comunque continuare; ma oggi il perdurare della legislatura trova una ragione superiore in un compito di riforma istituzionale. Che è del Parlamento, non dell’esecutivo. Tutti coloro che sinora si sono riconosciuti nella maggioranza, se ritengono che il Parlamento debba fare questo lavoro, in nome di questo lavoro faranno bene a serrare i ranghi; e a serrarli anche attorno al governo, per quello che il governo deve fare». Neppure Amato può sottrarsi all’impressione di sfarinamento della maggioranza. «Un’impressione che può avere due fondamenti. Questo continuo dissentire all’interno della maggioranza, fenomeno che la scorsa legislatura ha conosciuto con il centrodestra e questa legislatura conosce con il centrosinistra.

Il centrodestra cominciò a perdere consensi quando diventarono visibili e trasparenti le liti interne; noi, che non amiamo arrivare secondi, abbiamo cominciato a renderle visibili e trasparenti fin dall’inizio. E questo è il male profondo del sistema politico italiano — un bipolarismo che costruisce cartelli elettorali più che maggioranze di governo —, al quale si dovrebbe provvedere con le nuove regole istituzionali ed elettorali. Il secondo fattore dell’impressione di "sfarinamento" è la nostra esigua maggioranza al Senato. Basta il mugugno di due senatori per scivolare verso l’orlo della non maggioranza. Ammetterà che, se i seggi di differenza fossero 30 o 40, il fatto che tre parlamentari di cui tutti conosciamo il nome dissentissero regolarmente non scalderebbe nessuno.

Questa storia è il frutto di una maggioranza particolarmente esigua. Certo, bisogna saperla gestire. Qui noi dobbiamo ricomporre i dissensi che non ci possiamo permettere. Se non ci riuscissimo, sarebbe la fine del governo. E, se si arriva proprio sull’orlo della primavera, supponendo che la Corte costituzionale dia il via libera al referendum, lo scivolo verso le elezioni anticipate diventerebbe a mio avviso assai, assai ripido».

La riforma elettorale che si profila non rappresenta secondo Amato un pericolo per il bipolarismo. «Noi italiani siamo a volte curiosi: adattiamo la realtà ai nostri desideri, con passione latina più che con lo scientifico rigore nordico che occorrerebbe. Cominciamo con l’aderire a un modello altrui — tedesco, spagnolo —, e appena scegliamo ne desumiamo polemicamente che ci riporta al nostro passato. Ma in Germania, come in Spagna, c’è un tendenziale bipolarismo; e nessuno di questi modelli ha mai prodotto il tipo di coalizioni di governo liberamente scelte in Parlamento che caratterizzarono i primi quarant’anni della nostra Repubblica. Parla di ritorno al passato chi si è innamorato del maggioritario con premio di maggioranza; ma chiude gli occhi sul fatto che i cittadini oggi non scelgono il governo, scelgono la coalizione che deve vincere e il governo che deve litigare. Noi ci siamo affidati al premio di maggioranza perché incapaci, in ragione della nostra guicciardiana propensione alla frammentazione, di dar vita a partiti a vocazione maggioritaria.

Se vogliamo adottare il modello tedesco, o spagnolo, o francese, dobbiamo avere il coraggio di riconoscerci in un partito di centrosinistra e in un partito di centrodestra che arrivino ciascuno verso il 40%, con uno spazio minore per diversità sui due lati. Se noi italiani non riusciamo a produrre due partiti di queste dimensioni, è inutile che andiamo alla ricerca di artifizi nelle leggi elettorali per darci governi che non riescono a governare. Discutiamo di modelli elettorali dal ’92, perché dopo il ‘92 il sistema politico ha finito per produrre frammenti che al massimo arrivano al 25%. E’ chiaro che non c’è Spagna, Germania o Francia che tengano; il nostro è simile ai sistemi dei Paesi ex comunisti, in cui, venuto a mancare il collante più o meno artificiale del grande partito, c’è uno sfrangiamento generale».

Per questo Amato è stato grande sostenitore del Pd, «e ora guardo con piacere a quello che sta cercando di fare Berlusconi. Io non amo lo stile con cui sta organizzando il nuovo partito: via la cravatta; maglietta e predellino; "io sono uno di voi, eccomi qua in piazza a parlarvi". Questo mi pare un espediente più da mimo che da leader politico, quale Berlusconi ormai è. Al netto del mimo, però, lui ha capito, come abbiamo capito noi, che si deve puntare al 40%. Non è la legge elettorale che crea il bipolarismo; è la politica che lo crea, e la legge elettorale lo fa funzionare ».

Se dall’altra parte c’è Berlusconi, il Pd ha il problema della convivenza tra due leader, Prodi e Veltroni? «Quando ci sono due figure tiranti, c’è sempre il rischio che si pestino i piedi. Veltroni però ha la responsabilità non solo di parlare a nome del Pd, ma anche di costruirlo. Di portarlo a essere qualcosa di più e di diverso dalla giustapposizione di due nomenklature, di questo primo grezzo prodotto che va rapidamente superato. Prodi è il leader che deve far funzionare, ahilui, questa coalizione. Sono due compiti diversi. Io ero cresciuto in una stagione politica in cui il partito dominante, che non era il mio, ha sempre tenuto distinte le due figure. E questo non ha danneggiato la Dc, anzi l’ha aiutata a vivere a lungo».

Ma la caduta del consenso del governo e in genere il malumore dell’Italia di fine 2007 come si spiegano?

Amato individua due fatti specifici. «La capacità d’acquisto; giustamente, Prodi ora ha preso questo toro per le corna. E la percezione, diffusa tra gli italiani, del bisogno di una politica che li faccia correre di più. Se nonostante i successi la produttività resta così bassa, significa che la politica, troppo intenta ai litigi interni, non riesce a far correre gli italiani come loro stessi vorrebbero. Un mio amico ha chiesto un mutuo a una banca francese e a una italiana: la differenza era di un punto; e questo perché da noi una causa civile, come quella che occorrerebbe per riprendere una casa a chi non pagasse il mutuo, dura dieci anni. Queste sono differenze che umiliano gli italiani ».

Aldo Cazzullo
29 dicembre 2007

da corriere.it


Titolo: Aldo Cazzullo Pecoraro Scanio...
Inserito da: Admin - Gennaio 09, 2008, 11:48:35 pm
Il ritratto

Pecoraro Scanio, il «signor no» ora ha detto sì anche all'esercito

Retromarcia verde dopo gli alt a Ogm, Tav, discariche e alberi di Natale

 
«Muoveremo l'esercito!». Il ministro Alfonso Pecoraro Scanio sorrideva felice con i collaboratori, l'altra sera, alla fine di Porta a Porta: «Allora, come sono andato? ». «Inguardabile» scrive sul suo blog Peppino Caldarola, ex direttore dell'Unità; «al confronto, Bobo Maroni pareva Churchill». Per un giorno, l'opposizione si ricompatta. L'Udc parla di «deprimente performance»; Forza Italia di «eroe della sceneggiata napoletana », «figura pietosa», «recita indecorosa ». Cicchitto lo sopravvaluta: «Pecoraro è un pericolo per l'Italia». Casini lo sfida «a un confronto pubblico, preferibilmente a Napoli». Lo criticano Di Pietro e Europa, il giornale della Margherita. Caldarola, implacabile: «Non riesce a prendere sul serio neppure le tragedie. E' ilare. Come quelli che si danno di gomito e ridono ai funerali». In effetti, Pecoraro fu fotografato sorridente in chiesa, nel maggio 2006, al funerale di tre caduti a Nassiriya. Una specie di maledizione. Mentre, la notte del 23 settembre scorso, a New York Prodi e D'Alema concordavano il blitz per liberare gli agenti segreti in mano ai talebani, nello stesso grattacielo lui veniva beccato dall'inviato del Corriere Maurizio Caprara «in uscita dal 27˚ piano dell'hotel Millenium, dove c'è una cinematografica piscina sospesa tra le luci della Grande Mela».

Anche in occasione dell'emergenza rifiuti, il ministro dell'Ambiente è stato sfortunato. Un capro espiatorio. «Iniziamo a smaltire questi due» titola Il Giornale sopra la foto di Bassolino in giacca e cravatta e di Pecoraro descamisado. Ma, se il governatore ha forse responsabilità più gravi, la sua caduta ha un'aura di grandezza, viene ricondotta al filone delle tragedie napoletane, è raccontata come un Rinascimento tradito; Pecoraro viene liquidato, certo ingiustamente, come un epigono minore di Mario Merola. Un poco è anche colpa sua. L'uomo che ora vuol muovere l'esercito, sino a poco fa capeggiava o difendeva le truppe avverse. «Insieme ci siamo battuti come leoni» si inteneriva Tommaso Sodano, battagliero parlamentare di Rifondazione. No agli inceneritori. No al decreto del governo per istituire quattro nuove discariche. No in particolare alla discarica di Serre («ma era vicina a un'oasi del Wwf! E poi ho trovato un'alternativa, a Macchia Soprana! » si difende Pecoraro). No alle cariche per liberare i blocchi stradali (era il maggio 2007: «Amato sbaglia, si torni al dialogo»). E poi: no al vertice Nato a Napoli. No al fumo nei parchi napoletani, se nel raggio visuale del fumatore compaiono bambini o donne incinte (non sarà eccessivo in una città avvelenata dall'immondizia? «Macché; il divieto coniuga ambiente e tutela della salute »). Ancora: no agli ogm. No all'intervento italiano in Afghanistan nel 2001. No ovviamente al ponte sullo Stretto e al tunnel della Valsusa. Ma no pure alla pesca del tonno rosso e all'albero di Natale («basta tagliare abeti; meglio quelli sintetici, oppure il presepe. Napoletano»). «Bello, moro e dice sempre no» titolò La Stampa. Eppure di sì ne ha detti molti. Sì alla nomina a «patrono del pesce azzurro» del neomelodico Gigi D'Alessio, e a subcomissario per i rifiuti di Claudio De Biasio, prontamente arrestato («veramente mi ero limitato a inserirlo in una rosa di nomi...»). In Parlamento si è battuto per la creazione del museo del mandolino, di una lotteria da abbinare al festival di Sorrento, di una cattedra di agraria a Cassino.

 E poi per il contratto degli operatori shiatsu, in difesa dei pit-bull, contro la sparizione dei gelati Algida nel Napoletano, «forse a opera della camorra». Suggerì di adottare in blocco le pecore sarde e di proclamare la pizza «patrimonio dell'umanità». «Sono ecologista fin dal liceo classico - spiegò - . Se si fa il bagno a via Caracciolo è merito nostro! E siamo stati noi, attraverso il ministro verde Gilberto Gil, a ottenere che il Brasile votasse in favore dei grandi cetacei!». Contestato è invece il noto episodio della visita da ministro dell'Agricoltura alla fattoria modello: «Che bella mucca!». Era un toro. Lui però nega: «Non è vero. E poi uno mica si china a controllare...». La grande fama venne con il coming- out, provocato da un memorabile corteo pre-Gay Pride sotto il ministero («Pecoraro vieni giù/ che sei frocio pure tu»). Lui la prese bene, e ammise la sua bisessualità. «Sono quelle cose che si dicevano a sedici anni, così, per fiutare un po' l'aria» scosse il capo Nichi Vendola. Poi Pecoraro precisò: «Sono un uomo mediterraneo che sente in sé la tradizione greco-romana». Infine, a Vanity Fair: «Da quando sono uscito allo scoperto, con le donne acchiappo di più». Marina Ripa di Meana assentì: «Aspetto epico da ragazzo di vita pasoliniano; riccetti neri, occhi malandrini, parola abrasiva; dopo mezz'ora, il più delle volte si è diventati amiconi di Pecoraro Scanio». Ha cantato a Sanremo, ballato a Furore, fatto un coro con Alessandra Mussolini da Costanzo. Si è anche esibito con Aida Yespica al Bagaglino; come quasi tutti i politici, però. Originale fu invece la torta per il compleanno di Tangentopoli, offerta davanti a Montecitorio con al posto della ciliegina un paio di manette; seguì festa al Gilda on the Beach, con Pecoraro che saliva su un cammello incitando: «Ad Hammamet!». Suo il primato di dichiarazioni all'Ansa: 2627, come da complesso calcolo aggiornato a tre anni fa. Nella classifica di Porta a Porta, invece, è secondo: con oltre cinquanta apparizioni, tallona Bertinotti. «E' che io funziono si è schermito lui - . Dicono che sia vanitoso; è vero, ma a modo mio. La mia vanità non è nell'apparire; è nel persuadere. Conquistare le anime e le intelligenze, vedere l'interlocutore battuto, l'ascoltatore sedotto: ecco la mia vanità». «Il fatto è - tagliò corto Vespa - che mentre altri fanno i difficili, ogni volta che invito Pecoraro, lui viene sempre». Nel «salotto» di Vespa Il governatore della Campania Bassolino e il ministro dell'Ambiente Pecoraro Scanio a «Porta a Porta»

Aldo Cazzullo
09 gennaio 2008

da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO.
Inserito da: Admin - Gennaio 16, 2008, 02:03:00 pm
Il «capo» della rivolta «Nel '56 mi opposi all'invasione dell'Ungheria, Pajetta mi fece nero»

Cini, il «vendicatore» di Galileo: criticai pure il Pci


ROMA — L'ombra di Galileo attendeva da quattro secoli il professor Marcello Cini che la vendicasse. Almeno, il professor Cini ne sembra convinto. «Sin dai tempi di Cartesio si è addivenuti, per porre fine al conflitto fra conoscenza e fede culminato con la condanna di Galileo da parte del Santo ufficio, a una spartizione di sfere di competenza tra l'Accademia e la Chiesa. La sua clamorosa violazione nel corso dell'inaugurazione dell'anno accademico de La Sapienza sarebbe considerata, nel mondo, come un salto indietro nel tempo...».

Il professor Cini non è solo l'artefice della lettera aperta dello scorso 14 novembre, che ha innescato l'incidente più serio con il Vaticano da tempo immemorabile. E' uno dei grandi vecchi (84 anni, quattro più del suo avversario Ratzinger) della cultura italiana. Fin da quando, oltre mezzo secolo fa, Edoardo Amaldi, Enrico Persico e Giorgio Salvini — vale a dire, la Fisica — lo chiamarono a insegnare proprio alla Sapienza. «Cattivo maestro » si definisce (riprendendo un'invettiva di Giorgio Bocca) nel titolo della propria autobiografia intellettuale, pubblicata nel 2001 da Bollati Boringhieri. Ma si capisce bene che scherza e, in fondo, si stima. «Non posso fare a meno di domandarmi se non mi sono troppo spesso identificato con Charlie Brown quando confessa: odio la gente, ma amo l'umanità!», ha scritto di sé. Di Ratzinger, invece: «Ci vuole un bel coraggio a nascondere sotto lo zerbino le crociate, i pogrom contro gli ebrei, lo sterminio degli indigeni delle Americhe, la tratta degli schiavi, i roghi dell'Inquisizione... ».

Nato a Firenze, formatosi al liceo D'Azeglio di Torino, iscritto al Pci fin dai primi anni del dopoguerra, nel '56 porta al congresso della federazione di Catania, dove insegna, una mozione di critica all'invasione dell'Ungheria: «Pajetta mi rispose facendomi nero, con il sarcasmo che gli era abituale».

Critico da sinistra del togliattismo, amico di Raniero Panzieri, fu l'unico tra i docenti di fisica — lo racconta il suo allievo Marco D'Eramo — a schierarsi con gli studenti ribelli del '68. Cofondatore del Manifesto. E poi: Medicina democratica, la polemica con Emilio Sereni reo di aver esaltato lo sbarco americano sulla luna («ma quale progresso, è stato il più fantastico spettacolo di circenses offerto alla plebe dai tempi di Nerone! »), i protoambientalisti, la battaglia contro il nucleare. Ma Cini ha lasciato il più ampio segno di sé con «L'ape e l'architetto», che fu il caso politico-culturale del 1976. Un titolo mutuato da Marx, un pamphlet a più mani per dire che la scienza non è mai neutrale, non è indifferente alla storia, alle idee, e soprattutto agli interessi. La reazione dei colleghi fu ora ammirata, ora beffarda; uno di loro replicò che i corpi cadevano nel vuoto allo stesso modo, sia che al potere fossero i democristiani, sia i comunisti. Lucio Colletti infierì: «C'è una certa differenza tra le verità scientifiche e la predica di un parroco o la relazione di un segretario generale». «Il mio vero rimpianto — si immalinconì lui — è che uno impara a vivere quando non gli serve più». Serviva invece a respingere Benedetto XVI, che gli ha regalato una seconda giovinezza: «Possiamo tollerare che il papa », minuscolo ovviamente, «possa dire ai nostri colleghi biologi che non devono prendere sul serio Darwin?».

Capelli bianchi, occhi azzurro pallido, una riproduzione di Guernica dietro la scrivania, Cini non è mai stato un intellettuale retrivo. Pronto già nel '94 a dichiarare la fine del paradigma delle certezze («Un paradiso perduto» uscì da Feltrinelli), è stato tra i primi a occuparsi di bioetica e a denunciare «il pericolo maggiore, una visione di onnipotenza». Critico della clonazione e della scienza ridotta a mercato, ha ammonito a non demonizzare gli ogm — «non fanno peggio delle sigarette e degli hamburger» — e ha invitato la sinistra a diffidare «degli scienziati che giocano a Dio», e anche un poco di se stessa.

Proprio sul Manifesto scrisse: «Io non capisco più cosa voglia dire l'aggettivo "comunista" che compare sulla sua testata».
Ha fatto autocritica sui figli — «dev'essere stato difficile per loro avere un padre ingombrante, egocentrico e non sempre presente» —, si è sporto sull'orlo di una confessione di fallimento: «Ho passato gran parte della mia vita concentrandomi sul comunismo e sulla fisica. Ora viviamo in un mondo in cui non c'è il comunismo e non c'è la fisica». Resiste invece Ratzinger, il quale «ha solo cambiato strategia. Non potendo più usare roghi e pene corporali, ha imparato da Ulisse. Ha utilizzato l'effigie della Dea Ragione degli illuministi come cavallo di Troia per entrare nella cittadella scientifica e metterla in riga». Sulla soglia, però, l'attendeva il professor Cini.


Aldo Cazzullo
16 gennaio 2008

da corriere.it


Titolo: Professori soddisfatti: dialogo, non dogmi
Inserito da: Admin - Gennaio 16, 2008, 02:09:07 pm
Il fronte del «no» L'ex preside di Sociologia: «È la soluzione meno peggiore»

I docenti «ribelli» esultano «Vittoria dell'autonomia»

Professori soddisfatti: dialogo, non dogmi


ROMA — «Giovedì senza di lui sarà una grande festa». Il Papa abbandona e chi lo aveva contestato brinda a Galileo. Uniti per un giorno scienziati e studenti fuori corso, artisti e pensatori vantano la vittoria del libero pensiero sul dogma, della laicità sul clericalismo e persino della tolleranza sull'integralismo.

A Fisica, motore della rivolta, c'è un'aria di pericolo scampato. E Carlo Bernardini, ex docente di metodi matematici e mito in facoltà, riassume perché: «È il primo atto di buona volontà del Papa: non mi sembra il caso di far nascere tafferugli ». Non è una censura? «No, può parlare quando vuole in altre sedi.
Non era il caso di inaugurare l'anno accademico con un'autorità religiosa (perché come filosofo un credente è un po' fiacchetto)». «La paura — spiega l'ex preside di Sociologia delle comunicazioni Paolo De Nardis — era che dalla pena di morte passasse a parlare di aborto: per una vicenda nata male è la soluzione "meno peggio" ». «Ha vinto l'università laica del sapere autonomo» gioisce Francesco Brancaccio (collettivo di fisica). «Il Papa incarna uno dei poteri forti che portano all'arretramento culturale »rincara Fabio Ingrasso (Unione Universitari).

E parla di «vittoria strepitosa» Francesco Raparelli, leader degli studenti in rivolta. «Il Papa si ritira con le sue divisioni — festeggia il leader cobas Piero Bernocchi —. Pretendeva di dare direttive alla maggiore università statale. Come se un fisico cantasse a Natale alla Sistina per il Papa».

Ma è una festa amara per chi, come il filosofo Paolo Flores D'Arcais teme che «ora il Papa verrà fatto passare come una vittima.

In realtà censurati e oscurati dalle tv sono solo i laici e gli atei». Per la cantautrice Fiorella Mannoia «papa Ratzinger paga i suoi atteggiamenti oscurantisti diventati intollerabili. Non si può legiferare nulla che c'è il veto della Chiesa (come su Pacs e staminali)». Lo scrittore Erri De Luca approva: «Non si va dove non si è desiderati». E difende la protesta: «E' legittima perché l'invito a lui era fuori dall'ordinario». «La sconfitta della democrazia e della laicità era tutta in quell'incredibile invito » concorda D'Arcais.

Ugo Rubeo, americanista, continua a raccogliere firme per declinarlo: «L'Università è la sede del dialogo ma Ratzinger alla ragione preferisce i dogmi.

Padrone. Ma anche noi di non esserci.

Era ciò che volevamo fare ma avremmo preferito tenesse duro. Ora ci daranno tutti addosso ».

Tra le firme l'italianista Serena Sapegno, lo slavista Luigi Marinelli, la francesista Gabriella Violato, l'angloamericanista Alessandro Portelli, l'ispanista Francisco Lobera e Johan Fitzgerald, cattolica irlandese, docente di letteratura inglese che aveva bocciato «l'intervento del "papa-re"» come «scomodo e sbagliato: da accademico avrebbe dovuto farlo in un dibattito».

Per Enzo Campelli ordinario di Metodologia delle scienze sociali «sarebbe stato integralismo vietargli di venire all'Università, ma lo è stato anche definire "censura" le obiezioni contro la sua presenza».

L'intellettuale ex ordinario di Letteratura, Alberto Asor Rosa, rivendica di aver indicato «nella rinuncia lo strumento per calmare gli animi» e chiosa: «La saggezza del Papa è più grande di quella degli amministratori della Sapienza».

Virginia Piccolillo
16 gennaio 2008

da corriere.it


Titolo: Aldo Cazzullo. La Madia: chiederò consigli a De Mita
Inserito da: Admin - Aprile 10, 2008, 04:08:22 pm
«Sono precaria, eppure mi hanno dipinta come l'amica dei potenti»

La Madia: chiederò consigli a De Mita

Bettini «tutore» della giovane candidata: Silvio? Come uomo va lasciato stare. E lei: «Rivendico la mia inesperienza»


ROMA — Goffredo Bettini in campagna elettorale con Marianna Madia è più del Maestro e Margherita, è Mefistofele con in braccio un orsacchiotto di peluche. Il consigliere rotto a ogni sottigliezza e capriccio anche esotico, e la “giovane innocente” (la definizione è di De Mita). Il capo di Veltroni ai tempi della Fgci romana, e l'ultima scoperta, che con la vocina sottile, le fossette e i boccoli biondi dimostra meno ancora dei suoi 27 anni. Il coordinatore del partito che tiene i contatti sotterranei con Gianni Letta e vive tra Roma e la Thailandia, e la capolista che si muove chiedendo un passaggio agli amici e talora non trova la strada: “Sono stata dappertutto, anche a Frosinone! Mi sono persa due volte sul raccordo anulare, ma mi sono divertita molto”. Bettini mangia dichiaratamente dieci chili di mozzarella di bufala alla settimana, lei pesa meno di un terzo di lui, si sveglia col sole tipo Alba chiara (“sì, vado a letto presto e mi alzo prestissimo”) e ha l'aria di essere cresciuta a fermenti lattici (“non è vero, mangio di tutto, pure la pajata!”). La Madia dice che “il peso fisico di Goffredo è proporzionale al peso politico e al carisma”, Bettini sostiene che “Marianna ha portato nella nostra campagna freschezza, sincerità, forse anche ingenuità. Vivaddio! Meglio la sua ingenuità della paludosa politica che ci circonda”.

È senz'altro così, ma i dirigenti e gli intellettuali riuniti al teatro del Vascello, nel quartiere romano di Monteverde, sembrano talora dubitare della sua tenuta anche fisica. “Quant'è carina! Quant'è fragilina!” si preoccupa Miriam Mafai. “D'accordo, è ancora piccola, io però alla sua età ne avevo già passate di tutti i colori. Del resto, erano arrivati i nazisti, gli americani…”. Poi la chiama con un gesto, la fa accoccolare sul gradino, le prende le mani: “Cara, vedrai che la politica è un mestiere noioso e duro. Te ne diranno di tutti i colori, vedo che hanno già cominciato. Tu vai avanti decisa, scegli un argomento, lavoraci su, non mollare”. La Madia fa sì con la testa: “Mi hanno massacrata perché ho detto che avrei portato la mia straordinaria inesperienza. Ma quella frase la rivendico. È vero: sono inesperta della politica di Palazzo. Ma la politica è dappertutto, la fanno anche le casalinghe. Sono precaria, ho dovuto lasciare l'appartamento a Prati, ora vivo a Fregene con la mamma, eppure mi hanno dipinta come l'amica dei potenti”.

Fidanzata del figlio del presidente della Repubblica. “Ci siamo messi insieme prima dell'elezione di suo padre, e ci siamo lasciati dopo. Altro che opportunista; è vero il contrario. Ma non ne parlerò più: non voglio coinvolgere la prima carica dello Stato”. La prediletta di Veltroni. “L'ho visto due volte in vita mia. Venne al funerale di mio padre. Tre anni e mezzo dopo, mi ha telefonato per propormi la candidatura. Mi rendo conto che raccontata così pare una scena da film, ma Walter mi ha spiegato che in questo tempo mi aveva seguita: il lavoro con Enrico Letta all'Arel, il mio programma sulla Rai…”. Quale programma? “Ecubo: economia, energia, ecologia. Ma va in onda talmente tardi che non lo guardo neppure io”. E cosa guarda? “Poca tv. Mi piace Ferrara. Seguo Ballarò, ma dopo il primo giro si capisce già come la pensano. Vespa e Mentana vanno in onda quando sto già dormendo”.

Le auto degli amici oggi non sono disponibili e non si trovano taxi. “Voglio portare un po' di precarietà nella politica, per farla assomigliare di più alla vita”. La gioventù non è una colpa, certo fa impressione sentirla raccontare che “sì, mi ricordo di Falcone e Borsellino, alle medie feci un tema su di loro. Conosco Moccia e Fabio Volo, però preferisco Natalia Ginzburg e Stendhal. Mi piacciono i Negramaro, ma più ancora De André e De Gregori. Forse non sono la più indicata a svecchiare la politica…”. De Mita? “Gli chiederò consigli. Era giusto prendere qualche donna giovane dalla società civile, al posto di anziani politici uomini. Un giorno forse ci saranno solo donne giovani della società civile, e si dovrà inserire qualche anziano uomo politico uomo. Io comunque voglio fare la ricercatrice, non invecchiare in Parlamento. Dobbiamo ruotare tutti, no?”. Berlusconi dice che la Madia è bella ma non capisce nulla di politica, a differenza della Carfagna. “Berlusconi come uomo bisogna lasciarlo stare. Come politico, ha contribuito alla mercificazione dei valori”. Ferrara sostiene che sull'aborto la Madia la pensa come lui. “È una forzatura. È vero però che sono contro l'aborto, per la piena applicazione della legge 194, e per uno Stato sociale che consenta a molte donne di scegliere liberamente di tenere il bambino”.

Quando deve rispondere alle domande dei coetanei, in un caffè-libreria di Testaccio, si tormenta le mani. “Mi piace Ségolène Royal, che ha conciliato la politica con la vita: ha sfidato Sarkozy e ha fatto quattro figli. Io un figlio oggi non potrei permettermelo”. Intervista a Radio Luiss. Jeans o tailleur? “Non posseggo un tailleur. Forse me lo comprerò con il primo stipendio da parlamentare”. Trucco leggero o pesante? “Non mi trucco mai; non sono capace”. Scarpe da ginnastica o tacchi a spillo? “Stivaletti”. Sposerebbe un calciatore? “Voglio sposare un uomo che amo e che mi ama”. Il suo sogno? “Rendermi utile al mio paese”. D'Alema o Tremonti? “Tremonti azzecca l'analisi, non i rimedi. L'intelligenza politica di D'Alema è già storia”. Il linguaggio politico lo imparerà. Per ora parla da ricercatrice: “Mondo interdipendente”, “società dei saperi”, “processi formativi”, “generazione Erasmus”. Invita i coetanei del Testaccio a scrivere sul suo blog, “e porterò i vostri interventi in Parlamento”. La applaudono convinti. “Ripartiamo dalla verità: dal dirla, e dal farla”. C'è la fila per darle un bacio sulle guance: “Grazie Marianna”. “Grazie a voi. È stato utile. È stato bello”.


Aldo Cazzullo
10 aprile 2008

da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO.
Inserito da: Admin - Aprile 29, 2008, 05:21:58 pm
Gli errori del centrosinistra che ha inistito sulla pregiudiziale antifascista

Gianni, l'uomo della nuova destra che unisce imprenditori e proletari

Scettico sulla svolta di Fini, ha coltivato l'ala «sociale». E da ministro ha pescato anche a sinistra


Se è diventato amico di Carlin Petrini leader gastronomo della sinistra, senza smettere il ricordo dell'amico di gioventù ammazzato dagli estremisti di sinistra. Se oggi lo festeggiano i tassisti irriducibili, e Montesano ex eurodeputato Ds; se l'hanno votato le grandi famiglie già papaline quindi democristiane infine rutelliane, e le classi popolari rimaste in città, allora Gianni Alemanno non è più da molto tempo il «picchiatore», il «camerata», l'avanguardia della «marea nera» annunciata da qualche suo coetaneo del fronte avverso.

Ieri, in una giornata non meno storica del 13 aprile, il cerchio aperto nel '93 si è chiuso. Allora fu Fini a sfiorare la vittoria contro Rutelli. Adesso a batterlo è l'uomo che più ha faticato a seguire Fini nella marcia verso il centro, che per cinque anni è stato al governo quasi come capo di una corrente alternativa, che a lungo ha diviso con Storace la guida di una «destra sociale» sospettata di velleità neocorporative, ma che ora dimostra come la destra nuova sappia convincere la maggioranza dei romani, reduci da una lunga stagione non priva di successi ma associata al cliché eterno della mediazione, dei circoli, dei salotti interclassisti, delle relazioni privilegiate.

Così le grida dell'ultima ora contro «l'uomo nero» non hanno influenzato il voto più di quanto avrebbe fatto anni fa una campagna contro D'Alema «lanciatore di molotov»; come l'insistenza maliziosa sul matrimonio di Alemanno con la figlia di Pino Rauti non ha mosso l'umore dell'elettorato più di un attacco da destra a Pietro Ingrao, per citare un altro «grande vecchio» sconfitto dalla storia e dal crollo delle ideologie ma a cui è giustamente riconosciuto un onore delle armi ad altri negato, almeno sinora. Questo non significa che al ballottaggio esca sconfitto anche l'antifascismo, valore importante pure nella capitale; ma che proprio per questo non andava svilito e strumentalizzato in una maniera che si è rivelata non solo inelegante ma, forse, controproducente.

La vittoria di Alemanno (e di Fini, che l'aveva prevista così come alla vigilia del 13 aprile aveva anticipato che la Fiamma di Storace si sarebbe fermata al 2%) dimostra che, come al Nord la Lega tiene le chiavi dell'identità e della rappresentanza, così a Roma la destra ha il polso dell'anima profonda della città, dalle borgate ai quartieri piccoloborghesi, e sa coniugarla in sintonia con quelli che un tempo avrebbe definito polemicamente i «poteri forti» della capitale, dalle gerarchie vaticane ai costruttori; poteri in parte persuasi da tempo, in parte rapidi nel riallineamento.

Le ragioni e la natura di questo passaggio storico sono tutte nella biografia del nuovo sindaco. Un uomo capace di cambiare anche radicalmente, senza abiure spettacolari, senza conversioni pubbliche, senza rinnegare il proprio passato. Alemanno, pugliese d'origine (padre di Lecce, madre di Gallipoli), cresce in una Roma che coltiva una memoria del fascismo fatalmente diversa da quella del Nord operaio, che certo non rimpiange le leggi razziali e l'occupazione ma neppure dimentica il lascito del regime: una nuova urbanistica, grandi edifici dal Foro Italico all'università, grandi ospedali come il San Camillo e il Forlanini; un ceto medio impiegatizio con l'espansione della burocrazia statale, un proletariato di periferia con le borgate, un hinterland con le bonifiche; e, soprattutto, l'idea (sia pure espressa nelle forme rozze e antistoriche della retorica dell'Impero) di Roma capitale.

Un'eredità che andava molto oltre l'elettorato missino, come si vide appunto nel '93. La storia di Alemanno è l'adesione sofferta, anche se via via più convinta, al nuovo corso di Fini, avvenuta senza perdere neppure uno dei voti (quelli di Storace sono rientrati tutti al ballottaggio) di un blocco sociale storico, che si è andato evolvendo assieme alla destra. E allora i vecchi militanti e i giovani, i parastatali, i tifosi delle curve (compresa quella romanista), i cultori dei morti degli Anni Settanta celebrati da manifesti, fiori, scritte sui muri, i piccoloborghesi di piazza Bologna e piazza Tuscolo, i nuovi proletari delle borgate, in una parola le classi popolari che nell'apparente indifferenza della sinistra stanno pagando il prezzo dell'immigrazione, sia in termini di sicurezza che di concorrenza sul mercato del lavoro.

Ai sostenitori del '93, Alemanno ha saputo aggiungerne altri, infastiditi o semplicemente stanchi del Quindicennio, con lo stesso lavoro di apertura e tessitura che l'ha portato a diventare un ministro apprezzato anche dall'opposizione, e a costruire rapporti di stima con personaggi molto lontani dal recinto della vecchia destra, da Luca di Montezemolo ai viticoltori piemontesi, da Giuseppe De Rita agli agricoltori emiliani preoccupati dall'espansione degli ogm. Tutto questo non poteva essere ridotto a una croce celtica — per quanto non rinnegata e anzi mostrata sia pure con sofferenza alla tv, in ricordo dell'amico ucciso Paolo Di Nella —, né andava confuso con il folklore.

Rispolverare l'armamentario quello sì sempre uguale, ammiccare al fascista sul Campidoglio si è rivelato un errore strategico. La lezione di Roma è semmai quella contraria: dopo il lungo periodo in cui la capitale è stata governata prima da uomini del Pci, compreso quel Luigi Petroselli indicato da destra come il miglior sindaco dai tempi di Ernesto Nathan, poi da giunte in cui gli ex comunisti avevano un peso determinante, ora la maggioranza cambia di segno e premia un esponente del fronte opposto ma non per questo escluso dalla legittimazione e dall'alternanza. E chi oggi parlasse di «seconda marcia di Roma» non coltiverebbe l'indignazione, preparerebbe la prossima sconfitta.

Aldo Cazzullo
29 aprile 2008

da corriere.it


Titolo: Aldo Cazzullo. E Fini indossò i gemelli tricolore
Inserito da: Admin - Maggio 01, 2008, 07:56:37 pm
Il personaggio

E Fini indossò i gemelli tricolore

L'emozione e le lacrime: «Giusta la mia intuizione del '93. Questo il discorso della nuova destra»


Alla fine, sia pure per un attimo, piange anche lui, il gelido, il razionale, che dell’abituale freddezza si vantava sino a poco prima in Transatlantico, «sapete che sono del Capricorno, e poi sono qui dall’83, un po’ d’esperienza ce l’ho. Certo, stamattina provo anche una profonda emozione». commozione alle 11 e 31, quando gli applausi interrompono il vicepresidente anziano Castagnetti che legge per la trecentoseiesima volta il suo nome. È allora che Gianfranco Fini, chiuso nello studio di presidente della Camera, lasciato solo dal collaboratore più stretto Andrea Ronchi— che non l’ha mollato per tutta la mattina ma ora per rispetto è uscito —, si commuove. L’altro momento di massima soddisfazione viene mezz’ora dopo, quando alla fine del discorso sfilano gli esponenti dell’opposizione per congratularsi. Parisi, Volonté, Lusetti, Soro. Veltroni telefona. Casini gli ha già stretto la mano, a Fini fanno notare che per due volte è stato lui a far partire l’applauso. Ma chi lo colpisce di più è Fassino, l’ex segretario del Pci torinese, che gli sussurra: «Un gran discorso». Un discorso che, certo, rappresenta l’ultima tappa di un percorso cominciato nel ’93 che oggi, con l’elezione alla presidenza della Camera nel giorno dell’insediamento di Alemanno in Campidoglio, si chiude. Ma che nell’ottica di Fini non va letto, neppure nei passaggi sul 25 aprile e sul primo maggio, come un’aggiunta, una novità, un sigillo del cambiamento. Semmai, come la conseguenza logica di cose già dette a Fiuggi e a Gerusalemme. Come spiega nelle conversazioni private, Fini rivendica di aver fatto un discorso «di destra», nel senso moderno in cui intende questa parola. «Un discorso identitario forte.

Il discorso della costituzionalizzazione della destra italiana. La destra del federalismo unitario, della nazione, della patria, dell’identità culturale cristiana. La destra del merito e della responsabilità, che parla di diritti ma anche di doveri». Quanto accaduto in questi giorni, ragiona Fini, non è il frutto di una decisione presa nelle segrete stanze, «è la prova che era giusta l’intuizione del ’93, che avevamo ragione quando abbiamo cominciato il viaggio che ci ha portati qui. Solo che allora eravamo in pochi ». C’erano ancora il Msi e l’arco costituzionale. La destra era marginale. «Era un’altra Italia». Non si trattava solo di cambiare, ma anche di dimostrare che un uomo di destra poteva candidarsi credibilmente a governare la capitale. Ora, la destra che conquista la terza carica dello Stato «non ha più alcuna ragione di temere la storia e le ricorrenze in cui si riconosce la stragrande maggioranza degli italiani », esclusa una percentuale talmente piccola da non entrare in Parlamento. E può rivendicare la propria «vittoria culturale», la propria idea di libertà, minacciata non più dai totalitarismi ma dal «relativismo etico» denunciato dal Papa, dall’eclissi dei valori, dall’assenza della legalità. Il tricolore, Fini non si limita a citarlo e indicarlo con gli occhi — suscitando l’unico applauso cui non si unisce Bossi —; lo indossa, sotto forma di gemelli nuovi ai polsini. Cravatta poco istituzionale, però: rosa confetto. Alle 9 e mezza è già alla Camera, per la prima votazione. Incrocia Bossi: «Umberto, dove sono i fucili?». «Dimmi piuttosto tu dove sei stato, così abbronzato ». «A Lampedusa, a salutare i tuoi leghisti». Passa Stefania Prestigiacomo, lo abbraccia e lo bacia. Poi lui si chiude nella saletta accanto all’archivio, a fumare. Si fa portare un caffé. Si affacciano La Russa, Alemanno, Matteoli, Gasparri. Per seguire lo spoglio si sposta nello studio che Bertinotti ha già liberato. Rilegge e lima sino all’ultimo il discorso, come non gli è mai successo; del resto lo considera «il più importante della vita». È Castagnetti a portargli la notizia dell’elezione e ad accompagnarlo in aula, con Ronchi e il segretario generale della Camera Ugo Zampetti. Fini esita un attimo sulla soglia, il gesto di abbottonarsi e sbottonarsi la giacca grigia tradisce l’ansia, però al momento di salire sullo scranno è asciutto, diverso dal Casini che entrò sorridendo e facendo ciao alla famiglia in tribuna; in alto Fini ha la figlia grande, Giuliana, ma la conoscono in pochi. Bossi applaude alla sua maniera, battendo la mano buona, la destra, sul tavolo. Berlusconi agita nervosamente una gamba sotto il banco, quando si arriva al 25 aprile il ritmo accelera.

Alla fine, Fini ringrazia con un cenno del capo verso sinistra e altri tre verso gli ormai ex colonnelli, insolitamente composti. Ci si lascia andare solo al brindisi, nella saletta in fondo al Transatlantico. Matteoli piange con le lacrime. Festeggiano con le tartine al salmone il capo della segreteria Donato Lamorte, Italo Bocchino allievo prediletto di Tatarella — «Gianfranco, sei emozionato?», «E vorrei vedere» —, Gramazio, Moccia, Landolfi, Malgieri. Anche Tremaglia è commosso: «È l’emozione più grande dal ’72 a oggi, grazie per aver ricordato gli italiani all’estero». Con Tremonti entra Berlusconi, baci e abbracci, «Gianfranco te lo meritavi ». Bertinotti sorride: «Ti passo lo scettro della Camera, mi è spiaciuto non essere in Aula», «Sono io dispiaciuto che tu non sia più qui, grazie Fausto per come hai fatto il presidente». Si sale negli uffici al primo piano, dove arriva la segretaria storica, Rita Marino, si guardano i tg mentre arrivano le prime telefonate: Ciampi si congratula per l’elogio del tricolore, Bile presidente della Corte Costituzionale ringrazia per la citazione, Bonanni della Cisl per l’elogio del primo maggio. Fini è colpito in particolare dal numero di ambasciatori che chiamano per fare gli auguri e fissare appuntamenti. Nella galleria dei ritratti dei presidenti, che comincia con Minghetti e finisce con la Pivetti, è rimasto un solo posto, per Bertinotti. C’è tempo per trovare una soluzione. Fini esce per salire al Quirinale, dove l’attende Napolitano. All’ennesimo «in bocca al lupo» dei deputati si stanca di rispondere «crepi»: «Ragazzi, in giro vedo solo lupacchiotti. Lupi come quelli d’una volta non ce ne sono più»

Aldo Cazzullo
01 maggio 2008

da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO.
Inserito da: Admin - Settembre 25, 2008, 12:05:50 pm
l'intervento dell'esercito contro la camorra

Ignazio e Bobo, eterni rivali

Il nuovo contrasto tra i due ministri Maroni e La Russa


ROMA - «Guerra civile». «Guerra tra bande». «Guerra civile sì!». «Guerra civile no!». «Si deve mandare l'esercito». «Si deve salvaguardare l'esercito». Finisce sempre che uno dei due — ieri, Maroni— telefona a Berlusconi. Berlusconi risolve dando ragione a entrambi, e nello stesso tempo rimproverandoli. Segue comunicato per chiarire la piena sintonia.

La lite riprenderà nei giorni successivi. Il contrasto tra La Russa e Maroni è naturale. Guidano i due dicasteri della forza: la Difesa e l'Interno, la polizia e i carabinieri. Non solo: La Russa viene dalla destra sanbabilina, Maroni dalla sinistra extraparlamentare. Uno è nazionalista, l'altro autonomista. Uno interista, l'altro milanista. Uno è avvocato, l'altro veniva presentato da Bossi come tale ma non ha mai dato l'esame. Maroni è varesotto, La Russa è cresciuto a Milano ma parla — orgogliosamente — come se avesse lasciato ieri Paternò (Catania). Il bossiano ha un nome, Bobo, da cagnone buono, e con il tempo tende ad assomigliargli. Il finiano si fa chiamare virilmente ‘Gnazio, ha chiamato il figlio Geronimo e, nella versione di colui che l'ha lanciato, Fiorello, ha un nonno Bombardiere, una zia Alabarda e una cugina Bianca («finalmente un nome da cristiani! »; «no, è un diminutivo per Arma Bianca»). Bobo suona il jazz e il blues, Gnazio oltre ovviamente alle musiche Anni Venti e alle marce militari predilige i cantanti confidenziali, che creano l'atmosfera giusta in discoteca o al pianobar di cui è accanito frequentatore. Se hanno un punto in comune infatti è che entrambi amano molto, riamati, le donne (si spera non le stesse).

In politica, si contendono l'esercito. Non si tratta solo di decidere se, dove, quando e come impiegarlo. Si tratta soprattutto di decidere — «io sono per mandare l'esercito!», «no, e comunque sono io che mando l'esercito!» — chi debba muovere le truppe. Lamenta La Russa che «mi arrivano richieste da tutte le parti, mancano solo gli amministratori di condomini...». Geloso dei suoi uomini, fiero del servizio militare da volontario al quarantottesimo corso allievi ufficiali, Gnazio ha realizzato il sogno della vita e appena può si mette in mimetica e felice come un bambino si fa fotografare su un carro armato. Bobo e la Lega sospettano che An voglia fare dell'esercito un'arma politica al proprio servizio. Un confronto apertosi già a maggio, nelle prime sedute del consiglio dei ministri, quando La Russa manifestò il suo disappunto per l'invio dei militari a presidio delle discariche: «Il ministro della Difesa ha rivendicato il suo ruolo», fece sapere. «La sicurezza e l'ordine pubblico dipendono e sono di competenza del Viminale» fu la risposta. Pompeo e Cesare erano due amiconi al confronto; e — racconta un parlamentare di Forza Italia che talora si ritrova a mediare — non è detto che, se Berlusconi come Tolomeo facesse trovare all'uno la testa dell'altro sul piatto, il superstite scoppierebbe in lacrime.

Loro, ovviamente, sostengono di andare d'accordo, e di essersi pure simpatici. Ed è possibile che a dividerli sia un gioco delle parti. La Russa, numero 2 di An fin dalla morte di Pinuccio Tatarella (che aveva con Maroni un ottimo rapporto), ha visto ora formalizzato il ruolo di reggente — memorabile la battuta con cui accolse la nomina: «Chiamatemi piuttosto autoreggente» —. Maroni è l'eterno delfino della Lega, in attesa che cresca la «trota» Renzo Bossi. L'urto è stato inevitabile anche nelle questioni di potere locale. L'approdo alla Lega di Giancarlo Giorgetti, cresciuto nel Fronte della Gioventù, e Andrea Mascetti, nipote dell'ultimo federale di Varese, molto amato nel Msi. Il referendum lombardo sull'autonomia del 2000. Le provinciali del 2004: «Abbiamo perso a Milano perché la Lega è andata da sola al primo turno, ma le vittorie di Bergamo e Vercelli dimostrano che possiamo farcela anche senza di loro!» disse Gnazio. Discussero anche su Scalfaro (che a Maroni non dispiaceva), su Formigoni, e pure sulle badanti: quella volta in consiglio dei ministri vinse La Russa, che pretese di esentarle dalle annunciate espulsioni di massa. Ma tutto è cominciato nel dicembre del '94, quando il Senatur tolse la fiducia al primo governo Berlusconi e Bobo, già allora al Viminale, tentò di resistere. «Bisogna vedere se Maroni ha i maroni» fu l'elegante calembour di La Russa. Il governo cadde.

Aldo Cazzullo
25 settembre 2008

da corriere.it


Titolo: Aldo Cazzullo. Veltroni con Berlusconi democrazia svuotata ...
Inserito da: Admin - Settembre 28, 2008, 12:04:49 pm
L'INTERVISTA


Veltroni: con Berlusconi democrazia svuotata Come la Russia di Putin

«Dove porterà la continua conversione del governo in potere?»



ROMA — Walter Veltroni, perché lei parla di «bullismo al governo »?
«Perché vedo un cambio di passo in questa legislatura, uno scarto rispetto ai governi della storia repubblicana. La società italiana e occidentale vive in uno stato di angoscia che non ho mai visto da quando sto al mondo. Mi viene in mente Dickens: "Era il migliore e il peggiore dei tempi, era il periodo della luce e il periodo delle tenebre, la primavera della speranza e l'inverno della disperazione". Anche nel nostro tempo accadono meraviglie: la scienza, la comunicazione. Eppure in Italia vedo prevalere i segni del tempo peggiore. Sulla fiducia vincono paura, chiusura, arroccamento. E la paura è un moltiplicatore della crisi. Quando una società ha paura, è tentata dal barattare democrazia per decisione. È una sorta di maleficio: ogni volta che la crisi democratica si è saldata con la crisi sociale e con il prevalere di suggestioni populistiche e autoritarie, sono accadute le tragedie peggiori nella storia dell'umanità».

 
Siamo messi così male?
«Viviamo un tempo che ha in sé gravi rischi. Se non ci sarà una sufficiente controreazione, rischiamo di veder realizzarsi anche in Italia il modello Putin. È il rischio di tutto l'Occidente. Una democrazia sostanzialmente svuotata. Una struttura di organizzazione del potere che rischia di apparire autoritaria. Il dissenso visto come un fastidio di cui liberarsi, la divisione e l'autonomia dei poteri come un ostacolo da rimuovere ».

L'incapacità di decidere è stata fatale al centrosinistra.
«È vero. Sono il primo a dire che la democrazia è anche decisione. Ma la democrazia prevede che si governa pro tempore, non che si è al potere. Che si governa nell'interesse di tutti i cittadini, non di una fazione o di una persona. Loro invece si comportano come gente che ha preso il potere. Il capo del governo oscilla dal discorso alla Adenauer del primo giorno a una quotidianità in cui il capo dell'opposizione è definito ora "un fallito", ora "un funambolo", ora "inesistente". L'hanno fatto con Rutelli, con Prodi, adesso con me. Una cosa che non avviene in nessun Paese del mondo».

Dove vede i segni del «modello Putin»?
«Il governo tratta il Parlamento come fosse una perdita di tempo, una rottura di scatole, un impedimento. Ora, mi è evidente la lentezza dei lavori parlamentari; ma il rimedio è ridurre le Camere a una e i parlamentari alla metà, non impedire di discutere e migliorare leggi che sono discutibili e migliorabili. Il governo ha l'obiettivo di far male ai sindacati. Ora, io sono tra coloro che stimolano il sindacato ad assumere un atteggiamento riformista. Ma indebolire i sindacati è una scelta suicida, il cui risultato è la proliferazione delle rappresentanze autonome e corporative. Il governo addita negli immigrati un nemico; ma se espelli un uomo dalla società, si comporterà come un espulso, e avremo un Paese non più sicuro ma meno sicuro, in cui già ora accadono episodi gravissimi di intolleranza, di caccia allo straniero. L'assassinio di Abdul per un pacco di biscotti è un segno del tempo peggiore. C'è tutto: la povertà, l'esasperazione, il razzismo. E i genitori che dicono: "Pensavamo di essere italiani, abbiamo scoperto di essere neri"».


Il movente razzista è stato escluso dalla Procura.
«Ma è stato ammesso da La Russa. Del resto, non ho mai sentito di un ragazzo sprangato al grido di "sporco bianco". Ancora: il governo ha nel mirino le autorità indipendenti; ora toccherà a quella per l'energia e il gas; l'indipendenza dà fastidio. Il governo muove all'attacco della magistratura. Anche noi vogliamo la riforma, convocheremo gli Stati generali della giustizia per discuterla; ma ci preoccupano i diritti di sessanta milioni di cittadini, non i problemi di uno solo. E, per la scuola, l'idea di bocciare alle elementari e alle medie i ragazzi che hanno anche solo un'insufficienza significa favorire l'abbandono e l'elusione scolastica, specie tra i più poveri; qualcosa che farebbe accapponare la pelle a un uomo come don Milani».

Di «putinizzazione» parlò in piazza Navona Flores d'Arcais. Non teme di essere accostato all'opposizione più radicale?
«Questa preoccupazione l'hanno espressa in molti, anche molti moderati. E poi non c'è nulla di più radicale di quello che stanno facendo loro. Radicalità non nel cambiamento, ma nella sistematica conversione del governo in potere. La mia non è solo una denuncia, è anche un appello. Ripristiniamo le condizioni minime, fisiologiche del confronto. Guardiamo agli Stati Uniti, dove Bush chiama e i democratici rispondono. Bush non ha insultato Obama, l'ha consultato. Così funzionano le grandi democrazie. Ci vuole un po' più di moderazione; ma la moderazione è estranea a un governo che ha un'idea sostanzialmente autoritaria delle relazioni con chi è diverso. Mi chiedo dove diavolo arriveremo».

Si è offeso per le polemiche su Alitalia?
«Guardi, qui in casa mia, su quei due divani là in fondo, si sono seduti Epifani e Colaninno, e hanno trovato l'accordo. Io ho un giudizio pessimo di come il governo ha gestito la vicenda, compresa la scelta di una cordata non si sa in base a quali principi. Avrei potuto lasciare che il governo andasse a sbattere e ne pagasse le conseguenze. Ho fatto una scelta diversa, recuperando una trattativa che era morta, con la cordata che dopo aver scaricato i debiti sui contribuenti intendeva scaricare sui lavoratori ulteriori margini di profitto. In un Paese civile, il capo del governo in questi casi dà atto al capo dell'opposizione. Costa tanto fare questo sforzo? Ma lui, che vive nel terrore della comunicazione, improvvisa uno spot a freddo contro di me, si inventa che avrei fatto saltare la trattativa che invece stavo riannodando».

Sull'Alitalia il Pd è stato a lungo in difficoltà. Del resto, il vostro ministro ombra è il figlio del capo della cordata.
«Lei non pensa che in Italia cominci a esserci un pensiero unico? Sono stanco dell'assenza di una coscienza critica che ignora la trave e si concentra sulla pagliuzza. Il premier è padrone di mezzo Paese, sua figlia entra nel consiglio di Mediobanca, e il conflitto di interessi è quello di Matteo Colaninno? Se in passato l'egemonia della sinistra ha asfissiato la destra, ora l'egemonia della destra asfissia il Paese. C'è un clima plumbeo, conformista, come se a chi governa fosse consentita qualsiasi cosa. La Gelmini arriva a Cernobbio in elicottero, come neppure Dick Cheney. Il premier non va all'Onu, non partecipa alla trattativa Alitalia, per andare al centro Messegué; senza che nessun tg lo dica. Leggo sull'Espresso che a San Giuliano c'è stata una selezione tra gli operai, per fargli incontrare solo quelli più bassi di lui. Non so come li abbiano trovati; so che queste cose accadono nei sistemi autoritari. Ma i riflettori vengono puntati su di noi. Se un dirigente locale del Pd fa una critica, finisce in prima pagina. Se il sindaco di Roma smentisce Berlusconi sulla legge elettorale per le Europee, finisce in un colonnino».

Lei teme anche per l'indipendenza dei giornali?
«Sì. È giusto che il governo cambi con un provvedimento amministrativo le regole di erogazione dei fondi pubblici ai quotidiani, riportandolo sotto il suo controllo? È giusto che, in questo clima asfissiante, chiudano il manifesto, il Secolo, Liberazione, Europa? Un clima in cui il sedicente portavoce del governo definisce Leoluca Orlando "esponente di un partito contrario ai valori della libertà e della democrazia". Come se spettasse al dottor Bonaiuti dare patenti di libertà e democrazia».

A proposito di Rai, qual è il vostro candidato alla presidenza?
«Il presidente è un tassello di un percorso. Che deve cominciare con l'elezione di Orlando alla Vigilanza. Noi accettammo Storace; perché loro non possono accettare un esponente del partito di Di Pietro, cui Berlusconi offrì il Viminale? Poi occorre riformare la governance della Rai. Se le regole non cambiano, e se c'è il consenso sul nome di Petruccioli, per noi va bene. Ma è la destra a essere divisa: tra chi vuole alla direzione generale Parisi e chi vuole Gorla, tra chi vuole dare al direttore generale più poteri e chi no. Io non mi opporrei a rafforzarlo, se questo significa ridimensionare il peso dei partiti in Rai. Purtroppo il pensiero unico prevale anche in televisione. Al riguardo, non può non essere visto con grande preoccupazione l'annuncio de La7 di voler licenziare 25 giornalisti; di tutto c'è bisogno in Italia tranne che di limitare ulteriormente la libertà d'informazione».

È sicuro di aver fatto bene a lasciare il comitato per il museo della Shoah?
«Sì. Al clima plumbeo concorre pure la rivalutazione del fascismo. Il museo della Shoah era un'idea della comunità ebraica e mia. Il nuovo sindaco ha fatto l'apologia di un regime che, ben prima delle leggi razziali, ha provocato la morte di tutti i capi dell'opposizione: il liberale Gobetti, il comunista Gramsci, il socialista Matteotti, il cattolico don Minzoni, gli azionisti Carlo e Nello Rosselli. Il giorno dopo, anziché correggersi ha aggravato le cose, condannando l'esito ma non la natura del fascismo. Con un sindaco che non si mette a urlare di fronte ai saluti romani, gli stessi saluti che hanno accompagnato gli uomini che andavano a morire a via Tasso o alle Ardeatine, per me è difficile discutere della Shoah».

Non la preoccupa anche lo stato del Pd? I prodiani la attaccano e Prodi tace. Il partito è diviso in ogni regione, in Sardegna la bega finisce in tribunale. Dopo D'Alema, pure Rutelli annuncia la sua corrente. «No, non sono preoccupato. Lo ero sino ad agosto. Ma da settembre, dalle feste e dalla summer school, dal contatto con il nostro popolo, credo siamo usciti tutti convinti che va benissimo il pluralismo culturale, non il correntismo esasperato. Abbiamo una base molto forte e molto sana. Nei sondaggi stiamo risalendo. Il clima sta cambiando. Lo vedremo quando tra quattro settimane manifesteremo contro la politica economica di un governo che occulta la povertà, non si occupa di prezzi e salari, fa sparire pure i soldi della social card. La destra pagherà la sua confusione culturale, il passaggio brusco e zuzzurellone da Reagan a Zhivkov, dalla deregulation allo statalismo. Il tempo migliore può ancora prevalere sul tempo peggiore».

28 settembre 2008

Aldo Cazzullo

da corriere.it


Titolo: Aldo CAZZULLO. «Io, il carceriere di McCain e cinque anni di interrogatori»
Inserito da: Admin - Ottobre 12, 2008, 05:06:48 pm
«Io, il carceriere di McCain e cinque anni di interrogatori»

Parla il vietnamita cui fu affidato il «prigioniero eccellente»: «Non l'abbiamo mai torturato»


HANOI - «Era una guardia appena arrivata. Quando seppe che nella cella 13, ala Ovest, c'era un pilota abbattuto mentre bombardava Hanoi, e soprattutto figlio dell'ammiraglio che comandava la guerra per mare e per cielo contro il nostro Paese, la recluta sputò nel piatto di riso prima di portarglielo. Come comandante della guardia carceraria, l'ho rimproverato aspramente. Quel pilota era nostro prigioniero, affidato alla mia tutela. Doveva essere trattato con durezza, ma con rispetto».

Quel pilota era McCain, e il suo carceriere è un uomo di 75 anni, tre più di lui. Vive a duecento metri dall'Hoa Lo, che gli americani chiamavano con ironia Hanoi Hilton: la prigione. Casa al primo piano, scala buia, toilette sul ballatoio. Piedi nudi sul pavimento di legno, vecchie foto in divisa, una Tour Eiffel di plastica sul tv color, la sola cosa che abbia meno di quarant'anni. È la prima volta che racconta questa storia. «Mi chiamo Nguyen Tien Tran, sono nato il 18 maggio 1933, e ho servito per quarant'anni nell'esercito vietnamita. Il 26 ottobre 1967 presi in custodia il capitano della Marina americana John Sidney McCain, appena ripescato dal lago Truch Bach, un chilometro a nord da qui. Non era certo il primo; ma non ne avevo mai visto uno così malridotto. Braccia rotte, ginocchio destro a pezzi. Gli demmo da mangiare e da bere; vomitò tutto. Delirò per l'intera notte.

Il mattino dopo lo portammo all'ospedale 108, quello dei militari, dove fu operato e rimase un mese. Io non lo perdevo mai di vista, talora non tornavo a casa neppure la notte e dormivo nella stanza a fianco: temevo che un medico o un infermiere potesse fargli del male. E noi non volevamo che morisse; ci siamo accorti quasi subito che era figlio e nipote di due grandi ammiragli americani. Ero il responsabile del suo caso: dovevo sorvegliarlo da vicino e, appena possibile, interrogarlo. Compito che ho svolto per cinque anni e mezzo ». Fin dall'inizio, le due storie divergono. McCain scrive di essere rimasto abbandonato per quattro giorni, che i vietnamiti per curarlo volevano sapere «tipo d'aereo, obiettivi futuri, e altri particolari di ogni sorta». Portiamo a Nguyen Tien Tran l'autobiografia del suo prigioniero, Faith of My Fathers. Lui nota subito che «adesso si firma solo John, ma una volta insisteva: “Mi chiamo John Sidney McCain”».

Poi si prende mezza giornata per leggere i capitoli sulla cattività a Hanoi, e replicare. «Non è andata così. Noi non abbiamo mai torturato McCain. Al contrario: gli abbiamo salvato la vita, curandolo con medicine preziosissime che talora mancavano ai nostri feriti. L'aereo l'avevamo abbattuto, i suoi bersagli erano chiarissimi, il suo nome era scritto sulla piastrina di riconoscimento. Se non l'avessimo curato subito, sarebbe morto. Non è vero che tentò il suicidio; non aveva l'aria di voler morire, accettava il cibo, chiedeva le medicine; e poi era un tipo ambizioso, che si aspettava molto dalla vita. Non è vero che venne il generale Giap a visitarlo; Giap per noi era ed è un mito, il vincitore di Dien Bien Phu, se fosse venuto me ne ricorderei. Non è vero che McCain elencò la linea d'attacco della squadra dei Packers per non dare i nomi dei compagni: è un'informazione che non ci serviva e non gli abbiamo chiesto. Non è vero che per ingannarci parlava di missioni in Antartide e disegnava portaerei con piscine a bordo. McCain sapeva che non eravamo stupidi e non aveva voglia di scherzare: gli interrogatori erano molto seri, e pure lui lo era. Quel che ci interessava era persuaderlo che la guerra americana fosse sbagliata e criminale. E alla fine la confessione l'ha firmata. Si era reso conto delle condizioni, e le aveva accettate. Anche se negli interrogatori non ha mai ammesso di essere nel torto. Diceva che lui aveva fatto una guerra pulita, dal cielo. E ha ripetuto, sino all'ultimo, che la guerra per lui era giusta».

 
McCain ai tempi della prigionia
Le parole del carceriere non implicano che McCain abbia drammatizzato il racconto della prigionia. È probabile che sia Nguyen Tien Tran ad attenuarlo (pur se la sua versione coincide con quella del direttore dell'Hanoi Hilton, Tran Trong Duyet, 75 anni, che siamo andati a trovare nella sua casa di Hai Phong). Di certo, i vietnamiti volevano McCain vivo, per servirsi di lui; e lui non glielo consentì. Il 4 luglio 1968 al padre ammiraglio era stato affidato il comando della guerra, accanto al generale Westmoreland. Il figlio poteva essere una formidabile arma di propaganda, su cui esercitare una determinata pressione.

Tra il prigioniero e la sua guardia era cominciato una sorta di duello, che non è mai finito. «Riconosco che le condizioni erano dure, anche se non disumane. McCain è rimasto in isolamento molto a lungo. Ma non è colpa mia se lui tentava in ogni modo di comunicare, così: toc-toc», e qui Nguyen Tien Tran picchia con il dito sulle pareti sottili della sua casa. «Allora lo portammo in una cella che non confinava con le altre. All'inizio dovevamo assolutamente evitare i contatti tra i prigionieri, per impedire che si mettessero d'accordo, che elaborassero un comportamento comune. Uscito dall'ospedale, McCain fu portato alla Cinemateca, il carcere che gli americani chiamavano Plantation. Nella cella c'erano una branda, un bugliolo con coperchio, una coperta. La luce era accesa 24 ore su 24, ma non era un neon troppo fastidioso. Nessuna finestra, ovvio. Sempre una guardia fuori». McCain ha raccontato di aver ucciso quattrocento zanzare in un giorno. «In effetti in Vietnam abbiamo molte zanzare. La giornata cominciava alle 5 e mezza, con il gong che annunciava la colazione. Ai prigionieri veniva dato un pane e dello zucchero. Alle 11 c'era il pranzo, sempre preceduto dal gong: una zuppa di zucca con del grasso. Alle 5 di pomeriggio la cena, una ciotola di riso con carne. L'amministrazione del carcere calcolò che ogni pasto dei prigionieri ci costava un dong e sessanta, più del doppio del pasto di una guardia. Pensavamo che gli americani erano abituati a mangiare di più. I primi tempi, niente pacchi o lettere, niente giornali. Non potevano arrivare notizie dall'esterno, neppure l'elezione di Nixon o lo sbarco sulla Luna, se non quelle che davamo noi con gli altoparlanti: le nostre vittorie, l'elenco dei loro caduti. Distribuivamo i libri di Ho Chi Min tradotti in inglese, e testi di americani contrari alla guerra. Ogni prigioniero aveva diritto a tre sigarette al giorno; ma quando vedemmo che usavano le cartine per scambiarsi messaggi, non ne demmo più».

«Interrogavo McCain due volte la settimana, tutte le settimane. In una stanza apposta, abbastanza grande, con la porta blindata e i muri spessi per non far sentire i discorsi. Lui sempre senza manette. Parlavamo in inglese, lingua che ho studiato all'università. Una volta mi disse che ormai, viste le ferite, non avrebbe più potuto volare; la sua carriera militare era finita, ma c'era il tempo per iniziarne un'altra. La carriera politica. A lui il comunismo faceva orrore, io replicavo che in America non era il popolo a scegliere ma i partiti. Si capiva che Johnson non gli piaceva; però uno come lui non avrebbe mai criticato il suo presidente. Sapevo che aveva una moglie e una bambina piccola, ma non ne parlava mai. Ogni tanto affrontavamo la geografia degli Stati Uniti: McCain mi teneva lezioni, io gli dimostravo che un po' conoscevo il suo Paese, discutevamo della Florida, del Golden Gate. Di donne invece non si parlava; non è nel carattere vietnamita farlo, e lui solo una volta mi ha raccontato delle brasiliane, diceva che sono le più belle del mondo. La sua ossessione era il padre. Ne andava fiero, e aveva paura di non esserne all'altezza».

Chiediamo a Nguyen Tien Tran di accompagnarci a quel che resta dell'Hanoi Hilton, dove McCain arrivò dalla Plantation nel dicembre del ‘69. Le guardie, che ora custodiscono un museo, si inchinano al suo passaggio, una le chiede l'autografo. «La cella di McCain non c'è più, e neppure il mio ufficio, che era al piano di sopra. Ecco le fotografie dei suoi amici: Bob Craner, Everett Alvarez, il primo a essere abbattuto. Questo è James Kasler, veterano della guerra di Corea. Lui sì, un vero duro». Perché, McCain no? «Era meno ribelle, più mansueto di quanto racconta. Non è vero che ci insultava; stava attento a comportarsi bene. Non è vero che urlando ci impedì di filmare una messa di Natale in carcere; anzi, una volta venne a una funzione organizzata a Saint-Joseph, la chiesa francese». McCain racconta di un altro Natale, in cui una guardia tracciò una croce nel fango del cortile per dargli modo di pregare. «Questo è assolutamente impossibile. I miei uomini erano tutti atei e comunisti. E stavano combattendo, dal loro posto, una guerra da cui dipendeva la sopravvivenza della patria. Le religioni, per giunta quelle altrui, non ci interessavano. Su una cosa però ha ragione lui: questa tuta da aviatore, esposta nel museo come “la tuta di McCain”, non è la sua. Era ridotta a brandelli, e la gettammo via».

Le foto d'epoca mostrano prigionieri che coltivano piante, farciscono tacchini, giocano a volley e a basket. «A parte il fatto che avevamo la palla da volley ma non quella da basket, McCain non è tra questi. Non stava ancora bene, e poi non era il tipo. La pressione si allentò anche per lui: riceveva pacchi e lettere, ovviamente dopo che erano stati controllati da noi; aveva in cella spazzolino, dentifricio e il Vietnam Courier, poteva fare la doccia due volte alla settimana, uscire in cortile ogni pomeriggio per 45 minuti, ascoltare la radio con le nostre musiche patriottiche ma anche vecchie canzoni francesi e di Louis Armstrong. Notai che gli si erano sbiancati i capelli; non per i maltrattamenti, che non ci furono; è che in prigione si pensa troppo. E per lui la prigione era la strada per essere degno del padre e del nonno, e per cominciare la carriera politica. Certo era una forte personalità, e ha dimostrato una certa tenuta. McCain è un eroe americano, di un Paese che in Vietnam ha perso 58 mila uomini. Ma per noi, che ne abbiamo persi tre milioni, McCain è una persona scorretta, e anche un po' ingrata. Chi vorrei presidente tra lui e Obama? È un discorso che non mi riguarda e non mi interessa. Il passato non c'entra. Scelga l'America l'uomo che la porti fuori dall'Iraq e la tenga lontana dalle guerre. McCain la guerra la conosce, quindi credo non la ami». «Gli ultimi giorni di prigionia furono terribili, stavolta per noi. Tra la fine del '72 e l'inizio del '73 subimmo i bombardamenti più duri. Ricordo che portammo McCain a Duc Giang, alla periferia Nord di Hanoi, a vedere le distruzioni e i morti. Al momento di liberarli, radunammo i prigionieri in cortile. A tutti demmo un paio di scarpe e una divisa». Era il 14 marzo 1973. «A McCain dissi di ricordarsi che lui era stato preso mentre bombardava la nostra capitale, e ci doveva la vita: “Torna in Vietnam, ma stavolta in pace”». E lui cosa rispose? «Nulla. Andò via senza una parola, ma stringendo la mano a quanti di noi considerava ormai amici».

E a lei diede la mano? «No. A me no».

Aldo Cazzullo
12 ottobre 2008

da corriere.it


Titolo: Aldo Cazzullo. Crozza: «Sono anch'io in politica: mi trasformo in Brunetta»
Inserito da: Admin - Ottobre 18, 2008, 11:38:22 am
Domenica su La7

Crozza: «Sono anch'io in politica: mi trasformo in Brunetta»

«E lancio il D'Alema-Tg» Il pezzo forte della prima puntata sarà «Vattene Air France» cantato con Mietta

 
 
MILANO – «Magari lo chiamerò/ Colaninno amoroso/ e Tutu Tratratrà/ e il suo nome sarà/ al posto di Spinettà/ Colaninno è già qui/ piace pure al Pd/ e suo figlio sarà/ chi controlla papà/ e l'italianità/ cinque anni e scadrà/ e io col naso in su/ la mia bandiera vedrò/ sempre là, sempre su/ finché non torna Air France/ chissà.../ in coppia con Lufthans!». Maurizio Crozza sta provando la prima puntata di Crozza Italia, che torna domani sera su La7. «Vattene Air France», sottotitolo «Colaninno amoroso», si annuncia il pezzo forte (in coppia con Crozza canta Mietta, come nell'originale). Ma è la crisi generale, dell'economia e della politica, al centro della scena. «Il mio amico Beppe Grillo me l'ha detto a giugno: "Mauri, porta via tutti i tuoi soldi dalle banche". Aveva ragione. Ma io chiedo: te le deve dire Beppe Grillo, un comico, queste cose?». Grillo ormai fa un altro mestiere. Crozza invece ha sempre distinto tra spettacolo e politica. «E' vero, io sono un guitto. Però è anche vero che faccio politica pure io. Non è colpa mia se Berlusconi mi ha citato nel discorso di insediamento».

VELTRONI E APICELLA - Così nel «promo» della trasmissione si vede il premier che a Montecitorio prende in giro Veltroni con il «pacatamente, serenamente» di Crozza. E si vede Crozza trasformarsi in Berlusconi: «Segno che un comico può diventare presidente del Consiglio. E viceversa». L'imitazione del Cavaliere però non ci sarà. «L'ha già fatto Sabina Guzzanti, per buona creanza non sta bene rifare il numero di un collega. E poi Berlusconi è come Paperino: un personaggio che vive di vita propria; la caricatura di se stesso. Inimitabile. Ora è andato da Bush a dirgli che è stato un grandissimo presidente. Bush l'ha guardato sbigottito: "Silvio, ma che diavolo dici?"». Crozza diventerà invece Apicella, e canterà una delle canzone napoletane del premier, riscritta da Rocco Tanica: «O' chiodo fisso». «Mi sento scisso/ ‘stu chiodo fisso/ un po' m'acqueta e un po' me fa pazzia'/ ho il chiodo fisso/ sono un vesuvio ‘e passiunalità/ sarò prolisso/ ma ho il chiodo fisso/ sto maritato… ma ho l'immunità!». Ci sarà ancora Veltroni e il «ma anche».

BRUNETTA E D'ALEMA - I veri protagonisti però saranno Brunetta e D'Alema. «Brunetta — sostiene Crozza — è il simbolo della politica dell'annuncio: «Ho detto. Ho fatto. Aiutatemi. Vi spiego. Lavoro 28 ore al giorno… Sì, lo so, le ore del giorno sono 24, ma se non dico 28 la gente non capisce». D'Alema sarà evocato come editore di Red Tv, messa in scena da Ambra e da Carla Signoris. «La precondizione per lavorare a Red Tv è: mai nominare Veltroni; ogni volta che si nomina D'Alema, simulare un orgasmo. Continue le dirette da Gallipoli, dove D'Alema sarà impegnato a veleggiare nella Togliatti Cup, a presentare la sua Aies — Associazioni italiani europei simpaticissimi — e ad aprire il convegno "Proprietà privata e cannolicchi di mare". Al termine, D'Alema è stato circondato da porporati e giornalisti, cui ha rivolto il consueto, simpatico saluto: "Vedete di levarvi dai coglioni"». Red Tv sarà commentata da Fassino, quello vero, ospite della prima puntata. Renzo Piano dialogherà invece con l'architetto Fuffas, caricatura di un celebre collega. Il falso Apicella insiste: «I' tengo ‘na mugliera/ che a volte se ne lagna/ se dico alla Carfagna che me fa' attizza'/ c'ho il chiodo fisso/ maronna mia, ma che v'o dic'a ‘ffa'/ c'ho il chiodo fisso/ ma per fortuna poi ce sta Saccà...». Mietta gorgheggia: «Vattene Air France/ che siamo ancora in tempo/ ora c'è Air One/ spensierata sta fallendo...».

NAZIONALIZZAZIONE E PRIVATIZZAZIONE - Dice Crozza che i meccanismi della crisi economica hanno superato la fantasia di qualsiasi cabarettista: «Prima dicevano che bisognava privatizzare. E abbiamo venduto i beni pubblici, cioè nostri, a privati che hanno usato i soldi delle banche, cioè i nostri. Ora dicono che bisogna nazionalizzare. E lo Stato compra le banche, sempre con i nostri soldi. Quindi stiamo ricomprando una cosa nostra che avevamo venduto a spese nostre... Per fortuna ci salva un personaggio affidabile: Gheddafi. E' bello pensare che la tua banca appartiene a un tizio che vive sotto una tenda, nel deserto. Nell'89 è crollato il Muro di Berlino ed è morto il comunismo, ora crolla Wall Street, la via del Muro, ed è il capitalismo che muore». Non a caso la puntata si apre con un gospel e una corona funebre su una cassaforte. «Grillo e io non siamo catastrofisti. Siamo di Genova, dove accadono prima le cose che accadranno altrove. In Liguria siamo i più vecchi d'Europa: ci sono più matrimoni tra i settantenni e le loro badanti che tra ragazzi di 28 anni e ragazze di 23. Altro che arrestare i clandestini, c'è da andare a Lampedusa a sbracciarsi: venite per pietà, altrimenti noi chi ci sposiamo?». Lo pseudo Apicella: «Tengo ‘na mugliera/ che scrive ai giornalini/ se dico alla Gelmini che me fa attizza'/ ma c'a mugliera, o maggistrato e ‘a tv/ m'accatto ‘o lodo Alfano e nun ce pienze cchiù!». Chiudono Crozza e Mietta: «Ancora ti chiamerò/ Colaninno amoroso/ e Tutu Tratratà/ la concorrenza sarà/ solo formalità/ il biglietto per Roma/ che triplicherà/ Malpensa poi chiuderà/ ed Epifani non sa/ che anche lui schiatterà/ sugli esuberi poi/ un'idea che l'avrei/ i soldi li troverò/ sempre là/ dove sai/ forza italiani dai/ e poooiii/ ce li mettete voooiii...».

Aldo Cazzullo
18 ottobre 2008

da corriere.it


Titolo: Aldo Cazzullo. Barack e i fantasmi degli amici rinnegati
Inserito da: Admin - Novembre 03, 2008, 10:50:11 am
Elezioni usa, conto alla rovescia

Barack e i fantasmi degli amici rinnegati

Viaggio a Chicago, nella città del candidato democratico alla Casa Bianca

DAL NOSTRO INVIATO


CHICAGO — «Barack Obama è un grand'uomo, e lei non avrà da me una sola parola contro di lui. Io gli ho voluto molto bene, e ancora gliene voglio. Io l'ho iniziato alla fede. Ho celebrato il suo matrimonio con Michelle. Ho battezzato le loro figlie. L'ho spinto a fare politica». Obama però l'ha rinnegata. «No. Lui non condivide tutto ciò che dico io, e io non condivido tutto ciò che dice lui. Ma è una grande anima: l'unico politico a osare ancora promettere che cambierà l'America, e cambierà il mondo. È tutto. Qualsiasi cosa dicessi, sarebbe usata contro Barack». Così parlò il reverendo Jeremiah Wright, dalla sua casa neogotica di 9167 Pleasant Road, nel South Side di Chicago, la parte meridionale della città.

Non esattamente un ghetto: un gigantesco suburbio da un milione di abitanti. Tutti neri. Questo tratto della 95esima strada è intitolato a lui, al reverendo Wright. Conduce alla nuova sede della Trinity United Church of Christ, la chiesa che per vent'anni è stata la sua. Ieri il rito è durato due ore e un quarto. Duemila neri, un unico bianco. Cori gospel alternati a orazioni politiche: «Ricordiamoci di Martin Luther King! Ricordiamoci di Malcolm X! Ricordiamoci di andare a votare!». Obama non è mai nominato, ma alle pareti c'è la sua foto mentre stringe le mani dei vicini e chiude gli occhi, rapito. E c'è la foto di Jeremiah Wright mentre predica con il dashiki, la veste africana simbolo del Black Power. La stessa che indossa nel famigerato video, il più cliccato su Internet, divenuto ora uno spot di McCain, in cui il reverendo invoca l'ira del cielo sui compatrioti: «Tutti dicono "Dio benedica l'America", ma io dico no no no, Dio maledica l'America» (nello spot la maledizione è coperta da un bip, che enfatizza anziché nascondere). Per Obama, un disastro. Perché il reverendo Wright è per lui persona di famiglia, e qualcosa di più. È il suo demiurgo. L'uomo che l'ha convertito, lui nipote di uno sciamano del Kenya, figlio di agnostici, cresciuto con un patrigno musulmano. L'uomo che gli è stato al fianco negli esordi politici (come racconta lo stesso Obama nel suo libro L'audacia della speranza).

Poi le loro strade si sono divise. Il reverendo ha celebrato l'11 settembre, ha rimproverato all'America Hiroshima, Nagasaki, i golpe militari dal Guatemala al Cile, il sostegno a Israele e al Sud Africa dell'apartheid presentati come fossero le facce della stessa medaglia. Ora la Trinity Church l'ha sostituito con un pastore più giovane, e Obama ne ha preso le distanze. Troppo tardi, forse, per esorcizzare il lato d'ombra di un personaggio sino a poco fa sconosciuto e che ora, secondo i sondaggi e gli auspici dei suoi fratelli neri, sta per diventare presidente degli Stati Uniti.

Dalla chiesa comincia la Michigan Avenue, destinata a diventare molti chilometri più a Nord The Magnificent Mile. Qui la «strada magnifica» corre tra case bruciate, pompe di benzina fuori uso, immondizia al vento, madri con bambini (rarissimi i padri). Poi, man mano che ci si avvicina al centro, le case si alzano di uno o due piani, il legno diventa pietra, ai balconi appaiono fiori e canarini. Qui abita la piccola borghesia nera, qui viveva Obama quando aveva trent'anni e lavorava come assistente sociale. Ancora più a Nord ci sono Hyde Park, l'università di Chicago dove a quarant'anni Obama insegnava diritto costituzionale, e la casa dove vive adesso. I piani sono quattro, compresa la mansarda. Un bowindo, due camini, una zucca di Halloween, la parabola della tv satellitare, un fregio a forma di conchiglia. E, soprattutto, un giardino. L'unico della zona. Niente di che: pini, altri alberi, un canestro per giocare a basket, scoiattoli, un Suv parcheggiato. Ma abbastanza da evocare un altro fantasma. Questo terreno era di Antoine «Tony» Rezko, uomo d'affari di origine siriana. Confidente, finanziatore dell'ascesa di Obama, e suo immobiliarista di fiducia: Barack scelse la casa e la comprò a prezzo scontato, Tony acquistò a prezzo pieno il giardino e ne cedette una parte all'amico. Un dettaglio. Se non fosse che Rezko — grande elemosiniere della macchina democratica guidata dal governatore Blagojevich e dal sindaco Daley, figlio e omonimo del Daley che fece votare i morti pur di favorire Kennedy — è in carcere per estorsione, frode, riciclaggio. Se poi si considera che dall'altra parte della strada, vicino alla sinagoga, abita un altro professore dell'università, William Ayers, oggi amico di Obama ma negli anni Settanta leader del gruppo terrorista dei Weather Underground, allora si comprende come il trasloco gli abbia creato qualche guaio.

Nulla che sembri comprometterne la corsa, né intaccare l'aura di cui è circonfusa una storia irripetibile, compresi gli incontri con il razzismo, cui lui ha sempre reagito. Restò in silenzio solo il primo giorno di scuola, quando un compagno gli chiese se suo padre era un cannibale. Al primo ragazzino che gli disse «negro» fece sanguinare il naso. Il tennista che gli chiese di non toccare la lavagna con i nomi degli atleti — «il gesso potrebbe sbiadirti la pelle» — fu minacciato di querela. Dalla vecchia che l'aveva preso per un ladro pretese invano le scuse. All'allenatore di basket che teorizzava «ci sono i neri e ci sono i negri» rispose che «ci sono i bianchi e ci sono i figli di puttana come te». Non si sa come abbia reagito la volta che, davanti a un ristorante del centro, aspettava il valletto dell'auto e si vide tirare le chiavi da una coppia di bianchi, convinti che il valletto fosse lui. Racconta Obama che quei ricordi gli vorticavano nella mente mentre ascoltava il primo sermone del reverendo Wright e un bambino gli porgeva un fazzoletto: «La gente iniziò a urlare, ad alzarsi in piedi, ad applaudire e a strepitare; un vento poderoso che trasportava la voce del reverendo su, in alto, verso la croce…». Un sermone intitolato «L'audacia della speranza».

Aldo Cazzullo
03 novembre 2008


da corriere.it


Titolo: Massimo Gaggi. McCain ha condotto una campagna piena di zigzag
Inserito da: Admin - Novembre 03, 2008, 10:51:25 am
Elezioni Usa, conto alla rovescia

L'eroe frenato dai propri errori

Battute e svolte per resistere

McCain ha condotto una campagna piena di zigzag

DAL NOSTRO INVIATO


NEW YORK — «Di rado una strategia studiata a tavolino resiste al primo scontro col nemico». Per anni l'ex pilota di bombardieri John McCain ha applicato alla politica il motto appreso negli anni spesi tra i militari. E, in genere, ne ha tratto un profitto: il senatore dell'Arizona è diventato una leggenda per la sua capacità di cambiare in corsa scelte che si stavano rivelando perdenti, di capovolgere situazioni apparentemente compromesse.
Stavolta, però, il «metodo McCain» sembra fare cilecca: il candidato repubblicano ha riempito l'ultima fase della campagna elettorale di colpi di coda brillanti, di audaci cambiamenti di rotta. Ogni singola mossa — dalla scelta di Sarah Palin per la vicepresidenza alla campagna che ha presentato il popolarissimo Obama come una «celebrity» senza sostanza, dalle invettive contro lobby e clientele di Washington all'invenzione di «Joe the plumber», l'idraulico antitasse — gli ha fatto guadagnare consensi. Eppure, a un passo dal traguardo, la sensazione prevalente è quella di un McCain senza una strategia chiara che procede a zigzag, tra una trovata tattica e l'altra, nel tentativo di restare attaccato a un Obama in fuga nella conquista di consensi.

Convincente quando mette in luce le lacune del suo avversario, McCain non è riuscito a spiegare come salverà un'America angosciata da una crisi mai vista, mai immaginata prima (solo i 90enni hanno memoria del Grande crollo del 1929). Lui, abituato alle resurrezioni miracolose, non molla: meno di un anno e mezzo fa, senza soldi e coi sondaggi che lo avevano declassato a pura comparsa dietro i Romney e i Giuliani nella gara per la nomination repubblicana, McCain veniva invitato da molti a ritirarsi. Si sa come è andata a finire.

Questa estate si è ripetuto: dopo aver mangiato per mesi la polvere del popolarissimo Obama, è riuscito improvvisamente a raggiungerlo e superarlo. Con la disoccupazione alle stelle, il credito paralizzato e il Paese sull'orlo del «meltdown» finanziario, ora, però, McCain arranca di nuovo nei sondaggi. L'esito del voto di domani è considerato ancora incerto solo perché nessuno è in grado di dire con esattezza quanto peserà su Obama l'«handicap» della razza.

Ma la battaglia del candidato nero contro il «fattore R» non può far dimenticare che anche tutta la campagna di McCain è stata una corsa frenata dagli handicap: dal deciso sostegno dato dal senatore, due anni fa, a una guerra in Iraq in quel momento considerata persa quasi da tutti, allo spettacolo del governo liberista del suo compagno di partito George Bush che compra banche e assicurazioni. Strada facendo il maverick, l'anticonformista della politica americana, è sempre riuscito a tamponare le falle. Aiutato dall'efficace controffensiva antiterrorismo del generale Petraeus in Iraq, ha vinto la corsa alla nomination dei conservatori spazzando via tutti i suoi avversari. Ha sconfitto l'«handicap» dell'età avanzata (72 anni) offrendo migliaia di pagine della sua cartella clinica all'esame della stampa.

Con una campagna sempre all'attacco è riuscito a raccogliere per sé, in tutti i sondaggi, un risultato molto migliore di quello attribuito al fronte repubblicano: il partito al quale appartiene e che dal 1992 aveva dominato, incontrastato, la scena politica americana. Ma che due anni fa è improvvisamente entrato in crisi e che dopodomani subirà, con ogni probabilità, una sconfitta di dimensioni storiche.

Fino a un paio di mesi fa McCain era riuscito addirittura a smarcarsi dalla figura di George Bush, il presidente più impopolare della storia americana, sempre secondo gli onnipresenti indici di gradimento. Il primo imputato (non l'unico) per il crollo del sistema creditizio americano è l'eccesso di deregulation dell'era Reagan- Bush: una politica che McCain ha sempre condiviso e che, coerentemente, non ha ripudiato nemmeno adesso. Il candidato repubblicano ha continuato a proporre il modello liberale di una ripresa affidata solo alle forze del mercato, ma poi ha dovuto avallare i salvataggi decisi dal governo federale per evitare il tracollo dell'economia. Coerente, ma fuori tempo: mentre il Tesoro e la Federal Reserve pompavano nelle banche e nell'economia produttiva centinaia di miliardi di dollari dei contribuenti americani, McCain continuava a centrare i comizi sulla sua battaglia senza quartiere alle elargizioni clientelari votate dal Congresso: complessivamente 18 miliardi di dollari (13 miliardi di euro) in un'epoca in cui l'unità di misura della spesa pubblica è diventata il trilione (mille miliardi di dollari).

La crisi, precipitata a settembre col fallimento della banca Lehman, ha improvvisamente immerso l'intera campagna elettorale nei colori del piombo: svanito l'«effetto Palin» e con la politica estera — il suo punto di forza — ormai lontana dall'attenzione degli elettori, McCain è stato costretto ad affrontare la battaglia finale con Obama sul terreno dell'economia: quello che gli è meno familiare e sul quale la destra Usa è, oggi, in grande difficoltà. Spinto da Steve Schmidt, il 38enne «Lothar» (un gigantesco ragazzone calvo dagli occhi di ghiaccio) al quale ha affidato le strategia della sua campagna elettorale, McCain ha tentato l'ultimo colpo di timone per raddrizzare una nave spinta alla deriva dai continui crolli di Wall Street: sospensione della campagna elettorale, richiesta di rinvio del primo dibattito televisivo con Obama e tutti a Washington a lavorare sulla legge di salvataggio dell'economia. Una mossa azzardata, ma che poteva rivelarsi efficace se McCain fosse riuscito a far brillare la sua capacità di leadership. Non è andata così: durante i vertici alla Casa Bianca McCain ha fatto solo domande banali. Ne è uscito meglio Obama che, pure, aveva accettato con riluttanza l'invito di Bush. Quanto al Congresso, la full immersion di McCain, a detta di molti parlamentari anche repubblicani, è servita solo ad alimentare la confusione: quando, 24 ore dopo, è ripartito da Washington per recarsi al dibattito che non era riuscito a far slittare, il senatore dell'Arizona si è lasciato dietro un Parlamento più diviso di prima.

È in quelle due settimane — dalla decisione del governo, domenica 14, di lasciar fallire Lehman, alla sospensione della campagna e alla missione di fine mese al Congresso — che la campagna di McCain scivola lungo una china che non riuscirà più a risalire. Non lo dicono solo i sondaggi, ma la stessa decisione dei suoi strateghi elettorali di abbandonare il Michigan — quello che era stato a lungo lo Stato-chiave della campagna repubblicana, l'unico tra quelli tradizionalmente democratici che McCain pensava di poter strappare al suo avversario — per andare a difendere la Florida: uno Stato considerato roccaforte sicura della destra e nel quale, invece, Obama aveva appena fatto il sorpasso nei sondaggi.

L'epilogo della campagna è un susseguirsi di attacchi abbastanza scomposti a Obama: «amico di terroristi», «socialista», «simpatizzante occulto dell'Islam». Efficaci? McCain spera di sì e adesso punta a strappare ai democratici la Pennsylvania per compensare la prevedibile conquista di alcuni Stati repubblicani da parte del suo avversario. Ma le invettive, che forse spingeranno qualche conservatore in più ad andare a votare, hanno alienato a McCain la simpatia di personaggi come Colin Powell e irritato i moderati che cercavano in lui un «centrista » affidabile. Di più: il polverone sollevato demonizzando Obama ha finito per offuscare anche le trovate migliori. «Joe the plumber» poteva essere il modo più efficace per riportare l'attenzione degli elettori sulla necessità di preservare i meccanismi di una crescita economica sana, per denunciare il rischio che più assistenza e più tributi indeboliscano lo spirito imprenditoriale che l'America continua ad avere. Invece, tra idraulici, discorsi ormai a ruota libera della Palin e muratori ispanici che paragonano il leader democratico a Hugo Chavez, negli ultimi giorni il palcoscenico di McCain è sembrato, a volte, quello di un cabaret.


Massimo Gaggi
03 novembre 2008


da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO. Washington, esplode la festa pro-Obama
Inserito da: Admin - Novembre 05, 2008, 11:43:10 am
Non una parola contro John McCain

Washington, esplode la festa pro-Obama

Un frastuono di pentole e clacson tipo rivolta argentina o vittoria degli Azzurri.

E gli sconosciuti si abbracciano


DAL NOSTRO INVIATO

WASHINGTON - Per tutto il giorno Washington è rimasta zitta, sotto una pioggia leggera. In attesa. Kathleen Kennedy, la figlia di Bob, sorrideva ottimista già alla chiusura dei seggi, ma i maggiorenti del partito compreso suo zio Ted erano ancora incerti. E anche la serata elettorale è trascorsa tra silenzi e cautele. Poi, dopo aver ascoltato il discorso di Obama da Chicago, la Washington democratica (cioé quasi tutta la città, che ha votato compatta per il nuovo presidente) si è riversata davanti alla Casa Bianca. Una folla incredibile, multicolore, plurigenerazionale. Neri, biondi, indiani. Ragazzi giovanissimi al primo voto, e vecchi militanti. Cani, passeggini, tutti nelle strade della capitale mentre la pioggia finalmente cessava.

PENTOLE E ABBRACCI - Un frastuono di pentole e di clacson tipo rivolta argentina o vittoria degli Azzurri. Bandiere a stelle e strisce, cori Usa-Usa, anzi: Iu-Es-Ei. Sconosciuti che si abbracciano e danno il cinque a mani che si sporgono dai finestrini delle auto in corsa. Cori per Obama, ovviamente. Ma non una parola contro John McCain. Chi l'ha mandato a quel paese ad alta voce è stato subito zittito dagli altri. La nobiltà del discorso in cui ha riconosciuto lo storico passaggio dell'elezione di un afroamericano e ha detto «ora Obama è il mio presidente» non è sfuggita ai democratici. Il coro che si leva più alto è «no more Bush», basta Bush. Forse perché la folla pensa che W sia in casa. Forse perché ritiene che, se un giorno la storia rivaluterà il presidente che lascia due guerre in corso e la peggior crisi economica dal 1929, quel giorno appare molto, molto lontano.


Aldo Cazzullo
05 novembre 2008



da corriere.it


Titolo: Aldo Cazzullo. La trincea di Little Havana
Inserito da: Admin - Novembre 09, 2008, 04:46:57 pm
Usa 08 - la societa' «No a una Revolución nera»

La trincea di Little Havana

La paura degli esuli cubani. Ma i loro nipoti stanno con Obama

DAL NOSTRO INVIATO


MIAMI — «Obama, Osama/juntos en la cama…». La battuta che gira tra i tavoli, sul nuovo presidente che divide il talamo con il nemico, poteva nascere solo dalle fervide menti dei cubani di Miami. Gente immaginifica, che ha chiamato il suo ristorante simbolo Versailles come la reggia del Re Sole, il piatto-bandiera moros y christianos che non sono neri e bianchi ma fagioli e riso, e ora esercita la sua fantasia su una nuova era che la lascia scettica. Little Havana, la Cuba in esilio a Miami, è all'opposizione. In tutta l'America, e anche nel resto della Florida, gli ispanici hanno votato in gran parte Obama. Tranne qui, dove McCain supera il 67%, e il presidente eletto divide il quartiere, le generazioni, anche le famiglie.

Nella sede del più acceso movimento anticastrista, l'Alpha 66 — un tempo luogo di cospirazioni, oggi semplice posto di ritrovo, vicino alla fiamma eterna che ricorda «los martires» della Baia dei Porci —, i vecchi esuli commentano indignati quello che considerano il voltafaccia della famiglia Pujol. Il nonno, José Luis, popolare voce della radio cubano-americana, si è battuto come un leone fino all'ultimo: «Se vince Obama avremo anche noi i pionieros nelle scuole», vale a dire i balilla di Fidel. Ma la nipote, Alexandra Palomo-Pujol, 24 anni, si è schierata con Barack, ha aperto per lui un comitato elettorale e ha trascinato con sé pure la madre, Rosa, per la disperazione degli anziani. Il nonno, capelli candidi, sguardo ombroso, non si dà pace. Sostiene che si è avverato l'incubo degli Anni Settanta: «Ora l'America conoscerà davvero il Black Power, il potere nero. Sento parlare di rivoluzione. Una parola che mi fa paura. Cominciano tutti con nobili intenzioni e finiscono per arricchirsi e impoverire il popolo». La nipote, bionda tinta, sorriso smagliante, dice che «dobbiamo pensare al futuro in America, non al passato a Cuba. La nostra dev'essere vita, non esilio. Obama ha una storia da emigrante, come noi. È davvero una rivoluzione».

José Luis Pujol e i cubani repubblicani vorrebbero un embargo ancora più duro, fino alla caduta del regime. Alexandra Pujol e i cubani democratici chiedono di poter visitare la madrepatria più spesso che una volta ogni tre anni, di poter mandare più dollari ai parenti sull'isola. Il nonno è rimasto con i coetanei sull'Ottava strada anzi Calle Ocho, il cuore della piccola Avana, con i tavolini da backgammon sotto le palme, i murales con George Washington e José Marti abbracciati e la paella criolla di Versailles. La nipote si è trasferita a Coconut Grove, dove nel '68 c'erano gli hippy e ora ci sono gli yuca, young urban cuban american, giovani rampanti che girano in cabriolet e bevono margaridas da mezzo litro. Lo scrive il Miami Herald: anche tra i cubani, sotto i 29 anni Obama vince; sopra i 65 anni non arriva al 20%. I capi della comunità, ovviamente, rendono omaggio al nuovo potere.

I tre riconfermatissimi deputati repubblicani, Ileana Ros-Lehtinen e i potenti fratelli Mario e Lincoln Diaz-Balart, hanno espresso guardinga stima per Obama. Proprio come il sindaco Manuel «Manny» Diaz e il presidente della contea Carlos Alvarez: tutti sostenitori di McCain. Altri cubani guardano a Obama con sincera speranza. Insospettabili come José Basulto, anticastrista storico, reduce della Baia dei Porci, collaboratore della Cia. Emergenti come Joe Garcia, ex portavoce della Fondazione cubano-americana, candidato sconfitto alla Camera. Si è lasciato fotografare con Barack pure Don Francisco, il presentatore sovrappeso citato nel Guinness dei primati perché conduce da quasi cinquant'anni la stessa trasmissione, Sabato Gigante, dove ha fatto spassose interviste in anglo-spagnolo a Bush.

Ai cubani tutto sommato quel presidente che parlottava la loro lingua — Vamos a ganar! Vamos todos contra el comunismo! — non dispiaceva. George W qui vinse entrambe le volte, anche grazie al fratello governatore Jeb e alla moglie messicana Columba Garnica Gallo Bush, la cui biografia La Cenerentola della Casa Bianca ha come sottotitolo E' troppo tardi papà: così rispose Jeb al padre che gli suggeriva di cambiare fidanzata; il nipotino fu poi chiamato, a sorpresa, George. Ora i democratici hanno sfatato la maledizione della Florida, che costò la Casa Bianca a Gore e Kerry e la vita a 4.200 soldati Usa e centinaia di migliaia di iracheni. Anche questo è motivo di insoddisfazione, spiega Vilfredo Del Toro, nome da guerrigliero o da attore, che nel suo negozio di immagini sacre sulla Calle Ocho ha sì una foto del Che, ma non spavaldo con il basco: «bucherellato», come lo definisce lui, e disteso sul tavolo dell'obitorio. «Obama è un'estremista e non mi piace. Però noi siamo stanchi di vedere i nostri figli cadere dall'altra parte del mondo, mentre a novanta miglia da qui Castro morirà indisturbato nel suo letto, speriamo presto. Una vergogna per tutti noi».

Non è proprio così. I cubani non hanno bisogno di arruolarsi. Controllano il business più redditizio, quello dei funerali: non si ha idea, dice Del Toro che con i suoi santini lavora nell'indotto, di quanti pensionati del New Jersey e del Minnesota vengano a morire qui. Questo suscita qualche invidia tra gli altri latini. E poi i salvadoregni scampati agli squadroni della morte, e gli haitiani usciti vivi dall'illuminato governo di Papa Doc Duvalier, faticano a comprendere perché un cubano appena tocca terra abbia diritto al permesso di soggiorno, mentre loro se lo debbano sudare in anni di lavoro nero. Pure per questo hanno votato in massa per Obama. Che qui ha vinto anche grazie a un'altra comunità influente. Gli ebrei della Florida sono 800 mila. Portatori di grande autorità morale. A Miami vive uno dei gruppi più numerosi di sopravvissuti alla Shoah, qui ricordata da un monumento con decine di donne e bambini raffigurati negli spasimi dell'agonia.

Il museo ebraico ricorda altri patimenti: le conversioni imposte dagli spagnoli, i cartelli che ancora negli Anni ‘30 vietavano l'ingresso agli alberghi déco di Ocean Drive a miliardari newyorkesi che avrebbero potuto comprarli e licenziare tutti. Oggi la comunità ha come punto di riferimento il console di Israele, vecchia conoscenza dell'opinione pubblica italiana: Ofer Bavly, che a Roma fu il combattivo braccio destro dell'ambasciatore Ehud Gol. Spiega Bavly che per gli ebrei della Florida la sicurezza di Israele è un punto non negoziabile, ma Obama ha dato ampie garanzie al riguardo. Anche per questo l'ha appoggiato — spostando più di un voto latino — pure Don Francisco; che si chiama in realtà Mario Kreutzberger, figlio di Erik Kreutzberger fuggito dalla Germania dopo la Notte dei Cristalli.

Aldo Cazzullo
09 novembre 2008

da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO. Fabbriche chiuse e casinò, gli obamiani tristi di Detroit
Inserito da: Admin - Novembre 10, 2008, 11:48:08 am
L'ex capitale dell'automobile colpita dalla crisi

Fabbriche chiuse e casinò, gli obamiani tristi di Detroit

La vittoria democratica non ha acceso grandi speranze
 

DAL NOSTRO INVIATO


DETROIT - La faccia imbronciata, gli occhi assenti, il gesto meccanico, il ritmo e pure l'orario sono gli stessi di quando lavoravano in fabbrica. Ora però gli operai neri li trovi alle 7 del mattino al Greek Casinò, uno dei cinque di Detroit; in mano, un canestro da pop-corn pieno di monetine, che infilano nelle 2.400 slot-machine con la stessa mogia compulsività con cui ancora il mese scorso si piegavano sulla catena di montaggio. Per vedere la faccia triste dell'America non è necessario scendere al confine con il Messico; si può salire qui al Nord, nel Michigan. Un tempo tra gli Stati più ricchi, ora precipitato al 32˚ posto come reddito pro capite, ma balzato in testa per criminalità e disoccupazione. Qui, dove Barack Obama affronta la prima crisi della sua presidenza.

Ci sono ancora, gli operai della capitale dell'automobile, dai volti accesi, ottimisti e quasi tutti bianchi. Sono sul murale che Diego Rivera affrescò su commissione della famiglia Ford nel 1932, quando Detroit era la più grande città-fabbrica del mondo. Stamattina sono quasi tutti neri gli operai che arrivano al lavoro in auto, nello storico stabilimento di Pontiac della Gm. La fabbrica è chiusa, ma loro non hanno un altro posto dove trovarsi. Quando ci sono tutti, partono per il centrocittà, verso uno dei nuovi casinò aperti dal sindaco nero Kwame Kilpatrick prima di finire in galera, il mese scorso: ha licenziato il vicecapo della polizia che minacciava di rivelare la sua storia con la segretaria. «Non ho nessuna storia!» assicurò il sindaco. Poi trovarono gli sms. Così la gestione politica della crisi grava sulla governatrice del Michigan, Jennifer Granholm, la signora bionda apparsa alle spalle di Obama nella prima conferenza stampa dopo la vittoria.

Sarà Detroit il banco di prova. Se fallisse anche una sola delle tre grandi compagnie dell'auto, la recessione che già si intravede precipiterebbe. Il problema è che tutte e tre sono sull'orlo del fallimento. Gli ultimi dati sono di venerdì scorso. La General Motors perde un miliardo di dollari al mese e il portavoce Tony Sapienza annuncia altri 3.600 licenziamenti. La Ford ha denaro per tirare avanti fino all'aprile 2009, a patto di tagliare un altro 10% del personale, già diminuito del 40% in tre anni. I dati della Chrysler - amministrata dall'italoamericano Bob Nardelli erede dell'italocanadese Tom LaSorda e del mitico Lee Iacocca - non si conoscono: il fondo Cerberus che la controlla non è tenuto a comunicarli; ma si sa che è messa ancora peggio. Nancy Pelosi, speaker democratica della Camera, ha ripreso per conto di Obama le trattative sospese da Bush. I manager dell'auto chiedono altri 25 miliardi di dollari, oltre ai 25 già stanziati dal piano Paulson. Inoltre Rick Wagoner della Gm chiede 10 miliardi per accollarsi la Chrysler. Obama è pronto a dare molto, a un patto: che non siano soldi gettati nella fornace delle perdite, ma servano a «fare altre cose, in modo diverso».

La nuova amministrazione democratica vagheggia un «big bang» dell'auto: meno Suv, più piccole cilindrate; meno consumi e inquinamento, più ricerca e nuove tecnologie. Il panorama di oggi è desolante. «Jefferson, Daimler-Chrysler» è ancora scritto alle porte dell'unico stabilimento ancora aperto in città. La Chrysler non è più della Daimler ma il nome del nuovo padrone, appunto Cerberus, non è apparso tranquillizzante. Il parcheggio degli operai è mezzo vuoto; quello delle auto invendute è pieno. Hamtramck, la fabbrica delle Cadillac e delle Buick, è un bastione assediato da ciminiere spente e capannoni dai vetri rotti. All'interno la situazione non è migliore, spiega G.F., ingegnere italiano che chiede di restare anonimo per non ingrossare le fila dei licenziandi: «Io mi sono formato in Fiat, dove l'automazione è molto più avanti. Qui ho lavorato tre settimane alla catena di montaggio, e pensavo di diventare matto: le auto si fanno ancora a forza di braccia, ma la fatica mentale è ancora peggiore. Pure le relazioni sindacali sono antiche. La scena per cui vieni convocato e licenziato si vede solo nei film, o in altre aziende. In Gm liberarsi di un dipendente costa almeno 65 mila dollari, e le trattative non finiscono mai».

Il rapporto tra Detroit e Chicago veniva paragonato a quello tra Torino e Milano: qui la fabbrica, là il terziario; Detroit guardava alla sua vicina come a una città affarista e remota, Chicago la ignorava. L'accostamento non regge più. Detroit, a differenza di Torino, non ha investito in tecnologia e non si è diversificata. L'unico business alternativo sono gli ospedali, che impiegano 10 mila infermieri. Da Hamtramck parte l'Eight Mile, il Miglio 8 del film di Eminem, che è di queste parti. Un'officina riparazione freni mezza chiusa, e un topless bar. Un ufficio per assicurazioni auto (il 75% delle polizze dura un mese, poi scade e si gira senza), e un sexy-shop. Un negozio di pneumatici usati, e una sala massaggi. Fermate di bus deserte: non a caso Michael Moore - che è di Flint, qui vicino - scrive che «se dovete prendere un bus a Detroit portatevi Guerra e pace, lo finirete prima che arrivi». L'unica fabbrica che fuma e stride come l'officina di Vulcano è la Warren Truck, gruppo Chrysler, dove si fanno anche i carri armati.

La vittoria di Obama è scivolata via senza accendere grandi speranze. Qui la campagna elettorale quasi non s'è vista: le primarie sono state invalidate; McCain ha tentato qualche comizio, vista l'accoglienza ha chiuso gli uffici e congedato i volontari. Il motivo d'agitazione è un altro: martedì 18 torna dopo tempo la figlia più illustre di Detroit, Madonna; il concerto è già esaurito. Altro fattore di orgoglio è l'università del Michigan, dove hanno insegnato Fermi e Sabin e ora più modestamente si allena Michael Phelps.

La crisi morde anche le grandi tradizioni sportive di Detroit: i Pistols non vincono l'Nba dal 2004, i Tigers erano i favoriti nel baseball ma non sono arrivati ai playoff, nel football i Lyons hanno perso otto partite su otto. «I Lyons sono della famiglia Ford, e da sempre indicano la salute della città - ci spiega Ron Dzwonkowski, editorialista del quotidiano locale, che si chiama Detroit Free Press ma si paga -. Purtroppo si tratta di fondere, o almeno far collaborare, tre aziende diverse, tre mentalità incompatibili. La Ford è una famiglia, in ogni senso. È Detroit. La Gm è una public company. La Chrysler è di privati che hanno sbagliato investimento. Ora la prospettiva, se Obama mette i soldi e tutto va bene, è una fusione che segnerebbe la fine del marchio Chrysler e la perdita di 35 mila posti, più 70 mila nell'indotto. In una città dove la disoccupazione ufficialmente è al 9%, ma in realtà nei quartieri degradati è al 40, sarebbe drammatico». Da qui la voce, con ogni probabilità una leggenda metropolitana, che gira a Detroit: un reparto di polizia militare sarebbe stato richiamato dall'Iraq per timore di sommosse, come quelle devastanti del '67. Ma c'è un piano B, forse più efficace. Dall'altra parte del lago, in Canada, sta per aprire un nuovo casinò.

Aldo Cazzullo
10 novembre 2008

da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO. Mastella: l'ho cresciuto io. Abile ma sfaticato
Inserito da: Admin - Novembre 14, 2008, 05:53:24 pm
Il personaggio L'ex leader udeur: arrivato in Parlamento regalò un pastorello da presepio alle deputate

Mastella: l'ho cresciuto io. Abile ma sfaticato

E De Mita: ha stile e capacità, lo proposi come sindaco di Napoli


ROMA — Il senatore Riccardo Villari è grande esperto di epatite C. Di conseguenza, è stato eletto presidente della Commissione vigilanza Rai. Un tecnico. Attenzione però a sottovalutarlo. «Riccardo è uno intelligente, svelto. Capisce la politica. Sa come muoversi».

Parola di Clemente Mastella, che lo ebbe al suo fianco, anzi, di più: «L'ho cresciuto io. Lo presi dal Cdu, portandolo via a Buttiglione. Lo feci segretario regionale in Campania», il core-business del partito. «Poi lo feci eleggere consigliere regionale. Quindi lo portai in Parlamento, nel 2001. Lui esordì alla grande, regalando a tutte le deputate una statuetta di pastorello da presepe napoletano. Purtroppo finì come sempre in questi casi: crescono con me, poi quando arrivano in alto mi abbandonano. Così passò con Rutelli. Ma non ce l'ho con Villari, anzi, mi è carissimo. Perché è stato tra i pochi democratici cristiani a restarmi vicino, nei giorni della disgrazia. Mi chiamò. Venne anche a casa mia. Ancora adesso mi telefona spesso, mi chiede consigli».

Nessun difetto?
«Bé, è un po' sfaticato — spiega Mastella —. Viene da una famiglia importante, di medici facoltosi. E' un altoborghese napoletano, e di conseguenza ha una concezione altoborghese della politica».

Cioè?
«La domenica, mentre io giravo le parrocchie e le sagre del Sannio, lui andava a Capri». Non a caso, due delle quattro proposte di legge che Villari ha presentato come senatore riguardano «misure a sostegno delle isole minori» e «istituzione dell'Osservatorio dei porti turistici e della nautica». Cinquantadue anni, epatologo, sposato e separato, casa a Posillipo, gran tifoso del Napoli, Villari viene allo scoperto in politica dopo Tangentopoli. Mastella lo ricorda già nella Democrazia cristiana. Ma è nella Margherita che si imbatte nel suo secondo mentore: Ciriaco De Mita. «Ci siamo conosciuti scontrandoci. Lui si candidò contro di me alla segreteria regionale».

Chi vinse?
«Vinsi io — racconta De Mita —. Del resto, io ho perso una sola volta, contro Veltroni. Comunque, questo Villari mi rimase impresso. Si era mosso con grande stile e una certa capacità. Ha tutti i pregi dei napoletani: moderazione, garbo, accortezza. Così, quando sembrava ci fosse da scegliere il successore della Iervolino a sindaco di Napoli, indicai lui. L'accordo era fatto, ma Bassolino organizzò una raccolta di firme per chiedere la riconferma di Rosetta. Che proseguì a fare il sindaco. Anche se in realtà non l'ha mai fatto».

E Villari, che farà?
«Secondo me non deve dimettersi. Io lo apprezzo molto, anche perché, a differenza di altri, ha mantenuto con me un rapporto affettuoso anche dopo la mia cacciata dal Pd. Dovrebbe restare alla guida della Vigilanza, in attesa che si mettano d'accordo. Dimettersi per alimentare lo scontro non avrebbe senso. E poi sarebbe un buon presidente». Al termine dello slalom tra Dc, Cdu, Udeur, Margherita, Villari è approdato nel Partito democratico, e pure qui si muove molto. L'hanno visto sia alla riunione campana di Red, la corrente di D'Alema, sia all'incontro degli ex popolari ad Assisi: per cui è classificato nella casella dei marinian-dalemiani. Da direttore del Riformista l'ha interpellato spesso un altro che lo conosce bene, Antonio Polito, che è stato con lui parlamentare della Margherita.

«Villari è tra quelli che considerano sbagliato l'arroccamento dell'opposizione sul nome di Orlando — dice Polito —. Per questo la maggioranza l'ha scelto. Però lui non è un nuovo Sergio De Gregorio, che fece l'accordo nottetempo con Berlusconi. Non è un "traditore" e forse alla fine si dimetterà; però nel frattempo fa bene a consultarsi con i presidenti delle Camere e pure con Napolitano, se sarà ricevuto. Del resto un partito è un organo complesso, non esiste solo il segretario...».

Quali sono invece i consigli di Mastella alla sua creatura?
«Prendere tempo, innanzitutto». Donadi dell'Italia dei Valori dice che ora Villari consulterà pure il Papa. «Intanto si gode il suo giorno di gloria. Poi temo sarà costretto a dimettersi. Si tratta però di muoversi in modo da poter rientrare». E come? «Se Villari rinuncia, almeno provvisoriamente, Veltroni può dire a Di Pietro: "Visto? Ho fatto dimettere uno dei miei, adesso cambiamo cavallo, tu devi rinunciare a Orlando. Ma siccome Di Pietro è testone e forse non rinuncerà, a quel punto dopo il voto regionale in Abruzzo Villari potrebbe tornare in sella. Sarebbe l'ennesima vittoria postuma della Democrazia cristiana e, se permettete, dei mastelliani».

Aldo Cazzullo
14 novembre 2008

da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO. Di Pietro: Berlusconi è come Hitler
Inserito da: Admin - Novembre 23, 2008, 11:28:26 am
Il libro

Da giovedì in libreria «Il guastafeste» dove il leader dell'Italia dei valori ricostruisce la sua esperienza di magistrato e poi di politico

Di Pietro: Berlusconi è come Hitler

Gardini? Forse avrei potuto salvarlo

L'ex pm nella sua autobiografia: da nazista volere i giudici in manicomio


Berlusconi accostato a Hitler. Veltroni «ingenuo». Il Pd giunto «alla resa dei conti tra lupi». E parole mai sentite su Tangentopoli. Come quelle che Antonio Di Pietro affida al suo intervistatore Gianni Barbacetto, nell'autobiografia Il guastafeste che Ponte alle Grazie pubblicherà giovedì, e che il Corriere ha letto in bozze: «Provo un grande rammarico per la vicenda di Raul Gardini, perché forse avrei potuto salvarlo... ma quello che ho fatto l'ho fatto per mantenere la parola data. È anche per questo che Gardini oggi non c'è più».
«Avrei potuto salvarlo»

Racconta Di Pietro: «Riesco a trovare le prove della responsabilità di Gardini nei pagamenti» delle tangenti Enimont, e «ottengo da Ghitti una misura cautelare. Il suo avvocato comincia con me una trattativa: Gardini vuole consegnarsi alla giustizia, ma senza andare in carcere». L'appuntamento è a Palazzo di Giustizia, alle 8 e 30 del 23 luglio 1993. «Do la mia parola all'avvocato: non andremo ad arrestarlo. Mi sarei riservato di decidere in base all'esito della deposizione. Se avesse parlato lui, sarebbe stata la caduta degli dei. Avrebbe raccontato dei soldi dati a tutti i partiti, compresa la valigia a Botteghe Oscure per il Pci». Il giorno prima, l'avvocato ribadisce le condizioni: «Gardini non dev'essere messo in manette. Lo porteremo in procura, però ci deve arrivare libero, con i suoi piedi». Di Pietro però non si fida. «Rispetto il patto, ma mi assicuro che non scappi. Il giorno prima faccio mettere sotto controllo la sua abitazione di Milano, l'abitazione di Ravenna, l'abitazione di Roma. A notte fonda, i carabinieri mi avvertono che Gardini sta arrivando nella sua casa di Milano, in piazza Belgioioso. "È in arrivo, dottore, lo prendiamo?". In quel momento, avrei potuto salvare Gardini. Se avessi detto: "Prendetelo"! Gardini sarebbe vivo. Ma avevo dato la mia parola. Così ho risposto: "Comandante, fermi tutti. No, non arrestatelo. Tenete discretamente sotto controllo la casa"».
«Alle 8 del mattino dopo, Gardini telefona all'avvocato. So per certo che stava per venire da me. Poco dopo è successo l'irreparabile. Mi precipito a Palazzo Belgioioso, e vedo subito che tra i giornalisti accorsi e qualche carabiniere poco accorto sta già montando un giallo: "L'hanno ucciso!" sussurra qualcuno, e a riprova fa rilevare che la pistola è appoggiata sul comodino mentre Gardini è riverso nel letto. Io chiamo seduta stante il maggiordomo, e lui mi spiega che la pistola l'ha spostata lui, dopo aver trovato Gardini che l'aveva usata per uccidersi, nel tentativo di soccorrere il morente».
Mani pulite
«In procura ero snobbato, molto snobbato. Ero considerato un poliziotto, ero ricordato come il poliziotto che i miei colleghi avevano conosciuto. Fino a qualche mese prima avevo lavorato come commissario al IV distretto di polizia, e quasi quotidianamente avevo portato ai pm milanesi di turno gli arrestati del giorno e della notte precedente...». «È stata importante anche la mia esperienza di perito elettronico », e soprattutto un cambio di strategia: «Prima, nel reato di corruzione, si puntava a indagare sul corrotto, sul politico. Io mettevo con le spalle al muro i corruttori, gli imprenditori. Gli imprenditori non erano i più deboli, ma i più opportunisti: quelli che avevano più convenienza a parlare». Tra i paradisi fiscali, Di Pietro indica «anche la Città del Vaticano, con la sua banca Ior. Spiace dirlo, ma è la verità». Oggi «Tangentopoli c'è ancora, ed è più agguerrita di prima».
Gli ex comunisti
«L'ha detto Craxi, lo dice Berlusconi. Ma i primi a sostenere che Mani Pulite è stata un'operazione politica per eliminare alcuni partiti sono stati, incredibile a dirsi, quelli dell'allora Pds, non appena si accorsero che indagavamo anche sui loro cassieri, Pollini e Stefanini. È successo quando siamo andati a fare una perquisizione alle Botteghe Oscure. Dovevamo capire che fine aveva fatto un miliardo di lire: Cusani racconta che Gardini l'ha portato a Botteghe Oscure. Piaccia o non piaccia, quel miliardo lì è entrato, anche se non siamo mai riusciti a sapere a chi è arrivato. I segretari politici d'allora, Occhetto e D'Alema, io li ho chiamati, ho chiesto che fossero anche sentiti in aula, ma il presidente del tribunale ha deciso che non c'erano elementi nemmeno per sentirli come testimoni».
Versace e Ferrè
«Libero ha dedicato due pagine a Santo Versace, titolo: "Così ho sconfitto Di Pietro". Ma che sconfitto! L'indagine, su Versace come su tanti personaggi della moda, riguardava le tangenti alla finanza. Ricordo ancora quando Ferrè è venuto da me a spiegarmi, con la camicia fuori dai pantaloni: mi ha fatto impressione, lui che era un grande stilista. Ebbene: le tangenti sono state pagate, i finanzieri sono stati condannati. Versace è stato condannato in primo grado e in appello e alla fine, in Cassazione, ha convinto l'ultimo giudice di essere stato costretto a pagare».
I miei errori
Di Pietro nega di aver mai ricevuto una Mercedes: «Dopo averla tenuta in prova per qualche giorno, mi resi conto che consumava troppo. Perciò non la comprai ». Ammette di aver ricevuto un prestito da cento milioni, ma precisa di non averli restituiti «con banconote avvolte in carta di giornale. Li ho restituiti con assegni». Riconosce che fu «un errore». «Oggi andrei in banca piuttosto che da un amico a chiedere un prestito». «Ho conosciuto l'ambiente craxiano milanese, ma appena ho capito di che pasta fosse fatto, l'ho perseguito penalmente senza guardare in faccia nessuno, anche se avevo avuto rapporti di frequentazione con alcuni di quell'ambiente».
Berlusconi
«Il mio partito viene sempre più visto come la vera, unica opposizione al modello fascistoide di governo berlusconiano, fatto di furbizie, favoritismi, leggi ad hoc, manganelli e accenni di xenofobia». «I magistrati? Rappresentano per Berlusconi ciò che gli ebrei rappresentavano per Hitler: razza infame da eliminare, anzi dementi da mandare nei manicomi. Non lo dico io: l'ha affermato lui stesso! Non credo che bisognerà aspettare molto. La "soluzione finale" è vicina per i giudici». «I soldati nelle città? Neanche sotto il regime fascista si era tentato di infinocchiare l'opinione pubblica in tal modo. Neanche Mussolini, con le sue otto milioni di baionette, aveva osato tanto! ».
Le avances del Cavaliere
È il 1994. Berlusconi telefona dal Quirinale, dov'era salito per accettare l'incarico di formare il nuovo governo. «Mi dà un indirizzo: via Cicerone numero 40. Lì trovo scritto sul portone: Studio Cesare Previti ». L'offerta è di fare il ministro dell'Interno; «intanto La Russa aveva fatto la stessa operazione con Davigo: a lui viene proposto di fare il ministro della Giustizia». Borrelli li convince a rifiutare. Ma un anno dopo Berlusconi invita Di Pietro a casa. «Succede nel febbraio-marzo 1995. È la prima e ultima volta che entro nella villa di Arcore. Berlusconi mi propone di entrare nella squadra: vieni in Forza Italia, non siamo nemici, abbiamo le stesse idee liberali. Io ho risposto che non era il momento per me di fare scelte. Berlusconi adombra allora l'ipotesi di incarichi di prestigio nell'amministrazione dello Stato, al vertice della polizia o dei servizi di sicurezza. Tutti e due stiamo stati molto attenti a non scoprirci. Ci siamo annusati, e abbiamo capito che non era cosa».
Altre avances
«Franco Frattini mi chiamò quando era ministro della Funzione Pubblica nel governo Dini. Mi disse che voleva fare un partito con me, perché lui con Berlusconi non c'entrava nulla. Anche Buttiglione mi chiamò e mi invitò a casa sua: cercò in tutti i modi di convincermi a fare con lui un partito contro Berlusconi. Giovanardi mi scrisse una lettera in cui osannava me e Mani Pulite, e ora non perde occasione per attaccarmi. Non le dico poi le volte che sono stato circuito da Casini...».
Giuliano Ferrara
«Nel collegio del Mugello lo stracciai. Lui, che tanto se la tirava!».
Prodi
«Nel 2006 mi aveva offerto di fare il ministro delle Telecomunicazioni. Però non ero considerato molto affidabile per la pax politica bipartisan di controllo dell'informazione pubblica. Sia a destra, sia a sinistra c'è qualcuno che mi guarda con fastidio. Come ora dimostra il caso Orlando». «Poi Prodi mi chiese di andare ai Lavori pubblici, e mi disse che era stata un'idea di una sua nipote». L'indulto? «Romano l'ha subìto più che voluto». «Prodi è stato impallinato dalla sua stessa coalizione. Anche, a volte — per onestà intellettuale devo ammetterlo — dall'agrodolce dell'Italia dei Valori».
Il Pd
«Sono tornati i vecchi lupi d'apparato. In tutto il Paese, ormai, stiamo assistendo a un redde rationem da Ok Corral che non rende giustizia all'impegno di Veltroni. Il Pd mi sembra un'identità in cerca di autore. Con quale Pd avrei dovuto fare il gruppo unico?».
Veltroni
«Inizialmente ha abboccato all'amo berlusconiano. In modo genuino, ma anche un po' ingenuamente, si è dichiarato disponibile a dialogare con Berlusconi». «Su di noi ha detto bugie, ci ha rivolto un attacco tutto basato su falsità. La prima falsità è che avremmo violato il patto. La seconda, quella che Veltroni va ripetendo dappertutto, è che l'Idv sarebbe a favore del reato di immigrazione clandestina. Mi ha fatto arrabbiare, anche se ho dovuto reprimere la voglia di dirgliene quattro, per il bene dell'alleanza». «Ora mi pare che abbia capito il madornale errore». E con Berlusconi «ha cominciato a comportarsi proprio come me».
Bossi
«Potremmo dire che il mio partito sta al Pd come la Lega sta al Pdl. La Lega non è solo il dito medio di Bossi o la bandiera strappata, ma si regge sul lavoro di tanti amministratori locali. Noi siamo una Lega non del territorio, ma dei valori. Non è un caso che nei nostri manifesti, in Lombardia, abbiamo messo il disegno della gallina cui la politica romana ruba le uova: è lo stesso, identico simbolo usato a suo tempo dalla Lega».
In seminario
«Quando andavo a scuola non potevo giocare con i figli di quelli che non venivano in chiesa, con il figlio del muratore, perché era comunista. La mia era una famiglia cattolica, anzi direi ecclesiastica, piena di parenti preti e suore in giro per tutto il mondo, dalla Bolivia al Paraguay. Io stesso sono stato anni in seminario».


Aldo Cazzullo
23 novembre 2008

da corriere.it


Titolo: Ginsborg nelle amministrazioni pd clientelismo e nepotismo, Cioni uomo di destra
Inserito da: Admin - Dicembre 08, 2008, 10:03:48 am
Lo storico «girotondino»

«Questo partito può finire come il Psi»

Ginsborg: nelle amministrazioni pd clientelismo e nepotismo, Cioni un uomo di destra


DAL NOSTRO INVIATO

FIRENZE — Paul Ginsborg è appena tornato nella sua casa d'Oltrarno, dopo quattro mesi a Berkeley. Ha davanti il titolo dell'Espresso — Compagni Spa — che ha fatto infuriare il sindaco di Firenze, e i quotidiani con la foto di Domenici in catene. Cultore di storia repubblicana, «ideologo» della fase nascente dei girotondi e protagonista dell'episodio-simbolo, la disputa con D'Alema al Palasport davanti a migliaia di fiorentini: «Vinsi io, 3 gol a 1. Anche se D'Alema forse non la pensa così». Professor Ginsborg, Cordova dice al «Corriere» che gli scandali di oggi chiudono, sul versante sinistro, il cerchio di Tangentopoli. È così? «Non c'è dubbio che la cronaca di questi giorni vada inquadrata in un contesto storico che comincia nell'89. Allora i postcomunisti non riuscirono ad elaborare un progetto forte che spezzasse l'intreccio tra l'azione politica e il clientelismo. Uno storico male italiano: il rapporto verticale tra patrono e cliente. Gli antichi romani l'avevano codificato. Andreotti lo teorizzò nel '57, quando disse che la domenica mattina, anziché riposare, lui e gli altri democristiani si prendevano cura delle famiglie disagiate».

 
D'Alema e Veltroni
La sinistra aveva un atteggiamento diverso? «Non ho mai mitizzato il Pci. E non amo parlare di questione morale. Ma a sinistra questo male veniva studiato: penso al lavoro di Mario Caciagli su Catania, di Percy Allum su Napoli, di Amalia Signorelli sul Salernitano; Chi può e chi aspetta era il felice titolo del suo libro. E a sinistra c'era l'orgoglio della diversità, della fibra morale, della connessione tra etica e politica». C'era. E adesso? «Oggi il rapporto tra patrono e cliente non viene più studiato. In compenso, è fiorito. Il patrono non è più il proprietario terriero che dispone delle cose proprie; è il politico che dispone delle cose pubbliche. Anche molti politici di sinistra». Berlusconi dice che la questione morale riguarda il Pd. «Berlusconi è un grande patrono. Lo dimostra anche con il linguaggio del corpo: ha sempre le mani sulle spalle di qualcuno. Ma il clientelismo e il nepotismo si ritrovano anche nelle amministrazioni del Pd. E non vedo tensione su questo tema al suo interno. Neppure il Pd affronta il grave problema della forma e del ruolo dei partiti. Molti meno iscritti, molto meno consenso. Il partito di massa cede il posto allo staff del leader. Il primo è stato Tony Blair».

Si disse qualcosa di simile del governo D'Alema nel 2000, con Velardi e Latorre. «L'impressione era quella. D'Alema aveva quell'atteggiamento. Ma non solo D'Alema. Se il centrosinistra non cambia direzione, può fare la fine dei socialisti craxiani negli anni '90». Addirittura? «Se il Pd non si apre alla democrazia partecipata, se non si rivolge ai cittadini e si limita a fare da mediatore, a tenere i contatti con i poteri forti economici, diventa indistinguibile dagli altri partiti. Il clientelismo di Cioni nei suoi meccanismi non è diverso da quello della destra». Che succede a Firenze? «Le racconto un episodio. Quando Domenici fu eletto, fondammo un comitato per lo sviluppo sostenibile dell'Oltrarno. Andammo dal sindaco, portammo proposte per migliorare il traffico e la vita. Lui sembrò disponibile. Distinse tra le cose da fare subito, quelle di medio e quelle di lungo termine. Decise la chiusura temporanea di due strade, un'ora al giorno, per fare andare i bambini a scuola. Buon inizio. Ma tutto finì lì. Fu commissionato a Carlo Trigilia un piano strategico per la città; ma nel 2005 l'intero comitato scientifico si dimise, e oggi l'inquinamento a Firenze è sopra il livello di guardia. Se non hai una visione complessiva della città, finisci per occuparti solo di edilizia, project-financing, poteri forti. Domenici si è comportato come gli altri politici di sinistra con cui abbiamo discusso, da D'Alema a Chiti: ascoltano; spesso ci danno ragione; e poi fanno come se nulla fosse stato. Un muro di gomma».

Domenici si è incatenato sotto «Repubblica». «Mi dispiace, ma non lo vedo come vittima. Preferisco prenderla con leggerezza. Non a caso si è incatenato a Roma; se l'avesse fatto a Firenze avrebbe violato il regolamento del suo assessore Cioni. Vietato disturbare la pubblica quiete, vietato esporre targhe e bacheche senza autorizzazione... C'è però una cosa che mi ha colpito molto del caso Domenici. Il cartello che inalberava». «Sì alla difesa della dignità e dell'onorabilità». «Ecco, la parola chiave è onore. Sento un'eco della vecchia Italia, della profonda cultura mediterranea. L'Italia ha grandi meriti che il mondo anglosassone non ha; ma nei Paesi anglosassoni non ci si appella all'onore maschile. Ci si difende laicamente in tribunale. La stessa eco la sento nel tragico suicidio di Nugnes: un'altra storia che ci riporta agli anni di Tangentopoli. Perché reagire così? Perché non dimostrare la propria innocenza, oppure patteggiare la pena? Siamo tutti esseri umani, non dei, e possiamo tutti sbagliare». Lo scontro tra procure? «Brutto. I giudici non dovrebbero comportarsi così. Molte cose nella magistratura come casta vanno criticate. Ma la sua autonomia è preziosa e va salvaguardata. E gestita in modo responsabile». Bassolino deve andarsene? «Qualsiasi politico indagato, compreso Berlusconi, dovrebbe andarsene. Figurarsi quelli rinviati a giudizio».

Dove sono però i girotondi? E che fine hanno fatto i «ceti medi riflessivi» da lei teorizzati? «I ceti medi riflessivi non sono il Pensatore di Rodin. Si muovono. Ma faticano quando vengono sistematicamente irrisi, come fanno anche molti giornali. In tanti sono caduti nel cinismo, e non si impegnano più. Sarà difficile rianimarli, ma non impossibile». Può riuscirci Di Pietro? «Ho sempre pensato che Di Pietro doveva restare in magistratura. Ora ho cambiato idea. Non appartengo al gruppo di Travaglio, Flores, Di Pietro, ma condivido le loro battaglie. Voi giornalisti lo considerate noiosissimo, ma all'estero il conflitto di interesse resta il primo argomento quando si parla d'Italia». Quindi Veltroni non deve rompere l'alleanza? «Veltroni ha già commesso un grave errore a rompere con la sinistra radicale. Ha ottenuto un vantaggio immediato. Ma poi la sua apertura a Berlusconi non ha portato a nulla. Ora è in arrivo una crisi economica globale di grande drammaticità. O il Pd trova una progettualità forte e ricostruisce un'alleanza alternativa; o entra in un governo d'emergenza nazionale, e allora diventa indistinguibile dalla destra».

Aldo Cazzullo
08 dicembre 2008

da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO. Veltroni: crisi senza precedenti E Berlusconi non è all'altezza
Inserito da: Admin - Dicembre 13, 2008, 12:42:05 am
IL LEADER DEI DEMOCRATICI A PARIGI PER IL SUMMIT DEI PREMI NOBEL

Veltroni: crisi senza precedenti

E Berlusconi non è all'altezza

«C'è una campagna anti Pd. D'Alema? Nessuno pensi di sottrarsi a un insuccesso»
 
 
DAL NOSTRO INVIATO
PARIGI — Veltroni è a Parigi per il summit dei premi Nobel per la pace, di cui è copresidente. Si premia Bono degli U2. Ma la circostanza non gli vale il buon umore. «C'è una singolare e terribile distanza tra quello di cui discute la politica italiana e quello di cui discutono le famiglie. Il presidente del Consiglio annuncia di voler cambiare la Costituzione alla presentazione di un libro, riceve le gemelle dell'Isola dei Famosi, fa corse per consensi elettorali. Intanto il governo è fermo da mesi. Dopo gli annunci-spot, nessun segno di vita di fronte alla più grave crisi che la nostra generazione abbia mai conosciuto, che cambierà il nostro modo di vivere. Vorrei essere chiaro: non credo che questo governo sia in grado di affrontarla».

Che cosa intende? «Berlusconi non è all'altezza di questa crisi. Di fronte alla drammaticità di ricadute sociali senza precedenti dalla Grande Depressione di cui abbiamo letto sui libri, Berlusconi si occupa di tutt'altro. Di stravolgere la giustizia. Di cambiare i direttori dei giornali e magari pure i vignettisti. Non mi si venga a parlare di analisi catastrofiste: i prossimi mesi saranno i più duri della nostra storia, basterebbe informarsi su quanti operai dell'auto faranno dicembre in cassa integrazione. Berlusconi dice che l'Italia sentirà meno la crisi. E perché mai? Con un debito pubblico più alto, metà Paese in balia delle mafie, il credito strozzato, le infrastrutture in ritardo, l'Italia risentirà della crisi più degli altri».

Berlusconi le ricorderebbe che le profezie infauste si autoavverano. «Spero non si avveri la profezia del ministro Sacconi, finita su tutti i giornali europei, e cioè il rischio di una bancarotta o di una situazione di tipo argentino. Parole irresponsabili. Ma non dobbiamo aver paura della realtà. L'Italia è in recessione. Nel terzo trimestre il pil perde lo 0,9%, mentre la Germania cresce della 0,8. La produzione industriale crolla del 6,9, e la Confindustria prevede un peggioramento a meno 11. La caduta dei consumi e la stretta creditizia tolgono ossigeno alle piccole e medie imprese; e senza di loro siamo al buio, l'Italia si ferma. Centinaia di migliaia di precari resteranno senza alcuna garanzia di futuro, impiegati e operai cinquantenni perderanno il lavoro senza avere altre opportunità, aumenteranno le sofferenze degli insegnanti a 1300 euro al mese e dei pensionati a 500. Tutti gli altri Paesi corrono ai ripari: il Giappone investe 290 miliardi di euro, gli Usa 239, la Francia 202, la Spagna 41, la Germania 23. L'Italia appena sei miliardi, peraltro coperti da nuove entrate come ha dimostrato Tito Boeri. Di fatto, nessun investimento».

Tremonti ha già ricordato che abbiamo il terzo debito pubblico al mondo. «Avrei voluto sentire le stesse cose quando si regalavano tre miliardi alla Cai, si aboliva l'Ici anche per i ceti agiati, si gettavano i soldi negli incentivi agli straordinari con le fabbriche ferme. Certo, la spesa pubblica va messa sotto controllo. Questo è il tempo del coraggio, e della cultura istituzionale. E la mia è una cultura istituzionale anglosassone, per cui maggioranza e opposizione si combattono anche aspramente, ma lavorano insieme per affrontare una crisi tanto grave. Invece il governo si muove nella logica dello scontro: provoca la Cgil, radicalizza le posizioni; gli interlocutori dell'opposizione sono "imbecilli", "stupidi", "coglioni", "stalinisti", e potrei continuare». Sareste ancora disposti a lavorare con il governo sull'economia, e sulla riforma della giustizia? «L'Italia dovrebbe trovare, come gli altri Paesi europei, il livello più alto di unità. Invece Berlusconi vive in una campagna elettorale permanente. Sulla crisi noi abbiamo proposto di collaborare nel rispetto dei ruoli di maggioranza e opposizione, e Berlusconi ha risposto con tre parole che alle orecchie degli italiani suonano molto spiacevoli: "Me ne frego". Non esiste al mondo un altro capo di governo che avrebbe detto così. Sulla giustizia avevamo proposto un tavolo con avvocati e magistrati per arrivare in 60 giorni a una riforma condivisa e non punitiva verso nessuno. E invece lui annuncia di voler cambiare la Costituzione a colpi di maggioranza, in contrasto con gli appelli ripetuti del capo dello Stato e dei presidenti delle Camere. Le possibilità sono due: o è un totale irresponsabile; o cerca ogni giorno un argomento che possa scacciare dai giornali una crisi che non riesce a fronteggiare. Stiamo per entrare nell'ottavo anno di governo di Berlusconi dal '94 a oggi, e gli altri sette li ha passati come capo dell'opposizione: il politico italiano che ha occupato per più tempo posizioni di potere. L'Italia è cambiata in qualcosa in questi otto anni?».

È sicuro che la risposta giusta sia lo sciopero generale? «È la risposta fisiologica, che però io spero possa essere in futuro affrontata unitariamente dai sindacati. Non si può pretendere che i cittadini, che vedono triplicare la cassa integrazione e diminuire il loro potere d'acquisto senza che il governo intervenga su stipendi e pensioni, restino in casa a piangere. La gente non accetta di perdere lavoro e salario senza reagire». Più che il governo, per ora è il Pd ad apparire in grave difficoltà, anche per le inchieste giudiziarie di Napoli, Firenze, Catanzaro. Esiste una questione morale? «Assolutamente sì. E non lo dico ora, l'ho detto al Lingotto: è necessaria una rifondazione etica della politica. Ma non riguarda certo il Pd in misura prevalente rispetto agli altri partiti. Il 10% dei parlamentari del Pdl ha problemi con la giustizia. Berlusconi stesso ha una posizione giudiziaria complessa, allentata da incredibili leggi ad personam, e in campagna elettorale ha definito "eroe" un condannato per mafia. Non ha titoli per farci la morale».

Le inchieste sulle amministrazioni pd non le fa Berlusconi, le fanno i magistrati. «Il Pd ha migliaia e migliaia di amministratori perbene, che meritano di essere rispettati. Ma ancora non esiste una leva di amministratori del Pd, che è nato da un solo anno. E io vedo con chiarezza la necessità di innovare radicalmente rispetto a quelle vecchie logiche di persone e componenti che, specie nel Sud, preesistevano al Pd. Soprattutto nel Mezzogiorno, occorre rafforzare con grande severità e rigore il principio del fondamento etico della responsabilità politica. Per fare questo non mi importa se dovremo pagare qualche prezzo elettorale». Non vede segni di cedimento del partito? «La verità è che è in corso una campagna contro il Pd. Il Pd è un bersaglio molto facile, perché non ha il potere di minacciare la carriera di nessuno. È più difficile dire una parola contro Berlusconi che mille contro di noi. C'è un grande partito che affida alle primarie la scelta di dirigenti e candidati, e i giornali dedicano paginate a criticare e vivisezionare; ci sono partiti proprietari e partiti a conduzione familiare che decidono tutto in modo autoritario, e non c'è un solo esponente della cultura liberale che scriva una sola riga sulla totale assenza di vita democratica. Se io avessi detto del governo che è composto di imbecilli, mi avrebbero dedicato articoli di fuoco. L'ha detto Berlusconi di noi, e nessuno ha avuto obiezioni. Siamo passati dal cerchiobottismo al doppiopesismo».

Quindi sono i giornali e le tv a guidare la campagna? «Se i giornali di destra criticano la sinistra, e i giornali di sinistra criticano la sinistra, c'è qualcosa che non va...». Per questo Domenici si è incatenato davanti a «Repubblica»? «No, non c'è assolutamente una polemica del Pd con il gruppo Espresso, che svolge la sua nitida funzione critica. Quello di Domenici è stato lo sfogo, emotivamente comprensibile, di una persona perbene che non accetta di essere raccontato in altro modo. C'è, sui giornali e in tv, un conformismo moderno. Esiste un grande timore di apparire critici verso Berlusconi; anche perché Berlusconi non le manda a dire, ordina il licenziamento di giornalisti Rai, ora se la prende con Corriere e Stampa che non sono certo giornali eversivi, si permette cose che mai Obama, Sarkozy, Brown si sognerebbero. E mai che si levi una voce indignata. I tg sono squilibrati a favore del governo, e il primo caso di cui si occupa la commissione di Vigilanza Rai è Fabio Fazio. La maggioranza ha fatto con noi un unico accordo, uno solo, e non lo rispetta: contro Gianni Letta, contro la correttezza istituzionale». Non c'è però un deficit di leadership da parte sua? Non solo Villari, neppure Bassolino si dimette. «Ai dirigenti napoletani ho chiesto una forte discontinuità, una grande innovazione. Non c'è dubbio che un ciclo, che ha avuto momenti belli e importanti legati al nome di Bassolino, si sia chiuso; ed è stato Bassolino a dirlo, con grande onestà. L'anno prossimo ci sono le Provinciali. Poi si andrà alle Regionali e sceglieremo il candidato attraverso le primarie; cui spero parteciperanno anche esponenti della società civile».

I sondaggi in calo non la preoccupano? «Dal voto di aprile è venuto, viste le condizioni, un risultato molto importante: un grande partito del riformismo che l'Italia non aveva mai avuto. Ma subito sono cominciate le divisioni, i personalismi. Siamo riusciti a risalire. Abbiamo fatto una manifestazione di enorme successo al Circo Massimo, nonostante i tanti dirigenti che dicevano che era meglio non farla, i molti che prevedevano che sarebbe andata male. Abbiamo vinto in Trentino. Siamo risaliti nei sondaggi al 32%. Dal caso Villari in poi, e tralascio quanto accaduto a latere, siamo ricaduti in quel vizio autodistruttivo che da vent'anni logora il centrosinistra. Una malattia da cui bisogna guarire tutti insieme».

I dalemiani si sono battuti per indebolire la sua segreteria. «Il Pd nasce da un lungo travaglio, ed è la nostra unica possibilità. Altre non ce ne sono. Dopo un solo anno, come si è visto al Circo Massimo, abbiamo un'identità, un popolo, che merita maggior rispetto da parte del gruppo dirigente. Abbiamo un fortissimo potenziale di innovazione. E questo la destra lo sa, altrimenti non darebbe tutto questo spazio a Di Pietro. L'altro giorno, una pagina intera su Libero... È lo stesso gioco che Berlusconi faceva con Bertinotti: dargli spazio, polarizzare, individuarlo come alternativa, ovviamente non spendibile per il governo. In realtà, l'unica alternativa siamo noi. Siamo una comunità di destini. Per questo chi pensa di sottrarsi a un nostro insuccesso sbaglia. Se vinceremo vinceremo insieme, se falliremo falliremo insieme». Quale sarà il ruolo di D'Alema nel Pd? «Il ruolo che gli deriva dal suo prestigio. Darà un contributo importante a preparare la Conferenza programmatica. Non credo ambisca a ruoli di gestione. E voi giornalisti dovreste uscire da queste logiche. Siete fermi agli schemi di vent'anni fa, non vedete che una nuova generazione è già all'opera».

Aldo Cazzullo
12 dicembre 2008

da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO. Bertolaso, l'uomo in tuta che accusa (e piace)
Inserito da: Admin - Dicembre 13, 2008, 04:56:41 pm
Maltempo Il personaggio

Bertolaso, l'uomo in tuta che accusa (e piace)


«L'unico vero pericolo? Gli imbecilli che hanno ormeggiato male i loro barconi»
E’ l’unico politico in tuta. Dalla Cambogia di Pol Pot agli argini del Tevere, mai una cravatta, sempre in tenuta da emergenza. Con giubbino e stivaloni, anche per lo tsunami svoltosi a seimila miglia di distanza: pure allora Guido Bertolaso apparve in tv, a dire non solo che non si trovava più Emilio Fede, incautamente in vacanza agli antipodi, ma si accettavano donazioni via sms. Ieri Bertolaso è tornato su tutti gli schermi, stavolta per un'emergenza sottocasa, con lo stile di sempre, preoccupato ma baldanzoso: «L'Aniene cresce però non è un problema», «stiamo monitorando le acque, solo qualche rigurgito al ponte Mammolo»; l'unico vero pericolo sono gli «imbecilli» che hanno attraccato male le loro barche. Un Masaniello d'ordine, a volte amatissimo dalle folle, talora detestato: così i terremotati di San Giuliano lo abbracciano piangendo, ma in Irpinia gli prendono a calci la macchina. Interventista. Un dannunziano tecnologico.

Figlio di un ufficiale dell'Aeronautica, «il primo a collaudare l'F104. Ero ragazzino, mia madre mi portò all'aeroporto, e papà ci passò sopra con quell'uccello di ferro che urlava». Un politico — oltre che capo della Protezione civile è sottosegretario del governo Berlusconi —, però sui generis: si è fatto un nome con i disastri, ma nessuno ha mai osato definirlo, come fece Gasparri con il precedessore Franco Barberi, «sottosegretario alla Sfiga». «Sono assolutamente bipartisan — racconta al telefonino dalla riva del Tevere in piena —. Non è questione di destra e sinistra; il mio compito è servire il Paese, e in particolare i suoi cittadini che soffrono e sono in pericolo. Da ragazzo sognavo di fare il medico dei negletti, degli ultimi. Il mio mito era Albert Schweitzer, il Nobel che aprì il suo ospedale in Gabon. Dopo la laurea, e il master in malattie tropicali a Liverpool, nel '77, a 27 anni, parto per l'Africa. Dove c'è un'epidemia di colera arrivo io: Mali, Senegal, Burkina Faso, Niger, Somalia. Poi, dopo l'invasione vietnamita e la caduta di Pol Pot, mi mandano in Cambogia, ad amministrare il nuovo ospedale nella giungla. Arrivo e scopro che l'ospedale non c'è. Lo costruisco. L'Unicef mi offre il posto di direttore in Somalia. Ma arriva la chiamata dalla Farnesina: responsabile dell'assistenza sanitaria ai Paesi in via di sviluppo».

È l'82, e alla Farnesina c'è Andreotti. «Uomo straordinario, di grandissima sensibilità, anche se tra i personaggi che lo circondavano qualcuno gli ha creato gravi problemi. Forse non se n'era accorto, forse gli servivano per fare politica. Comunque, un maestro». Poi gli Affari sociali con Rosa Russo Iervolino e Fernanda Contri. «Nel '96 mi chiama Cosentino, assessore Ds della giunta Rutelli, per affidarmi lo Spallanzani, costruito e mai aperto. Lo avverto: guardi che io sono amico di Andreotti. Mi risponde che non importa». Rutelli — «uno degli uomini più importanti che ha attraversato la mia esistenza» — gli affida la logistica del Giubileo 2000. «L'anno dopo Berlusconi mi chiama alla Protezione Civile. Lo avverto che ho aiutato Rutelli nella campagna elettorale contro di lui. Mi risponde che non importa. Berlusconi è così: molto simpatico, alla mano, e anche molto semplice».

Fiorello ha detto di Bertolaso che ha 106 controfigure. Guida l'auto del Papa facendosi largo tra la folla giubilare di Tor Vergata (e nel 2005 si occuperà dei funerali). Accompagna il generale Angioni ad affrontare i gommoni albanesi in Adriatico. Avvisa il governo che Genova «non è la città adatta a ospitare il G8» (in effetti). Spegne gli incendi sul Gargano. Scioglie la neve sulla Salerno-Reggio Calabria. Apre un ospedale in Thailandia per i superstiti dello tsunami appunto con le donazioni via sms. Raccoglie fondi anche per gli orfani di Beslan. Ricostruisce la cattedrale di Noto. Organizza i Mondiali di ciclismo di Varese 2008 infeudati alla Lega. Monitora il Vesuvio, con risultati inquietanti: «Ci si deve augurare che dorma per altri due secoli…». Predispone il piano anti-Sars. Litiga con Pecoraro Scanio, viene indotto alle dimissioni, poi torna con Berlusconi e mette una pezza all'emergenza rifiuti, facendo il commissario ma senza stipendio.

Fervente cattolico e quindi in stretti rapporti con le gerarchie ecclesiastiche — dai progressisti di Achille Silvestrini ai conservatori di Fiorenzo «Sua Sanità» Angelini — e con Bruno Vespa, di cui nei giorni del dramma di Napoli è spesso ospite in collegamento dal Palazzo Reale, ori stucchi e marmi con Bertolaso in tuta. Più la misteriosa borsa, sempre la stessa, da cui mai si separa. Intimo di Gianni Letta, non si è preso con Pisanu e ha litigato pure con Fini, per poi fare pace. «Quando mi chiamò nel 2001, dissi a Berlusconi che avrei scelto io i miei collaboratori, senza guardare alla fede politica. Mi rispose: "Ha carta bianca, ma se sbaglia paga lei". Finora non è successo, ma potrebbe accadere stanotte, o domattina». Speriamo di no. «Quando tutto sarà finito, tornerò in Africa. Resto il medico dei dannati della Terra. Prestato alla Protezione civile. Destra o sinistra, non importa».

Aldo Cazzullo
13 dicembre 2008

da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO. «Tutte le mie intercettazioni? Le ho scaricate da Internet»
Inserito da: Admin - Dicembre 27, 2008, 09:59:51 am
L'INTERVISTA

«Tutte le mie intercettazioni? Le ho scaricate da Internet»

Lusetti, indagato a Napoli: nessuno me le ha ancora mandate «Sì, quando dico "il capo" è Rutelli. Ho solo la casa in cui abito»
 
 
ROMA — «È una settimana che mi sveglio all'alba, vado in edicola e apro i giornali con il batticuore: chissà cosa avranno oggi...». Chi segue la politica conosce Renzo Lusetti come il tipico cattolico di sinistra emiliano: spontaneo, estroverso, dall'aspetto un po' arruffato, oltretutto parlatore a raffica e per questo tecnicamente quasi inintercettabile; il contrario dell'immagine del tessitore di affari dietro le quinte, che è parsa uscire dai frammenti anticipati dal Corriere. «Le intercettazioni integrali non me le hanno ancora mandate. Ne ho scaricata una parte su Internet. Vedo che sono piene di puntini, in "in." che sta per incomprensibile; in effetti io parlo molto velocemente e a volte non mi capisco neppure io, chissà che fatica poveri estensori... Su un punto però voglio essere chiaro: chiederò ai miei colleghi parlamentari di votare l'autorizzazione all'uso delle intercettazioni. E chiederò che siano rese pubbliche. Ma tutte, per intero. Diceva Voltaire: prendete la frase di un galantuomo, estrapolatela dal contesto, e ne farete un delinquente». La frase volterrianamente estrapolata è quella che il 3 maggio 2007 Lusetti dice ad Alfredo Romeo, l'imprenditore ora in carcere: «Sto lavorando per te». Sono i giorni in cui Romeo tenta di rovesciare al Consiglio di Stato il verdetto del Tar, che ha accolto il ricorso di un'azienda concorrente per la gestione del patrimonio stradale del Comune di Roma. Lusetti non si pronuncia sull'indagine: «Ho troppo rispetto per i giudici. Mi difenderò in tribunale, non in tv. Sono certo di dimostrare la mia innocenza». Romeo fa riferimento al consigliere di Stato Paolo Troiano. «Una persona che conosco, con cui ho parlato tre o quattro volte, però mai delle controversie di Romeo — dice Lusetti —. Oltretutto, leggo dalle interviste di Troiano che lui neppure era investito della questione, in quanto fuori ruolo da tempo. Probabilmente non conosce neppure Romeo». Nella prima reazione a caldo, prima di chiudersi nel silenzio, Lusetti si era difeso con un battuta: «Io dico di sì a tutti, poi non faccio mai niente». «Non è così — chiarisce ora —. Però è vero che, quando una persona diventa assillante, come nel caso di Romeo, mi capita di darle assicurazioni per chiudere la telefonata. Accanto a errori di trascrizione, che non sono infrequenti e hanno riguardato ieri Polito, oggi Morassut, ritrovo nelle intercettazioni espressioni per me abituali. "Abbi fiducia". "Sto lavorando per te", appunto. Magari in un tono scherzoso che le intercettazioni ovviamente non registrano. Lei ha idea di quante telefonate riceve ogni giorno un politico? Ed è tutta gente che chiede qualcosa. Magari un lavoro, come la signora che mi ha chiamato adesso e ha perso il marito un mese fa di leucemia...». A un certo punto affiora «il grande capo», con cui parlare «di tutto». Rutelli? «Sì, certo che il "grande capo" è Rutelli. Ma è anche questa una delle espressioni cui ricorro per tagliare corto. Vedevo spesso Rutelli; per discutere di Margherita e di governo, mica di affari. No, con lui in questi giorni non ho parlato. È andato dal giudice, e credo abbia fatto bene. Come non c'entro niente io, non c'entra niente Rutelli».

Ma so che in questa vicenda devo sbrigarmela da solo. È bene fare pulizia nel partito, però non è che può bastare un'indagine; non dico una condanna, ma almeno un rinvio a giudizio, no?». E Berlusconi? «Lui è da sempre garantista, come lo sono io. Però sbaglia a voler riscrivere le norme sull'onda delle inchieste. Non è giusto, e lo dico da vittima, vietare le intercettazioni per i reati contro la Pubblica amministrazione. Semmai è giusto prevedere un risarcimento. Le assoluzioni dovrebbero avere sui giornali lo stesso rilievo delle incriminazioni. Invece vedo che, pur se alla Camera non è ancora arrivato nulla, in tv il processo è già cominciato, a Porta a Porta hanno sceneggiato le frasi che mi riguardano con degli attori...». Con Berlusconi, Lusetti ha avuto una certa consuetudine. Figlio di operai — «il mio patrimonio si limita alla casa in cui abito» —, successore di Follini alla testa dei giovani democristiani, nel '99 stava per arrivare al vertice del Ppi, accanto all'amico e coetaneo Franceschini. «Marini ci aveva promesso il suo appoggio. Invece, tre giorni prima del congresso, fece convergere i suoi voti su Castagnetti; alla faccia del ricambio generazionale. Mi sentii tradito, mi allontanai dal Ppi. Castagnetti mi offrì un posto da sottosegretario nel secondo governo D'Alema; rifiutai. Allora mi chiamò Berlusconi: "Bravo Lusetti, hai fatto bene, benissimo; vediamoci". Ci vedemmo più volte. Fu molto cordiale. Mi chiese di diventare responsabile enti locali per Forza Italia. Ma io avevo avuto lo stesso ruolo nel Ppi, e la mia dignità mi impedì di accettare. Poi entrai nella Margherita». Lusetti non vede legami con Tangentopoli, e non è d'accordo con i magistrati che denunciano un ribaltamento di ruoli: non sono più i politici a dettare legge, ma gli imprenditori. «Non funziona così. Gli imprenditori fanno il loro mestiere. Fanno lobbing, legittimamente, attraverso Confindustria. Qualcuno cerca contatti per lavorare. Questo Romeo aveva un rete dappertutto; del resto era un leader nel suo settore. Ma dell'inchiesta parlerò ai magistrati. Certo, rispetto a vent'anni fa, la politica oggi è molto più debole». Napoli? «Un ciclo che si va esaurendo. Però dietro Bassolino e Iervolino non vedo grandi alternative, neanche a destra. Il mancato ricambio è colpa anche dei giovani che tardano a emergere». Firenze? «Conosco bene Domenici. Lui era il responsabile enti locali per i Ds. Insieme avevamo un margine di infallibilità del 95%: siamo riusciti a cucire coalizioni dal Ppi a Rifondazione quasi ovunque. Leonardo si è stancato di vedersi tirato in ballo dai giornali ogni mattina, e ha reagito in modo un po' eccessivo. Anch'io so già che pure domattina mi sveglierò all'alba con il batticuore...».

Aldo Cazzullo
24 dicembre 2008(ultima modifica: 25 dicembre 2008)

da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO. Melograni: «Silvio diffida degli intellettuali e ha ragione»
Inserito da: Admin - Gennaio 17, 2009, 03:10:36 pm
Il professore tra i «fondatori» di Forza Italia: «la Lega? riserve sul federalismo»

Melograni: «Silvio diffida degli intellettuali e ha ragione»

La malattia dei Democratici sta danneggiando anche il centrodestra


Professor Melograni, lei fu elemento di punta della pattuglia di intellettuali che Berlusconi portò in Parlamento nel '96.
«Temo però che non sia rimasto molto soddisfatto di noi. Di me, di Colletti, di Vertone... Certo, Pera fu eletto presidente del Senato. La fine è nota... ».

E' venuta l'ora del Pdl. Ma la debolezza del Pd lo contagia, dicono Urbani e Fisichella.
«Hanno ragione: il ruolo dell'opposizione in una democrazia è fondamentale; se manca, danneggia anche la maggioranza. Ma innanzitutto bisogna chiedersi perché l'opposizione è così debole».

Già: perché?
«Anche per colpa degli intellettuali. In particolare dei miei colleghi storici. Che non hanno mai raccontato la vera storia della sinistra. Veltroni paga anche il deficit di consapevolezza, da cui verrebbe una forte spinta verso lo spirito riformista, il solo sopravvissuto alle catastrofi del ‘900 e più modestamente al crollo elettorale dei rifondaroli ».

C'è ancora un mito politico da sfatare?
«Certo. A cominciare dalla svolta di Salerno, che non fu una decisione autonoma di Togliatti ma un imperativo di Stalin. La politica del Pci fu sempre rivolta a non tornare al governo; tant'è che i risultati del 18 aprile, con la Dc in maggioranza assoluta, apparvero a Togliatti i migliori possibili. Tutta la storia del Partito Comunista va riletta alla luce della guerra fredda e dell'esigenza dell'Urss di evitare un conflitto vero. Tant'è che, quando a Roma emergono personaggi che minacciano la tregua, a Mosca si decide di eliminarli, affidando l'incarico ai bulgari. Da qui l'attentato a Giovanni Paolo II e quello a Berlinguer del '73. Fatti che dovrebbero essere insegnati nelle scuole di ogni ordine e grado. Mi chiedo invece quanti, anche in Parlamento, li conoscano».

Quali sono le conseguenze sull'assetto politico attuale?
«L'Italia non è addestrata alla democrazia. Dopo vent'anni di fascismo e cinquant'anni di blocco, abbiamo ancora poca pratica con l'alternanza. Anche perché la sinistra fatica a rappresentare un'alternativa. Frequento ancora la Camera – ma solo per i "fringe- benefits": vado a fare le inalazioni e tagliarmi i capelli —, e i parlamentari di centrodestra sono concordi: l'opposizione manca, non c'è, è inesistente; e questo non ci aiuta. La stessa cosa mi dicono i parlamentari di centrosinistra».

Nel Pdl è in corso un'elaborazione culturale? Ci sono intellettuali che stima?
«Qualcuno c'è. Ad esempio sono amico e stimo molto Gaetano Quagliariello. Ma una vera strategia di carattere culturale no, quella non la vedo. Del resto Berlusconi diffida degli intellettuali, forse non a torto. Il suo partito e in genere il Paese hanno bisogno di politici. Non che se ne vedano di grande qualità, però».

Fini alza in prezzo dell'unificazione. Teme per il suo futuro politico?
«Le motivazioni di Fini vanno chieste a lui. Di sicuro ha grandi e legittime ambizioni. Il futuro gli riserva senz'altro una chance».

Un giorno potrà essere lui il leader del Pdl?
«Non lo so, ma ho l'impressione che nel suo orizzonte ci sia ancora un ruolo istituzionale. Come presidente della Camera riceve elogi da più parti. Non sarebbe sbagliato pensare a un presidente della Repubblica che sia espressione della destra».

L'evoluzione di An è compiuta?
«Ne discussi proprio con Fini, un giorno che ci ritrovammo a consegnare le firme per un referendum. Certo An ha saputo cambiare se stessa, ha compiuto passi da gigante. Però mi pare che il processo vada ancora completato. Non si deve mai aver timore di guardarsi dietro le spalle: la rilettura storica non finisce mai. Credo ad esempio che sarebbe opportuno parlare non di fascismo ma di mussolinismo. Il che aiuterebbe a capire meglio anche il consenso, che Mussolini ha avuto davvero».

Il Quirinale è considerato l'obiettivo anche di Berlusconi. Come lo vede?
«Berlusconi ha il merito storico di aver indicato la via d'uscita italiana alla guerra fredda. E il Berlusconi del 2009 dimostra ancora una vitalità politica enorme. Per quanto la malattia del Pd lo indebolisca, il centrodestra è senz'altro in miglior salute».

Tremonti?
«Uomo di grande valore. Non so se vorrà e saprà passare dal governo dell'economia alla leadership politica».

La forza crescente della Lega deve preoccupare il Pdl?
«Ho molte riserve sul federalismo. Potrebbe anche essere una soluzione. Ma rischia di moltiplicare le burocrazie, che già ora sono un problema gravissimo per l'Italia».

Il Pdl ha le fondamenta per sopravvivere a Berlusconi, come il gollismo sopravvive a De Gaulle? Quagliariello ne è convinto, Urbani no.
«Chi si sarebbe atteso che un immigrato di origine ungherese sarebbe diventato presidente della Francia? La politica ci riserva sempre enormi sorprese ».

Aldo Cazzullo

17 gennaio 2009
da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO. «Stalinista». «Piduista»: rissa massone
Inserito da: Admin - Gennaio 23, 2009, 01:05:28 pm
Raffi vuole il terzo mandato, insulti su Internet

«Stalinista». «Piduista»: rissa massone

Il Grande Oriente litiga prima delle elezioni. Il capo contestato: mai tifato per Veltroni
 
 
Gustavo Raffi da Ravenna è furibondo: «Calunnie! E un Gran Maestro come me alle calunnie non risponde! Questo solo posso dire: sono rigurgiti del passato. Relitti piduisti. Nostalgici che non mi hanno perdonato la battaglia contro Licio Gelli e la posizione durissima che ho assunto contro la loggia P2...». Tutto si può dire del Grande Oriente d'Italia, tranne che sia un monolito dove qualsiasi voce critica è sopita. Anzi, su Internet il Gran Maestro Gustavo Raffi viene definito in questi giorni «golpista», «pataccaro», «azzeccagarbugli», «uso a metodi staliniani», «attaccato in modo passionale alla poltrona». E ancora: «O Papa Raffi si toglie dai piedi o me ne vado io», «quest'uomo non ci rappresenta più», «necessita una ghigliottina iniziatica», «se lo rieleggono io entro in sonno» e pure un definitivo: «Aridatece Er Puzzone Di Bernardo», che sarebbe un altro ex Gran Maestro successore di Armando Corona— il grande vecchio della massoneria italiana ora in volontario esilio nella sua Cagliari — e poi rapidamente sfiduciato dopo un'altra delle ricorrenti battaglie interne. Quella in corso è particolarmente cruenta. Perché amplificata dalla rete. Da siti come www.grandeoriente-libero. com, dove si lanciano accuse riprese ieri sulla prima pagina di Italia Oggi, in un articolo firmato dal direttore Franco Bechis. A marzo si sceglie il nuovo capo del Grande Oriente. Secondo i suoi avversari, Raffi — che ha già fatto due mandati — sarebbe stato ineleggibile; se non fosse per una capziosa omissione.

La norma per cui «il Gran Maestro dura in carica cinque anni ed è rieleggibile per un solo mandato di pari durata » è divenuta «il Gran Maestro è rieleggibile per un mandato di pari durata»; sparito il «solo», ecco spuntare il terzo mandato per Raffi. Che dal suo studio legale di Rimini risponde indignato: «E che cosa cambia? Quel "solo" non modifica nulla. Io sono stato eletto la prima volta nel '99 con un sistema, e sono stato rieletto nel 2004 con un sistema radicalmente diverso, più democratico. Prima, se nessun candidato raggiungeva la maggioranza assoluta, la decisione veniva presa dalla Gran Loggia. Io ho cambiato tutto: un maestro, un voto. C'è un precedente: anche Armando Corona ebbe prima un mandato di tre anni, e alla scadenza si cambiarono le norme e venne rieletto per un altro quinquennio. Per me l'ultimo mandato sarà il prossimo. Non avrei voluto neanche ricandidarmi, ma sono stato costretto a farlo». Costretto? «Di fronte al ritorno di un passato vergognoso, è essenziale per la massoneria e per il Paese che al vertice del Grande Oriente ci sia un sincero democratico...». Le accuse contro Raffi però non si fermano qui. Si parla di privilegi, carte di credito oro, cuoca personale, arredi lussuosi, e soprattutto stipendio raddoppiato. «Altre falsità — replica lui, con la voce sempre più dolente —. Quando mi hanno eletto, l'indennità era di 185 milioni l'anno. Indennità, non stipendio: non dà diritto a prestazioni pensionistiche, praticament e è un contratto co.co.co... Fatto sta che la Gran Loggia, non la giunta, stabilì di adeguarla a 250 milioni l'anno. E lì è rimasta. Nessun raddoppio, anzi potere d'acquisto nettamente ridimensionato. E poi, che umiliazione, per uno come me, dover parlare di vil metallo... Uno che ha portato il Grande Oriente ai massimi storici, a ventimila iscritti, a riallacciare i rapporti con Francia, Svizzera, Belgio, a scegliere la massima trasparenza. Per questo i miei nemici aprono, rigorosamente all'estero per non essere identificati, siti misteriosi da cui mi riempiono di fango». La accusano anche di aver fatto organizzare le trasferte a Rimini, la sua città, per la riunione annuale della Gran Loggia, dalla Tamarindo, «tour operator della famiglia Raffi... ». «Non è il tour operator della famiglia». Di chi è? «Di un membro della mia famiglia». Quale membro? «Un fratello massone». Fratello massone? «Va be', è anche mio fratello». Tutti al congresso con la sua agenzia? «Ma non era obbligatorio! Era un'opportunità. Mica era vietato venirci con mezzi propri!». I suoi critici dicono che le camere in convenzione costavano 15-20 euro in più dei prezzi normali. «Altre menzogne. Il confronto è stato fatto con periodi in cui a Rimini non c'erano convegni né fiere. E si sa che, se gli alberghi sono vuoti, gli albergatori abbattono i prezzi...». Ma il punto che più addolora il Gran Maestro è quello politico. «Il cuore della massoneria batte a sinistra » è la frase che gli viene attribuita, oltretutto prima delle elezioni da cui la sinistra è uscita disastrosamente sconfitta. «Frase mai pronunciata. Così come non mi sono mai sognato di indicare come iscritto al Grande Oriente il coordinatore di Forza Italia Denis Verdini: appena la falsa notizia ha cominciato a girare, ho prontamente smentito! La massoneria non ha tessere, non conosce Berlusconi o Veltroni: noi rispettiamo tutte le idee. Io ho fatto politica, quando nell'89 fui eletto Grande Oratore ero segretario della federazione del Pri di Ravenna, ma mi dimisi subito. Certo che in politica bassezze simili non ne avevo mai viste... ». Può essere, però scusi che c'entra Gelli? «Pago il coraggio con cui mi sono opposto al ritorno del passato, con cui ho dato la mia definizione della P2...». Sarebbe? «La P2 sta al Grande Oriente come le Brigate Rosse stanno al partito comunista. Capisce? Ora è tutto chiaro?».

Aldo Cazzullo
22 gennaio 2009

da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO. Pisanu: «Immigrati, Berlusconi non subisca gli slogan leghisti»
Inserito da: Admin - Febbraio 02, 2009, 11:23:13 am
Sicurezza, parla l'ex ministro

Pisanu: «Immigrati, Berlusconi non subisca gli slogan leghisti»

«Non si tratta con battute da osteria un fenomeno che orienterà i nostri processi sociali per un secolo»


ROMA - «Guardiamo tutto nell’ottica della sicurezza, e con gli occhiali appannati dalla paura. Dalle elezioni politiche in poi, è prevalso un approccio molto emotivo e poco razionale all’immigrazione. Il clima di questi giorni — la tentazione di farsi giustizia da sé, l’odio, il timore—è legato anche alla disinvoltura e alla strumentalità di cui si è data prova. L’immigrazione è un fenomeno che orienterà i processi economici e sociali dell’Europa per un secolo; non lo si può affrontare con l’orecchio teso alle voci delle osterie della Bassa padana. Il sonno della ragione genera mostri. Comportamenti aberranti da una parte. Dall’altra, misure rivolte a tranquillizzare l’opinione pubblica e a giustificare slogan elettorali».

Giuseppe Pisanu, presidente dell’Antimafia, ex ministro dell’Interno, quarant’anni di politica alle spalle, premette di voler evitare polemiche personali, tanto meno con il successore. «Purtroppo si è formata una subcultura impressionante, che rende difficile il lavoro anche a chi, come Maroni, vuole affrontare i problemi in modo razionale. Si sono create condizioni in cui ci si ritrova come l’apprendista stregone che non riesce a dominare i fantasmi da lui stesso evocati. Quando ero al Viminale spuntò un piano, preparato da un illuminato ministro tra l’altro non della Lega, in cui si parlava di cannonate al peperoncino da sparare contro gli scafisti e missili a testata elastica per fermare le eliche delle barche. Dissi che, se me l’avessero portato, quel piano sarebbe volato dalla finestra insieme con il portatore...». Pisanu non nega la gravità delle premesse. «Esiste un clima emotivo, che eccita gli istinti più bassi, ed esistono fatti inaccettabili, le violenze, gli stupri, che lo alimentano.

La "tolleranza zero" è uno slogan fortunato, che però non vuol dire nulla. Già la tolleranza 0,1 verso l’illegalità sarebbe troppo; ma più d’una volta ho avuto la sensazione che la tolleranza zero servisse a giustificare l’intolleranza. L’intolleranza verso l’estraneo, verso chi la pensa diversamente, appartiene ad altre culture o ha altre convinzioni religiose ». L’impulso a farsi giustizia da soli, sostiene Pisanu, nasce solo in parte dal lassismo, dalle scarcerazioni facili, dal meccanismo delle garanzie che appare troppo indulgente. «La vera battaglia è la prevenzione. Concentrarsi sulla repressione di reati già commessi significa aver già perso. Andrebbe affermato il principio che l’immigrazione clandestina è solo l’aspetto patologico di un fenomeno positivo: se vogliamo mantenere il nostro tasso d’attività, e quindi la nostra ricchezza, con l’attuale trend di nascite dobbiamo accogliere 2-300 mila immigrati l’anno.

Numeri che, tranne forse in questo anno di crisi, coincidono con il fabbisogno di manodopera indicato dagli industriali del Nord. Il paradosso è che l’estremismo antislamico e la speculazione politica vengono alimentati soprattutto dove dell’immigrazione c’è più bisogno». La recessione è destinata a rendere il quadro ancora più inquietante: «Penso alla vicenda penosa dei lavoratori italiani contestati in Inghilterra. Se persino loro sono guardati come concorrenti, cosa può accadere agli extracomunitari?». Ma l’allarme sociale, ragiona Pisanu, non è legato solo al disagio economico. «Stiamo arrivando alla seconda generazione di immigrati. Nella banlieue parigina la rivolta nasce dall’emarginazione sociale e dall’isolamento culturale, più che dalla povertà. Gli attentatori di Madrid problemi economici non ne avevano, così come i terroristi di Londra, esponenti della piccola e media borghesia dell’immigrazione pachistana.

Segnali di rivolta sono sempre più evidenti anche in Italia. Le bandiere cinesi sventolate in via Paolo Sarpi; la ribellione dei giovani nigeriani nel Casertano; le grandi manifestazioni sfociate nelle preghiere in piazza Duomo a Milano, al Colosseo, davanti a San Petronio ». Preghiere da vietare? «Sì. Perché rivelano un progetto pericolosissimo: dare contenuto religioso a una protesta politica. È il meccanismo con cui si sono affermati Hamas e Hezbollah. Va disinnescato. Ma non soltanto con i divieti. La verità è che una politica dell’immigrazione non esiste. Il tema è importante quanto la recessione, ma il Parlamento non vi ha mai dedicato una seduta; si è limitato a piccoli provvedimenti qua e là, sempre sulla spinta di fatti che avevano scosso l’opinione pubblica e sempre sul versante della repressione. In questo clima di intolleranza un atteggiamento razionale, intelligente, umano — penso ad esempio al cardinale Tettamanzi—viene additato come eversivo. E qui la responsabilità politica della Lega non può essere nascosta». Un esempio di irrazionalità appare a Pisanu l’emergenza di Lampedusa. «Gli sbarchi rappresentano appena il 15% dell’immigrazione clandestina.

La forma più povera e debole, su cui si concentra un’attenzione esasperata. Da ministro andai a visitare il centro di Lampedusa: 800 persone vivevano in condizioni indegne, in un posto che ne teneva a stento un quarto. Feci costruire un nuovo centro, e diedi ordine di trasferire in tempi rapidi i nuovi arrivati». Ora si è scelta la via opposta: tutti resteranno sull’isola, in attesa di essere rimpatriati. «Ma per rimpatriare un clandestino occorre prima identificarlo; e tutti o quasi hanno gettato via i documenti. Poi bisogna verificare che non abbia lo status del rifugiato. Infine serve l’accordo con il Paese di provenienza. A Lampedusa molti arrivano dalla Tunisia; e noi con la Tunisia facemmo buoni accordi. Ma non possiamo pensare che accolga in blocco centinaia di clandestini». Per quanti c’è posto a Lampedusa? «Dicono 800. Secondo me, di meno. Oggi sono 1.200. La situazione è esplosiva; può succedere di tutto. Si dovrebbe alleggerire la pressione sull’isola. Invece si accumula tensione, accumulando immigrazione in un solo posto». Che impressione le fa vedere l’esercito nelle vie delle città? «È solo mostrare la bandiera. L’ostentazione apparente, ma non efficace, della forza dello Stato. Ognuno deve fare il proprio lavoro.

Noi abbiamo ottimi militari, che sanno e vogliono fare i militari. Possono essere utili per presidiare obiettivi fissi, zone sensibili. Ma le funzioni di ordine pubblico non le sanno e non le vogliono fare. In tutto il mondo la tendenza è opposta: nella gestione della sicurezza e della pace sociale la professionalità è sempre più elevata». Pisanu è stato il ministro dell’Interno di Berlusconi per tre anni. In cuor suo, il presidente del Consiglio come la pensa? «Se lo conosco, e credo di conoscerlo, Berlusconi la pensa come me. Un po’ per la sua carica di umanità, un po’ per la sua apertura naturale ai problemi del lavoro. Ricordo quando sostenni in sede europea che la miglior arma contro l’immigrazione clandestina sono gli immigrati regolari, e occorrono accordi con i Paesi poveri per scambiare posti di lavoro da noi con maggiori controlli da loro. Berlusconi mi incoraggiò su questa linea. Lui è un uomo senza pregiudizi. Purtroppo subisce il peso condizionante della Lega».

Aldo Cazzullo
02 febbraio 2009

da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO. Ruini. E' un omicidio, quel decreto è un dovere
Inserito da: Admin - Febbraio 07, 2009, 03:50:25 pm
«In questa vicenda le prevaricazioni sono state molte. Come quelle dei giudici»

«E' un omicidio, quel decreto è un dovere»

Il cardinale Camillo Ruini: «Lo Stato ha il diritto di proteggere la vita di ogni suo cittadino»


ROMA — Cardinal Ruini, quali sono i suoi sentimenti in queste ore decisive per la sorte di Eluana Englaro?
«Sofferenza. Non ho mai conosciuto Eluana, ma prego per lei ogni giorno. Preoccupazione. Speranza. E impegno a fare tutto il possibile. Innanzitutto, per far sapere quali sono le sue reali condizioni: chi è informato bene, di solito non ha più dubbi. È stato importante che la suora che l'ha assistita sia andata in tv a raccontare la sua esperienza con Eluana. Non ha senso attribuire all'Eluana di oggi, dopo quel tragico incidente, le aspirazioni e i desideri di prima. Eluana è stata sfortunata. Ha perduto molto. Ora ha bisogno di poco, è protesa verso quel poco, con poco può vivere senza soffrire. Non colpiamola una seconda volta. Non togliamole anche questo poco».

Lasciarla morire equivale a un omicidio?
«Lasciarla morire, o più esattamente — per chiamare le cose con il loro nome — farla morire di fame e di sete, è oggettivamente, al di là delle intenzioni di chi vuole questo, l'uccisione di un essere umano. Un omicidio. Purtroppo inferto in maniera terribile, senza che nessuno possa essere certo che Eluana non soffrirà».

È giusto che il governo sia intervenuto con un decreto? E il capo dello Stato avrebbe dovuto firmarlo?
«Non ho ancora avuto modo di conoscere il testo del decreto del governo e della lettera del capo dello Stato, ma conosco le obiezioni secondo le quali questo decreto sarebbe una prevaricazione nei rapporti tra i poteri dello Stato. Di prevaricazioni però in questa vicenda se ne sono già fatte molte. A cominciare dai giudici che hanno applicato una legge che non esiste e che, soprattutto, non hanno tenuto conto della situazione reale di Eluana. Ad ogni modo, ritengo che lo Stato abbia il diritto, e aggiungerei il dovere, di proteggere la vita di ogni suo cittadino».

Una legge sul testamento biologico ora è necessaria? E come andrebbe impostata?
«Preferisco parlare di legge sulla fine della vita. La parola testamento implica infatti che si disponga di un oggetto, ma la vita non è un oggetto, non è un appartamento o una somma di denaro. La legge dovrebbe evitare sia l'eutanasia sia l'accanimento terapeutico. Ma è ovvio che la nutrizione e l'idratazione non possono essere lasciate alla decisione dei singoli, perché toglierle significa provocare la morte. Se eutanasia significa morte "dolce", "buona", la fine di Eluana sarebbe peggio dell'eutanasia: Eluana morirebbe di fame e di sete. La sua sarebbe una morte pessima».

Il padre, Beppino Englaro, ha avuto parole dure su quella che considera un'ingerenza della Chiesa. Ha torto?
«Il rispetto è dovuto a tutti, ma il rispetto massimo è dovuto al signor Englaro, che vive questa terribile esperienza di persona. Nessuno di noi può sindacare su come reagiscono i genitori toccati così profondamente dal dolore. Ho conosciuto genitori che si ribellavano di fronte a quella che ritenevano un'ingiustizia divina, e altri che la accettavano. Ricorderò sempre il giorno in cui fui testimone di un incidente stradale a Regnano, sulle colline di Reggio Emilia. Stavo guidando. Davanti a me, un giovane cadde dalla moto. Non andava forte, ma c'era ghiaia sulla strada e perse il controllo, la moto gli cadde addosso. Mi fermai, gli diedi l'estrema unzione, ma era già morto. Gli abitanti del paese mi dissero: la madre è malata di cuore, vada lei a darle la notizia. Mi feci carico del duro compito. Quella donna, una contadina, rimase a lungo in silenzio. Poi mi guardò e disse: "La Madonna ha sofferto di più"...». (Il cardinale si interrompe, commosso).

Parlavamo dell'ingerenza.
«Non ingerenza, ma adempimento della missione della Chiesa. Come ha detto con una formula molto efficace Giovanni Paolo II, nell'enciclica Redemptor hominis, "sulla via che conduce da Cristo all'uomo la Chiesa non può essere fermata da nessuno". Ogni essere umano è degno di rispetto e amore; tanto più gli innocenti, gli inconsapevoli, i colpiti dal destino».

L'ha colpita il gesto delle suore che erano pronte ad accogliere Eluana e occuparsi di lei negli anni a venire?
«Mi ha toccato profondamente, ma non mi ha sorpreso. Ho avuto molte esperienze in merito. Penso alle suore delle case di carità di Reggio Emilia, che ora sono anche qui a Roma. Donne che accolgono persone in condizioni gravissime e le accudiscono con dedizione totale e con gioia. E molti sono i volontari che le affiancano».

Quali casi ha conosciuto di persona?
«Ad esempio, famiglie che hanno figli cerebrolesi dalla nascita, incoscienti eppure non indifferenti, perché in modo istintivo percepiscono le correnti di affetto. Ci sono genitori che rifiutano figli così, ma ci sono altri che li accettano. La vita di quei ragazzi, che talora ho visto diventare adulti, non è meno preziosa. Non posso accettare l'idea che la loro vita valga meno della mia o di qualsiasi altra».

Quali sensibilità ha colto sulla vicenda nell'opinione pubblica, credente o non credente? I sondaggi indicano che in molti sostengono le ragioni di Beppino Englaro.
«Io non ho fatto sondaggi, ma ho discusso in varie occasioni con la gente comune. All'inizio l'interesse era minore, e in tanti consideravano giusto che fosse il padre a decidere. Ma non appena vengono informati sulle reali condizioni di Eluana, in pochissimi restano favorevoli a lasciarla morire. Uno dei miei interlocutori si è proprio arrabbiato: "Ma perché i giornali non scrivono queste cose?"».

E lei come ha trovato i giornali?
«In buona parte schierati. Mentre le tv lo sono state meno, hanno dato spazio anche alle nostre ragioni, come già accadde per il referendum sulla procreazione assistita».

Diceva delle sue discussioni con la gente comune.
«Il fattore che la orienta non è tanto quello religioso. Non ci sono i credenti di qua e i non credenti di là. L'impressione è che ci siano piuttosto gli informati e i non informati. L'esperienza mi ha insegnato inoltre che i malati, per quanto gravi, sperano sempre di continuare a vivere».

In un'intervista a Giacomo Galeazzi della «Stampa», l'arcivescovo Casale, schierandosi con papà Englaro, dice: «Anche Giovanni Paolo II ha richiesto di non insistere con interventi terapeutici inutili».
«Penso di aver conosciuto bene Giovanni Paolo II, e ho vissuto quei giorni in stretto contatto con il suo segretario Don Stanislao Dziwisz, mio carissimo amico. So bene dunque il senso delle ultime parole del Papa, "lasciatemi andare". Quando non c'è più niente da fare, il credente sa che, con la morte, per lui la vita non finisce, ma in un certo senso comincia. Sia credenti sia non credenti possono dire "lasciatemi andare" in modo eticamente legittimo, ma per un credente queste parole indicano anche una speranza, significano "lasciatemi tornare alla casa del Padre". Chi ha un'esperienza anche piccola del modo in cui Giovanni Paolo II viveva il suo rapporto con Dio non ha dubbi al riguardo».

Lei era capo dei vescovi quando si visse il dramma di Piergiorgio Welby. Diverso da quello di Eluana perché il malato era cosciente e aveva chiesto di morire. Ripensandoci oggi, non era possibile un atteggiamento diverso da parte della Chiesa? Ad esempio concedere i funerali?
«È vero, quel caso era molto diverso. Non solo Welby era cosciente; era molto più dipendente dalla tecnologia per continuare a vivere. Nel mezzo della prova, lui scelse di porre fine alla sua vita. Una scelta che Eluana non ha mai fatto. Quanto alla mia decisione, la Chiesa non può consentire — tanto più quando un caso ha rilevanza pubblica — che si rivendichi nello stesso tempo l'appartenenza al cattolicesimo e l'autonomia nel decidere sulla propria vita. Non si può dire: "Io sono cattolico, e decido io"».

Può un cattolico, tanto più un vescovo, negare la Shoah? È una semplice opinione personale in contrasto con quanto sostiene la Chiesa, o è un dato incompatibile con la presenza della Chiesa stessa?
«A questa domanda ha già risposto la Santa Sede, con la nota della Segreteria di Stato pubblicata sull'Osservatore Romano secondo la quale, per essere ammesso alle funzioni episcopali, Williamson deve "prendere in modo inequivocabile e pubblico le distanze dalla sua posizione sulla Shoah". Se non lo fa, non può fare il vescovo».

Come giudica l'invito del cancelliere Angela Merkel al Papa a fare chiarezza sul negazionismo dei lefebvriani?
«Quanto meno superfluo. Basta ricordare o rileggere quanto disse Benedetto XVI ad Auschwitz, domenica 28 maggio 2006, con parole che toccarono profondamente tutti i presenti, me compreso».

La vicenda Englaro le pare collegata alla denuncia del vuoto di valori e del relativismo etico, temi-chiave del pontificato di Ratzinger?
«Uno dei caratteri del magistero di Benedetto XVI e della teologia di Joseph Ratzinger è la denuncia del relativismo etico o, per usare la formula da lui coniata, della dittatura del relativismo. In Italia, e ancor più in altri Paesi dell'Occidente, esiste un'emergenza educativa, che rappresenta un'ipoteca sul nostro futuro e ha le sue radici nella mentalità diffusa, secondo la quale non esistono più punti di riferimento che precedano e possano illuminare le nostre scelte. Quando non siamo più d'accordo su cos'è l'uomo, quando l'uomo viene ricondotto totalmente ed esclusivamente alla natura, salta ogni differenza qualitativa, viene meno lo specifico umano, cadono o cambiano radicalmente i parametri educativi. Si aprono così le porte al nichilismo, che nasce, come ha spiegato bene il suo primo sostenitore, Federico Nietzsche, con la "morte di Dio". La Chiesa italiana è pronta a un grande sforzo sull'educazione, collaborando con altri soggetti per il futuro del Paese, e pubblicherà in merito un "rapporto-proposta". Stiamo lavorando inoltre ad un grande evento internazionale per il dicembre prossimo a Roma, dove arriveranno alcuni tra i più importanti studiosi del mondo a confrontarsi sul tema di Dio e del suo significato per la nostra vita, anche in rapporto con la scienza».

Aldo Cazzullo
07 febbraio 2009

da corriere.it


Titolo: Mons. Betori Per i cristiani le persone sono sopra la legge. (buono a sapersi!)
Inserito da: Admin - Febbraio 09, 2009, 11:46:59 am
Per oltre un decennio è STATO braccio destro di Camillo Ruini alla CEI

Monsignor Betori: «Per i cristiani le persone sono sopra la legge»

L'arcivescovo di Firenze: «nella storia di Eluana l'amore più alto e concreto è quello delle suore»


FIRENZE — Giuseppe Betori, per oltre un decennio braccio destro di Camillo Ruini alla guida della Conferenza episcopale italiana, da quattro mesi è arcivescovo di Firenze. Questa è la prima intervista dal suo insediamento. Nello studio che guarda Santa Maria del Fiore ha il ritratto di Elia Dalla Costa, «arcivescovo dal '31 al '61, l'uomo che chiuse le porte e le finestre dell'arcivescovado a Hitler. Si sostenevano a vicenda, lui e Giorgio La Pira: avevano lo stesso confessore, don Bensi. Era la Firenze di Giulio Facibeni, cappellano della Grande Guerra, fondatore dell'Opera che si occupa degli orfani. Di tutti e tre è in corso la causa di beatificazione. Per me, Dalla Costa è la fede, La Pira la speranza, Facibeni la carità».

Quali sono i suoi sentimenti, in queste ore in cui la vicenda di Eluana Englaro si avvicina all'epilogo?
«La vicenda di Eluana Englaro sta giungendo alla tragica conclusione che molti hanno voluto. Ancora una volta la voce della Chiesa, così spesso accusata di volersi imporre a tutti i costi, si è rivelata caratterizzata da quella fragilità che è propria di chi non può fare appello che alla coscienza. E se la coscienza per crescere ha bisogno di un processo necessariamente lento, è ancora più difficile che maturi, come in questo caso, sotto l'influsso delle grida e dei proclami ideologici, soprattutto quando anche le istituzioni invece di mettersi in ascolto dei diritti naturali si erigono a produttori di pseudo nuovi diritti. Se questa è la porta aperta per un'autodeterminazione che vuole giungere a legalizzare l'eutanasia, la nostra società si avvia verso una tragica involuzione quanto a rispetto dell'intangibilità della persona e della sacralità della vita. Sono riferimenti che nel passato hanno permesso all'umanità traguardi decisivi: l'abolizione della schiavitù, la condanna delle diseguaglianze razziali, il rispetto per i disabili. Abbandonare questa strada non sappiamo dove può condurci. Anzi, lo sappiamo, ma ci è più comodo illuderci che tutto ciò sia innocuo, forse anche vantaggioso per l'umanità.
Alla Chiesa resta solo la preghiera, per tutti, sperando fino all'ultimo nella conversione dei cuori e nella fiducia che anche da questo tragico evento possa nascere una coscienza più avvertita dei pericoli che incombono su di noi, divenuti così potenti nelle tecnologie e così fragili di fronte alla sofferenza».

Considera giusto il ricorso a un decreto? E come valuta il no di Napolitano?
«C'è un realismo cristiano, per il quale il valore di una persona è superiore anche agli interessi di tenuta di un sistema politico e alle esigenze delle stesse forme giuridiche. Da questo punto di vista, quest'ultimo passaggio è in linea con le molteplici forzature che si sono registrate sul piano giuridico prescindendo dal bene della persona. Se il diritto non è a servizio delle persone diventa un problema. Noi cattolici amiamo talmente la realtà che non accettiamo di chiamare morta una persona che ancora vive. E mi lasci dire che siamo noi i veri uomini della ragione, coloro che non cadono nella contraddizione di dichiarare una persona priva di ogni dimensione umana per poi sedarla per evitarle un dolore che non dovrebbe sentire. Tutto questo ci potrà procurare anche qualche ingiuria, ad esempio di meschino integralismo...».

Queste sono le parole di D'Alema.
«Se la fedeltà alla verità ci costa qualche insulto, questo per noi è nulla purché una vita umana venga salvata».
C'è una sentenza della magistratura, rispetto a cui la Chiesa è accusata di ingerenza.
«La sentenza consente, non impone nulla. Secondo illustri costituzionalisti, non solo secondo me, la sentenza va ben oltre le possibilità che la Costituzione e l'attuale legislazione prevedono. La Chiesa ha la massima comprensione per le persone e per questo agisce nel suo modo tipico: pregando; a Firenze abbiamo organizzato una veglia di preghiera, c'erano 500 persone. Ma la Chiesa ha anche il dovere di dire la verità, non il falso. Qui è in gioco la verità sull'uomo e sulla vita umana. La vita ci è data; non è disponibile; non possiamo pensare di determinare la vita stessa. È segno della crisi del nostro tempo mascherare da diritti ciò che è solo desiderio».

Lei disse che la legge sul testamento biologico non era necessaria.
«Ero convinto che la legislazione vigente tutelasse la vita e non ci fosse bisogno di nuove norme. All'evidenza non è così. Si faccia allora una legge chiaramente a favore della vita, consentendo alle persone di esprimersi con modalità certe circa il proprio passaggio finale. Ma il caso di Eluana viene accostato al testamento biologico in modo strumentale. In realtà non ci sono indicazioni univoche sulla sua volontà. La sentenza ne ha preso in considerazione alcune e non altre. E ne ha dedotto la validità in base allo stile di vita. Una forzatura».
Che cos'altro avrebbe potuto fare il padre? Lasciarla alle suore che si erano offerte di seguirla?
«Mi sembra che in tutta questa vicenda se c'è qualcuno che se ne esce con intatto prestigio e accresciuta credibilità sono proprio le suore, che da anni servono questa donna come una figlia e tale la considerano. Non hanno scritto libri né si son messe a frequentare le televisioni per dire le loro ragioni, traducendo un fatto umano in un volano di azione politica; ma nessuno può negare che, se la ragione sta dalla parte dell'amore, il loro amore è stato il più alto e il più concreto fra tutti. Non chiedevano altro che di poter continuare nei gesti dell'amore. Se una donna in questi giorni viene privata della sua vita in forza di un'ipotetica ricostruzione di una sua presunta volontà, altre donne, queste suore, vengono anche loro offese, private di una relazione che non smetterà però di riempire la loro vita. Come pure il ricordo di questa donna resterà nel cuore di quanti amano la vita come un dono da custodire e non come un possesso di cui disporre».
Veniamo a Firenze, che pare in difficoltà. Inchieste giudiziarie, un sindaco che si incatena, primarie a sinistra affollate e contestate.
«Firenze non è fuori dall'Italia. Anche questa città subisce l'impoverimento della politica che segna il momento del Paese. Un impoverimento ideale, che Firenze condisce con un suo carattere tipico, l'antagonismo. Quelli che potrebbero essere strumenti di partecipazione, in un clima di impoverimento ideale diventano l'occasione per far emergere tutte le contrapposizioni possibili. Va detto che, in una città cui non bastavano Guelfi e Ghibellini e si è inventata pure i Bianchi e i Neri, cinque candidature possono rappresentare un segno di moderazione...».
Quando il Pd tenne le primarie nazionali nel 2007, lei espresse dispiacere per la partecipazione di preti e suore. La pensa ancora così?
«Sì. La Chiesa non partecipa alla vita interna dei partiti. La Chiesa non è di parte; è di tutti. Dio non è di qualcuno: Dio è con noi, Dio è contro di noi... sono slogan che hanno avuto esiti nefasti, per quanto regga il paragone con le piccole vicende politiche della nostra Repubblica attuale. Lo strumento con cui la Chiesa sta con tutti è la parrocchia. Al mio clero rivolgo un ringraziamento perché, per quanto diminuito nel numero e cresciuto nell'età, mantiene le posizioni tra la gente. La Chiesa italiana non è una Chiesa d'"élite". È una Chiesa di popolo».
Alla Chiesa italiana si rimprovera di schierarsi piuttosto dall'altra parte, con il centrodestra.
«Sfido chiunque a trovare una dichiarazione della Cei in tal senso. La Chiesa fa scelte di cultura e di valori; le conseguenze politiche sono secondarie. Non abbiamo mai scelto una parte; noi ci siamo sempre espressi sui problemi, in particolare su quelli antropologici. La grande intuizione del cardinale Ruini è stata proprio superare l'appiattimento del mondo cattolico sulla politica. Da troppo tempo la cultura cattolica, direi dagli anni di Rosmini, era subalterna e talvolta autoemarginata rispetto ai grandi processi culturali del Paese».
Eppure lei ha denunciato una «cultura egemone» ostile alla Chiesa.
«Distinguerei tra una cultura pubblica, che ha l'egemonia sulle strutture di comunicazione ed è ostile alla presenza in campo della Chiesa, e una cultura diffusa. Il referendum sulla legge 40 ha mostrato come questa cultura diffusa, appannaggio non solo dei credenti, possa affermarsi sulla cultura di élite, convinta di orientare le grandi scelte con certe articolesse della domenica».
Come giudica la vicenda dei lefebvriani? Un vescovo può negare la Shoah?
«Si tratta della remissione di una scomunica, che era stata comminata non a uno solo ma a quattro vescovi consacrati fuori dalle norme canoniche. Oggetto della remissione è una condizione giuridica, non il pensiero lefebvriano. Un gesto di misericordia da parte del Papa; ed è paradossale che venga criticato da chi in genere trova la Chiesa poco misericordiosa. Un gesto che non segna la conclusione ma l'inizio di un cammino, ancora tutto da compiere. Perché il pieno riconoscimento del cattolicesimo implica accettare tutta la fede, incluso quel pezzo della tradizione che è il Concilio vaticano II».
Ma il negazionista Williamson è vescovo oppure no?
«I quattro vescovi sono stati ordinati validamente seppure illecitamente, e la Chiesa non può annullare gli effetti di un sacramento, che è opera di Dio. Ma la Santa Sede ha chiarito che tutti e quattro i vescovi non possono esercitare il loro ministero, che resta inibito fino a quando non sarà compiuto per intero il loro cammino di riconciliazione con la Chiesa, accettando il magistero del Concilio vaticano II e dei recenti pontefici. Per il vescovo Williamson si aggiunge la richiesta di rigettare esplicitamente le posizioni negazioniste sulla Shoah. Il fatto che Williamson abbia negato l'Olocausto è gravissimo, inqualificabile, vergognoso. Dal punto di vista della verità storica, è inaccettabile e inammissibile che non dico un vescovo, ma un cristiano neghi cose realmente accadute. Ciò tradisce un giudizio sugli ebrei segnato dal sentimento antisemita, che la Chiesa mai ha condiviso, e dal sentimento antigiudaico, che la Chiesa ha superato con la dichiarazione del Vaticano II Nostra Aetate. Non è possibile essere cattolici e antigiudaici».
Come reagirebbe di fronte a una preghiera islamica davanti a Santa Maria del Fiore?
«Non mi piacerebbe, e la considererei una provocazione. Ogni religione ha diritto a spazi per l'esercizio del culto; ma questo non implica il diritto a invadere spazi non propri, né la pretesa di costituire presenze al di fuori di una maturazione culturale. Prima di innalzare le proprie chiese i cristiani hanno atteso secoli, perché si formasse l'amalgama culturale con la società in cui vivevano».
Nessuna fretta per costruire nuove moschee?
«Occorre tutto il tempo necessario perché l'Islam entri in profondità nell'habitat culturale italiano. Vediamo come e in che modo questa comunità si colloca nella società. E troviamo subito insieme forme perché possa praticare il proprio culto».


Aldo Cazzullo
09 febbraio 2009
da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO. Il motto dell’ex governatore: la simpatia non serve
Inserito da: Admin - Febbraio 17, 2009, 05:51:58 pm
Politica           

L’ultima sfida: far trapelare la volontà di duellare con il Cavaliere

Il custode della «sardità» sconfitto da Silvio-Ercole

Il motto dell’ex governatore: la simpatia non serve


Soru era molto più del presidente della Regione Sardegna e forse non era solo «il nostro piccolo Berlusconi», come lo definì l’altro grande sardo Cossiga. Non si sentiva un nuovo Illy, per citare l’altro imprenditore divenuto governatore di una Regione mai espugnata prima dalla sinistra e infine sconfitto da un carneade berlusconiano. Piuttosto, un giggirriva al contrario: non il lombardo che trova una nuova vita in Sardegna, ma il sardo che sbancata Milano torna a casa vincitore.

Nel suo intimo, mutato il moltissimo che c’è da mutare, Soru si sentiva una sorta di Sciascia di Sardegna: non Sciascia lo scrittore, quello vero, ma il guardiano dell’anima isolana, il custode della specificità insulare, l’idea che di Sciascia si erano fatti in continente i lettori che lo veneravano e coloro che, come il Michele Serra dei Falsi («La mia tata si chiamava Peppinedda. Tutti dovrebbero chiamarsi Peppinedda...»), lo prendevano rispettosamente in giro. Anche per questo, essere battuti dal figlio del commercialista di Berlusconi è una sconfitta all’apparenza umiliante; in realtà, testimonia la forza e la singolarità di Soru. Il Cavaliere, come Ercole, ha strozzato in culla il serpente che un giorno avrebbe potuto stritolarlo. Ha fatto testare il suo peso nazionale dai sondaggisti. Ne ha seguito l’ingresso nell’editoria con l’acquisto dell’Unità, che ne ha raccontato la campagna con mediterraneo calore.

Ha letto le interviste in cui Soru evocava le due vittorie di Prodi. E ha dimostrato che chi invoca «non tutto è in vendita!» sbaglia, almeno qui in Italia, isole comprese. Quando è venuto in Sardegna l’inviato del Monde, Soru ha rilasciato un’intervista di silenzi, lunghi anche trenta secondi; quando il malcapitato pensava che la risposta fosse finita e tentava un’altra domanda, lui chiedeva un po’ stizzito: «Per cortesia, non mi interrompa ». Quando si era candidato per la prima volta, nell’autunno 2003, Soru aveva portato il cronista del Corriere a vedere Sa Illetta, l’isoletta, la sede di Tiscali inaugurata appunto da Cossiga, poi la laguna dei fenicotteri (Soru dice «fenicoteri»), quindi la spiaggia del Poetto, dove si fermò a parlare con i mendicanti che lo conoscevano tutti e gli davano del tu (ricevendo il lei).

Spiegò di aver deciso di scendere in politica dopo aver visto l’insegna di un negozio che si chiamava SARDEGNERIA. «Pensai: mai più. Mai più faranno mercato della nostra terra. Mai più villaggi turistici finti, che non sono costruiti da sardi, non impiegano sardi, non usano prodotti sardi, non distribuiscono utili ai sardi. La Sardegna è il campo giochi di partite altrui; di suo non ha neppure uno scivolo. Basta con le lottizzazioni sulla costa, con le moto d’acqua a tutto gas, con l’assedio degli yacht di ferragosto. Non possiamo diventare un’immensa Ibiza, perché anche Ibiza sta cambiando. Portiamo cavi e fibre ottiche, ma ritroviamo la nostra anima profonda, perché è quella che interessa al mondo globale ». Soru era così complicato e così sardo che non solo detestava la Costa Smeralda, nelle due versioni di Tom Barrack e del Billionaire, della ricchezza internazionale e delle paillettes de noantri (e si seccò molto quando al bar dell’aeroporto di Cagliari vide nel menu il panino Porto Cervo).

Non lo convinceva neppure l’idea della Sardegna cara a continentali che l’hanno molto amata, ad esempio Montanelli, affascinato da quello che gli pareva il Far West italiano, con i banditi, le cavalcate, gli spazi sconfinati, le sparatorie e tutto. L’idea dell’isola di Mesina e delle greggi gli pareva inutilmente romantica, ai limiti dell’oleografia: «Io la Sardegna la sento nel buio, nel silenzio. Due risorse quasi esaurite nel resto d’Europa, che sono la vera ricchezza naturale da sottrarre agli speculatori». Anche per la profondità del suo radicamento, oltre che per i cinque anni di potere, la sconfitta di Soru che si profila nella notte appare un’impressionante dimostrazione di forza del suo rivale: non l’oscuro Cappellacci, ma Berlusconi. Certo, Soru lamenta che il vescovo di Cagliari, Giuseppe Mani, abbia benedetto il Cavaliere in arcivescovado: «Ricordatevi che questo presidente vuole bene ai sardi» («non è vero, non vuole bene ai sardi ma al potere!» fu la sua replica).

D’accordo, l’Unione sarda di Sergio Zuncheddu, editore e costruttore, non l’ha mai intervistato, «neppure una volta in cinque anni, e la sua tv Videolina a stento ha fatto sentire la mia voce». Di sicuro la tassa sul lusso gli ha alienato simpatie influenti, così come la vecchia nomenklatura di sinistra da Cabras in giù ha remato contro. Ma è evidente che la sua hybris è stata la sfida con Berlusconi, che della Sardegna conosce soprattutto le proprietà di famiglia ma si è rivelato in sintonia con i sardi d’oggi almeno quanto lui. E’ stato proprio Soru ad accettare il duello. Conscio delle divisioni del centrosinistra e della sua debolezza endemica nell’isola, il governatore ha tentato di risvegliare l’orgoglio sardo contro l’invasore brianzolo, e magari ha cominciato a fare un pensierino anche alla partita nazionale. Intervistato per Vanity Fair da uno scrittore conterraneo, Pino Corrias, che gli chiedeva della successione a Veltroni, ha risposto: «Non credo. Però vedremo ».

E poi, quasi come motto finale: «Per governare non si deve necessariamente essere simpatici». Un rischio che Soru non ha mai corso, sostengono i suoi nemici («quali sono? Se ha il pomeriggio libero le faccio l’elenco »). «Pescecane travestito da spigola» l’ha definito con metafora ittica Giovanni Valentini, ex direttore dell’Espresso ed ex dirigente Tiscali. In realtà, Soru non è antipatico. E’ asciutto, essenziale, rapido. A 46 anni (ora ne ha 51) era già nonno. Scuola dai padri Scolopi («la mia famiglia era molto cattolica, e non di sinistra»). Un passaggio in autostop da un signore milanese fiero di avere gli eredi alla Bocconi; l’iscrizione alla Bocconi. Il padre aveva un minimarket; lui aprì un supermarket. Poi la finanza. La tecnologia. «A Milano ho passato 17 anni, sono nati due dei miei quattro figli, mi sono trovato benissimo. E’ tutto diverso dal Sud, là nessuno ti chiede nulla del tuo passato, basta quel che sei e quanto hai da dare. Però, quando ci torno, mi pare di non esserci mai stato».

La scoperta di Internet e dell’Est: Praga. L’amicizia con Grauso. Il boom in Borsa, quando Tiscali capitalizzava più delle grandi aziende italiane, e il rapido declino della new economy, che Berlusconi gli ha rinfacciato come fosse uno smacco personale («ho verificato l’ingiustizia del Lodo Alfano: lui mi insultava, mi calunniava, e io non potevo neppure querelarlo»). Ai sardi ha parlato di nuove tecnologie ma anche di formaggi («l’80 per cento del pecorino romano è fatto con il nostro latte!») e di leppe, il coltello tradizionale, di cui lamentava aver trovato alla festa dell’Assunta a Bonaria una versione made in China. Amava raccontare di quando da bambino andò a vedere la prima e ultima partita del Cagliari in Coppa Campioni: eliminato dall’Atletico Madrid, neanche dal Real. «Avevamo un grande allenatore, Scopigno, autore di una delle migliori battute di ogni tempo: "Tutto mi sarei atteso nella vita, tranne vedere Niccolai via satellite"». E’ successo davvero, una volta. Ma era molto tempo fa.

Aldo Cazzullo
17 febbraio 2009


Titolo: ALDO CAZZULLO. Fassino: «Valium? Ha vinto la ragione»
Inserito da: Admin - Febbraio 22, 2009, 03:35:44 pm
Parterre e strategie

E la nomenklatura si salvò «Rischio nuovismo scongiurato»

Il ruggito del popolo delle primarie non si sente.

Fassino: «Valium? Ha vinto la ragione»
 

ROMA — «Riserveremo a Franceschini e alla nomenklatura un trattamento tipo maggiordomo di Giuliano Soria» sibila all'ingresso un bellicoso delegato di Torino.
Resterà l'unico acuto, oltre a qualche strillo — «Tutti a casa!» — molto fotografato ma subito spento da un'urlataccia più forte della Finocchiaro donna d'ordine.
Per il resto, la «nomenklatura» se l'è cavata. E il nuovo leader, anziché essere multato come il malcapitato mauriziano per ogni cappuccino mal riuscito (almeno secondo l'accusa), viene festeggiato con la prodiana Canzone popolare, riesumata dopo il fallimento del Mi fido di te di Jovanotti-Veltroni. Alla Fiera di Roma era attesa la mitica base in rivolta. L'irruzione della società civile nelle polverose stanze delle oligarchie. Il ruggito del popolo delle primarie, attraverso i loro rappresentanti qui convocati. Invece tutti silenziosi, miti, placidi. «Secondo me li hanno sedati» ipotizza Lucia Annunziata. In realtà il lavorio dei vecchi leader ha convinto quasi tutti che Franceschini è una necessità, per ora.

LA VERA PARTITA DOPO LE EUROPEE - Dopo le Europee si giocherà la partita, tra lui (o un altro candidato della maggioranza popolari-veltroniani-fassiniani) e Bersani, sostenuto da D'Alema e forse da Enrico Letta, se non andrà con Follini e magari Rutelli a fondare con l'Udc il nuovo partito di centro, nome provvisorio Kadima italiana. Base cloroformizzata, vertice arzillo. Fassino, di ottimo umore: «Ma quale Valium? Ha vinto la ragione». Bersani, lontano da taccuini e telecamere, si lascia andare: «Abbiamo dimostrato che ci siamo ancora. Che siamo un partito. Che noi sappiamo come fare. Le primarie adesso sarebbero state come il festival di Sanremo. O come Miss Italia. Senza piattaforme, senza un congresso, nei gazebo si sarebbe votato come a un concorso di bellezza. Faremo pure i gazebo; ma a suo tempo. Volevate deciderlo voi giornalisti il leader? Già vi vedevo: e i sondaggi, e Internet, e Facebook; quello che vuole la faccia nuova, quello che vuole il trentenne, quello che provoca "il vostro capo ideale è Fini"... Oggi a tutto questo abbiamo detto basta». All'inizio è previsto un certamen tipo Orazi e Curiazi o lotteria dei rigori: cinque oratori per Franceschini, cinque per le primarie subito. Quando parlano i sostenitori della linea ufficiale, a ogni angolo di ogni settore c'è un peone entusiasta che chiama l'applauso. I ribelli, tutti a braccia conserte. Arturo Parisi è andato dal parrucchiere, ma invano: parlerà a una sala semivuota. Gad Lerner confabula a bassa voce, ma non è cospirazione, sta raccontando agli amici che la sua barbera del Monferrato ha preso i tre bicchieri del Gambero Rosso. Poi sale sul podio a chiedere le primarie. D'Alema sorride: «Bravo, intervento ottimo, Lerner ha perfettamente ragione. I nodi da sciogliere al più presto sono quelli che dice lui: Medio Oriente, laicità... Ci sarebbe solo un dettaglio: le elezioni. Non possiamo montare i gazebo mentre ci sono da decidere le candidature e fare la campagna elettorale». Riccardo Barenghi ex direttore del manifesto lo incalza, D'Alema risponde con un buffetto: «Barenghi io non mi occupo di organizzazione. A voi non ve ne frega niente», altro buffetto, «ma noi qui abbiamo problemi seri di cui occuparci».

LA MAPPA DELLE CORRENTI - La disposizione in sala riproduce la mappa delle correnti, capi e sottocapi si siedono vicini a comporre pacchetti di mischia: a sinistra D'Alema con Bersani, Latorre e Livia Turco; più distante Minniti ormai emancipato; al centro Fassino tra Marina Sereni e Damiano; a destra Realacci, Enzo Bianco, Gentiloni e altri della Margherita; i veltroniani in giro a ricevere solidarietà; un po' defilato Letta; Rutelli ancora più distante, decima fila, in direzione dell'uscita. «Tutti a casaaa!» ci riprovano gli urlatori, D'Alema si volta a guardare, sul viso una smorfia involontaria come fissasse una mosca su un cuscino di broccato bianco. L'ex ministro Bianchi, che è qui in quota Castro, sciarpa rossa e capelli bianchi lunghi, vaga su e giù da solo, anima in pena. Si vota. Non in segreto: per alzata di tessera. Le «scrutatrici di settore», come le chiama la Finocchiaro, sono nel pallone: «Compagno siediti te ti ho già contato, amico scusa ti spiace alzare di nuovo la mano?»; Morando, che vorrebbe le primarie adesso, si lamenta: «Ma come si fa a votare così, non si capisce niente, è una presa in giro»; gli dicono di lasciar perdere, ormai è tutto deciso. Barenghi, fuori dal raggio dei buffetti di D'Alema, provoca: sempre bulgari, eh? «Magari. Questa non è la Bulgaria, questo è un suq arabo. A Roma si dice 'na caciara. Io voto segretario il primo che fa piazza pulita: noi chiusi in una saletta riservata, con ogni confort; voi fuori, via, a guardarci sulla tv a circuito chiuso. Al massimo lasciamo aperto l'audio». D'Alema finge di arrabbiarsi, in realtà pare rilassato: Veltroni non c'è più, tutti gli altri sì.

«DECIDO IO» -Il discorso di Franceschini lancia la parola-chiave «decido io», affronta i temi irrisolti della collocazione europea e del testamento biologico, suscita gli applausi più alti quando evoca con efficacia la Resistenza: la lunga notte del '43, la strage fascista nella sua Ferrara, la corrispondenza in romagnolo tra Boldrini e Zaccagnini, il comunista e il cattolico che considera il suo maestro. Marini, a pipa spenta: «La faccetta sorridente di Dario trae in inganno. Lui sembra buono. In realtà è un duro. Determinato». Fassino, ormai euforico: «Franceschini c'ha due palle così!». Davanti a Bersani si forma una processione di diessini: «Noi avremmo votato per te...». «Tranquilli: a ottobre». Poi, al cronista: «In questi giorni i quotidiani hanno trattato Franceschini in modo vergognoso. E Franceschiello di qui, e dilettante di là. Il signor nessuno, la mammoletta. Io voglio un partito che reagisca a queste vergogne. Dario ha una figlia piccola, la mia ha quindici anni: dobbiamo nasconderle i giornali?». Di Bersani hanno detto che somiglia a Ferrini, il venditore di pedalò di Quelli della Notte. «Perché no? Ferrini è simpatico, e del resto io dico sempre che Berlusconi è come i pedalò: esce solo con il bel tempo». Dicono pure che con Bersani finisce il Pd e comincia un partito socialdemocratico. «Dalle mie parti socialdemocratico è quasi un insulto. Io semmai sono stato liberale...». Chi ha dubbi li esprime a voce bassa. Lerner: «Le primarie sarebbero state un ottimo lancio per le Europee, con il Pd in prima pagina per due mesi. Ma qui ho visto gente spaventata». Vincenzo Cerami, quota Benigni, si avventura nei labirinti della politica: «Allora, oggi hanno votato Franceschini, ma la prossima volta votano Bersani? È così? Ho capito bene? O no?». L'ex ministro Bianchi parlotta da solo. Franceschini raccomanda: «Mai più interviste, gli scontri risolviamoli tra di noi, non sui giornali». Bersani: «Sia chiaro che non ho dato un'intervista». Marini: «C'era un rischio nuovismo». Un rischio che pure ieri è stato evitato.

Aldo Cazzullo
22 febbraio 2009

da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO. «Il Predellino» contro gli ex An
Inserito da: Admin - Febbraio 28, 2009, 10:37:52 am
Il forzista Stracquadanio: Gianfranco ha scelto un ruolo privo di spinta politica

E il nascente Pdl litiga sul web

«Il Predellino» contro gli ex An

La nuova testata online esalta Silvio «il Capo».

Su «Farefuturo» la fronda finiana


ROMA — Se c’è una parola che fa saltare sulla sedia Fini e i suoi uomini è: predellino. Dovendo trovare una testata per il nuovo quotidiano on line, destinato a diventare la punta di lancia del berlusconismo, è stata scelta l’ipotesi più oltranzista: Il Predellino. «Predellino—dice l’ideatore, Giorgio Stracquadanio— come rottura della vecchia alleanza. Scatto in avanti. Bagno di popolo», oltretutto in piazza San Babila, un tempo luogo sacro della destra. Che si è già premunita da par suo. E da un mese e mezzo manda in rete FfWebMagazine, dove Ff sta per Farefuturo, la Fondazione vicina a Fini animata da Alessandro Campi e Angelo Mellone. Linguaggio moderato, toni istituzionali e linea frondista rispetto al governo, come si deduce dai commenti dei giorni scorsi: il direttore Filippo Rossi prende posizione in difesa di Beppino Englaro indagato a Udine —«un’ingiustizia» —; Campi chiede un partito «plurale»; ci si preoccupa, come fa anche Il Secolo d’Italia, che il congresso fondativo del Pdl sfugga a liturgie craxiane o nordcoreane; si dà voce in sostanza alle preoccupazioni della parte di An ancora leale al presidente della Camera.

Fin dall’esordio non è difficile prevedere che Il Predellino sarà invece la voce degli «avanguardisti» di Berlusconi, indicato spesso come il Capo, con la maiuscola. Basti vedere come vengono trattati i suoi avversari. Esterni—«è finita la Settis- cemia» è il titolo sull’addio del presidente del consiglio superiore dei beni culturali: «Finalmente Settis se ne va. Purtroppo, non in pensione » — e interni. «Leggendo il suo nome sulla carta di identità, Letizia Brichetto Arnaboldi coniugata Moratti si sarà detta: “Caspita come siamo in tanti!”. Invece Letizia Brichetto Arnaboldi coniugata Moratti, sindaco di Milano, l’altra grande sconfitta dopo Veltroni, è terribilmente sola. La sua personale disfatta sulla gestione dell’Expo la pone in grave difficoltà...». Sul magazine di Farefuturo capita di leggere elogi dell’avversario: come quando Umberto Croppi, l’imprevedibile assessore alla Cultura della giunta Alemanno, apprezza «l’intelligente provocazione di Baricco » contro i finanziamenti ai teatri. Il Predellino invece è partito subito forte con un’intervista esclusiva a Berlusconi, inchiodato con domande spietate tipo: in questi quindici anni si è riaccesa la luce della speranza e della fiducia? Quelli del Pci avevano cambiato il nome ma non le idee? Il 27 marzo nasce il Pdl, qual è il suo stato d’animo? «Quell’intervista è stato il nostro modo di accreditarci » spiega Stracquadanio. Milanese di 50 anni, formazione radicale, portavoce del comitato per il No al referendum contro le reti Mediaset — «interrompemmo un’emozione, e nessuno ne soffrì» —, consigliere politico della Gelmini, autore con Brunetta dei libri di Libero, di Berlusconi scrive spesso i discorsi. «Dicono che io sia lo spin-doctor del presidente. E’ vero il contrario. E’ lui che dà lo "spin", la linea a me. Lo vedo poco; ma aderisco a lui in modo naturale ».

Stracquadanio cioé pensa e sente come Berlusconi. «E, come lui, considero il predellino il simbolo del nuovo partito. Il Pdl è come una holding di partecipazioni, che procede per fusioni successive, con aumenti di capitale a ogni elezione ». Per cui, come scrive Il Predellino, «anzitutto c’è Forza Italia, il partito architrave del Pdl, che porta in dote 400 mila iscritti, 4.200 coordinamenti comunali, un esercito di amministratori: poco meno di 10 mila tra sindaci, consiglieri, assessori comunali, provinciali, regionali... ». Certo, «in secondo luogo» ci sarebbe Alleanza nazionale, «con un buon radicamento particolarmente nelle regioni del Centro- Sud». Ma «ridurre il Pdl alla sommatoria di Fi e An sarebbe un grave errore». Seguono parole calorose per Rotondi, Giovanardi, Baccini, Pionati, Fatuzzo, Caldoro, Mastella, circoli di Dell’Utri e quelli della Brambilla. E Fini? «Se Fini avesse voluto impegnarsi in prima persona avrebbe chiesto gli Interni—risponde Stracquadanio —. Invece ha scelto un altro ruolo, che di recente non ha dato grande spinta politica. Bertinotti e Casini insegnano che alla fine si va a fare i presidenti della Fondazione Camera. In passato qualche ex ambiva al Quirinale; nessuno ha mai gareggiato per la leadership politica». Entrambi i giornali online nascono come luoghi di discussione sul nuovo partito. «Un partito che pensiamo plurale, aperto, non dogmatico, non personalistico—dice Filippo Rossi —, così come il nostro non è giornalismo urlato, partigiano, propagandistico».

Un partito, scrive Campi, «che avrà anche bisogno di regole chiare e cogenti, in modo da garantirne la democrazia interna e rendere un giorno possibile e agevole il passaggio da Berlusconi al berlusconismo». Passaggio remoto nei tempi, a giudicare dall’entusiasmo che traspare dai titoli del Predellino. Sulla Sardegna: «Cappellacci vola»; «Berlusconi esilia Soru». Sull’ingaggio di Mastella: «Tutti mugugnano. E se fosse un capolavoro?». L’ultimo sondaggio pubblicato dà il Pd al 21% e il Pdl al 42: il doppio. E ancora: «Uno dei motivi del suo consenso è questo: la maggior parte degli italiani ha capito che il Capo ha la testa sul pezzo». Non solo: «Silvio Berlusconi parla anche alla sinistra. Riesce a interpretare anche istanze che sono storicamente di sinistra. Riesce a dire “cose di sinistra”, laddove i leader della sinistra istituzionale rifluiscono verso forme di snobismo elitario e di sostanziale conservatorismo». I riferimenti storici sono ambiziosi. «Veni, vidi, vici, racconta Plutarco di Cesare, dopo una sua grande vittoria: “Subito marciò contro di lui Farnace II con tre legioni e dopo una gran battaglia presso Zela lo fece fuggire dal Ponto e distrusse totalmente il suo esercito”». «Silvio Berlusconi è oggi l’uomo più potente del Paese. È un leader vero, che porta avanti le sue idee con forza e determinazione. E, per usare una figura a lui cara, Erasmo da Rotterdam, con quel pizzico di follia che rende possibile le imprese più importanti ». «Berlusconi ha tutto: anche una grande capacità di sdrammatizzare. Diceva Giorgio De Chirico: “La potenza intellettuale di un uomo si misura dalla dose di umorismo che è capace di utilizzare”. Finalmente il Paese (tutto, a giudicare dai sondaggi) se ne è accorto ». Un solo dubbio: «Che, dopo anni di egemonia gramsciana, stia per cominciare l’egemonia berlusconiana? ».

Aldo Cazzullo
28 febbraio 2009

da corriere.it


Titolo: CAZZULLO. Brunetta: Basta lamenti, in Italia i migliori ammortizzatori sociali
Inserito da: Admin - Marzo 08, 2009, 05:21:34 pm
L'INTERVISTA

Brunetta: «Basta lamenti, in Italia i migliori ammortizzatori sociali»

Il ministro: non sono d'accordo con Marco Biagi.

L'assegno? Una proposta da apprendisti stregoni
 
 
Ministro Brunetta, è vera la voce che gira?
«Quale voce?».
Lei ha portato in Consiglio dei ministri un dossier per sostenere che gli ammortizzatori sociali funzionano benissimo così?
«E' vero. Il ministro Sacconi e io abbiamo fornito ai colleghi alcuni dati. Che confermano una mia convinzione: il mercato del lavoro italiano, al di là delle sue contraddizioni, è mirabile, funzionale, efficiente, flessibile, reattivo, intelligente, e a modo suo equo. Molto "italian", ma con più luci che ombre. Con tanta gente che rischia e troppi privilegi, d'accordo. Ma, per come è andato costruendosi nel dopoguerra, con un insieme di pesi e contrappesi, sotto l'influenza di forze imprenditoriali e sindacali, istituzioni, territori, culture, è il più efficace d'Europa. Relazioni industriali e ammortizzatori sociali compresi. Marco Biagi diceva che era il peggior mercato del lavoro».
E lei?
«Io non sono d'accordo con Marco Biagi. Ed è proprio nei momenti di difficoltà come questo che il mercato del lavoro italiano dà il meglio di sé».
Adesso, che i precari sono esposti al vento della crisi?
«Mi rendo conto di andare controcorrente. Ma, nella realtà, nessuno è lasciato fuori. Vediamo il quadro generale. In Italia lavorano in 22 milioni. Il tasso di occupazione media e quello femminile è un po' sotto lo standard europeo; ma, se si aggiungono i 3 milioni e mezzo del sommerso, siamo in pari».
Del sommerso c'è poco da rallegrarsi, non crede?
«Il sommerso è stato una scelta sociale implicita, che svolge una funzione soprattutto nei tempi di crisi. Il sommerso è un grande ammortizzatore sociale. Attenzione: non grido "viva il sommerso". Prendo atto della realtà».
Sicuro che nessuno sia lasciato fuori?
«Noi abbiamo un buon sistema di ammortizzatori sociali. Certo, con figli e figliastri. Però capace di distinguere, di adeguarsi, di coprire tipologie diverse: i lavoratori delle imprese industriali, quelli del settore agricolo, i lavoratori a termine, gli autonomi, ognuno ha i propri strumenti: cassa integrazione ordinaria, cig straordinaria, cgis in deroga, indennità di mobilità, indennità di disoccupazione, ammortizzatori in deroga... Resta fuori un pezzo dei cocopro».
Cocopro?
«Lavoratori coordinati e continuativi a progetto. Una forma ibrida: lavoro autonomo ma con un solo committente. Anche qui però è prevista una specifica indennità una tantum. E poi in Italia il peso del lavoro atipico è il più basso d'Europa».
Sta dicendo che non serve l'assegno per chi perde il lavoro proposto da Franceschini?
«Roba da apprendisti stregoni. Da riformatori immaginari. Un po' ignorantelli, un po' radical chic, che non riescono a capire il funzionamento del mercato del lavoro e i valori sottesi. Gli ammortizzatori sociali funzionano proprio in quanto segmentati e diversificati. Sarà una balcanizzazione; ma funziona. Questo non piace alla sinistra astratta e ideologica, che vorrebbe un assegno uguale per tutti. Benissimo. Facciamo un test. A quale livello fissiamo l'importo dell'assegno? Alto, medio, minimo?».
Chiediamolo a Franceschini.
«No, me lo dica lei. Medio? Ma allora il lavoratore atipico troverà più conveniente smettere di lavorare e incassare l'assegno. Basso? Peggio ancora: si lamenterebbero i lavoratori in cassa integrazione, che oggi prendono di più. Alto? Scoppierebbe la rivoluzione: i disoccupati ci inseguirebbero con i forconi, gli altri sarebbero indotti a incassare e lavorare in nero».
Tutto bene così, allora?
«Non dico questo. Servono interventi per rispondere alla crisi: infatti ci sono 8 miliardi per la cassa integrazione in deroga. Il sistema ha bisogno di manutenzione; non di stravolgimenti. Si tratta di mantenere il giusto equilibrio: non abbandonare chi perde il lavoro a se stesso; ma neppure dare troppe garanzie. Ammortizzatori sociali, non bancomat. Investire solo lì significherebbe condannare le imprese a chiudere; e invece il vero sforzo — credito, fidi, filiere tecnologiche — va fatto per tenerle in vita. Vuole un'altra prova del fatto che il sistema funziona?».
Un'altra prova?
«Gli unici che non hanno ammortizzatori sociali, perché non ne hanno bisogno, sono i miei 3 milioni e 600 mila dipendenti pubblici. E la pubblica amministrazione è anche l'area meno efficiente. Nessun rischio di disoccupazione, e poca produttività ».
Avete anche voi lavoratori a termine, però.
«Circa il 10%, tutelati con due forme di indennità di disoccupazione, ordinaria e a requisiti ridotti. Una percentuale fisiologica, a parte l'aberrazione — da sanare — dei contratti prorogati di volta in volta per una vita».
La riforma delle pensioni va fatta o no?
«Affrontare il tema ora significa creare uno stress inopportuno per il sistema e la coesione sociale. Resta un fatto: il vero problema è il welfare pensionistico. E resta valido l'obiettivo di superare le pensioni di anzianità e passare al contributivo per tutti, senza però creare oggi questo stress».
Per ora niente pensione a 65 anni per le donne?
«E' un discorso diverso. Su donne e pubblica amministrazione siamo stati condannati in Europa. Credo che la soluzione sarà l'innalzamento perequativo decennale, senza particolari stress. E ciò che sarà risparmiato andrà investito nel mercato del lavoro femminile. Perché l'altra grave anomalia italiana, accanto alle pensioni, è la discriminazione delle donne».

Aldo Cazzullo

07 marzo 2009
da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO. Tremonti e il G8: il mio team di giuristi per riscrivere le ...
Inserito da: Admin - Marzo 10, 2009, 11:57:45 am
La crisi Il progetto

Tremonti e il G8: il mio team di giuristi per riscrivere le regole

Nella commissione Enrico Letta, Giulio Napolitano, Guido Rossi e Visentini jr
 

Una commissione, per affiancare il lavoro degli sherpa italiani in vista del G7-G8 e in prospettiva per un «Manifesto del diritto futuro», da far lievitare a partire da un grande incontro internazionale, questa primavera a Roma. Un contributo per scrivere le regole mancate in questi dieci anni di «eclissi giuridica e globalizzazione selvaggia», portare testi innovativi al vertice della Maddalena, gettare le basi per una nuova Bretton Woods. Attorno a Giulio Tremonti ci sono giuristi come il comparatista Gabriele Crespi Reghizzi, Alberto Santamaria, cattedratico di diritto internazionale alla Statale di Milano, e l’unica donna, Silvia Cipollina.

E ci sono Guido Rossi, Enrico Letta, Giulio Napolitano, figlio del presidente della Repubblica. E ancora Gustavo Visentini, figlio del Gran Borghese Bruno, Vittorio Grilli, direttore generale del Tesoro, Carlo Baldocci, consigliere diplomatico di Tremonti. Un nucleo aperto alla contaminazione di culture, compresa quella di centrosinistra, ma che non va interpretato come un segno di quella strategia dell’attenzione verso l’opposizione attribuita al ministro dell’Economia. Il vero senso non è politico, ma culturale.
Non a caso tutti i componenti sono giuristi. Guido Rossi, il «decano», ha tenuto con Tremonti e don Verzè un seminario al San Raffaele. Di Giulio Napolitano il ministro dell’Economia ha apprezzato molto il saggio sulla crisi finanziaria americana. Letta ha partecipato al seminario del gennaio scorso a Parigi, dove Tremonti era relatore insieme con Sarkozy, la Merkel e Blair. L’orizzonte del ministro è il vertice del G7-G8 alla Maddalena, sotto la presidenza italiana: «Le presidenze fanno le proposte. In tempi normali, fanno proposte normali. A questa altezza di tempo, non possono limitarsi a proposte normali. Devono fare proposte di pari altezza. Lo impone lo spirito del tempo».

Uno spirito che, nello scenario di Tremonti, riporta alle origini del vertice dei Grandi e, ancora più indietro, a Bretton Woods. Era il 15 novembre 1975, quando Giscard riunì al castello di Rambouillet i capi di Stato e di governo e i ministri dell’Economia, per serrare le fila di fronte a una doppia gravissima crisi, economica ma soprattutto politica, a fronte della massima espansione globale del comunismo. Ancora dieci anni fa, il G7 controllava l’80% del pil mondiale, ed era unificato da un unico «codice» politico — la democrazia occidentale —, un unico «codice» linguistico — l’inglese —, e un unico «codice» economico: il dollaro. Ora tutto è cambiato. Il G8 controlla appena il 50% del pil. Le democrazie occidentali non sono più il modello politico unico accettato dall’Occidente. L’Occidente accetta di sedersi attorno a un tavolo sistematicamente anche con altre forme politiche. Con il comunismo mercantilista cinese.

Con «misteriose entità politiche asiatiche». Con la Russia, «con la sua rendita mineraria e con il suo hardware paleoindustriale, potenza continentale priva però della spinta globale che le veniva dal software del comunismo: quel software che come uno spettro d’acciaio si aggirava attorno al caminetto del castello di Rambouillet», la cui assenza induce oggi Tremonti a non credere agli allarmi sul ritorno della guerra fredda. Il G20 è un corpo politico fondamentale ma asimmetrico; manca il mondo arabo; manca l’Africa. Il riferimento di base, nei ragionamenti del ministro, non è comunque solo Rambouillet, quanto Bretton Woods: la località sperduta nei boschi del Nord America, da cui nel ’44, nel pieno corso della guerra, «si traguardava la pace», si disegnava un assetto che governò il mondo fino all’inizio degli Anni Settanta, il cui ripudio causò la prima grande crisi del dopoguerra.

Ora la seconda grande crisi incrocia la presidenza italiana del G7-G8. Da cui vengono due proposte. La prima — lanciata da Tremonti nella Commissione europea e sulla prima pagina di Le Monde dell’11 settembre 2001, «una coincidenza fatale...», poi ripresa da Gordon Brown quand’era cancelliere dello Scacchiere — è la Detax: destinare una quota dell’imposta sui consumi ai Paesi in via di sviluppo; ma non per il tramite tradizionale dei governi, bensì attraverso i cittadini e il non profit. Finora sono stati i poveri dei Paesi ricchi a finanziare i ricchi dei Paesi poveri — è il ragionamento del ministro —. Una logica a volte postcoloniale, che ha funzionato in linea di massima ma che ha anche portato denari ai trafficanti di armi o in Svizzera. Se però una frazione dell’Iva viene destinata, anziché agli Stati, alla rete di volontariato cui il commerciante è iscritto, allora il cliente può con il suo acquisto finanziare ad esempio un nuovo ospedale in Africa.

La seconda proposta, che Tremonti aveva elaborato nel 2004, prima di «essere dimesso», e che è stata approvata all’unanimità al vertice di Villa Madama del febbraio scorso, è un nuovo «global legal standard». «In sostanza, a partire dagli Anni Novanta, gli Stati hanno rinunciato a fare gli Stati—è la valutazione del ministro —. Hanno permesso che una funzione sovrana come la funzione monetaria fosse trasferita alle banche, dando alle banche private il potere di battere moneta. Una moneta "cattiva", parallela a quella buona, una moneta stampata sul nulla». Da un lato la globalizzazione ha creato enormi squilibri, perché ha mosso enormi masse di capitali, lavoro, informazioni, dall’altro lato non ha compensato con un equivalente standard di regole; è stato così che la forza del mercato ha sovrastato la forza del diritto.

Al vertice del 2004 di Boca Raton, Florida, Tremonti aveva portato le mappe delle varie Tortuga in giro per il mondo, i «kingdom of anomia», regni dell’anomia, aree senza diritto; paradisi non solo e non tanto fiscali, quanto legali; piazze nelle quali si poteva fabbricare un capitalismo parallelo, fatto fuori dalle regole. «Mentre il mercato diventava globale, il diritto restava locale, e non solo; dove restava locale cedeva quote del suo potere con la deregulation, ma soprattutto consentiva la formazione di arcipelaghi giuridici che avevano la forma ma non la sostanza del diritto, giurisdizioni la cui unica regola era quella di non avere regole. Ora si capisce perché la Goldman Sachs fosse diventata forte come nel Trecento i Templari. E, nel regno dell’anomia, così come gli Stati hanno ceduto quote di potere, allo stesso modo i giuristi hanno ceduto rispetto agli economisti».

Il Tremonti che parafrasa Schmitt, che traduce il silete, iureconsultes in «tacete, economisti», vede nel declino della «pseudoscienza » o della «triste scienza» economica e nel ritorno della «scienza eterna del diritto» il segno di un mondo che ritrova un equilibrio, e che recupera i grandi principi del diritto. «Il pendolo del potere culturale e della visione politica si sposta dal mercato al diritto, dagli interessi alle regole»; e non a caso porta alla Casa Bianca un giurista già direttore della Law Review di Harvard. In vista del G7-G8, Tremonti ha coinvolto l’Ocse. La Commissione europea. E appunto il gruppo di cui fanno parte Napolitano jr e Visentini jr che ha due mandati di base. Sostenere il lavoro degli sherpa del governo per il vertice della Maddalena. E quello che Tremonti definisce «un sogno in più». La bozza di un «codice cosmopolita kantiano», che non si limiti alla finanza ma si apra alle questioni della proprietà, delle società, della trasparenza, della vigilanza, dell’anti- corruzione, della lealtà fiscale. La commissione si è già riunita alcune volte — la prossima è prevista tra una settimana —, mentre è sempre continuato lo scambio di materiali via mail. L’esito dei lavori — che sarà presentato e discusso in parallelo alla Maddalena, in un incontro internazionale a Roma, «culla del diritto», in una «sede solenne»—non sarà ovviamente un sistema di regole dettagliato, ma un insieme di principi, una sorta di «Manifesto del diritto futuro ». Espressione in cui non è impossibile sentire un’eco del Manifesto futurista di cent’anni fa: idee d’avanguardia, di «sconfinata ambizione », per un mondo in cui nulla è destinato a restare come prima.

Aldo Cazzullo
10 marzo 2009

da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO. Vargas Llosa: Silvio? «Ha saputo unificare la destra.
Inserito da: Admin - Marzo 20, 2009, 11:35:14 am
«All'estero si tende a sottovalutarlo. ha dimostrato un talento politico eccezionale»

«Silvio ultimo caudillo, ma democratico»

Lo scrittore Vargas Llosa: «Ha saputo unificare la destra. La sinistra? È anacronistica»



MADRID—Mario Vargas Llosa, Grande Vecchio della letteratura mondiale e del liberalismo, sta lavorando al prossimo romanzo, ambientato tra l’Africa e Londra, al tempo del genocidio rimosso dei belgi in Congo. Sul tavolo ha i giornali europei che danno conto del nuovo partito fondato da Silvio Berlusconi. L’occasione per una disamina politico- culturale sull’Italia e non solo, nell’anno della crisi.

Qual è il suo giudizio sulla figura di Berlusconi? È davvero un uomo di destra? «Berlusconi è un caudillo. Una figura scomparsa da tempo, di cui nessuno si attendeva il ritorno sulla scena della storia. Non solo: Berlusconi è un caudillo sui generis. Un caudillo democratico. Non ha nulla dell’autoritarismo di Mussolini. Il suo tratto pubblico è semmai l’ilarità, la battuta, la barzelletta. È un istrione che a volte si presenta come un clown. Ma gli va riconosciuto uno straordinario olfatto politico. Così come bisogna riconoscere che si è mosso dentro i parametri democratici; centrando i suoi obiettivi. Ha unificato per la prima volta la destra, da sempre divisa in fazioni che non si riconoscevano le une con le altre. E ha sconfitto più volte la sinistra italiana, vale a dire la più poderosa dell’Occidente».
A dire il vero, la sinistra italiana di sconfitte ne ha collezionate molte.
«Ma ha sempre esercitato un’egemonia culturale. Aveva dalla sua parte alcuni tra gli intellettuali e gli artisti più importanti d’Europa. E, nel ’94, pareva sul punto di prendere il potere. Ma sulla sua strada ha incontrato Berlusconi». Lo storico Piero Melograni sostiene che Berlusconi è l’uomo che chiude la Guerra fredda italiana, con la sconfitta definitiva del comunismo nostrano, e chiude la rivoluzione giudiziaria di Mani Pulite. Condivide? «Sì. Guardi, come avrà capito, a me Berlusconi non è simpatico...»
L’ha mai incontrato?
«Una volta sola, al matrimonio tra Agag e la figlia di Aznar, ma non ci siamo parlati. All’estero si tende a sottovalutarlo: pare impossibile che un personaggio superficiale, poco colto, che offre poche credenziali sul piano etico, abbia governato per tre volte un paese sofisticato come l’Italia. All’inizio pareva un opportunista, mosso dall’istinto del potere e dell’interesse personale. Però devo riconoscere che Berlusconi ha dimostrato un talento politico eccezionale. I suoi governi hanno garantito all’Italia ordine, stabilità, continuità. E hanno mandato all’opposizione una sinistra che avrebbe fatto del male al Paese».
Il centrosinistra si è unificato nel Partito democratico, ma non vede crescere i propri voti. È un esperimento già fallito?
«La sinistra italiana è un anacronismo. Non si è accorta di vivere in un mondo completamente mutato. È vecchia. I suoi uomini sono sempre gli stessi. Le sue idee sono state pensate in tempi remoti. Ha bisogno di un rinnovamento profondo. La sua debolezza è un guaio per Berlusconi e per il Paese. Senza un’opposizione forte, la democrazia è in grave pericolo».
I critici di Berlusconi ricordano che non ha ancora sciolto il conflitto di interessi, che fa di lui l’unico capo di governo a possedere tv e giornali. I suoi difensori sostengono che il conflitto è stato sanato dal voto degli elettori. Lei cosa ne pensa?
«La cosa più grave non è il conflitto di interessi, ma il fatto che agli italiani palesemente non importi nulla. Berlusconi non sarebbe lì senza le sue tv. La sua è la vittoria della cultura dello spettacolo; anzi, lui stesso è lo spettacolo. Perciò non venderà mai. Anche questo è un segno dell’involuzione etica della democrazia, evidente in tutto il mondo. L’Italia ha anticipato una questione che ci riguarda tutti».
Ora che è nato un partito dal 40%, come in Italia non si vedeva dai tempi della Dc, il berlusconismo sopravvivrà a Berlusconi?
«No. I partiti carismatici sono effimeri: non stanno insieme senza il carisma del leader. Il Pdl è come una bouillabaisse: saporita, ma eterogenea. Ci sono i conservatori e i riformatori, gli statalisti e i liberali, i cattolici e i radicali, gli uomini della vecchia destra e gli ex socialisti. Berlusconi non ha luogotenenti né delfini, né li può avere. Lui è irripetibile. Autoreferenziale, perché il suo unico riferimento è se stesso. Solo un Berlusconi jr potrebbe succedere al padre. Ma l’Italia non è la Corea del Nord».
Come valuta l’evoluzione dell’altro socio del Pdl, Alleanza nazionale, il partito erede del postfascismo?
«Stimo Fini. Una persona seria. È stato bravo a portare il suo partito dal fascismo a una destra moderna. Ma è un hombre de gabinete. Un uomo di apparato. Non sarà il successore di Berlusconi, e il primo a saperlo è lui».
Il Pdl è alleato con la Lega Nord. Come le pare Bossi?
«A differenza di Fini, Bossi ha carisma. Ma per ovvi motivi non sarà mai un leader nazionale. La sua è una forza di rottura, pericolosa in uno Stato dalla storia breve come l’Italia. Però la prima vittima di Bossi è la sinistra. Perché la Lega ha un elettorato popolare».
Cosa pensa della nuova destra che si ritrova nel partito popolare europeo? Sarkozy le piace?
«È un personaggio carismatico, con una vena populista, peraltro radicata in Francia fin da De Gaulle e Mitterrand. Ma è dinamico, affronta i problemi, ottiene risultati. E sta integrando la Francia nel resto del mondo, ricuce con l’America, torna nella Nato».
E Angela Merkel?
«Magnifica. Il leader europeo più sensato. Non è carismatica, il che per me rappresenta una qualità, perché significa che non è pericolosa. È invece democratica, diligente, flessibile. Sa lavorare in squadra. Era molto che la Germania non aveva una guida così».
A Londra voterebbe Gordon Brown o Cameron?
«A Londra sono maturi i tempi per l’alternanza. La maggioranza degli inglesi vuole Cameron, e credo l’avrà».
In Spagna che succede? Zapatero è in difficoltà?
«Grave difficoltà. È andato incontro spensierato al ciclone senza vedere le nuvole che si addensavano sulla sua testa. La crisi in Spagna è a uno stadio molto avanzato, e le prossime elezioni europee —le più importanti della storia non solo a Madrid, perché arrivano in un momento topico — potrebbero sancire il sorpasso dei popolari. L’unica nota positiva per Zapatero è che, per la prima volta, i partiti costituzionali superano i nazionalisti e sono maggioranza nel Paese basco».
Il leader del Pp Rajoy le piace?O era meglio Aznar?
«Rajoy è migliore come uomo di governo che come uomo da campagna elettorale, e potrebbe avere presto l’occasione per dimostrarlo».
Qual è l’impatto della crisi economica sulle culture politiche? La preoccupa questo passaggio brusco dal liberismo allo statalismo?
«Mi preoccupa molto. La storia recente ci insegna dove porta, in tempi lunghi o brevi, l’intervento statale nell’economia: alla rovina delle nazioni. Non è il liberalismo a essere andato in crisi; sono le istituzioni finanziarie, il loro funzionamento, le loro regole o la loro mancanza di regole, i loro tanti piccoli Madoff. Pensare di riempire questo vuoto con lo Stato sarebbe un rimedio peggiore del male».
Tutti i governi però hanno predisposto un piano di intervento.
«Temo si stia gettando il denaro nella fornace della crisi, con il risultato di sottrarre banche e imprese alle loro responsabilità. La crisi può anche essere un’utile purga. Una catarsi. Purché salvi la parte buona del mercato e rigeneri le istituzioni liberali, anziché soffocarle con il ritorno al passato».
Che impressione le fa Obama?
«Obama è molto positivo per gli Stati Uniti, che hanno pagato un prezzo terribile agli anni di Bush e sono arrivati alla fine del suo secondo mandato con il morale e il tasso di popolarità nel mondo più bassi che mai. Obama ha l’enorme merito di portare con sé una carica di entusiasmo e idealismo. La vera novità non è il fatto che sia nero; è il fatto che sia un intellettuale. Genere mai amato negli States».
Come le sembrano le sue prime mosse?
«Obama ha un compito terribile, ma sulla crisi Usa non sono pessimista. Gli americani possono uscirne prima del previsto, ne stanno già uscendo. Certo dovranno organizzare diversamente le loro vite, risparmiare di più, amputare le escrescenze. Ma mi pare che il patrimonio di idee e di valori dell’America sia ancora saldo».
In America Latina sembra prevalere un nuovo populismo, da Chavez a Morales. Che effetto le fa?
«Distinguo. C’è un populismo totale, anacronistico, antidemocratico che è quello di Chavez, che porta il Venezuela verso il modello cubano: miseria, corruzione, dittatura. Anche se i cinque milioni di voti contro di lui nell’ultimo plebiscito mi fanno sperare. Ma in America Latina c’è anche una sinistra democratica che ieri non c’era. Lula ad esempio ha accettato l’economia di mercato. Il Cile ha una sinistra di governo moderna e liberale. L’Uruguay è una grande sorpresa, i tupamaros che un tempo erano estremisti hanno saputo rinnovarsi».
E la presidenta Kirchner?
«Un desastro total. L’Argentina sta conoscendo la peggior forma di peronismo: populismo e anarchia. Temo sia un paese incurabile. La forza oscura, che mezzo secolo fa prese a trascinare una terra tra le più ricche del mondo verso la rovina, è ancora in moto».

Aldo Cazzullo
20 marzo 2009

da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO. La scossa ai colonnelli: sto con gli italiani del futuro
Inserito da: Admin - Marzo 23, 2009, 11:33:10 am
Il discorso di Fini

La scossa ai colonnelli: sto con gli italiani del futuro

Il leader commenta con la compagna Tulliani le parole dei suoi: bene i «luogocomunisti» di Alemanno


ROMA — Non è solo una nota di costume, l'esordio imbarazzato di Elisabetta Tulliani: accolta con entusiasmo dai fotografi e con distacco dai colonnelli, La Russa le fa a malapena «ciao», altri la ignorano, solo Giovanni Malagò viene a darle un bacio sulla guancia, mentre Giulia Bongiorno le si siede vicino quando il fidanzato-leader sale sul palco. È il segno del distacco emotivo tra la platea e un capo che non solo ha cambiato frequentazioni e affetti, ma ormai non si rivolge più al suo ex partito e neppure al centrodestra, quanto al complesso delle istituzioni e dei cittadini.

Così il congresso resta, più che freddo, basito quando Fini parla di Partito popolare europeo, dialogo con l'Islam, distinzione tra la sfera politica e sfera religiosa «che deve restare personale e privata», e del dovere di «non discriminare nessuno, nemmeno l'immigrato, nemmeno il clandestino». Un congresso che anche ieri si è scaldato davvero una volta sola, quando Alemanno ha citato Menia, l'unico a esprimere le riserve di molti sulla fusione con Forza Italia. Non che Fini non sia più leader. I delegati, così come i colonnelli (di cui Gasparri ha chiesto per due volte la promozione a generali «ora che abbiamo pure il ministro della Difesa»), non mettono in discussione l'antica gerarchia, né la sua manifesta superiorità intellettuale. Solo che faticano a seguirlo, quando Fini corregge La Russa e dice che il Pdl non dev'essere la Destra, non deve rappresentare identità passate ma «gli italiani del futuro», «tra cui molti saranno italiani pur non essendo figli di italiani». Applaudono all'evocazione del «giovane militante del Fuan che si chiamava Paolo Borsellino», ma fingono di non capire quando precisa che «dobbiamo guardare a lui come a un esempio non perché era un giovane militante del Fuan, ma perché era Paolo Borsellino».

Il congresso invece asseconda appieno, per residuo orgoglio di partito, la polemica indiretta con Berlusconi. Il Cavaliere non è venuto, su richiesta dei «generali » di An, ma ha mandato Verdini con un messaggio che rievoca la scelta del novembre '93, «quando mi schierai con Fini contro Rutelli e ricevetti per questo attacchi inauditi».
E Fini ottiene gli applausi più calorosi quando precisa che non ci fu «nessun regalo, nessuna grazia ricevuta, soprattutto nessuno sdoganamento; perché si sdoganano le merci, non le idee». Il Pdl «non è nato in piazza San Babila », e in ogni caso dovrà essere «il partito della nazione, non il partito di una persona », non chiuso nel «culto della personalità» ma «aperto all'impegno di altri oltre al leader». A cominciare da lui, il presidente della Camera, «terza carica dello Stato» come ricorda con puntiglio, e quindi non disponibile a vedere umiliato il Parlamento: «Fateci fare piuttosto meno leggi, ma restituiteci il potere di controllo e di indirizzo». Sì alle riforme istituzionali e al presidenzialismo, ma che sia come in America, dove al presidente più potente al mondo si contrappone un Congresso forte; e per fortuna ieri l'ospite d'onore era il sindacalista Bonanni e non Schifani, che così non ha dovuto ascoltare di persona la richiesta di ridimensionare il Senato a «luogo di rappresentanza dei territori».

Non da oggi An sta stretta a Fini, che se n'è servito come serbatoio di voti e militanza senza rinunciare a rivolgersi a tutti i moderati, ora anche a tutti gli elettori. Certi passaggi del suo discorso sono stati applauditi solo dalla prima fila, dove accanto alla segretaria Rita Marino e al portavoce Fabrizio Alfano (la figlia Giuliana Fini è rimasta sobriamente dietro le quinte per tutto il congresso) esordiva appunto la nuova compagna Elisabetta Tulliani, paralizzata dall'emozione. Coda di cavallo bionda, orecchini voluminosi, tailleur pantalone gessato, collana di pietre colorate sulla camicia di raso azzurro. Fini fa chiedere ai fotografi di lasciarle un po' d'aria, si china a sussurrarle all'orecchio — «Hai sentito Alemanno? Questa immagine dei "luogocomunisti" non è male» —, si fa dare una mentina, le strizza il ginocchio prima di salire sul palco. Lei applaude i «generali» con circospetta cortesia, l'intera platea più che per votare decisioni già prese è usata come un grande applausometro: il ministro Matteoli appariva più vispo la sera prima nella tribuna dell'Olimpico; Alemanno — rosso in viso, le vene gonfie — suscita un'ovazione in difesa di Benedetto XVI; Renata Polverini cita la Yourcenar, Italo Bocchino Darwin, Gasparri Pansa e Bruno Vespa. Poi rivendica le critiche a Napolitano sul caso Eluana («Rifarei tutto») e fa un numero contro Veltroni «nullità politica », la Merloni del Pd che «licenzia seicento operai per fare più ricca la sua famiglia e più poveri gli italiani », Modiano «banchiere di sinistra» invitato a dare ai poveri il suo bonus da tre milioni e passa di euro, e inoltre «cosa aspetta Cappon a mandare in onda sulla Rai la fiction sul Sangue dei vinti?».

«Siamo il partito della legge e dell'ordine!» grida Gasparri. «È vero, ma non l'ordine delle caserme, l'ordine inteso come rispetto della dignità di ogni uomo» ragiona Fini. Forse in minoranza nel suo stesso popolo, ma in grado di dimostrare come — forse per la prima volta nella storia repubblicana — in un uomo venuto da destra possa riconoscersi chiunque; anche l'ambasciatore israeliano e quello tedesco, che si incrociano mentre vanno a stringergli la mano.

Aldo Cazzullo

23 marzo 2009
da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO. Cicchitto: basta complessi di inferiorità Il premier è ...
Inserito da: Admin - Marzo 25, 2009, 08:46:37 am
L'intervista

«Silvio ha smontato l'egemonia culturale della sinistra italiana»

Cicchitto: basta complessi di inferiorità Il premier è anti establishment come Craxi

«Una delle conquiste del Pdl dev'essere quella di superare il complesso di inferiorità culturale verso la sinistra. La sinistra è sconfitta anche perché la sua egemonia è stata smontata pezzo a pezzo, sul terreno di una grande battaglia culturale. E oggi c'è un'egemonia berlusconiana».

Presidente Cicchitto, al Pdl di solito si rimprovera scarsa attenzione agli intellettuali e un deficit di elaborazione culturale.
«Non è così. Intanto, tutti gli intellettuali italiani più importanti degli ultimi trent'anni sono stati avversi alla sinistra. Renzo De Felice. Lucio Colletti. Augusto Del Noce. Luigi Giussani. E non è affatto vero che Berlusconi non c'entri nulla con loro».

Qual è il legame?
«Berlusconi ha un antico rapporto con i ciellini, in cui ha visto gli unici che, pur prendendo calci in faccia, hanno resistito al '68. Ha del fascismo la stessa visione "laica" di De Felice e in fondo della borghesia italiana: nessuna simpatia o indulgenza, ma diffidenza verso l'antifascismo di maniera e strumentale. Quanto a Del Noce, ha portato in Parlamento suo figlio. Così come Piero Melograni e Colletti: il più importante studioso italiano del marxismo, che ha distrutto il marxismo. Penso poi al rapporto con Giuliano Ferrara e Gianni Baget Bozzo».

Proprio Melograni sostiene che a Berlusconi di intellettuali e cultura non importa molto.
«E invece Berlusconi ha saputo valorizzare l'elaborazione culturale di grandi intellettuali e imporla grazie alla sua iniziativa mediatica e televisiva. La sconfitta dell'operazione giudiziaria del '92-94 è avvenuta prima sul piano culturale e mediatico e poi su quello politico: il giudizio diffuso sulla magistratura oggi non è certo quello di quindici anni fa. Lo stesso è avvenuto per la demistificazione culturale del comunismo, e di tutta un'interpretazione della storia d'Italia portata avanti dalla sinistra».

Quale interpretazione?
«È stato smontato il connubio Gramsci-Togliatti, mostrando come sulla strategia del primo, basata sulla conquista dei cervelli, sia prevalsa quella del secondo, fondata sul totalitarismo criminale sovietico. È stato smontato il mito dell'autonomia del Pci, mostrando come dietro la svolta di Salerno ci fosse Stalin. Ed è stata smontata la narrazione postcomunista, che indicava in democristiani e socialisti i grandi ladri e rimpiazzava l'operaismo e il bolscevismo con il primato della magistratura come una sorta di nuova classe generale e del giornale di Scalfari come fonte di legittimazione. La svolta di Violante, uno dei registi dell'operazione, è indicativa. Anche se riconosco che Scalfari è un grande giornalista e, aggiungerei, grande intervistatore, capace di migliorare il pensiero dell'intervistato. Ricordo due interviste a un personaggio incolore come De Martino che, riscritto da lui, pareva brillantissimo...».

Berlusconi però ha combattuto la battaglia con una superiorità schiacciante di mezzi.
«La battaglia si è combattuta anzitutto con i libri».

Quali libri?
«Il lavoro di storici come Perfetti. Le traduzioni di Furet e Glucksmann. I saggi controcorrente di Giuseppe Gargani, Giancarlo Lehner, Mauro Mellini. Gli stessi libri di Pansa ancora qualche anno fa non avrebbero avuto lo stesso successo. E poi il colpo di teatro: Berlusconi che al congresso di Verona di An, propensa (o indotta) a legittimare i postcomunisti per legittimare se stessa, porta migliaia di copie del Libro nero del comunismo. Quale altro leader politico ha fatto qualcosa del genere?».

Quale altro leader politico possiede giornali e tv?
«Ci voleva un personaggio con la sua forza finanziaria e mediatica per affrontare l'invincibile armata di Cgil, Rai, alcune grandi banche, alcuni grandi gruppi industriali, tutte le grandi procure. E poi di qui c'è un conflitto d'interessi alla luce del sole. Il conflitto d'interessi del Pci-Pds-Ds-Pd è rimasto occulto, sino a quando è esploso con Consorte».

Ancora nel '94 però le tv di Berlusconi appoggiavano la Procura di Milano.
«Se Berlusconi si fosse presentato agli elettori come il continuatore del pentapartito sarebbe stato travolto. Ha avuto l'intelligenza di capire che doveva fare una cosa nuova, che i vecchi partiti erano morti, ma le loro culture politiche erano vive. Da qui la scelta di recuperare uomini di formazione cattolica, socialista, liberale ».

Alla sinistra non resta nulla?
«Resta l'organizzazione della cultura. Finita nelle mani della sinistra peggiore, quella giustizialista. L'università. I libri di testo. Il teatro. Il cinema e la distribuzione del cinema: si rende conto che non si riesce a vedere Katyn, il film di Wajda sul massacro degli ufficiali polacchi? Lo sa che in tutta Italia lo danno solo in 12 sale? Guardi Bondi alla Cultura: uomo di grande intelligenza, alle prese con una nomenklatura di sinistra che lo pressa da ogni parte».

Lei invece si è trovato alla prese con la rivolta dei 101.
«A parte il fatto che sono di meno, molti non sapevano che in commissione si stava già lavorando a rivedere il decreto sicurezza».

Lei ha condiviso la linea del governo sul caso Eluana?
«Guardi, io non sono credente. Non sono un laico anticlericale, ma neppure un laico devoto. Sono contrario al divieto di diagnosi preimpianto sull'embrione, sulle staminali la penso come Obama, rispetto ma non condivido le idee del Papa sul condom. Credo che Welby avesse il diritto di staccare la spina, come dovrebbe averlo chi non è cosciente ma ha manifestato in passato una volontà chiara. Ma su Eluana sono stato del tutto d'accordo con il governo. Non si può far morire una persona di fame e di sete, com'è toccato a Terry Schiavo».

Com'è davvero il rapporto tra Berlusconi e Fini?
«Su due livelli diversi. E, per questo, migliore che in passato. Tanto è imprevedibile-carismatico il primo quanto è razionale-calibrato al millimetro il secondo, come ha confermato con il suo discorso di domenica. E' evidente che per tutta questa lunga fase il leader è senza dubbio Berlusconi. Il vero contraltare di Fini, in prospettiva, è Tremonti».

Come si sta comportando il ministro dell'Economia?
«È stato tra i primi a capire la crisi e il ritorno dell'intervento pubblico. Però sarebbe un errore per il governo inasprire i rapporti con la Banca d'Italia, fondamentale per la tenuta del sistema del credito e anche per il successo delle aste dei Bot».

 E tra Berlusconi e Craxi, lei che ha lavorato con entrambi?
«Entrambi avevano contro l'establishment. Ma Craxi cercava lo scontro; Berlusconi, il consenso. E poi non l'ho mai visto maltrattare un amico o un collaboratore. Non posso dire lo stesso di Bettino, che aveva un carattere insieme forte e aggressivo».

Aldo Cazzullo

25 marzo 2009
da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO. Silvio celebra «il carissimo Bettino.
Inserito da: Admin - Marzo 28, 2009, 03:53:11 pm
Il premier evita di citare la svolta del «predellino» e ricorda il corteo anti Prodi 2006

Silvio celebra «il carissimo Bettino»

«Lui per primo aprì alla destra»

Il Cavaliere diviso tra «amarcord» e facce nuove. Le attenzioni per Fini


Pareva il 27 marzo, sì, ma del 1994. I comunisti, Pol Pot, «milioni di adoratori di Stalin e Mao», l'oro di Mosca, i «cento milioni di morti», la deriva giustizialista, la salvezza «grazie anche agli amici Gianfranco e Umberto», la rivoluzione liberale. Discorso che vince non si cambia. Berlusconi si cita. Ampi stralci dal testo della discesa in campo (26 gennaio '94). Rievocazione della grande vittoria di due mesi dopo. E rilettura della storia d'Italia, con alcuni passaggi-chiave, di gran lunga i più applauditi dal congresso.

Bettino Craxi, indicato come precursore del Pdl, «il primo ad aprire alla destra», «il mio carissimo amico», qui rappresentato «da Stefania figlia ed erede politica», cui il premier manda un bacio; grande ondeggiare di garofani rossi, portati dall'on. Barani da Aulla. Pinuccio Tatarella, «il primo a credere in un centrodestra unito », celebrato dai delegati in piedi, in lacrime quelli di An. «La gloriosa macchina da guerra di Occhetto», e qui di mutato c'è l'aggettivo: era «gioiosa », ma fu travolta comunque. Di Pietro, mai nominato ma evocato come presenza maligna. La stampa «schierata contro in massima parte, con l'azionariato sovrastante». Il patto con la Lega, «di cui saluto il fondatore Umberto Bossi, mio carissimo amico». L'intervista al supermarket di Casalecchio, «quando non esitai a scegliere tra Rutelli e Gianfranco»; Fini è l'unico che non applaude, piega il capo infastidito, ma Berlusconi capisce e precisa: «Solo gli osservatori superficiali parlarono di "sdoganamento", un'espressione che giustamente a Gianfranco non piace».

La platea contribuisce all'amarcord. Accanto alle «facce nuove», tutte giovani e belle, i Revenants del glorioso '94, gli Angelo Codignoni, i Niccolò Querci. In gran forma Maria Luisa Todini. Antonio Martino è in terza fila, volto cupo tipo esequie. Sirene di autoblù dai vetri oscurati in ritardo. Tajani, di cui Dell'Utri dice che mai si sarebbe atteso di vederlo così in alto, ha portato il capo del Ppe Martens, che tiene allegra la platea: «Mon cher Silviò...». Berlusconi parla più di 90 minuti, ma la crisi mondiale si affaccia appena al 63': tanto «l'Italia ne uscirà prima e meglio degli altri». Obama è citato al 67', dopo il consueto aneddoto sul cimitero di guerra americano — «questa ve l'ho già raccontata: c'era una volta un padre che fece giurare al figlio...» —, che comunque fa sempre il suo effetto: «Quel padre era mio padre, quel figlio ero io». Certo dal '94 è cambiato tutto, anche il Cavaliere. Che però dimostra una tenuta fisica impressionante. Solo al 35' ha un attimo di appannamento, si incespica, va giù di voce ma rifiuta di bere, si riprende subito.

Nuovo è l'inno, Meno male che Silvio c'èal posto del coro di Forza Italia, molto rimpianto dai nostalgici. Per tenere testa alle «facce nuove», Stefania Prestigiacomo è andata dal parrucchiere e si è fatta i ricci, la Gelmini ha messo un rossetto rosa quasi fucsia. La Carfagna siede accanto a Tremonti, poi s'alza e si isola con Bocchino. Outing di Bondi, al fianco di Manuela Repetti detta la Zarina per il ruolo crescente. Ministri senza posto, Melania Rizzoli litiga con la hostess che vorrebbe farla alzare («se ce prova con me la mando affanculo» mette in chiaro la Mussolini), Brunetta scavalca le sedie svelando una falcata da ostacolista. Con Fini, dopo la discussione del giorno prima, Berlusconi è prodigo di attenzioni. Non cita il predellino e piazza San Babila, ma il corteo anti- Prodi del 2 dicembre 2006 e le successive vittorie elettorali. E comunque «Gianfranco merita un grazie, per aver anteposto l'interesse del Paese a quello personale». Lui sembra apprezzare.

Per oggi prepara un intervento molto diverso da quello del capo: il presidente della Camera eviterà di attaccare la sinistra, rivendicherà l'ambizione di rivolgersi all'intero Paese, riconoscerà i meriti di Berlusconi ma metterà in guardia dal culto della personalità. Stasera però la scena è tutta del premier, che ha in pugno la platea, la invita all'applauso modulando il tono della voce, le infligge un lungo excursus sul significato di Popolo e di Libertà, con citazioni dei rivoluzionari americani e francesi. Al 57', stremata, la Boniver guadagna l'uscita, dove si allunga la coda alla toilette. Provatissimo il filosofo Mathieu.

Passaggio-chiave quello sul Papa, anzi «Benedetto Decimosesto», di cui Berlusconi cita «tra virgolette» l'intervento dell'aprile 2008 sui «segnali di un clima nuovo, più fiducioso, più costruttivo» dopo la vittoria del Pdl. Applauso tiepidissimo quando i delegati apprendono che il loro partito «celebra la Resistenza e la Repubblica». «Siamo l'unico governo possibile» è la sintesi del presente. Schifani porta democraticamente il pass al collo. Di pass Giulio di Donato ex vicesegretario Psi ne ha due, ospite e delegato, provassero a fermarlo. Maria Pia Fanfani è venuta in divisa da crocerossina con medaglie, ma fanno storie pure a lei. Aveva aperto l'on. Calabria chiamando sul palco il Cavaliere con voce tremante: «E' arrivato il momento... sono emozionatissima...», a Fini scappa da ridere, invito... invito...», l'on. Calabria non riesce a pronunciare il nome di Berlusconi, s'ode nitida una voce dal banco dei fotografi: «E che è, padre Pio?».

Si chiude con il premier che convoca «i leader che ci porteranno i simboli e le bandiere dei loro partiti»: Sergio De Gregorio sorride come una popolana appena uscita dalla sala parto, la Brambilla e la Mussolini conquistano il posto d'onore nella foto ricordo, poi tutti, compresi Caldoro del nuovo Psi e Baccini dei cristianopopolari si prendono per mano e ondeggiano al ritmo del nuovo inno. Il Cavaliere cita pure Giovanardi, «mio carissimo amico», il ministro Rotondi, Dini, Dell'Utri e lo sconosciuto Luciano Bonocore della sedicente Destra libertaria; ignorato inspiegabilmente Pionati, mentre il repubblicano Nucara è convocato più volte ma per sbaglio; lui nel Pdl non entra, Berlusconi però è troppo felice per accorgersene.

Aldo Cazzullo
28 marzo 2009
da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO. Tremonti, il Cavaliere e la vera storia di FI
Inserito da: Admin - Marzo 29, 2009, 11:39:43 am
Congresso pdl

Tremonti, il Cavaliere e la vera storia di FI

Le riunioni in albergo con Maroni, Vertone e Mondadori. «I camerieri convinsero Silvio a scendere in campo»


«Lasciatemi salutare con affetto una persona che conosco da tanti anni. Dal 1982. Una persona che nella sua avventura umana ha avuto in sorte di essere già nella storia, una storia che non finisce ma continua. Abbraccio con affetto Silvio Berlusconi». In un intervento breve, asciutto, porto a voce bassa, il passaggio più applaudito è stato quello in cui Giulio Tremonti ha rivendicato il proprio antico legame con il presidente del Consiglio, e indirettamente con la storia di Forza Italia; o meglio con quella che può essere considerata «la vera storia di Forza Italia», di cui l'attuale ministro dell'Economia fa parte fin dall'inizio. Dopo i primi contatti tra professori della primavera del '93, a luglio c'è anche Tremonti ad Arcore, nell'incontro con Berlusconi, Urbani e Martino. Non si parla ancora di un partito che veda il Cavaliere alla testa, ma di una «formula ampia», un'alleanza tra tutte le forze di centro, Lega compresa, con Berlusconi come sostenitore numero uno però dall'esterno, grazie anche al peso delle sue televisioni. Ed è in questa veste che Berlusconi partecipa di tanto in tanto, tra fine estate e inizio autunno, a una serie di riunioni riservate. La sede, il seminterrato dell'hotel Four Seasons di Milano.

Riunioni finora mai raccontate. Presiedute da Leonardo Mondadori. Oltre a Saverio Vertone, intellettuale torinese che sarebbe entrato in Parlamento con Forza Italia nel '96, partecipano futuri ministri del centrodestra: Roberto Maroni, Elio Vito e appunto Tremonti, che stende anche un piano per i primi cento giorni del governo prossimo venturo. Talora arriva pure Berlusconi, dopo un po' si mette a discutere con i camerieri che vengono a «corteggiarlo», e lascia già intuire ai presenti «da che parte sta il popolo», e chi sarà il leader naturale del nuovo schieramento. Ma sono giorni in cui si ragiona ancora di un accordo vasto, che culmina con l'intesa tra Lega e centristi, annunciata da Maroni e Mario Segni. Però Bossi sconfessa il proprio vice. Berlusconi scende in campo in prima persona. E Tremonti si sente impegnato con Segni. Dopo la vittoria del Cavaliere, si profila nel Patto Segni la linea dell'astensione. «E, se quella linea fosse stata mantenuta, io non sarei diventato ministro» ha fatto notare Tremonti nelle conversazioni private. Invece il leader referendario, dopo essersi consultato con Arturo Parisi, decide di votare contro il governo Berlusconi; che chiama Tremonti alle Finanze.

Più che a rievocare il passato, ieri sera il ministro teneva a rivendicare «azione e pensiero». «L'azione da ministro, il pensiero per il congresso». In altre occasioni, ad Assago 2004 all'assise di Forza Italia, a Milano 2003 in quella della Lega, Tremonti aveva infiammato la platea. «Stavolta non farò battute, né polemiche» ha anticipato ai collaboratori ieri sera, prima di salire sul podio: il suo non sarebbe stato un discorso da trascinatore, ma un intervento filosofico-culturale. «Serio». Fin dall'esordio: «Vi parlerò della crisi», argomento finora ampiamente ignorato. Definito dalla speaker «l'uomo la cui genialità l'Europa ci invidia», invocato dal coro Giulio-Giulio, lui si aggiusta gli occhiali con il sorriso del timido e parla a braccio, tenendo sotto gli occhi un foglietto su cui ha appuntato le parole-chiave. «Paura» e «speranza», citando non il suo pamphlet ma il discorso di insediamento di Obama, e riconoscendosi nella sfida di far prevalere la speranza sulla paura. «Crisi» appunto, affrontata «non dall'alto dell'economia ma dall'alto della politica e della storia». Segue una sintesi dell'elaborazione culturale di Tremonti: le radici giudaico-cristiane, la patria narrata come «la terra dove riposano i nostri genitori», l'intuizione della «crisi americana stile '29», la riscoperta del ruolo pubblico; «la fine non del mondo ma di un mondo», il primato del lavoro sulla finanza, la «terra incognita » che però non è «la mezzanotte della storia» ma «la svolta che batte la sua ora nelle nostre vite».

Il federalismo fiscale, molto caro all'alleato leghista, «dovrà unire, non dividere, e fare in modo che chi ha di meno possa avere di più; e mi riferisco al Mezzogiorno». Poi il passaggio sulle opposizioni. Che per il ministro dell'Economia sono due, una costruttiva e una distruttiva. «Ci sono davvero, queste due attitudini » spiegherà alla fine dell'intervento, sull'auto che alle nove di sera lo riporta a Roma. Da una parte c'è la Cgil, che il 4 aprile convoca uno sciopero «contro la pioggia»; dall'altra ci sono ammortizzatori sociali e piano casa che «passano anche dalla sinistra», a cominciare dalle Regioni che «hanno avuto un atteggiamento costruttivo ». Il retrotesto dell'intervento di Tremonti non è sfuggito alla platea: la situazione è grave e chiama a raccolta le migliori energie del Paese, non è il momento di cercare lo scontro; però la parte più avveduta del centrodestra ha visto la crisi prima del centrosinistra e di altri governi europei, ha pochi soldi da spendere ma ha gli strumenti per limitare i danni, «farà tutto il possibile per non lasciare nessuno indietro», e lavora a riscrivere le regole di sistema tenendo insieme competenze e culture diverse. Con uno spirito non molto lontano da quello delle riunioni riservate nel seminterrato del Four Seasons, sedici anni fa.

Aldo Cazzullo

29 marzo 2009
da corriere.it


Titolo: Amato: il premier ha agito bene, ma si ricordi che rappresenta tutti
Inserito da: Admin - Aprile 11, 2009, 04:13:18 pm
Amato: il premier ha agito bene, ma si ricordi che rappresenta tutti


ROMA — Un terremoto al tempo della crisi. Del bipolarismo. Di Berlusconi. Una catastrofe che trova un’Italia già molto cambiata rispetto a quella del ’68, del ’76, dell’80, financo del ‘97, e la sta ulterior­mente cambiando.

Nel giorno del lutto na­zionale, che però lascia trasparire motivi di speranza, ne ragiona Giuliano Amato: due volte presidente del Consiglio, mini­stro del Tesoro, ministro dell’Interno, ora presidente dell’Enciclopedia italiana.

«Certo, un terremoto in tempo di crisi è quanto di peggio possa capitare a un Pa­ese che più di altri è oberato dalla crisi proprio sul versante della finanza pubbli­ca: perché ha un debito particolarmente alto e teme di diventare il vaso di coccio sul mercato dei titoli pubblici, sui quali proprio a causa dei crolli finanziari la con­correnza aumenta enormemente; basti pensare al debito americano. D’altra par­te, il terremoto aiuta a far emergere un sentimento di cui in tempo di crisi c’è bi­sogno e che spesso proprio a causa della crisi tende a scomparire: il sentimento della solidarietà. C’è sempre qualcuno che sta peggio di te, cui dovresti pensare in tempo di crisi; se si aggiunge il terre­moto, i terremotati li vedi, sei indotto alla solidarietà, ed è possibile che tu accetti quell’aumento magari limitato e tempora­neo della stessa pressione fiscale per aiu­tare le vittime del terremoto, senza che lo Stato debba aumentare il suo debito».

Quell’una tantum che in altri contesti avrebbe suscitato una rivolta fiscale oggi sarebbe accettata. Anche perché, sostiene Amato, «se oggi venisse aumentata l’una o l’altra imposta, per destinarne gli introi­ti alla ricostruzione, sono sicuro che ci sa­rebbe una trasparenza nell’utilizzo che mai c’è stata in passato. Uno dei lasciti del nostro recente passato è che le tasse ten­denzialmente non si aumentano; ma, se lo fa, l’operatore pubblico tutto si può per­mettere fuorché di scialacquare quei sol­di e di gestirli senza trasparenza. La difesa del contribuente, e quindi la difesa di quello che lui dà allo Stato, oggi è diventa­ta un must. Un tempo erano i soldi dati a titolo privato che avevano questo tipo di tutela, mentre i soldi del contribuente fini­vano nel calderone della macchina pubbli­ca. Mi ricordo che, quando venne raccol­to attraverso tv e giornali compreso il Cor­riere un fondo per le vittime dello tsuna­mi, la Protezione civile cui era affidato questo denaro privato nominò un comita­to dei garanti presieduto da Emma Boni­no, di cui ero componente con, in ordine alfabetico, Andreotti, Monorchio e Napoli­tano: dovevamo verificare euro su euro e informare i donatori di quello che si stava facendo con i loro soldi. Oggi mi aspetto che lo stesso accada a favore del contri­buente; proprio perché la lunga stagione liberista, che ha quasi delegittimato l’au­mento delle imposte, ha reso molto più prezioso il denaro che poi in concreto il contribuente può essere costretto a dare. E questo non è né destra né sinistra. In qualche modo consiglierei il governo di profittare di questa circostanza: ci vorran­no molte risorse per l’Abruzzo, e non cre­do sia possibile reperirle nel bilancio pub­blico senza qualche contribuzione da par­te dei cittadini».

La percezione comune è che il Friuli sia stato ricostruito grazie all’iniziativa in­dividuale, mentre in Irpinia e nel Belice l’intervento pubblico sia fallito. «In realtà — dice Amato — l’intervento pubblico ci fu anche in Friuli, ma portò frutto perché non sostituì bensì integrò l’iniziativa pri­vata. Sostengo il modello friulano anche in Abruzzo: non tanto perché mi aspetti che lo Stato sprechi, quanto perché mi aspetto che lo Stato rimanga, via via che passa il tempo, prigioniero di lentezze che poi fanno durare le tendopoli, le ca­sette di legno, le sistemazioni provviso­rie fino a dieci anni; anche senza bisogno del Belice, purtroppo gli umbri ne sanno qualcosa. Il meccanismo che dovrebbe in­nescarsi è questo: siccome la solidarietà dei miei concittadini è per me, tu Stato fai da collettore e poi passami i soldi; veri­fica caso mai che io rispetti le tue norme; ma all’interno delle mie procedure, non delle tue. Con la mentalità abruzzese, il modello può funzionare. Non dimenti­chiamo che l’Abruzzo ha saputo crescere non attraverso l’insediamento pubblico, ma avvalendosi delle infrastrutture essen­ziali che lo Stato ci ha messo. Come l’auto­strada. Molti non ci credevano. Gaspari sì, e ha avuto ragione lui: l’autostrada ha consentito a molte parti altrimenti inac­cessibili della regione di sviluppare attivi­tà che trovavano il loro mercato grazie al­l’autostrada. Tra le poche cose pubbliche significative c’era l’ospedale dell’Aquila, il cui crollo pone i tanti punti interrogati­vi che ci stanno oggi angosciando».

E’ la prima volta che un terremoto met­te alla prova una politica bipolare, domi­nata da una figura forte. E le reazioni sul luogo della tragedia sono diverse dal pas­sato. «C’è una politica — nota Amato — che compare tra i terremotati e che fami­liarizza facilmente con loro, e loro familia­rizzano facilmente con i politici. Questo è un portato dei media e della tv, intelligen­temente sviluppato nelle sue potenzialità dai politici, a partire da Berlusconi, che in questo tipo di situazioni mette in evi­denza le sue qualità comunicative». Un fe­nomeno che l’ex premier giudica in mo­do positivo: «Non è necessariamente ve­ro che, a causa della reiterata frequenta­zione dei politici attraverso la tv essi di­ventino personaggi al limite tanto imma­ginari quanto sono quelli delle fiction. Noi ci abituiamo a vederli, a sentirli parla­re, e se loro hanno l’intelligenza di non limitare il rapporto al momento della tv ma vengono da noi fisicamente, ci fre­quentano di persona; a quel punto la tv ha creato in noi quel sentimento di fami­liarità che ci permette di parlarci alla pa­ri. Anziché essere falsato, il rapporto ne esce arricchito». Quindi Berlusconi ha fat­to bene ad andare all’Aquila tutti i giorni? «Sì, ha fatto bene. Certo, avrà un vantag­gio competitivo. La par condicio ne sof­fre. Ma lui è il presidente del Consiglio, e ci va in tale qualità. Un politico dell’oppo­sizione non è titolare di funzioni, espri­me molto meno, e più facilmente rischia di apparire quello che fa passerella. D’al­tra parte, se una cosa del genere ci aiuta a capire che le figure istituzionali apparten­gono al Paese e non alla sola maggioran­za che li ha espressi è un fatto sano. Pur­ché capiscano anche le figure istituziona­li che non sono rappresentative solo del­la maggioranza».

Aldo Cazzullo
11 aprile 2009

da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO. Ha vinto Torino (di una volta)
Inserito da: Admin - Maggio 03, 2009, 05:34:07 pm
LA CITTA’ E L’AZIENDA

Ha vinto Torino (di una volta)


Alla fine non è stata la nuova Torino a conquistare l’America, ma l’antica. A vincere non è la città neogozzaniana mai stata così bella, con le mostre sul barolo e sul cioccolato, i caffè restaurati, le signorine sempre più graziose che mangiano le paste nelle confetterie.

È la sapienza tecnica della metropoli industriale aspra e sobria, squadrata come la città dell’Apocalisse, l’abilità dei capisquadra che sapevano fe’ i barbis a le musche, rifilare i baffi agli insetti, e dei geni ignoti come Dante Giacosa che disegnavano le auto più belle al mondo e nel contempo sapevano progettare un carburatore. Non la città delle Olimpiadi e del turismo e neppure quella inquietante dell’occulto (tutte frottole in verità come i torinesi sanno benissimo) e della movida notturna che ispira l’ultimo preoccupato romanzo di Culicchia: lo sballo all’ombra dei Murazzi del Po, feste, alcol e gioventù bruciata. Bensì la Torino dell’Avvocato, che ovviamente è molto cambiata ma dev’essere ancora parente di quella che Giovanni Agnelli raccontava come «una città di guarnigione, in cui i doveri vengono prima dei diritti, l’aria è fredda e la gente si sveglia presto e va a letto presto, l’antifascismo è una cosa seria, il lavoro anche e anche il profitto».

La Torino di oggi ha un clima più mite e non solo. La vita sociale è più ricca, come testimonia l’antico centro storico, il quadrilatero romano, un tempo deserto già alle sette di sera e divenuto ora una Brera torinese. L’economia si è diversificata. È cominciata l’era terziaria, se è vero che a Torino ci sono più dipendenti comunali (comprese le aziende controllate) che operai Fiat. Non si tratta ovviamente di mettere in contrapposizioni due città e due epoche. Ma forse adesso si capisce meglio che la nuova Torino è figlia di quella antica. Che le eccellenze di oggi —il design, il Politecnico, la ricerca, la comunicazione, il cinema, l’arte contemporanea, financo le Olimpiadi —non ci sarebbero state senza la grande industria, insomma senza quella Fiat con cui la borghesia torinese ha sempre avuto un rapporto ambivalente: da un lato, era spaventata dall’immigrazione e dalle trasformazioni imponenti; dall’altro, orgogliosa per ciò che la Fabbrica Italiana Automobili Torino rappresentava nel resto del Paese.

Lo si vide, quell’orgoglio, quando i torinesi sfilarono di giorno e anche di notte, con i ritmi di una città che la notte è abituata a lavorare, davanti alla bara di Giovanni Agnelli. Fu proprio il funerale dell’Avvocato il vero punto di svolta. Torino, che nei mesi precedenti appariva come paralizzata dalle incognite che la sovrastavano, seppe reagire. Prima con l’omaggio a un personaggio insostituibile, che ovviamente le manca. Poi con la coscienza di potercela ancora fare, di avere davanti un periodo difficile ma non impossibile da superare. Eventi come la fusione Sanpaolo-Intesa e la retrocessione della Juventus, che un tempo sarebbero stati letti come l’ennesimo scippo di Milano e l’ultimo segno di declino, sono stati interpretati per quel che erano: l’occasione di restare agganciati alle trasformazioni finanziarie e di aprire una nuova stagione anche nel calcio. Oggi Torino è una città che ha cambiato umore.

E assomiglia al suo museo più noto, l’Egizio, così com’è uscito dal recente restauro: una parte nuovissima e avveniristica, allestita da Dante Ferretti lo scenografo di Hollywood, che ha immerso le statue di Seth e Osiride nel buio illuminandole con sciabolate di luce; e la parte storica, con le teche ottocentesche molto meno scintillanti, ma che custodiscono attraverso le generazioni i veri tesori della collezione. Un secolo fa, il viaggio a Detroit di un altro Agnelli, il Senatore, aprì in Italia la stagione fordista. Fare come in America divenne il motto di Torino. Che oggi siano la tecnologia e il lavoro italiani a essere esportati a Detroit è segno che Torino, la città che nell’800 e nel ’900 ha fatto l’Italia due volte— a San Martino e a Mirafiori, con il Risorgimento e con il boom industriale —non ha abdicato al suo ruolo storico. Anche perché questo non è il successo di una sola città. In Italia ci sono molte Torino.

Poco conosciute, talora prive di accesso ai circuiti della pubblicità e della comunicazione, ma concentrate sul prodotto, sull’innovazione, sulla conquista dei mercati. Eccellenze che non si sono lasciate spaventare dalla mondializzazione ma ne hanno colto le opportunità, che hanno approfittato della concorrenza per migliorarsi, che non hanno inseguito le sirene del disimpegno e del bel vivere ma hanno continuato a far affluire linfa vitale al cuore dell’economia italiana: il sistema manifatturiero. Le notizie che vengono dall’America ci raccontano anche di quella «Torino diffusa» che affronta in silenzio la crisi e ce la sta facendo.

Aldo Cazzullo
03 maggio 2009

da corriere.it


Titolo: «Italia a rischio Turkmenistan Il premier vuole prendersi tutto»
Inserito da: Admin - Maggio 04, 2009, 04:58:28 pm
INTERVISTA Al leader pd

«Italia a rischio Turkmenistan Il premier vuole prendersi tutto»

Franceschini: «Ma a destra non vedono che si sente al di sopra di legge e morale? O hanno paura? L’8 giugno se ci sarà netto disequilibrio tra maggioranza e opposizione, ci sveglieremo in una repubblica asiatica »

«Vorrei fare una domanda alla bor­ghesia produttiva, agli imprenditori, agli intellettuali, ai moderati, anche a una parte delle gerarchie ecclesiastiche italiane: possibile che non vediate dove ci sta conducendo Berlusconi? Possibile che non vediate che ormai si considera al di sopra della legge e di ogni morale, che pensa di avere così tanto potere da permettersi tutto? Vorrei suonare un campanello d’allarme: siamo ben oltre il conflitto di interessi e il controllo del­le tv; siamo all’intreccio di ogni potere, economico, bancario, finanziario. Sulla spinta della crisi, intrecciando la sua for­za di imprenditore con il controllo dello Stato, Berlusconi sta allungando le ma­ni su tutto, sta riducendo ogni potere autonomo. La Sardegna è stata la prova generale. Vuole stravincere se l’8 giu­gno, dopo le Europee e le Amministrati­ve, l’Italia si risveglierà con un netto di­sequilibrio tra maggioranza e opposizio­ne, vale a dire tra Pdl e Pd, sarà un’altra Italia. Berlusconi cercherà di prendersi tutto: non solo la Rai, non solo le modifi­che costituzionali; diventeremo un Pae­se profondamente diverso da quello di oggi. Altro che Peron: il modello di Ber­lusconi sono alcune delle repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale, dal Turk­menistan all’Uzbekistan. Paesi in cui il potere personale del capo è intrecciato con il potere dello Stato e i poteri econo­mici ».

Dario Franceschini, non le pare di esagerare?

«Questa sua domanda mi conferma che lo spirito diffuso è ormai di assuefa­zione. L’Italia si sta assuefacendo a cose che in qualsiasi Paese occidentale provo­cherebbero una rivolta morale, a comin­ciare dalla stampa. Invece arriva la noti­zia della classifica di Freedom House, che colloca l’Italia al 73˚ posto, tra i Pae­si 'parzialmente liberi', e sui giornali ve­do al più un titoletto. Intendo rivolger­mi non tanto al mio campo, quanto agli ambienti che negli altri Paesi tendono a stare dall’altra parte, sul fronte conser­vatore: non vedete che Berlusconi non c’entra nulla con le destre europee? Che non ha niente in comune con la Merkel, con Sarkozy, con Aznar, con Cameron? Non parlate perché non avete capito i ri­schi per il vostro Paese? O perché avete paura?».

Franceschini, lei farebbe bene a ri­volgersi anche al campo che in teoria è suo. I giornali riferiscono anche un sondaggio Ipsos, secondo cui la mag­gioranza degli operai vota per Berlu­sconi, non per il Pd.

«È un problema serio. Ma non è un alibi ricordare che, dal ’94 a oggi, ogni partita elettorale è truccata, perché si svolge in condizioni totalmente anoma­le. Se McCain avesse affrontato Obama avendo il controllo delle tv e di una par­te crescente dell’apparato finanziario e produttivo o cento volte in più di fondi per le campagne elettorali, avrebbe for­se perso? Il problema non è solo la tv. In Italia si stanno assuefacendo anche i mondi che contano. Noi siamo ancora qui a contare i secondi che ci dedicano i vari tg, peraltro con un disequilibrio ver­gognoso, ma intanto la tv in questi vent’anni ha costruito un modello socia­le: non ha solo informato, ha formato gli italiani a gerarchie di valore e di com­portamento. Eppure a Berlusconi non basta: attacca Sky, blocca la concorren­za. Il degrado populistico si intreccia con il degrado morale, e comporta un forte rischio neoautoritario».

Diranno che lei è dilaniato dal­l’odio.

«Ma quale odio? Anzi, quando lo ascolto mi mette di buon umore. Ma questo non mi impedisce di vedere che Italia ha in mente. Ho sperato che la na­scita del Pdl consentisse di superare il rapporto proprietario di Berlusconi con Forza Italia, che introducesse un ele­mento di controllo. Ma non è così».

Come no? E Fini?

«Il fatto stesso che dire qualcosa di buon senso trasformi chi lo fa in una sorta di 'eroe civile', è un altro segno di dove siamo arrivati».

Che effetto le fa Veronica Berlusco­ni che chiede il divorzio?

«Ripeto: tra moglie e marito non met­tere il dito. La saggezza popolare torna sempre utile. E poi ogni italiano si sarà già fatto un’opinione senza bisogno di commenti politici».

La Chiesa secondo lei si è ormai schierata con il governo?

«No. Questa è una semplificazione tutta italiana. Né io ho titoli per dare consigli. Ma un’attenzione rigorosa alla coerenza tra valori proclamati in pubbli­co e comportamenti personali di chi ha responsabilità politiche, me la aspette­rei ».

Una mano a Berlusconi gliela date anche voi. Il Pdl candida il leader e i ministri, voi rispondete con Cofferati e Berlinguer: non proprio un segno di rinnovamento.

«Le nostre candidature sono tutte in­dicate dai partiti regionali e radicate nel territorio. Tranne i cinque capilista, scel­ti con il criterio dell’autorevolezza e del­la competenza: l’età non è un ostacolo, semmai una garanzia. E poi non sono li­ste bloccate: saranno gli italiani a sce­gliere chi eleggere con le preferenze, non i politologi o i blog».

Ma perché lei non è sceso in campo di persona a fronteggiare Berlusconi?

«Finché rivesto questo ruolo, sono pronto a condividere i risultati positivi con tutto il partito, e ad assumermi da solo la responsabilità di quelli negativi. Ma non arretro di un centimetro su un’esigenza: la serietà. In nessuno dei ventisei Paesi d’Europa si candidano il capo del governo e il capo dell’opposi­zione. Ho posto la domanda a Parigi, a Madrid, a Berlino: non capivano, se la facevano ripetere. Sarkozy, Zapatero, la Merkel governano e affrontano la crisi, non puntano a un plebiscito permanen­te ».

D’Alema le chiede di rompere l’alle­anza con Di Pietro.

«Le alleanze si fanno per governare. Noi siamo all’opposizione, con Di Pie­tro, Casini e la sinistra radicale. Sarebbe bene che l’opposizione fosse il più possi­bile unita: le liti interne sono a somma zero. Purtroppo, Di Pietro e Casini attac­cano ogni giorno me e il Pd molto più di quanto non contrastino Berlusconi. Ma io non risponderò».

Una parte consistente del suo parti­to, a cominciare da Enrico Letta, pre­me per l’alleanza proprio con Casini.

«Fare bene l’opposizione insieme è il modo migliore per preparare un’allean­za. Ma dobbiamo sapere che tenersi le mani libere è la ragione sociale dell’Udc: le alleanze alle prossime Politiche non le deciderà prima del 2012. Può farci pia­cere o dispiacere, ma è così».

Sempre dall’interno del Pd, in parti­colare dagli ambienti vicini a Rutelli, viene la richiesta di cambiare linea sul referendum elettorale: il sì rafforze­rebbe Berlusconi.

«Anche qui: serietà. Il referendum ci chiede se abolire o no la legge che il suo stesso autore ha definito 'una porcata'. La risposta di chi ha contrastato questa legge non può che essere sì. La direzio­ne del Pd ha approvato questa linea con oltre cento voti contro cinque. Tornare indietro per una battuta detta da Berlu­sconi camminando nelle vie di Varsavia significherebbe non essere un partito, ma solo un gruppo di persone impauri­te ».

Il Pdl avverte che, se vince il sì, non si farà una nuova legge elettorale.

«Dimentica di avere 271 deputati su 630. Gli altri potrebbero decidere di far­la ».

Resta il fatto che Berlusconi è così forte perché il Pd appare inconsisten­te.

«Il problema non è solo il Pd. Io non chiedo agli elettori di farsi carico dell’op­posizione, ma del Paese in cui vivranno i loro figli. È evidente che, se il Pd terrà, il progetto ne uscirà rafforzato. Ma è il futuro dell’Italia la vera posta in gioco. Se il giorno dopo le elezioni il disequili­brio sarà troppo netto, troppo lontano dalla differenza tra il 37,4 del Pdl e il 33,2 del Pd delle Politiche, se Berlusconi sarà messo in condizioni di portare al­l’estremo la sua volontà di conquista del Paese, allora rischieremmo di risve­gliarci davvero in una repubblica ex so­vietica dell’Asia centrale. E se succedes­se gran parte della colpa sarà di chi, da qui ad allora, sarà rimasto inerte o zitto. Per scelta o per paura».

Aldo Cazzullo
04 maggio 2009

DA corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO. Mughini: «Adriano Sofri sapeva dell’azione contro Calabresi»
Inserito da: Admin - Maggio 15, 2009, 12:26:13 pm
La ricostruzione dell’ex direttore del giornale di Lc

Mughini: «Adriano Sofri sapeva dell’azione contro Calabresi»

Lotta continua e la grande bugia degli innocentisti. Una requisitoria durissima
 


Giampiero Mughini ha in casa una cartelli­na intitolata «La confessione di Sofri». Dentro c’è il ritaglio dell’articolo che il fondatore di Lotta continua ha pubblicato sul Foglio un an­no fa, e che Mughini considera «la sconcertan­te e drammatica prima puntata di una parzia­le 'confessione' sul come sono andate le cose a via Cherubini», la strada milanese dove fu assassinato il commissario Calabresi. Ma So­fri, scrive Mughini, «rimane in debito con la verità». Ed è Sofri il vero destinatario del li­bro che Mondadori manderà in libreria la prossima settimana, Gli anni della peggio gio­ventù. L’omicidio Calabresi e la tragedia di una generazione. Un libro che è una requisito­ria durissima contro Lotta continua, fatta da un gior­nalista che — pur non par­tecipando alla fattura — i settimanali di Lc li ha diret­ti.

Quell’articolo del 2008, Mughini lo traduce così: «Sofri sapeva dell’azione contro Calabresi, ma non ne era stato il responsabi­le, non era stato quello che l’aveva decisa e ordinata». Eppure si addossa tutta in­tera la storia della sua orga­nizzazione, al punto da de­finire «non malvagi» e an­zi «mossi dallo sdegno e dalla commozione per le vittime» gli autori dell’omi­cidio Calabresi. Deduce Mughini che «se uno spen­de parole talmente impe­gnative nei confronti di chi uccise Calabresi, vuol dire che li conosce per no­me e cognome e curri­culum».

La ricostruzione di Mu­ghini comincia a Pisa, il 13 maggio 1972, il giorno del comizio di Sofri al termine del quale Marino avrebbe ricevuto il mandato a uccidere. Mughini quel giorno c’era. E, scrive, «non è vero che a comi­zio concluso sarebbe stato assolutamente im­possibile, a causa della pioggia battente, bivac­care ancora un po’ in piazza». Perché «la piog­gia in quel momento era finita». «C’era stato, lo dico in via di ipotesi, il tempo perché alme­no un attimo si incontrassero» Sofri e Mari­no. Anche perché «non è vero quel che ha so­stenuto con veemenza la difesa, che i bar pisa­ni fossero chiusi quel pomeriggio del 13 mag­gio. Non lo erano affatto». In ogni caso, Mu­ghini precisa: «Io non reputo che Sofri abbia dato l’ordine di uccidere. O più precisamente non lo reputo provato. Che è poi la sola cosa che conta». E chiede al presidente della Re­pubblica di dargli la grazia. Ma non rinuncia a denunciare un’ipocrisia collettiva.

Ricorda di aver provato, alla notizia della morte di Cala­bresi, «orrore che lo avessero fatto dei 'com­pagni', cosa di cui non dubitavo allora e di cui nessuno in Italia ha mai dubitato veramen­te»; eppure «è lunga la fila di intellettuali e giornalisti convinti della colpevolezza di Lc, che non aprono bocca per non disturbare la platea dei loro lettori di sinistra». E denuncia quello che definisce il «fanatismo innocenti­sta», «una Grande Bugia e una Grande Ipocri­sia che non hanno alcun fondamento nei fatti processuali e nelle relative sentenze».

I suoi bersagli polemici sono illustri. Luigi Manconi: «Non ho dubbi, Manconi lo ha sapu­to da subito come andarono esattamente le co­se nel maggio 1972». Carlo Ginzburg: «La tesi secondo cui la confessione di Marino sarebbe stata concertata da magistrati e carabinieri è talmente risibile che in un processo di qualsia­si altro tipo non sarebbe stata presa in consi­derazione dai giornali e dall’opinione pubbli­ca neppure cinque minuti. Ancor più risibile la tesi che le sentenze dei giudici di primo gra­do e poi d’appello fossero animate da una sor­ta di spirito di 'vendetta' contro quelli di Lc, personaggi di cui all’alba dei Novanta non si ricordava più nessuno». Antonio Tabucchi, che «si è dato a recitare sgangheratamente la parte che era stata di Emile Zola nell’'Affaire Dreyfus'». Gad Lerner, cui Mughini rimprove­ra una frase detta in tv — «Lotta continua non c’entrava proprio niente con la violenza dei Settanta» —, mentre «quelli di Lc nel 1972 nella violenza e nella sua apo­logia c’erano dentro fino al collo, ne erano ebbri».

Ma l’interlocutore resta co­munque Sofri. Per cui Mughini ha parole di stima e affetto, ma ha anche paro­le severe («lasciamo stare l’argomento ripetu­to da tanti, 'lo conoscevo, non può averlo fat­to'. È un argomento che vale niente»), anche a proposito del suo ultimo libro, La notte che Pinelli, in cui «un po’ crede e un po’ ammic­ca» a «inumane panzane» sulla morte del­l’anarchico. Compresa «l’evocazione di una macelleria sudamericana da contrapporre simbolicamente al lutto e al pudore di cui tra­boccava il recente e fortunatissimo libro di Mario Calabresi. Un libro che per gli ex di Lot­ta continua è stato uno schiaffo in volto più violento che non una sentenza di tribunale».

Gli «anni della peggio gioventù» rivivono attraverso la reazione euforica di Lc all’assassi­nio in Argentina del dirigente Fiat Oberdan Sallustro. L’arresto di Maurizio Pedrazzini sul­le scale della casa milanese del missino Servel­lo, in pugno una pistola proveniente dalla ra­pina a un’armeria raccontata ai giudici da Ma­rino. Le telefonate dei compagni in casa Sofri, il giorno dell’arresto: «È Marino che ha parla­to?». Le «vanterie» di Chicco Galmozzi, ex Lc, rivolte ai brigatisti: «Mentre voi ancora brucia­vate macchine, noi sparavamo a Calabresi». E quella scena terribile, la vedova che esce dal­l’obitorio dove ha riconosciuto il cadavere del marito, e viene accolta da estremisti di sini­stra che la scherniscono, con il fratello che le copre la testa dicendo di non ascoltare. «Un’immagine che mi porto appresso da tanti anni — scrive Mughini —, l’immagine che ha fatto scattare l’idea di scrivere questo libro. Qualcosa che attiene a un debito. Perché quel­li che schernivano Gemma Calabresi erano co­munque i miei compagni di generazione».

Aldo Cazzullo
15 maggio 2009

da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO. E la nuova tesi su Valpreda e Pinelli
Inserito da: Admin - Maggio 28, 2009, 10:26:07 pm
Dopo 40 anni

Due borse, due bombe

E la nuova tesi su Valpreda e Pinelli

«L'anarchico precipitò di spalle»
 
La ricostruzione con un manichino della caduta di Pinelli dalla finestra della questura di Milano 


«Sì, due borse. Lo scriva. Così la finiamo». È la frase che Silvano Russomanno, l'alto dirigente del Sisde che la sera del 12 dicembre 1969 andò a Milano per gestire le indagini, dice a Paolo Cucchiarelli, il giornalista dell'Ansa che da dieci anni lavora all'inchiesta di oltre 700 pagine che oggi Ponte alle Grazie manda in libreria — titolo: «Il segreto di piazza Fontana», - e che il Corriere ha potuto leggere in bozza. Due borse, due tipi diversi di esplosivo, e quindi due bombe. Una portata in piazza Fontana dall'anarchico Pietro Valpreda. E una — predisposta e collocata dai fascisti — che fa esplodere anche l'altra, con una duplice conseguenza: causare una strage, e addossarla politicamente all'estrema sinistra. «Sebbene la bomba di Valpreda non dovesse, nei suoi piani, fare vittime, la sua corresponsabilità finì per inchiodare al silenzio lui e tutta la sinistra, abbarbicandola a una difesa politica che con il tempo ha trasformato un segreto in un mistero».

Le fonti

Oltre ai colloqui con Russomanno, Cucchiarelli fonda la sua tesi sugli incontri con Ugo Paolillo, il magistrato che per primo indagò sulla strage. Sulla testimonianza di un neofascista rimasto anonimo. Sulle carte dell'ufficio affari riservati del Viminale, solo in parte utilizzate nelle inchieste e nei processi. E sulla controperizia del generale Fernando Termentini, esplosivista che fornisce riscontri alle ipotesi formulate nel libro. Fondamentale poi l'inchiesta di Salvini che il libro sviluppa descrivendo gli ostacoli frapposti al magistrato milanese.

Le due bombe

Nel salone della Banca nazionale dell'Agricoltura fu ritrovato uno spezzone di miccia a lenta combustione. Subito dopo la strage, un rapporto della direzione di artiglieria sosteneva che anche a Roma, alla Bnl di via Veneto, era stata utilizzata una miccia. Eppure, nel suo primo rapporto datato 16 dicembre, il Sid cita il timer e solo il timer, dando il proprio sigillo all'idea di una strage per errore, sostenuta nel tempo da Taviani e da Cossiga. «Il timer, caricato prima dell'esplosione, dava modo di costruire il mito della strage preterintenzionale; la miccia invece consentiva al massimo pochi minuti di ritardo tra l'accensione e lo scoppio, e decretava che chi aveva deposto la bomba sapeva, vedendo tutte le persone accanto a sé, che avrebbe sterminato tanti innocenti». I timer usati il 12 dicembre erano timer particolari, a deviazione: «L'ideale per costituire una vera e propria trappola». Poiché erano gli unici con le manopole e i dischetti conta-minuti intercambiabili. Scrive il libro che Franco Freda si procurò timer in deviazione sia da 60 che da 120 minuti: «Se Freda avesse montato una manopola da 120 su un timer che avrebbe corso solo per 60 minuti, chi doveva deporre la bomba avrebbe immaginato che sarebbe esplosa a banca ormai deserta».

Le due borse

Tra i reperti individuati dal perito Teonesto Cerri, il primo a entrare nel salone devastato della Banca, c'erano frammenti del materiale di rivestimento e frammenti della struttura metallica: «Entrambi indicano che in quel salone sono esplose due borse». Una di similpelle nera, marca Mosbach&Gruber, e una di cuoio marrone. Ma quest'ultima borsa «scompare». Forse per un errore dei magistrati che aprirono la pista nera: «Tutto fu condizionato dalla scoperta che il 10 dicembre 1969 a Padova, la città di Freda, erano state vendute quattro borse Mosbach&Gruber, dello stesso modello ritrovato alla Commerciale», dove il 12 dicembre fu scoperta una bomba inesplosa. «Tutte in similpelle». I magistrati che puntavano a incastrare i fascisti Freda e Ventura cercarono in ogni modo di ravvisare nei reperti proprio quelle quattro borse. «Alessandrini e Fiasconaro avanzarono il dubbio che potessero esserci state due borse e due bombe; tuttavia, condizionati dall'acquisto di Padova, scartarono l'ipotesi».

I due esplosivi

Il perito Cerri identificò subito la presenza di nitroglicerina e di binitrotoluolo, tipico degli esplosivi al plastico. Più tardi, nel determinare con il collegio dei periti il tipo di esplosivo più probabile, si concentrò su due gelatine dinamiti. In sintesi: «In piazza Fontana abbiamo due borse con due bombe. Nella prima, accanto alla cassetta con candelotti e timer, è stato collocato un detonatore esterno. La seconda bomba fu attivata non con un timer ma con un accenditore a strappo, che ha dato il via a una miccia. Grazie al detonatore esterno aggiunto alla prima borsa, la seconda bomba per simpatia fa esplodere anticipatamente anche l'altra: creando una devastazione di potenza doppia». Ma chi avrebbe messo le due bombe? «Le due bombe furono poste da gruppi diversi. La prima — che doveva esplodere a banca chiusa, come fatto dimostrativo — fu collocata da mano anarchica ma "teleguidata" da Freda e Ventura; la seconda, che doveva trasformare la prima in un'arma letale, fu predisposta e sistemata da mani fasciste. Ma tutto fu calcolato perché la firma risultasse inequivocabilmente di sinistra”.

Il ruolo di Valpreda

La «mano anarchica» sarebbe proprio quella di Pietro Valpreda. «Il 12 dicembre furono due i taxi sospetti che arrivarono in piazza Fontana. Sul primo c'era Valpreda, anarchico con ambigue amicizie tra i fascisti romani»; e c'era Cornelio Rolandi, il tassista che lo riconobbe. «Sull'altro taxi c'era un uomo di destra che a Valpreda rassomigliava molto. Tutto, attraverso i depistaggi, fu predisposto perché il taxi diventasse uno solo, come una sola doveva essere la bomba». Il libro ipotizza che l'uomo del secondo taxi possa essere Claudio Orsi, amico di Freda (una foto mostra la somiglianza con Valpreda). Era stata la difesa dell'anarchico a parlare per prima di un «sosia». In genere, però, la versione di Valpreda appare costellata di bugie: il libro sostiene che l'anarchico ha mentito sul suo pomeriggio del 12 dicembre, sulla sua fantomatica influenza, sul viaggio a Roma, sul cappotto datogli dai parenti subito dopo la strage per cambiare immagine in vista di un possibile arresto. «Tutte le bugie profuse da lui e dai suoi parenti portano a ritenere che Valpreda abbia collocato la sua bomba a piazza Fontana».

I manifesti anarchici

Il libro riporta la foto inedita di uno dei manifesti trovati il 12 dicembre, «ricalcati» sui manifesti del Maggio francese: «Parte del piano studiato da servizi segreti per attribuire la strage alla sinistra», e in particolare a Giangiacomo Feltrinelli. Il magistrato Paolillo si ricorda bene del manifesto. Ricorda anche di averlo autenticato, e testimonia che fin da subito c'era chi aveva capito che la provenienza di quei manifesti era di destra, legata all'Oas e all'Aginter Press. Capo militare dell'Aginter era Yves Guérin-Sérac, tra i fondatore dell'Oas, citato nell'informativa del Sid del 16 dicembre come mente degli attentati, ma definito «anarchico». L'incaricato alla diffusione di manifesti e volantini anarchici era a Milano Pino Pinelli, scrive il libro, ipotizzando che fossero proprio questi i manifesti trovati dal capo dell'ufficio politico Antonino Allegra addosso a Pinelli.

Il ruolo di Pinelli

L'alibi di Pino Pinelli per il 12 dicembre — sostiene il libro — non regge. Pinelli tace sull'incontro con Nino Sottosanti, uno degli estremisti di destra infiltrati nei circoli anarchici; mentre «racconta un incontro con i due fratelli Ivan e Paolo Erda, che non esistono». Nella notte in cui cade nel cortile della questura, Pinelli è sotto torchio non per piazza Fontana, ma per altre bombe. Quelle del 25 aprile, di cui Antonino Allegra gli chiede conto, attorno alle 23 e 30, citando come fonte altri anarchici, informatori della polizia. E altre due bombe presto scomparse dalle inchieste, trovate quel 12 dicembre a Milano, presso una caserma e il grande magazzino Fimar di corso Vittorio Emanuele. Il libro ipotizza che Pinelli avesse «qualcosa di ben preciso da nascondere: il fatto che quel 12 dicembre si era mosso per bloccare le due bombe milanesi "scomparse" che gli anarchici avevano preparato».

La caduta

Cucchiarelli riporta la testimonianza di Antonino Allegra al direttore dell'ufficio affari riservati Federico Umberto D'Amato — divenuta accessibile nel 1997 però «mai rivelata ai magistrati e mai presa in considerazione finora in un'inchiesta» —, secondo cui Pinelli era caduto di spalle. Testimonianza che il libro incrocia con una delle ricostruzioni esaminate dal magistrato D'Ambrosio, prima di approdare alla conclusione del malore attivo: «Un atto di difesa in direzione sbagliata, il corpo che ruota sulla ringhiera e precipita nel vuoto». La posizione di spalle spiegherebbe il dettaglio delle suole delle scarpe — l'ultima immagine di Pinelli che tutti i testimoni ricordano —, l'assenza di slancio e la caduta radente al muro, dinamica confermata dal giornalista dell'Unità che assiste alla scena dal basso. E il gesto di difesa, ipotizza il libro, potrebbe essere stato compiuto nei confronti di Vito Panessa, il brigadiere che andava incalzando Pinelli sulle altre bombe; «colui che nelle testimonianze ai processi si inceppò, contraddisse, ingarbugliò in maniera più marchiana».

Aldo Cazzullo
28 maggio 2009

da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO. Graffiti sul sacrario del Risorgimento tra disegni osceni e ...
Inserito da: Admin - Giugno 07, 2009, 07:52:57 pm
Nell’ossario ci sono resti di milanesi, veneti, trentini, toscani, e giovani del Sud

Tra i combattenti anche Collodi, l’inventore di Pinocchio

Graffiti sul sacrario del Risorgimento tra disegni osceni e invettive politiche

A fine mese Napolitano e Sarkozy a San Martino della Battaglia

DAL NOSTRO INVIATO


SAN MARTINO DELLA BATTAGLIA (Brescia) — La Francia considera sacra Verdun, l’America non permetterebbe mai che fosse profanato il no­me di George Washington, l’Inghilterra tiene al villaggio belga di Waterloo al punto da aver chia­mato così la stazione dove arrivavano i treni da Parigi. Anche noi abbiamo una battaglia fondati­va. Un luogo, San Martino, e una data, 24 giugno 1859, un secolo e mezzo fa: prima l’Italia non c’era, e dopo sì. Ma non si può dire che noi italia­ni ne abbiamo rispetto.

 
«Se Garibaldi se ne stava a casa era meglio per tutti»
L’affresco racconta che fu re Vittorio Emanue­le a comandare le cariche, e la scritta a fianco che Maurizio ama Sonia (o almeno la amava il 2/3/89). Qui Garibaldi guida i Mille, e accanto Lu­ciano ha inciso la data delle nozze con Patrizia (25/10/2008). Lassù Cadorna e i bersaglieri apro­no la breccia di Porta Pia, e «la famiglia Sala gri­da: forza Inter!». Decine, centinaia, migliaia di scritte, graffiti, incisioni si sono accumulati da più di vent’anni nel sacrario che celebra San Mar­tino, dove Napolitano e Sarkozy verranno tra due settimane per il centocinquantesimo anni­versario della battaglia che vide italiani e france­si sconfiggere gli austriaci e dare a un popolo una patria.

Il luogo è bellissimo, una torre su un colle che guarda il Garda, e lungo la scala grandi affreschi che ricordano tutte le guerre d’indipendenza, e anche il conflitto ’15-‘18. Ma è divenuto il ricetta­colo d’ogni bizzarria di generazioni di visitatori. Scritte vagamente politiche: «Le guerre fanno tut­te schifo», «se Garibaldi se ne stava a casa sua era meglio per tutti», e ovviamente «Padania libe­ra » (più volte). Ma anche insulti, profferte ses­suali, disegni osceni, motti di spirito — «qui De­borah e Marco tentarono di fare un figlio ma fu­rono disturbati da un visitatore» —, citazioni An­ni ’80 di Bob Marley e recentissime di Jovanotti, una firma di Renato Zero si spera apocrifa, e una grande statua di re Vittorio Emanuele II con una ragnatela sulla spada, un’altra sull’orecchio de­stro, una terza lungo i calzoni… L’altoparlante che diffonde il Va pensiero e l’Inno di Mameli rende il quadro se possibile più surreale.

La colpa è di tutti, quindi di nessuno. Certo non dell’associazione «Solferino e San Martino» e del comune di Desenzano, che anzi hanno appe­na restaurato le lapidi del viale che porta all’ossa­rio, con le iscrizioni in cui le cariche sono ovvia­mente «impetuose» e le fanterie «eroiche» (qui si intravede «strenua artiglieria», qui «indomito valore»). Non dell’amministrazione provinciale e regionale che certo hanno cose più urgenti cui badare, così come il ministero della Difesa. Ma neppure le migliaia di grafomani probabilmente hanno creduto di profanare qualcosa di sacro, o almeno di importante. Devono aver pensato che in fondo lo fanno tutti, e che il loro nome non vale meno di quelli dei generali sabaudi o dei vo­lontari napoletani incisi nella pietra; loro, oltre­tutto, sono vivi.

Il Risorgimento non è di moda. Lo sono molto di più i briganti, i Borboni, il Papa Re. Cavour è stato ribattezzato Cavour in mezza Italia. Vengo­no rivalutate le insorgenze, si cita spesso la Napo­li- Portici prima ferrovia della penisola (ometten­do di ricordare che serviva a portare i cortigiani da una reggia all’altra), si piange sugli zuavi pon­tifici. Degli 846 caduti di San Martino — cui van­no aggiunti i 375 morti nei giorni successivi per le ferite, i 3707 mutilati, i 774 prigionieri o disper­si — non sembra importare quasi a nessuno.

Peccato, perché è una storia affascinante, di quelle da raccontare ai bambini. Due imperatori in campo, di là Francesco Giuseppe, di qua Napo­leone III (molti visitatori sono francesi, che van­no ancora giustamente fieri della prova offerta dall’Armée, piene le città di vie dedicate a Solferi­no, a San Martino, a Mac Mahon). Un re popola­no, Vittorio Emanuele II, che alle esangui dame dell’aristocrazia europea preferisce la figlia di un tamburino. Brigate che portano nomi piemonte­si — la Casale, la Pinerolo, la Acqui, la Cuneo, la Savoia, la Aosta, oltre ai granatieri di Sardegna — ma rafforzate da volontari venuti da tutta Ita­lia. L’ossario custodisce resti di milanesi, veneti, trentini, toscani e anche giovani del Sud, che for­se non afferrarono tutte le parole che Vittorio Emanuele gridò in dialetto — «o gli prendiamo San Martino o ci fanno fare sanmartino» (san­martino in piemontese è il trasloco, dal giorno in cui scadevano i contratti dei mezzadri) —, ma che dovettero aver compreso benissimo quel che il re intendeva dire. Tra i volontari toscani c’era Collodi, l’inventore di Pinocchio. E tra i testimo­ni ci fu lo svizzero Henri Dunant, che — impres­sionato dai lamenti dei feriti lasciati senza soccor­so, qui e a Solferino — disse a se stesso che quel­la sarebbe stata l’ultima battaglia tanto crudele. Così il 24 giugno 1859 nasceva, con l’Italia, la Cro­ce Rossa.

Più che il Risorgimento, forse è l’idea di patria a essere ancora fuori moda, o comunque non del tutto rivalutata. Ciampi in particolare ha lavora­to molto sui simboli dell’unità nazionale: il trico­lore, l’inno di Mameli, il Vittoriano. Quel che con­tinua a sfuggirci è l’idea del bene comune, di una storia condivisa, di un valore che ci riguarda tut­ti e nello stesso tempo ci trascende. Perciò, per un governo che ha dichiarato guerra ai graffiti, i primi da cancellare sono quelli di San Martino.


Aldo Cazzullo
07 giugno 2009



Titolo: ALDO CAZZULLO. «Eravamo Davide contro Golia Qui non vincerebbe neanche Obama»
Inserito da: Admin - Giugno 08, 2009, 11:03:36 am
IL RACCONTO.

La lunga notte del leader Pd.

«Eravamo Davide contro Golia Qui non vincerebbe neanche Obama»

Franceschini: «Non mi dimetto, è stata l'ennesima partita truccata». «Non ci saranno scissioni»


ROMA — «Eravamo Davide contro Golia; e non sempre Golia perde. E' stata l'ennesima partita truccata; e ormai siamo talmente assuefatti che diranno che cerco scuse. Ma non è così. In questi giorni ho toccato con mano una disparità enorme di soldi, di mezzi, di tv, di giornali tra il Pd e Berlusconi. Non c'è una sola democrazia al mondo in cui il confronto politico sia così squilibrato. Nelle condizioni «italiane», neppure Obama avrebbe mai battuto McCain. Non per questo è il momento di cedere; anzi, ora più che mai dobbiamo restare uniti. Ieri sera, alle otto e mezza, ho convocato nella sede del Pd il gruppo dirigente, a urne chiuse. C'erano tutti: i capigruppo, i segretari regionali, i big. E ho detto: «Questo è il momento di serrare i ranghi, di essere solidali tra noi. Tutto sommato un certo recupero di fiducia c'è stato; se in questi tre mesi avessimo litigato come stavamo facendo prima, sarebbe andata peggio. Se da stanotte i litigi riprendessero, se ricominciassimo a dividerci, allora davvero sarebbe la fine. I militanti che si sono battuti anche stavolta, gli elettori che ci sono rimasti fedeli, non ce lo perdonerebbero mai».

«NON MI DIMETTO» - E' l'una e mezza di notte, Dario Franceschini risponde al cellulare. «No, io non mi dimetto. Perché dovrei? Sono segretario da tre mesi e dieci giorni, ho un mandato sino a ottobre, farò il mio dovere sino in fondo. Rinviare il congresso? E perché? I tempi sono dettati dallo statuto. Scissioni? Non mi pare proprio l'aria. Non è in gioco la sopravvivenza del partito; tornare indietro non avrebbe senso. Tutti hanno fatto il loro dovere in campagna elettorale. Certo, anche Rutelli ed Enrico Letta. D'Alema si è dato molto da fare. Ho avuto tutti al mio fianco, dal mio predecessore Veltroni al fondatore, Prodi. Non mi sono sentito solo, anche se forse l'impressione dall'esterno può essere stata quella, visto che ero io ad andare in tv». Un merito Franceschini lo rivendica: «Non ho fatto una campagna elettorale sul fatto del giorno, mi sono battuto sui temi di fondo, l'economia, i valori, il modello di società. Dobbiamo restare uniti perché è il tempo di costruire non solo il partito, ma anche un sistema di principi alternativo alla destra. Dobbiamo stare nella società, darle uno scossone, svegliarla, ribaltare la gerarchia di valori imposta dalla tv. Ho fatto campagna in mezzo alla gente, non solo tra i militanti, e ho visto energie fresche, un paese diverso da quello coperto e raccontato dalla televisione. L'Italia non è il Grande Fratello. Dobbiamo ricordarcene soprattutto adesso, nell'ora più dura». Dario Franceschini ha passato la domenica in famiglia. Pranzo al mare, a Fregene, con la moglie e le due figlie. Pomeriggio sul terrazzo di casa, un appartamento pieno di libri, sulla via vicino alla fontana di Trevi dove viveva Vittorio Foa. Poi la riunione, il richiamo all'unità, l'invito a evitare polemiche. «Ai big ho detto di mantenere il metodo di questi mesi. Non discutiamo all'esterno, non litighiamo sui giornali. Discutiamo, prendiamo insieme anche le prossime decisioni, a cominciare dal rapporto con il Pse e dal referendum elettorale; ognuno dice la sua, poi si decide e si tiene fede alla scelta collettiva».

«SPROPORZIONE DI MEZZI» - Quanto a Berlusconi, «ha vinto, ma non ha sfondato. Certo, un pezzo d'Italia lo adora a prescindere, qualunque cosa dica e faccia; ma non è il 45%. Mi sarebbe piaciuto affrontarlo ad armi pari; purtroppo, da quindici anni a questa parte non è possibile. E' stato come giocare tutto il campionato in trasferta, come salire sul ring con un braccio legato dietro la schiena. Mai come stavolta si è toccata con mano la sproporzione di soldi, potere, spazi televisivi. Ma ormai non ne parla più nessuno: non è chic, non è snob». Franceschini fa due esempi: «Ricevo molte mail da elettori del centrodestra che mi rimproverano di aver fondato la campagna sul gossip. Ma quando mai? Io non ho detto una parola sulle vicende familiari di Berlusconi. Non una. Ho detto che un politico deve rispondere alle domande. Non ho mai citato i figli di Berlusconi. Mai. Ho parlato dell'educazione dei nostri figli, dei valori da trasmettere alle nuove generazioni. Eppure l'apparato mediatico del premier ha manipolato le mie parole e le ha strumentalizzate. In realtà, al centro della campagna il Pd aveva messo la crisi, i disoccupati, i precari mandati a casa, le famiglie che soffrono. Abbiamo formato un gruppo che ha lavorato per sei mesi al programma per l'Europa, e sui giornali non è uscita una riga. Sono andato a Sky all'ultima trasmissione, mi hanno fatto sette domande su Berlusconi, l'ottava era: "Ma perché di Europa non parlate mai?". E come facevo, se mi chiedevano solo del Cavaliere?». Il Pd arretra un po' dappertutto, in particolare al Nord. «Ma al progetto io ci credo ancora — dice Franceschini —. Il Partito democratico resta una grande idea. Purtroppo, appena nato, l'anno scorso ha dovuto affrontare una prova elettorale durissima. Abbiamo perduto il leader dopo il voto amministrativo in Sardegna. E subito è ricominciata un'altra campagna molto difficile. Adesso ci attende un lavoro politico lungo e in profondità, che non sia finalizzato al voto successivo. Dobbiamo dialogare con le opposizioni, certo, ma in primo luogo dobbiamo batterci per costruire un'alternativa sociale e culturale a Berlusconi».

Aldo Cazzullo
08 giugno 2009

da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO. Intervista all'ex segretario dell'udc archiviare ogni radicalismo
Inserito da: Admin - Giugno 10, 2009, 03:34:48 pm
Intervista all'ex segretario dell'udc: «archiviare ogni radicalismo»

«Persi 7 punti, no a reazioni consolatorie Intesa con Casini prima che torni col Pdl»

Follini: «Bisogna scendere dal trattore Di Pietro. Se sarà un revival della sinistra i cattolici cambieranno rotta»
 

Senatore Follini, condivide la reazione unanime del suo partito al voto, definito «rassicurante»?
«No. Sento reazioni assolutamente consolatorie. Abbiamo perso 7 punti, 4 milioni e rotti di voti, un impressionante numero di bandierine locali; eppure ascolto un parco analisi troppo indulgente. Vengo dalla scuola di una volta, in cui l'analisi del voto era un rito penitenziale. Scrupoloso e coscienzioso. Vedo che ora è diventata la prosecuzione della campagna elettorale con altre parole, appena più sobrie. Diciamo invece le cose come stanno».

Diciamole.
«Berlusconi ha perso. Non è la fine, ma forse è l'inizio della fine. Nel suo tessuto di consenso si è aperta per la prima volta una smagliatura. Berlusconi ha chiamato un referendum su di sé, tecnica per lui collaudata, e l'ha perduto: il suo elettorato non ha risposto alla chiamata alle armi. E' la prima volta che il premier vistosamente sbaglia l'interpretazione politica del paese».

Il Pd l'ha indovinata?
«No. Nel momento in cui si apre una fenditura tra Berlusconi e una parte del suo popolo, il Pd dovrebbe essere affacciato sul confine, capace di argomenti e parole convincenti per quell'elettorato lì, che comincia a essere un po' smarrito. Ovvio che se invece si fa il canonico partito della sinistra italiana quell'elettorato non riusciremo mai a portarlo dalla nostra parte».

Cosa dovrebbe fare invece il Pd?
«Archiviare l'antiberlusconismo e ogni altra forma di radicalismo. Scendere dal trattore di Di Pietro, il nostro pifferaio di Hamelin che ci porta ad annegare. Realizzare che, ogni volta che si scava un fossato più profondo con l'altra metà del campo, in quel fossato siamo noi che ci impantaniamo. Non riprendere il risiko delle alleanze a sinistra, che non ci porterebbe da nessuna parte».

Dopo l'addio di Veltroni, lei disse al Corriere che, se il Pd non avesse avuto uno scatto, i cattolici avrebbero dovuto dar vita a un altro partito. E' ancora di questa idea?
«Se passa la linea del socialismo europeo, se il Pd diventa la quarta edizione del Pci, è chiaro che il percorso dei cattolici dovrà essere un altro. Siamo ancora in tempo a cambiare rotta, a fare del Pd un ragionevole punto d'equilibrio, e un interlocutore per chi non ci ha votato finora. Ma dobbiamo guardare oltre il cortile. Compiacerci e chiuderci in difesa della roccaforte del 26,1% significa certificare un ruolo minoritario».

Alle primarie si profila un confronto tra Franceschini e Bersani. Lei con chi sta?
«Sono spettatore interessato. Ma sull'idea del partito dico la mia. Non intendo partecipare né a un revival della sinistra, né un'infatuazione serracchiana».

Franceschini almeno le è piaciuto?
«Ha dovuto risalire una china molto ripida e scivolosa. Ho rispetto per le difficoltà che ha incontrato. Vedo però un'eccessiva preoccupazione di coltivare il nostro orticello, anziché cominciare a seminare nell'orto degli altri».

Ma al congresso di ottobre lei cosa farà?
«Sosterrei solo chi fosse interprete di un cambiamento di rotta. Se la rotta restasse questa, farei fatica ad applaudire».

Pare una chiamata in campo per Enrico Letta.
«Mi auguro che Letta in campo lo sia già».

Come vede il «partito della nazione» di Casini?
«Casini ha aumentato i suoi voti ed è per noi un interlocutore prezioso: oggi con l'Udc, domani con il partito che farà. Mi auguro solo che non si chiami "partito della nazione", che è una buona intenzione ma un ossimoro politico. La nazione è una, il partito è parte per definizione».

Potrebbe essere più generoso con un vecchio amico.
«Guardi che sto parafrasando Sturzo, che per lo stesso motivo negava potesse esistere un partito della Chiesa, per definizione una e universale».

E se fosse Berlusconi a dialogare con Casini?
«Finora ha fatto di tutto per tenerlo fuori. Se si ravvederà al punto da cambiare politica, noi dobbiamo ravvederci prima e meglio di lui».

Cosa le fa credere che per Berlusconi possa essere l'inizio della fine?
«E' stato lui stesso a mettere il suo privato e la sua persona al centro dello spazio pubblico. Così si è reso diverso dagli altri e molto più affascinante, ma anche più vulnerabile. Oggi, per contrappasso, questo diventa il suo limite. Quanto accadrà ora, dipende da lui. Se dovesse ricorrere alla tecnica di dare fuoco alle polveri, la fine potrebbe essere drammatica. Se riuscisse a rilanciare l'azione di governo, lo scenario sarebbe ben diverso. In ogni caso, il Pd deve prepararsi. Vale a dire cambiare, e profondamente».


Aldo Cazzullo
10 giugno 2009

da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO. Mastella: «Dissi no ai "Dico", mi chiamò il Papa ...
Inserito da: Admin - Giugno 16, 2009, 04:22:53 pm
In uscita «Non sarò Clemente», il libro del leader dell'Udeur

Mastella: «Dissi no ai "Dico", mi chiamò il Papa, pensai a uno scherzo»

Le memorie dell'ex ministro: «Berlusconi preferiva Casini a me. Pier Ferdinando rideva a ogni sua battuta»


«Vaso di coccio tra vasi di ferro»: così si descrive Clemente Mastella. Stanco di esse­re additato come il simbolo di una politica deteriore, il neoeletto del Pdl ha scritto le sue memorie, Non sarò Clemente (in uscita da Rizzoli). Una galleria di ritratti, magi­stralmente messi in fila dal coautore Marco Demarco. Da Moro a D’Alema, da De Mita a Berlusconi. Compreso Ratzinger, che rega­la a Mastella la soddisfazione più grande: «Mi schierai per il no ai Dico, le unioni tra omosessuali. Prodi arrivò a minacciare con­seguenze sulla mia permanenza al gover­no: 'O firmi anche tu per i Dico, o te ne vai'. Tenni duro. E un giorno mi arrivò una telefonata dal Vaticano. Mi passarono la se­greteria del Santo Padre. Subodorai uno scherzo, e quando sentii quella voce dall’ac­cento teutonico pensai a Fiorello. Ma poi mi convinsi che era davvero il Papa. Voleva esprimermi il suo apprezzamento per la mia posizione».

Con il Cavaliere la prima volta fu nell’87, in piazza del Gesù: «La Dc chiamò proprio lui a occuparsi, insieme con altri, della pro­paganda. Ci riunimmo in tre: De Mita, Ber­lusconi e io». Ma i consigli del re delle tv non persuadono il segretario: «Cleme’, ma chi mi hai portato?». Sette anni dopo, nel ’94, è Mastella ad andare ad Arcore, con Ca­sini: «L’unico che rideva a tutte le barzellet­te di Berlusconi. A me, ma anche a D’Ono­frio e a Confalonieri, capita di apprezzarne al massimo tre o quattro a serata; lui no, Berlusconi raccontava e il bel Pier riusciva a ridere disinvoltamente dieci volte su die­ci. Comunque sia, andammo ad Arcore. Da Linate, centomila lire di taxi. Vista la nota riluttanza di Casini per i conti da saldare, pagai io, naturalmente...». Berlusconi non voleva Mastella ministro. «Fu Bossi a insi­stere. Fece questo ragionamento: noi sia­mo un governo di centrodestra, il sindaca­to si scatenerà; meglio affidare il ministero del Lavoro a un ex democristiano».

De Mita fu un padre padrone: «Ero il por­tavoce, ma in tv doveva apparire solo lui. Durante le direzioni Dc, quando arrivavano le telecamere dovevo abbassarmi o nascon­dermi dietro le scrivanie per non farmi ri­prendere. Una volta citai Claudio Baglioni in un discorso del segretario sugli anziani: 'I vecchi sulle panchine dei giardini/ suc­chiano fili d’aria a un vento di ricordi...'. De Mita mi chiese se ero impazzito. Lui, per alleggerire i discorsi, al massimo citava Bu­nuel». Cossiga? «Il più intelligente dei de­mocristiani, colto quasi al pari di Moro, di cui però non aveva la sensibilità e la capaci­tà di comprendere lo spirito dei tempi». Ga­va? «Si faceva baciare l’anello e riceveva av­volto nella nuvola di fumo del suo sigaro. Ma oggi l’erede del laurismo è Bassolino». Pannella? «Mi querelò perché dissi in tv che gozzovigliava nei villaggi vacanze du­rante il suo sciopero della fame in Africa; ma avevo un testimone, il direttore del vil­laggio». Andreotti? «Il migliore dei media­tori tra i cittadini e lo Stato. Casini e io fum­mo i soli ad assistere alla prima udienza del processo di Palermo. La sera, in albergo, stavamo per decidere di rinunciare. Telefo­nai a Sandra. Mi disse: 'Passami Pier'. Po­chi minuti e Casini cambiò idea: 'Sandra ha ragione, non possiamo più tirarci indie­tro' ».

Sulla sua vicenda giudiziaria e sulla cadu­ta di Prodi, Mastella ripete quanto raccontò un anno fa al Corriere: «Feci come il casto­ro citato da Gramsci. Un tempo il castoro era molto ricercato dai cacciatori, perché dai suoi testicoli si ricavava una sostanza ritenuta miracolosa. Così, quando si senti­va braccato, se li strappava e li gettava ai cacciatori, per aver salva la vita. Anch’io, braccato, mi sono tagliato i testicoli; e ho lasciato il ministero della Giustizia». La tesi di Mastella è che su di lui, cerniera tra i due schieramenti e anello debole dell’Unione, si sia concentrata ogni sorta di malevolen­za, a cominciare da quella dei magistrati ­punta di lancia De Magistris, regista Di Pie­tro - contrari alla sua riforma della giusti­zia. L’ex ministro spiega con la teoria della persecuzione anche le foto che lo ritraeva­no a bordo dell’aereo di Stato, diretto verso il Gran Premio di Monza: «L’aereo era lì per il vicepresidente del Consiglio. Ma Rutelli nelle foto non c’era. C’ero solo io, con mio figlio». Quanto a Prodi, «da presidente del­­l’Iri fu interrogato da Di Pietro: probabil­mente da lì è nata quella soggezione nei confronti dell’ex pm; una soggezione visibi­le a ogni occasione, a ogni riunione del con­siglio dei ministri». A volere Prodi all’Iri, scrive Mastella, era stato De Mita, «che ben presto cominciò a diffidare di lui. Romano, così almeno mi diceva, gli sembrava più di­sponibile alle sollecitazioni di Craxi e di An­dreotti che alle sue. E’ probabile che Prodi abbia trasferito su di me la sua speculare sfiducia nei confronti di De Mita».

Il periodo nel centrosinistra è il più bur­rascoso. Da D’Alema che lo convoca a Palaz­zo Chigi - «Clemente, qui gira la notizia di una banca americana che avrebbe messo sul tuo conto cinquanta milioni di euro» ­alla tormentata partecipazione alle prima­rie dell’Ulivo: «Gli elettori si muovevano in gruppo, spesso spostandosi su piccoli bus. Saltavano da paese a paese, da quartiere a quartiere, e ogni volta votavano. Ci credo che i registri con gli elenchi non sono mai saltati fuori». Ma sono mille le storie di un personaggio che conquista Moro spedendo la prima confezione di quei dolcetti ormai noti come «mastellini», arriva vergine a 28 anni ma al referendum sul divorzio tradi­sce le consegne della Chiesa e si astiene, battezza di persona con la saliva il figlio Pel­legrino che pare in punto di morte per la febbre altissima, riceve i clientes di Ceppa­loni anche all’alba, si tormenta consultan­do i blog «dementemastella», «mastellatio­dio », «mastellacadente» e «mastellainpa­stella », respinge «una giornalista famosa che tentò di sedurmi e poi andò a dire in giro che ero gay», porta per la prima volta Baudo, Elisabetta Gardini ed Enrica Bonac­corti ai congressi Dc, rivendica di aver avu­to un ruolo nell’elezione di Cossiga al Quiri­nale («nel voto preliminare dei parlamenta­ri Dc ebbe il 60% dei voti, ma io diedi la no­tizia che aveva avuto l’80») e nell’assunzio­ne di David Sassoli in Rai, di essersi occupa­to di Cocciolone abbattuto in Iraq, di aver fatto votare per una volta Dc la Carrà «co­munista da sempre»...


Aldo Cazzullo
16 giugno 2009

da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO. Franceschini in campo «Il Pd è salvo. Comincia un percorso»
Inserito da: Admin - Giugno 23, 2009, 10:08:56 am
I RISULTATI DEI BALLOTTAGGI

Franceschini in campo «Il Pd è salvo. Comincia un percorso»

Oggi la candidatura: punterò sui giovani


ROMA—«Questo è solo l’inizio. Ricordiamoci qual era il mandato che ho ricevuto a febbraio: salvare il partito, evitare la disgregazione. E cominciare un percorso. Eccoci qui: il partito è salvo, ed è ancora in grado di vincere. Ora il percorso deve continuare. Comincia una nuova stagione».

Ormai pareva un segreto di Pulcinella, ma ancora ieri mattina Dario Franceschini metteva le mani avanti: «Non ho ancora deciso se candidarmi alle primarie del Pd. Dipende anche dal risultato dei ballottaggi ». E a chi annotava che la bassa affluenza lasciava prevedere un successo del centrosinistra, rispondeva: «E chi lo dice? Qualcuno sa chi sono quelli che non vanno a votare? Aspettiamo. Vediamo se la drammatizzazione di Berlusconi ha funzionato o no. Tentiamo di capire se l’inversione di tendenza a nostro favore è possibile».

Quando, la sera, si profilano vittorie per il centrosinistra quasi dappertutto e la sconfitta (ma solo dopo un testa a testa) a Milano, Franceschini ormai ha deciso. Non dà l’annuncio: quello lo riserva per oggi. Ma dietro le quinte il leader «provvisorio» parla ormai da candidato alla riconferma con un forte vento favorevole. «Dal voto è venuta una chiara richiesta di cambiamento, di rinnovamento anche dentro il nostro partito — ragiona lontano dalle telecamere —. Pensiamo solo alle preferenze per le Europee. Tutti parlano della Serracchiani, e giustamente, perché ormai Debora è diventata un simbolo. Ma pochi parlano di Francesca Barracciu, che in Sardegna ha preso 116 mila voti di preferenza su 170 mila voti di lista. David Sassoli ha superato i 400 mila voti nel Centro, Rita Borsellino ne ha presi 200 mila in Sicilia, il sindaco di Gela Crocetta è arrivato a 140 mila…». Nomi che Franceschini non ascrive automaticamente alla sua parte: «Non sono personalità calate dall’alto, sono state scelte dagli elettori»; ma non c’è dubbio che, avendoli voluti in testa alle liste, intenda cogliere «la richiesta di rinnovamento che viene dalla nostra base» e farne un’arma nella campagna per le primarie. «Nuova stagione» e volti nuovi.

Il confronto, ragiona Franceschini, va fatto con cinque mesi fa, quando gli fu affidato un partito a pezzi. «Oggi il Pd si è dimostrato vitale, in grado di tornare a vincere, di raccogliere il voto della maggioranza degli italiani». E il raffronto, prosegue il segretario, va fatto anche con quindici giorni fa. «Andate a rileggervi i giornali del 5 giugno. Parlavano di un Pdl al 45%, pronto a conquistare tutte le grandi città. Invece ai ballottaggi è battuto quasi dappertutto. Non mi illudo certo che la destra sia sconfitta definitivamente. Ma certo la luna di miele è finita. Il primo anno di solito è il momento di massimo consenso dei governi; a un anno dall’insediamento, l’elettorato dà chiari segni di disaffezione verso il governo Berlusconi. Sia con il voto sia con l’astensione; in parte fisiologica, in parte da interpretare come un segno di distacco dal capo. Certo, anche in seguito alle vicende di questi giorni. Comincia il declino del Cavaliere».

Qualcuno, non solo a destra (ad esempio il direttore del Riformista Antonio Polito), ha rimproverato a Franceschini una campagna un po’ troppo radicale: partito con un «tra moglie e marito non mettere il dito », è arrivato a un «affidereste i vostri figli a Berlusconi?». Una critica che il segretario Pd rigetta: «La chiave della mia campagna è stata un’altra domanda: "Volete risvegliarvi in un Paese con un padrone assoluto?". Questo sarebbe successo, se Berlusconi avesse superato il 40% e il Pd avesse perso tutte le città. Non è accaduta né una cosa né l’altra».

E’ qui, sostiene Franceschini, il bilancio di questi cinque mesi di segreteria: «Ho cominciato con un Pd diviso e con un Berlusconi arrembante che annunciava scissioni nelle nostre fila, facendo pure i nomi; e ora il quadro è rovesciato. Loro sono in difficoltà, noi siamo uniti. Stravinciamo in tutto il centro, compresa Ferrara, casa mia. Al Nord teniamo Torino e Padova, e a Milano recuperiamo 10 punti. Al Sud vinciamo in tutte le città principali: Bari, Cosenza, Potenza».

La campagna per le primarie, dice il segretario, non deve riportare il Pd all’indietro, ai giorni delle risse e delle rivalità personali: «Gli elettori non ce lo perdonerebbero». Franceschini vuole evitare spaccature e polemiche personali. Per fortuna, fa notare, non ci saranno Ds contro Margherita, visto che il cattolico Dario avrà come primo sostenitore l’ex diessino Veltroni, mentre l’altro cattolico Enrico Letta si è già schierato con Bersani. Si aprirà una fase nuova, in cui si dovrà da una parte rinnovare il gruppo dirigente del partito, dall’altro elaborare una strategia per tornare a governare. A chi gli chiede se questa legislatura arriverà alla fine, Franceschini risponde di non avere fretta: «L’imprevisto non è prevedibile. Dobbiamo prepararci a vincere le prossime elezioni politiche quando saranno; ragionando come se Berlusconi durasse quattro anni». Il lavoro del segretario è solo all’inizio: «Ora comincia un altro tipo di lavoro. Allargare, espandere, trattare alleanze ». Il risultato dell’accordo elettorale con l’Udc, nota Franceschini, è ottimo: «Il Pd insieme con Casini vince a Torino, Bari, Brindisi e pure Alessandria, che pareva un’impresa impossibile. Si tratta di costruire un’alternativa a Berlusconi ». Cominciando dal rinnovamento del Pd: un partito da aprire ai giovani e ai nomi già noti ma appena arrivati in politica.

Aldo Cazzullo
23 giugno 2009

da corriere.it


Titolo: Bindi: «Sostengo Bersani ma niente ticket .Non promuovo il segretario»
Inserito da: Admin - Giugno 27, 2009, 07:30:07 pm
L’intervista: «.Lui il più adatto a guidare un partito alternativo alla destra»

Bindi: «Sostengo Bersani ma niente ticket .Non promuovo il segretario»

L’ex ministro: «Basta con la storia che noi sappiamo governare e il Pdl no, non è più vero»
 

Rosy Bindi, come le sembra il risul­tato elettorale?
«Sconfitta con onore a Milano. Perdi­ta dolorosa di Prato. Recupero del Pd rispetto al primo turno delle ammini­strative. Forse è iniziata la fine dell’era Berlusconi; ma la destra è radicata nel paese, l’assioma per cui noi siamo ca­paci di governare mentre loro non han­no classe dirigente non è più sostenibi­le. Il Pd è vivo. Ma i toni trionfalistici mi sembrano davvero fuori luogo».

Che giudizio dà della segreteria Franceschini?
«La sua linea di competizione all’in­terno dell’opposizione era giusta. Non mi pento di averlo sostenuto. Ma sareb­be troppo generoso dire che il bilancio è positivo. Abbiamo perso quattro mi­lioni di voti e molte amministrazioni locali. Non me la sento di bocciare Franceschini, ma neppure di promuo­verlo ».

Giuliano Amato vi chiede di evitare divisioni, e di rinviare le primarie.
«E perché mai? Noi non ci stiamo di­videndo. Ci sarà una sana competizio­ne. Dopo due anni di prova, e dopo tre tornate elettorali concluse con una sconfitta, è tempo di decidere sul ruo­lo del partito, sulla sua identità, sul suo progetto di società. Per questo il Pd ha bisogno di un congresso vero e di primarie vere, non come quelle del­­l’altra volta».

L’altra volta lei si candidò. Perché dice che non erano vere?
«Per il motivo che indicai già allora: Veltroni era sostenuto da tutto e dal contrario di tutto. Infatti tentò di segui­re più di una linea politica, la propria e quelle degli altri. Abbiamo usato le pri­marie da apprendisti stregoni, rischian­do di buttarle via. Ora dobbiamo con­solidarle ad ogni livello e usarle bene. Io non mi candiderò, ma concorrerò con le mie idee a far emergere un nuo­vo segretario».

Lei quindi sosterrà Bersani?
«Sì. È un sostegno non improvvisa­to, bensì costruito e preparato nel tem­po; anche perché mi è stato richiesto. Sosterrò Bersani con un gruppo di per­sone che due anni fa appoggiò la mia corsa alle primarie, insieme abbiamo scritto un documento con le proposte che qualificano la nostra scelta».

Proprio lei, prodiana e ulivista, si schiera con l’uomo di D’Alema?
«A parte il fatto che sono un’estima­trice di D’Alema, anche se talvolta non ne condivido idee e fatti, Bersani è di Bersani. Sono testimone dell’autono­mia della sua candidatura e a Bersani chiedo proprio di fare la sintesi tra lo spirito dell’Ulivo e l’idea di partito radi­cata nella cultura politica italiana. Il Pd come lo intendo io è un partito davve­ro plurale».

Ma perché non va bene il segreta­rio che c’è già? Perché non France­schini?
«Perché Bersani mi pare più adatto a costruire un partito che si presenti co­me alternativo a questa destra, a rico­struire il centrosinistra, e a restituirgli la credibilità di una forza di governo. Non possiamo permetterci un partito che stia anni a bagnomaria. I voti si prendono se ci si presenta come un partito capace di aggregare e di gover­nare. E anche di porre con forza, nel momento più cupo del berlusconi­smo, la questione morale: sapendo che il conflitto di interessi l’abbiamo an­che dentro casa nostra».

A cosa si riferisce?
«Il voto ci ha rivelato più di un caso in cui il nostro modello di governo ne­gli enti locali è stato rifiutato dagli elet­tori. A cominciare dalla Campania».

Franceschini propone un rinnova­mento del gruppo dirigente. E molti giovani, dalla Serracchiani in giù, gli sono vicini.
«Non c’è dubbio che il nuovo segre­tario dovrà costruire il Pd con i giova­ni e per i giovani. Non dobbiamo avere timore di mettere al centro i grandi te­mi della sinistra: la dignità del lavoro, la mobilità sociale, l’uguaglianza, le nuove generazioni, e anche le donne, così umiliate dal comportamento del presidente del Consiglio. Ma dico no al nuovismo. Non si può dire 'tutti a ca­sa, tranne me'. Le novità non si inven­tano, né si costruiscono ad arte. Le no­vità emergono dalla battaglia politica, dall’esperienza, anche dagli errori e dalle sconfitte, non dalla scelta di volti accattivanti che vengono bene in tv; che poi così nuovi alla politica non so­no. Né mettendo in lista gente simpati­ca che passa per caso, come si è fatto alle elezioni del 2008. Franceschini è stato il vice di Veltroni; non può chia­marsi fuori da quella stagione».

Lei è molto severa con Veltroni, che ora sta per rientrare in campo a due anni dal Lingotto.
«Il suo ritorno non mi convince per­ché al Lingotto si è sbagliato tutto. Vel­troni di fatto si candidò a presidente del Consiglio, quando c’era già un pre­sidente del Consiglio del suo partito. E la 'vocazione maggioritaria' si è tra­sformata in vocazione alla solitudine».

Bersani le ha chiesto anche di farle da vice?
«No. Un altro errore di Veltroni fu il ticket. Non è in questa fase che si deci­dono queste cose».

Anche Letta appoggia Bersani, a condizione che mandi in archivio la socialdemocrazia.
«La socialdemocrazia è già stata ar­chiviata dalle elezioni europee. In Ita­lia poi un vero partito socialdemocrati­co non c’è mai stato, e da certi punti di vista è una fortuna. Piuttosto, nessuno pensi ora di fare la Cosa 4, cioè l’ennesi­ma evoluzione del partito storico della sinistra italiana».

Però lei, cattolica, sostiene un uo­mo che viene da quella storia.
«Proprio perché vengo dal cattolice­simo democratico, scommetto sulla contaminazione delle culture; come avevo fatto già due anni fa, quando la mia candidatura fu sostenuta da un gruppo che andava da Franca Chiaro­monte a Giovanni Bachelet. Voglio un partito che non si limiti a innestare il liberalismo sulla socialdemocrazia, ma sia il compimento dell’Ulivo. La diffe­renza la fa proprio la presenza dei cat­tolici ».

L’accordo con l’Udc è indispensabi­le? Che farà Casini secondo lei?
«Indispensabile è ricostruire un nuovo centrosinistra. Il Pd ha vinto con l’Udc, come a Bari e Torino, senza l’Udc, come a Bologna, e con l’Udc schierata dall’altra parte, come a Pado­va. Il Pd si deve porre il problema del centro e della sinistra; ma anche l’Udc si deve porre il problema del proprio futuro, fin dalle prossime regionali. Credo che Casini coltivi ancora il so­gno di essere protagonista di un cen­trodestra di tipo europeo, senza Berlu­sconi. Ma credo pure si stia rendendo conto che la fine di Berlusconi passa attraverso una sconfitta politica, che Casini può infliggergli solo alleandosi con noi. A quel punto vedremo se ri­nuncerà al suo antico sogno e se, accet­tando il bipolarismo, la presenza del­l’Udc nel centrosinistra sarà duratu­ra ».

Per Berlusconi è davvero l’inizio della fine?
«Il declino è cominciato, e credo lo sappia anche lui. Di sicuro lo sa il suo partito».

E Prodi? Anche lui sosterrà Bersa­ni?
«Il padre fondatore è una risorsa e un patrimonio per tutti. Da Prodi ci si attende un grande contributo di idee e di passione»

Aldo Cazzullo
27 giugno 2009
da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO. Franceschini: «Se vince Bersani bipolarismo a rischio»
Inserito da: Admin - Luglio 25, 2009, 11:20:20 am
Il segretario pd: «Dico no a maggioranze e governi non decisi dagli elettori»

«Se vince Bersani bipolarismo a rischio»

Franceschini: «Ci sono gli ingredienti per una fine anticipata della legislatura»

 
MILANO - «Dal congresso del Pd e dal suo esito non passa soltanto il futuro del partito, che pure è una cosa im­portante. Passa anche il futuro as­setto della politica italiana dopo Berlusconi; e quindi la questione ri­guarda tutti. Sento il dovere di pen­sare cosa succederà dopo la chiusu­ra di un’epoca, che può essere o fi­siologica, con la fine della legislatu­ra, o traumatica. Abbiamo il dove­re di pensare che dopo Berlusconi non venga azzerato l’orologio e non si ricominci tutto da capo; co­me se il bipolarismo e l’alternanza di governo non fossero una con­quista di tutti, che ha reso più mo­derno e più semplice il paese, ma fossero legati solo all’esistenza di Berlusconi come leader o come av­versario. Il che sarebbe un dram­ma».

Segretario Franceschini, sta di­cendo che se vince Bersani si tor­na indietro, alla Prima Repubbli­ca?
«In questi anni di transizione dal ’94 a oggi, con tutti gli scontri e i limiti che abbiamo visto, due co­se sono state condivise dai due campi: la nascita di uno schema bi­polare, centrodestra e centrosini­stra che si alternano al governo; e la nascita del Pd prima e del Pdl poi. Si è passati da un bipolarismo fondato su coalizioni eterogenee, frammentate, litigiose, a un bipola­rismo più europeo, con due grandi partiti alternativi e alcune forze in­termedie. Ma non dobbiamo crede­re che questo sistema sia acquisito per sempre, come se fosse consoli­dato da decenni. Dobbiamo pensa­re che questo sistema vada salva­guardato; perché non riguarda so­lo la politica, ma anche le istituzio­ni, l’economia, la competitività, l’aggancio all’Europa».

Il bipolarismo è davvero in peri­colo secondo lei?
«Io prendo un impegno: garanti­re che questo schema sopravviva a Berlusconi. Invece a volte ho l’im­pressione che, se questo schema non si consolida, possa scattare un meccanismo per cui, finito Berlu­sconi, la politica italiana si rimette in moto su binari antichi e, attra­verso cambi di legge elettorali o at­traverso scelte politiche, torni uno schema in cui le maggioranze e i governi non sono più decisi dagli elettori ma sono variabili e mobili.
Il bipolarismo italiano e il campo riformista non sono nati in funzio­ne anti-Berlusconi; corrispondono a un assetto globale, tipico delle de­mocrazie di tutto il mondo.
Ma se noi sbagliamo rischiamo di perde­re questa conquista».

Lei ne parla come se il Cavalie­re non avesse ancora un lungo mandato davanti a sé.
«Del dopo-Berlusconi dobbia­mo cominciare a occuparci. Nes­sun uomo di buonsenso può pen­sare che si ricandidi a fine legisla­tura; è una scadenza inevitabile. Ma ci sono tutti gli ingredienti per una fine traumatica anticipata. L’autunno sarà il momento di mas­simo impatto della crisi: piccole e medie imprese che non riaprono perché hanno finito credito e liqui­dità, lavoratori dipendenti o auto­nomi con redditi ormai totalmente insufficienti, decine di migliaia di lavoratori dipendenti o autonomi che perdono il lavoro e si trovano a zero euro senza ammortizzatori. Una situazione che si prospetta esplosiva dal punto di vista socia­le, con deficit, spesa pubblica, debi­to pubblico in aumento...».

Berlusconi le replicherà che lei fa del pessimismo ai limiti del di­sfattismo.
«Non è pessimismo; è realismo. Inutile pensare di risolvere il pro­blema nascondendolo. A fronte di una crisi gravissima, c’è un presi­dente del Consiglio profondamen­te indebolito sia rispetto alla sua credibilità nel Paese, sia rispetto al­la sua forza nella coalizione. Quan­do cominciano i processi di inde­bolimento, non si fermano più. E noi dobbiamo ragionare affinché ciò che abbiamo raggiunto nella stabilizzazione dell’assetto politico del paese non finisca con Berlusco­ni».

Quale può essere lo scenario, se al congresso e alle primarie le sue idee non prevarranno?
«Tutto potrebbe tornare a essere elastico e possibile, con alleanze non dichiarate agli elettori che le scelgono ma frutto di accordi parla­mentari, cui potranno essere dati nomi nobili — governo di conver­genza, grande coalizione — ma che di fatto smontano una conqui­sta. Perché bipolarismo e alternan­za non sono garantiti, come qual­cuno pensa, da una legge elettora­le, per quanta influenza abbia. Il bi­polarismo sopravvive a qualsiasi legge se ci sono due grandi partiti alternativi. Se invece — consape­volmente o inconsapevolmente— scomponi questi grandi partiti e torni a un sistema centro-sinistra e centro-destra, con il famoso trat­tino, tutto torna in movimento; non ci sono più due grandi partiti avversari, ma prevale il vecchio schema con la sinistra da una par­te e il centro del centrosinistra dal­­l’altra».

Sta dicendo che teme per l’inte­grità e la tenuta del partito?
«Tenuta in quanto contenitore no. Penso però che il Pd, per esse­re se stesso, debba coltivare le pro­prie diversità, viverle come una ric­chezza e non come un limite.
Per questo credo non debba esserci in nessun modo una parte che preva­le sull’altra. L’arcipelago di posizio­ni che sostengono la mia ricandida­tura, laici e cattolici, persone che provengono da storie diverse, aree più moderate e aree più a sinistra, è la garanzia che il Pd continui a essere un grande partito».

Bersani rivendica di poter par­lare di partito di sinistra.
«Io sarei cauto nell’uso delle pa­role. Sinistra è una parola e una storia nobilissima, cui io sono an­che legato. Da ragazzo ero nella si­nistra Dc con Zaccagnini, e ricordo convegni in cui si discuteva se con­siderarci sinistra della Dc o sini­stra nella Dc. Conosco la forza, l’or­goglio della parola sinistra. Ma so pure che c’è una parte degli eletto­ri e dei gruppi dirigenti del Pd che non si riconosce solo in quella pa­rola. O il partito resta la casa di tut­ti, liberal, cattolici, laici, ambienta­­listi, oppure diventa un’altra co­sa».

Anche Bersani ha con sé cattoli­ci come Letta e Bindi.
«Ma non c’è dubbio che nello schieramento che lo sostiene ci sia un’identità organizzativamente e politicamente prevalente. Provia­mo a rovesciare il ragionamento: se per assurdo un’identità di cen­tro esercitasse una egemonia sulle altre, chi si sente di sinistra rimar­rebbe volentieri?».

Una scissione?
«Non necessariamente. Se si la­scia aperto uno spazio, il vuoto sa­rà riempito. Io non escludo una fu­tura alleanza con l’Udc. Ma voglio un Partito democratico che non ri­nuncia a competere direttamente con il Pdl, che non ha bisogno di appaltare a qualcuno la funzione di parlare con i mondi produttivi, di conquistare il voto mobile. Vo­glio un Pd che rappresenti l’eletto­rato di sinistra ma competa al cen­tro. L’esito del nostro congresso peserà sull’intera politica italiana: se consolidiamo il Pd, reggerà an­che il Pdl dopo Berlusconi; se il Pd si scomponesse, anche il Pdl scom­parirebbe e tutto ricomincerebbe da capo».


Aldo Cazzullo
23 luglio 2009
da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO. Brunetta: Venezia svenduta e mercificata
Inserito da: Admin - Luglio 27, 2009, 05:00:13 pm
«E' la città degli archistar e della chimica velenosa»

Brunetta: Venezia svenduta e mercificata

La colpa è del «marchio» Cacciari

Il ministro: basta con la volgarità di quegli enormi cartelloni pubblicitari

 
«Venezia oggi è la città dei magnati e dei centri sociali. Degli archistar e del­la chimica vecchia e velenosa. Dei tyco­on e dei giocatori del casinò. Una città mercificata e svenduta da una classe di­rigente che ha alzato bandiera bianca su Palazzo Grassi e sulla Punta della Do­gana, rinunciando a qualsiasi proget­tualità per il futuro, inalberando enor­mi cartelloni pubblicitari che non han­no uguali al mondo per volgarità. Una classe dirigente in fuga, come l’aristo­crazia veneziana che si arrese a Napole­one senza sparare un colpo. Eppure il Rinascimento di Venezia è possibile. È il momento giusto, perché i veneziani non ne possono più del declino di Ve­nezia; gli italiani stessi non ne possono più di una Venezia parassitaria, che non serve all’Italia. Il primo passo non sarà chiedere altri soldi; sarà ripartire da una nuova base economica».

Un anno fa, appena insediato, il mi­nistro Renato Brunetta raccontava al Corriere la sua formazione veneziana, quando vendeva «gondoete de plasti­ca » ai turisti. Ora denuncia «la mercifi­cazione e la svendita» della sua città. Ed espone quello che appare un pro­gramma da sindaco: «È una visione costruita nel tem­po, e mi piacerebbe molto realizzarla. Prima o poi la re­alizzerò. Ora faccio un altro mestiere, ho un altro impe­gno. Ma sono pronto a costrui­re, o contribuire a costruire, il nuovo Rinascimento di Vene­zia ». Brunetta parte da una pro­spettiva storica: «Il problema della città negli ultimi due secoli è stato trovare — dopo i fasti del­la Serenissima e della 'città mon­do', come la chiamava Braudel— una sua peculiare base economica. Nel lungo declino, c’è un unico momento di grande speranza: la Venezia di Volpi. Sintesi tra la nuova industria chimica di Porto Marghera, che produce lavo­ro, redditi, ricchezza di massa, e la nuo­va industria culturale della Biennale e della Mostra del Cinema, che produce immaginario, comunicazione, turi­smo. Quella di Volpi è stata l’ultima esperienza strategica, che fece di Mar­ghera uno dei più grandi poli industria­li al mondo, con 40 mila operai. Ora sia­mo a meno di un quarto dell’occupazio­ne, senza investimenti e senza futuro, con produzioni che nessun altro al mondo vuole più, neanche il Qatar. Ma pure l’altro pezzo del modello volpiano è entra­to in crisi, a causa di scelte sbagliate, miopi, provinciali. Il risultato è che sul turismo di qualità prevale il turismo di massa, che ha basso valo­re aggiunto e alto consumo sociale e ambientale: ti costa più di quanto rende».

La crisi, sostiene Brunetta, ha un responsabile: «La clas­se dirigente di centrosinistra che governa Venezia da qua­si vent’anni, con il marchio di Massimo Cacciari. Se si confronta la Venezia di oggi con quella dei primi Anni ’90, si vede che il degrado è continuato, e le poche cose buone, come il Mose, sono avvenute contro la volontà di questa classe dirigente. È prevalsa una cultura ideolo­gica, clientelare, passiva, as­sistenzialistica, con le punte aberranti dei centri sociali, priva della visione necessaria, incapa­ce di chiudere la storia gloriosa ma fini­ta della chimica e della petrolchimica a Marghera. Si vive un’agonia lenta, mentre ci vorrebbe il coraggio di dire: basta petrolio in laguna, basta ciclo del cloro; facciamo le bonifiche, ma in mo­do pragmatico, non fondamentalista come chiedono i Verdi, che vorrebbero piantare le erbette medicinali. Il polo industriale di Marghera va salvato, per­ché nella nuova Europa Venezia è tor­nata al centro dei traffici tra Est e Ovest, tra il Nord e il Sud del Mediterra­neo. Dobbiamo puntare su altre produ­zioni, sul terziario, sul quaternario: por­to, logistica, un waterfront come a Lon­dra, nuova residenza, tempo libero, de­sign. E un welfare che sostenga i giova­ni, e in questo modo la demografia».

Ma sono soprattutto la cultura, la Biennale, la nuova Punta della Dogana a non convincere il ministro. «Vedo una mercificazione della città, frutto di radicalismo chic di sinistra e di provin­cialismo. Dare a Pinault pezzi impor­tanti di Venezia denota un’inadeguatez­za culturale e strategica. Non sono na­zionalista, la colpa ovviamente non è di Pinault, che va ringraziato per aver investito su Palazzo Grassi e restaurato la Punta della Dogana. La colpa è di una classe dirigente che in maniera mi­ope e provinciale ha alzato le mani da­vanti al magnate e al tycoon di turno, anziché trovare soluzioni all’altezza di quelle di un Volpi. Si governa a vista, si distrugge la città, si vendono i gioielli di famiglia per pagarsi un sociale sem­pre più parassitario».

La Biennale di quest’anno è stata molto elogiata. «La Biennale, pur nel­l’intelligenza di tanti presidenti, vive una vita difficile e stentata, laddove po­trebbe essere un enorme polo di attra­zione, se non fosse il fiore all’occhiello di un intellighentsia esogena ma il por­tato di una base culturale ed economi­ca anche locale». E la Mostra del Cine­ma? «Tra elitismo, ideologismo e paras­sitismo acuto, è diventata la sorella po­vera di Cannes e Berlino. Costa solo e non produce». Quest’anno sarà conte­stata. «In questo Belpaese si confondo­no cultura e spettacolo. La cultura è un bene pubblico, e va finanziata dallo Sta­to: scuole, conservatori, musei. Ma per­ché bisogna foraggiare il cinema? La contestazione nasce da un mondo vi­ziato da troppi soldi, da troppo Stato e da troppa poca cultura. Lo stesso vale per il teatro e l’opera lirica. Che conte­stino pure. Ha ragione Bondi: colpire le clientele, valorizzare forme di spetta­colo che si avvicinino il più possibile al bene pubblico».

Su Venezia, Brunetta propone di «ri­cominciare da capo. Mi piace parlare di un quadrifoglio. Rilanciare Marghe­ra e dare finalmente dignità di città a Mestre. Completare il Mose. Fare la me­tropolitana sublagunare, un anello in­visibile perché costruito in fondo alla laguna che risolve l’insularità di Vene­zia, collegando aeroporto, ferrovia, Li­do, Giudecca. E completare quello che Renzo Piano chiama il Magnete: il siste­ma viario intorno all’aeroporto. L’attua­le classe dirigente veneziana è contra­ria a tutti e quattro i petali del quadrifo­glio. Che invece dev’essere la premessa su cui poi costruire il Rinascimento cul­turale della mia città».

Aldo Cazzullo
27 luglio 2009
da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO. Nazioni e soccorsi
Inserito da: Admin - Agosto 22, 2009, 10:13:06 pm
Nazioni e soccorsi

L'ex colonia e i nostri doveri di dare asilo


Due punti non dovrebbero essere in discussione: la moderna tratta degli schiavi tra la Libia e l’isola di Lampedusa va interrotta; non per questo i naufraghi che sfuggono al pattugliamento, chiunque siano, possono essere lasciati morire in mare. La storia della tragedia del Canale di Sicilia è ancora da scrivere; di certo emergono— e non per la prima volta— pesanti responsabilità di marinai maltesi.

C’è però un aspetto ineludibile, che ci riguarda. Se c’è un popolo che noi italiani abbiamo il dovere storico e morale di soccorrere, è il popolo eritreo. Perché della storia e dell’identità italiana, di cui finalmente si discute senza pregiudizi, gli eritrei fanno parte da oltre un secolo; così come noi apparteniamo alla loro, al punto da averla plasmata. Il nome stesso — Mar Eritreo era per i greci il Mar Rosso—fu suggerito a Francesco Crispi da Carlo Dossi, capofila della scapigliatura lombarda e collaboratore dello statista siciliano. Ma l’Eritrea è se possibile qualcosa di più della prima colonia italiana; senza l’intervento del nostro esercito e della nostra amministrazione, forse non sarebbe mai esistita come unità politica e culturale, e le tribù che abitavano l’altopiano sarebbero rimaste per sempre alla mercé dell’impero abissino.

Proprio questo legame particolarissimo consentì agli eritrei di godere solo dell’aspetto positivo del colonialismo— il centro dell’Asmara è una vetrina dell’architettura italiana della prima metà del Novecento, mentre la ferrovia Massaua-Asmara fu distrutta dai bombardamenti inglesi —, e di evitare le pagine nere, dalla repressione in Libia ai bombardamenti sull’Etiopia. Ma è soprattutto la fratellanza d’armi ad aver coniato tra i due popoli un vincolo di solidarietà, che in questi giorni dovrebbe morderci la coscienza. I prigionieri di Adua, cui il negus fece tagliare il piede destro e la mano sinistra in quanto sudditi ribelli, rei di aver combattuto accanto agli italiani. I centinaia di militi ignoti sepolti nel cimitero di guerra di Cheren, dove avevano resistito agli attacchi britannici. Il libro di Montanelli, intitolato appunto XX battaglione eritreo.

Il sacrificio di migliaia di ascari, da quelli del 1896 ai loro nipoti che ancora dopo la resa del Duca d’Aosta all’Amba Alagi continuarono a combattere nelle bande irregolari di Amedeo Guillet, l’ultimo eroe d’Africa. E la traccia che di tutto questo è rimasta nella cultura collettiva: gli acquerelli di Caccia Dominioni, i fez rossi sulle copertine della Domenica del Corriere, le fotografie degli sciumbasci— gli ufficiali indigeni — in gita premio nella Roma del 1912, accolti alla stazione Termini dalla folla entusiasta (e rivisti nella recente mostra al Vittoriano). Una memoria che non va confusa con le disavventure del regime fascista, ma affonda le sue radici nell’Italia risorgimentale e porta frutti ancora oggi.

Basta sbarcare all’Asmara per toccare con mano il profondo legame che ancora unisce gli eritrei all’Italia, dai caffè ai modi di dire, dall’urbanistica alla toponomastica, che celebra nomi in Italia dimenticati, i testimoni antichi del nostro mal d’Africa cui erano dedicati i battaglioni eritrei: il primo, contrassegnato dal colore rosso, intitolato a Turitto; il secondo, azzurro, a Hidalgo; il terzo, cremisi, a Galliano; il quarto, nero, a Toselli. Da quasi vent’anni, come ha documentato sul Corriere Massimo A. Alberizzi, l’Eritrea è schiacciata dal tallone di Afeworki, l’uomo che parve un liberatore e si è rivelato un aguzzino del suo popolo, sfiancato da una guerra impari con l’Etiopia. È normale che, alla ricerca di un Paese d’asilo, gli eritrei guardino all’Italia, dove già vive una comunità molto attiva.

Salire sulle imbarcazioni degli scafisti criminali non può essere il modo di raggiungere le nostre coste. Così come è indispensabile che il governo prosegua nella politica di collaborazione con la Libia, che palesemente deve coinvolgere anche le autorità maltesi. Questo non ci esime dal dovere di accordare soccorso e, se del caso, asilo; tanto più se alla deriva sono i discendenti dei nostri antichi fratelli d’arme.

Aldo Cazzullo
22 agosto 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA

da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO. Vian: Santa sede-governo, rapporti eccellenti...
Inserito da: Admin - Agosto 31, 2009, 03:30:28 pm
Il direttore dell’«Osservatore Romano» e lo scontro tra mondo cattolico e politica

Vian: rivendico di non aver scritto sulle vicende private del Cavaliere

«Santa sede-governo, rapporti eccellenti. Avvenire? Qualche scelta imprudente»


«E’ vero, sulle vicende private di Silvio Berlusconi non abbiamo scrit­to una riga. Ed è una scelta che riven­dico, perché ha ottime ragioni». Dice Gian Maria Vian, direttore dell’Osser­vatore Romano, il quotidiano del Pa­pa, che «il giornalismo italiano pare diventato la prosecuzione della lotta politica con altri mezzi. Segno che la politica, in tutti i suoi schieramenti, è piuttosto debole. Infatti da alcuni mesi la contesa tra partiti sembra svolgersi soprattutto sui giornali, che hanno assunto un ruolo non sol­tanto informativo, come mostrano le vicende anche degli ultimi giorni. Ma forse — aggiunge Vian — non si è data sufficiente attenzione al fatto che, il giorno stesso in cui è esploso il caso del direttore di Avvenire, su Repubblica Vito Mancuso ha attacca­to, con molte approssimazioni stori­che e una durezza insolita, il cardina­le segretario di Stato, presentando co­me un appuntamento politico una ce­rimonia religiosa antica di sette seco­li, che quest’anno rivestiva una solen­nità particolare dopo la tragedia di un terremoto da trecento morti. Co­sì, nel giro di quattro ore, l’Osservato­re ha risposto con un editoriale che ha chiarito il significato della Perdo­nanza e ribadito che non ci occupia­mo di polemiche contingenti. Quan­to alla rinuncia del presidente del Consiglio, che è stato rappresentato da Gianni Letta, si è trattato di un ge­sto concordato, di responsabilità isti­tuzionale da entrambe le parti. Tanto più che i rapporti tra le due sponde del Tevere sono eccellenti, come più volte è stato confermato. Anche sul nostro giornale, che per la prima vol­ta, l’anno scorso, ha intervistato, in­sieme agli altri media vaticani, sia il presidente della Repubblica sia il pre­sidente del Consiglio». L’Osservatore Romano non si è mai occupato delle vicende di Berlusconi anche perché, spiega il direttore, «negli ultimi due anni il giornale è cambiato. Prima c’erano una o anche due pagine di cronaca italiana e un’altra di cronaca di Roma. Siamo un giornale piccolo, anche se impor­tante. Proprio su richiesta del nostro 'editore' abbiamo triplicato lo spa­zio delle informazioni internazionali. E, in genere, il quotidiano della Santa Sede oggi non è solito entrare negli scontri politici interni dei diversi Sta­ti, a cominciare dall’Italia. Preferia­mo dedicarci ad analisi di ampio re­spiro, piuttosto che seguire vicende molto particolari, controverse e di cui spesso sfuggono i contorni preci­si, come quelle italiane degli ultimi mesi».

Sul caso che riguarda il direttore di Avvenire, non è certo in discussione la solidarietà personale con Dino Bof­fo. Vian, che lo conosce da quindici anni ed è stato editorialista del gior­nale dei cattolici italiani, gliel’ha espressa per iscritto, il giorno stesso. E’ un dato però che la linea dell’Osser­vatore Romano non sia stata la stessa del giornale dei vescovi, e taluni edi­toriali di Avvenire molto critici verso il governo abbiano destato sconcerto Oltretevere: «Non si è forse rivelato imprudente ed esagerato — si chiede Vian — paragonare il naufragio degli eritrei alla Shoah, come ha suggerito una editorialista del quotidiano catto­lico? Anche nel mondo ebraico, fer­ma restando la doverosa solidarietà di fronte a questa tragedia, sono sta­te sollevate riserve su questa utilizza­zione di fatto irrispettosa della Sho­ah. E come dare torto al ministro de­gli Esteri italiano quando ricorda che il suo governo è quello che ha soccor­so più immigrati, mentre altri – pen­so per esempio a quello spagnolo – proprio sugli immigrati usano di nor­ma una mano molto più dura? Mi sembra davvero un caso clamoroso, nei media, di due pesi e di due misu­re » .

Anche l’informazione religiosa, de­nuncia Vian, tende ad appiattirsi sul­le tendenze deteriori di quella politi­ca, anch’essa un tempo in genere più ampia e approfondita. «Sono stato ac­creditato in sala stampa vaticana dal 1975 al 2007, e ricordo quindi benissi­mo il direttore Federico Alessandri­ni, in precedenza vicedirettore del­­l’Osservatore: un gentiluomo d’altri tempi sempre disponibile a spiegare le cose, che aveva tutta la preparazio­ne per farlo e interlocutori giornalisti ben più preparati e tuttavia desidero­si davvero di capire. Oggi, invece, sembra aperta la caccia al prelato, me­glio se cardinale, e preferibilmente per una battuta polemica. E così si fi­nisce anche per ripiegare su figure di ecclesiastici, magari autorevoli ma or­mai ritirati, oppure che non hanno il ruolo istituzionale per parlare a no­me della Santa Sede, come ha dovuto precisare l’attuale successore di Ales­sandrini, il gesuita Federico Lombar­di. Mentre, per fortuna, mi sembra che questa abitudine non sia così dif­fusa tra i vaticanisti non italiani». Vian non fa nomi, ma non è impossi­bile vedere dietro le sue parole il pro­filo del cardinale Lozano Barragán per la sanità e di monsignor Sgreccia per la bioetica, entrambi emeriti. «Ora, per esempio, dei migranti ha la responsabilità un diplomatico come l’arcivescovo Vegliò, che ha dimostra­to sensibilità e prudenza; certo, se si mette in discussione il suo ruolo o, peggio, si dicono enormità sul suo conto, come è stato fatto frettolosa­mente e con impudenza, lui ha tutto il diritto di reagire, anche con ener­gia, come ha fatto».

Ma i rapporti tra l’Italia e la Santa Sede, ribadisce Vian, «sono buoni. Berlusconi è stato il pri­mo a chiarire che non sarebbe anda­to a Viterbo per la prossima visita del Papa, quando ha capito che la sua pre­senza avrebbe causato strumentaliz­zazioni. L’incontro dell’Aquila è salta­to per non alimentare le polemiche, ma era stato previsto proprio per se­gnare simbolicamente un impegno comune, dello Stato e della Chiesa, per le popolazioni colpite dal terre­moto. Con la presenza del cardinale Bertone a rappresentare Benedetto XVI, che è anche primate d’Italia. No, nelle relazioni tra Repubblica Italiana e Santa Sede non cambia nulla».

Aldo Cazzullo
31 agosto 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO. Frattini: voto agli immigrati? Sto con Fini, chi paga le tasse ..
Inserito da: Admin - Settembre 03, 2009, 05:15:04 pm
L’intervista Il ministro degli Esteri: ho telefonato al direttore di Avvenire il primo giorno.

Ma il premier non è il mandante dell’attacco

«Alla Lega né Lombardia né Veneto Sul fine vita no a leggi da Stato etico»

Frattini: voto agli immigrati? Sto con Fini, chi paga le tasse sia rappresentato



Ministro Frattini, al di là delle espres­sioni diplomatiche sui «rapporti eccellen­ti », come sono davvero le relazioni tra go­verno e Vaticano, e tra governo e Chiesa italiana?

«Nella sostanza, c’è una costante condi­visione di valori tra il governo di centrode­stra e la Santa Sede: vita, famiglia, equili­brio tra rigore e accoglienza sull’immigra­zione. Io stesso mi sono sentito costretto a intervenire, quando la Lega è passata da un eccesso all’altro: prima espressioni fuo­ri luogo, come quelle sugli 'esponenti reli­giosi cattocomunisti che hanno perso il cat­to e restano comunisti'; poi la rivendicazio­ne di essere 'custode dei valori cristiani'. Fu il governo Berlusconi, con me alla Far­nesina, a battersi per inserire nella Costitu­zione europea le radici cristiane. Non mi sento di non essere garante e custode delle radici cristiane, almeno quanto la Lega».

Sull’attacco a Boffo che idea si è fatto?

«Ho telefonato al direttore di Avvenire il giorno stesso. Il rispetto per la privacy e la dignità deve valere per tutti, anche per i personaggi pubblici. Respingo però le stru­mentalizzazioni politiche della sinistra, che usa la vicenda co­me se Berlusconi ne fosse il mandante. In­vece il presidente ha spiegato in pubblico, e in privato, di non aver incoraggiato e neppu­re parlato con Feltri».

Resta una tensione innegabile.

«Ma prima il diretto­re dell’ Osservatore Ro­mano e poi il cardinal Bertone hanno ribadi­to la sintonia tra il go­verno e la Santa Sede. Quanto alla possibili­tà che all’interno del sistema dei poteri va­ticani si sia aperto un contrasto, se il Santo Padre dice che questo non è, non è».

Ora si teme che la maggioranza, per re­cuperare i rapporti con il Vaticano, sia ar­rendevole sui temi dell’autunno, dalla legge sul fine vita alla scuola privata.

«Comprendo questa preoccupazione. È necessario darle risposta, discutendo nelle sedi in cui il Pdl discute. Il vicepresidente dei senatori, Quagliariello, in queste ore af­fronta il tema dei valori con monsignor Fi­sichella. La prossima settimana, al semina­rio del Pdl a Gubbio, mi farò portatore di un’iniziativa. Berlusconi ci ha lasciato liber­tà di coscienza. Il Pdl colga l’occasione per elaborare le sue idee, avanzare le sue pro­poste, come ha fatto la Lega sui dialetti. Parliamo anche noi al nostro elettorato, ali­mentiamo il dibattito politico. In questo modo il partito rafforzerebbe il governo».

Fini tenterà di cambiare la legge sul fi­ne vita approvata dal Senato. Lei che ne pensa?

«Penso che il testo del Senato possa esse­re migliorato. Io sono per la tutela della vi­ta senza se e senza ma. Ma lo stesso risulta­to può essere raggiunto ripulendo aspetti normativistici e procedurali. Una tema co­sì delicato come la vita e la morte non può essere affidato per intero allo Stato. Uno dei valori dell’insegnamento della Chiesa è la rilevanza della società. Credo sia possibi­le depotenziare alcuni aspetti statualistici della legge».

Sino a rimuovere il divieto di sospende­re l’idratazione?

«Nella sostanza, non ho dubbi che ac­qua e cibo non siano una cura, ma un mo­do per dare la vita. Una cosa però è la so­stanza, un’altra la regolazione delle forme e delle procedure: stabilire con una legge come si debba fare evoca lo Stato etico e mi lascia qualche perplessità. È proprio quest’allergia alla statualità e all’iperregola­zione a spiegare che uomini come Sacconi e come me, di cultura riformista, siano sen­sibili a queste istanze più di uomini che vengono dalla Dc».

E sui finanziamenti alle scuole priva­te?

«L’anno scorso la Gelmini si batté come una leonessa, ma si fece poco e tardi; per Tremonti la blindatura dei conti era la prio­rità. Quest’anno credo che il sacrificio fi­nanziario vada tentato».

Dalla Dc viene Rotondi, che con Bru­netta propone di riconoscere i diritti del­le coppie di fatto. Un binario morto della legislatura?

«Credo di sì. Perché verrebbe colorito con un segno anticristiano e anti-Santa Se­de, e come tale cavalcato a torto dai laici­sti. Piuttosto reagiamo con più forza, come facciamo con gli scafisti, agli attacchi con­tro gli omosessuali. Stabiliamo un’aggra­vante per i delitti a fini omofobici, dai pe­tardi alle coltellate. Se aggredisco qualcu­no perché gay sarò punito più severamen­te » .

Fini è isolato dentro il Pdl?

«Fini non si è isolato. Rivendica il ruolo di presidente della Camera. Il suo predeces­sore Bertinotti ha fatto molto di peggio. Fi­ni e la sua fondazione Farefuturo arricchi­scono il dibattito nel Pdl. Ricordiamoci che, quando infuriava il gossip contro Ber­lusconi, Fini reagì con lealtà».

È d’accordo sul voto amministrativo agli immigrati?

«Chi paga le tasse, chi parla l’italiano, chi rispetta la Costituzione e la bandiera, deve avere il diritto di rappresentanza. Notaxation without representation ; come possiamo riscuotere tasse, se non ricono­sciamo a chi le paga il diritto di essere rap­presentato? Il Pdl deve lavorare in modo or­ganico su un’integrazione non solo securi­taria. Purtroppo, temo che se oggi sottopo­nessimo a un esame la conoscenza della lingua e della Costituzione degli extraco­munitari che sono in Italia anche da più di cinque anni, non molti lo passerebbero. Ma se ci sono uomini e donne che amano l’Italia, perché dobbiamo considerarli stra­nieri? Con tutti gli italiani che non amano il loro Paese...».

A chi si riferisce?

«A chi, per attaccare il capo del governo, infanga l’Italia all’estero presentandola co­me un Paese di corrotti e offuscatori della libertà di espressione».

Neppure la Lega ha dato grandi prove di patriottismo.

«La Lega è sempre stata un alleato fede­le. Magari alza la voce, ma poi vota con il governo; è accaduto anche sulla missione in Afghanistan. Se poi la Lega si cala nel ter­ritorio, monta i gazebo, va davanti alle scuole e ai cancelli delle fabbriche, noi non dobbiamo criticarla, ma accettare la sfida».

Tra sette mesi si vota: la Lega chiede tre Regioni.

«Ha titolo negoziale per rivendicarle. Ma non può avere la Lombardia, dove For­migoni come coprotagonista della vittoria per l’Expo 2015 non potrà essere estromes­so. Né il Veneto, dove la Lega è già talmen­te rappresentata in Province e Comuni che non vale la pena vanificare l’accordo con l’Udc, che si può fare su Galan. Il Piemonte è un altro discorso».

Il rilancio del Pdl passa anche dal coor­dinatoreunico?

«Il triumvirato è nel nostro statuto, ma come soluzione provvisoria. Ha funziona­to per evitare una fusione a freddo. Però va considerato appunto una soluzione provvi­soria » .

Meno peggio Bersani o Franceschini?

«Ho una certa considerazione personale per Bersani, che ha commesso gravi errori politici, ma ha un’immagine. Franceschini non ha fatto altro che cavalcare l’antiberlu­sconismo più estremo».

I giornali riferiscono voci su D’Alema «mister Pesc», in pratica ministro degli Esteri dell’Unione europea.

«Una cosa che non sta né in cielo né in terra. E credo che D’Alema lo sappia».

Marcello Dell’Utri, in un’intervista a Paola Di Caro del «Corriere», ha riferito che Berlusconi la predilige perché «a Frattini dici una cosa il mattino, e la sera l’ha fatta». Lo accolse come un compli­mento?

«Fui felice di leggerlo. Se la persona con cui collaboro mi dice di fare una cosa, la faccio. Se ritengo vada fatta in modo diver­so, lo dico».

E Berlusconi accetta di essere contrad­detto?

«Se gli spiego il motivo, sì. Io non sono nel gruppo della prima ora: Berlusconi mi trovò a Palazzo Chigi, dove avevo lavorato con Ciampi. All’evidenza, Berlusconi si è trovato bene, e io pure. Anche se gli do an­cora del lei».

Aldo Cazzullo
03 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO. Il Pdl discuta sulle idee di Fini Serve tregua...
Inserito da: Admin - Settembre 16, 2009, 10:46:40 pm
L’intervista - Il responsabile dell’Economia indica il suo percorso per il futuro: la fedeltà al programma non è un optional ma un elemento fondamentale dell’etica politica

«Il Pdl discuta sulle idee di Fini Serve tregua, congresso pd decisivo»

Tremonti: la nuova maggioranza di Casini durerebbe 10 minuti. Il voto anticipato? Irreale


Ministro Tremonti, nel Palazzo della politica si parla di complotti, di elezioni anticipate, di nuove maggio­ranze. Lei che ne pensa?
«Da un po’ di mesi, più che un Palaz­zo sembra una caverna».

Caverna?
«La caverna di Platone. Nella caver­na di Platone gli uomini non vedono la realtà, ma le ombre della realtà pro­iettate sulle pareti. Vedono immagini, profili, stereotipi, imitazioni della real­tà. Il mondo esterno, la realtà, è una cosa; l’immagine della realtà, vista dal profondo della caverna, è un’altra. C’è una drammatica asimmetria tra la real­tà del Paese e del governo e la rappre­sentazione che se ne fa. Dal lato della realtà, c’è la realtà, certo con tutte le sue complessità: negatività ma anche positività, crisi ma anche crescente co­esione sociale. Dal lato della caverna, è l’opposto o il diverso. Non solo non si vede l’essere, ma a volte si confonde l’essere — quello che è — con il dover essere — quello che si immagina deb­ba essere —; o con il voler essere, cioè quello che per proprio conto e torna­conto si vorrebbe fosse».

Chi lo vorrebbe? A chi si riferisce? Ai media? Alle opposizioni? Alle éli­tes?
«Il prodotto del lavoro politico del­le élites è oggi un po’ come una nave in bottiglia. La nave è perfetta finché sta dentro la bottiglia; e l’involucro della bottiglia è anche la stampa, che tende a fornire una rappresentazione perfetta della nave. Però è una nave che affonda appena la metti non dico in mare aperto, ma nella vasca da ba­gno. Perché, come diceva quel tale, i fatti sono testardi...».

Quel tale è Stalin?
«Da ultimo. Mi pare che prima lo avesse detto Hegel. Ma può essere che sbagli, perché milito in una formazio­ne politica priva di 'legittimazione cul­turale'. A chi pensa davvero non serve un 'pensatoio'. Un certo lavorio cultu­ral- politico ricorda l’ironia di Barthes sul lavoro a merletto delle signorine di buona famiglia, parodia borghese del lavoro finto al posto del lavoro ve­ro. Cosa vuole: con rispetto per i mer­­letti, l’ozio è il padre dei vizi. All’oppo­sto, chi lavora non ha tempo per rica­mare. Passiamo dal ricamo alla realtà. Crisi in greco vuol dire discontinuità. E discontinuità è anche opportunità. Nelle strutture del reale, abbiamo para­dossalmente un dividendo positivo della crisi in termini di ritorno dell’eti­ca, di consolidamento della coesione sociale. Questo non significa l’assenza della crisi; anzi, proprio perché c’è la crisi abbiamo la riduzione del conflit­to e l’avvio dell’economia sociale di mercato. All’opposto, nella sovrastrut­tura c’è il contrario di quello che è il Paese e di quello che è nel Paese, il ten­tativo ossessivo di rottura. Da una par­te si chiede giustamente la celebrazio­ne dei 150 anni dello Stato; dall’altra parte c’è una caduta del senso dello Stato, con un eccesso di violenza che non corrisponde all’interesse naziona­le ».

Si riferisce agli attacchi a Berlusco­ni?
«Esattamente. Mi riferisco a una campagna che è orchestrata come un’ordalia paragiudiziaria, tra l’altro senza che alla base vi sia alcun elemen­to giudiziario. Domande e sentenze. L’appello al tribunale dell’opinione pubblica. Il farsi dei giornali giudici».

La stampa fa il suo mestiere: dare notizie, e commentarle.
«Un conto è il potere della stampa come contropotere, a tutela della liber­tà dei cittadini contro l’eccesso, con­tro il 'detournement ' del potere esecu­tivo. Questa è la funzione essenziale della libera stampa: rappresentare i fat­ti non orchestrarli, non sostituirsi al popolo nel gioco democratico».

Non crede che Berlusconi abbia fatto il gioco dei suoi critici, deciden­do di alzare la voce e rispondere col­po su colpo?
«Chi avrebbe fatto diversamente? A un’azione corrisponde una reazione. Mi chiedo piuttosto: tutto questo è nel­l’interesse del Paese? Io non credo che lo sia. Ora basta. Credo che nell’inte­resse nazionale sia fondamentale usci­re dalla caverna e guardare la realtà. E il governo è nella realtà, non nella ca­verna. Per quello che fa, e per come gli italiani valutano e vedono quello che fa. Non è un caso che questo governo attraverso la crisi abbia aumentato il suo consenso. Se la democrazia è un referendum quotidiano, la realtà corri­sponde positivamente al governo e il governo corrisponde alla realtà, più di tutto il resto. E se c’è una formula per uscire è che, fatto il congresso del Pd, riparta davvero organicamente l’oppo­sizione politica».

Franceschini o Bersani pari sono?
«Non voglio danneggiare nessuno dei due con la mia preferenza. L’impor­tante è il congresso. Una svolta positi­va democratica può essere data pro­prio dalla ripartenza dell’opposizione in Parlamento. Non tanti e diversi, ma 'un' interlocutore responsabile con cui parlare su ciascun tema».

In Parlamento c’è un’altra maggio­ranza possibile?
«Per risolvere i grandi problemi, co­me ha indicato l’esperienza dell’ulti­mo governo Prodi, servono grandi nu­meri. Prodi aveva piccoli numeri, e per di più litigiosi. Quelli che parlano oggi non hanno neanche i numeri».

Casini dice che una nuova maggio­ranza si trova in dieci minuti.
«Non credo. In ogni caso, se fosse, durerebbe a sua volta dieci minuti».

Chiede il «time out», quindi? Sem­bra volerlo anche Franceschini, quando nota che «il caso escort ha danneggiato anche il Pd».
«Non lo chiedo io. Lo chiede l’inte­resse del Paese. Può essere un contri­buto positivo del congresso dei demo­cratici ».

Anche l’ombra delle elezioni antici­pate esiste solo nella caverna?
«Certo. Il governo Berlusconi è sta­to eletto sulla base di un programma elettorale. La fedeltà al programma non è un optional; è un elemento fon­damentale dell’etica politica. Un gover­no senza programma o un program­ma senza governo non sono quello che serve al Paese e non sono quello che è nel nostro cuore e nella nostra mente».

La Lega non pesa forse troppo sul governo?
«La Lega è l’unico alleato che abbia­mo. La sintesi politica la fanno, e sem­pre bene, i due leader, Berlusconi e Bossi».

Fini rivendica più democrazia in­terna al Pdl. È davvero isolato?
«La macchina politica è un po’ co­me un computer. È fatta da hardware e da software. È fatta dagli apparati, che vanno dalla base verso i vertici— dagli amministratori locali agli organi di presidenza — e da idee e principi, simboli e messaggi. Fini ha posto tut­te e due le questioni: quella dell’hard­ware e quella del software. Ci sono nella politica contemporanea due for­me di hardware, e corrispondono al­l’alternativa non casuale tra 'Partito della libertà' e 'Popolo della libertà'. La scelta, nell’alternativa tra partito e popolo, è stata nel senso del popolo. Partito è una struttura novecentesca; popolo è una forma diversa di fare po­litica. Ma è politica, appunto, e non dogmatica o scolastica. Il fatto che sia popolo e non partito non esclude dun­que in radice forme comunque utili e necessarie di organizzazione. E queste possono e devono essere attivate in forma sempre più intensa e organica, per scadenze, temi, decisioni; su que­sto credo che nessuno, neanche il pre­sidente Berlusconi, sia contrario. Si può assumere anzi che questa formu­la non riduca ma rafforzi la sua leader­ship ».

Fini pone anche una questione di idee e principi.
«Giusto. Un computer ècorpus mecanicum , che resta inerte, senza il software. E su questo campo, in que­sto mese, si è sviluppata l’azione di Fi­ni. Ed è su questo, su immigrazione, interesse nazionale, tipo di patria, glo­balizzazione, catalogo dei valori e dei principi, che non solo tra Fondazioni ma dentro il Pdl si può e si deve aprire una discussione, dove vince chi con­vince. Una discussione preparata ma­gari anche da un nuovo centro studi. Questo non vuol dire cambiare il pro­gramma elettorale, ma capire il pro­gramma elettorale».

Crisi: siamo nella fase della paura o della speranza?
«Siamo in zona prudenza. La paura è finita, ed è finita perché sono scesi in campo i governi. Nel mondo, un’enorme massa di debiti privati è stata girata sui debiti pubblici, e que­sto trasferimento è stato decisivo per eliminare la sfiducia. Non è che così i problemi sono stati tutti risolti, ma la catastrofe è stata evitata, ricostruendo una base fiduciaria indispensabile al­l’economia. Proprio perché alla platea dei debitori privati si è sostituita la so­vranità degli Stati. Il ritorno degli Stati può essere positivo anche perché por­ta con sé il ritorno delle regole neces­sarie per evitare crisi future. E il 'di­scorso sulle regole', nell’agenda inter­nazionale, l’ha posto il governo Berlu­sconi ».

L’Italia però ha un enorme debito pubblico, che continua a crescere.
«La crescita del debito pubblico ita­liano è causata solo dalla decrescita dell’economia, ed è comunque per la prima volta negli ultimi decenni infe­riore alla velocità di crescita degli altri debiti pubblici. Secondo le proiezioni, questo differenziale fondamentale ne­gativo dell’Italia si chiuderà, in rappor­to con gli altri grandi Paesi europei, nei prossimi anni. In più abbiamo un enorme stock di risparmio e l’Italia non ha un’economia drogata dalla fi­nanza ma la seconda manifattura d’Eu­ropa. I confronti non si fanno sul pas­sato, quando la crescita degli altri era drogata da un eccesso di debito priva­to, ma sul futuro. Un futuro che è tut­to da scrivere».

Ma per affrontarlo, vi ricordano in molti, servono le riforme strutturali.
«La riforma delle riforme è il federa­lismo fiscale. Non è il progetto di una forza politica, ma il futuro dell’Italia. Che rischia di essere un Paese troppo duale. Il Centro-Nord, 40 milioni di abitanti, un medio-grande Paese euro­peo, da solo produce più ricchezza del­la media europea. Il Meridione d’Ita­lia, 20 milioni di abitanti, grande co­me Portogallo e Grecia messi insieme, sta invece sotto la media europea. Mai come nel 'caso Italia' vale il discorso di Trilussa sulla statistica dei due pol­li. Non solo. In Italia di polli ce ne so­no tre: c’è anche il terzo pollo, il pollo dell’evasione dell’illegalità della crimi­nalità. Metà del governo della cosa pubblica è in Italia fuori dal vincolo democratico fondamentale:no taxa­tion without representation . È questo il caso tipico dello 'Stato criminoge­no', che produce irresponsabilità, amoralità, evasione fiscale. Ed il Sud ne soffre di più. Possibile che sia così difficile trovare al Sud un amministra­tore che non abbia la moglie o la sorel­la, un parente o un compare proprieta­rio di una clinica? La Calabria non ha quasi più i bilanci, le giunte di Campa­nia e Puglia sono quel che sono. Il fe­deralismo fiscale è la risposta che chiu­derà la questione meridionale — oggi più che mai questione nazionale — e produrrà le risorse per le altre rifor­me ».

Aldo Cazzullo
15 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO. Un gesto semplice e una cattiva lezione
Inserito da: Admin - Settembre 22, 2009, 08:38:00 am
Un gesto semplice e una cattiva lezione


« I bambini sono troppo piccoli e non capiscono». «La circolare è arrivata in ritardo». «Senza un’adeguata riflessione sarebbe solo retorica». «Le missioni di pace si fanno con i medici, non con i soldati…».

C’è sempre un motivo, tutt’altro che buono, per evitare un gesto semplice ma importante. Quasi tutte le scuole d’Italia ieri mattina si sono fermate per un minuto di silenzio, in memoria dei sei soldati caduti a Kabul. Ma altri presidi si sono rifiutati di accogliere la disposizione del ministro.

Quando la settimana scorsa Mariastella Gelmini ha denunciato, in un’intervista al Corriere , la persistenza di aree di militanza politica nella scuola, si sono levate contro di lei molte critiche. Ora appare chiaro che il ministro non aveva torto; e bene ha fatto a chiedere scusa alle famiglie dei caduti, anche a nome di coloro che hanno negato quel minimo segno di dolore e rispetto.

Resta l’amarezza per una scuola che (sia pure con molte eccezioni) riesce a trasformare anche un’occasione di unità nazionale in un punto di divisione; e soprattutto si ostina a leggere qualsiasi vicenda attraverso le lenti della politica, peggio ancora dell’ideologia.

Tra le varie giustificazioni, colpisce quella della direttrice di una scuola romana: ogni caduto sul lavoro, non soltanto i militari, dovrebbe essere commemorato.

L’obiezione è sottile, perché incrocia un’attitudine dell’opinione pubblica: mai come questa volta l’Italia ha reagito al lutto come un Paese normale, piuttosto che come un Paese emotivo. Ma proprio questa «normalità» implica che il rimpianto e la gratitudine per i soldati, uccisi in una missione di pace che conducevano in nome e per conto di tutti noi, unisca anziché dividere. Mentre quasi l’intero Paese si fermava, mentre in qualche aula si faceva come se nulla fosse accaduto, nella basilica di San Paolo fuori le Mura i familiari si congedavano dai loro cari senza strepiti, senza invettive contro lo Stato e i suoi rappresentanti, ma con un dolore silenzioso. Quel dolore è stato — anche per i bambini e i ragazzi rimasti, senza loro colpa, seduti nei banchi — la migliore delle lezioni; e anche i piccoli l’hanno capita benissimo.

Aldo Cazzullo
22 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO. De Michelis consulente di Brunetta
Inserito da: Admin - Settembre 23, 2009, 06:08:06 pm
L’ex ministro socialista: Berlusconi mi aveva scippato la mia vecchia corrente del Psi

De Michelis consulente di Brunetta

«Io, un padre che torna ai figli»

«Renato? Non è mai stato povero come dice. Chi vendeva gondolette faceva i soldi»


ROMA - «Mi sono ricongiunto con i miei figli. Berlusconi mi aveva scippato la mia vecchia corrente del Psi... Ora ci siamo ritrovati». Venticinque anni fa, Gianni De Mi­chelis era il ministro e Renato Brunet­ta il consigliere. Ora la situazione si è rovesciata. Brunetta, dopo aver defi­nito il maestro «la migliore intelligen­za politica degli ultimi cinquant’an­ni», l’ha assunto come consulente. A prezzo adeguato? «Macché. Quarantamila euro lordi l’anno: praticamente volontariato - sorride De Michelis, capello corto e pancia ridimensionata -. Però sono felice di dare un contributo di idee». E Brunetta a che punto è nella classifi­ca delle intelligenze? «Fascia alta. In­ventore, e faticatore. Ero ministro del Lavoro durante la trattativa sulla sca­la mobile, lo chiamai e gli dissi: 'Re­nato, stanotte non si dorme. Per do­mattina voglio un dossier con tutte le nostre proposte ai sindacati'. All’alba aveva scritto il 'libretto rosso': forse il miglior testo di politica del lavoro degli Anni 80 in Europa. Certo, a vol­te l’intelligenza gli scappa».

Come nel­la sparata sul golpe delle élite? «Tut­t’altro. Brunetta ha lanciato un allar­me, e ha fatto benissimo. Lasciarci travolgere per la seconda volta, come nel ’92, sarebbe imperdonabile. An­che Craxi aveva fatto come Brunetta, quando alla Camera chiamò tutti i partiti a corresponsabili di Tangento­poli; dopo però non fu conseguente.
Si accucciò, e uso questo verbo non a caso». Che c’entra Cuccia? «Era l’uo­mo più potente d’Italia, e certo non amava il sistema politico del tempo. Eppure Mani Pulite si poteva chiude­re in due mesi: noi socialisti avevamo Palazzo Chigi, la Giustizia, la Difesa, vale a dire i servizi e i carabinieri. Do­vevamo fare subito il decreto per de­penalizzare il finanziamento illecito. Invece ci dividemmo: Martelli tentò di fregare me e Bettino, Amato badò a salvare la ghirba. Con un cane da guardia come Brunetta, Berlusconi non finirà così».

Anche adesso voi socialisti non sie­te messi male. «In effetti. Agli Esteri c’è Frattini, cresciuto alla corte del no­stro 'grand-commis' Nino Freni e portato da Martelli.
Poi c’è la Boni­ver, che capisce la politica estera. A Palazzo Chigi c’è Bonaiuti, un amico: lui era proprio demichelisiano. Capo dei deputati è Cicchitto, che ha una finissima cultura marxista; certo più di Bersani, che qualunque cosa dica dà sempre l’impressione di averla ap­presa dal bignamino. Alla Cgil c’è Epi­fani, che nel Psi è sempre stato alla mia destra, prima demartiniano poi craxiano. All’Economia c’è Tremonti, cresciuto con Reviglio e Formica. Fu Sacconi a farmelo conoscere, nell’85: mi parlò della 'lex mercatorum', e io che ho studiato chimica rimasi im­pressionato. Ma i miei figli sono ap­punto Sacconi e Brunetta».

Com’era Brunetta da giovane? «Non così povero come dice». Non vendeva gondoete di plastica? «Sì. Pe­rò le bancarelle di Lista di Spagna, di fronte alla stazione, erano le più am­bite di Venezia: chi le aveva faceva i soldi. Comunque non c’è dubbio che Renato si sia fatto da solo. Comin­ciammo a lavorare insieme nel ’77. Avevamo appena conquistato la mag­gioranza al Petrolchimico, la Mirafio­ri del Nord-Est, e facemmo un gran­de convegno, invitando anche Cefis. Gli dissi: 'Renato, stanotte non si dor­me. Per domattina voglio la relazio­ne'. All’alba era già ciclostilata in 200 copie. Cefis rimase colpito dal livel­lo ».
Aveva il complesso dell’altezza? «Un pochino. Ma gli servì per emerge­re».

«Sacconi invece lo conosco dal '72. Faceva il maestro di tennis. Giocava da fondocampo, come Barazzutti: se­conda categoria; una promessa. Pre­valse la politica. Nel ’79 ci presentam­mo in cop­pia, io numero 1 e lui 13, e lo fe­ci entrare alla Camera. Brunetta inve­ce era candidato sempre a Venezia centro, dov’eravamo schiacciati tra i commercianti democristiani e i por­tuali comunisti, e non veniva mai eletto. Si arrabbiava: 'Gianni, non hai capito che il migliore sono io?'. Il tempo gli ha reso giustizia». Sacconi racconta di una vostra fuga per timo­re di un golpe, uno vero. 'Il Pci stava all’erta, e noi discutevamo su dove espatriare. Maurizio proponeva la Ju­goslavia.
Gli risposi che ci avrebbero rimandati indietro; meglio la Svizze­ra, come Lenin».

«Già allora i miei due figli erano molto diversi. Sacconi è metodico tanto quanto Brunetta è esplosivo. Maurizio ha un metodo di lavoro più tradizionale, strutturato, simile al mio: uno più uno fa due. Renato è l’opposto. Ho già partecipato a una decina dei suoi staff-meeting: ci sono 35-40 persone, giovani e veterani co­me Davide Giacalone, lui ascolta e nel giro di un’ora decide. Il fatto che si sia messo in casa una personalità ingombrante come la mia significa che non ha paura di nulla. Altri prefe­riscono essere circondati da persone che non li valgono». Si riferisce a Ber­lusconi? «Berlusconi nel 2001 mi dis­se che non poteva candidarmi perché ero 'impresentabile'. Ma non gliene ho mai voluto, e l’ho appoggiato fino al 2007. Ho cercato di salvare una pre­senza autonoma dei socialisti, non ci sono riuscito. Silvio fa bene a reagire così agli attacchi: muoia Sansone con tutti i filistei, se necessario». Finirà la legislatura? «Non vedo motivi per cui non debba finirla. Però non sarà giu­dicato dalla durata, ma da come l’Ita­lia uscirà dalla crisi. Resto convinto che, in questa fase, questo paese si go­verna solo con una grande coalizio­ne. Magari l’avesse fatta Prodi nel 2006. A proposito, il ministro delle Partecipazioni Statali che portò a Pa­lazzo Chigi la nomina di Prodi alla presidenza dell’Iri ero io...».

Aldo Cazzullo
23 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO. E «Barbarossa» sbanca a Legnano
Inserito da: Admin - Ottobre 11, 2009, 07:33:07 pm
IL CASO

E «Barbarossa» sbanca a Legnano

In platea fazzoletti verdi e applausi

Cinema gremito di famiglie con bambini. «Papà, il Bossi è quello con l'elmo?»

DAL NOSTRO INVIATO


LEGNANO — «Papà, ma il Bossi è quello con l'elmo?». «No tesoro, quello è Alberto da Giussano». «Appunto: allora è lui il Bossi». «No: è Raz Degan. L'attore che piace alla mamma». «Ma il Bossi, quello che piace a te, quando arriva?». «Arriva, arriva: La Padania ha scritto che ha una particina...». Tra Legnano e Cerro Maggiore, dove il 29 maggio 1176 la Lega lombarda sconfisse il centralismo imperiale, oggi c'è un gigantesco cinema multisala, uno dei primi e dei più grandi del Nord Italia; e ovviamente danno «Barbarossa». Come vedere «Baarìa» a Bagheria. La sala 7, trecento posti quasi tutti prenotati, è già piena: a mezz'ora dall'inizio il cronista compra il penultimo biglietto, in prima fila, sotto il megaschermo. All'ingresso si è accolti da armigeri con scudi, lance e tutto: non sono i «vecchi Galli» citati da Bossi, ma i figuranti del palio di Legnano, dove ogni anno viene messa in scena la battaglia. Chi ha già il biglietto si rilassa con una birra e una fajita di pollo all'American Restaurant Crazy Bull, tra le targhe dell'Interstate Texas 20 e dell'Oklahoma Road 611. Ci sono anche la griglieria argentina «El Gringo», il kebab, la crêperie, il sushi-bar, il wine-bar e il fast-food cinese «Shanghai Quick».

Più che un «non luogo», la multisala è ormai un «super luogo», di quelli che sostituiscono la piazza e il paese come posto d'incontro; di padano non c'è nulla; tranne, stasera, il film. «E' tempo che tutti i comuni lombardi si uniscano in una Lega!» proclama Alberto da Giussano, e la sala approva: «Sì!». «Questa terra appartiene a noi lombardi fin da quando abbiamo memoria!». Applauso. Non è tanto tifo politico, quanto rivendicazione di identità. Visti anche i fazzoletti verdi, ma soprattutto famiglie con bambini anche piccoli, come quello che tormenta il padre: «E' lui il Bossi?». «No, lui è Barbarossa». Gli organizzatori del palio di Legnano sono in giacca e cravatta. Il film è zeppo di allusioni politiche, magari non volute, ma che sollecitano i più appassionati. «Roma è debole e malata», infatti si dà al Barbarossa — «Sire, Roma è ai vostri piedi» —, ed è pure devastata dalla peste. Cremona e Ferrara tradiscono: «Comunisti!» sibila una voce nel buio. Delusione per i guerrieri con gli scudi crociati: praticamente il simbolo della Dc; sollievo all'apparizione del Carroccio trainato da buoi. Ma la discussione più accanita si accende in sala per stabilire quale sia la chiesa che si intravede dietro le mura di Milano. «E' Sant'Ambroeus». «No, è san Babila. Sant'Ambrogio ha il portico davanti». Poi il traditore, che ha il volto del cattivo di Hollywood per eccellenza, F. Murray Abraham, apre in effetti «la grata di Sant'Ambrogio» e risolve la questione. «Papà, è lui il Bossi?». Il padre ora si spazientisce: «No, Bossi è buono».

Una signora lamenta che gli accenti degli attori non siano lombardi, «con tutte quelle esse sibilanti da Centro-Sud»; il che è vero. Il film riesce noiosetto, con le frequenti grida di «libertà!» a evocare il Mel Gibson di Braveheart, ma solletica l'orgoglio settentrionale — «se riuscirai a dominare il Nord Italia diventerai il sovrano più potente d'Europa» — e gli spettatori lo seguono in tensione crescente. Verona, Novara, Vercelli, Como, Bergamo, Pavia sono schierate allora come oggi con la Lega. E ovviamente si giura a Pontida. Un signore in tuta che ha fatto la comparsa a cavallo nella battaglia indica fiero alla fidanzata: «Io sono quello lì, accanto all'Alberto». Qualcuno registra la carica con il telefonino. L'applauso finale sull'ultimo «libertààà!» dopo oltre due ore e mezza non è liberatorio ma convinto. Mentre scorrono i titoli di coda — «i comuni padani avevano così ottenuto la loro indipendenza...» — i commenti sono soddisfatti. I più critici sembrano gli organizzatori del palio, apolitici, che però discettano di costumi, fibbie, finimenti, speroni.

Raz Degan, confermano le signore, è bellissimo. «A me piace più l'Alberto da Giussano del Butti» sbotta un marito seccato, che insiste per portare la compagnia a rendere omaggio alla statua che lo scultore romantico eresse sulla piazza di Legnano. Ma il grosso si ritrova al piano terra della multisala, in gelateria, alla focacceria ligure, alla piadineria, «alla Pizz@ Communication», al distributore di pupazzi di Hello Kitty, o davanti al menu Poldo della paninoteca. Bossi non si è capito bene dove fosse; qualcuno ipotizza che la Padania abbia fatto uno scherzo; ma un ragazzo che spiega di conoscere bene «il capo» svela il segreto. Bossi è uno dei nobili padani che ha giurato a Pontida; il regista Martinelli non l'ha messo in primo piano, ma a guardar bene si vede che è lui; «il capo» ha pure raccontato, molto divertito, che alla fine era rimasto incastrato nel costume medievale, e proprio non riusciva a toglierselo. Si vorrebbe concludere la serata al karaoke, ma purtroppo è già chiuso. Un cartello informa che tutto è pronto per la festa di Halloween. A voltarsi indietro, la scritta luminosa che si vede fin dall'autostrada informa che la multisala è della Medusa; pure quella, cioè, di Berlusconi.

Aldo Cazzullo

11 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO. Pansa: sì, è ora di fermarsi
Inserito da: Admin - Ottobre 13, 2009, 09:20:05 am
L'INTERVISTA

Pansa: sì, è ora di fermarsi

Sento aria di anni Settanta

«Come allora ci sono due blocchi che si odiano, cattivi maestri e firmaioli»


«Sottoscrivo dalla prima riga all'ultima l'editoriale di Ferruccio de Bortoli, e anche la sua replica a Eugenio Scalfari e Marco Travaglio. È il momento di fermarci. Di stabilire una tregua. Nel Paese, e anche tra i giornali».

Perché ne è convinto, Giampaolo Pansa? «Perché l'aria che sento circolare in Italia mi ricorda molto quella dell'inizio degli anni '70. Non dico sia la stessa. Però, come i vecchi cani da caccia, vengo messo in allarme. Perché, essendo abbastanza anziano, rammento quel che ho visto allora».

A cosa si riferisce in particolare? «Autunno 1970. A Genova nasce una banda rossa, la XXII ottobre, che rapisce Sergio Gadolla, figlio di un imprenditore, per averne un riscatto. Marzo 1971: la stessa banda di Genova uccide un fattorino, Alessandro Floris, nel corso di una rapina. Nel maggio 1972 a Milano, tanto per ricordarlo, viene assassinato il commissario Luigi Calabresi. Nel 1973 le Br, che l'anno prima hanno rapito e fotografato con una pistola alla guancia il capo del personale della Sit Siemens, compiono altri sequestri-lampo e appiccano incendi nelle fabbriche milanesi. Il primo sequestro di lunga durata è del 1974: Mario Sossi resta nel carcere brigatista per un mese. Sempre nel 1974, a Padova, le Br uccidono due persone nella sede del Msi… Sono cose che ho seguito di persona, come cronista della Stampa di Ronchey e del Corriere della Sera di Ottone».

È sicuro di non sentire la suggestione di un passato che ci pare sempre destinato a ripetersi? «Il vissuto, come ci insegna l'esistenza, ti torna sempre in mente, se non sei portato al black-out, alla rimozione. Tocchi pure ferro. Ma nell'Italia di oggi ritrovo cinque situazioni identiche ad allora. Il Paese è diviso in due blocchi che si odiano, si scomunicano a vicenda, si combattono senza esclusioni di colpi. Vedo in giro molto pregiudizio, cose gridate senza riscontri, condanne morali pronunciate senza autorità. Personalmente mi sono già vaccinato da solo: quando sono usciti i miei libri revisionisti, la sinistra mi ha subito dato del fascista, senza aver nemmeno letto nulla di quello che scrivevo. Ma se allarghiamo le nostre vicende personali, e le collochiamo nel quadro dell'Italia di oggi, è una roba che fa spavento. Senza precedenti negli ultimi quarant'anni, tranne forse il culmine di Tangentopoli».

Quali sono le altre «situazioni identiche» ai primi anni '70? «L'imperversare dei cattivi maestri. Quelli che intossicano l'aria. Soprattutto quelli di sinistra. Scrivono che Berlusconi è come Mussolini, che la democrazia in Italia sta morendo, che non c'è più la libertà di stampa. Ancora: la ricomparsa dei firmaioli. Si stende un proclama e i cervelloni di sinistra lo firmano o mandano lettere su lettere ai giornali. Se non fosse grottesco, mi incuterebbe un timore. Ce le ricordiamo o no le 800 e più firme in fondo all'appello contro Calabresi "torturatore" di Pinelli? La famosa intellighentia di sinistra troppe volte ha tradito i doveri degli intellettuali: distinguere, non fare confusione, non aizzare le reazioni delle persone più semplici». Oggi sui giornali non ci sono appelli contro commissari di polizia, ma per la libertà di stampa e la dignità delle donne, dopo l'attacco di Berlusconi a Rosy Bindi. «Berlusconi ha fatto male. Guai a prendere in giro una donna. Me l'ha insegnato una volta per sempre mia madre, negli anni '40. Ma come si fa a trasformare una battutaccia scema in un delitto pubblico, da sanzionare con le firme e con le magliette? Un po' di misura ci vuole».

Ma dietro la «battutaccia» c'è la vicenda delle escort a Palazzo Grazioli. E ci sono le querele del premier ai giornali. «L'ho scritto sia sul Riformista sia su Libero: sono convinto che Berlusconi sia cotto. Di lui non mi frega assolutamente nulla: non l'ho mai votato, non mi piace, nel 1990 ho scritto un libro contro di lui persino troppo duro, "L'intrigo", sulla guerra di Segrate. Credo che Silvio Berlusconi sia arrivato alla fine della corsa, per due volte gli ho consigliato di dimettersi. Penso si sia comportato in modo folle: tutti possono andare con le escort, se hanno soldi e non hanno una signora che li controlli; l'unico che non può farlo è il presidente del Consiglio. Berlusconi è colpevole. Detto questo, dobbiamo fucilarlo? Appenderlo per i piedi, come Mussolini con la Petacci?».

Quali potrebbero essere le conseguenze, secondo lei, qualora la tregua non ci fosse? «Il ritorno della violenza, anche a sinistra. È accaduto un fatto che mi ha colpito, pure se non ha "bucato" le cronache, che legittimamente si occupano di capire se Berlusconi starà o no in piedi e chi guiderà il disgraziatissimo Pd. Alla fine di settembre è morto per infarto a Torino il magistrato Maurizio Laudi, un galantuomo, che aveva indagato su anarchici ed estremisti rossi. Il giorno dopo sui muri c'erano decine di scritte contro di lui. La Stampa ne ha pubblicato le foto: "Laudi è morto, un boia in meno". Un'oscenità. L'altro giorno a Pistoia c'è stata l'ennesima spedizione punitiva contro Casa Pound, l'associazione di destra, con tanto di scontri con la polizia…».

Ma cosa c'entra la violenza con le polemiche dei giornali? «Questa è la quinta e ultima analogia tra i primi anni '70 e oggi. È cominciata la guerriglia tra giornali, e va ben oltre il confronto tra opinioni diverse. Un conto è scrivere in modo secco e duro; è anche mia abitudine. Ma se cominciamo a farci la guerra, ad accusarci a vicenda di cose che non abbiamo fatto né scritto, le conseguenze possono essere serie. Ce lo insegna la storia del nostro Paese».

Aldo Cazzullo

13 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: CAZZULLO. Cicchitto: «Collegialità sulle scelte economiche, Tremonti lo capisca
Inserito da: Admin - Ottobre 26, 2009, 04:40:25 pm
L'intervista

Cicchitto: «Collegialità sulle scelte economiche, Tremonti lo capisca»

«Vedo somiglianze con il ’92-’94.

Ma i capi di Dc e Psi non avevano il sostegno popolare di Berlusconi»


ROMA - Fabrizio Cicchitto, presidente dei deputati Pdl, divide queste giornate tra la gestione della crisi politica nel centrodestra e il lancio della sua nuo­va Fondazione Riformismo e libertà, che sarà presentata all’inizio di no­vembre a Roma (con Francesco For­te a guidare il comitato scientifico).

Presidente Cicchitto, che succe­de nella maggioranza?
«C’è un confronto sulla politica economica: come coniugare il rigo­re — indispensabile per un Paese che ha un debito pubblico doppio di quello della Germania — e la dimi­nuzione del carico fiscale sulle picco­le e medie imprese per tenere in pie­di l’occupazione. Una discussione molto seria, che è stata impropria­mente personalizzata».

L’impressione è che nel partito e nel governo ci sia un’aperta insoffe­renza nei confronti di Tremonti e del suo asse con la Lega.
«Non è così. Siamo tutti consape­voli della figura di Tremonti, e an­che del suo ruolo politico. Figura e ruolo che non sono in discussione. Anche Tremonti però dev’essere con­sapevole che la politica economica non può essere monopolio di nessu­no » .

Tremonti sarà d’accordo?
«Nessuno mette in dubbio quanto è stato fatto finora. Ma adesso occor­re una seconda fase, incentrata sulla crescita. In un partito da 270 deputa­ti, che è il primo al Nord come al Sud e ha ministri di peso, la politica economica è oggetto di discussione e di gestione collegiale, sotto la lea­dership di Berlusconi; che poi è l’uo­mo che prende i voti».

Si parla di Tremonti vicepre­mier.
«Tremonti non ha bisogno di pen­nacchi. Al Tesoro ha già un peso su­periore a qualsiasi altro ministro. Un ruolo così importante non va ribadi­to o appesantito da un’altra carica, che in un governo di coalizione spo­sterebbe gli equilibri».

Come vede l’ipotesi di elezioni anticipate?
«La escludo. La via maestra è go­vernare per i prossimi quattro anni. Anche se dobbiamo essere consape­voli che l’anomalia italiana non è ri­solta, e anzi siamo di fronte a una ra­dicalizzazione dello scontro».

Qual è l’anomalia?
«Esistono forze finanziarie, edito­riali, giudiziarie e politiche che non hanno accettato il verdetto del 2008 e ricorrono a mezzi impropri per far saltare il quadro politico. Una situa­zione che ha elementi di somiglian­za con quella del ’92-’94».

Quella volta il quadro politico saltò.
«La differenza è che i leader della Dc e del Psi non avevano un forte consenso popolare; oggi invece Ber­lusconi è sostenuto da grandi masse di cittadini».

Non le pare che Berlusconi, pre­mier ed editore, sia parte dell’ano­malia?
«No. L’anomalia italiana è la so­pravvivenza nella parte maggiorita­ria della sinistra di un grumo irrisol­to di comunismo, che si è mutato in giustizialismo. Il metodo e le finalità sono sempre le stesse: demonizzazio­ne dell’avversario, volta alla sua eli­minazione » .

Non potrebbe essere proprio la maggioranza a offrire una tregua?
«Non abbiamo voluto noi l’imbar­barimento. È vero, sarebbe indi­spensabile un disarmo bilaterale nel campo degli attacchi personali: tutte le forze politiche e giornalisti­che dovrebbero smettere di seguire questo metodo di lotta politica. Ma vedo il rischio di un’ulteriore escala­tion ».

Come si sta muovendo Fini?
«Fini ha una dimensione istituzio­nale che rispetto e apprezzo. E atten­do con curiosità il suo prossimo li­bro. Invece non condivido le analisi 'tranquillizzanti' sviluppate da setto­ri originariamente di destra, dal Se­colo d’Italia alla fondazione FareFu­turo , che puntano all'omologazione in chiave bipartisan della situazione italiana a quelli di altri Paesi euro­pei » .

Di qui la destra, di là la sinistra. Non sarebbe male.
«Magari. Purtroppo non è così, a causa della linea prevalente nell’op­posizione. Per questo l’analisi è illu­soria, determinata anche da com­plessi d’inferiorità verso la sinistra, che non hanno alcuna ragione d’es­sere. Pensiamo piuttosto a costruire un grande partito interclassista, che dialoga con la Chiesa ma non le è su­bordinato, che rivendica il Risorgi­mento e l’unità nazionale e non per­mette alla sinistra di impossessarse­ne in modo strumentale».

Bossi dice che l’accordo per le Re­gionali è fatto: il Veneto alla Lega.
«Gli annunci servono a marcare una posizione contrattuale migliore. Ma la ripartizione delle Regioni non è ancora stata definita».

La Lega può averne due?
«La candidatura in una regione del Nord e in una del Centro-Nord mi pare una soluzione ragionevole».

Le primarie del Pd sono state un successo
«Sono state una scimmiottatura impropria e plebiscitaria delle prima­rie vere. In America si vota per il can­didato presidente, non per il segreta­rio del Partito democratico. Da noi Franceschini ha fatto appello a dipie­tristi e girotondini, per sovvertire la decisione degli iscritti. E con una mossa razzista e antifemminista si è messo al fianco un nero in quanto nero, e una donna in quanto don­na » .

Preferisce Bersani?
«Se non altro sappiamo cos’è: un ex comunista, formatosi nelle regio­ni rosse, depurato da elementi auto­ritari. Spero ad esempio che venga ri­visto il 'no' alla nostra proposta di incontro sulla giustizia».


Aldo Cazzullo

26 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Io e Lotta continua, il germe della violenza c'era già alle origini...
Inserito da: Admin - Novembre 03, 2009, 10:55:17 pm
La storia - Il figlio del giornalista ucciso parla a 40 anni dalla nascita del gruppo

«Io e Lotta continua, il germe della violenza c'era già alle origini»

Andrea Casalegno: Marino non mente, in Lc lo sanno


«E’ una storia, quella cominciata qua­rant’anni fa, che sento raccontare a volte in modo compiaciuto, a volte in modo falso. E’ falso che piazza Fontana abbia rappresenta­to la “perdita dell’innocenza” per una gene­razione di militanti di sinistra. E’ falso che Marino possa essersi inventato di aver con­dotto l’auto dell’assassino di Luigi Calabre­si. Ma questo gli ex di Lotta continua lo san­no tutti».

Andrea Casalegno sta per compiere 65 an­ni. «Molti più di quelli che aveva mio padre quando fu assassinato dalla Brigate Rosse». Carlo Casalegno, azionista, partigiano, vice­direttore della Stampa su cui teneva la rubri­ca «Il nostro Stato», morì a Torino il 29 no­vembre 1977. «L’attentato» si intitola il li­bro, pubblicato da Chiarelettere, in cui suo figlio ricostruisce la tragedia della famiglia. Sempre a Torino, quarant’anni fa, era nata dall’autunno caldo Lotta continua, di cui An­drea Casalegno fu un militante.

«E’ una storia che comincia bene ma qua­si subito conosce un’involuzione. C’ero: partecipai all’occupa­zione dell’università, andavo alle assem­blee studenti-operai. Gli operai si ribellava­no dopo quindici anni di un controllo op­pressivo e oscuranti­sta, e lo facevano no­nostante il Pci e i sin­dacati 'pompieri', co­me allora li definiva­mo, avvicinandoci molto alla realtà. Cer­to, so bene che quan­do il padrone perde il controllo della fabbri­ca sono guai, non bia­simo la marcia dei 40 mila e l’operazione co­raggiosa con cui la Fiat riprese le redini. Ma ho un ricordo e un giudizio positivo di quelle lotte. Presto pe­rò nascono i partitini. Comincia l’irrigidi­mento ideologico. E comincia la violenza. Fu giusto scrivere li­bri come 'La strage di Stato', scoprire le radi­ci nere di piazza Fonta­na. Ma non fu giusto – sostiene Casalegno – definire piazza Fon­tana come 'la perdita dell’innocenza' per i rivoluzionari di sini­stra. E’ un’espressio­ne di cui si palleggiano la paternità due per­sone tra loro diverse come Luigi Manconi e Adriano Sofri; ma, pur essendo teste pensan­ti e brillanti, hanno tutti e due torto. Qualsia­si persona sensata sa, anche senza aver letto Machiavelli e Sartre, che chi fa politica non è mai innocente; dire il contrario è ridicolo. Oltretutto sappiamo per bocca di un fonda­tore, Alberto Franceschini, che i futuri briga­tisti già si preparavano alla lotta armata. At­tribuire la responsabilità del terrorismo ros­so alla bomba di piazza Fontana è una scioc­chezza. Le responsabilità sono sempre per­sonali, e vanno sempre separate le une dalle altre. Anche se la strategia della tensione eb­be certo un ruolo nel precipitare il paese ne­gli anni di piombo».

Nel maggio 1972, Andrea Casalegno fu ar­restato a Torino, per aver distribuito i volan­tini con cui Lotta continua approvava l’omi­cidio di Calabresi. «Ero entrato da poco in Lc, dopo 18 mesi di servizio militare. Quan­do seppi dell’assassinio del commissario, pensai che il nostro gruppo fosse del tutto estraneo. Ucciderlo mi pareva un’aberrazio­ne non solo morale ma politica: a noi Cala­bresi serviva vivo, in vista del processo che avrebbe dovuto far luce sulla morte di Pinel­li, di cui i principali giornali italiani avevano accreditato versioni inverosimili. Completa­mente diversa fu la mia reazione quando, se­dici anni dopo, seppi dell’arresto di Sofri. So­prattutto perché c’era di mezzo Marino». Perché? «Perché tutti sapevano benissimo chi era Leonardo Marino. Solo qualche sprovveduto può ancora far finta di ignorar­lo ». Vale a dire? «Marino non era uno qualsi­asi. Fu la prima avanguardia Fiat licenziata – e mai riassunta - per la sua attività politica. L’emblema dell’operaio-massa. Ed era politi­camente e umanamente molto vicino a So­fri. 'Marino libero, Marino innocente' non è più di una battuta. Difficile che abbia agito di testa sua; del resto, in un’organizzazione rivoluzionaria chi mette a repentaglio le vite dei compagni con un’azione inconsulta vie­ne allontanato, e questo a Marino non è ac­caduto. Ci vuol davvero molta ingenuità, o peggio, a sostenere che si sia inventato ogni cosa. Non è così. E questo gli ex di Lotta con­tinua lo pensano tutti». Ma non lo dicono. «Sì invece. A ben vedere, in molti l’hanno fatto capire, magari per allusioni. Ma non voglio esprimermi oltre. Non è mia intenzio­ne maramaldeggiare. Certo non troverete la mia firma in calce ai manifesti che protesta­no l’assoluta estraneità di Sofri. Né del resto mi è mai stata chiesta. Non frequento più i vecchi compagni, tranne un paio di veri ami­ci ».

Furono due compagni di allora, Gad Ler­ner e Andrea Marcenaro, a intervistare Casa­legno per il quotidiano Lotta continua, dopo il ferimento del padre. Un’intervista in cui Casalegno rievocava la prima azione delle Br, il sequestro Macchiarini (marzo 1972): «A noi di Lc quel rapimento non era dispia­ciuto perché, dicevamo, e forse era vero, un sacco di operai ne erano contenti. Però quel­lo era il primo passo nella logica che li ha portati a sparare in faccia a mio padre, senza neppure conoscerlo». Oggi però Casalegno dice che «quell’intervista fu sopravvalutata. Sì, molti fanno risalire ad allora la propria presa di coscienza. Però quella notte le co­pie del giornale furo­no bruciate davanti ai cancelli di Mirafiori.

Ricordo la sorpresa con cui fu annotata la commozione degli amici di papà al suo capezzale: ci si stupi­va nel notare che gli azionisti torinesi non erano esponenti della borghesia marcia e ipocrita, che erano uo­mini come noi». Gio­vanni De Luna ha rav­visato un tratto comu­ne, ad esempio nel moralismo, tra gli azionisti torinesi e i militanti di Lotta con­tinua. «Una parentela c’era, anche in senso tecnico – dice Casale­gno - . Molti di noi, da Revelli a Gobetti ad Agosti, eravamo figli o nipoti di azionisti, così come altri veniva­no da famiglie comu­niste. Ma i nostri pa­dri si erano battuti contro nazisti e fasci­sti, ed erano nel giu­sto. Noi ci siamo bat­tuti per la rivoluzione, ed eravamo nel torto.

Molti però sono tutto­ra convinti di aver sempre avuto ragio­ne, sia all’epoca sia og­gi che magari lavora­no per il nostro presi­dente del Consiglio o militano nel suo cam­po. Invece abbiamo commesso errori terribi­li. E non lo dico perché sono il figlio di una persona assassinata. Certo è impossibile ar­rivare a una memoria completa, ma non dobbiamo smettere di esercitare la riflessio­ne critica, la ricerca storica. Sono contrario a colpi di spugna, a una presunta pacificazio­ne per chiudere una guerra che non è mai esistita. La penso come il figlio del giudice Galli, assassinato nell’80 da Prima Linea, l’organizzazione terroristica nata dal servi­zio d’ordine di Lotta continua: sono contra­rio a film come quello che getta una luce ac­cattivante su Sergio Segio, che di Prima Li­nea fu uno dei capi. Tutto è lecito, ma non tutto è opportuno».

Aldo Cazzullo

03 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO. «Ineccepibile la scelta di Rutelli, Casini addio»
Inserito da: Admin - Novembre 09, 2009, 11:32:55 am
Colloquio

«Ineccepibile la scelta di Rutelli, Casini addio»

Tabacci: il leader udc si è riavvicinato a Berlusconi, io non ho nulla a che fare con Arcore


MILANO — Casini addio. Bruno Tabac­ci ha passato la domenica a casa del figlio, a Milano, a scrivere le lettere di dimissioni dall’Udc e dalla vicepresidenza della com­missione Bilancio. Per il momento va nel gruppo misto, in attesa di costruire il nuo­vo grande partito di centro.

«C’è stata un’accelerazione, di fronte a cui non si può restare indifferenti. Non ho alcun intento polemico verso Casini: cre­do che il suo riavvicinamento a Berlusconi sia tattico, non strategico; ma ovviamente non è questa la mia posizione. Non penso che tra Berlusconi e Casini sia stata sanata la rottura del febbraio 2008. Allora ero can­didato alla presidenza del Consiglio per la Rosa Bianca, e rinunciai, senza porre con­dizioni. Ora le cose sono cambiate. Invece di tergiversare, in questi mesi Casini avrebbe dovuto accelerare la costruzione di un nuovo partito, superando l’Udc e gli sforzi sia pure apprezzabili per la costi­tuente di centro. Mi auguro che con Pier Ferdinando ci si possa ritrovare più avan­ti; prima o poi, pure lui dovrà ricollocarsi al centro nell’orizzonte di un partito comu­ne; anche perché immagino che ad Arcore non caverà un ragno dal buco. Io comun­que con Arcore e dintorni non intendo ave­re nulla a che fare».

Il centro che verrà, dice Tabacci, dovrà essere «distante e alternativo al populi­smo di Berlusconi e della Lega, anche se certo non agli elettori di quello schiera­mento mediaticamente ancora irretiti». E dovrà essere «un’alleanza dinamica, aperta al dialogo tra laici e cattolici, di­stinta ma attenta all’evoluzione della sini­stra politica e del Pd». Tabacci guarda ov­viamente a Rutelli e agli scontenti del Pd: «La definitiva collocazione del Parti­to democratico di Bersani nell’alveo del socialismo europeo è coerente con l’evo­luzione del filone postcomunista italia­no, molto meno per gli altri che non pos­sono cancellare la loro storia. In questo senso l’iniziativa di Rutelli è motivata e ineccepibile. Bersani fa il suo mestiere, ma noi dobbiamo fare il nostro». Che succede domani? «Ho chiesto a Pez­zotta da giorni di riunire gli amici della Ro­sa Bianca per condividere questi passaggi. Chiederò l’iscrizione al gruppo misto, in­crociando alcuni colleghi che sono già là: penso a Giulietti che arriva dall’Italia dei valori e alle rappresentanze regionali co­me quelle di Raffaele Lombardo — un’al­tra forza in movimento almeno in Sici­lia — con cui ho dialogato al momento delle incursioni leghiste sui fondi Fas. Sono certo che molti arriveranno: Ca­learo, Pisicchio, Lanzillotta, Vernet­ti; e parecchi altri. Io comunque parlo per me. A giorni si vedrà lo spazio per un’iniziativa politica e parlamentare adeguata, con Rutelli e Dellai, la cui traccia potrebbe essere il Ma­nifesto per il cambiamento e il buongover­no sottoscritto nei giorni scorsi».

Tabacci è convinto che il Paese stia vi­vendo un’ora decisiva, esposto all’offensi­va finale del berlusconismo. «Non è il mo­mento di tatticismi. Bisogna buttare il cuo­re oltre l’ostacolo. La commistione inces­sante tra pubblico e privato, l’esaltazione dei conflitti di interesse, una pratica di go­verno in cui il fare confuso soppianta la bussola dell’ideale, hanno ridotto ai mini­mi termini lo spirito etico della politica ita­liana. E ora si vorrebbe imporre un assetto presidenziale senza contrappesi, sul model­lo della Russia di Putin, e stravolgere l’equi­librio dei poteri, ponendo il legislativo e il giudiziario in capo al governo. Così non si dà il potere al popolo; così lo si spoglia, la­sciandolo indifeso. Preferisco di gran lunga un modello parlamentare certo più sobrio di quello attuale, che rappresenti le articola­zioni della nostra società. La mia opposizio­ne sarà intransigente. Oggi Berlusconi ricat­ta sulla giustizia; poi verrà il resto».

Alla riforma della giustizia del Pdl Tabac­ci proprio non crede. «Io ho provato sulla mia pelle gli eccessi della magistratura. Mi sono assunto le mie responsabilità, pure quelle che non avevo. Sono rimasto fuori dalla politica per sette anni, dal 1994 al 2001. Ma non voglio certo essere 'vendica­to' da Berlusconi, né gli riconosco alcun titolo a farlo. Ricordo bene quegli anni. Ri­cordo le monetine dei comunisti, le manet­te dei fascisti, il cappio dei leghisti. Ricor­do il ruolo di Violante con le Procure e del­la Finocchiaro nella commissione per le autorizzazioni a procedere. Ma ricordo an­che le tv di Berlusconi, con Emilio Fede che promuoveva il giovane Brosio a leader del marciapiede d’oro, in attesa davanti al Palazzo di Giustizia dell’ultimo avviso di garanzia. E ricordo che il primo atto di Ber­lusconi in politica fu di offrire l’Interno a Di Pietro e la Giustizia a Davigo. Appogge­rei e avrei appoggiato in tutti questi anni una riforma della giustizia che toccasse i cuori e gli interessi dei cittadini: si può ar­rivare alla divisione delle carriere, si devo­no accelerare i processi; ma per risponde­re a chi ha sete di giustizia, non per rincor­rere i processi di Berlusconi». Si candiderà alla Regione Lombardia? «Non ho certo fatto una mossa per suggeri­re una mia candidatura, che vedo molto lontana dalla mie condizioni esistenziali — risponde Tabacci —. Il presidente della Lombardia l’ho fatto più di vent’anni fa. Uno dei motivi della mia critica all’Udc è il sostegno a Formigoni, alla logica di potere di Cl in connessione con la Lega. Dico no al quarto mandato, all’'Impero' di Formi­goni, che ci ha dato i disastri di Malpensa e dell’Expo; e pure sulla sanità ci saranno molte cose da dire. Non ho mire personali. Voglio contribuire a lanciare un appello esemplare e credibile alla coscienza civile del popolo. Siamo nel mezzo di una crisi economica strutturale: se ne esce con rifor­me profonde, con un nuovo patto fiscale che saldi il rilancio economico alla redistri­buzione di una ricchezza che non può re­stare così sommersa. Non si può andare avanti con il 28% dell’economia in nero. Non servono i tagli lineari di Tremonti, che trattano alla stessa maniera cose diver­se; serve un’incisione rigorosa sulla quali­tà della spesa pubblica. Sono molto preoc­cupato per il Paese. Ma sono convinto che il mio stato d’animo non sia isolato. Per questo è necessario testimoniarlo».

Aldo Cazzullo

09 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO. Veltroni: dobbiamo rinnovare profondamente la nostra classe ...
Inserito da: Admin - Novembre 15, 2009, 10:44:29 pm
L’intervista -

L’ex SEGRETARIO: in questi mesi ho taciuto di fronte a cose insopportabili

«Torno a partecipare alla vita del Pd»

Veltroni: dobbiamo rinnovare profondamente la nostra classe politica al Sud


Walter Veltroni, lei non ha anco­ra commentato la vittoria di Bersa­ni.
«Era nell’ordine delle cose che po­tesse accadere. Il risultato va letto più in profondità. Le primarie sono andate bene: chi sosteneva che non si elegge così un segretario di partito aveva torto. Però sarebbe sbagliato nascondersi che è diminuito il nume­ro dei votanti, in un momento di scontro con Berlusconi molto più for­te che nel 2007, quando c’era il gover­no Prodi. Non c’è dubbio che ci siano stati meno entusiasmo, meno carica, meno partecipazione di giovani. Det­to questo, le primarie si rispettano».

Quindi lei resta?
«Ho detto che rispetto le primarie e il loro risultato. Rutelli se n’è anda­to. D’Alema ha dichiarato che in caso di vittoria di Franceschini avrebbe dovuto fondare un nuovo partito di sinistra. Io credo nel Pd, ci credo da sempre, anche quando tanti irrideva­no questa prospettiva. L’ho fondato. Il mio posto è qui. In questi mesi, per amore del Pd, ho taciuto anche di fronte a cose insopportabili. Vedo che ora si ricorre alle 'veline rosse', fogli secondo cui starei per andarme­ne dal mio partito. È un mondo che mi fa tristezza, che non frequento; so­no abituato a dire le cose in prima persona. Domani ci sarà la direzione del partito e andrò, con lo stesso spi­rito sereno di questi mesi. Avevo det­to che sarei rimasto fuori dalla fase congressuale, e l’ho fatto. Ora la fase congressuale è finita, e riprenderò a partecipare alla vita del Pd».

Cosa si attende da Bersani?
«Bersani è un segretario rispettato da tutti. Da me, che conosco le diffi­coltà di quel lavoro, lo sarà più che da altri. Spero che rispetti tutte le opi­nioni. Io vinsi le primarie con il 76%, e certo non ho dato al partito una conduzione solitaria: negli organi di­rigenti era rappresentato ogni orien­tamento, e le decisioni sono state pre­se senza dissensi. Bersani è stato elet­to con il 53%; il 47% non ha votato per lui. Sono convinto che la sua in­telligenza lo spinga a capire che il Pd va diretto rispettando le identità, le culture, le differenti posizioni. C’è bi­sogno di un Pd unito».

Che impressione le ha fatto l’ad­dio di Rutelli?
«Non lo condivido affatto. Ma non condivido neppure le reazioni. Non mi piace che aleggi, come nei tempi andati, l’accusa di tradimento. Quan­do sento definire un uomo indipen­dente come Calearo 'uno che ha sba­gliato ristorante', riconosco uno stile che credevo superato con la coraggio­sa svolta di Occhetto di vent’anni fa. Ma fa pensare anche sentire Tabacci, fino a ieri favorevole all’elezione di Bersani, dire oggi che con Bersani il Pd è troppo a sinistra. È come se si volesse far arretrare il Pd in un recin­to più tradizionale per fare spazio a posizioni centriste. Io resto fedele al progetto originario».

E invece?
«Il rischio è che si ritorni allo sche­ma del centrosinistra col trattino. Il modello in verità non è l’Ulivo, per­ché l’Ulivo del ‘96 è diventato nel frat­tempo il partito democratico. Il mo­dello è l’Unione: coalizzare tutte le forze contrarie alla destra per impe­dirle di vincere le elezioni. Bene; ma poi? Così si costruiscono governi che faticano a stare in piedi. Senza una maggioranza riformista coesa non si cambia l’Italia, non si fanno la rivolu­zione verde, la lotta all’evasione fisca­le e alla precarietà, la battaglia per la legalità. E non si porta l’Italia fuori dalla guerra civile permanente».

Guerra civile?
«Quale altro paese ha avuto vent’anni di fascismo, la guerra fred­da con i morti per le strade, il terrori­smo, Tangentopoli, 15 anni di berlu­sconismo, con l’elemento permanen­te della mafia, delle stragi, di un gru­mo di oscurità? Quale altro paese pas­serebbe sotto silenzio la denuncia del procuratore Grasso, che all’Anti­mafia ha detto di vedere dietro le stragi del ’92 la 'regia di un’entità esterna'?».

Quale entità esterna, secondo lei?
«Ci sono processi in corso; l’ulti­ma cosa che farei è interferire in un processo. Leggeremo le testimonian­ze. Certo c’è un rapporto tra mafia e politica. C’è una cappa di piombo che si preferirebbe non sollevare. Ve­do che Maroni e Bassolino concorda­no nel dire che il video dell’omicidio di Napoli non andava mostrato; inve­ce è giusto mostrarlo, perché ci ha da­to quella che Gadda chiamava la co­gnizione del dolore, e dell’indifferen­za. In campagna elettorale io dicevo che avrei schiantato la mafia, Berlu­sconi diceva che Mangano è un eroe. Sono segnali. Messaggi che si manda­no, come candidare o meno Cosenti­no. Ma la lotta alla mafia chiama in causa anche il Pd. Dobbiamo rinnova­re profondamente la classe politica al Sud, a partire dalle regionali. Facce nuove, energie nuove, prese anche dalla società civile. Uomini come Raf­faele Cantone, il magistrato che ha combattuto la camorra in Campa­nia» .

Gli uomini che lei scelse dalla so­cietà civile non l’hanno delusa?
«Ricordo quando Berlinguer portò in Parlamento Natalia Ginzburg, Gi­no Paoli, Andrea Barbato, Altiero Spi­nelli, Alberto Moravia; personaggi che oggi sarebbero accolti dal sorri­setto ironico dei professionisti della politica. Io rivendico di aver portato in Parlamento Pietro Ichino, Umber­to Veronesi, Achille Serra, Salvatore Vassallo, il prefetto De Sena, intellet­tuali come Carofiglio, donne e uomi­ni che si battono per i diritti civili co­me Paola Concia e Jean-Léonard Touadi, imprenditori come Calearo e Colaninno, un operaio con una robu­sta intelligenza politica come Boccuz­zi... » .

Rivendica pure la Madia?
«Mi fa piacere che si parli bene di Marianna Madia, e la si trovi intelli­gente e colta, ora che pare non so­stenga più le mie posizioni. Io la sti­mavo prima e la stimo ora».

Lei ebbe un ruolo anche nella scelta di Marrazzo. Cosa prova ades­so?
«Più che lo sconcerto politico per questa intricata vicenda, provo dolo­re per la persona e per la famiglia. Ciò non implica che sia sbagliato sce­gliere persone che non vengono dal­la politica. Ricordiamoci delle perso­ne che vengono dalla politica e si so­no macchiate di frequentazioni crimi­nali» .

Perché Prodi ce l’ha tanto con lei?
«Psicologicamente lo capisco, ma il rapporto di stima tra noi non è mai cambiato. Prodi è stato convinto che il voltafaccia di Mastella sia stato pro­dotto dalla scelta, espressa al Lingot­to, della vocazione maggioritaria del Pd. Ma ci si dimentica della fatica quotidiana di quel governo. Dei cen­to sottosegretari, della crisi dopo un anno, della maggioranza appesa al re­spiro di Turigliatto, delle manifesta­zioni in piazza di ministri contro il governo, della riduzione drastica del consenso, della sentenza di un socio di maggioranza come Bertinotti che parlò di una fase politica conclusa. E poi quanto è accaduto dopo lascia credere che Mastella avesse matura­to il proposito di passare dall’altra parte. Proposito realizzato».

La 'vocazione maggioritaria' non ha forse fallito?
«No. Non ho mai pensato all’auto­sufficienza del Pd. Pensavo, e penso, che il Pd debba costruire una maggio­ranza riformista. Posso ricordarle un dato che a molti sfugge? Nel 2008 la coalizione riformista ha preso gli stessi voti del Pdl. Nel ‘96 vincemmo perché la Lega andò da sola e avem­mo bisogno della desistenza di Rifon­dazione. Nel 2008 i riformisti hanno preso gli stessi voti della destra: mai accaduto prima nella storia d’Italia. Ora Rutelli dice: mi metto fuori e con­tratto. E in Sinistra e libertà affiorano venti di scissione. Ma se questa idea si fa strada si torna alla frammenta­zione, ai 19 gruppi parlamentari».

Il Pd non dovrebbe accettare il confronto sulle riforme, a comincia­re dalla giustizia?
«Anche questa legislatura a mio av­viso è ormai sprecata. Il mio schema era quello delle democrazie occiden­tali: maggioranza e opposizione se le danno di santa ragione, ma le rifor­me istituzionali si fanno insieme. Raf­forzare il potere di controllo del par­lamento, dimezzare il numero dei parlamentari e ridurne le retribuzio­ni, superare il bicameralismo a favo­re di una democrazia che decide non è un favore a chi governa. Siamo noi per primi che abbiamo interesse ad evitare il degrado delle istituzioni. Ma Berlusconi non vuole le riforme; vuole risolvere i suoi problemi. Non ci sono già più le condizioni per l’ac­cordo » .

Cosa pensa dell’ipotesi di D’Ale­ma ministro degli Esteri dell’Ue?
«Le nostre profonde differenze po­litiche sono note, e si sono accresciu­te. Questo non mi impedisce di vede­re che la nomina di D’Alema sarebbe un’opportunità per l’Europa, per il paese e per il centrosinistra. Mi augu­ro vada in porto».

Dalla Lanzillotta a Vernetti, chi la­scia il Pd lamenta che non sia stata seguita la linea di Veltroni. È in cor­so la sua riabilitazione?
«So come va il mondo. Leggo che l’onorevole Marini si rallegra che il Pd non sia più un 'partito frou-frou'. Da lui mi sarei atteso sem­mai qualche parola di autocritica sul voto in Abruzzo. Sono fiero della campagna del 2008, di essere stato in 110 piazze, quasi rimettendoci la sa­lute. Sono stato a pranzo con le fami­glie italiane, ho girato il paese tenen­domi agli antipodi dalla politica spet­tacolo. Ho lasciato, dopo la grande manifestazione del Circo Massimo (altro che partito liquido), un Pd con centinaia di migliaia di iscritti e un bilancio splendido. Soprattutto, cre­do di aver destato una speranza che non è ancora spenta. L’Italia oggi è un paese triste. Ma è anche un paese straordinario, pieno di talento e di energie. Un paese che potrebbe sboc­ciare. Io sento il dovere di continuare a servire il paese che amo. Di tenere vivo quel sogno che volevamo realiz­zare, e a cui insieme non possiamo rinunciare».


Aldo Cazzullo

15 novembre 2009
da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO. Che tristezza quegli outlet
Inserito da: Admin - Gennaio 05, 2010, 10:16:24 pm
PIAZZE, CENTRI E VOLTI DI UN PAESE

Che tristezza quegli outlet


L'allarme a Newark per un uomo che salta i controlli a coda dei milanesi all’outlet di Serravalle, dove i saldi non erano ancora iniziati, con il centro di Milano semideserto tranne corso Buenos Aires e via Montenapoleone, dove i saldi c’erano già, è un dato che va oltre la cronaca. Segna la definitiva trasformazione del centro commerciale in piazza, città, posto non solo di commercio, ma anche di incontro.
Non ha più senso chiamarli «non luoghi». Non sono spazi artificiali dove non si depositano memoria e identità. Sono, soprattutto per i giovani, ma ormai pure per le famiglie, i nuovi luoghi della vita, che stanno sostituendo quelli — appunto il centro storico, la piazza, il paese; ma anche la chiesa, lo stadio, il cinema — dove i nostri padri per secoli si sono conosciuti, parlati, amati, magari imbrogliati.

Non a caso, da Fidenza a Valmontone, da Noventa Piave a Mantova, i centri commerciali che hanno fatto i migliori affari d’inizio 2010 si chiamano outlet. Non a caso, sono costruiti come paesi finti, come borghi medievali posticci, con le mura, le porte, le fontane e le botteghe, dove portare il cane a passeggio, i bambini a giocare, e la moglie (o il marito) a prendere con 99 euro il maglione di cachemire che fino a qualche giorno fa in centro ne costava 400. Outlet, che in inglese vuol dire tutt’altra cosa, è parola-chiave dell’Italia di oggi. Non indica solo il centro commerciale divenuto città nuova. È metafora della svendita. Simboleggia la mercificazione dei valori.
Può significare il degrado dei rapporti umani, un tempo in cui tutto può essere comprato e venduto, con la rapidità di chi considera la conversazione una perdita di tempo e la cortesia un segno di debolezza.

Non è detto però che questa profonda trasformazione sia negativa. Certo coincide con una perdita. La piazza è un tratto distintivo della nostra civiltà: non esiste nella cultura araba, dove la città prende forma attorno al commercio e i suq sono centro commerciale ante- litteram; né in quella americana, dove i «mall» sono da sempre passatempo preferito e primo luogo di aggregazione. Ma serve davvero a poco rimpiangere il buon tempo andato; anche se va tenuto a mente che i denari spesi nel negozietto sotto casa restano all’interno della comunità anziché finire alle multinazionali. Né è utile ripeterci che le città italiane sono le più belle del mondo; il che è vero, ma dovrebbe essere uno sprone più che una consolazione. Serve di più rendere i centri storici «competitivi» con i centri commerciali: sicuri, facili da raggiungere, attraenti anche il tardo pomeriggio e la sera, grazie a quelle ricchezze — l’arte, la musica, il teatro, financo la preghiera—che nelle nostre città si forgiano da secoli, e che gli outlet (a Serravalle suonano cantautori e jazzisti, a Roma Est la domenica si celebra la messa) possono al più riprodurre. I segnali di vita non mancano. La Bocconi e le vie attorno, la sera dopo il pacco-bomba del 16 dicembre, erano piene di giovani per l’inaugurazione di una mostra. Venezia discute su come salvare le sue botteghe.

I commercianti della capitale pensano a saldi più frequenti, a ogni fine stagione.

E forse riusciranno anche a risolvere il giallo del maglione di cachemire che ieri costava 400 euro e oggi 99.

Aldo Cazzullo

05 gennaio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO. Mio padre Craxi e quei fondi del Psi
Inserito da: Admin - Gennaio 12, 2010, 09:53:29 pm
La figlia - Stefania: lui sbagliò a non capire quanto fosse corrotto il partito

«Mio padre Craxi e quei fondi del Psi»

«Si fidò di persone sbagliate, era un uomo solo e morì in povertà»


«Il tesoro di Craxi non è mai esistito. Mio padre è morto povero. Sbagliò a fidarsi». I ricordi di Stefania Craxi, figlia del leader del Psi morto nel 2000: «Il vero errore di Bettino? Non accorgersi di quanto fosse corrotto il partito. Il Pd rivedrà la sua posizione. Bersani venga ad Hammamet sulla tomba di papà, lo invito».

«Eravamo soli in casa, io e lui. Si era alzato da tavola esclamando: "Di’ al tuo amico Boselli che noi socialisti non potremo mai andare con i comunisti". Poi mi disse che sarebbe andato a dormire, e di preparargli un caffé. Lo trovai riverso sul letto: "Papà, non stai bene?". Fu allora che rovesciò gli occhi».

Stefania Craxi parla senza lacrime né rabbia. «È cambiato tutto, lo so. Ad Hammamet verranno tre ministri importanti: Frattini, Sacconi, Brunetta. Milano e Roma avranno una via Craxi. Pure a sinistra qualcosa si muove. Ma vedo anche tornare le vecchie bugie. "Quando Craxi si beveva Milano". "Il tesoro di Craxi"». Solo bugie? «Il tesoro di Craxi è unamaxiballa. Non è mai esistito. Esisteva il "tesoro" del partito: i conti esteri del Psi. Mio padre non se n’era mai occupato. Dopo la morte di Vincenzo Balzamo, l’amministratore, la sua segreteria comunicò a Bettino i numeri di alcuni conti esteri del Psi, quelli che supponevano lui conoscesse: i conti del partito di Milano. Quindi solo una piccola parte del totale, visto che nel partito c’erano ras e correnti e ognuno badava a se stesso. Mio padre mandò la busta al nuovo segretario, Giorgio Benvenuto. Che gliela rimandò indietro. Lo stesso fece il successore di Benvenuto, Ottaviano Del Turco. A quel punto Craxi passò i riferimenti a persone di cui pensava di potersi fidare». Maurizio Raggio? «Raggio, e altri. Mal gliene incolse. Ma mio padre era un uomo solo. In quel clima di intimidazione, era facile commettere errori. E anche lui ne commise. Il finanziamento illegale genera corruzione; e il suo vero errore fu non accorgersi di quanto fosse cresciuto il livello di corruzione nel partito. Ma il finanziamento illegale non comincia certo con Craxi. Fino al 1957, il Psi era finanziato dai comunisti. Poi, quando Nenni rompe con Togliatti, attraverso l’allora amministratore Lami stringe un accordo con l’Eni. Poi, dal ’63 in avanti, il Psi — allora amministrato da Talamone — viene finanziato dalle grandi aziende pubbliche, come la Dc. Nel ’76 Craxi trova un sistema oliato da anni. Per lui il denaro era un’arma per la politica, anche per fronteggiare il Pci, finanziato da una potenza nemica. Non a caso, è morto povero».

Povero? «A Milano stavamo in affitto; infatti non abbiamo più casa. Papà non ha mai chiesto un’auto alla prefettura: il sabato lo portava in giro Nicolino, un immigrato calabrese, con la macchina della mamma, che andava a fare la spesa in tram. Avevamo la cameriera a ore, non fissa: perché non chiedete a lei com’era il nostro tenore di vita? Il sabato sera in trattoria. D’estate ad Hammamet, quando non c’andava nessuno: il terreno della casa ci costò 500 lire l’ettaro ». E voi figli? «Mio fratello e io siamo usciti di casa con i vestiti che avevamo addosso. Quel che ho, lo devo al lavoro mio e di mio marito: e ci sono stati anni in cui alla Rai non mi rispondevano al telefono e la banche ci ritiravano i fidi. Quanto a Bobo, ha il mutuo da pagare».

«Certo, a Milano il denaro girava. Nei famigerati Anni ’80 la gente usciva, andava al ristorante. La città spodestava Parigi come capitale della moda. Ma dov’è il vulnus democratico? L’economia italiana superava quella inglese e cresceva più di tutte in Europa. Sono andata a rileggermi la relazione dell’87 del governatore di Bankitalia, Ciampi, che definisce l’aumento del pil "il risultato ultimo dell’azione del governo Craxi". Il debito pubblico è un’eredità del consociativismo Dc-Pci, non sua. Tra l’83 e l’87 il disavanzo primario scese dal 16,3% al 12,5: il debito aumentò per effetto degli interessi e dell’inflazione, che peraltro fu domata». Restano le condanne. «Due. Entrambe dichiarate illegittime dalla Corte di Strasburgo. Nel processo Eni-Sai, la posizione di mio padre fu stralciata insieme con quella di Aldo Molino, che mi disse testualmente: "Non capisco cosa c’entri Craxi con questo processo". La condanna per la metro milanese fu bocciata dalla Cassazione in quanto "il principio del non poteva non sapere non può essere motivo di prova". Non sta a Craxi dire il motivo per cui in seguito la condanna fu riconfermata. Voglio ricordare che con la metro di Milano si sono finanziati tutti i partiti. E anche la Curia». La Curia? E in che modo? «Nello stesso modo degli altri. Ci sono diverse testimonianze in merito».

Dice Stefania di essere convinta che «prima o poi il Pd rivedrà la sua posizione. I segni ci sono. Veltroni è venuto a un convegno della Fondazione Craxi a tessere le lodi della sua politica estera. D’Alema riconosce che i Ds sbagliarono a seguire l’ondata giustizialista. Eppure, in questi giorni il silenzio del Pd è imbarazzante. Chiedo a Bersani di romperlo. Faccia un gesto di coraggio. Venga ad Hammamet sulla tomba di mio padre. Lo invito. Lo aspetto. In fondo, Bettino è stato un grande leader della sinistra italiana ed europea». Sua figlia però è sottosegretario nel governo Berlusconi. «Berlusconi e mio padre hanno due profili molto diversi. Ma erano due innovatori, e sono stati combattuti dai conservatori. Scorra l’elenco degli avversari di Berlusconi: sono gli stessi di Craxi». Berlusconi è alleato della Lega, il partito del cappio in Parlamento. «La Lega urlava in piazza. Ma ha responsabilità molto meno gravi di chi manovrava le procure. La verità è che dalla disgrazia di mio padre hanno tentato di trarre profitto in molti. Anche tra i suoi compagni». Si riferisce a Martelli? «Non vorrei parlarne. Quando dice che "fu Craxi a tradire me" rasenta l’impudenza». Amato? «Ho un buon rapporto con Giuliano, ma non gli si può chiedere quel che non ha». Violante? «Da lui attendo delle scuse, per come descrisse la mia famiglia in quei giorni ». D’Alema? «Deve ancora spiegare perché offrì a un "latitante" i funerali di Stato, e non la possibilità di farsi curare in patria». Ma Berlusconi fece tutto il possibile per aiutarlo? «Tra loro ci fu un’amicizia sincera. A parti invertite, mio padre avrebbe avuto il coraggio di prendere un aereo e andarlo a trovare. Lui non lo fece. Non dimentico però che i socialisti della sottomissione, che sono andati a sinistra, hanno fatto una triste fine, da ultimo Del Turco; nel governo Berlusconi occupano ministeri-chiave, e nessuno si definisce "ex socialista". Tanto meno io, che mi ritengo una donna di sinistra».

Ad Hammamet, Stefania ritroverà memorie familiari, anche dolorose. «Con mio fratello Bobo non andiamo d’accordo, è vero. Ma è mio fratello. L’unico che ho. Vorrei che i giornali avessero almeno ora per noi il rispetto che non ebbero quando Bettino era vivo. Di lui ho un ricordo molto dolce. Non che in casa fosse meno brusco, anzi. Ma era sensibile, attento. Facile alla commozione. Quando andavamo a trovare la nonna al Musocco, ci portava sempre sulla tomba degli uomini di Salò: trovava vergognoso che non avessero nome, e lasciava fiori sulle uniche lapidi conosciute, quelle di Luisa Ferida e Osvaldo Valenti. Era affascinato dalla storia da Mussolini, e un giorno a Dongo deponemmo fiori sotto la targa che ne ricorda la fucilazione, derubricandola a "fatto storico": "Che ipocrisia", commentò». E le altre donne di suo padre? «Da ragazza ne ero gelosissima. Da adulta ho capito che un matrimonio può contenere altri rapporti di affetto. Lui piaceva anche quand’era giovane; segno che il suo fascino non era legato solo al potere. Era facile da sedurre e difficile da tenere; mia madre ha saputo tenerlo, e io le invidio la capacità di perdonare». Il clima è molto cambiato, riconosce Stefania. «Ma non dimentico la frase che mi disse mio padre al risveglio dall’operazione, un mese prima di morire: "Ho sognato che ero a Milano, in piazza Duomo". Non dimentico che i miei figli, per portare un fiore sulla tomba del nonno, devono attraversare il mare. Quanto a me, mi piace ricordare un proverbio arabo: quel cucciolo è figlio di quel leone».

Aldo Cazzullo

12 gennaio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Anna Craxi: vivo nella nostra casa sulla collina e riposerò con lui
Inserito da: Admin - Gennaio 14, 2010, 02:23:40 pm
«NOn tutti ci credettero quando dissi che sarei rimasta ad hammamet»

«Tra me e Bettino una promessa: il suo corpo non tornerà mai in Italia»

Anna Craxi: vivo nella nostra casa sulla collina e riposerò con lui
 

HAMMAMET (TUNISIA)— Craxi lo seppellirono su un furgone Transit, dentro una fossa scavata nottetempo nella sabbia, sotto le mura della medina di Hammamet. Nella concitazione del funerale, un fotografo ci cadde dentro, lo tirarono fuori i colleghi a braccia. La bara era troppo piccola per il suo corpo: dovettero togliere il rivestimento di zinco per poterla chiudere. Dieci anni dopo, domenica prossima, verrà qui a onorarlo mezzo governo. Il suo migliore amico è presidente del Consiglio. La sua città gli dedica una via. Rino Formica e altri propongono di riportarlo in Italia. Lui però è ancora qui, tra le tombe di coloni francesi del secolo scorso e la lapide di un bambino che «visse tra due crepuscoli».

«E qui Bettino resterà, come lui stesso ha stabilito. Per me non è cambiato nulla. Ho tenuto fede a quanto dissi allora: sono rimasta ad Hammamet, sono diventata cittadina della Tunisia. Vede quella lapide, vicina a quella di mio marito? È di mia madre, Giuseppina. Ha vissuto con me fino a quando non è morta, qui, nell’agosto del 2008, a 98 anni. Vede quello spazio accanto a Bettino? È per me. L’abbiamo tenuto libero in tutti questi anni. Ce lo siamo promessi quando vedemmo per la prima volta questo cimitero, nel 1967: un domani riposeremo insieme». Anna Craxi viene qui quasi ogni giorno, in silenzio. Non ha dato interviste per questo anniversario, né lo farà. «Non tutti ci credettero, quando dissi che non sarei tornata in Italia. Invece vivo nella nostra casa sulla collina, con la sua pensione da parlamentare: 5.127 euro. Non ci credevano neppure quando Bettino diceva che sarebbe tornato solo da uomo libero. Era una persona di parola, mio marito. Non potevo essere da meno». Dieci anni fa si celebrarono le esequie di un uomo in disgrazia. Funerali di Stato; ma dello Stato tunisino. Berbere le divise del picchetto d’onore. Litanie in arabo. Al governo c’era D’Alema, che mandò Minniti, Dini e Angius: entrarono in chiesa cinque minuti dopo l’inizio ma furono notati lo stesso e presi a monetine, come Craxi sotto il Raphael. Uno che c’era allora e tornerà adesso, Fabrizio Cicchitto, racconta che pareva di essere tra reduci di Salò: una rabbia da esuli in patria. Volti noti alle cronache — Giallombardo, Mach di Palmstein, Renato Squillante, Del Turco, La Ganga —, giornalisti amici — Onofrio Pirrotta, Alda D’Eusanio stretta a Mengacci— e una piccola folla di assessori, amministratori della Metro milanese, dirigenti siciliani del Psi che nella caduta del capo avevano visto il segno della propria disgrazia. Da quel giorno, al cimitero sono stati raccolti 25 registri zeppi di firme. Migliaia di italiani sono stati sulla tomba di Craxi. Qualcuno lo maledice, altri gli chiedono perdono. Chi invoca la punizione divina su Borrelli, chi sui comunisti. Gli rimproverano Berlusconi e lo ringraziano per Berlusconi.

Dieci anni fa, al cimitero, Berlusconi piangeva con le lacrime. Al suo fianco c’era anche Veronica, che — ricorda Anna Craxi— negli anni dell’esilio telefonava ogni sera. Berlusconi chiamava di rado, sempre dall’estero, per paura delle intercettazioni. Dice oggi Bobo, che ad Hammamet ha passato le vacanze di Natale: «La guerra del Cavaliere non è la nostra. La nostra guerra è finita con la morte di papà. Il paragone è improponibile: Berlusconi è il padrone d’Italia, non ha nulla da temere; Craxi era solo contro i giudici. Io ho cercato di tenerne viva l’eredità salvando un piccolo partito socialista. Non ci sono riuscito. Ricordo quando con De Michelis andavamo ai vertici di maggioranza, tra il 2001 e il 2006: ci trattavano con sufficienza, come intrusi; l’unico cortese era Fini. Da questo anniversario non mi attendo nulla, fuorché le parole di Napolitano. Ho parlato spesso con lui, nei due anni che sono stato nel governo Prodi. Credo che il capo dello Stato dirà cose destinate a lasciare il segno». La casa sulla collina è quasi come l’ha lasciata lui. La piscina senz’acqua, i cimeli di Garibaldi, il busto del Duce, una delle false teste di Modigliani omaggio dei burloni livornesi, il ritratto di Anna vestita di rosso. Qualche ospite ha creduto di riconoscere un quadro di sua proprietà e ha intentato una causa per ricettazione. Foto di Stefania bambina sul pony e di Craxi gigantesco con una lady Diana quasi intimidita; Bobo in divisa da recluta dell’Aeronautica, Reagan con il cappello da cow-boy. Ricorda la signora Anna che, una delle prime estati, quando i figli erano piccoli e vedevano le vacanze nella Tunisia preturistica come un incubo, il marito inventò una caccia al tesoro, animata da un personaggio immaginario: Axi. Ogni sera Axi lasciava un biglietto con l’indicazione per il giorno dopo. Stefania ha conservato l’ultimo: «Picchi picchi/ siete proprio due bei micchi/ il tesoro è qui a due passi/ e voi due cercate sassi/ il tesor, milioni e rotti/ troverete in via Condotti». Il tesoro— un baule con monete e mani di Fatima portafortuna — era nella condotta dell’acqua, trovata dal rabdomante del villaggio. Poi Hammamet (che è il plurale di «hammam» e quindi significa banalmente Bagni) divenne luogo dell’immaginario. Paolo Rossi cantava: «Dov’è finita la fontana di piazza Castello? Ad Hammamet! » . «Ad Hammamet!» gridava Pecoraro Scanio, futuro ministro, salendo in groppa a un cammello al Gilda on the Beach, dopo aver tagliato la torta per il compleanno di Tangentopoli. Tra il ’94 e il 2000 la casa sulla collina divenne la scena di una vicenda a tratti drammatica, a tratti picaresca. Arrivavano Lucio Dalla dopo un concerto a Cartagine e volenterosi con le presunte prove che Di Pietro era un agente della Cia, Vauro con un sacchetto di terra italiana emilitanti socialisti con caciotte e dolci regionali, Arafat e l’intera giunta di Aulla. Artisti minori dipingevano e scolpivano in veranda. All’ingresso vegliavano le Tigri dei corpi speciali di Ben Alì: un giorno — ricorda Bobo — riferirono con toni da cospiratori di «un italiano sorpreso mentre preparava un attentato a Craxi, che aveva detto di chiamarsi Scalfaro o Scalfari. Ci facemmo due risate». Bettino dipingeva vasi tricolori, mandava fax ai giornali anche di notte e scriveva furiosamente: un giallo, Da Parigi a Hammamet, poesie che ora saranno pubblicate, la storia di un martire cristiano in Tunisia rimasta incompiuta.

Poi, a ogni anniversario, si è celebrato qui il rito craxiano. Voli charter con mezza pensione e pernottamento, tutto incluso. Gare di processi tra i pellegrini (la spuntò Giovanni Battista Lombardozzi sindaco di Guidonia: 22 assoluzioni su 22). Antonio Craxi, il fratello, che ne vaticinava la reincarnazione, il sindaco di Aulla che progettava di trafugare la salma. Cene da Achour, il ristorante che ancora espone il suo ritratto. Chokri, il piccolo cui Bettino pagò i denti nuovi, è partito militare. Marcello, il centralinista del Raphael, si è convertito all’Islam: ora si chiama Mohammed, ha sposato una tunisina, gli è appena nato il secondo figlio. Racconta Bobo che il cimitero sotto le mura della medina è diventato anche «il rifugio del capro espiatorio. Il debito pubblico? Colpa di Craxi. Di Pietro? Colpa di Craxi. Berlusconi? Colpa di Craxi. Un giornale importante mi chiamò per informarmi che in realtà Noemi Letizia era figlia sua, e quindi mia sorella: minacciai querela. La tomba di Craxi come una discarica per ogni male della nazione». Forse. Ma anche segno di una storia patria che — sia pure in circostanze imparagonabili — non depone i leader ma li abbatte. Monza, piazzale Loreto, via Caetani. Ferita aperta, pietra dello scandalo, memento di quanto l’Italia sappia essere prima servile e poi crudele.

Aldo Cazzullo

14 gennaio 2010
© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO. Bonino-Polverini, se il gioco si fa duro
Inserito da: Admin - Gennaio 23, 2010, 12:55:01 am
Da «io donna»

Bonino-Polverini, se il gioco si fa duro

Doppia intervista alla segretaria dell'Ugl e all'esponente radicale: entrambe in corsa per la poltrona del Lazio

 

RENATA POLVERINI


Renata Polverini è nella sede del suo comitato elettorale, in via del Corso, con la sua portavoce, Francesca D’Avello, e il consulente della sua campagna, Claudio Velardi. Racconta la sua storia. «Sono rimasta orfana a due anni e mezzo. Papà faceva il fabbro. Se ne andò a trent’anni, per un cancro al pancreas. Mia madre fece tutti i lavori che una donna può fare per mantenere una figlia piccola. Anche l’elettricista».

L’elettricista?
«Faceva le insegne luminose dei negozi. Poi fu assunta alla Rinascente. Un’estate andai per un mese dalle suore, a Focene, per guarire da una bronchite. Strano a dirsi, il collegio mi piacque molto. Rimasi nove anni. Ma ero l’unica bambina che avesse una mamma che una volta la settimana la veniva a prendere».

Sua madre si risposò mai?
«Sì. Con un uomo meraviglioso, Bruno, che chiese a me la sua mano. Siccome sapeva che la mamma viveva solo per me, riteneva di dover avere il mio consenso. Se ne è andato da poco, anche lui dopo una brutta malattia. Nel frattempo mia madre aveva cominciato con il sindacato, la Cisnal, ora Ugl. Dove entrai a 21 anni».

Lei ha detto che per il sindacato ha fatto di tutto, pure pulire i bagni.
«Era un modo di dire che ho fatto la gavetta. Quando non c’erano i fax, portavo i comunicati ai giornali in motorino».

Fino a diventare segretaria generale. È vero che durante la trattativa per Alitalia si imbucava al ministero, infilandosi dietro a Epifani, Bonanni e Angeletti?
«Solo la prima volta. Se ti hanno vista al tavolo all’inizio, non ti possono più lasciar fuori…».

Suo marito è davvero un sindacalista Cgil?
«I giornali ricamano troppo. È stato nella rappresentanza sindacale interna. Ora è dirigente del Montepaschi».

La vostra casa all’Aventino è considerata uno dei salotti più ricercati della capitale.
«Non è così. Faccio una cena di compleanno, il 14 maggio. Ne ho fatta un’altra per Natale, di sole donne. Mi è spiaciuto vedere poi i nomi sui giornali, e pure il menù. Non ne farò altre».

L’Espresso ha scritto che c’erano Lucia Annunziata, Lilli Gruber, Ritanna Armeni, Concita De Gregorio: tutte donne di sinistra.
«È vero. Ma c’erano anche Giorgia Meloni, Flavia Perina, Isabella Rauti. Tutte donne di destra. Il che fa meno notizia».

Con Milena Gabanelli ha avuto una polemica sulle tessere Ugl, che sarebbero molte meno di quelle dichiarate.
«Nessuna polemica. La Gabanelli ha fatto una trasmissione parziale, come nella tradizione di Report. Le tessere Ugl sono quelle comunicate al ministero».

E cioè quante?
«In questo momento non me lo ricordo. Comunque i dati sono pubblici».

Lei è mai stata nel Movimento sociale? Aveva la tessera?
«No. Mai avuto una tessera di partito. Mai fatta politica. Solo sindacato».

Cosa pensa delle vicende estive di Berlusconi e del suo rapporto con le donne?
«Sono una donna e Berlusconi ha con me un rapporto di rispetto e di stima. Mi ha telefonato sia alla vigilia dell’annuncio della mia candidatura, sia al momento del primo comizio. Ha un grande calore umano. Parlo di questo, non di altro».

Che ha rapporto ha con la moda? Novella 2000 l’ha definita una "fashion victim".
«Nessuna ossessione. Credo che vestirsi bene sia importante: una forma di rispetto per gli altri. Ad esempio non mi piace trovarmi davanti ragazze con la pancia di fuori. Non seguo la moda. Faccio la prova dello specchio: se una cosa al primo colpo d’occhio mi piace, la prendo».

Ha uno stilista preferito?
«No. Non sono attenta alle griffe, ma ai colori».

Colore preferito?
«Quelli accesi, decisi, definiti. Il fucsia, il blu, il nero, il bianco. Anche il viola, ma solo quando è di moda; altrimenti si rischiano equivoci».

Perché è contro la pensione a 65 anni?
«Perché la parità non può cominciare da lì. Le donne entrano più tardi nel mondo del lavoro e sono pagate meno. Cominciamo a sanare queste differenze».

Perché in Italia ci sono meno donne che lavorano e si fanno meno figli rispetto alla media europea?
«Perché lo Stato non ci aiuta. Se sarò eletta alla presidenza del Lazio, la famiglia sarà la mia priorità».

Le manca un figlio?
«Sì. Non è stata una scelta».

Ha votato al referendum sulla fecondazione assistita?
«Ho votato. Tre sì e un no, sull’eterologa. Come Fini».

È favorevole all’aborto?
«Io sono per la vita. Non ho mai avuto l’esperienza, ma so che l’aborto è un trauma per qualsiasi donna. Sono consapevole che c’è una legge che lo regolamenta. Vorrei fosse applicata appieno, appunto in difesa della vita e della famiglia».

Cosa pensa della Roma di Alemanno?
«Alemanno si sta muovendo bene contro il degrado, per il decoro. La linea sui campi nomadi è giusta. Ho detto scherzando che gli manderei un sms per raccomandargli, quando va in giro con l’autoblù, di non stare troppo al telefonino ma di guardarsi attorno. Lo dico a me stessa: dobbiamo essere più attenti alla vita quotidiana delle persone».

E della Roma di Veltroni?
«Veltroni è stato un sindaco brillante, ma più concentrato sul côté internazionale anziché sulle cose vicine alla gente».

Qual è il suo giudizio sulla Gelmini?
«Ha dimostrato coraggio. Abbiamo un buon rapporto. Certo, anche l’Ugl ha scioperato contro di lei: prima ha presentato la riforma, poi ha consultato i sindacati. Poi però si è corretta».

E le altre ministre?
«La Carfagna ha fatto leggi importanti, come quella sullo stalking, che non era affatto scontata. La Meloni ha un ambito più specifico, ma mi pare che l’apprezzamento per lei sia generale. La Prestigiacomo ha un ministero molto difficile per una donna, però ha dimostrato di saper dire anche dei no».

E della sua avversaria, Emma Bonino, cosa pensa?
«È una donna che fa politica attiva da tanti anni. Sulla bioetica abbiamo idee diverse. Ma riconosco che Emma ha combattuto battaglie importanti. Ha tutta la mia stima».



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EMMA BONINO


Emma Bonino è nel suo studio di vicepresidente del Senato. Alle pareti, le foto della sua storia: con il Dalai Lama, con Aung San Su Kyi, tra le donne afghane con il burqa.

Come mai si candida alla Regione Lazio, lei che è di Bra?
«Non è una scelta diabolica. Pannella e la Bernardini non possono candidarsi alle amministrative perché condannati per distribuzione pubblica di marijuana. In Piemonte c’è la Bresso, che ha fatto bene e va sostenuta. In Lombardia avevano appena designato Penati. Ho scelto il Lazio, dove vivo da quasi 35 anni. Arrivai a Roma per il congresso radicale del novembre '75. Era atteso Pasolini. Arrivò la sua lettera. Lui era già morto».

Com’è la Roma di Alemanno?
«Con gli stessi problemi di prima, in particolare di mobilità e vivibilità: la condizione dei pendolari è drammatica. Solo un po' meno vivace e aperta».

Com’era la Roma di Veltroni?
«Più viva sul piano culturale, più internazionale, più "caput mundi". Ma la gestione del territorio non è stata risolta. Vige la cementificazione. Ci sono interi quartieri da mettere in sicurezza. Talora ci vorrebbe la rottamazione».

Cosa pensa delle vicende estive di Berlusconi e del suo rapporto con le donne?
«Non sento alcun bisogno di guardare dal buco della serratura. Mi basta quel che è di dominio pubblico per giudicare: la concezione della donna di Berlusconi appartiene al passato. Le cose che dice mi danno fastidio se le sento al bar; se poi le sento dal presidente del Consiglio, è peggio».

Che rapporto ha con la moda?
«Mi piace vestirmi bene. Da ministro me ne sono occupata: mi hanno impressionato la creatività e la ricerca del made in Italy».

Ha uno stilista preferito?
«No. Mi piacciono le giacche di Armani, ma non me le posso permettere. E poi lo shopping mi annoia. Ho una cara amica, Cristina, una donna manager alta quasi due metri, che sceglie per me. Se vede un vestito che pensa mi stia bene, me lo porta. Non sbaglia mai. Cristina è un cardine del mio piccolo gruppo di amiche. Siamo molto legate. Nessuna di loro è donne contro un personaggio pubblico».

I suoi colori preferiti?
«Da qualche anno prediligo i colori accesi. Come il verde e il bordeaux».

Perché è favorevole alla pensione a 65 anni anche per le donne?
«Mi sono battuta per averla quand’ero ministro, sono contenta che il traguardo sia vicino. Ce lo impone l’Europa. Mi fido di Brunetta, quando s’impegna a destinare i risparmi al welfare per le persone».

Perché in Italia ci sono meno donne che lavorano e si fanno meno figli rispetto alla media europea?
«Le due cose sono collegate. Le donne fanno più fatica a entrare nel mercato del lavoro, sono più facilmente precarie, e quindi si sentono meno sicure. E fanno meno figli. Non critico chi resta a casa a occuparsi della famiglia. Purché sia una scelta».

Le mancano i figli?
«No. Ho anche pensato di averne uno. Poi mi sono resa conto che lo volevo più per il mio compagno di allora che per me stessa, e per lui. Così ho rinunciato».

Però le sono state affidate due bimbe, Aurora e Rugiada. Vero?
«Sì. Nei giorni della campagna per l’aborto, capitò che due madri mi affidassero le loro figlie. Rugiada era appena nata. Rimasero con me per più di due anni».

Fu dura separarsi?
«Prima tornavo a casa e la trovavo piena di risa e di urla. D’improvviso tornavo a casa e la trovavo vuota e zitta. Cambiai casa. Con Rugiada ci vediamo ancora oggi. Ha già un bambino».

Un anno e mezzo fa disse in un’intervista di essersi innamorata, di un uomo non italiano. Poi smentì. Come stanno le cose?
«Era uno scherzo. Mi cercarono da Diva e Donna, nei giorni del vertice Fao. Pensavo di parlare su temi umanitari. Invece mi fecero la solita domanda sui rapporti con Pannella».

A proposito, i suoi rapporti con Pan…
«Risposi che non sono mai stata innamorata di lui, né lui di me. E aggiunsi che mi ero felicemente fidanzata. Accadde di tutto. I grandi giornali mi diedero una pagina intera, come non era mai accaduto. Scoppiò un dibattito sociologico sul tema "innamorarsi a 60 anni". Filippo di Robilant, il mio capufficio stampa, mi pregò di stare al gioco: sarebbero arrivati gli inviti a Porta a Porta e a Matrix. Invece dissi la verità: tutto inventato».

Rivendica ogni cosa della sua battaglia per l’aborto?
«Dalla prima all’ultima. Abbiamo sconfitto la piaga dell’aborto clandestino. E oggi si abortisce meno di un tempo».

Cambierebbe la legge?
«So che non ci sono le condizioni per cambiarla come vorrei. Meglio applicare sino in fondo la legge che c’è, compresa la parte che apre alle innovazioni in grado di rendere l’aborto meno invasivo. Come la pillola RU 486».

Senza ricovero?
«Il ricovero coatto non esiste nel nostro ordinamento».

Qual è il suo giudizio sulla Gelmini?
«Non demonizzo tutto quel che ha fatto, il lavoro per premiare il merito è giusto. Fatico però a vedere un disegno complessivo».

E le altre ministre?
«Stimo Stefania Prestigiacomo. Abbiamo fatto insieme manifestazioni per il referendum sulla fecondazione assistita. All’epoca era ministro. Dimostrò indipendenza e coraggio».

A proposito, quella battaglia è ormai persa?
«Mai arrendersi. Qui pare che la scienza sia portatrice di male. Non è così. La sentenze della Corte costituzionale e ora anche del Tribunale civile aprono una strada importante».

La Carfagna?
«Ha avuto una bella idea: il G-8 femminile».

E quando la attaccarono?
«Diedi la mia solidarietà tacendo. Non amo le cose scontate».

La Meloni?
«Mi piace molto. Ci siamo trovate fianco a fianco alla parata del 2 giugno, abbiamo scherzato sul fatto che le tocca portare il tacco 10».

Lei non porta i tacchi?
«Non sono capace».

E della sua avversaria, Renata Polverini, cosa pensa?
«Non è, come dicono, una creatura di Ballarò. La conosco e la apprezzo, anche se abbiamo una diversa visione del mondo. Faremo una campagna senza insulti».

Aldo Cazzullo

21 gennaio 2010(ultima modifica: 22 gennaio 2010)© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it
 


Titolo: ALDO CAZZULLO. Il Professore a Dalla, primo a «chiamarlo»: mi hai messo nei ...
Inserito da: Admin - Febbraio 02, 2010, 02:26:12 pm
Al Comune |

Il Professore a Dalla, primo a «chiamarlo»: mi hai messo nei guai, ma grazie

Bologna, la tentazione di Prodi «Mi stanno martellando...»

Ondata di richieste perché corra da sindaco, l’ex premier «commosso»


BOLOGNA — «È vero. Mi stanno martellando…». Romano Prodi ha un sorriso triste. L’altro giorno ha perso Giovanni, il matematico della Normale, il più anziano tra i suoi fratelli. Il telefono in via Gerusalemme squilla di continuo: vecchi amici, notabili cittadini, sacerdoti. Tutti gli fanno le condoglianze. Tutti o quasi aggiungono una frase: «Sei l’ultima speranza di Bologna… Pensaci».

Prodi non risponde né sì, né no. Fino a qualche giorno fa, fare il sindaco era l’ultimo dei suoi pensieri. Ora qualcosa è cambiato.
Il quarantenne a lui più vicino, Filippo Andreatta, con cui Prodi ha un rapporto quasi paterno, spiega che la suggestione non è più improponibile; e il motivo sono i bolognesi. «È impressionante quanta gente stia facendo pressione su Romano, dai colleghi ai sacerdoti, dai conoscenti ai passanti. Gli elettori del Pd, e non solo loro, percepiscono l’anomalia di un politico che ha mollato tutto davvero, che in Africa è andato sul serio. E ora che la sbornia per i professionisti della politica che hanno preso in mano il Pd è finita in pochi mesi, l’idea del ritorno di Prodi appare alla gente opportuna se non inevitabile. Anche perché, per come sono messe le cose dopo l’addio di Delbono, Prodi è l’unico sicuro di vincere».

«Prodi sindaco? Magari — dice Fabio Roversi Monaco, storico rettore dell’università, presidente della Fondazione Carisbo, uno degli uomini più influenti in città —. La sua candidatura sarebbe un evento significativo per Bologna. Non voglio mancare di rispetto a nessuno, ma è evidente che con lui navighiamo a un livello superiore rispetto a qualsiasi altro nome. Prodi è uomo di caratura internazionale, ha intuito tra i primi le potenzialità della Cina dove oggi è noto quasi come in Italia, conosce l’Europa e gli Stati Uniti. Sarebbe una grande chance per la città».

L’alternativa a sinistra sono uomini popolari sotto i portici ma quasi sconosciuti fuoriporta: Luciano Sita, uomo delle Coop, ex manager di Granarolo; Duccio Campagnoli, già segretario della Camera del lavoro, da 15 anni assessore in Regione; Maurizio Cevenini, detto Cev Guevara, molto popolare per aver celebrato 5 mila matrimoni e per la costanza con cui ogni anno invia le felicitazioni alle coppie che hanno resistito. Casini esclude di dare una mano al Pd e, più che al ritorno di Guazzaloca, pensa a lanciare in pista Galletti. Il Pdl ha dirottato su Bologna Giancarlo Mazzuca, già candidato alla Regione, l’ex direttore del Carlino. Ma ieri i giornali locali erano pieni di giudizi sull’ipotesi Prodi. Alessandro Haber, attore: «Firmerei subito un appello per Romano sindaco». Alberto Vacchi, imprenditore: «Sarebbe un valore aggiunto, cercherei di convincerlo». Franco Colomba, allenatore del Bologna: «Serve una persona di grande valore ed esperienza, e Prodi ha queste qualità». Renato Villalta, ex azzurro di basket: «È l’uomo giusto». Carlo Lucarelli, scrittore: «Per Bologna Romano è come un padre». E Stefano Bonaga, filosofo: «Io l’ho detto per primo due anni fa, quando cadde il suo governo, che Prodi deve fare il sindaco di Bologna».

Un coro quasi imbarazzante. Per questo il professore spiega di essere colpito e commosso dalle attestazioni di stima e dalle telefonate, tra cui ieri è arrivata quella di Lucio Dalla, che sul Corriere aveva proposto la sua candidatura: «Romano, io piuttosto di andare a Palazzo d’Accursio in un momento come questo mi farei tagliare una mano, ma tu sei migliore di me…». «Lucio, mi hai messo nei guai, però ti ringrazio lo stesso» è stata la risposta. Un «martellamento», appunto; che però è l’unico modo per stanarlo. «È evidente che l’unico a poter togliere le castagne dal fuoco al centrosinistra è lui – spiega Massimo Bergami, il direttore di Almaweb scuola master dell’università, altro quarantenne molto vicino a Prodi —.

Sia per le chance di vittoria, sia per dare alla città un profilo non strettamente municipale. Romano sindaco vuol dire agganciare Bologna all’Europa. Ma per lui sarebbe un sacrificio personale non indifferente. Serve una supplica corale per convincerlo a questo passo».

Nel silenzio di via Gerusalemme, nell’ora del lutto in cui la famiglia si riunisce e si ritrovano le radici, Prodi sta maturando la decisione. Il colpo di scena resta improbabile, ma non è più impossibile. In via santa Caterina, Giuliano Mongiorgi, 84 anni, ha affisso i suoi manifestini: «Romano Prodi sindaco». Tra i suoi amici ieri sera girava un sms: «Continuiamo a spingere, perché il prof comincia a sperare di essere convinto».

Aldo Cazzullo

31 gennaio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO. Veltroni: Bersani non può fare da solo
Inserito da: Admin - Febbraio 14, 2010, 10:19:32 pm
L’ex segretario dei democratici a un anno dalle dimissioni: «Lasciare fu giusto»

«Faccio una scuola per i giovani contro la politica ridotta a mestiere»

Veltroni: Bersani non può fare da solo. E il Pd non è nato per avere Casini premier


Walter Veltroni, un anno fa lei lasciava la guida del partito democratico. Da allora non si è capito se lei sia dentro o fuori. Un giorno pare concentrato sui romanzi, i viaggi, la vita. Il giorno dopo pare di nuovo un leader politico. Qual è la verità?

«Ma tutta la mia vita è questa. Io sono sempre stato così. Qui sta la mia atipicità: ho sempre avuto con la politica un rapporto febbrile; ma non era mai la febbre del potere. Questo mi ha salvato dai contraccolpi psicologici, in questo anno non facile».

Lei era sindaco di Roma. Perché ha accettato di fare il segretario Pd?

«Sono stato chiamato in una situazione tragica. Il centrosinistra aveva perso rovinosamente le provinciali e nei sondaggi era ai minimi termini. C’era già stata una crisi di governo, la coalizione era spezzettata e caotica. Fu allora che vennero tutti da me, anche se ero stato l’unico, con la Bindi, a oppormi all’elezione diretta del segretario, convinto com’ero che occorresse una figura diversa da un leader».

Poteva rifiutare.

«Sarebbe stato un atto di presunzione ed egoismo, avrei rinunciato a far vivere l’idea per cui avevo rotto le scatole per dieci anni dentro e fuori il mio partito, sopportando ironie ed emarginazioni: quel partito dei democratici —che avrebbe dovuto nascere nel ’96, con l’Ulivo — per cui mi sono battuto per tutta la vita».

Addirittura?

«A Natale ho gettato via un po’ di carte, per fare spazio in casa. Mi sono ritrovato in mano gli articoli di quand’ero direttore dell’Unità: l’ispirazione era la stessa. Quando Occhetto fece la svolta, con un coraggio per cui è stato molto mal ripagato ma che spero gli verrà riconosciuto dalla storia, fui tra i dirigenti che si batterono per inserire la parola "democratico" nel nome del nuovo partito. Da ragazzo, quando andavano di moda i gruppi estremisti, lavoravo per i comitati unitari nelle scuole: uno dei giorni più belli fu il 29 novembre 1974, quando 40 mila studenti sfilarono dietro le loro bandiere. I comitati unitari erano la prefigurazione di quel che un giorno sarebbe stato il punto d’approdo: il Pd».

Il Pd di oggi è davvero un punto d’approdo?

«Sì, e può esserlo in forma definitiva a patto che non rinneghi le fondamenta su cui è nato: il bipolarismo, l’innovazione, la radicalità riformista, la legalità, le primarie. Non accetto che sia trasformato in qualcosa di diverso; altrimenti non è più il Pd. La campagna elettorale del 2008 aveva acceso un sogno: per la prima volta, un paese che pareva condannato alla coazione a ripetere — ed è per questo annoiato e prevedibile — scopriva che si poteva superare quella specie gattopardesca della rissosità italiana. Da noi ci si danno colpi bassi, ci si demonizza, si fabbricano dossier, in passato si è sparso sangue; tutto perché non cambi mai nulla. In quella campagna abbiamo dimostrato che si poteva costruire uno schieramento su un programma e non viceversa, parlare un linguaggio civile, semplificare il quadro politico. Rivendico il merito di aver inaugurato una nuova stagione, con un Parlamento con pochi e grandi gruppi anziché diciannove »

Le elezioni però andarono male per voi.

«Passammo dal 22% delle amministrative 2007 a quasi il 34%. Non è quel risultato che mi angoscia. I risultati degli altri partiti europei hanno dimostrato quanto quel dato, il punto più alto mai raggiunto dal riformismo italiano, potesse essere la base per un’ulteriore crescita. Sono angosciato per lo stato d’animo del paese. Un paese cupo, ripiegato, dominato da paura e insicurezza. Un paese di passioni tristi, senza speranze razionali. La gente perde il lavoro, i padri avvertono che per la prima volta la condizione dei figli non sarà migliore della loro, le imprese sono sole davanti alla crisi; e la politica parla di tutt’altro. Invece dovremmo, come insegna Pietro Ichino, costruire un sistema di welfare moderno aperto ai precari, che non consenta più di fare a pezzi le vite delle persone. Rivendico di aver lanciato la sfida ai conservatorismi: sull’età pensionabile, sulla Tav, sulla questione istituzionale».

Di riforme istituzionali si riparla oggi, e la maggioranza chiede l’apporto del centrosinistra.

«Dopo le elezioni sono stato il primo a dire che questa legislatura poteva essere costituente. Ma dopo gli strappi di Berlusconi escludo ora che il centrosinistra possa fare altro che condurre una battaglia di opposizione contro le forzature delle regole del gioco. Sento parlare di scambio tra l’immunità e la riforma elettorale proporzionale: follie, uno scambio tra due cose sbagliate. Noi volevamo fare un’alleanza non per mettere insieme i pezzi dell’antiberlusconismo, ma per cambiare il paese. La nostra gente non capirebbe se avessimo fatto tutto questo per avere Casini presidente del Consiglio».

È sbagliato cercare l’alleanza con l’Udc?

«Certo che bisogna cercare alleanze. Ma la prima alleanza da stringere è con i cittadini. Dobbiamo ritrovare il linguaggio della vita reale e comunicare il senso di una visione non tattica dei problemi del paese».

Lei parla come un uomo che non ha rinunciato all’idea di candidarsi a governare l’Italia.

«Sbaglia. Semplicemente, non rinuncio alle idee di una vita. E le idee non hanno bisogno di stellette, ma di qualcuno che le tenga vive. Non ho ambizioni personali. Sono l’unico che non ha incarichi nel Pd, il partito di cui sono stato fondatore e che ho portato a conquistare un terzo dell’elettorato. Non ho incarichi perché non ne ho chiesti. Non faccio correnti, parola che trovo orribile quanto "attimino" e alle mie orecchie suona fastidiosa come il rumore delle unghie sulle lavagna. Mi sono dimesso contro le correnti, che ogni giorno segavano l’albero su cui tutti eravamo seduti. E ho detto che non avrei fatto agli altri quel che era stato fatto a me. Un impegno cui mi sono attenuto».

Non crede sia stato un errore lasciare? Poche settimane dopo il suo addio sono cominciate le difficoltà di Berlusconi.

«No. Non c’erano più le condizioni per fare il partito in cui credevo. Credevo a un partito aperto, moderno, capace di aderire alle pieghe della società del 2010. L’idea di riproporre oggi il modello degli Anni 70 rischia di essere, questa sì, l’idea di un partito liquido. Volevo cambiare i gruppi dirigenti, nel Mezzogiorno e non solo, ma non avevo più la forza per farlo. Era iniziato il cannoneggiamento, che non a caso un minuto dopo le mie dimissioni è cessato. Avrei potuto vivacchiare, galleggiare. Ma è una cosa che non so fare. Ovunque sia stato, occupandomi di informazione, all’Unità, al ministero della Cultura, in Campidoglio, ho sempre cambiato le cose. Mi rendo conto che in Italia questo rappresenta un difetto ».

Che cos’è accaduto in questi mesi, secondo lei?

«La retorica del partito organizzato, finalmente in mano ai professionisti, non ha funzionato. I partiti devono al contrario reinventare la propria vita democratica; non possono essere affidati al potere di due o tre persone».

Bersani e D’Alema, ad esempio.

«Bersani è stato eletto con il 53%. Oggi, dopo quel che è accaduto in Puglia e altrove, la situazione è ancora più dinamica. Con il 53%, e magari neanche più quello, non si può pensare di fare da soli. Bersani è il primo a essere interessato a una conduzione collegiale, con l’apporto di tutti, anche di chi non l’ha votato e mantiene le sue posizioni e il suo dissenso. Il congresso è alle nostre spalle, ora si apre una fase nuova. E in questa campagna elettorale è il momento di dare il segno di una profonda unità».

Dicono che lei abbia litigato con Franceschini.

«L’amicizia e la stima che mi legano a Dario sono indissolubili. È vero che in Umbria è stato commesso un grave errore: bisognava fare le primarie sin dall’inizio, con un candidato non espressione di correnti com’era Agostini. La vicenda è stata gestita senza lealtà. Ma Dario non c’entra nulla».

Come valuta le candidature del Pd alle Regionali?

«In campagna elettorale le candidature si sostengono, e basta. Se il 28 marzo saranno confermati i dati delle politiche 2008, e visti i candidati della destra, il centrosinistra conquisterà 7 o 8 regioni. In generale, però, è emerso nel Pd un evidente fastidio per le primarie, che sono state convocate, sconvocate, e alla fine fatte solo dove c’era confusione. Il contrario di quanto si dovrebbe fare. Le primarie andrebbero imposte ai partiti per legge. E bisognerebbe tornare ai collegi uninominali. Se si rinuncia al bipolarismo e si imbocca la strada del proporzionale, con un partito del 5% che diventa arbitro della vita nazionale, l’Italia finisce peggio della Grecia»

Lei ce l’ha davvero con Casini...

«Al contrario. Ho sempre avuto con lui — e Pier lo confermerà — un rapporto chiaro, leale: non gli ho mai chiesto di venire nel centrosinistra. È giusto che Casini coltivi la sua identità. Quando si voterà per le politiche, farà la sua scelta. Ma tirarlo per la giacca ora, voler fare dell’Udc la nuova Margherita, è sbagliato. Per lui, e per noi».

Non rimpiange neppure l’alleanza con Di Pietro?

«No. Non avevamo alcun interesse ad avere fuori dalla coalizione uno che sparava sulla linea antiberlusconiana tradizionale, condizionando il Pd. E poi vedo che ora con Di Pietro siamo ai baci e agli abbracci. Mentre si sono resi più difficili i rapporti con una persona assai vicina come Nichi Vendola e con Sinistra e Libertà».

De Luca in Campania?

«In Campania quando ero segretario avevo chiesto al magistrato Raffaele Cantone di impegnarsi. Il rinnovamento del ceto politico del Sud è un’esigenza di tutti i partiti. Detto questo, scelto un candidato, lo si appoggia ».

Lei ora aprirà una scuola di politica, è così?

«Sì. Una generazione rischia di considerare la politica come un mestiere. Ma la politica non è un mestiere. E’ una vocazione. Chi lo nega esercita il suo cinismo. Se la politica non è vocazione, è una schifezza, in cui tutto diventa possibile. L’obiettivo che coltiviamo con Salvati, Vassallo è gli altri è costruire una grande scuola di formazione, promossa da personalità che vengano dalla società, da tutte le componenti interne del Pd e anche da esponenti di forze riformiste altre. Una scuola contro le correnti, perché solo il merito e le competenze possono sfondare il regime delle appartenenze correntizie, che generano conformismo, trasformismo e spregiudicatezza. Aperta anche a ragazzi esterni al Pd, che educhi alla cultura democratica, alla legalità, alla memoria, al dubbio, che faccia crescere una generazione di nuovi protagonisti della politica. Ce ne sono tantissimi in giro che hanno la luce negli occhi, che ci credono, che vogliono cambiare il paese».

E lei?

«Il mio libro su Bob Kennedy si intitola Il sogno spezzato, quello su Berlinguer La sfida interrotta. Mi rendo ora conto che erano titoli autobiograficamente profetici. Così è stato concepito da una vasta parte della nostra gente i miei 15 mesi alla guida del Pd. Oggi non ho altre ambizioni che fare le cose in cui credo. Sarà questo il modo oggi di realizzare l’ossessione che mi accompagna da sempre, spendere la mia vita per la mia comunità».

Aldo Cazzullo

14 febbraio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO. L'allarme dell'ex ministro dell'Interno Pisanu
Inserito da: Admin - Febbraio 23, 2010, 03:03:50 pm
Il colloquio

«La corruzione è dilagante L'Italia può restare schiacciata»

L'allarme dell'ex ministro dell'Interno Pisanu: subito le norme anticorrotti del premier e antimafia. Ma basterà?


Una nuova Tangentopoli? L’Italia del 2010 come quella del 1992? «No. Per certi versi, siamo oltre. Allora crollò il sistema del finanziamento dei partiti. Oggi è la coesione sociale, è la stessa unità nazionale a essere in discussione, al punto da venire apertamente negata, anche da forze di governo. Si chiude l’orizzonte dell’interesse generale e si aprono le cateratte dell’interesse privato, dell’arricchimento personale, della corruzione dilagante».

«Sono giorni che vado maturando queste parole - dice Giuseppe Pisanu, capo della segreteria politica di Moro, ministro dell’Interno, oggi presidente dell’Antimafia -. Esitavo a dirle, perché mi parevano eccessive. Apocalittiche. Poi mi sono ricordato che in Giovanni il linguaggio apocalittico è l’altra forma del linguaggio profetico. Quindi non credo di esagerare se dico che è il Paese a essere corrotto. C’è la corruzione endemica, denunciata dalla Corte dei Conti; e c’è quella più strutturata e sfuggente delle grandi organizzazioni criminali, tra le più potenti al mondo. In ordine d’importanza: ’ndrangheta, Cosa Nostra, camorra». La ’ndrangheta calabrese più importante della mafia siciliana? «Sì. A Milano controlla il 90% delle cosche. Ogni anno le mafie riversano su tutta l’Italia fiumi di danaro sporco, che vengono immessi nell’economia legale con l’attiva collaborazione di pezzi importanti della società civile: liberi professionisti, imprenditori, banchieri, funzionari pubblici e uomini politici a ogni livello. Tiri le somme, e capirà perché l’Italia è così in basso nelle graduatorie mondiali sulla corruzione e le libertà economiche».

Ma dell’inchiesta sulla Protezione Civile che idea si è fatto? «Non parlerei di nuova Tangentopoli. Il contesto è diverso anche se il fango è lo stesso. Speriamo che si arrivi presto alla verità e senza vittime innocenti. Diciotto anni fa furono troppe, e la giustizia pagò i suoi errori perdendo dignità e consenso. Bertolaso è un efficiente manager dello Stato, che ha lavorato bene; mi chiedo però se, fermi restando i suoi grandi meriti, non sia rimasto anche lui vittima della logica dell’emergenza. Lasciamo ai magistrati e agli avvocati la vicenda giudiziaria. Interroghiamoci piuttosto sul dilagare della corruzione pubblica e privata e sui rimedi necessari, prima che disgreghi le basi della convivenza civile e delle istituzioni democratiche». Dice Pisanu che «il Paese rischia di piegarsi sotto il peso dell’illegalità. Non sarei così preoccupato se fossi sicuro della tenuta della società civile e dello stesso patto costituzionale».

Non le dice nulla la coltre d’indifferenza calata sulle celebrazioni dei 150 anni dell’unità nazionale? «Nel 1961 celebrammo il centenario all’insegna del miracolo economico e della continuità ideale tra Risorgimento, Resistenza ed europeismo. Oggi l’idea dell’unità nazionale è ridotta a mera oleo g r a f i a , quando non è apertamente negata. Basta guardarsi intorno: crisi generale e immigrazione maldigerita; riletture faziose della storia risorgimentale e serpeggianti minacce di secessione; crescente divario economico e sociale tra il Nord e il Sud del Paese. È un’Italia divisa e smarrita. Non a caso, le indagini sociologiche ci rivelano un 25-30% di italiani reciprocamente risentiti e sempre più distanti gli uni dagli altri. Il peggio è che il risentimento è entrato anche in taluni gruppi politici e, tramite loro, influenza comportamenti istituzionali e prassi di governo ». Pensa alla Lega? «Certo, ma non solo. Anche ai vari movimenti sudisti, da Lombardo alla Poli Bortone a Bassolino: le leghe prossime venture. In generale, è chiaro che, quando si riduce la nozione stessa di bene comune, decade lo spirito pubblico, si allentano i vincoli della legge e si spiana la strada alla corruzione».

Quali allora i rimedi? «Si ponga mano subito alle proposte anticorruzione di Berlusconi. Al riordino della pubblica amministrazione. Al taglio dei rapporti incestuosi tra economia e politica. Al regolamento antimafia per la formazione delle liste». Sulla legge anticorruzione molti ministri sono perplessi. «Penso e spero che le perplessità siano state di carattere formale, che non riguardino l’obiettivo della lotta alla corruzione. Ma, posto che queste cose si facciano, non basteranno. Secondo me, si dovrà agire più in profondità: nelle viscere della "nazione difficile", dove il patto unitario e il contratto sociale debbono essere rinnovati ogni giorno come il famoso plebiscito di Renan. Il problema è innanzitutto politico, e non possiamo certo risolverlo con il bipolarismo selvaggio, con lo scontro sistematico tra maggioranza e opposizione che ha trasformato questo primo scorcio di legislatura in una snervante campagna elettorale. Serve invece il confronto delle idee, serve la competizione democratica, in cui vince chi indica le soluzioni migliori ai problemi che abbiamo davanti».

Sostiene Pisanu che «è necessario un profondo rinnovamento del ceto politico. A condizione che lo si realizzi con strumenti neutrali: non sia la magistratura ma la politica a guidare il processo, o meglio siano gli elettori, grazie a una nuova legge elettorale che consenta ampia libertà di scelta. Il ricambio ci potrà salvare se servirà davvero a migliorare la qualità della classe politica. Come diceva Fanfani, "si può essere bischeri anche a diciott’anni". La Commissione antimafia da me presieduta darà il suo contributo facendo, dopo le Regionali, una verifica accurata sugli eletti. Abbiamo il potere di avvalerci delle strutture dello Stato, delle forze dell’ordine, della stessa magistratura, e lo useremo. Siamo in grado di fare gli accertamenti più scrupolosi e approfonditi, e li faremo».

«La questione morale non solo esiste; è antica come le Sacre Scritture e moderna come la nostra Costituzione - dice Pisanu -. Ne parla il nuovo libro di Giovanni Galloni, che riferisce l’ultimo colloquio con Dossetti prima della sua morte, in cui il vicesegretario della Dc degasperiana ammonisce che, finita l’epoca dei partiti ideologici, si deve tornare alla cultura politica della Carta costituzionale. Certamente vengono da lì i valori e le regole di cui abbiamo bisogno per vincere non soltanto la corruzione ma anche la più estesa malattia politica che sta mettendo a dura prova l’Italia. Il pericolo che corriamo mi ricorda la frase che feci riprodurre suimanifesti della Dc in morte di Aldo Moro. Un pensiero che lo assillava negli ultimi tempi della sua vita: "Questo Paese non si salverà, la stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera, se non nascerà in noi un nuovo senso del dovere"».

Aldo Cazzullo

23 febbraio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO. E Grillo esalta Di Pietro: farà scappare piduisti e mafiosi
Inserito da: Admin - Marzo 09, 2010, 02:26:55 pm
L'anticipazione

E Grillo esalta Di Pietro: farà scappare piduisti e mafiosi

«Senza di lui il Parlamento potrebbe chiudere»
   

E così, nell’ora più incandescente dello scontro politico, a stemperare gli animi viene il nuovo libro di Antonio Di Pietro. Titolo: «Ad ogni costo». La prefazione è di Beppe Grillo. Nel suo testo, Beppe Grillo si esprime così sul leader dell’Italia dei valori: «Senza la sua voce il Parlamento dell’inciucio Pdl-Pdmenoelle potrebbe essere tranquillamente chiuso. I suoi nemici, e sono tanti, non si rassegnano, ma non hanno ancora capito che più lo attaccano, più si rafforza. Le pale degli elicotteri prima o poi cominceranno a girare e da lassù, sulle nuvole, i piduisti e i mafiosi in fuga che occupano le istituzioni vedranno Di Pietro che li saluterà insieme agli italiani. Saranno fortunati se non imbraccerà un fucile».

Il libro—che Ponte alle Grazie pubblica venerdì — è una rielaborazione degli interventi di Di Pietro sul proprio blog, con le reazioni che hanno provocato. Il tema ricorrente è l’uno contro tutti, sin dai titoli dei capitoli: «Intercettazioni, unica via lo scontro»; «L’amnistia fiscale bipartisan »; «Privatizzano l’acqua»; «Tutti contro la mozione di sfiducia», presentata da Di Pietro contro il governo e non appoggiata dal Pd; «Il declino di un partito popolare », appunto il Partito democratico. Il capitolo sull’aggressione di piazza Duomo si intitola «Chi semina vento raccoglie Tartaglia». Poi vengono quelli sullo stato del Paese: «La morte della Radio televisione italiana»; «Assalto alla rete»; «Non c’è futuro nel nucleare»; da qui l’«Appello alla comunità internazionale» e, in ultima istanza, la «Lettera a Gesù bambino».

Inedita è l’introduzione, firmata dallo stesso Di Pietro, in cui si racconta il 2009 come il peggiore anno della Repubblica: «Con l’ultimo governo Berlusconi, il progetto piduista "Rinascita democratica" di Licio Gelli è stato sdoganato. Gli italiani vengono disinformati in modo scientifico dalla televisione e dai giornali. Il sistema è in larga parte corrotto da una rete affaristica, privata e pubblica, che dispone a suo piacimento dei mezzi di comunicazione di massa con cui illude e blandisce la popolazione, e soprattutto denigra, irride, ricatta, umilia gli avversari politici». Colpa della «potenza piduista del modello Berlusconi», dei «soliti sapientoni terzisti che usano la penna per criticare tutti, dando un colpo al cerchio e uno alla botte per far vedere che sanno tutto loro», ma anche colpa del Pd, della «fiacca, inefficace, pilatesca e a volte connivente inazione del centrosinistra che si è mostrato troppo spesso debole, incapace e allo sbando ». Il Partito democratico è, accanto a Berlusconi, l’obiettivo polemico del libro: «Oltre al conflitto di interessi, pesa sui governi di centrosinistra l’enorme regalia delle concessioni radiotelevisive pubbliche per le reti Mediaset, pagate con un misero uno per cento del fatturato Rti, società della galassia imprenditoriale Fininvest. Un benefit di Stato». Se però «il cerchio del golpe bianco non si è ancora chiuso, ciò è dovuto soprattutto alla presenza in Parlamento e nel Paese di un partito, l’Italia dei valori». E ancora: «Abbiamo lottato contro tutti, o "quasi". "Quasi" perché al fianco ho avuto la rete, l’unico strumento in Italia con cui sia ancora possibile sviluppare un’informazione libera, e raccontare un paese diverso e reale. "Quasi" perché conduttori come Santoro e la Gabanelli e giornalisti come Travaglio, Gomez, Barbacetto e altri ancora hanno difeso i propri spazi di libertà all’interno dell’informazione pubblica».

Sulla stessa linea si muove nella prefazione Beppe Grillo: «Antonio Di Pietro è la kriptonite della politica italiana. Così come i frammenti del pianeta Kripton provocano gli effetti più strani su Superman, Di Pietro li produce sui reduci della prima Repubblica, sugli orfani di Craxi e sui loro servi, sui ladroni di Stato riverginati dai media». Qui Grillo cita in particolare Cicchitto, Ghedini, Bonaiuti, Capezzone. «Kriptonite induce nei seguaci del Partito dell’Amore attacchi di idrofobia, li trasfigura in facce ghignanti. Li trasforma in zombie preda di attacchi epilettici. È come l’aglio per i vampiri, l’acqua santa per i demoni, le aule di tribunale per Berlusconi, un test d’intelligenza per Gasparri». Non a caso «i giornali dell’erede di Bottino Craxi dedicano a Di Pietro una cinquantina di copertine all’anno. Per Feltri, Giordano e Belpietro fa più notizia Di Pietro, tirato in ballo con le accuse più svariate e sempre infondate, del terremoto di Haiti, degli israeliani a Gaza o della strage di Viareggio».

Scrive Grillo che «Di Pietro ha fatto Mani Pulite, ma non è riuscito a fare piazza pulita. È figlio di un contadino molisano, ha fatto l’emigrato in Germania in una falegnameria, si è laureato mentre lavorava. È stato nella polizia e poi nella magistratura. Non l’hanno fermato decine di processi inventati da cui è sempre uscito senza condanna. È come si direbbe, un capatosta. I suoi avversari non riescono a trovare un antidoto a Kriptonite e diventano sempre più verdi di bile. Non capiscono. Hanno digerito Bossi, Fini, il Corriere della Sera. Trasformato l’opposizione in uno zerbino. D’Alema nell’alleato più fedele. La Confindustria in una troupe di concessionari che vive dell’elemosina di Stato. Ma Di Pietro — conclude Grillo nel passo in cui evoca il fucile—è sempre lì. Non lo hanno comprato, non si è fatto intimidire, non hanno trovato dossier e non sono neppure riusciti a fabbricarne. Va contro tutti, perché si è schierato dalla parte dell’onestà».

Aldo Cazzullo

09 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO. Lavinia Borromeo Elkann si racconta a Io donna
Inserito da: Admin - Marzo 13, 2010, 11:05:02 am
Lavinia Borromeo Elkann si racconta a Io donna

«Vi svelo quando John, Lapo e io...»

Sta con suo marito da quando aveva 20 anni. Per lui ha cambiato città ed è diventata juventina


Lavinia Borromeo Elkann è al Palavela, l’architettura ideata da Nervi per i cent’anni dell’Unità d’Italia, dimenticata dalle generazioni successive di torinesi e rinata con le Olimpiadi invernali del 2006. Qui si faranno i prossimi Mondiali di pattinaggio. La moglie di John Elkann è il presidente del comitato organizzatore. «Amo lo sport, e il pattinaggio in particolare. Ho anche preso lezioni da bambina, in un altro palazzetto olimpico, a Cortina. Ma ero un po’ troppo spesso per terra».

È accaduto pure a Carolina Kostner, alle Olimpiadi di Vancouver.
«Lei è straordinaria. Una donna molto elegante. Spero che troverà il riscatto proprio qui a Torino. Del resto non sono andate bene neppure le altre europee e le americane. Anche nel pattinaggio è il momento dell’Asia».

Segue anche la Juventus? Va allo stadio?
«Sì. È stata un’annata difficile, ma ne verremo fuori. La Juve è una grande passione di famiglia. Io sono diventata juventina per amore».

Come ha conosciuto John?
«A Milano. Ci hanno presentato i nostri fratelli, Lapo e Isabella. Avevo vent’anni. Mi sono sposata dopo sei anni di fidanzamento, il 4 settembre 2004».

Un grande amore.
«Il vero amore». Com’è suo marito? «Una persona magnifica. Vera, forte, responsabile. Una persona completa. Oltre che amarlo, lo stimo molto».

Come sarebbe stata la vostra vita se suo marito non avesse assunto quella “responsabilità”?
«Certo sarebbe molto più tranquilla, meno complessa. Quando l’ho conosciuto non aveva ruoli in Fiat. Ma lui è uno che affronta tutte le situazioni. Non si tira mai indietro».

E Lapo com’è?
«Come carattere, molto diverso dal fratello. Un creativo. Una persona buonissima, molto generosa. Uno zio incredibile, un cognato fantastico».

Non c’è verso di dargli una calmata?
«Non penso. È fatto così. Un vulcano».

Con John avete due figli.
«Leone ha tre anni e mezzo, Oceano è più piccolo di 14 mesi. Sono nati al Sant’Anna, l’ospedale pubblico dove nascono i bambini della mia città adottiva, Torino. Entrambi erano prematuri di qualche settimana. Il professor Farina ci ha parlato di “Crescere insieme al Sant’Anna”, la fondazione che si occupa dei neonati prematuri. Con John abbiamo deciso di sostenerla».

Come avete scelto i nomi?
«Non sono nomi di famiglia. Piacevano sia a mio marito sia a me. Nella rosa c’erano anche nomi più tradizionali, ma poi abbiamo scelto quelli. Solo dopo abbiamo scoperto che il 4 settembre, anniversario del nostro matrimonio, si festeggia proprio sant’Oceano eremita. Ma è una coincidenza».

Lei ha anche una linea di abbigliamento per bambini, BLav. Lav è il soprannome che le ha dato suo marito?
«Veramente in famiglia mi chiamano Lavi. BLav riunisce vari progetti che ruotano intorno al bambino: abiti, scarpe, accessori. Ora anche libri di stoffa. De Agostini pubblicherà la fiaba che ho scritto ascoltando i suggerimenti di Leone e Oceano. La presenteremo al salone di Bologna. Il protagonista, un orsetto che si chiama Pop, l’hanno scelto loro. E in futuro faremo anche oggetti per la cura del bambino, insieme ai fratelli Guzzini».

Le manca una figlia femmina?
«Vedremo. Sarebbe bello. Al momento però sono molto presa dai due maschi… Mi piace portarli ai musei. Siamo stati all’Egizio. Al museo dell’Automobile, bellissimo, Leone voleva salire su tutte le macchine. Alla Pinacoteca di Monaco di Baviera, davanti a un quadro di Klee, mi ha chiesto: Chi è il bambino che l’ha fatto?».

Sua madre, Marion Zota, è un’ex modella tedesca. Severa?
«Sì. John e io lo siamo meno. Però abbiamo fissato orari e regole».

E suo padre, Carlo Borromeo, com’era?
«Buono e autorevole. Non aveva bisogno di alzare la voce per farsi ubbidire ».

Beatrice Borromeo fa la giornalista, prima in tv con Santoro e ora con il Fatto, giornale molto duro con Berlusconi. Che impressione le fa?
«Mia sorella è una persona con le sue idee. Ha scelto il giornalismo e l’ha affrontato con molta serietà e passione. È brava in quel che fa. Sono contenta per Beatrice».

E lei, Lavinia, di Berlusconi cosa pensa?
«Berlusconi è in politica da più di 15 anni. È stato eletto dalla maggioranza degli italiani. Mi auguro che con l’ampia maggioranza di cui dispone possa affrontare e risolvere i problemi del Paese».

Quali sono i più urgenti secondo lei?
«La riforma della pubblica amministrazione. Le infrastrutture e l’energia, per aumentare la competitività del paese. Gli scandali di queste settimane sono gravi, danneggiano la nostra immagine all’estero, ma io resto ottimista: la stragrande maggioranza degli italiani sono in gamba e perbene. Persone oneste che si danno da fare per uscire dalla crisi che ha colpito tutto il mondo».

Ha conosciuto Giovanni Agnelli?
«Sì. Mi fece un grande effetto e una certa emozione. Una persona carismatica. Con poche parole diceva tutto».

Si è sentita sotto esame?
«No. Certo lui era incuriosito da me: era la prima volta che John portava una ragazza a casa. Ma mi mise subito a mio agio. Mi fece un sacco di domande: all’epoca studiavo storia, in particolare l’età napoleonica, di cui parlammo a lungo: era un uomo molto curioso».

Una volta lei ha detto che la donna più elegante mai conosciuta è Marella Agnelli.
«È vero. Qualsiasi cosa indossi, le si addice. È una persona che si conosce».

E lei, Lavinia, si conosce?
«Abbastanza, sì».

Cos’è per lei l’eleganza?
«Una cosa innata. Se non ce l’hai non te la puoi dare».

Questo ricorda Manzoni. Cosa succedeva a scuola quando si leggeva di Federico e Carlo Borromeo, suoi antenati?
«I compagni mi prendevano un po’ in giro, e a me dava fastidio. Ora ci rido su».

Alle isole Borromee si è sposata.
«Un luogo magico. Ma ho ricordi molti belli anche dell’azienda agricola di mio padre in Lomellina, dove passavamo i week-end e dove oggi i miei figli gioca no con Angera e Ludovico, i figli di mia sorella Isabella».

Angera come la rocca di Angera?
«Sì. È un castello tuttora legato alla storia della mia famiglia».

Lei ha fatto uno stage da Armani. Che cosa l’ha colpita di lui?
«L’attenzione a ogni dettaglio, a ogni reparto, a ogni modella. Una grande lezione».

Il suo stilista preferito, oltre ad Armani?
«Intanto vesto Armani sempre volentieri: ha uno stile semplice, pulito; certi suoi tailleur sono incredibili. Mi piace Dior. Poi dico Valentino. Straordinario. L’abito del mio matrimonio era suo. Il velo invece era antico: in casa ce lo tramandiamo da generazioni».

Come trova la sua città, Milano?
«A Milano ho tutti i miei ricordi d’infanzia, ma non la frequento più molto. È ancora una metropoli viva, dinamica. A Milano si vive bene. Io l’ho sempre trovata bellissima, ma devo riconoscere che Torino è più bella».

Qual è la differenza tra le due città?
«Milano è più internazionale, c’è più passaggio di persone. Torino va conosciuta. Dopodiché diventa difficile separarsene. Le persone sono riservate. È una città elegante, piena di parchi, con musei splendidi: l’Egizio, la Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli, il Castello di Rivoli. E poi il Salone del libro, il Salone del gusto, Artissima: ogni giorno puoi fare una cosa diversa. È l’eredità delle Olimpiadi 2006, che ora si rinnova con i Mondiali di pattinaggio: la città non è mai stata così viva»

Aldo Cazzullo

12 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO. Brunetta: intercettazioni, ormai sono diventato cauto anche ...
Inserito da: Admin - Marzo 14, 2010, 03:19:05 pm
Il personaggio

Brunetta: intercettazioni, ormai sono diventato cauto anche con la mia fidanzata

«Parlando con un amico ho precisato che "la roba" erano mozzarelle. Ho sempre la percezione di essere spiato»


«Anche io ho la percezione di essere intercettato. O, meglio, sono combattuto tra la sensazione di appartenere anche io a questo mondo folle in cui tutti sono sotto controllo, e la sensazione che non sia possibile. Perché non è giusto». Racconta Renato Brunetta che «al telefono con la mia fidanzata Titti è divenuta ormai un’abitudine salutare il maresciallo che ci sta ascoltando. L’altro giorno mi è successo anche con un amico, che mi manda straordinarie mozzarelle di bufala da Paestum. Mi diceva al telefono: "Ti ho spedito la roba". Ho risposto: "Un momento, calma, precisiamo a beneficio di chi ci sta ascoltando che si tratta di mozzarelle e di yogurt, non di altro". Poi mi sono chiesto: perché mai ho fatto questa battuta? Perché considero normale violentare una conversazione privata a beneficio o a giustificazione di un terzo ascoltatore, sia che stia parlando di affetti, di amore, di politica, di interessi o anche solo di mozzarelle? Dove siamo arrivati? Non lo dico per me, per Tizio o Caio, per i politici. Sono moltissimi gli italiani che hanno cambiato il loro modo di telefonare, e quindi il loro modo di relazionarsi, la loro vita di tutti i giorni. Non ne faccio una questione di tecnica giuridica. È una questione di libertà, strettamente parente del buonsenso. Chiedo una riflessione: attenti, perché ci stiamo incamminando su una china rovinosa».

La prima obiezione da opporre al ministro è che grazie alle intercettazioni si sono appena scoperti, ad esempio, un senatore eletto dalla ’ndrangheta e una «cricca» che manovrava gli appalti della Protezione civile. «Non obietto su questo. Anche io mi dico "male non fare paura non avere", e so bene che le intercettazioni sono uno strumento utile a soddisfare l’interesse pubblico all’accertamento dei reati. Come so bene che esiste il diritto di cronaca. Però esiste anche la tutela dei diritti fondamentali delle persone. Articolo 15 della Costituzione: la libertà e la segretezza delle comunicazioni sono inviolabili; la loro limitazione può avvenire solo per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge. Il punto è questo: le regole ci sono già. Vanno completate, con questo sacrosanto disegno di legge del governo: finalità, autorizzazioni, assoluta riservatezza. Ma soprattutto vanno rispettate. Non si possono rispettare "un po’". Nel maneggiare un’arma così potente occorrono responsabilità assoluta e invasività chirurgica. Non dico di gettarla via, ma di usarla bene, in modo selettivo, responsabile. Le intercettazioni devono essere come un laser: se assolutamente mirato, funziona; se usato come un gioco, distrugge vite, reputazioni, e alla fine anche chi lo usa. Le intercettazioni sono come un bisturi: il bravo chirurgo asporta il male e salva i tessuti, il cattivo chirurgo uccide il paziente. E qui ne va della stessa sopravvivenza democratica».

Dice Brunetta che «l’Italia vive oggi una deriva inaccettabile. Ogni giorno vediamo fughe di notizie, stralci di verbali, pagine a migliaia, altrettanti vasi di Pandora pronti a schizzare su tutto e su tutti». Qui c’è la seconda obiezione: pubblicare i verbali delle intercettazioni è legittimo. «Il problema è a monte - risponde Brunetta -. Si pesca a strascico; e a quel punto il pescato lo devi mostrare al mercato; ma il guaio è stato fatto prima. Basterebbe fare come fanno in Europa. Convergere con la regolazione europea». Che è simile a quella italiana. «Ma in Gran Bretagna le informazioni ottenute con le intercettazioni non hanno valore probatorio. In Germania e in Spagna la legge e la giurisprudenza impongono, e non soltanto in teoria, di accertare se esistano altri strumenti meno invasivi per conseguire lo stesso risultato. E comunque in nessun Paese europeo la vita privata è finita sui giornali com’è accaduto in Italia». «Poi c’è un tema molto grave, e per nulla regolato. I tabulati. Le tecnologie attuali consentono di ricostruire in modo universale ogni intersezione. I contatti di tutti con tutti. La matrice delle nostre telefonate. Ex post, per anni, è possibile sapere chi ha chiamato chi, con quale frequenza e in quale data. Nulla sfugge. Ora, uno strumento investigativo a maglie larghissime, come il grande orecchio americano Echelon, può essere utile; ma deve limitarsi a profili strettamente legati alla sicurezza. La pubblicazione indiscriminata dei tabulati è invece possibile per ognuno di noi. Anche per le nostre storie d’amore, i nostri rapporti d’affari, le nostre relazioni di lavoro, per cui dovrebbero valere totale libertà e totale riservatezza».

«Non è senza costi un condizionamento di questo genere. Anzi, ha costi spaventosi. La sensazione di essere intercettati ci porta ad autolimitare le nostre potenzialità, la nostra umanità. Rende il Paese meno democratico, meno libero, meno capace di crescere, anche dal punto di vista economico. Perché l’economia vive di relazioni. Il mercato è efficiente se la comunicazione è libera, se riesco a sapere che una merce è migliore di un’altra o un prezzo più basso. È l’economia di mercato: chi ha più informazioni, vince. Se tutto questo è compresso, limitato, non c’è più neanche il mercato. Tutto diventa meno efficiente e meno libero. Siamo arrivati a limitare anche la nostra libertà di giudizio: non si può più dire al telefono che quello è un cretino, per paura di rileggere il giudizio sui giornali. Cose normalissime nell’espletamento della nostra vita di relazione finiscono nel frullatore del grande orecchio. Cosa accadrebbe, ad esempio, se vedessimo pubblicate le legittime telefonate che i magistrati si stanno scambiando nella campagna per l’elezione del Csm, con i giudizi sugli uomini, sulle correnti, sugli orientamenti politici? È un’aberrazione, un imbarbarimento, che alla lunga distruggerà lo stesso strumento delle intercettazioni e la magistratura che ne abusa».

Aldo Cazzullo

14 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO. Il Cavaliere e la catena (inutile) degli amici
Inserito da: Admin - Marzo 19, 2010, 03:51:21 pm
Le telefonate

Il Cavaliere e la catena (inutile) degli amici

I colloqui con Innocenzi, Masi e Gianni Letta: il quadro dei tentativi falliti di fermare il programma sgradito


E se, alla fine, la vera notizia uscita dall’inchiesta di Trani fosse che Berlusconi non se lo fila nessuno? Il presidente del Consiglio, il padrone di un impero delle comunicazioni, l’uomo più potente del paese vuole zittire una trasmissione tv. Si rivolge a un amico che ha fatto mettere all’Authority. Lo sollecita a far intervenire il presidente dell’Authority. Si appella al direttore generale della Rai. Fa in modo che siano coinvolti la commissione di Vigilanza, un consigliere del Csm, un altro «amico magistrato» e Gianni Letta. Chiama pure i carabinieri. E la trasmissione è ancora lì. L’unico che riesce a oscurarla per qualche settimana è un parlamentare dell’opposizione, l’onorevole Beltrami, che propone il black-out elettorale prontamente accettato dalla maggioranza. Ma, il Giovedì Santo, Santoro sarà di nuovo in onda, prevedibilmente con una puntata monotematica sui maldestri tentativi di zittirlo. E Berlusconi mediterà su quanto sia inefficiente la sua struttura di comando, e il paese stesso su cui in teoria spadroneggia da decenni.

È evidente che dalla penosa vicenda si possono trarre altre conclusioni, tutte giuste. Non va sottovalutata la gravità della commistione tra Palazzo Chigi, l’autorità di garanzia, la direzione della Rai e pure quella del Tg1. Così come Berlusconi non ha torto a far notare che nessun capo di governo rilegge sui giornali scampoli di conversazioni private in cui si lamenta della moglie. Resta la sensazione di un uomo che non riesce a farsi obbedire da nessuno, e al massimo trova spalle su cui piangere. Non solo Santoro lo «processa come appartenente alla mafia » e «non fa che trasmettere puntate su Mills e Spatuzza». Veronica gli chiede 90 miliardi di lire l’anno e «c’ha il giudice che è amico dell’avvocato». De Benedetti aspetta i suoi 750 milioni di euro. Il fisco ne chiede altri 900 milioni. Ora lo vogliono pure ammazzare. Tutto serio, serissimo; ma la contro- strategia del premier lo è meno. «Questo Napoli da dove arriva, da Mastella? Ma Mastella adesso è totalmente con me!».

E Savarese? «Era amico di Fini, però adesso è più amico di Gasparri» dice la spalla del premier, Innocenzi. La cui figura, più che Tigellino, ricorda uno psicanalista o in genere un sodale destinatario di sfoghi interminabili. E’ vero che Innocenzi lamenta di essere mandato a quel paese da Berlusconi «ogni tre ore»; ma alla fine non combina nulla. Né gli altri si rivelano più efficienti o disponibili. Il fido Masi paragona il Cavaliere a un governante dello Zimbabwe, con una metafora che gli resterà appiccicata per la vita. Il poeta Calabrò fa una figura quasi eroica. Gianni Letta dà l’impressione di fare il minimo indispensabile, giusto per evitare che gli possa essere rinfacciato alcunché. E’ allora che Berlusconi gioca l’arma finale e telefona al generale dei carabinieri Gallitelli: Santoro parla male persino della Benemerita, fate un esposto! Ma pure il generale dei carabinieri disobbedisce: telefona all’Authority, ma l’esposto non lo fa. Ogni volta, anche di domenica, Berlusconi si lamenta con il povero Innocenzi, che conosce da trent’anni e copre regolarmente di contumelie; ogni volta, Innocenzi lo tranquillizza, rassicura, annuisce - «sì presidente», «certo presidente» -, annuncia bellicoso che si muoverà «come un tupamaro con le bombe addosso», promette che troverà la strada giusta; e non la trova mai. A sua volta, Innocenzi esasperato si apre con Masi: «Mi ha fatto un culo che non finiva più. Mi insulta. Mi dice che l’Agcom si deve vergognare, che è una barzelletta».

Quando proprio non ne può più, Innocenzi richiama Letta - «Gianni, sei l’ultima spiaggia... » -, il quale, come annota con involontario sadismo il maresciallo intercettatore, «risponde con parole incomprensibili ». Quanto a Santoro, il massimo che si cava da lui è la promessa di una «trasmissione equilibrata »; e qui manca purtroppo il commento del premier. Il tempo, la magistratura e le elezioni regionali daranno il verdetto sulla vicenda. E’ possi- bile, anzi probabile che le richieste di Berlusconi siano eccessive e fuori luogo, tanto che pure uomini ansiosi di compiacerlo non riescono ad accoglierle. E’ possibile che il bilancio finale sia in attivo per il premier: Berlusconi ama fare la vittima, denuncia volentieri l’accerchiamento da parte dei magistrati, e l’inchiesta di Trani potrebbe giovargli. Ma nell’infinita vertigine delle possibilità è dato pure che il "tiranno" sia un uomo solo, che la sera e nei festivi inveisce e si sfoga con un amico che magari ha posato il telefonino sul tavolo; mentre il maresciallo trascrive tutto.

Aldo Cazzullo

19 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO. Il Cavaliere e la catena (inutile) degli amici
Inserito da: Admin - Marzo 19, 2010, 06:47:51 pm
Le telefonate

Il Cavaliere e la catena (inutile) degli amici

I colloqui con Innocenzi, Masi e Gianni Letta: il quadro dei tentativi falliti di fermare il programma sgradito


E se, alla fine, la vera notizia uscita dall’inchiesta di Trani fosse che Berlusconi non se lo fila nessuno? Il presidente del Consiglio, il padrone di un impero delle comunicazioni, l’uomo più potente del paese vuole zittire una trasmissione tv. Si rivolge a un amico che ha fatto mettere all’Authority. Lo sollecita a far intervenire il presidente dell’Authority. Si appella al direttore generale della Rai. Fa in modo che siano coinvolti la commissione di Vigilanza, un consigliere del Csm, un altro «amico magistrato» e Gianni Letta. Chiama pure i carabinieri. E la trasmissione è ancora lì. L’unico che riesce a oscurarla per qualche settimana è un parlamentare dell’opposizione, l’onorevole Beltrami, che propone il black-out elettorale prontamente accettato dalla maggioranza. Ma, il Giovedì Santo, Santoro sarà di nuovo in onda, prevedibilmente con una puntata monotematica sui maldestri tentativi di zittirlo. E Berlusconi mediterà su quanto sia inefficiente la sua struttura di comando, e il paese stesso su cui in teoria spadroneggia da decenni.

È evidente che dalla penosa vicenda si possono trarre altre conclusioni, tutte giuste. Non va sottovalutata la gravità della commistione tra Palazzo Chigi, l’autorità di garanzia, la direzione della Rai e pure quella del Tg1. Così come Berlusconi non ha torto a far notare che nessun capo di governo rilegge sui giornali scampoli di conversazioni private in cui si lamenta della moglie. Resta la sensazione di un uomo che non riesce a farsi obbedire da nessuno, e al massimo trova spalle su cui piangere. Non solo Santoro lo «processa come appartenente alla mafia » e «non fa che trasmettere puntate su Mills e Spatuzza». Veronica gli chiede 90 miliardi di lire l’anno e «c’ha il giudice che è amico dell’avvocato». De Benedetti aspetta i suoi 750 milioni di euro. Il fisco ne chiede altri 900 milioni. Ora lo vogliono pure ammazzare. Tutto serio, serissimo; ma la contro- strategia del premier lo è meno. «Questo Napoli da dove arriva, da Mastella? Ma Mastella adesso è totalmente con me!».

E Savarese? «Era amico di Fini, però adesso è più amico di Gasparri» dice la spalla del premier, Innocenzi. La cui figura, più che Tigellino, ricorda uno psicanalista o in genere un sodale destinatario di sfoghi interminabili. E’ vero che Innocenzi lamenta di essere mandato a quel paese da Berlusconi «ogni tre ore»; ma alla fine non combina nulla. Né gli altri si rivelano più efficienti o disponibili. Il fido Masi paragona il Cavaliere a un governante dello Zimbabwe, con una metafora che gli resterà appiccicata per la vita. Il poeta Calabrò fa una figura quasi eroica. Gianni Letta dà l’impressione di fare il minimo indispensabile, giusto per evitare che gli possa essere rinfacciato alcunché. E’ allora che Berlusconi gioca l’arma finale e telefona al generale dei carabinieri Gallitelli: Santoro parla male persino della Benemerita, fate un esposto! Ma pure il generale dei carabinieri disobbedisce: telefona all’Authority, ma l’esposto non lo fa. Ogni volta, anche di domenica, Berlusconi si lamenta con il povero Innocenzi, che conosce da trent’anni e copre regolarmente di contumelie; ogni volta, Innocenzi lo tranquillizza, rassicura, annuisce - «sì presidente», «certo presidente» -, annuncia bellicoso che si muoverà «come un tupamaro con le bombe addosso», promette che troverà la strada giusta; e non la trova mai. A sua volta, Innocenzi esasperato si apre con Masi: «Mi ha fatto un culo che non finiva più. Mi insulta. Mi dice che l’Agcom si deve vergognare, che è una barzelletta».

Quando proprio non ne può più, Innocenzi richiama Letta - «Gianni, sei l’ultima spiaggia... » -, il quale, come annota con involontario sadismo il maresciallo intercettatore, «risponde con parole incomprensibili ». Quanto a Santoro, il massimo che si cava da lui è la promessa di una «trasmissione equilibrata »; e qui manca purtroppo il commento del premier. Il tempo, la magistratura e le elezioni regionali daranno il verdetto sulla vicenda. E’ possi- bile, anzi probabile che le richieste di Berlusconi siano eccessive e fuori luogo, tanto che pure uomini ansiosi di compiacerlo non riescono ad accoglierle. E’ possibile che il bilancio finale sia in attivo per il premier: Berlusconi ama fare la vittima, denuncia volentieri l’accerchiamento da parte dei magistrati, e l’inchiesta di Trani potrebbe giovargli. Ma nell’infinita vertigine delle possibilità è dato pure che il "tiranno" sia un uomo solo, che la sera e nei festivi inveisce e si sfoga con un amico che magari ha posato il telefonino sul tavolo; mentre il maresciallo trascrive tutto.

Aldo Cazzullo

19 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO. Bossi, l’«alleato fedele» che ruba quasi la scena a Silvio
Inserito da: Admin - Marzo 21, 2010, 04:25:02 pm
La manifestazione del centrodestra a Roma

Bossi, l’«alleato fedele» che ruba quasi la scena a Silvio

Il Senatur unico non pdl a parlare.

E Berlusconi: «Abbiamo gli stessi valori»

ROMA – «L’Europa proponeva la pedofilia. Io allora ho mandato Castelli e gli ho detto: "Castelli, va! E non tornare più se passa la pedofilia». Ma Berlusconi non la lasciò passare. Poi un ministro propose la famiglia trasversale. Berlusconi disse: «Mi sa spiegare cos’è questa famiglia trasversale?». E non firmò. Io allora pensai: «Ma questo qui è uno che ragiona come il popolo. Non vuole la pedofilia, non vuole la famiglia trasversale. Così siamo diventati amici...».

Doveva essere solo un saluto, quello di Bossi. Berlusconi l’ha indicato alla folla, gli ha teso la mano come per mostrare che c’era anche lui. Ma è stata la mozione degli affetti — «Umberto è l’alleato più fedele, è un uomo del popolo, lontano dai salotti chic, è uno di noi» — a far saltare il programma. Con il braccio del premier paternamente appoggiato sulla spalla, Bossi ha tenuto a mettere subito una cosa in chiaro: «Io sono una delle poche persone che a Berlusconi non ha mai chiesto un aiuto e neanche una lira» (il Cavaliere annuisce con un sorriso imbarazzato). «E poi Berlusconi come noi vuole fermare l’immigrazione clandestina», «l’abbiamo già fermata» tenta di inserirsi il premier, «mentre la sinistra — riprende Bossi — ha perso i voti dei lavoratori e vuole sostituirli con quelli del proletariato esterno». Ma siccome il copyright della teoria è di Berlusconi, lui subito lo rivendica: «Questa la dico sempre io. Noi moderati siamo la maggioranza; la sinistra vuole le frontiere aperte, anzi spalancate, e vuole dare il voto agli immigrati per rovesciare l’orientamento degli italiani». Il duetto fuori programma ha movimentato il consueto canovaccio del dialogo tra il leader e la sua piazza — «Volete il piano case?» «Sììì!», «Volete il raddoppio delle tasse regionali?» «Nooo!» —, ed è parso l’anticipazione della partita che si gioca domenica prossima: la nuova carta elettorale del Nord, la competizione interna tra Pdl e Lega. Assente e sempre più lontano Fini, quasi invisibili i finiani (Menia più che sul palco pareva sul patibolo), un po’ in disparte gli altri ex di An, tranne Alemanno che ha aperto il comizio urlando a squarciagola — «la Polverini deve vincere!» —, l’unico vero contraltare a Berlusconi è stato Bossi. Non a caso ha avuto diritto a due strofe del Va’ pensiero, in antitesi all’inno di Mameli suonato in apertura. Quindi ha iniziato con parole quasi incomprensibili, per dire che sarebbe sbagliato dividere il governo nazionale dalle Regioni; ma Berlusconi ha temuto che la divisione evocata fosse quella all’interno della maggioranza, e ha assicurato che lui e l’Umberto andranno sempre d’accordo perché «all’amicizia si è aggiunto un grande e fraterno affetto». È stato allora che Bossi ha mollato il braccio di Rosy Mauro, vicepresidente del Senato con fiore verde sul petto, e ha preso confidenza con la piazza, che all’inizio gli aveva riservato pure qualche fischio: «Cari giornali- sti che scrivete stupidaggini…».

Boato. «Questo è un Paese che va riformato profondamente, e ci stiamo riuscendo». Poi ha riraccontato la storia della famiglia trasversale: «Allora, Berlusconi ha chiesto a questo ministro: "Ma lei mi sa spiegare cos’è ’sta famiglia trasversale? E quello naturalmente non lo sapeva...». «Abbiamo gli stessi princìpi, gli stessi valori» ha tagliato corto Berlusconi, con il tono del padrone di casa cortese ma un po’ seccato: «E ora per cortesia lasciatemi finire il discorso... Ah ecco c’è anche Cota! Cota, che diventerà governatore del Piemonte! Bene: stavo dicendo che...». Ma il fedele alleato non vuole più scendere e comincia a sussurrare all’orecchio di Berlusconi. «Scusate, stiamo parlando di donne!» sorride il Cavaliere. In realtà Bossi sta dicendo che Zaia non c’è, è rimasto in Veneto perché gli è morto il cugino. Poi finalmente il canovaccio può riprendere: di qui amore, libertà, prosperità, crescita, lavoro, innovazione, tecnologia, tradizioni, radici cristiane; di là cattiveria, odio, invidia, pregiudizio, spionaggio, intercettazioni a tappeto e radicalismo anticlericale. Un cartello sintetizza: «Se vuoi bene al tuo bambino non votare la Bonino».

Alla fine Bossi sarà l’unico ad avere dignità di parola. I governatori non parlano, possono solo leggere in coro il giuramento del piano casa: elegantissimo Rocco Palese già rimproverato dal capo per lo stile sciatto, scatenata la Polverini che ha cantato e ballato tutto il tempo, sul palco Berlusconi le cinge la vita sotto lo sguardo ingelosito di Prestigiacomo con sciarpa azzurra, Santanché in look trasparente e boccoli, Mussolini vestita di bianco rosso e verde, Ravetto, Carfagna, Meloni e anche una Moratti insolitamente ilare. Il più felice era Verdini, sotto esame e quindi molto teso tipo padre della sposa. La piazza era strapiena, e tutti erano lì per Silvio: assente, oltre a Fini, anche Gianni Letta (come sempre ai cortei), defilato Tremonti in giaccone blu, Formigoni divertito e imbarazzato nel giurare con gli altri 11 aspiranti governatori, i più acclamati negli striscioni sono stati Feltri e Minzolini — visto anche un confidenziale «Minzo tieni duro», ricambiato con una copertura al Tg1 tipo sbarco in Normandia —, i più maledetti Di Pietro «analfabeta» o perlomeno «falso laureato» e Santoro «fascista». Bossi dietro le quinte spiega che l’amicizia è sincera, cementata nei mesi della sua malattia. Berlusconi si intenerisce: «Questo meraviglioso pomeriggio romano sa già di primavera e vince la malinconia del tramonto...». Alla fine sorridono tutti, felici. L’unico certo di sorridere anche tra una settimana è il «fedele alleato» Bossi.

Aldo Cazzullo

21 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO. «Tradito dalla Gauche ma Carla lo ama ancora»
Inserito da: Admin - Marzo 22, 2010, 11:43:38 pm
NOZZE POLITICHE

«Tradito dalla Gauche ma Carla lo ama ancora»

Lo stratega Séguéla: «Sarkozy punito dall’apertura a sinistra. Ma sua moglie gli ha aperto ambienti nuovi»


PARIGI — «Se c’è un problema che Sarkozy non ha, è Carla Bruni. Quei due si amano più che mai, e Carla non è mai stata così amata dai francesi. Resta un'arma per Nicolas, gli ha aperto stanze che lui neppure sapeva esistessero. Le cause della disaffezione del Paese verso Sarkozy sono ben altre». acques Séguéla ha lasciato un segno su due presidenti. Ha inventato lo slogan più noto della storia della comunicazione politica, la «force tranquille» di Mitterrand; e ha organizzato la cena a casa sua in cui Sarkozy e la Bruni si sono conosciuti e fidanzati. «Ho parlato con loro qualche giorno fa— dice Séguéla al Corriere —. Le voci di tradimenti e dissapori sono del tutto false». Ma il matrimonio-lampo non è solo una storia d'amore seguita dai rotocalchi del mondo; è il simbolo di una politica che stanotte ha portato la destra francese alla sconfitta più clamorosa di sempre.

«Carla Bruni ha cambiato Sarkozy. In meglio — sostiene Séguéla —. Gli ha aperto ambienti nuovi, gli ha presentato artisti e musicisti, l'ha avvicinato al mondo dell’arte e della cultura ancorato a sinistra. Ha persino portato all'Eliseo Woody Allen». Qualche mese fa, il settimanale di centrodestra Le Point si era spinto a scrivere che, grazie alla nuova moglie, Sarkozy era passato da Johnny Hallyday a Brassens, dai film di Louis de Funès a Luchino Visconti, dai romanzi gialli a Sartre e pure Marco Aurelio. La bella torinese, che aveva conquistato Donald Trump in aereo lasciandogli il biglietto da visita sul sedile mentre lui stava alla toilette, era diventata senza volerlo il simbolo dell'«ouverture», dell'apertura a sinistra, che ora sembra aver portato soltanto guai al presidente. Il rimpasto di governo che Sarkozy aveva escluso alla vigilia delle regionali, ma che dopo la rotta pare inevitabile, con il primo ministro Fillon che domattina metterà il mandato a disposizione del presidente, potrebbe avere come vittime proprio gli uomini arrivati dalla Gauche, a cominciare dal ministro degli Esteri Bernard Kouchner, fino a due anni fa l'uomo più popolare di Francia, oggi in disgrazia. A Eric Besson, braccio destro di Ségolène Royal passato a destra, era stato affidato il dossier sull'identità nazionale, che ha risvegliato antichi istinti e rianimato la destra lepenista. A Jacques Attali è stata data la commissione per le riforme che avrebbero dovuto liberare le energie della società francese, ma le sue proposte hanno scatenato il malcontento delle corporazioni, a cominciare dalla più temuta, i tassisti ( eppure Sarkozy insiste e gli ha appena chiesto «nuove idee per uscire dalla crisi»).

A nulla è servito mandare due socialisti ai vertici delle più importanti istituzioni internazionali, all’Organizzazione mondiale del commercio Pascal Lamy e al Fondo monetario Dominique Strauss-Kahn, ora speranza della sinistra per le presidenziali 2012 insieme con la vincitrice di stasera, Martine Aubry. E forse è stato controproducente sul piano elettorale portare al governo tre donne figlie di immigrati: «Una piccola rivoluzione — riconosce Jean Daniel, fondatore del progressista Nouvel Observateur— che la sinistra non ha mai osato fare e non è certo piaciuta agli elettori della destra radicale». Poi ci sono gli uomini protetti da «madame la présidente», come la chiama scherzando Séguéla. Philippe Val, uomo di sinistra appena messo alla testa di France Inter, la prima radio di Stato. Marin Karmitz, ex maoista, produttore cinematografico e proprietario della catena di sale Mk2, ora alla guida del Consiglio per la creazione artistica, generoso dispensatore di denari. Frédéric Mitterrand, nipote del presidente quello vero, presentato da Carla a Sarkozy che gli ha affidato il ministero della Cultura, e divenuto il cavallo di battaglia di Marine Le Pen, che ha fatto un numero in tv accusandolo di pedofilia e turismo sessuale in Thailandia. E l’ex brigatista Marina Petrella, la cui estradizione in Italia non è stata concessa grazie all’intervento — «non si può lasciar morire questa donna!» — della Bruni, che nega di essersi mai mossa per Cesare Battisti ma è pur sempre vicina alla scrittrice Fred Vargas, capofila della campagna per la libertà di un terrorista.

Il verdetto delle regionali è che l’elettorato tradizionale non ha apprezzato l’«ouverture», anzi chiede meno spesa pubblica, meno tasse, più sicurezza, insomma più destra. Sarkozy, eletto sull’onda del liberismo e della rottura con Chirac, ha affrontato la crisi con una politica neokeynesiana, che ha salvato le banche ma ha affossato il bilancio dello Stato. Non a caso il presidente ha annunciato una «pausa» nelle riforme, che i politologi hanno accostato alla svolta moderata decisa da Mitterrand su pressione di Delors (il padre della Aubry) il 20 marzo 1983, dopo i due anni folli delle nazionalizzazioni. Quella notte si consumò la tragedia del socialismo francese: l'ultimo a cedere fu Pierre Bérégovoy, l’ex operaio del Gaz de France che sarebbe divenuto primo ministro per poi morire suicida. Stanotte è Sarkozy a portare la destra al minimo storico. Ma il confronto con Mitterrand è davvero crudele. All'epoca, un presidente dalla doppia vita e dalla doppia famiglia, agevolata da aerei, appartamenti, scorte di Stato e coperta dal segreto sin quasi alla morte e al meraviglioso abbraccio dietro la sua bara tra Danielle Mitterrand, la vedova, e Mazarine, la figlia segreta nata dall’amore con la sovrintendente delle sculture del Musée d’Orsay, Anne Pingeot, la donna che ha vegliato sulla Porta dell’Inferno di Rodin e sull’inquietudine di Mitterrand. Oggi, una coppia unita da un colpo di fulmine e dalla ragion di Stato, che vede messa in piazza la propria vita vera e quella immaginaria, in una sit-com in cui fanno capolino ora la ex Cécilia, ora Rachida Dati con la sua misteriosa gravidanza, ora un cantante che avrebbe trascinato Carla pure lui in Thailandia, ora una sottosegretaria judoka. Dice Séguéla, senza sapere di citare la canzone di Cristicchi: «Meno male che c’è Carla Bruni. Sarkozy ne avrà molto bisogno. Perché, a forza di gridare al lupo, ora la crisi in Francia è arrivata davvero. Gli elettori non hanno consegnato 21 regioni su 22 alla sinistra per punire il presidente, ma per riequilibrare il potere. Sarkozy non ha ancora deciso se ricandidarsi nel 2012, e a questo punto tutto è in forse. Se ha fatto un errore di stile, è stato tentare di imporre suo figlio Jean, che è in gamba ma ha solo 23 anni, alla presidenza della Défense», il quartiere degli affari e delle archistar come Jean Nouvel oggi disoccupate. Ride maligno invece Philippe Sollers, il più irregolare tra gli scrittori francesi: «L’errore di Sarkozy è stato proprio il matrimonio. Doveva sposare una cinese. La donna bianca ha fatto il suo tempo. Il futuro, credete a me, appartiene alle asiatiche».

Aldo Cazzullo

22 marzo 2010
da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO. Il premier ripete l’operazione rimonta
Inserito da: Admin - Marzo 30, 2010, 11:06:02 am
Sul modello 2006

Il premier ripete l’operazione rimonta

L’analisi di Tremonti: tra chi produce «maggioranza bulgara» a Lega e Pdl


ROMA — Nel 2006 la chiave della rimonta fu Vicenza. Stavolta è stata piazza San Giovanni. Oggi come allora, quando Berlusconi è entrato nella campagna elettorale e ha messo in gioco se stesso, il vento è in parte girato. Oggi come allora, il premier non coglie la vittoria piena dei giorni migliori, ma un risultato comunque migliore delle aspettative. Il Pdl è sotto il 30%; ma senza lui in campo sarebbe andata peggio.

Cicchitto e Bondi sostengono che la svolta è avvenuta sul palco, con i candidati governatori costretti a giurare nelle sue mani. Di Pietro e Grillo — la sorpresa delle regionali: decisivo nel far perdere la Bresso in Piemonte, oltre il 7% nella Bologna degli scandali — diranno che è stata colpa dell’oscuramento tv. Resta un dato oggettivo: con il concorso essenziale della Lega, Berlusconi ha avuto un ruolo nell’evitare la débâcle. E l’ha fatto rischiando, aggredendo i candidati del centrosinistra a cominciare dalla Bresso, chiamando l’ennesimo referendum sulla sua persona. Il peso e le richieste della Lega crescono, il baricentro del Pdl si sposta sempre più a Sud, la maggioranza delle Regioni resta a sinistra, si avverte qualche scricchiolio rispetto alle politiche 2008 e anche rispetto alle europee 2009; ma l’annunciata fine del berlusconismo è di là da venire. E anche il fatto che, mentre quasi l’intero ceto politico si accapigliava in tv, lui stesse scherzando a Palazzo con una scolaresca americana – «you are so beautiful…» – ha per gli avversari il sapore di una beffa.

I problemi del Pdl non sono certo risolti. Resta il fatto che in Piemonte è il primo partito, e la sinistra dovrà rischiare Fassino per non lasciare tra un anno il Comune di Torino a Ghigo. In Lombardia il sorpasso della Lega c’è stato; ma sul Pd. Il partito del premier è avanti anche nelle «rosse» Marche e Umbria. Le vittorie in Campania e Calabria sono più ampie del previsto. E il risultato più significativo per il Cavaliere è forse quello del Lazio. La candidatura della Polverini — nata negli ambienti finiani, affossata dal pasticciaccio della lista Pdl sparita — è stata adottata da Berlusconi, che se l’è tenuta al fianco sul palco di San Giovanni e ha tappezzato Roma con la scritta «Berlusconi vota Polverini»: a qualcosa è servito. «È incredibile come anche stavolta il presidente del Consiglio sia stato sottovalutato — dice Fabrizio Cicchitto —. Si pensava che l’astensione l’avrebbe penalizzato; invece l’Italia è diversa dalla Francia, da noi l’astensione non ha colpito solo il centrodestra ma entrambi gli schieramenti. Soprattutto, si è capito che Berlusconi non ha perso il tocco. Gli avevamo espresso la nostra paura di un fallimento in piazza San Giovanni; nel 2006 avevamo impiegato due mesi e mezzo a organizzare la manifestazione. Stavolta i militanti, avvisati una settimana prima, sono venuti per lui. E lui è sempre in sintonia sia con la base del partito, sia con la pancia e il cuore del Paese. Riesce ancora a mobilitare lo zoccolo duro e a parlare agli italiani che non seguono la politica».

Racconta Sandro Bondi che «ancora due settimane fa eravamo tutti preoccupatissimi. I dati che ci arrivavano non erano affatto buoni. È stato allora che il presidente ha deciso di scendere in campo di persona. Molti di noi, me compreso, gli hanno manifestato perplessità, in particolare sul piazza San Giovanni. Invece il suo impegno ha cambiato molte cose. Credo che al presidente faccia piacere in particolare il risultato di Torino, una città per lui sempre difficile, dove stavolta ha avuto una grande accoglienza. Ci siamo battuti lealmente per Cota, un leghista moderato che ha fatto una campagna saggia». «La vittoria di Torino è clamorosa — sorride Cicchitto —. Politicamente parlando, uno “stupro”. La caduta della città dell’intellighentsia azionista e comunista segna definitivamente il cambio dell’egemonia culturale nel Paese». Restano alcuni nodi. Il Pdl è in flessione al Nord, a vantaggio della Lega. E il rapporto tra Berlusconi e Fini è ai minimi storici; anche se la posizione critica del presidente della Camera avrebbe avuto più spazio in caso di netta sconfitta elettorale. «Ora nei rapporti tra i due si deve aprire una fase diversa, proficua — dice Bondi —. La prima cosa da fare è che Berlusconi e Fini si incontrino, si chiariscano, e decidano insieme le priorità dell’azione di governo».

Di fronte all’ascesa della Lega, Bondi pensa a un recupero dell’Udc: «Se consideriamo i voti centristi, è evidente che i moderati hanno una maggioranza schiacciante quasi dappertutto. La sinistra è divenuta una sorta di Lega del Centro». «Partito appenninico» è l’antica definizione di Giulio Tremonti. Il ministro dell’Economia non rilascia interviste, ma nelle conversazioni informali fa notare che tra i ceti produttivi la maggioranza di centrodestra ha «percentuali bulgare» pressoché ovunque, tranne in parte l’hinterland torinese: «Segno che i “piccoli” non si sentono affatto trascurati dal governo, anzi; là dove ci si batte contro la crisi, il governo esce rafforzato dal voto». Quanto alla crescita della Lega, «più che cambiare i rapporti all’interno della maggioranza conferma che i due elettorati sono molto vicini, e condividono interessi e valori».

Aldo Cazzullo

30 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO. Carroccio dai giri in Ape al 13% Buttiamo giù il muro emiliano
Inserito da: Admin - Aprile 01, 2010, 09:49:17 am
REGIONALI 2010- LA LEGA

Il Carroccio dai giri in Ape al 13% «Buttiamo giù il muro emiliano»

Il segretario Alessandri: gli operai ci fischiavano, poi ci hanno ascoltati


DAL NOSTRO INVIATO

REGGIO EMILIA — «All'inizio venivano solo pazzi furiosi. Commercianti rapinati, eccentrici, artisti, vecchi bastiancontrari di paese, ragazzi che volevano fare la rivoluzione. Io ero tra questi. Avevo 18 anni e volevo fare la mia rivoluzione: abbattere il Muro del comunismo emiliano». Sono le sei di sera, e come d'abitudine nel centro di Reggio in giro non c'è un reggiano; solo stranieri. Angelo Alessandri ora di anni ne ha 40. Da nove è il capo della Lega emiliana, che ha portato dal 3 al 13%. Come premio, Bossi gli ha dato la presidenza della Lega Nord, di cui l'Umberto è segretario. Qui a Reggio, la città più comunista dell'Occidente, la città dei morti che escono dalla fossa a cantare Bandiera Rossa, la Lega è al 15. Quando si candidò sindaco, Alessandri prese il 19. «Il motivo è proprio questo: a Reggio non ci sono più i reggiani — dice Alessandri —. Non è stato il destino, ma una strategia precisa. Divieti d'accesso, vigili incaricati di multare a raffica, parcheggi a pagamento ovunque, negozi e bar che chiudono; e centri commerciali che aprono. Li costruiscono le cooperative, all'interno la grande distribuzione è controllata dalla Coop-Nord Est, con le leggi Bersani sono arrivati pure le pompe di benzina e i panettieri. Hanno spopolato le piazze con i campanili e le torri, tagliato le radici, negato una grande tradizione popolare. Vogliono farci dimenticare chi siamo. Il resto l'hanno fatto con l'immigrazione, che spersonalizza il lavoro, mescola tutto, crea paura. E la paura non è solo una percezione. Altrimenti perché non c'è nessuno per strada? Con l'indulto hanno liberato i delinquenti, e gli emiliani si sono rinchiusi dietro le inferriate, con i cani da guardia e i sistemi d'allarme, prigionieri in casa propria. Abbiamo una notte bianca da centomila persone e 364 notti nere».

Racconta Alessandri che «qui il Partito rosso è dappertutto. Se non sei con loro non lavori. Io ero artigiano, risanavo i muri dall'umidità; quando ho cominciato a frequentare la Lega mi hanno tolto tutte le commesse, più di un parente mi ha tolto pure il saluto. Nell'89 son dovuto andare a Milano per prendere la prima tessera; la Lega emiliana non esisteva ancora». Come l'avete costruita? «Per prima cosa siamo andati dai commercianti, dagli artigiani. Poi dai soci delle cooperative. Quindi nelle fabbriche, ovunque ci fosse una vertenza aperta: alla Tecnogas, alle ex Reggiane. All'inizio gli operai ci facevano correre. Poi si limitavano ai fischi. Alla fine hanno cominciato ad ascoltarci. Erano stanchi sia della contrapposizione ideologica con il “padrone”, sia della moderazione salariale. Come dice un nostro operaio, “a furia di concertare, ti ritrovi incinto”. Con Rosy Mauro, che adesso è vicepresidente del Senato, arrivammo su un'Ape ai cancelli della Lombardini, la fabbrica delle Br, un posto dove gli operai che lavoravano nei giorni di sciopero venivano filmati con le telecamere e “sistemati”. Un mese dopo avevamo fatto eleggere nel sindacato interno il primo delegato padano». La Lega in Emilia è nata attorno a gruppi di «pazzi furiosi». Come i fan del Festival del soul di Porretta Terme, dove veniva a suonare Bobo Maroni con i Distretto 51; adesso a Porretta il ministro dell'Interno è consigliere comunale, al posto di Manes Bernardini divenuto capo della Lega a Bologna (9,6%). Il nucleo forte è quello dei colli piacentini, una terra di solito considerata prossima alla Lombardia ma in realtà molto emiliana, dall'accento ai tortelli; semplicemente, nell'estrema provincia, lontano dai centri di spesa e dalle capitali del modello emiliano, la politica delle radici e dell'identità ha attecchito bene. Così a Bobbio, il paese dell'abbazia, il Carroccio ha il 49%, nel delizioso borgo medievale di Castell'Arquato il 30, a Bettola il paese di Bersani il 35. A Reggio Emilia, ovviamente, è stata più dura. Ma ora a Viano, sulla collina sopra Scandiano — dove decine di Prodi sono nati e si ritrovano a festeggiare i compleanni — la Lega ha conquistato il sindaco: Giorgio Bedeschi prese la prima volta il 13%, poi il 26, ora il 52. I primi dieci parlamentari leghisti furono eletti in Emilia nel '94, quando Bossi strappò a Berlusconi gran parte dei collegi del Nord; ma quando il governo cadde, in otto andarono con Forza Italia e restarono soltanto in due, tra cui Giorgio Cavitelli, storico sindaco monocolore di Busseto, culla di Verdi.

«A Guastalla, il paese nella Bassa Reggiana dove sono nato, eravamo in sessanta — racconta Alessandri —. Dopo la rottura con Forza Italia, rimasi solo. Andavo ad aprire la serranda della sede, in corso Garibaldi, e aspettavo: non arrivava nessuno. Ricominciai con i banchetti in piazza». «Bossi era venuto per la prima volta in Emilia nel '91. Parlò a Luzzara, nella sala che oggi è dedicata al figlio più illustre del paese, Cesare Zavattini. Zavattini è sempre stato il mio mito, insieme con Guareschi e Gianni Brera, il primo a parlare di Padanìa, con l'accento sulla “i”. Bossi ci disse che dovevamo portare pure sotto il Po il vento del cambiamento. Sembrava pazzia, ma ora ci siamo, il traguardo è a un passo». Nel frattempo Alessandri ha fatto carriera: parlamentare dal 2006, è presidente della Commissione Ambiente e Lavori pubblici della Camera. Ma il suo sogno, racconta, resta la «liberazione» della sua terra. «Il modello emiliano è finito. Continuano a tediarci con la retorica degli asili più belli del mondo, e intanto hanno privatizzato i servizi primari, come in Russia. A Reggio avevamo le municipalizzate dell'acqua, del gas, della luce. I padroni eravamo noi, prendevamo le decisioni — una testa un voto —, gli utili venivano reinvestiti sul territorio e le tariffe erano le più basse d'Italia. Poi hanno fatto le multiutilities, quindi le spa. Non ci hanno consultati né risarciti. E paghiamo acqua, gas e luce il doppio o il triplo di prima». Dice Alessandri che «la Lega vuole costruire il nuovo modello emiliano. Dal basso. A partire dai piccoli. Microimprese, artigiani, agricoltori: gente stufa del Partito rosso e soffocata dalla banche, con cui va scritto un patto che dia ossigeno ai ceti produttivi. E poi basta costruire: l'Emilia è già abbastanza devastata; eppure a Reggio vogliono fare altre 15 mila case, quando ce ne sono 12 mila invendute. Coinvolgeremo i cittadini: raccomando sempre ai nostri sindaci di tenere i consigli comunali nelle frazioni, di andare due volte la settimana a prendere il caffè con l'intera giunta a casa degli elettori. La nostra fortuna è che l'Emilia è già federalista. Da sempre. Ducati e signorie, gli Estensi e i Gonzaga, i Farnese e i Bentivoglio, i legati pontifici a Bologna e il duca di Modena con il Bucintoro che di canale in canale scendeva sino all'Adriatico; popoli diversi, eppure abituati a convivere. Stavolta Errani ha ancora vinto, sia pure con 10 punti in meno del 2005, perché difende e garantisce il vecchio sistema. Senza Errani, la prossima volta il Muro verrà giù».

Aldo Cazzullo

01 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO. Sarkozy: licenziati i giornalisti sgraditi
Inserito da: Admin - Aprile 07, 2010, 04:33:45 pm
Paralleli

La legge implacabile di Sarkozy: licenziati i giornalisti sgraditi

Via i cronisti «rei» del gossip su Carla: a Berlusconi non riesce dal 2002 con Biagi, Santoro e Luttazzi

E così Sarkozy non ha telefonato all’Agcom, non ha mobilitato i suoi Innocenzi, non si è rivolto ai vertici dei media pubblici o privati, non ha chiamato il comandante della Gendarmerie. Forse non ha neppure avuto bisogno di fare una telefonata al suo amico Arnaud Lagardère, produttore di armi e di giornali. Fatto sta che i due cronisti che avevano messo sul sito del Journal du Dimanche — l’unico quotidiano che in Francia esca la domenica—la notizia del presunto tradimento reciproco tra Nicolas e Carla Bruni sono stati licenziati.

Sarà la diversa efficienza dello Stato francese, saranno i rapporti non meno intrecciati tra politica e informazione, sarà la diversa natura del leader. Resta il dato che, là dove Berlusconi ha fallito dopo giorni di angustianti giri di telefonate, Sarkozy è riuscito con spietata immediatezza. È vero che, nell’aprile 2002, il Cavaliere annunciò e ottenne l’esclusione dalla tv pubblica di Biagi, Santoro e Luttazzi, e quell’errore gli viene ancora oggi giustamente rinfacciato. Ma negli ultimi otto anni Berlusconi non è riuscito a zittire nessuno.
Forse perché cacciare la gente non gli riesce bene; nelle sue corde è piuttosto blandire, sedurre, conquistare; e alla lunga preferisce aggiungere che sostituire. Così com’è difficile immaginare il pacioso Bonaiuti esclamare, come il suo collega Charron: «Sono i giornalisti che devono avere paura di noi, non noi di loro».

Invece Sarkozy, soprattutto quando c’è di mezzo la donna del momento, sa essere cattivo sul serio. Nell’agosto 2005 Paris Match ha in copertina Cécilia Sarkozy. Ma al suo fianco non c’è il marito, allora ministro dell’Interno, bensì l’amante, Richard Attias, pubblicitario e miliardario. Anche allora l’editore è Lagardère. Il direttore del Match, Alain Genestar, viene licenziato. Tutto quanto potrebbe frenare l’ascesa di Sarkozy all’Eliseo deve sparire. Anche le copie della biografia di Cécilia: inviate, anziché in libreria, al macero. Quando poi la coppia si ricompone, è proprio Paris Match a pubblicare sempre in copertina le foto della loro bella vacanza a Londra. Lasciato un’altra volta, Sarkozy rimedia con la Bruni. Salvo poi mandare a Cécilia, alla vigilia delle nuove nozze, il celebre sms «se torni annullo tutto»; almeno secondo il Nouvel Observateur, il cui direttore resiste alla furia vendicativa di Sarkozy. È ancora un settimanale di Lagardère, Choc, a fare un altro scoop: una foto del presidente che esce dal Consiglio dei ministri con un fascio di carte sotto il braccio; ingrandite con il teleobiettivo, si vede la lettera di un’ammiratrice che gli manda in franco-spagnolo «millions de besitos». Il settimanale è già in stampa; anche stavolta Sarkozy fa bloccare tutto.

Nulla, in confronto alle continue fughe di notizie sulle avventure di Berlusconi, vivisezionate parola per parola. Dopo l’iniziale preoccupazione, più che censurare il premier — «non sono un santo» — è parso quasi rivendicare. Del resto fu lui stesso a mostrare ai fotografi l’elenco degli appuntamenti della giornata, in cui accanto a Previti spiccavano più piacevolmente Evelina Manna e Antonella Troise, già citate nella celebre telefonata di raccomandazioni a Saccà. È probabile che i due leader abbiano un carattere diverso, e quindi un diverso approccio alla vita e ai media. Di sicuro a entrambi la stampa e in particolare la tv piacciono amiche e compiacenti, piuttosto che utilmente libere e critiche. Sarkozy in particolare sa essere spietato, ma deve far fronte a un atteggiamento spesso più severo sulle cose importanti. All’indomani delle Regionali, il tg della prima rete francese — che è in mani private ma non certo ostili all’Eliseo — apriva con il brano del discorso di Capodanno in cui Sarkozy assicurava che mai e poi mai si sarebbe rimangiato la carbon tax, accostato alla decisione appena annunciata dal presidente di ritirare la carbon tax. Il Figaro, da sempre il quotidiano della destra francese, ha attaccato duramente Sarkozy quando tentò di insediare il figlio Jean — 23 anni — alla presidenza della Défense. E un direttore della tv pubblica che si lancia in editoriali a sostegno alle posizioni del governo gli spettatori francesi non l’hanno ancora visto.

Aldo Cazzullo

07 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO. Paolo Rossi: l’ex pm mi ricorda un poliziotto cubano
Inserito da: Admin - Aprile 15, 2010, 09:50:54 am
«Beppe fa il capopopolo, io non ci riuscirei mai. Preferisco restare un saltimbanco»

«No a Grillo e Di Pietro La Lega è l'unico partito»

Paolo Rossi: l’ex pm mi ricorda un poliziotto cubano

«Beppe fa il capopopolo, io non ci riuscirei mai. Preferisco restare un saltimbanco»

Un «cittadino esemplare» riceve una visita inaspettata: è lo Stato a bussare alla porta. «Lo so, ce l’hai con me. Mi hai cercato tanto.
Mi hai sempre rispettato. E io cosa ho fatto? Ti ho abbandonato, ti ho lasciato tutte le bollette da pagare, a chi poi? A me...». Irriverente ma non offensivo, il monologo che Paolo Rossi avrebbe dovuto portare al festival di Sanremo. Eppure gli italiani non l’hanno visto. «Mi hanno cercato loro, gli autori—racconta Rossi —. Sono stato a trovarli a Roma, poi a Sanremo. Ho raccontato il testo.
Bellissimo, divertentissimo, dicevano. Poi non hanno più telefonato. Qualcuno però deve aver telefonato a loro». Si è detto che nella prima versione il visitatore non fosse lo Stato ma Berlusconi... «No. Non sono così pazzo, sarebbe stata una provocazione. Ho riferito l’episodio al mio maestro, Dario Fo, che deve averlo rielaborato. Ma non è così».

Dice Rossi che «ci sono molte forme di censura. C’è quella dei cortigiani, come in questo caso. Burocrati che si svegliano un paio d’ore prima delle persone di talento, per avere il tempo di sforbiciarne il lavoro. Poi c’è la censura del re. Ma c’è anche la censura di chi il proprio talento lo sacrifica, si vende al mercato, purga le proprie opere. Succede a molti del mio ambiente. Li vedo censurare la loro stessa intelligenza e originalità. Ma non voglio fare nomi. L’unico collega di cui parlo è il presidente del Consiglio: un uomo di spettacolo, il più adatto a governare la società dello spettacolo».

«In questi trent’anni in Italia è accaduta una rivoluzione culturale, che ha trasformato i cittadini in spettatori. Tutti sono stati coinvolti, anche la sinistra. Gli unici che non si sono adeguati, che hanno continuato a lavorare per strada, magari avendo in tasca ancora la tessera del vecchio Pci, sono i leghisti. La Lega è l’unica forma di resistenza al virtuale. Purtroppo, a differenza di Alberto da Giussano, è salita sul carro dell’imperatore. Per il resto, non credo ci sia molta differenza tra le feste azzurre del Pdl e la festa dell’Unità o come si chiama adesso. Festa democratica, mi dicono. Da tempo, dalla canzone di Gaber in poi, i parametri di destra e sinistra non sono più validi. E a volte, quando incontro un esponente di sinistra, mi viene da sentirmi un po’ di destra ». Ma se alle regionali lei si è candidato con Rifondazione? «L’ho fatto per un amico, Vittorio Agnoletto. Non sono comunista; al più, anarchico. E la mattina delle elezioni sono rimasto a casa. Credo di essere l’unico candidato che non si è votato».

In tanti guardano a un altro suo collega, Beppe Grillo. «Ognuno nella vita va dove lo portano le sue scelte. Io non riuscirei mai a diventare un capopopolo — dice Rossi —. Preferisco restare un saltimbanco. Questo so fare, e lo so fare bene. Grillo ha altre capacità.
Da buon genovese, è molto portato ad afferrare i concetti economici». E Di Pietro? «L’ho visto due volte in vita mia. A un convegno sulla Costituzione, dove si arrabbiò molto perché gli avevano portato via il posto in prima fila. E in tv da Fazio. Dietro le quinte mi chiese se i capelli erano i miei. Per un attimo ho pensato che non fossero i miei, che Di Pietro avesse un dossier riservato sui miei capelli e sapesse di loro cose che io non so. Mi ha ricordato il poliziotto cubano che mi interrogò per ore: aveva trovato la polvere che usavo per incollare un ponte dentale. Non mi mollò finché non mi staccai il ponte, lo cosparsi di polvere e lo riattaccai. Disgustato, il Di Pietro cubano mi rilasciò ».

Tra i bersagli di Paolo Rossi ci fu Bettino Craxi. «Dov’è finita la fontana di piazza Castello? Ad Hammamet!» cantava. Qual è oggi il suo giudizio su Craxi? «Non riesco a giudicare una persona che non può rispondere. Io attacco il potere; quando l’uomo perde il potere, smetto di prendermela con lui. Craxi paga il pedaggio che tocca agli sconfitti. Quando in Parlamento si alzò a dire che tutti erano responsabili, diceva la verità. Anche se ormai è diventato un luogo comune, dalla politica a Calciopoli: tutti sono corrotti, così fan tutti...».

Si chiamava Pianeta Craxon lo spettacolo che Rossi faceva al Derby nel 1980. «Uno dei personaggi era Berlusconi. Mi chiedevano: "Perché te la prendi con un imprenditore edile?". In realtà lui aveva già cominciato a comprarsi l’Italia. Per prima cosa cambiò la comicità.
La tv impose il passaggio dalla narrazione al tormentone, dalla tradizione latina alla battuta anglosassone, frantumabile dagli spot. Poi ha cambiato tutto il resto. Denunciare la malefatte di Berlusconi è inutile: vince perché in tanti si identificano nel primattore, che è anche un po’ primattrice; in tanti vorrebbero vivere nel suo film. Non lo dico per snobismo: sono uno che considera i propri film migliori quelli girati con i Vanzina. Ma la tv ha sostituito valori autentici con altri falsi, ha innalzato vitelli d’oro, anzi maiali d’oro.
Per fortuna, ora la tv è morta. Tra un po’ sarà modernariato, come i registratori Geloso ». Sicuro? «Sì. Prima il cinema uccise il teatro. Poi la tv uccise il cinema. Ora la rete uccide la tv, e con il passaparola rilancia il teatro. Il celebrato Raiperunanotte di Santoro alla fine era uno spettacolo dal vivo, in un Palasport». Non guarda proprio nulla in tv? «Ogni tanto, Amici o X-Factor. Selezionano ragazzi preparati, a cui però manca il "duende", quell’estro che non si insegna ma si può uccidere». Morgan? «Di questa storia colgo solo l’aspetto umano. Nella mia vita artistica ho visto, indirettamente e no, parecchi inferni. Quando lo spettacolo è finito e dalle uscite laterali sbuchiamo nel silenzio e nel buio, capita di cadere in certi guai».

Ora Paolo Rossi porta in giro per l’Italia il Mistero Buffo. «Vado nella casa della carità di don Colmegna a Milano, nelle scuole del Reggiano, e nel carcere di Bollate. Ha organizzato Vallanzasca. Il pienone è sicuro: i detenuti non hanno altra scelta». Il suo fondo anarchico viene fuori quando difende i dissidenti dell’amata Cuba: «Proprio chi si è entusiasmato per la rivoluzione cubana non deve vergognarsi ora di criticare il regime cubano». E quando racconta storie di famiglia. «Due anni fa, con il mio primogenito Davide, ho accompagnato mio padre, che ha combattuto in Jugoslavia, a cercare i corpi dei suoi commilitoni gettati dai titini nelle foibe.
Non li trovammo: quella è zona termale, sul posto magari avevano costruito un percorso benessere. Noi siamo di Monfalcone. Bisiacchi, che secondo Magris può significare sia "gente tra due acque", l’Isonzo e il Timavo, sia "gente in fuga".

Come i carpentieri del mio paese, bastonati per vent’anni dai fascisti e, passata la frontiera dopo la guerra, dai comunisti».

Aldo Cazzullo

15 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: ALDO CAZZULLO. Il vento del Nord soffia contro gli outlet
Inserito da: Admin - Aprile 30, 2010, 06:32:08 pm
L'ITALIA DELLO SHOPPING

Il vento del Nord soffia contro gli outlet

Dopo Cota anche Zaia si oppone all'espansione dei centri commerciali a difesa dei piccoli negozi e dei centri storici


L’ultimo, gigantesco outlet l’hanno aperto a Mondovì, provincia di Cuneo: 85 negozi, più la gelateria, il self-service, la pizzeria, il fast-food, il ristorante, la caffetteria; le cascine finte, i portici finti con il golf sul tetto, e «Power Station» con le pompe di benzina; di che mandare in rovina i piccoli commercianti, zoccolo duro della Lega. Eppure, alle ultime regionali, a Mondovì la Lega ha avuto un balzo impressionante: 23,5%, primo partito, con Cota sopra il 50 e la Bresso sotto il 45. Perché i centri commerciali mettono in difficoltà i commercianti leghisti; ma sono leghisti pure molti clienti. A Serravalle Scrivia, sede del più grande outlet d’Europa, invece ha vinto la Bresso; la Lega però ha superato il 14%. Qui la sostituzione della piazza e del paese con il centro commerciale è completa: gli abitanti portano all’outlet i cani e i bambini, visitano la «Hall of Fame» con le foto degli ospiti illustri - Gigi D’Alessio e Lele Mora, Nina Moric e Barbara Chiappini -, e quando sotto i similportici ricevono una telefonata - «dove sei?» - rispondono: «A Serravalle».

Ora il nuovo governatore Cota ha stabilito che così non si può andare avanti. Un’ordinanza dovrebbe bloccare sei progetti: una nuova apertura e cinque ampliamenti. «Avrebbero dato il colpo di grazia ai negozi di vicinato e ai mercati rionali» ha spiegato l’assessore che l’ha firmata, William Casoni, Pdl. Ma la più alta concentrazione di centri commerciali non è in Piemonte. È del Nord-Est il primato nel rapporto tra abitanti e metri quadri di grande distribuzione. Il «Veneto Designer Outlet» è a Noventa, in provincia di Vicenza: qui Zaia ha preso il 64,3% e la Lega supera il 35; ben sopra il Pdl, tre volte il Pd. L’«Outlet Unieuro» è invece in un’ex zona rossa, aMarcon, in provincia di Venezia. Qui ancora alle regionali 2005 il candidato di centrosinistra Carraro aveva staccato Galan di undici punti.
Stavolta Zaia ha vinto 52 a 37, e la Lega è arrivata al 28. Anche in Veneto, commercianti leghisti preoccupati dai megamarket, ed elettori leghisti che vanno a farci la spesa o a passare la domenica con le famiglie. Che farà il nuovo governatore? «Da noi il problema è già superato dalle regole del mercato - risponde Luca Zaia -. Il calo dei clienti dei centri commerciali è costante. La Lega ha fatto la battaglia in passato, quando il piano commerciale del Veneto che prevede un centro ogni 150 mila abitanti è stato ampiamente disatteso: in alcune zone ce n’è uno ogni 30 mila».

I veneti si sono ingegnati: la legge distingue il «centro commerciale», con un unico ingresso, dal «parco commerciale», capannoni con ingressi separati; il primo vende scarpe, il secondo attrezzi per il bricolage, il terzo vestiti, il quarto vini e cibi, un tunnel li collega e la norma è aggirata. «Ma ora le cose stanno cambiando - dice Zaia -, come per i capannoni industriali: ne hanno costruiti troppi, e ora tanti sono vuoti. Il Veneto è terra di piccoli paesi: 581 comuni, tremila abitanti di media. Siamo fatti per l’osteria e il negozio sotto casa, la vita a " chilometro zero"; non per il moloch da metropoli postindustriale. Abbiamo 62 milioni di turisti l’anno, di cui soltanto 13 a Venezia: dobbiamo rafforzare il sistema commerciale nei borghi medievali e nelle città murate, aiutare la pizzeria e il negozio di abbigliamento, il banco di souvenir e il ristorante tipico». Dice Zaia che la priorità della giunta regionale è una nuova legge per i centri storici. «Troveremo il modo di dare sollievo ai piccoli commercianti, con gli incentivi, con l’esenzione dalle tasse regionali. In cambio dovranno abbassare i prezzi: perché vanno capiti anche i consumatori, che cercano il centro commerciale per comprare una t-shirt a 8 euro anziché 80, per prendere un hamburger con pochi soldi anziché delikatessen da gourmet che non si possono permettere.

Io invece sogno che i veneti tornino a mangiare i loro piatti tipici nelle osterie, a prezzi umani. Mi piace il consumo identitario, legato ai prodotti locali, attento alla qualità. Una fetta di salame, un pezzo di formaggio comprato dal negoziante sotto casa, che ha servito i nostri padri e i nostri nonni, ha un altro sapore». Di questo passo, ci si dovrà occupare della crisi dei centri commerciali; che è una delle motivazioni con cui la giunta piemontese prepara la stretta, appunto per salvare i gestori dei megamarket che già ci sono.

Zaia sostiene che anche nel campo della grande distribuzione bisogna distinguere: «Un conto è l’imprenditore locale, che investe sul territorio. I soldi spesi da lui bene o male restano nella comunità. Un altro conto sono gli outlet aperti dalle multinazionali.
Chi fa acquisti là remunera investimenti di fondi californiani o di magnati stranieri, e spesso cade vittima dell’illusione di spendere meno, per poi scoprire desideri che neppure sapeva di avere. E poi queste città finte tendono a diventare "down-town", con gravi problemi di sicurezza come le città vere, comprese, la sera, droga e prostituzione. Lo so che tante famiglie ci vanno nel weekend, perché non sanno cosa fare. Ma preferisco imitare Klagenfurt, che ha trasformato la sua archeologia industriale in una serie di piccole botteghe.

E diffondere l’esempio di Mestre, dove con il nuovo Centrobarche è nato un quartiere pedonale dove i veneziani di terraferma vanno a comprare i prodotti tipici». Anche la grande distribuzione, però, si sta adeguando alla filosofia del «chilometro zero». Nella piazza artificiale di Mondovicino c’è la gastronomia «Eccellenze del Piemonte», con la toma di Murazzano, la robiola di Roccaverano, il dolcetto di Dogliani e gli altri prodotti che piacciono al Carlin Petrini di Slowfood. E accanto alle cascine finte ce n’è una vera, la Cascina Viot, riadattata a sede per mostre «di artisti del posto» o almeno collegati con l’ormai inevitabile «territorio».

Aldo Cazzullo

30 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Brunetta a Cazzullo: I finiani torneranno indietro
Inserito da: Admin - Agosto 15, 2010, 10:56:14 pm
Il ministro: c'è un blocco conservatore che vuole fermare le riforme

Brunetta: non si andrà al voto

I finiani torneranno indietro

«Berlusconi parli al Paese organizzando manifestazioni»

Il ministro: c'è un blocco conservatore che vuole fermare le riforme



Ministro Brunetta, cosa ci aspetta dopo ferragosto?
«Finalmente l'economia comincia a tirare. Produzione industriale in crescita tumultuosa, export a due cifre, disoccupazione in calo. Tutto questo è avvenuto senza crisi sociale, senza crisi del sistema bancario, senza la temuta desertificazione imprenditoriale; anzi, con una buona tenuta del potere d'acquisto delle famiglie e una perfetta tenuta del welfare».

Le valutazioni degli imprenditori sono molto meno ottimiste.
«Io non esprimo valutazioni; cito dati incontrovertibili. Il Pil del 2010 viaggia verso l'1,5%, quello dell'anno prossimo tra l'1,5 e il 2%. La ripartenza della locomotiva tedesca rappresenta una sicurezza. E' la fine del tunnel. E bisogna dire grazie alle famiglie italiane risparmiose, alle imprese capaci di ristrutturarsi, e un po' anche al governo, che ha condotto la nave in mezzo alla burrasca. Per questo Montezemolo e compagni sono quanto meno ingenerosi. E non aggiungo altro».

Montezemolo, e non solo lui, vi rimprovera le riforme che non avete fatto.
«E invece le riforme fatte cominciano a dare i loro frutti. La riforma della pubblica amministrazione. La riforma del federalismo, con la cedolare secca sugli affitti, che ha reso più tranquilli i comuni. La riforma del bilancio che evita gli assalti alla diligenza. La riforma delle "public utilities", con i regolamenti che consentono di privatizzare e liberalizzare. Abbiamo avviato le riforme della giustizia, della scuola, dell'università, del welfare pensionistico. E poi la semplificazione amministrativa e legislativa».

Eppure la maggioranza è divisa da una crisi gravissima.
«E io mi chiedo: non è che tutto quanto sta succedendo non sia altro che il precipitare della reazione conservatrice? La reazione di tutti quelli che il cambiamento non lo vogliono? Perché, pur tra qualche errore, qui le cose cominciano a cambiare davvero. Funziona la lotta alla criminalità organizzata. Funziona la lotta all'evasione fiscale. Le riforme sono in atto; possono piacere o no, ma sono in atto. Sedicenti governi di transizione, di salute pubblica, di salvezza nazionale o qualsiasi altra formula ipocrita e politichese, non sarebbero altro che il blocco delle riforme».

Ma se venisse meno questa maggioranza la Costituzione impone di cercarne un'altra.
«Se cadesse questo governo e gli succedesse qualsiasi governicchio da palude parlamentare che durasse qualche mese, il risultato certo e immediato sarebbe la marcia indietro della riforma della pubblica amministrazione, la marcia indietro del federalismo fiscale, la marcia indietro del rigore di bilancio, la marcia indietro su scuola, università, public utilities. Ne sarebbero felici i fannulloni. Gli enti pubblici spreconi cui Tremonti, sia pure con qualche rigidità degna di miglior causa, ha tagliato le unghie. I soviet locali di luce, acqua, gas, trasporti, spazzatura. I sindacati dei "todos caballeros", delle assunzioni facili senza concorso, della Fiom antimercato e anticompetizione. I falsi invalidi. E i tanti partiti della spesa pubblica sprecona e irresponsabile».

Tra un po' dirà che ne sarebbe felice anche la mafia...
«Non lo dico perché non voglio offendere nessuno. Ma due più due fa quattro».

Come se ne esce allora?
«Da una parte c'è il governo, che finora ha avuto il consenso degli italiani. Dall'altra parte c'è un'opposizione impotente, indecisa a tutto ma ferocemente conservatrice. In mezzo, una melassa opportunista, terzopolista, anch'essa conservatrice. Chi vincerà questa partita? Non solo chi riesce ad avere la fiducia in parlamento; soprattutto, chi riesce a parlare al paese. Il passaggio parlamentare è ineludibile. Si portino i quattro punti a Camera e Senato, con comunicazione del presidente e dell'intero governo, su cui approntare una mozione di fiducia: una sorta di nuovo inizio, anche dal punto di vista formale; come quando si vota la fiducia a inizio legislatura. Però il passaggio parlamentare non basta».

Cos'altro occorre?
«Rivolgersi agli italiani. Chiediamo al Paese: queste cose che abbiamo fatto sono chiare? Le vuoi? Il premier deve parlare non solo al Parlamento, ma al Paese. Diremo: questo è ciò che abbiamo fatto; se vince la conservazione, tutto questo si interrompe. Sarebbe una sorta di fiducia parallela, un determinante uno-due. Una fiducia popolare da chiedere come si fa nelle campagne elettorali, anche se non ci sarà la campagna elettorale. Se il Paese risponderà di sì, questo non potrà non influire».

Ma in che modo far esprimere il Paese, se non con il voto? Con le manifestazioni?
«In tutte le forme democratiche, da grandi conferenze che il premier e i ministri potranno fare in tutta Italia, a manifestazioni di consenso al governo. Da quando mai le manifestazioni sono fatti non democratici?».

Ma secondo lei ci sarà il voto anticipato?
«No. La mia consapevolezza è che la forza delle cose fatte parla in modo altrettanto chiaro alla maggioranza e al Paese. E la doppia forza porta a proseguire. Non vedo chi eletto nei partiti di maggioranza possa disconoscere le riforme, e sulla base di quale argomentazione».

Questo significa che secondo lei i finiani, o almeno una parte, torneranno indietro?
«Assolutamente sì. Chi si assume la responsabilità di troncare il cambiamento? Tutto si tiene. Questa grande operazione-verità nel Parlamento e nel Paese farà sì che si possa riassorbire la crisi. Ma anche se la crisi, per ragioni puramente di potere, non venisse riassorbita, la soluzione verrebbe parimente indicata nel Paese. Se il Paese dice a gran forza "vogliamo continuare", e il Parlamento risponde di no, viene sciolto il Parlamento, non il Paese».

E si vota con questa legge elettorale?
«Chi la cambia? La melassa? La minoranza? Se chiedessimo all'opposizione quale legge elettorale vuole, non saprebbe individuarne una. In realtà, la legge elettorale è l'espressione della volontà della maggioranza, incarnata nel bene e nel male dagli eletti. Se una maggioranza non voluta dalla gente la cambiasse, sarebbe l'equivalente di un golpe».

Fini deve dimettersi?
«Non mi sono mai posto questo problema. Ma ho un'immagine di tipo tradizionale dei presidenti di Camera e Senato, come super partes, garanti dell'attività del Parlamento. Come si fa a pensare a chi sta seduto sullo scranno più alto come a un capopartito, in contrasto con la maggioranza che l'ha eletto?».

Quando parla degli errori della maggioranza si riferisce anche alla casa di Scajola e al caso Brancher? Non c'è un problema di legalità nel Pdl?
«Il governo ha dovuto affrontare una serie di attacchi esterni che avrebbero stroncato un toro. E tutto è cominciato dopo Onna. L'insieme delle campagne mediatiche è stato avviato, scientificamente o approfittando di occasioni, dopo il 25 aprile 2009, dopo quel discorso di Onna che rappresenta il più alto livello di consenso per Berlusconi, con apprezzamenti anche a sinistra. Da quel momento si scatena l'ira di Dio contro il premier. Io non sono un dietrologo. Non penso che ci siano sempre i burattinai. Ma una sequenza di questo genere mi fa dubitare delle mie convinzioni».

Aldo Cazzullo

15 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_agosto_15/brunetta-cazzullo-non-si-andra-al-voto_e9912fe6-a83f-11df-94a2-00144f02aabe.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. ... la fine dei galantuomini in un'estate senza pudore
Inserito da: Admin - Agosto 17, 2010, 09:04:33 pm
La regola sembra diventata raccontare tutto a giornali e tv di amici ed ex partner

Amori, rivelazioni e veleni: la fine dei galantuomini in un'estate senza pudore

Quello che colpisce è che la maldicenza proviene sempre dall'interno, è frutto di lotte fratricide


L'estate 2010 resterà nelle cronache come quella in cui crollò ogni pudore, qualsiasi scrupolo, l'ultimo simulacro di riservatezza. Non bastava il mondo alla rovescia, in cui quotidiani dedicano titoli più grandi di quelli con cui fu annunciata la seconda guerra mondiale al ritrovamento della fattura di un lavello, e il nemico numero uno dell'etica pubblica diventa Giancarlo Tulliani ex vicepresidente della Viterbese. C'è qualcosa di più. Diventa regola generale spifferare «le due o tre cose che so di lei», da parte di chi la conosceva bene, magari dopo essersi tanto amati.

L'uomo più intervistato del momento è Luciano Gaucci, luminosa figura di bancarottiere già latitante a Santo Domingo con moglie locale di 42 anni più giovane, ora assistito dall'avvocato di Cesare Previti: «Ti innamoravi di Elisabetta, e prendevi anche il fratello. Gli ho comprato la Porsche. E al padre una Bmw. Poi ho capito che lei mi tradiva. Ma io li rovino, 'sti morti di fame...». Seguono dispute su schedine del Superenalotto, appartamenti intestati alla fidanzata per sottrarli ai creditori, tangenti per un collaboratore di Bush e altri dettagli di cui è bene si taccia.

Per Vittorio Sgarbi rivelare antiche frequentazioni con personaggi oscuri poi saliti alla ribalta è quasi un classico. Surama, la ballerina brasiliana divenuta compagna dell'allora sindaco di Catania Umberto Scapagnini, fu definita «una mia scoperta giovanile». Frequente la metafora della «collezione privata» e della «nuova acquisizione». Ma con Elisabetta Tulliani è andato oltre: «Ho l'abitudine di presentare le mie ragazze alla mia fidanzata ufficiale, Sabrina Colle. Di fronte alla Tulliani ha allargato le braccia. Non ha deposto a suo favore l'insistenza con cui chiedeva la tessera Freccia Alata dell'Alitalia».

Il placido mondo Rai, sempre scevro da questioni personali e maldicenze interne, non poteva deludere neanche stavolta. Così, con l'aria di schermirsi, Guido Paglia conferma a Libero le pressioni di Fini a favore del «cognato»: «Giancarlo Tulliani mi è costato un'amicizia durata trent'anni». A sua volta, Paolo Francia confida al Corriere: «Paglia è stato per anni il braccio armato di Fini in Rai. Farne ora un Padre Pio, suvvia...». Scrive il Giornale: «È da quando, nel lontano 1994, il leader della destra italiana ha messo piede nel Palazzo, che in un modo o nell'altro le sorti (e gli uomini e le donne) della tv pubblica gli stanno particolarmente a cuore». Daniela Santanché, già smascheratrice del compagno di Veronica Berlusconi, esemplifica sul Fatto quotidiano: «Fu Fini a inaugurare Vallettopoli. Portò in Rai Fanny Cadeo e Angela Cavagna, detta "la tetta della destra". È meglio che lasci ora, altrimenti cadrà per la vergogna. Le rivelazioni non sono finite"». Ma lui, Fini, di persona com'è? «Un uomo freddo, anaffettivo, spietato. Umanamente, una...». Ancora Sgarbi: «Fini non è Sarkozy e la Tulliani non è Carla Bruni. La Bruni è ricca, intelligente e di sinistra. La Tulliani invece era una ragazza di destra come la Gregoraci, la grande raccomandata dell'ex portavoce di Fini, Salvo Sottile. Abbiamo tutti sopravvaluto Fini e sottovalutato la Tulliani. Eppure era una curva ben segnalata...». E L'Espresso spiega tutto con una rivelazione attribuita a Berlusconi in persona: «La Tulliani cercò di arrivare a Palazzo Grazioli, ma non ci riuscì. Una volta s'era fatta assegnare un posto a tavola vicino al mio e fu fatta spostare. Da allora ha cercato di mettere Fini contro di me».

Colpisce non tanto la maldicenza, quanto il fatto che provenga ineluttabilmente dall'interno, frutto di lotte fratricide. La querelle dell'appartamento a Montecarlo nasce da una denuncia della Destra di Francesco Storace, che di Fini è stato portavoce, compagno di vacanze - «ti ricordi Gianfranco la volta in cui entrammo a pugno chiuso in una sezione del Pcus a Mosca presentandoci come tovarish italiani?» -, amico fraterno. Dal canto loro, i finiani scoprono con una trentina d'anni di ritardo il modo limpido in cui ancora Previti procacciò al Cavaliere la villa di Arcore (peraltro confusa da Italo Bocchino con quella di Macherio). Non poteva mancare Ciarrapico: «Fini pupillo di Almirante? Ma no. Almirante mi raccontava di lui che sa dire meglio di chiunque altro che l'estate fa caldo e l'inverno fa freddo, ma che bisogna avere del tempo prima per spiegarglielo bene. Negli ultimi mesi di vita, bloccato nel suo letto nella casa di via Quattro Fontane, Giorgio si confidò con me: "Peppino, io di Fini non mi fido..."». Viene da rimpiangere l'ipocrisia democristiana. O le allusioni maliziose di Cossiga, che per fortuna sta un po' meglio. E finiremo con il rivalutare Daniela Fini, l'unica che nella vicenda sia rimasta in silenzio. Corteggiatissima dai giornali, a tutti ha risposto allo stesso modo: «Da me non avrete una sola parola contro Gianfranco».

Aldo Cazzullo

17 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA

http://www.corriere.it/politica/10_agosto_17/cazzullo_amori_veleni_c05a89ee-a9cd-11df-8b1f-00144f02aabe.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Cossiga - Moro? Sapevo di averlo condannato a morte
Inserito da: Admin - Agosto 19, 2010, 12:07:21 am
L'intervista

Cossiga compie 80 anni: Moro?

Sapevo di averlo condannato a morte

«La strage di Bologna, fu un incidente della resistenza palestinese»


Presidente Cossiga, auguri per i suoi ottant'anni. Lei è sempre malatissimo, e tende sempre a relativizzare il suo cursus honorum — Viminale, Palazzo Madama, Palazzo Chigi, Quirinale —. Eppure la vita le ha dato longevità e potere. Come se lo spiega?
«Ma io sono ammalatissimo sul serio! Nove operazioni, di cui cinque gravi, una della durata di sette ore, seguita da tre giorni di terapia intensiva. Ma resisto. Come si dice in sardo: "Pelle mala no moridi"; i cattivi non muoiono. E io buono non sono. Io relativizzo tutto quello che non attiene all'eterno. E poi, come spiego in un libro che uscirà a ottobre, "A carte scoperte", scritto con Renato Farina, tutte le cariche le ho ricoperte perché in quel momento e per quel posto non c'era nessun altro disponibile. Io uomo di potere? Sempre a ottobre uscirà un altro libro — "Damnatio memoriae in vita" — con tutti gli articoli, lettere e pseudo saggi di insulti e peggio pubblicati durante il mio settennato contro di me da Repubblica ed Espresso ».

A trent'anni dalla morte di Moro, il consulente che le inviò il Dipartimento di Stato, Steve Pieczenick, ha detto: «Con Cossiga e Andreotti decidemmo di lasciarlo morire». Quell'uomo mente? Ricorda male? Ci fu un fraintendimento tra voi? O a un certo punto eravate rassegnati a non salvare Moro?
«Quando, con il Pci di Berlinguer, ho optato per la linea della fermezza, ero certo e consapevole che, salvo un miracolo, avevamo condannato Moro a morte. Altri si sono scoperti trattativisti in seguito; la famiglia Moro, poi, se l'è presa solo con me, mai con i comunisti.
Il punto è che, a differenza di molti cattolici sociali, convinti che lo Stato sia una sovrastruttura della società civile, io ero e resto convinto che lo Stato sia un valore. Per Moro non era così: la dignità dello Stato, come ha scritto, non valeva l'interesse del suo nipotino Luca».

Esclude che le Br furono usate da poteri stranieri che volevano Moro morto?
«Solo la dietrologia, che è la fantasia della Storia, sostiene questo. Tutta questa insistenza sulla "storia criminale" d'Italia è opera non di studiosi, ma di scribacchini. Gente che, non sapendo scrivere di storia e non essendo riusciti a farsi eleggere a nessuna carica, scrivono di dietrologia. Fantasy, appunto ».

Quale idea si è fatto sulle stragi definite di «Stato», da piazza Fontana a piazza della Loggia? La Dc ha responsabilità dirette? Sapeva almeno qualcosa?
«Non sapeva nulla e nessuna responsabilità aveva. Molto meno di quelle che il Pci (penso all'"album di famiglia" della Rossanda) aveva per il terrorismo rosso».

Perché lei è certo dell'innocenza di Mambro e Fioravanti per la strage di Bologna? Dove vanno cercati i veri colpevoli?
«Lo dico perché di terrorismo me ne intendo. La strage di Bologna è un incidente accaduto agli amici della "resistenza palestinese" che, autorizzata dal "lodo Moro" a fare in Italia quel che voleva purché non contro il nostro Paese, si fecero saltare colpevolmente una o due valigie di esplosivo. Quanto agli innocenti condannati, in Italia i magistrati, salvo qualcuno, non sono mai stati eroi. E nella rossa Bologna la strage doveva essere fascista. In un primo tempo, gli imputati vennero assolti. Seguirono le manifestazioni politiche, e le sentenze politiche».

Scusi, i palestinesi trasportavano l'esplosivo sui treni delle Ferrovie dello Stato?
«Divenni presidente del Consiglio poco dopo, e fui informato dai carabinieri che le cose erano andate così. Anche le altre versioni che raccolsi collimavano. Se è per questo, i palestinesi trasportarono un missile sulla macchina di Pifano, il capo degli autonomi di via dei Volsci. Dopo il suo arresto ricevetti per vie traverse un telegramma di protesta da George Habbash, il capo del Fronte popolare per la liberazione della Palestina: "Quel missile è mio. State violando il nostro accordo. Liberate subito il povero Pifano"».

C'è qualcosa ancora da chiarire nel ruolo di Gladio, di cui lei da sottosegretario alla Difesa fu uno dei padri?
«I padri di Gladio sono stati Aldo Moro, Paolo Emilio Taviani, Gaetano Martino e i generali Musco e De Lorenzo, capi del Sifar. Io ero un piccolo amministratore. Anche se mi sono fatto insegnare a Capo Marrangiu a usare il plastico».

Il plastico?
«I ragazzi della scuola di Gladio erano piuttosto bravi. Forse oggi non avrei il coraggio, ma posseggo ancora la tecnica per far saltare un portone. Non è difficile: si manipola questa sostanza che pare pongo, la si mette attorno alla struttura portante, quindi la si fa saltare con una miccia o elettricamente... ».

E' sicuro che il plastico di Gladio non sia stato usato davvero?
«Sì, ne sono sicuro. Gli uomini di Gladio erano ex partigiani. Era vietato arruolare monarchici, fascisti o anche solo parenti di fascisti: un ufficiale di complemento fu cacciato dopo il suo matrimonio con la figlia di un dirigente Msi. Quasi tutti erano azionisti, socialisti, lamalfiani. I democristiani erano pochissimi: nel mio partito la diffidenza antiatlantica è sempre stata forte. Del resto, la Santa Sede era ostile all'ingresso dell'Italia nell'Alleanza Atlantica. Contrari furono Dossetti e Gui, che pure sarebbe divenuto ministro della Difesa. Moro fu costretto a calci a entrare in aula per votare sì. E dico a calci non metaforicamente. Quando parlavo del Quirinale con La Malfa, mi diceva: "Io non c'andrò mai. Sono troppo filoatlantico per avere i voti democristiani e comunisti"».

Qual è secondo lei la vera genesi di Tangentopoli? Fu un complotto per far cadere il vecchio sistema? Ordito da chi? Di Pietro fu demiurgo o pedina? In quali mani?
«Credo che gli Stati Uniti e la Cia non ne siano stati estranei; così come certo non sono stati estranei alle "disgrazie" di Andreotti e di Craxi. Di Pietro? Quello del prestito di cento milioni restituito all'odore dell'inchiesta ministeriale in una scatola di scarpe? Un burattino esibizionista, naturalmente ».

La Cia? E in che modo?
«Attraverso informazioni soffiate alle procure. E attraverso la mafia. Andreotti e Craxi sono stati i più filopalestinesi tra i leader europei. I miliardi di All Iberian furono dirottati da Craxi all'Olp. E questo a Fort Langley non lo dimenticano. In più, gli anni dal '92 in avanti sono sotto amministrazioni democratiche: le più interventiste e implacabili».

Quando incontrò per la prima volta Berlusconi? Che cosa pensa davvero di lui, come uomo e come politico?
«Era il 1974, io ero da poco ministro. Passeggiavo per Roma con il collega Adolfo Sarti quando incontrai Roberto Gervaso, che ci invitò a cena per conoscere un personaggio interessante. Era lui. Parlò per tutta la sera dei suoi progetti: Milano 2 e Publitalia. Non ho mai votato per Berlusconi, ma da allora siamo stati sempre amici, e sarò testimone al matrimonio di sua figlia Barbara. Certo, poteva fare a meno di far ammazzare Caio Giulio Cesare e Abramo Lincoln...».

Ci sono accuse più recenti.
«Non facciamo i moralisti. Il premier britannico Wilson fece nominare contessa da Elisabetta la sua amante e capo di gabinetto. Noi galantuomini stiamo con la Pompadour. Quindi, stiamo con la Carfagna ».

Lei non è mai stato un grande estimatore di Veltroni. Come le pare si stia muovendo? Resisterà alla guida del Pd, anche dopo le Europee?
«E che cosa è il Pd? Io mi iscriverei meglio a ReD, il movimento di D'Alema, di cui ho anche disegnato il logo: un punto rosso cerchiato oro. Veltroni è un perfetto doroteo: parla molto, e bene, senza dire nulla. Perderà le Europee, ma resisterà; e l'unica garanzia per i cattolici nel Pd che non vogliono morire socialisti».

Perché le piace tanto D'Alema?
«Perché come me per attaccare i manifesti elettorali è andato di giro nottetempo con il secchio di colla di farina a far botte. Perché è un comunista nazionale e democratico, un berlingueriano di ferro, e quindi un quasi affine mio, non della mia bella nipote Bianca Berlinguer che invece è bella, brava e veltroniana. E poi è uno con i coglioni. Antigiustizialista vero, e per questo minacciato dalla magistratura ».

Cosa pensa dei giovani cattolici del Pd? Chi ha più stoffa tra Franceschini, Fioroni, Follini, Enrico Letta?
«Sono una generazione sfortunata. Il loro futuro è o con il socialismo o con Pierfurby Casini».

Come si sta muovendo suo figlio Giuseppe in politica? E' vero che lei ha un figlio "di destra" e una figlia, Annamaria, "di sinistra"?
«Li stimo molto entrambi. Tutti e due sono appassionati alla politica come me. Mia figlia è di sinistra, dalemiana di ferro, e si iscriverà a ReD. Mio figlio è un conservatore moderno, da British Conservative Party. Io pencolo più verso mio figlio».

E' stato il matrimonio il grande dolore della sua vita?
«Non amo parlare delle mie cose private. Posso solo dire che la madre dei miei figli era bellissima, intelligentissima, bravissima, molto colta. Che ha educato benissimo i ragazzi. E che io l'ho amata molto».

Aldo Cazzullo

08 luglio 2008
http://www.corriere.it/politica/08_luglio_08/cossiga_cazzullo_f6395d90-4cb1-11dd-b408-00144f02aabc.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Il disagio dei cattolici
Inserito da: Admin - Agosto 23, 2010, 05:49:16 pm
Il disagio dei cattolici


Il meeting di Cl che si apre oggi a Rimini sarà anche l'occasione per misurare il disagio dei cattolici italiani. Un anno fa, il caso Boffo parve segnare la fine sia della dottrina Ruini, sia del rapporto privilegiato delle gerarchie ecclesiastiche e di gran parte del mondo cattolico con Silvio Berlusconi. In realtà, non è andata così. Ma la nuova «questione romana» non è affatto risolta. Il rapporto tra la Chiesa e lo Stato, e tra i cattolici e la politica, resta da definire; con qualche complicazione in più.

Il 1993 fu per la Chiesa italiana una sorta di riedizione del 1870. Segnò la perdita del potere temporale. Ma i cattolici non si rinchiusero dietro le mura vaticane. Camillo Ruini, capo dei vescovi, elaborò la sua teoria, che si può così sintetizzare: non fermiamoci a rimpiangere la fine del monopolio del potere politico e dell'unità dei cattolici; ibridiamo tutti i partiti, proponiamo in ogni direzione i nostri valori; nel vuoto delle ideologie e delle idee, saranno i partiti e i leader a venire da noi.

Il successo fu clamoroso, e toccò il culmine quando il 75% degli italiani si astenne al referendum sulla procreazione assistita. Ma un Ruini non si trova a ogni angolo della storia. E Berlusconi, al di là dei rapporti personali, è sempre più condizionato dal proprio istinto di fare da sé. La Chiesa continua a diffidare profondamente della sinistra. Fini è visto come il fumo negli occhi: l'Osservatore Romano gli ha rinfacciato le origini neofasciste, e l'offensiva libertaria con cui si annuncia il nuovo partito non migliorerà i rapporti. Ma il sogno di molti cattolici - un Cavaliere «democristianizzato», insomma moderato - sembra sfumare. A ben vedere, è proprio l'eclisse dei moderati la grande preoccupazione del mondo cattolico.

Sono due in particolare i temi che preoccupano le gerarchie e i fedeli attenti alla politica. La questione etica, e la riforma federalista dello Stato. La Chiesa ha sempre badato a distinguere tra morale e moralismo; ma di fronte a questa sorta di Sodoma e Gomorra che pare diventata la vita pubblica italiana, il disagio è forte. Al federalismo fiscale la Chiesa, attenta a non rompere con la Lega avanzante, non ha mai detto un «no» incondizionato; ma non potrebbe tollerare una soluzione che abbandonasse il Sud a se stesso e aggravasse le disuguaglianze. I ripetuti appelli del Papa, del segretario di Stato, Bertone, del capo dei vescovi, Bagnasco affinché i giovani cattolici si impegnino in politica indicano che la Chiesa non intende chiamarsi fuori. Non è un male; anzi. Se l'Italia resta un Paese importante sullo scenario internazionale, anche ora che non è più la frontiera della guerra fredda, lo deve proprio alla presenza del Papato.

Il peso culturale del mondo cattolico può essere una grande ricchezza. L'importante è che i suoi interlocutori siano politici gelosi della laicità dello Stato e disponibili ad accogliere buoni consigli, e non leaderini pronti a lucrare sull'appoggio dei cattolici e a disattendere nella vita di ogni giorno e nell'azione di governo i valori che proclamano in favore di telecamera.

Aldo Cazzullo

22 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_agosto_22/disagio-dei-cattolici-editoriale-aldo-cazzullo_3a901166-adbb-11df-8e8b-00144f02aabe.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Tante battute pochi fatti
Inserito da: Admin - Settembre 28, 2010, 12:04:35 pm
LA STAGIONE DELLE PAROLE IN LIBERTA'

Tante battute pochi fatti

Che la sigla SPQR, nel cui nome i nostri antenati portarono il diritto e la civiltà nel mondo allora conosciuto, potesse essere letta anche «sono porci questi romani», è una di quelle battute sciocchine che ogni italiano apprende alle elementari, e per questo non fanno neppure più ridere. Non a caso compare in quel condensato di luoghi comuni sull'Italia - la pizza, il gesticolare, il «dolce far niente» - che è la mezz'ora girata tra Roma e Napoli del film «Mangia prega ama». Ma una battuta che sulla bocca di un bambino o di Luca Argentero, attore formatosi al Grande Fratello, lascia il tempo che trova, è invece desolante in bocca a un ministro del governo della Repubblica, leader del secondo partito della maggioranza. Anche perché pronunciata mentre Napolitano è a Parigi a parlare di Cavour e unificazione nazionale (si possono immaginare i commenti in Francia, dove lo Stato è una cosa seria). E perché il governo e la maggioranza appaiono da mesi paralizzati in una sterile guerra interna; senza che nell'opposizione prenda corpo un'alternativa credibile.

La politica industriale, i provvedimenti anticrisi, le infrastrutture sono fermi. In compenso, la fabbrica delle parole produce a ritmi da tigre asiatica. L'unico ministro che tace da oltre quattro mesi è il ministro dello Sviluppo economico; che non c'è. Da sempre la Lega ci ha abituati all'estremismo verbale. Le pallottole che costano 300 lire, i magistrati sulla sedia a rotelle cui «raddrizzare la schiena», i neri «bingobongo», l'uso improprio del tricolore, le battutacce contro i compatrioti di Roma e del Sud: Bossi gode da sempre di una licenza di parola, o meglio di insulto, con la giustificazione dell'efficacia popolaresca. Una delle sue armi è proprio usare il linguaggio da bar e farne linguaggio pubblico. Ma ora la Lega ha fatto scuola. Lo provano gli esponenti di destra e di sinistra che si paragonano reciprocamente a Stalin e a Hitler, con sprezzo del ridicolo e anche del rispetto dovuto ai milioni di vittime (tra cui migliaia di italiani) di quei criminali. E lo provano l'escalation verbale di quest'estate, la protervia con cui alcuni berlusconiani si sono gettati nella caccia a Fini, l'irresponsabilità con cui alcuni finiani hanno accusato senza prove Berlusconi di aver fatto o lasciato fare un dossier falso. Ormai ci siamo quasi assuefatti: come se la volgarità e la fatuità passassero come acqua sul marmo.

Non è così. Tutto questo accade in un Paese che ha già sperimentato come le parole possano diventare pietre, e piombo. Accadde agli slogan dei cortei rossi dei primi Anni 70 - la «giustizia proletaria», il «processo popolare» -, divenuti alla fine del decennio una sanguinosa realtà. La storia non si ripete mai due volte, e i paragoni con il passato sono sempre impossibili. Ma questo non significa che le parole a vanvera non abbiano, anche stavolta, un prezzo. L'esuberanza linguistica della politica italiana non corrobora un periodo di crescita economica e di coesione sociale. Avvelena ulteriormente una stagione difficile, in cui gli imprenditori (in particolare i piccoli) sono spesso lasciati soli dal governo nel mezzo di una crisi tutt'altro che finita; e in cui il disagio sociale spesso non trova rappresentanza in un'opposizione divisa e percorsa da suggestioni populiste. Si dice che il Pil non basti a indicare il progresso di un Paese. Se lo sostituissimo con un misuratore di parole, l'Italia di oggi sarebbe ricchissima. Ma non è così che si fanno crescere l'economia e la società.

Aldo Cazzullo

28 settembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_settembre_28/Tante-battute-pochi-fatti-editoriale-aldo-cazzullo_d135f524-cabf-11df-8d0c-00144f02aabe.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Leader e Presidente
Inserito da: Admin - Ottobre 06, 2010, 05:17:30 pm
Leader e Presidente


La nascita del partito di Fini è un atto di chiarezza, ed è quindi un bene. Fin dal voto di fiducia della settimana scorsa, era evidente che la maggioranza si articola ormai su tre forze. Dal vertice di oggi si capirà se possono collaborare, e la legislatura - come resta auspicabile - può continuare; o se invece tutto precipita verso le elezioni anticipate.
La mutazione del presidente della Camera in leader di partito gli impone però di dare alcune risposte al Paese. Alcune riguardano il passato: Fini ha bloccato il processo breve, che avrebbe mandato in fumo migliaia di processi per fermare quelli di Berlusconi; ma ha votato il lodo Alfano, il legittimo impedimento e altre numerose leggi ad personam nei sedici anni in cui è stato alleato di Berlusconi. Altre risposte riguardano il futuro, e in particolare il suo ruolo istituzionale.
È vero, sia Casini sia Bertinotti sono stati nel contempo presidenti della Camera e capi di partito. Anche nella prima Repubblica è accaduto che sullo scranno più alto di Montecitorio sedessero leader politici, oltretutto a capo di correnti avverse alla segreteria del loro partito, dal democristiano Gronchi al comunista Ingrao. Ma non è mai accaduto che il presidente in carica si mettesse alla testa di una nuova forza, nata da una scissione del partito di maggioranza relativa, che compatto l'aveva indicato per la terza carica dello Stato.
Tra qualche anno, quando i miasmi di un'estate orribile si saranno diradati, gli storici della politica potranno individuare le responsabilità di Berlusconi e quelle di Fini nella scissione. Certo è stato il Cavaliere a espellere il cofondatore; che però aveva già espresso l'intenzione di costituire gruppi autonomi in Parlamento.
La destra liberale ed europea del merito, delle regole, della responsabilità che Fini intende costruire manca da sempre all'Italia; i prossimi anni diranno se la sua è una velleità o un'intuizione. Di sicuro, Fini ha valutato che fosse impossibile portare avanti quel progetto dentro il Pdl, sotto l'egemonia di Berlusconi. Ora però dovrebbe valutare se il difficile lavoro di costruire un partito, con la ragionevole prospettiva di condurlo presto in una durissima campagna elettorale, sia compatibile con la presidenza della Camera. Nessuno può obbligarlo a dimettersi; la scelta può essere soltanto sua.
L'intellettuale di maggior spicco tra quelli vicini al nuovo partito, il professor Alessandro Campi, auspica che il leader si concentri sulla battaglia politica, con la piena libertà di adeguarsi alle asprezze con cui sarà combattuta nei prossimi tempi. È un consiglio su cui Fini, prima di prendere la sua decisione, farebbe bene a riflettere.

Aldo Cazzullo

06 ottobre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_ottobre_06/Leader-e-Presidente-aldo-cazzullo_4a7ee1cc-d108-11df-b040-00144f02aabc.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Renzo Piano: «Ho molta paura della Lega perché ...
Inserito da: Admin - Ottobre 12, 2010, 10:33:13 am
L'INTERVISTA

«Mi fa rabbia veder sputare sull'Italia. Grillo? Le sue battaglie sono giuste»

Renzo Piano: «Ho molta paura della Lega perché temo l'intolleranza»


dal nostro inviato  Aldo Cazzullo

PARIGI - «Sono genovese, in tutti questi anni in giro per il mondo non ho mai perso l'accento; o forse l'accento genovese è un po' un vezzo, un divertimento, non so. Ma la mia città di formazione è Milano. I primi due anni di università li avevo fatti a Firenze; ma mi annoiavo talmente… Firenze è bellissima: una città di perfezione. Ma poi uno si spara; perché è inutile fare l'architetto. Milano invece è imperfetta. E straordinaria. Ancora oggi».
Renzo Piano è nel suo atelier di Parigi a trecento metri dal Beaubourg, nel Marais, il quartiere degli ebrei, degli omosessuali e degli artisti. «Certo, l'architetto è anche un po' artista, ma la sua prima preoccupazione non può essere lasciare un segno nel paesaggio; dev'essere far vivere meglio la gente. Se vedere l'arte come tecnica, come "tekné", è un'eresia, allora sono un po' eretico».

Le stanze sono piene di luce, che entra dalle ampie vetrate, e di modellini di legno. «Ogni tanto qualche parigino bussa e chiede se possiamo aggiustargli la sedia o l'ombrello. Ci scambiano per un laboratorio artigianale; e non hanno tutti i torti». Ogni modellino è un'opera, dietro ogni opera ci sono migliaia di disegni, tutti approvati di persona da lui. «Ormai c'ho fatto l’occhio. Come il mio amico Abbado, che dirige cento violini e se uno ha un decimo di secondo di ritardo lo corregge con un cenno». I disegni più recenti mostrano un grande teatro in mezzo a un lago, con due sale sovrapposte, pensate per il teatro e la musica popolare vietnamita: è la nuova Opera House di Hanoi, per cui Piano ha appena vinto un concorso internazionale, battendo tra gli altri Norman Foster.
«Il Vietnam è un paese straordinario: 85 milioni di abitanti, più della Germania; la maggioranza ha meno di 25 anni; ma il 90% è analfabeta. C’è una grandissima energia, voglia di apprendere, bisogno di educare, senza rinunciare alla cultura tradizionale. Attorno a queste premesse è nato il progetto del nuovo teatro dell'Opera: acqua, bambù, vetro. L'ultimo anello di una lunga catena di lavori pensati per l’uomo, per la vita sociale. Basta centri commerciali. Costruiamo luoghi dove la gente si incontri attorno alla musica, come all'Auditorium di Roma che è diventato un quartiere, o all'arte, come nel Lacma, il museo che abbiamo appena inaugurato a Los Angeles. La magia delle città spesso dipende dal fatto che sono fecondate da questi luoghi. È sbagliato pensare di "rottamare" le periferie. Bisogna trasformarle, liberandone la forza repressa». I modelli in legno degli auditorium di Piano sembrano navi. «È un retaggio di Genova. Quand'ero bambino, mio padre mi portava ogni domenica mattina a messa. Poi al porto. Papà era un genovese doc, e quindi non parlava quasi mai; ma allo spettacolo del porto di Genova negli Anni 50 non servivano parole. Non c'erano i container. Gli oggetti volavano. Le automobili in braccio alle gru. Come un viaggiatore senza valigia, che si sposta con le camicie in mano. Anche gli edifici si muovevano di continuo: le navi allora si chiamavano bastimenti, dal francese "batiment", edificio appunto. Un capolavoro dell'effimero: tutto vola o galleggia, nulla tocca terra; ti viene voglia di costruire per sfidare la legge di gravità. Solo più tardi ho scoperto la vela, mi sono costruito la mia barca, ho cominciato a vedere il porto da fuori».

I suoi erano religiosi? «Mia madre sì, molto. Mio padre era un socialista timorato di Dio, per usare un'espressione che andrebbe riscoperta. Ancora oggi io vado a messa ogni domenica, con mia moglie Milly e il più piccolo dei miei quattro figli, Giorgio, che ha undici anni. Quando qui a Parigi, a Notre Dame o a Saint-Paul, la messa si chiude con una sventagliata di organo a cento decibel, che ti ricorda cos'è il timor di Dio». Il giovane Piano non era uno studente brillante. «In terza elementare un prete disse a mia madre che ero un asino senza speranza. Mi portarono pure dallo psichiatra, che sentenziò: il bambino è normale. Solo, non sapevo studiare, ero disattento. Al liceo ero sempre rimandato, un paio di volte mi bocciarono». Tra i suoi amici a Genova c'era Gino Paoli. «Eravamo negli scout insieme. Ma lui era un capo, io un lupetto. Per questo, quando nel 2007 ho compiuto settant'anni, Gino mi ha regalato un cappello da scout. All'epoca non cantava ancora; dipingeva. Una volta affrescò i muri della scuola. Io invece suonavo. La tromba. Fu proprio Paoli a convincermi che era meglio smettere».

E c'era, più tardi, Fabrizio de André. «Con lui e Luciano Berio vagheggiamo di riscrivere l'inno: Fabrizio le parole, Luigi la musica, io avrei dovuto ridisegnare la bandiera… De André era solitario, adorabile, fragile. Non era una persona facile; un po' come Genova, che è città introversa, segreta, poco espansiva. Genova e i genovesi si assomigliano. Montale diceva che ne esistono di due tipi: chi resta attaccato a Genova come una patella; e chi se ne va. Io me ne sono andato». «Milano è stata la scoperta della vita. Gli anni più formativi. Il Sessantotto ce lo siamo fatti in casa, con cinque anni di anticipo. Di giorno cominciavo a lavorare, con Franco Albini, un maestro che insegnava senza dire un parola, come mio padre. La sera andavo nell'università occupata. Veniva Camilla Cederna a portarci i cioccolatini. È stato allora che ho cominciato ad allenarmi a fare l'architetto, a capire la gente. Come i miei coetanei, volevo cambiare il mondo; da figlio di costruttori, la maniera per farlo non poteva che essere questa. Si mescolavano la ribellione e la necessità di esplorare, ficcare il naso ovunque. Come fa il cinema del neorealismo: scavare nella realtà per farla respirare. È una cosa che ti nasce dentro e non ti molla più. Ci resti intrappolato. L'aspetto artistico non è ininfluente, ma è come bello scrivere per un giornalista: una premessa, non l'essenza. L'architettura è l'arte di costruire, però non a casaccio: devi decidere per chi, per che cosa». «Finito il ’68 sono stato a Londra, nel '71 mi associai con Richard Rogers. Allora portavo una lunga barba nera, facevamo a gara con Emilio Vedova a chi l'avesse più lunga. Dopo l'esperienza in America vincemmo il concorso per il Beaubourg, e la mia base divenne Parigi. Ho sempre aperto un ufficio nelle città in cui lavoravo. Oltre a questo ce ne sono altri due permanenti, a Genova e a New York, nel vecchio mercato della carne. Ho quindici partner con cui lavoro da più di trent'anni. Poi ci sono altrettanti associati. In tutto siamo 150».

L'atelier di Parigi in effetti è pieno di giovani al lavoro anche il sabato pomeriggio. «Alcuni sono borsisti che ci mandano le università americane, europee, asiatiche. Li teniamo a bottega. Li paghiamo. E loro imparano. Qualcuno arriva qui molto sicuro di sé. Ricordo un giovane di Harvard, che dopo un mese per sbaglio inviò per mail a tutti il rapporto riservato alla sua università: "Qui sono matti, Piano dà ordini sconclusionati…". Quando si rese conto dell'errore, il ragazzo rimase in attesa di chissà quale punizione. Invece nessuno gli disse nulla. L’abbiamo lasciato a bagnomaria. E lui ha cambiato atteggiamento: umile, disponibile, pronto ad apprendere». Negli Anni Settanta, quando Piano con Rogers pensava e faceva costruire il Beaubourg, a Parigi c'era anche uno scrittore che era stato importante per lui: Italo Calvino. «Tra le città invisibili, ce n’è una fatta di tubi: un cantiere dove lavorano solo gli idraulici, si attendono i muratori che non arrivano mai, e alla fine si insediano la Naiadi, le ninfe dell’acqua che scorre. Quella città è il Beaubourg. Che non ha muri, ma pilastri cavi pieni d’acqua, a prova di incendio. Non so a chi appartenga l’intuizione, se sia nato prima il nostro progetto o il racconto di Calvino. So che Italo veniva spesso in cantiere; come anche Michelangelo Antonioni. Calvino, come molti scrittori, era ossessionato dal lasciare qualcosa di concreto dietro di sé. Mi suggerì pure un sistema per pulire l'edificio: due giganteschi rulli che si spostassero come quelli dell’autolavaggio».

Un altro torinese: Norberto Bobbio. «Una guida morale. Un maestro a distanza. Talvolta andavo a trovarlo a Torino. Mi ha insegnato che nella vita c'è di meglio che passare il tempo a convincere gli altri; ad esempio, avere le idee giuste». Un fratello maggiore: Umberto Eco. «Ci conosciamo da quarant’anni. Insieme cantiamo le canzonacce in dialetto: "Sci ben che sun piccinna"». Gae Aulenti: «Grande. Una leonessa». Vittorio Gregotti. «Ogni tanto qualcuno ci vuole far litigare. È stato mio insegnante, abbiamo sempre avuto un ottimo rapporto». Ma gli amici più cari sono i musicisti. Pierre Boulez. Salvatore Accardo, «il padrino di mio figlio Giorgio, che non a caso suona il violino». Daniel Barenboim, «che a Berlino diresse un balletto di 18 gru, quelle del nostro cantiere. Ognuna era azionata da un operaio di nazionalità diversa. In tutto erano 5 mila, tra cui solo 500 tedeschi».

E Claudio Abbado, che lanciò l’idea del concerto per Milano da pagare in natura, anzi in alberi. Non se n’è fatto nulla. «Milano continuo ad amarla. Resta una grande città. Ci vuol altro per ammazzarla. Certo che per ammazzarla si fa di tutto. Questa piccola vicenda degli alberi è sintomatica, oltre che indecente. Non si capisce come si possa essere così fessi. È finita che Abbado non ha fatto il concerto, e i milanesi non hanno avuto gli alberi. Ma perché? Perché questo cinismo, questa disattenzione?». Non è questione di destra o di sinistra, spiega Piano. Genova ha rinunciato al suo Affresco, il progetto per ridisegnare il waterfront, che prevedeva di spostare l’aeroporto in mezzo al mare. Ma era davvero possibile? «Certo. C'erano pure i soldi. Ma si sarebbero liberati un milione e mezzo di metri cubi per il porto. Si sarebbe rotto il monopolio, e il vecchio sistema sarebbe stato spazzato via. Purtroppo in Italia è sempre tutto più difficile. Il grattacielo di Torino me l'hanno fatto pesare al punto che quasi ti scappa la voglia… Intendiamoci: anche all’estero si discute, e molto. Vede queste foto? È la Scheggia di Cristallo, il nuovo grattacielo di Londra. Cresce di due centimetri ogni ora, la macchina sale di continuo, non si ferma mai. Il principe Carlo non lo voleva, c’è stata un’inchiesta pubblica, ci hanno dato ragione, e ora si costruisce. In Italia è diverso. Un paese meraviglioso, che si fa del male da solo». All’Aquila, quando si costruirà? «All'Aquila è stata montata con superficialità un'operazione mediatica. La ricostruzione sarà lunga e difficile. Noi daremo un piccolo contributo donando un progetto: un auditorium da 250 posti, nel parco del castello; idea di Abbado, budget di sei milioni versati dalla provincia di Trento». La Milano 2 di Berlusconi l’ha vista? «Non ci sono mai stato. La prego, non mi faccia parlare di Berlusconi».

La Lega? «Mi fa paura. Molta. Perché mi fa paura l’intolleranza. E mi fa una gran rabbia veder sputare sull'Italia. Il sentimento patriottico non va lasciato alla destra». Il suo concittadino Beppe Grillo? «È un caro amico, ci litigo spesso ma sulla forma, perché le sue battaglie civiche sono quasi sempre giuste». La sinistra? «Mi fa soffrire. Ce l'ho nell’anima. Sono nato in una famiglia modesta perché mio padre non voleva lavorare per i fascisti. Però mi ha insegnato a non essere settario, a non dividere il mondo tra conservatori e progressisti: lui, nenniano, apprezzava La Malfa e Taviani. Anche oggi a sinistra ci sono ingegni, talenti. Eppure…». La soluzione può essere il «Papa straniero», un leader uscito dalla società civile? «Non credo che chiunque possa fare politica. La politica è un mestiere; un mestiere di straordinaria nobiltà. Questo rende ancora più stridente il disprezzo che la circonda. È l'arte della polis: un'arte sublime, che dovrebbe essere praticata dai migliori, ma non si può improvvisare. Occorrono militanza, preparazione, allenamento. Magari un Papa straniero esiste, ma dev'essere il migliore, e non nel suo mestiere; in quel mestiere lì, la politica. Io non lo saprei fare».

«Ogni tanto, la notte, mi diverto a tornare sul luogo del delitto. Vado su Google Heart, a vedermi le varie opere. L’Art Institut di Chicago, il simbolo dell'orgoglio civile della città di Obama. L'Academy of Sciences di San Francisco. L’aeroporto di Osaka…». Poi ci sono i lavori in corso. A Londra, in Oxford Street, «abbiamo fatto una piazza coloratissima». Ad Harlem, il nuovo campus della Columbia University sorgerà dove le Pantere Nere progettavano la rivolta e dove fu girato West Side Story: «Basta prati, laghetti e scoiattoli; sarà un'università metropolitana, aperta, con il centro per le ricerche sul cervello di fronte alla School of Art». A Malta, il nuovo Parlamento riempirà il vuoto aperto da una bomba della seconda guerra mondiale. Ad Atene, sorgerà al Pireo la nuova biblioteca, «concepita come un'agorà, una piazza». Come la nuova Martyrs' Square di Beirut, «che mi ricorda la Berlino degli Anni '90, la volontà di rinascita dopo la tragedia. A Berlino mi sento sempre a casa. Ce n'è voluto per convincere i tedeschi a intitolare una piazza a Marlene Dietrich, che è ancora vista come una traditrice. Peter Schneider dice che Berlino è ancora stretta tra la Scilli dell’autocommiserazione e la Cariddi dell’arroganza. Resiste questo senso di colpa, che però spiega anche la grande gentilezza con cui ti trattano i figli e i nipoti di chi visse le sofferenze della guerra nazista e della dittatura comunista».

Costruirebbe la moschea di Ground Zero? «No. L'11 settembre ero lì, con i miei figli Carlo, Lia e Giorgio, che aveva un anno. Mi auguro che pure chi ricostruirà Ground Zero fosse all'epoca un bimbo. È opportuno lasciar depositare la polvere di un evento così drammatico. Invece sono partiti sparati con un’operazione immobiliare, speculativa». C’è la firma di Piano anche nella nuova chiesa di Padre Pio, a San Giovanni Rotondo. «Un luogo di folla, di rumore. Sette milioni di persone l'anno. Però, se solo una su cento fosse toccata dalla grazia, sarebbero 70 mila. Tantissime». C’è un altro progetto, molto più piccolo, che gli sta a cuore. Un monastero a Ronchamp, dove Le Corbusier costruì la cappella di Notre Dame du Haut. «Dodici celle per le clarisse. Vetrate aperte sulla foresta. Sopra, il refettorio. Ambienti minuscoli, e vasti spazi aperti. Il vuoto è la traduzione architettonica del silenzio».


11 ottobre 2010(ultima modifica: 12 ottobre 2010)
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Titolo: ALDO CAZZULLO. GLI EFFETTI DEL RICONTEGGIO DEI VOTI
Inserito da: Admin - Ottobre 17, 2010, 07:14:29 pm
GLI EFFETTI DEL RICONTEGGIO DEI VOTI

Una commedia piemontese


C’è una vicenda politica che ricorda l’opera dei pupi siciliani, il teatro di Eduardo, la commedia a l l ’ i t a l i a n a d i Cinecittà; eppure si svolge in Piemonte, un tempo considerato la Prussia d’Italia, culla di virtù civili e dell’unità nazionale, di cui si appresta a celebrare i 150 anni.

Pare che il presidente del Piemonte non sia più il «vincitore» Cota, che governa—oltretutto piuttosto bene — da seimesi, ma la «sconfitta » Bresso. Sono state escluse, per non aver raccolto le firme, due liste di sostegno al leghista: quella dei Consumatori e quella di Deodato Scanderebech, noto per la meticolosità delle campagne in cui oltre a delicatezze gastronomiche distribuiva all’elettorato il kit con spazzolino e dentifricio. La magistratura ha imposto di ricontare le schede: quelle con due croci, una sulla lista incriminata e una per Cota, sono valide; quelle con una croce sola sulla lista, no. A lungo si è discusso come e dove effettuare il riconteggio, e soprattutto chi dovesse pagarne il conto. Alla fine si è deciso di dividere le spese tra la Regione e i ministeri della Giustizia e dell’Interno (il Comune di Torino paga il trasporto delle schede al carcere delle Vallette, dove avviene il rito).

Ancora non si sa chi abbia vinto davvero. Pare che sia in testa la Bresso. Una cosa è certa: il caso non finirà mai. Nessuno dei due contendenti si comporterà come Al Gore, che ha accettato un verdetto forse ingiusto e ha taciuto. Come un’autentica vicenda italiana, anche questa si trascinerà tra ricorsi—Cota ne ha già presentato uno al Consiglio di Stato — e accuse reciproche di intrighi e di golpe. Una matassa quasi inestricabile nel Paese delle cinque leggi elettorali: una per le Comunali, un’altra per le Provinciali, un’altra ancora per le Regionali, una quarta per le Politiche e una quinta per le Europee.

Nessuna soluzione a tavolino sarebbe riconosciuta dalla controparte, e dai suoi elettori; e quindi andrebbe assolutamente evitata. Se poi la Bresso accettasse di essere intronizzata in questo modo, per il centrosinistra sarebbe un disastro: dopo il ribaltone in Sicilia, e con la prospettiva di un governo tecnico a Roma, Berlusconi e la Lega scatenerebbero con tutta la loro potenza di fuoco una campagna contro la sinistra che perde le elezioni, ma ne capovolge il risultato grazie ai cavilli e alla complicità della magistratura «comunista ». Senza considerare, per assurdo, una querelle che si aprirebbe sugli atti di una giunta nominata da un presidente dichiarato illegittimo: da convalidare o da annullare?

La Bresso invoca il rispetto delle regole; Cota, quello della volontà popolare. L’unica soluzione possibile, qualora si stabilisca che l’elezione del «governatore» piemontese non sia stata formalmente ineccepibile, è tornare a votare. Consapevoli di vivere, 150 anni dopo, in un’Italia dove — purtroppo o per fortuna — non esistono Prussie, ma la linea della palma è salita fin sulle Alpi.

Aldo Cazzullo

17 ottobre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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Titolo: ALDO CAZZULLO. I divorziandi della Libertà
Inserito da: Admin - Ottobre 25, 2010, 09:09:04 am
IL PDL E FINI

I divorziandi della Libertà

Il divorzio da Fini si sta rivelando per Berlusconi più complicato di quello da Veronica. Tra marito e moglie, se non altro, c'è una trattativa in corso. Ma il presidente del Consiglio e il presidente della Camera neppure si parlano. È tutto un fiorire di sedicenti pontieri, secondo i quali un incontro prima o poi si farà, ma per il momento «è prematuro». Come se fosse normale che il premier non parli con quello che è ormai diventato il capo di uno dei tre partiti che sostengono il governo.
La tregua che pareva intravedersi sul Lodo Alfano è durata il tempo di un weekend. Ad Asolo, Fini ha provocato Berlusconi in ogni modo possibile: ha evocato il governo tecnico, oltretutto in presenza del suo massimo teorico, D'Alema, già artefice del ribaltone del '95; e ha precisato che il Lodo Alfano non può essere prorogabile. Come a dire che Berlusconi non potrà salire da Palazzo Chigi alla presidenza della Repubblica senza passare al vaglio dei magistrati. Il messaggio è chiaro: Fini già ragiona pensando alla prossima legislatura, e avverte il Cavaliere che non potrà contare sui voti dei suoi parlamentari per il Quirinale. Anche Berlusconi si attrezza per il lungo periodo, badando a mettere in sicurezza sia la fedina penale sia le aziende.

Però, mentre pensano al futuro, entrambi trascurano il presente. Che purtroppo non è tranquillo e sereno come lo si vorrebbe. La bufera della crisi internazionale è tutt'altro che passata. Proprio mentre il sistema economico italiano è chiamato al massimo sforzo per coniugare produttività e occupazione, competitività e coesione sociale, gli imprenditori rischiano di dover fare a meno del sostegno di una politica che si occupa d'altro. Il Pdl dà chiari segni di implosione, ultimo il partito del Sud di Micciché: nato come contraltare alla Lega, appare il sintomo della disgregazione degli attuali partiti. Mentre nel campo avverso si vagheggia una coalizione da Fini a Vendola, da Casini a Di Pietro, pensata come unica risorsa per contrastare il Cavaliere ma che potrebbe rivelarsi per lui un elisir di lunga vita.

L'unica via d'uscita è che Berlusconi e Fini chiariscano quali sono le loro intenzioni. Il logoramento reciproco non conviene a nessuno. Tanto meno al Paese. Nei governi di coalizione un modo per convivere si può sempre trovare: la Prima Repubblica può fornirne un intero catalogo. Craxi e De Mita, per fare solo un esempio, non si amavano più di quanto si amino oggi Berlusconi e Fini; eppure i loro partiti hanno governato insieme per un decennio. Prima i duellanti si incontreranno, come suggeriscono i loro consiglieri più avveduti, meglio sarà. Il proseguimento della legislatura resta la soluzione migliore. Se invece entrambi ritengono inevitabili le elezioni, tanto vale che trovino il coraggio di dirlo al Paese, e di assumersene le conseguenze.

Aldo Cazzullo

25 ottobre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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Titolo: ALDO CAZZULLO. La Padania degli orologi a cucù*
Inserito da: Admin - Novembre 02, 2010, 06:37:16 pm
L'ANTICIPAZIONE

La Padania degli orologi a cucù*

di Aldo Cazzullo

La pianura padana, nel suo complesso, può essere considerata una piccola patria. Non c'è dubbio che esista una certa continuità culturale da Torino a Trieste. La grande valle del Po non è solo ricca, dinamica, laboriosa. È anche uno scrigno di tesori d’arte e di cultura. È una delizia percorrerla lungo le tre direttrici: quella del grande fiume, che dalla longobarda Pavia porta alle torri di Cremona e agli affreschi di Mantova e Ferrara; quella, più a nord, dell'autostrada che da Milano sale alla Bergamo medievale, scende nella Brescia rinascimentale e razionalista, prosegue per Verona, Vicenza, Padova, Venezia; e quella, più a sud, lungo la via Emilia, «una strada antica come l’uomo / segnata ai bordi dalle fantasie di un Duomo » come canta Francesco Guccini, che è nato a Modena e ben conosce la cattedrale su cui Wiligelmo scolpì non solo la Bibbia ma anche re Artù, le sirene e un intero bestiario medievale, compresa la volpe che si finge morta per mangiarsi i galli che vorrebbero seppellirla; e poi le figure dei dodici mesi simboleggiati dai lavori dei contadini, che qualche anno dopo Benedetto Antelami avrebbe scolpito in forme più raffinate a Parma. La Padania, in qualche modo, esiste. Ma non può sostituire l’Italia; né avrebbe senso senza il resto d’Italia. Sarebbe una parola vuota, un flatus vocis, un suono vano. Che cosa sarebbe il Nord senza la Toscana, senza la lingua comune e il Rinascimento, senza Dante e Brunelleschi? E senza Roma, senza la classicità e il cattolicesimo, senza i cesari e i papi? Che cosa sarebbe la letteratura italiana senza i siciliani, senza Verga, De Roberto, Pirandello, Brancati, Tomasi di Lampedusa, Sciascia, Bufalino, Consolo, giù sino a Camilleri? Che cosa saremmo noi tutti senza quella straordinaria fucina di miti e simboli che è Napoli, talmente vitale che all'estero la confondono con l'Italia stessa, il sole, il mare, la pizza, la smorfia, Pulcinella, ma anche la musica e l'arte, il cinema di Totò e il teatro di Eduardo? Il Sud è spesso sentito al Nord, e non solo dai leghisti, come una palla al piede; e in effetti di risorse ne ha inghiottite parecchie. Il Sud spesso si sente impoverito e sfruttato dal Nord; e in effetti senza il lavoro degli operai meridionali l'industria padana non sarebbe la stessa. La verità è che il Nord, senza il Sud, sarebbe deprivato di senso (e viceversa, si intende). Gli italiani cinefili amano tirarsi su il morale citando una celebre battuta del film Il terzo uomo di Carol Reed, sceneggiato da Orson Welles e Graham Greene: «In Italia, sotto i Borgia, per trent'anni hanno avuto assassini, guerre, terrore e massacri e hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e di democrazia e cosa hanno prodotto? L'orologio a cucù». Ecco, la Padania sarebbe, appena un po' più grande, il paese degli orologi a cucù.

*Tratto dal libro «Viva l'Italia! Risorgimento e resistenza: perché dobbiamo essere orgogliosi della nostra nazione»

25 ottobre 2010
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http://corrieredelveneto.corriere.it/veneziamestre/notizie/politica/2010/25-ottobre-2010/padania-orologi-cucu*-1704021988910.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Obama perde anche la «sua» Chicago
Inserito da: Admin - Novembre 03, 2010, 09:57:39 pm
LA SCONFITTA-SIMBOLO

Obama perde anche la «sua» Chicago

Democratici battuti nell'Illinois, seggio del presidente


Chicago è caduta. Nessuno nella folla che il 4 novembre 2008 festeggiava la vittoria di Obama a Grant Park, sotto i grattacieli più belli al mondo, avrebbe immaginato che due anni dopo la roccaforte sarebbe crollata. Invece è successo. «Turatevi il naso e votate democratico» titolava ieri il Chicago Reader, quotidiano rivale del conservatore Tribune. Appello tardivo. Il seggio al Senato che fu di Obama è ora del repubblicano Mark Kirk, eroe imbroglione, che ha vinto per un semplice motivo: il suo rivale democratico, Alexi Giannoulias, era considerato più imbroglione ancora. Kirk si è inventato un curriculum da soldato glorioso: decorato come «ufficiale dell’anno»; veterano della prima guerra del Golfo; ferito in Iraq. Non è vero niente, hanno replicato dal fronte avverso: l’onorificenza non è andata a lui ma al suo reparto, durante la prima guerra del Golfo Kirk era riservista in Maryland, e nell’elenco dei feriti in Iraq non risulta. Purtroppo il democratico Giannoulias, 33 anni, poteva vantare solo il fallimento della banca di famiglia, oltre a qualche partita a basket con l’amico Obama e a una certa somiglianza con Nicholas Cage giovane. Negli ultimi spot ha mandato avanti la mamma. Kirk ha invece portato a Chicago Scott Brown, l’ex istruttore di fitness noto per le sue foto sulle riviste femminili prima di conquistare a sorpresa il seggio che fu di Ted Kennedy in Massachussets, altro Stato tradizionalmente democratico. E con i democratici Brown ha votato, contro l’ostruzionismo repubblicano al piano per l’occupazione. «Lavorerò con il presidente Obama» è stato l’ultimo messaggio di Kirk.

SGRETOLAMENTO - Qui non ci sono i Tea party. Ai repubblicani non serve alzare la voce. Basta cogliere lo sgretolamento della macchina democratica: la spietata, corrotta ma un tempo efficientissima «Chicago machine», di cui Obama è l’ultimo prodotto. Una storia politica si chiude. La saga di Richard Daley, sindaco dall’89, figlio e omonimo del Richard Daley che governò dal ’55 al ’76 e fece votare anche i morti pur di accontentare il patriarca Joseph Kennedy – «ok Joe, daremo una mano a quel tuo ragazzo» – e decidere le presidenziali del 1960. Ora Daley junior si è ritirato. Per il Comune si vota a febbraio, e i democratici schierano il capo dimissionario dello staff di Obama, Rahm Emanuel, detto Rahmbo per l’eleganza dei modi. Anche lui rischia. Perché la «Chicago machine» è impazzita. Quando Obama è diventato presidente, toccava al governatore, Rod Blagojevich, indicare il sostituto al Senato. Il «serbo» mise la carica all’asta: arrestato. Oggi fa la pubblicità ai «Wonderful Pistachios»: gli arriva una valigetta, lui la apre avido, e anziché i dollari spunta una marea di pistacchi. Lo spot non ha giovato al suo vice e successore, Pat Quinn, che ha faticato sino all'ultimo per battere il repubblicano Bill Brady. Il motivo è semplice. Lo Stato dell’Illinois ha debiti per 13 miliardi di dollari, non paga i fornitori, non trova i soldi per gli interessi. Quinn ha proposto di aumentare le tasse, Brady di tagliare le spese. Tiene Mike Madigan, potente speaker della Camera dell’Illinois che ha piazzato la figlia Lisa come procuratore generale. Fuori gioco ormai Jesse Jackson junior, figlio e omonimo del leader nero: l’hanno beccato con l’amante, per giunta bianca, e la comunità afroamericana non l’ha perdonato.

COLPO DURISSIMO - Non è soltanto un mondo che finisce. È un mito neonato, quello di Obama, che subisce un colpo durissimo. Al presidente viene rimproverato di aver trasferito la «Chicago machine» alla Casa Bianca. Il ministro dell’Istruzione, Arne Duncan, anche lui ex giocatore di basket, era l’amministratore delle scuole pubbliche di Chicago, gravate di debiti. Alla Giustizia è andato un altro Fob, «Friend of Barack»: Eric Holder. La donna più vicina a Obama è Valerie Jarret, cresciuta all’ombra del sindaco Daley. I suoi primi grandi finanziatori sono «chicagoans»: John Rogers – il presidente ha sistemato alla Casa Bianca la sua ex moglie Desirée -; Penny Pritzker, proprietaria della catena di hotel Hyatt e nel 2008 capo del comitato per la raccolta fondi; Christie Hefner, figlia dell’editore di Playboy; Marty Nesbitt, pure lui giocatore di basket, finanziere, marito di Anita Blanchard, l’ostetrica che ha fatto nascere Sasha e Malia Obama. Sarebbe di Chicago pure Hillary Clinton, che però ha seguito altre strade. Vuole invece tornare qui David Axelrod, l’artefice del miracolo del 2008, pronto a lasciare la Casa Bianca per lavorare a un altro miracolo: far rivincere Obama nel 2012.

PRECEDENTI - La missione è possibile, e non solo perché i repubblicani avanzano ma sono privi di un leader. I precedenti indicano che si può ancora fare. Clinton perse 54 seggi alla Camera alle elezioni di mid-term del '94, e due anni dopo fu rieletto. Truman ne perse 55 nel '46, e vinse a sorpresa nel ’48 (il giornale che titolò «Dewey sconfigge Truman» era il Chicago Tribune). Il record è di Roosevelt: nel ’38 perse 72 seggi alla Camera, e vinse la Seconda guerra mondiale. Ma «Obama non è Roosevelt» ricordava ieri l’editoriale del Wall Street Journal. L’America sembra pentita di aver affidato il comando a un uomo affascinante, dalla storia straordinaria, ma che non aveva mai amministrato uno Stato o anche solo una pizzeria. Figlio della città più sanguigna d’America: i mattatoi da cui uscivano le bistecche dei pionieri, le guerre di mafia negli anni di Al Capone e Sam Giancana, le teste fracassate dei pacifisti alla convention democratica del 1968, le bare gettate via dal cimitero dei neri per rivendere le tombe – è successo l’anno scorso -; e stanotte un verdetto crudele, che potrà ancora essere ribaltato, ma può anche essere letto come un segno del declino dell’America e dei suoi idoli.

Aldo Cazzullo

03 novembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/esteri/speciali/2010/elezioni-usa-2010/notizie/cazzullo-caduta-chicago-obama_a5137056-e717-11df-a903-00144f02aabc.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. LA CHIESA TEME UNA ROTTURA
Inserito da: Admin - Dicembre 01, 2010, 05:36:48 pm
LA CHIESA TEME UNA ROTTURA

La fragile unità del nostro paese


Domani si apre a Roma un significativo convegno sull'unità d'Italia, che vedrà - oltre al ritorno sulla scena pubblica di Dino Boffo - l'intervento di studiosi e del presidente del comitato per le celebrazioni, Giuliano Amato.

Il promotore però non è lo Stato italiano. È il leader storico dei vescovi, Camillo Ruini.

Sono molti i segni dell'attenzione della Chiesa ai 150 anni. La presenza del segretario di Stato, Tarcisio Bertone, il 20 settembre scorso a Porta Pia, per la prima volta dal 1870. L'appello all'unità e a un federalismo solidale del nuovo capo dei vescovi, Angelo Bagnasco, ripetuto la settimana scorsa alla Camera, nell'incontro con ottanta parlamentari di ogni partito. Anche i giornali cattolici si occupano non solo dell'anniversario ma della discussione politico-culturale che vi è sottesa. Avvenire ha dedicato una serie di articoli alle sofferenze dei cattolici nel Risorgimento, ma senza accenti polemici. Il Messaggero di Sant'Antonio, uno dei periodici più diffusi d'Europa, dedica la copertina dell'ultimo numero ai 150 anni.

E anche un quotidiano concentrato sulle vicende internazionali più che su quelle interne italiane, come l'Osservatore Romano, mostra un'attenzione al dibattito sul Risorgimento e anche sulla Resistenza che non si spiega solo con la storia familiare del suo direttore Gian Maria Vian è nipote di Ignazio, che della Resistenza cattolica fu l'eroe: militante della Fuci con Moro e Andreotti, sottotenente dell'esercito, fu il primo a salire in montagna, sopra Boves: i nazifascisti uccisero il parroco del paese e impiccarono Vian a Torino.

La Chiesa considera da tempo superata quella frattura con lo Stato unitario che alcuni suoi zelanti interpreti vorrebbero riaprire l'Osservatore ha rievocato la decisione di Paolo VI, che sciolse i corpi militari proprio nel centenario di Porta Pia. Mostra un approccio sereno a fatti laceranti, che richiederebbero qualche revisione sul fronte laico: è vero che Pio IX dopo le iniziali aperture fu avversario dell'unificazione e della nuova Italia; è vero pure che da parte «piemontese» vi furono accanimenti ed eccessi, se si pensa che fu soppresso pure il convento di San Francesco ad Assisi, uno dei simboli dell'identità italiana.

Soprattutto, la Chiesa mostra di aver compreso che l'unità nazionale è davvero in pericolo, così come la coesione sociale. È paradossale che lo stesso timore non sia così diffuso tra i laici o nella società civile. Forse per non dispiacere alla Lega e per percorrere facili suggestioni revisioniste. Negli ultimi anni, tutte le secessioni europee sono riuscite, con esiti drammatici nei Balcani e comunque dolorosi in Europa centrale. Altri Paesi, come il Belgio, non riescono né a separarsi né a riunificarsi. L'idea delle gerarchie ecclesiastiche è che dividere gli italiani sia molto più difficile, ma forse non impossibile; e che la questione non vada sottovalutata. Paradossalmente, a salvare quel Risorgimento che fu fatto contro la Chiesa potrebbe essere proprio la Chiesa.

Aldo Cazzullo

01 dicembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_dicembre_01/cazzullo_fragile-unita-paese_2fdf96b8-fd13-11df-a940-00144f02aabc.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. La Prestigiacomo: ridicola e mortificante l'accusa di infedeltà
Inserito da: Admin - Dicembre 27, 2010, 12:44:51 pm
Il ministro: «È grave che problemi seri si trasformino in problemi di donne»

«In questo Pdl sono a disagio C'è un clima da caccia all'untore»

La Prestigiacomo: ridicola e mortificante l'accusa di infedeltà



«Sono stata in silenzio per quattro giorni. E sono stati quattro giorni di disagio».

Per il voto contrario del Parlamento, ministro Prestigiacomo?
«Quell'episodio, grave, è stato in parte chiarito. Con Cicchitto ci siamo spiegati, grazie anche al dottor Letta. Ma certo non mi aspettavo di leggere, sul Giornale della famiglia Berlusconi, una ricostruzione dei fatti alterata, e un editoriale offensivo, palesemente ispirato da qualcuno che fa il direttore occulto...».

Si riferisce a Daniela Santanché?
«Sì. Un attacco personale, basato su fango».

Ancora la sua amicizia con Fini?
«Lasciamo perdere. È stato un piccolo replay del trattamento Boffo. Pieno di falsità. Innanzitutto: non è vero che l'altro giorno alla Camera ho pianto. È vero che piansi sette anni fa, in consiglio dei ministri, dopo una discussione con Berlusconi. Non l'altro giorno. Ed è grave che un problema serissimo come quello dei rifiuti, della salute, delle ecomafie, sia trasformato in un problema di donne. E giù analisi psico-sociologiche: l'isteria, il ciclo...».

La politica italiana è maschilista?
«Qui siamo molto oltre il maschilismo, e molto peggio. Le donne in politica non sono una categoria. Ognuna ha la sua storia e le sue competenze. Se Tremonti, Alfano, La Russa hanno un problema, si parla di quello. Se ce l'hanno la Prestigiacomo, la Gelmini, la Carfagna, si parla delle donne, delle loro lacrime, dei loro nervi».

Anche altri quotidiani hanno attribuito a Berlusconi l'espressione «bambine viziate» riferita a lei e alla Carfagna.
«Conosco bene il presidente Berlusconi ed escludo che abbia detto così. So che lui è attento al merito dei problemi. Ed è consapevole sia dell'importanza della questione rifiuti, sia della mia assoluta lealtà nei suoi confronti. Non sono una yes-woman: non dico sempre di sì, dico quel che penso. Ma l'idea che io, dopo sedici anni, possa essere accusata di infedeltà sarebbe ridicola se non fosse mortificante. Non prendo lezioni di fedeltà da nessuno. Sono nata politicamente con Berlusconi, morirò politicamente con Berlusconi».

Allora perché si vuole iscrivere al gruppo misto?
«Non ho ancora deciso. Non sono un'irresponsabile. Certo in questo Pdl mi sento sempre più a disagio. Si è creata un'atmosfera da caccia all'untore, quando ormai lo scenario è chiaro: Fini e il suo partito stanno all'opposizione, noi dobbiamo cercare di aprire al centro».

E invece?
«Invece la caccia alle streghe continua. Si fa politica con la bava alla bocca. E una parla con Bocchino, e l'altra parla con quell'altro... Davvero crediamo sia il modo giusto per allargare la maggioranza?».

Lei è stata solidale con la Carfagna?
«Sì, lo sono stata e lo sono. Mara ha fatto una carriera politica veloce, ma poi ha dimostrato umiltà, si è candidata alle Regionali senza rete, senza che Berlusconi le facesse la campagna elettorale, e ha preso 50 mila voti. Non è giusto che il partito in Campania decida senza consultarla».

Anche Barbara Berlusconi ha annotato che la Carfagna non ha fatto esattamente la gavetta.
«Questo non intendo commentarlo. La specificità di Forza Italia è stata portare in Parlamento persone che non avevano mai fatto politica, e questo l'ha resa il partito più fresco, più innovativo. Io nel '94 sono entrata con Forza Italia subito in Parlamento; ma solo dopo sette anni ho fatto il ministro. Non siamo tutte uguali in quanto donne, come non sono uguali i nostri colleghi».

Niente lacrime, quindi.
«Ciò non toglie che le scene dell'altro giorno alla Camera, con deputati della maggioranza che mi insultavano e chiedevano le mie dimissioni, mi abbiano profondamente ferita. Erano tutti ex di An. La parte che dovrebbe essere minoritaria nel partito. Mi chiedo se invece non siamo noi, nati con Forza Italia, a essere finiti in minoranza».

Che cos'è successo esattamente alla Camera?
«Due giorni prima avevamo ottenuto il primo voto favorevole a Montecitorio dopo la fiducia, sul decreto rifiuti. Rappresentavo io il governo. Abbiamo concesso qualcosa al Fli, qualcosa all'Udc, qualcosa pure al Pd e all'Italia dei Valori, portando a casa il risultato. Poi mi sono ritrovata una norma, di cui non sapevo nulla, uscita guarda caso dalla commissione Lavoro, quella di Moffa, che ci teneva moltissimo...».

Una norma che sospende la tracciabilità dei rifiuti.
«L'80 per cento dei rifiuti italiani è speciale. Ed è fuori controllo. Viaggia per i fatti suoi. La documentazione è tutta cartacea, ed è facile falsificarla. Il controllo deve diventare telematico, con i dati su una chiavetta, una scatola nera sui camion, e la sorveglianza affidata ai carabinieri. Una rivoluzione. La Confindustria ci appoggia. Purtroppo molte aziende preferiscono il vecchio sistema. E dietro i rifiuti ci sono lobby potentissime».

Così la sua maggioranza le ha votato contro.
«Vanificando il lavoro di anni. Per fortuna è un disegno di legge; il modo di rimediare si trova. Ma le grida, gli insulti, quelli lasciano traccia».

Cosa chiede a Berlusconi?
«Di intervenire nel merito dei problemi. Nel partito, dove i giovani non possono essere sacrificati per sempre, dove non possono essere tre persone a fare e disfare. E nel ministero, che nel 2011 non può lavorare con un taglio al bilancio del 60 per cento. Sono riuscita a salvare i parchi, che rischiavano la chiusura. Ma per bonificare 53 siti, grandi come una regione italiana, non ho un euro. Come faccio? La logica dei tagli orizzontali è deleteria, soprattutto per un ministero disastrato come quello che ho ereditato da Pecoraro Scanio. Che aveva un viceministro e due sottosegretari. Io sono rimasta senza il mio unico sottosegretario, Menia. Lavoro 12 ore al giorno. Non merito di essere trattata così».

Dicono che sia tentata dal partito di Micciché.
«Da sempre guardo con grande attenzione al partito del Sud. Costruire un contraltare alla Lega è una grande sfida. Dentro ci sono tantissime tra le persone con cui ho iniziato a fare politica. In prospettiva - non oggi - mi sentirei a casa più che nel Pdl com'è diventato».

E la fedeltà a Berlusconi?
«Ma il partito del Sud avrà in Berlusconi il suo faro...».

Aldo Cazzullo

27 dicembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_dicembre_27/in-questo-Pdl-sono-a-disagio-un-clima-da-caccia-all-untore_9669d6ce-118a-11e0-8f66-00144f02aabc.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. La misura perduta
Inserito da: Admin - Gennaio 20, 2011, 06:18:43 pm

La misura perduta

L'aggressività dei toni e la durezza della sostanza del messaggio di Silvio Berlusconi non aiutano né a chiarire la vicenda né a ricomporre il quadro politico. Certo, inquieta lo spiegamento di forze per seguire le tracce di centinaia di ospiti in una casa privata; come pure la prospettiva che il Paese resti bloccato per settimane, nell'attesa di un processo da cui potrebbe non emergere una prova decisiva. Ma, lasciati alla magistratura il proprio lavoro (il premier si presenti ai giudici e non chieda di punirli) e alla politica le proprie beghe, fatte salve le garanzie dovute a tutti i cittadini, inquieta anche la rappresentazione della vita civile che stiamo dando all'estero e che lasceremo alle prossime generazioni.

Preoccupa in particolare il fatto che il capo del governo non riesca a darsi nei comportamenti personali un profilo all'altezza dei suoi doveri istituzionali e anche della sua politica della famiglia, al centro quantomeno dei programmi elettorali. Uno dei punti di forza di Berlusconi è sempre stato lo stretto rapporto con le gerarchie ecclesiastiche. Finora il sostegno della Chiesa al centrodestra non è venuto meno, per quanto le rivelazioni sulla vita privata del premier abbiano causato disagio e turbamento tra i vescovi e talvolta anche Oltretevere. Ora il direttore di Avvenire Marco Tarquinio ricorda che «quando si ricoprono incarichi di visibilità il contegno è indivisibile dal ruolo» e l'Osservatore Romano pubblica la nota che esprime le preoccupazioni del Quirinale, come a farle proprie. L'impressione però è che non bastino i segnali che vengono dai quotidiani, per quanto autorevoli. Occorrerebbe, da parte della Chiesa, una parola più esplicita. La settimana scorsa, il Papa ha espresso davanti al corpo diplomatico le sue perplessità sull'educazione sessuale nelle scuole, con un intervento giudicato molto severo anche da osservatori in sintonia con il pontificato di Benedetto XVI. Quel che emerge dalle carte dell'inchiesta di Milano non è meno inquietante, anzi.

Non è solo in questione la moralità della persona. È lo spaccato del Paese a destare sconcerto. Sono i padri che invitano le figlie a essere ancora più spregiudicate, pur di conquistare più denari e nuovi favori. È la degradazione della famiglia a valore da agitare in campagna elettorale o a grumo di interessi per approfittare dell'angosciosa solitudine del leader. Qual è l'idea del nostro Paese che stiamo trasmettendo alla comunità internazionale? Quale il modello di vita che mostriamo ai nostri figli? Quale l'immagine dell'Italia che lasceremo alle generazioni a venire? Il forte rapporto tra Stato e Chiesa, costruito anche da Berlusconi, è stato spesso criticato. Se ora arrivasse un richiamo al dovere di chiarire, di rispondere con serietà ad accuse tanto serie e di sottoporsi al giudizio della magistratura, quel rapporto darebbe un contributo prezioso non tanto al governo (che l'opposizione non ha né la forza né la voglia di far cadere), quanto al Paese.

Aldo Cazzullo

20 gennaio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/11_gennaio_20/la-misura-perduta-aldo-cazzullo_cf3e0116-245c-11e0-8269-00144f02aabc.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Gli italiani contro voglia
Inserito da: Admin - Febbraio 13, 2011, 02:48:12 pm
STORIA E RADICI DA RISCOPRIRE

Gli italiani contro voglia

La discussione sulla festa del 17 marzo riflette lo scetticismo con cui partiti e ambienti culturali diversi guardano ai 150 anni della nostra nazione. Il Risorgimento non è mai stato caro alla sinistra marxista, che da Gramsci in giù l'ha visto per quel che era: non una rivoluzione sociale ma una rivoluzione nazionale. È tradizionalmente stato inviso ai cattolici, perché si fece contro il Papa (per quanto la Chiesa ora guardi ai 150 anni con attenzione e rispetto). Alle idiosincrasie storiche si aggiungono quelle dei leghisti - ma non tutti - al Nord e dei neoborbonici al Sud. E contribuisce al clima da festa triste non solo la forte contrapposizione politica, ma anche l'antica tendenza all'autodenigrazione. L'intellettuale si sente anticonformista nel ripetere luoghi comuni spacciati per arditi revisionismi: meglio i briganti dei bersaglieri, meglio gli austriaci dei patrioti.

Del resto, la nostra storia viene sovente rappresentata come una sequela di calamità o al più come una vicenda fatta da altri, che non ci interessa e non ci riguarda: la Controriforma senza Riforma, la vittoria mutilata, la Resistenza tradita, i proletari senza rivoluzione; e appunto il Risorgimento incompiuto. Non a caso continuano a uscire libri «contro», che evocano il martirio del Sud, i crimini di guerra di Gaeta, le virtù di Radetzky, il «lato oscuro» del Risorgimento. Non che le pagine nere vadano occultate, anzi. Ma la festa dovrebbe essere il momento giusto per raccontare anche il lato luminoso dell'unificazione e di questi 150 anni di vita comune. E senza bisogno di libri.

In ogni famiglia c'è un personaggio che ha contribuito a fare la storia d'Italia. Il padre soldato nella Seconda guerra mondiale. Lo zio resistente nelle varie forme che la Resistenza assunse, dalle bande partigiane ai militari internati in Germania, dagli ebrei alle donne, dai sacerdoti ai civili. Il nonno cavaliere di Vittorio Veneto. L'antenato mazziniano o garibaldino o volontario delle guerre risorgimentali. Ogni famiglia custodisce un frammento della vicenda nazionale. Di cui magari non si parla mai.

A volte sono memorie tristi, che solo di recente sono diventate discorso pubblico ma di cui non si dovrebbe più avere timore, dalle persecuzioni razziali alle foibe, dalle repressioni nazifasciste alle vendette partigiane. In generale, molti reduci non amano parlare della guerra, neppure se vittoriosa; e i giovani sono spesso distratti.

Sarebbe importante che la festa del 17 marzo fosse l'occasione per ritrovare, in ogni famiglia, quel tassello di storia patria.
Custodito spesso dalle donne, che alla terra dei padri tengono anche più degli uomini. Tutti insieme, quei tasselli sono il grande racconto del nostro passato, spesso ribadito da lettere, carte, oggetti, simboli: un patrimonio prezioso, che però i nostri figli e nipoti non hanno mai visto o compreso sino in fondo. Un giorno di riposo, che divenisse l'occasione per narrare e recuperare quel che ogni famiglia ha dato al nostro Paese, gioverebbe al sentimento dell'unità nazionale più di tante celebrazioni.

Aldo Cazzullo

13 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/11_febbraio_13/cazzullo_italiani_controvoglia_0d773352-374b-11e0-b09a-4e8b24b9a7d0.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Ritroviamo l'orgoglio dell'Unità
Inserito da: Admin - Marzo 18, 2011, 10:17:05 pm

UNITI, ALMENO UN GIORNO

Ritroviamo l'orgoglio dell'Unità


L'Italia che oggi arriva al suo 150° compleanno, e lo celebra in Parlamento e nelle piazze, è un Paese su molti aspetti diviso. Dalla storia, e dalla geografia. Sulla memoria storica, e sugli interessi territoriali. Ma è un grande Paese, che può essere orgoglioso del contributo di bellezza, sapere, lavoro che con i suoi artisti, scienziati, emigranti ha dato all'umanità. Il Paese degli ottomila Comuni, che a ogni collina cambia accento, paesaggio, costumi e prodotti, ma che mantiene una vocazione universale: la classicità e la cristianità, i Cesari e i Papi; il Rinascimento, con cui insegnò al mondo a raffigurare e pensare le cose, e il Risorgimento, con cui si riaffacciò sulla scena internazionale. Perciò oggi è giusto festeggiare, tutti insieme; senza che questo implichi essere tutti d'accordo, condividere la stessa idea dell'Italia.

Il Risorgimento che unificò la penisola scontentò cattolici e repubblicani, e comportò una guerra civile al Sud. Anche la Costituzione nacque alla fine di un sanguinoso scontro interno. Il dopoguerra è stato segnato prima dalle contrapposizioni ideologiche, poi da quelle personali. Oggi la festa è contestata al Nord dai leghisti - anche se non da tutti - e al Sud da un movimento che sarebbe riduttivo definire neoborbonico, e presto troverà una sua forma di rappresentanza politica, una lega del Mezzogiorno. Ma Paesi considerati più patriottici del nostro hanno alle spalle divisioni anche peggiori. Gli Stati Uniti furono lacerati da una guerra civile che lasciò il Sud pressoché distrutto. I francesi si sono trucidati tra loro negli anni della Rivoluzione e della Comune. Spagna e Regno Unito si misurano da decenni con separatisti armati. Eppure i nostri vicini e alleati si riconoscono in valori comuni. Ciò che unisce è più di ciò che divide. Perché lo stesso non dovrebbe valere per noi?

Non si tratta di ricostruire in laboratorio impossibili memorie condivise, ma di riconoscere che pure noi italiani abbiamo un passato di cui possiamo andare fieri e un futuro ricco di possibilità. L'attaccamento alle piccole patrie, ai dialetti, ai Comuni è giusto e utile, è la ricchezza che il mondo globale ci chiede; e può stare assieme al legame con la patria comune che ci comprende tutti.

Ce lo insegnano Alessandro Manzoni, grande italiano e grande milanese, che compose l'ode oggi ripubblicata dal Corriere quand'era ancora cittadino austriaco. E Daniele Manin, acclamato dai veneziani che sventolavano il vessillo con il leone di San Marco e il Tricolore. Oggi ricordiamoci anche di Ciampi, quando dice di sentirsi livornese, toscano, italiano ed europeo. E di Napolitano, quando ricorda l'influenza fortissima sull'identità italiana di Napoli e l'urgenza del suo riscatto. Anche nelle nostre famiglie c'è un personaggio che ha contribuito a fare la storia d'Italia. Nel Risorgimento, nelle due Guerre mondiali, nelle varie forme che assunse la Resistenza, nella ricostruzione. Oggi raccontiamone la storia ai nostri figli e ai nostri nipoti. Ritroviamo quel frammento di memoria nazionale che ogni casa custodisce, magari in forma di lettere, cimeli, ritratti. E non temiamo le sofferenze che pure ci portiamo dietro; perché anche di quelle possiamo essere orgogliosi, anche quelle servono a costruire un futuro che oggi potrebbe apparirci meno avaro e meno incerto.

Aldo Cazzullo

17 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali


Titolo: ALDO CAZZULLO. La giornata davanti al tribunale di Milano
Inserito da: Admin - Marzo 29, 2011, 05:03:17 pm
La giornata davanti al tribunale di Milano

Tra supporter e contestatori il premier risale sul predellino

MILANO - Silvio Berlusconi non è, al contrario di quanto ha detto ieri mattina sul suo Canale 5, « l’unico capo di governo al mondo che può essere processato » . Ma certo è l’unico che entra dal retro e sale al settimo piano del tribunale in montacarichi, mentre per tutto il tempo della lentissima ascensione, dell’udienza e poi della sua ostensione finale piccoli eserciti si scambiano improperi sui due marciapiedi sottostanti, tenuti a bada da poliziotti increduli ( « signore, prego, non fate così... » ).

Rispetto all’ultima volta che l’hanno visto da queste parti, otto anni fa, tutti sono un po’ più vecchi: l’avvocato Niccolò Ghedini non aveva un capello bianco, il contestatore Pietro Ricca era più magro, e lo stesso vale per cronisti, dipietristi, promotori della Libertà. L’unico che pare più giovane— meno rughe, più capelli— è lui, almeno visto da dietro i vetri scuri dell’Audi, e poi da quelli del tribunale, velati da una carta azzurrina come in guerra ai tempi dell’oscuramento. Il 17 giugno 2003, al processo Sme, Berlusconi aveva parlato due ore. Fu uno show. Entrato in aula prima dei giudici— «visto? mi fanno attendere, la mia dignità non è preservata» —, affrontò l’accusa di corruzione con un argomento inoppugnabile: perché la Fininvest avrebbe dovuto pagare i giudici banca su banca, quando il capo aveva a disposizione la sua cassa personale, «contenente centinaia e centinaia, talora un migliaio di volte, la cifra che sarebbe stata versata?» . Siccome la cifra era di 435 mila dollari, ecco il pubblico fantasticare sulle dimensioni della cassa personale di Berlusconi: caverna di Alì Babà? Deposito di zio Paperone? All’uscita Ricca, che la volta prima era stato rinviato a giudizio per avergli urlato «buffone» (o «puffone»), aggirò l’ostacolo e urlò a pieni polmoni: «Schifaniii!» .

Il premier aveva reagito declamando i numeri della persecuzione giudiziaria: «Cinquecento visite della polizia, 22 processi, mille udienze, 93 dirigenti inquisiti di cui 53 già assolti, 50 conti esteri controllati, 30 italiani...» . Nel frattempo i processi sono diventati trentuno. Ma ieri il clima era molto più dimesso. Berlusconi non ha preso la parola. Quando dopo un’ora il magistrato, Giulia Turri, di cui il Cavaliere ha avuto un’impressione favorevole, si è alzata per andare in camera di consiglio, lui è uscito a far due passi in corridoio. Al suo fianco, Daniela Santanchè, in trench arancione; nessun altro esponente del governo o del partito. Poi Berlusconi si è seduto su una panca, ha tirato fuori un pezzo di cioccolato bianco e ha fatto uno spuntino. Gli hanno offerto un caffè alla macchinetta. Quindi è tornato dentro, per l’ultima mezz’ora. Tre piani sotto, in Procura, ferveva il lavoro per il processo più atteso, sul caso Ruby. Al pianterreno un uomo in bicicletta passa davanti al gazebo azzurro, rallenta e urla: «Andate a lavorare!» , poi si alza sui pedali e schizza via.

Applaudono i dipietristi, compiaciuti dalla loro parte nel canovaccio, che pare una replica grottesca del Caimano di Moretti, molto citato. I berlusconiani reagiscono: «E voi imparate l’italiano!» .

La stanzetta dell’udienza è piccolissima, dentro non ci sono più di venti persone. Berlusconi è in prima fila, con Ghedini a destra e Nadia Alecci a sinistra, accanto a Piero Longo. Nel banco dietro, Giorgio Perroni e Filippo Dinacci, gli altri avvocati. La loro linea è che Berlusconi non sarà un santo ma non è fesso, e mai avrebbe pagato per anni milioni di euro a un capufficio acquisti infedele che avesse fatto la cresta sui telefilm americani. «La forza della verità» è lo slogan raccomandato dal premier. La sua presenza nel Palazzo di Giustizia di Milano, crocevia dell’ultimo ventennio, non ha alcuna valenza processuale ma un chiaro significato simbolico: eccomi, sono qui, non si dica che intralcio la giustizia, e ora passiamo ad altro. Le voci che arrivano dal quarto piano indicano che la lista dei personaggi chiamati a testimoniare su Ruby, nei giorni della campagna elettorale per il Comune, è quasi pronta: Mora Dario detto Lele, Fede Emilio, Rossella Carlo, Apicella Mariano e pure Hammad Reda Mohammed, interprete di Mubarak. I dipietristi hanno portato uno striscione: «Bentornato, dentro ti stanno aspettando».

Si stacca un ardito e affronta gli azzurri facendo il segno delle manette e gridando «ladri!» , per la gioia della diretta tv e lo sconcerto di un pullman di giapponesi diretto a Linate. Piero Ricca grida che la polizia gli ha rotto la telecamera: «E ora chi me la ripaga?».
I giapponesi fanno fermare il pullman per fotografare. Le agenzie trasmettono le quotazioni dei bookmaker per il processo Ruby: a 3,75 la condanna per concussione, a 1,25 l’assoluzione; a 3 la condanna per sfruttamento della prostituzione minorile, a 1,33 il proscioglimento. Scommettere su Berlusconi resta l’investimento più sicuro. Eppure, quando esce per la seconda e ultima volta dall’auletta per riguadagnare il montacarichi, ad attenderlo con la Santanchè trova solo il medico personale, Alberto Zangrillo. Nessun altro, a parte il viavai di carabinieri, magistrati, avvocati. Ci sono anche alcune vittime di errori giudiziari con cartelli al collo e Marco Bava, titolare di una sola azione Mediaset dal valore di 8 euro, che è qui per costituirsi parte civile contro Berlusconi. Lui passa di nuovo dal retro ma vuole salutare i fan. Il corteo di auto blu rallenta e la folla esulta, anziane signore prendono a bandierate in testa i fotografi che offuscano la visuale, qualcuno urla nel megafono le lodi di Silvio, ha la sua stessa voce o forse la imita. I giapponesi sono stati gli ultimi a passare, ora il traffico è bloccato, si allunga la fila dei tram in attesa. Berlusconi sale sul predellino ma non parla, saluta con la mano levata, da vicino non sembra poi così ringiovanito: il trucco pesante, i denti bianchissimi, i capelli dal colore introvabile in natura. Una signora rossa lo tranquillizza: «Non sono la Boccassini!» . I suoi lo amano di un amore sincero e lo manifestano alla Santanchè: «Dani sei la nostra Thatcher!» . Pazientissimi i poliziotti, anche se proprio non si trova chi ha rotto la telecamera a Ricca.

Berlusconi è già lontano, va a trovare il suo amico Romano Comincioli, che sta molto male. I dipietristi gli lanciano dietro le ultime maledizioni.

I passeggeri bloccati in tram passano dopo mezz’ora d’attesa, qualcuno si abbandona a gestacci liberatori rivolti a tutti.

Aldo Cazzullo

29 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/politica/11_marzo_29/


Titolo: ALDO CAZZULLO. Quel giorno davanti al «Raphaël» che portò Craxi verso ...
Inserito da: Admin - Marzo 31, 2011, 05:55:58 pm
Ieri e oggi

L'episodio del 30 aprile 1993. E l'ex leader del Psi commentò: «Tiratori di rubli»

Quel giorno davanti al «Raphaël» che portò Craxi verso l'esilio

Una nuova generazione di contestatori è tornata ad evocare Mani pulite Le monetine I manifestanti aspettarono l'ex leader socialista fuori dall'albergo e tirarono le monetine: «Vuoi pure queste?»

Differenze A rivedere le immagini Craxi appare sorpreso e incredulo, mentre La Russa incede spavaldo verso i contestatori


Se quell'altra volta Craxi avesse ascoltato il fido autista Nicola Mansi e fosse uscito dal retro dell'hotel Raphaël, non sarebbe accaduto nulla, e Mani pulite non avrebbe avuto la sua scena-simbolo. Invece il leader socialista aveva il gusto della sfida. Un giorno che due motociclisti lo affiancavano a ogni semaforo per urlargli «ladro!», lui ordinò a Nicola di chiuderli, scese, mise a segno un paio di ganci e risalì in macchina senza scomporsi. Fuori dal Raphaël però lo aspettavano in centinaia. Con le monetine. E le banconote da mille lire: «Vuoi pure queste? Bettino, vuoi pure queste?». Non era una manifestazione spontanea, molti erano militanti del Pds arringati poco prima da Occhetto in piazza Navona. «Tiratori di rubli» li chiamò Craxi. Ma si capì allora che i suoi giorni erano numerati.

Ieri è stata un'altra giornata di monetine. Una nuova generazione di contestatori è tornata a evocare Mani pulite, la commistione tra affari e politica, la frenesia per il denaro, il gusto dell'impunità, l'indignazione popolare; ma anche la contestazione organizzata, l'aggressività di strada, il populismo in favore di telecamera. La «piazza urlante che grida, che inveisce, che condanna», come la chiamò Berlusconi nel video della discesa in campo; indignando molti italiani, ma rassicurandone molti altri.

Era un'altra primavera romana - 29 aprile 1993 -, quando la Camera negò quattro delle sei autorizzazioni a procedere contro Craxi chieste dalla Procura di Milano, con il sospetto concorso di Bossi, interessato a far precipitare lo scontro. La sera stessa, Berlusconi andò in visita di rallegramento proprio al Raphaël, il delizioso albergo raccontato da Enzo Bettiza in «Mostri sacri», dove tra le ceramiche di Picasso e i grammofoni d'epoca Craxi viveva accampato come un orco all'ultimo piano, ricevendo sui tetti di Roma giornalisti e fidanzate, segretari di partiti alleati e Moana Pozzi. Il Cavaliere da una parte soffiava sul fuoco di Tangentopoli con le sue tv, dall'altra sentiva la necessità di congratulare l'amico per lo scampato pericolo (almeno così pareva). Berlusconi però ebbe l'accortezza di passare, lui sì, dal retro. Il giorno dopo, Craxi uscì dal portone principale, quello che dà sugli alberi di largo Febo; e fu sommerso dalla pioggia di monete.

Ieri La Russa ha voluto emularlo, con un pizzico di provocazione in più. In Aula, dove la rissa si è replicata con un'acrimonia non inferiore a quella della piazza, Franceschini ha accusato il ministro della Difesa di essersela cercata. La Russa si è molto indignato. A rivedere le immagini, Craxi appare un leader sorpreso e incredulo; mentre La Russa incede verso i contestatori a petto in fuori, spavaldo.

Erano i giorni in cui il vice di Bettino, Claudio Martelli, l'unico che avesse accesso al suo frigorifero, affermava di voler «restituire l'onore ai socialisti». Oggi Cicchitto, che c'era, assicura che «nel Pdl non c'è nessun Martelli». Fini del resto nel Pdl non c'è più. Eppure l'immagine di Berlusconi a Palazzo di giustizia, lunedì mattina, era quella di un uomo lasciato solo dai suoi, con l'eccezione della Santanchè, anche lei ieri puntata dai lanciatori di monete.

In quegli stessi giorni del '93, Berlusconi andava maturando la decisione di scendere in politica, proprio per non fare la fine dell'amico Bettino. Chiamò a raccolta i voti dei moderati che avevano appoggiato i governi Dc-Psi, ma non ruppe subito con i sostenitori di Mani pulite, arrivando a offrire gli Interni a Di Pietro («sei diventato matto?» gli telefonò Craxi, già ad Hammamet). L'ormai ex capo del Psi era partito per Tunisi il 21 marzo 1994, su un aereo preso in affitto tramite Giuseppe Ciarrapico. Sei giorni dopo Berlusconi vinceva le elezioni politiche. Diciotto anni dopo, siamo ancora qui con il Cavaliere e i magistrati, i processi politici e il processo breve, Bossi e i postcomunisti. E con le monetine. L'unica differenza è che gli spiccioli del '93 avevano un valore poco più che simbolico, come i biglietti da mille offerti a Craxi per sfregio. Oggi le monete sono pesanti, in ogni senso, e un euro non si butta via a cuor leggero. Siamo tutti un po' più vecchi e un po' più poveri; e neppure questo è un buon segno.

Aldo Cazzullo

31 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/cronache/11_marzo_31/


Titolo: ALDO CAZZULLO. Giulia Bongiorno Dalla maggioranza provvedimenti da Far West
Inserito da: Admin - Aprile 17, 2011, 05:00:03 pm
Giulia Bongiorno «Dalla maggioranza provvedimenti da Far West»

«Intese tra Fli e Pd? Niente panico Destra e sinistra categorie superate»

Di giustizia mi intendo più di Berlusconi, ma non mi ha mai ascoltato. Parlava dei suoi processi


C'è un neonato, Ian, che dorme con gli emendamenti al processo breve sotto il materasso. Dice la madre che «il pediatra mi ha detto di farlo riposare in posizione inclinata, e così...».
La madre è Giulia Bongiorno, presidente della Commissione Giustizia della Camera, molto vicina a Fini. In silenzio da mesi, e non solo per la maternità. «Ora è stato il turno del processo breve, ma in precedenza la commissione Giustizia è stata occupata quasi a tempo pieno da provvedimenti analoghi. Cambia il nome, la sostanza è la stessa: si tratta sempre di provvedimenti Far West, una definizione che mi sembra rispecchi il modo in cui Berlusconi, sentendosi perseguitato dalla magistratura, si fa confezionare delle norme per farsi giustizia da sé».

Lei non lo considera perseguitato?
«Da avvocato, posso dire che la quasi totalità degli imputati è convinta di essere vittima di complotti giudiziari e quindi l'istinto di molti è scagliarsi contro la magistratura o eludere i processi. Faticosamente, si cerca di spiegargli che esistono procedure attraverso cui si accerta una responsabilità penale e che queste procedure devono essere rispettate; altrimenti si crea un sistema di giustizia fai-da-te inaccettabile e pericoloso. In questo senso, il premier non costituisce un'eccezione. L'unica, rischiosa differenza sta nel fatto che lui possiede gli strumenti per tentare davvero di farsi giustizia da sé. Ed è chiaro che se un leader, che dovrebbe essere anche un modello, organizza manifestazioni contro i giudici davanti ai tribunali o cerca di eludere i processi con le norme che fa produrre in Parlamento, gli imputati si sentono legittimati, o persino incoraggiati, a emularlo. Stiamo attenti al Far West».

Qual è il rischio?
«Che si produca una vera e propria degenerazione etica e sociale. Ricordiamoci di Andreotti, che quando fu condannato per omicidio a 24 anni dichiarò: "Credo ancora nella giustizia". Senza dubbio esistono magistrati politicizzati, e persino magistrati corrotti. Esistono anche errori giudiziari commessi in buona fede. Ma queste storture devono essere corrette con le riforme: è inconcepibile inveire contro la magistratura in blocco o costringere il Parlamento a occuparsi di norme mostruose, con uno spaventoso dispendio di tempo, energia e risorse».

Com'è trattare sulla giustizia con Berlusconi?
«Quando ne ho avuto occasione, ho notato che Berlusconi parla, non ascolta. Me ne sono stupita: è evidente che di giustizia mi intendo più di lui; credevo gli interessasse conoscere la mia opinione. Sbagliavo. Io parlavo di sistema giustizia e lui portava il discorso sui suoi processi. Ritiene che il suo status di imputato lo abbia trasformato in un esperto di giustizia. Sarebbe come rompersi più volte una gamba facendo alpinismo estremo e sentirsi poi non solo legittimati a riformare la sanità, ma anche in possesso delle credenziali per farlo; oltre che perseguitati dai medici. E non va dimenticato che il tempo destinato a queste leggi è stato sottratto ad altre mai fatte e che invece avrebbero dovuto avere priorità assoluta: quelle per rendere più efficace il sistema».

Berlusconi ha annunciato una «riforma epocale» della giustizia.
«Non ci sarà mai: perché non credo che il premier abbia a cuore il buon funzionamento della giustizia. Non vedrà la luce nemmeno la riforma sulla separazione delle carriere e del Csm: dopo mille proclami siamo ancora a semplici enunciazioni di princìpi. Al contrario, si continuerà a produrre leggine Far West».

Il processo breve passerà al vaglio della Consulta? O è incostituzionale?
«Non mi azzardo a fare previsioni, ma il testo è sicuramente caratterizzato da irragionevolezza. Essere incensurati significa non avere sentenze definitive. Quindi, teoricamente, beneficia della prescrizione breve anche chi ha decine di processi a carico, ma è finora riuscito a sfuggire a una condanna; grazie alla fortuna o ai suoi avvocati. Vedo qualche problema anche con la Convenzione Onu sulla corruzione, perché questo tipo di reati saranno certamente toccati dalla prescrizione breve. La Convenzione Onu invita i Paesi aderenti a fissare "un lungo termine di prescrizione": l'opposto di quello che accadrà in Italia».

Futuro e Libertà ha davvero un futuro? O si sta sgretolando?
«Senza dubbio ci sono stati momenti difficili, ma se mi guardo attorno non vedo gruppi senza problemi...».

Dicevate di voler cambiare la politica, siete nel mezzo di una lite interna.
«Resto convinta che l'unico modo per riconciliare i cittadini con la politica sia cambiare. Cambiare radicalmente. E in quest'ottica di rinnovamento credo che le donne saprebbero riconquistare la fiducia delle gente comune. Purtroppo rimangono confinate ai margini delle istituzioni. Da sempre sono costrette a lottare più degli uomini per affermarsi: tutto questo è ingiusto, faticoso, sbagliato, ma ha avuto il pregio di affinare le loro capacità. Dare più spazio alle donne sarebbe anche una possibilità di riscatto dall'umiliazione che il premier ha inflitto a tutte noi - e a tutti gli uomini che credono nella parità e nel rispetto - con parole e comportamenti dai quali traspare un maschilismo radicato e insultante».

 Lei crede ancora nella leadership di Fini? E al Terzo polo? Sarà mai possibile un accordo con il Pd?
«Certo mi trovo più a mio agio con alcuni del Terzo polo che con altri in cui mi sono imbattuta quando sono entrata in An. So che l'ipotesi di un accordo con il Pd getta nel panico parecchi. Personalmente, reputo superate le categorie destra e sinistra e quindi per me i no pregiudiziali sono incomprensibili. Sulla legalità, io dovrei essere etichettata come di destra; ma se parliamo di procreazione assistita, in confronto a me Enrico Letta è un chierichetto».


Aldo Cazzullo

15 aprile 2011
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da - corriere.it/politica/11_aprile_15/


Titolo: ALDO CAZZULLO. Un po' di serietà
Inserito da: Admin - Maggio 22, 2011, 10:06:35 am
Un po' di serietà


Se la destra pare non aver imparato la lezione del primo turno, la sinistra non ha ancora fornito ai milanesi tutte le garanzie e gli elementi per prendere una decisione importante come quella del 29 e 30 maggio. A cominciare dalla squadra di governo, dagli uomini cui potrebbe essere affidata la Milano del futuro.


Da una parte, i toni e gli argomenti della campagna per il ballottaggio non sembrano discostarsi da quelli - eccessivi - dei giorni scorsi. Non è solo questione dell'insulto di Bossi, o del periodico vicino al centrodestra che accosta Pisapia all'Anticristo. Presentare una Milano governata dalla sinistra come la capitale degli zingari, della droga, dei centri sociali e dei minareti non inficia la credibilità degli avversari, ma la propria. Demonizzare le moschee, viste dallo stesso Maroni come argine all'estremismo islamico, può portare qualche voto ma non delinea la visione di una grande città del XXI secolo. Peggio ancora le promesse dell'ultimo momento, che magari contraddicono il programma elettorale, come la marcia indietro della Moratti sull'Ecopass, o l'idea improvvisata di trasferire qualche ministero minore a Milano e a Napoli (altra città-simbolo del berlusconismo, dalla battaglia dei rifiuti alle vicissitudini personali del premier); come se lo sviluppo di due metropoli europee fosse legato a qualche centinaio di posti pubblici. Dall'altra parte, Pisapia è stato attento a non esasperare la valenza politica del voto di Milano e a non accettare la battaglia delle male parole. Ma non ha dissipato i dubbi legittimamente coltivati dai moderati milanesi; i quali, come nel resto del Paese, restano la maggioranza del corpo elettorale.


Pisapia farebbe bene non solo a precisare meglio i punti-chiave del suo programma, ma soprattutto a indicare le persone incaricate di attuarli. Non è indifferente sapere come sarebbe composta la sua squadra; così come conoscere eventuali cambiamenti in quella della Moratti (che nel frattempo farebbe bene a scusarsi per la falsa accusa al rivale). Chi si occuperà dell'economia e del bilancio di Milano? Chi dell'Expo? Chi dell'ambiente? Chi del punto di forza del progetto di Pisapia, la cultura?
La preoccupazione - espressa ieri sul Sole 24 Ore da Roberto Perotti - per l'invadenza della mano pubblica rispetto alla sussidiarietà e alle istanze liberali non è priva di fondamento, in una città come Milano abituata ad affidarsi alle energie dei privati e delle associazioni. Sapere quali siano gli uomini e le donne di Pisapia è fondamentale per capire se la sua gestione possa essere davvero riformista e coinvolgere culture e ambienti diversi dal suo, compreso quello cattolico. Se entrambi i candidati indicassero anche personalità al di fuori del loro campo, darebbero un segnale importante e faciliterebbero la decisione dei milanesi. Che avrà certo conseguenze politiche. Ma è innanzitutto la scelta del sindaco di una città che resta l'avanguardia d'Italia nel mondo.

Aldo Cazzullo

21 maggio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_maggio_21/cazzullo


Titolo: ALDO CAZZULLO. L'ITALIA DEL 2 GIUGNO. Il volto migliore
Inserito da: Admin - Giugno 02, 2011, 05:00:47 pm
L'ITALIA DEL 2 GIUGNO

Il volto migliore

Quale Paese troveranno i capi di Stato che stanno arrivando a Roma da tutto il mondo?

E quale Paese lasceremo alle generazioni future, ai nostri figli e ai nostri nipoti?

L'anniversario della Repubblica, nel centocinquantesimo compleanno della nazione, ci impone di affrontare queste domande. Non se ne è sottratto Mario Draghi, esprimendo per l'ultima volta le sue Considerazioni finali da Governatore della Banca d'Italia, prima di assumere la guida della Banca centrale europea. E ha dato risposte che incoraggiano. Draghi ha sì parlato di un Paese «insabbiato», impaurito dal futuro, afflitto da bassa mobilità sociale. Ma ha indicato la possibilità di un «Rinascimento politico e anche economico», con parole che evocano, oltre a Cavour, la Costituzione della Repubblica romana del 1849, poi ripresa quasi cent'anni dopo dalla Costituzione della Repubblica italiana. A Roma, per la prima volta nell'Europa liberale, si teorizzò che la libertà da sola è appena un fiato di voce, se non c'è il progresso sociale, il salario per gli operai, la scuola per i ragazzi, il lavoro per i giovani.

Il modo migliore per onorare il 2 Giugno e per accogliere gli ospiti stranieri è presentarci come un Paese unito attorno ai valori costituzionali. Il voto amministrativo ha spazzato via le velleità su una riforma della giustizia che si voleva «epocale» e in realtà, anziché colmare le gravi lacune di efficienza dei nostri tribunali, avrebbe rischiato di stravolgere l'ordinamento. Il senso delle istituzioni, gli equilibri tra i poteri, il rispetto delle regole e della legge non sono valori acquisiti per sempre; ma non sono neppure simulacri che i cittadini accettano di vedere negati o vilipesi. I 150 anni hanno dimostrato che gli italiani sono più legati alla patria di quanto amino riconoscere. Ma la patria non è esaurita dalla nazione; comprende anche lo Stato, che non può essere sentito - a maggior ragione da chi ha responsabilità istituzionali - come qualcosa di estraneo, che non ci interessa e non ci riguarda.

I leader che oggi renderanno visita a Giorgio Napolitano forse non hanno sempre maturato un'idea seria della politica italiana. Ma certo sanno bene quello che l'Italia rappresenta nei loro Paesi. La terra della bellezza, dell'arte, della cultura, della creatività. Il mondo globale, che diventa sempre più uniforme, sempre più uguale a se stesso, guarda con ammirazione al Paese delle cento città, alla Roma della classicità e della cristianità come alla Milano del lavoro e della finanza, e alla grande provincia che a ogni crinale di collina cambia accento, paesaggi, prodotti. All'estero c'è una grande domanda di Italia. Il mondo di domani, che ci fa tanta paura, è anche una grande opportunità per un Paese che sia davvero unito e non lacerato tra Nord e Sud, Padania e Roma ladrona, terroni e polentoni, né ostaggio di una politica ridotta a rissa tra partigiani di interessi privati. Un esempio è sotto gli occhi del mondo: i soldati italiani delle missioni di pace, che saranno rappresentati nella rassegna di oggi. Uomini capaci di dimostrare che è ancora vero quel che diceva Cavour parlando di Garibaldi: gli italiani sanno battersi e morire per riconquistarsi una patria; sanno sacrificare anche se stessi, certo per la loro famiglia, ma anche per il bene comune. Il 2 Giugno dovrebbe richiamare la politica e in genere coloro che partecipano alla vita pubblica a essere all'altezza di questo esempio.

Aldo Cazzullo

02 giugno 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_giugno_02/


Titolo: ALDO CAZZULLO. Sinistra televisiva, l'ossessione del Cavaliere
Inserito da: Admin - Giugno 08, 2011, 03:56:01 pm
Il racconto

Dalla piazza di «Samarcanda» e dalle cassette di frutta di «Milano Italia»

Sinistra televisiva, l'ossessione del Cavaliere

Tutto partì da Guglielmi e Curzi-Telekabul.

Format azzeccati e satira, con due nemici: Berlusconi e D'Alema

   
All'inizio furono i collegamenti di Samarcanda con le piazze, dove Sandro Ruotolo - «Michele, qui la gente è molto arrabbiata...» - trovava sempre qualche signore sovrappeso in canottiera che urlava: «Santoooro, il Sud ha seeete!». E fu Umberto Bossi giovane, seduto sulle cassette di frutta, che da Legnano intercalava con il suo accento altolombardo: «Veda Lerner...». (Racconta Stefano Balassone, uno dei padri di Raitre: «Quella fu una trovata perfida del regista, che fece sedere i notabili democristiani e comunisti sulle poltroncine di velluto e i leghisti sulla pancaccia di legno. Il pubblico era tutto per i "barbari"»).

Eravamo a cavallo tra gli anni Ottanta e i Novanta. E la sinistra televisiva era nata. Raccontava la fine della Prima Repubblica. E un poco contribuiva ad affrettarla. Fin dall'inizio, si intuì quali sarebbero stati i grandi nemici. Berlusconi. E D'Alema. Il proprietario della tv concorrente, poi sceso in campo a prendersi pure quella pubblica. E il simbolo della sinistra postcomunista e neoriformista, impegnata a costruire un «Paese normale» anche dialogando («inciuciando», nel gergo romanesco della tv) con il nemico.

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Prima ancora, i predecessori della sinistra tv erano giornalisti laici e artisti goliardi. I reportage del «socialista di Dio» Zavoli, non a caso ripescato da Walter Veltroni come presidente della commissione di vigilanza Rai. I faccia a faccia di Minoli. Le cartoline di Barbato. E L'altra domenica di Arbore, che lanciava uno sconosciuto comico pratese: Roberto Benigni. Poi vennero i comunisti. Il Pci morente ebbe la terza rete. Se ne occupò il figlio del Veltroni fondatore del primo telegiornale Rai, ritrovando gli amici del padre e sistemando un po' di giovani di sinistra. Direttore di Raitre divenne uno scrittore amico di Umberto Eco ed Edoardo Sanguineti, Angelo Guglielmi. Che a sorpresa tirò fuori un programma dopo l'altro. Chi l'ha visto, affidato a Guzzanti padre, che ancora oggi sopravvive nelle mani di un'ex del Tg3, Federica Sciarelli. Mi manda Lubrano, destinato poi a lanciare pure Marrazzo, atteso da ascese e cadute politiche. Esperimenti riusciti come Blob e altri di dubbio gusto come Cinico tv. Piero Chiambretti, vestito da postino, recapitava lettere agli indagati di Tangentopoli e una volta pure al Cossiga nel pieno delle esternazioni («il presidente mi ha dominato» riconoscerà lui). E Fabio Fazio a Quelli che il calcio mandava Paolo Brosio, non ancora folgorato dalla Madonna di Medjugorje, a chiedere ai newyorkesi attoniti dove mai andassero d'inverno le anatre di Central Park.

Poi c'era la satira. La tv delle ragazze di Serena Dandini lanciò Francesca Reggiani, Cinzia Leone che faceva il verso a Daniela Fini ancora sposata a Gianfranco non ancora divenuto sincero democratico, Stefano Masciarelli che evocava il Maurizio Mosca del Processo del lunedì, Maurizio Crozza che aveva ancora qualche capello ma già duettava con Carla Signoris. E i figli di Guzzanti. Corrado demoliva Rutelli, presentandolo come un Alberto Sordi minore: «A Silvio, ricordate degli amici...». E Sabina prendeva di mira i due cattivi: Berlusconi e D'Alema. Anzi, «Dalemoni».

Occhetto fu da Raitre molto coccolato: l'Amazzonia, Chico Mendes, la sinistra dei club, le autocritiche da Santoro con le lacrime agli occhi e il baffo fremente per le tangenti rosse. D'Alema fu sempre malvisto, con alcune eccezioni: l'altra salernitana Lucia Annunziata, pur proveniente dal movimento a sinistra del Pci, e Bianca Berlinguer, anche per ragioni dinastiche. A D'Alema non fu mai perdonata la Bicamerale e la ciambella di salvataggio lanciata a Berlusconi.

Il gusto per il kitsch, il senso della merce, il feeling con il telespettatore-consumatore: già prima della discesa in campo, il Cavaliere era l'arcinemico. Balassone lo paragonò al serial killer del Silenzio degli innocenti, che nella scena finale, mentre Jodie Foster brancola nel buio, grazie agli occhiali per la visione notturna ci vede benissimo. Dal canto suo, Berlusconi non ha mai nascosto di detestare due cose al mondo più di ogni altra: il Pci e la tv pubblica. Logico che la sinistra televisiva diventasse la sua ossessione, dall'editto di Sofia all'epurazione milionaria dell'altro ieri. Ma, nonostante i vari tentativi (Socci, Masotti, Paragone, Sgarbi), un vero anti Santoro Berlusconi non l'ha mai trovato; al punto da prendersi a Mediaset, per una breve stagione, quello vero.

A Raitre c'era anche il Giuliano Ferrara di Linea rovente. E fu proprio lui a definire Telekabul il Tg3 di Sandro Curzi. «Pessimo giornalista, grande direttore» secondo la definizione di Guglielmi. Il telegiornale de sinistra dava spazio non solo a Cossutta e a Bertinotti, ma pure alla Lega e al Msi; alle forze antisistema, ma più in generale a quanto di nuovo accadeva nel Paese. E se Santoro si collegava con le piazze del Sud, Lerner prima fece Profondo Nord, poi nell'estate del '92, in vacanza a New York, ricevette una telefonata di Guglielmi e Balassone che gli proponevano una striscia quotidiana: era Milano Italia e avrebbe raccontato la fine di un mondo, in parallelo con il settimanale satirico Cuore di Michele Serra, oggi autore di Fazio. Poi è venuto il tempo delle guest star, Travaglio e Saviano. Alla fine la dicotomia imposta da Berlusconi - o con me o contro di me - ha fatto sì che fossero considerati di sinistra non solo il talk di Giovanni Floris e quello di Lilli Gruber - divenuta anche europarlamentare come pure Santoro e Sassoli - ma pure Mentana, fondatore del Tg5, e la Bignardi, che aveva condotto (molto bene peraltro) la prima edizione del Grande fratello. E ora che l'era di Berlusconi volge al tramonto, anche la sinistra Rai si prepara a uscire di scena. O a traslocare nel terzo polo, che non si chiama più Telesogno ma La7; e sarebbe davvero una nemesi se a comprarla - come dicono tutti, anche se probabilmente non accadrà mai - fosse Carlo De Benedetti, con i soldi del Cavaliere.

Aldo Cazzullo

08 giugno 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/politica/11_giugno_08/cazzullo-sinistra-televisiva-cavaliere_599fa324-9194-11e0-9b49-77b721022eeb.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. I destini incrociati di Umberto e Silvio Capi e amici che la...
Inserito da: Admin - Giugno 20, 2011, 05:19:25 pm
Venerati dai militanti, per la prima volta in questi giorni sperimentano il distacco

I destini incrociati di Umberto e Silvio Capi e amici che la politica non dividerà

La malattia del Senatur li ha uniti nel profondo. Ora insieme vedono il declino


L'attesa messianica che circonda Pontida, alimentata dagli antiberlusconiani ormai eccitatissimi e dagli stessi leghisti pronti a chiedere il trasferimento a Monza pure del Cupolone, non ha molta ragione d'essere.

Il Bossi di oggi non ha più la forza politica e forse anche fisica per sottrarsi all'abbraccio letale di Berlusconi. Bossi; non la Lega. Le due cose per la prima volta non coincidono più; anche se oggi la scenografia del sacro prato tenterà di dimostrare il contrario.
Questo non significa che la Lega resterà sempre fedele all'alleanza con il Pdl. Ma difficilmente sarà Bossi a decidere in piena autonomia lo strappo. Perché il Senatur sa che il suo destino politico è legato al Cavaliere; e sa che difficilmente potrà sopravvivergli.

Attorno al rapporto tra i due sono nate leggende e dicerie, basate come ogni leggenda e diceria su un fondo di verità. Il patto segreto sottoscritto dal notaio. I megaconti delle cliniche svizzere. Il salvataggio di banche padane. Ma il momento in cui si è giocata davvero la partita è stato quello del dolore e della sofferenza. Dopo l'alleanza coatta del '94, la rottura di Natale, gli anni del Berluskaiser e del «mafioso di Arcore», la ricucitura del 2000, è stata la malattia di Bossi a stringere il nodo del suo patto con Berlusconi. Per un anno, l'Umberto fu condannato al silenzio. Il premier rimase vicino all'uomo e anche al leader. Dovette sacrificare Tremonti al subgoverno Fini-Follini-Casini (tutti e tre poi fatti fuori). Però quando i colonnelli leghisti si fecero avanti per trattare in prima persona con il Cavaliere, lui fu cortese con tutti ma riconobbe sempre come unico interlocutore il vecchio capo ferito; e non a caso, alla prima uscita pubblica dopo la lunga convalescenza, Bossi indicò il suo erede in quello che appariva allora un outsider assoluto, suo figlio Renzo.

Il referendum di domenica scorsa ha certificato che la presa dei due capi sui partiti da loro fondati non è più assoluta. Se personaggi miracolati da Berlusconi, come Cappellacci inventato dal nulla governatore della Sardegna o la Polverini trascinata alla vittoria nonostante la sparizione della lista Pdl, hanno disatteso le sue indicazioni, lo stesso è accaduto nella Lega, a cominciare dal Veneto. Non soltanto Zaia ha votato quattro sì. I congressi provinciali di Verona, di Vicenza e del «Veneto orientale» (provincia dell'immaginario leghista) hanno visto la sconfitta degli uomini di Bossi e la vittoria degli uomini di Tosi e di Maroni; mentre a Padova si è rinviato tutto per evitare il bis. Proprio Maroni, l'eterno delfino che nel '94 fu l'ultimo a seguire il capo nella rottura con Berlusconi - «sono nato con la Lega, morirò con la Lega» -, ora è impaziente di rompere; e sarà lui con ogni probabilità a gestire la stagione post berlusconiana e lo sbarco della Lega al Sud.

Oggi il Carroccio appare rattrappito su se stesso. Appesantito dalla lettura burocratica di una fase che si è messa improvvisamente in moto. Avvitato nella battaglia di puntiglio per i ministeri al Nord; come se l'artigianato lombardo o l'industria veneta traessero giovamento da qualche centinaia di posti pubblici in più. E il tramonto di Bossi non è meno evidente dell'eclissi di Berlusconi: un leader - e ministro - che da mesi risponde alle domande dei giornalisti con una pernacchia, il dito medio alzato, il pollice verso e altri segni di cui i miliziani forniscono poi in serata l'interpretazione autentica. Oggi a Pontida il leone tornerà a farsi sentire, e sarà accolto con l'affetto di sempre. Ma sarebbe troppo chiedergli di essere ancora lui il demiurgo della storia italiana, com'è accaduto in tutte le elezioni degli ultimi vent'anni, dal crollo democristiano del '92 alla vittoria dell'Ulivo propiziata dalla sua corsa solitaria. In questo convulso finale di stagione, è data la possibilità pure che il barbaro in canottiera esca di scena abbracciato all'uomo che tutti gli chiedono di abbattere.

ALDO CAZZULLO

19 giugno 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/politica/11_giugno_19/cazzullo-bossi-berlusconi_98c0d04a-9a4b-11e0-ab5e-79baf40ebd68.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Dimenticare Pontida
Inserito da: Admin - Giugno 22, 2011, 12:21:14 pm
Dimenticare Pontida

Se davvero il vento è cambiato, nel Palazzo non ne è entrato un solo refolo. Né poteva essere altrimenti. Berlusconi ha innovato appena il look (senza doppiopetto). Per il resto, si è mimetizzato dietro Tremonti e Napolitano. Ha fatto propria la linea del ministro sui conti pubblici - subito la manovra da 40 miliardi, poi la riforma fiscale con tre aliquote - e il richiamo del Quirinale su Libia e missioni all'estero. Alla Lega ha concesso pochino. Non una parola sulla penosa vicenda dei ministeri al Nord, che rischiava di diventare un cuneo nella maggioranza; un accenno al passo indietro - «non voglio mica restare a Palazzo Chigi a vita» - evocato da Bossi a Pontida.

Berlusconi è in difficoltà e lega il destino di Tremonti al proprio. Non a caso il ministro, apparso fugacemente nel dibattito al Senato, appariva innervosito. Ma i più imbarazzati erano i leghisti. La richiesta velleitaria dei dicasteri a Monza e del ritiro del sostegno alla Nato in Libia e all'Onu in Libano non ha retto più di due giorni; e non sarà certo Pontida a cambiare la dura realtà del debito pubblico, più che mai nel mirino dei mercati internazionali ora che le agenzie di rating puntano anche le grandi aziende dell'energia controllate dallo Stato. Berlusconi ne se è fatto scudo, indicando la speculazione, l'allarme per i tassi dei Bot, la responsabilità nazionale come buone ragioni per evitare una crisi di governo; e in questo passaggio è apparso più convincente di quando ha intonato la litania della riforma istituzionale e del piano per il Sud, la cui citazione suscita ormai rabbia e ilarità.

Il Parlamento è stato generoso di quei voti che il Paese invece ha negato al centrodestra. Il lavorio di Verdini ha dato i suoi frutti: la maggioranza è oggi all'apparenza più solida di quella del 14 dicembre, contro cui si infranse il tentativo di Fini e delle opposizioni che ieri non hanno toccato palla. Ma il Berlusconi reduce dai referendum e dalle sconfitte di Milano e Napoli non appare più capace di quel cambio di passo che darebbe un senso agli ultimi due anni di legislatura. Altri governi all'orizzonte non se ne vedono. Nessun leader è divorato dall'ansia di andare al voto; figurarsi i peones. Bersani appare innervosito dalla crescente rivalità con Vendola e ha il problema di definire una politica economica credibile. Casini incassa l'apertura di Berlusconi a un'alleanza per le prossime elezioni incentrata sul partito popolare europeo, ma non può certo aprire una trattativa con il Cavaliere ancora a Palazzo Chigi. Il premier non cadrà per un rituale di Palazzo o per una votazione annunciata; è dagli ostacoli improvvisi che deve guardarsi. Oggi alla Camera tenterà un ulteriore esercizio di equilibrio. Ma potrebbe non bastargli, quando il refolo arriverà pure nell'asfittica politica romana, e anche i parlamentari - di cui tutti chiedono il dimezzamento senza che nessuno vi metta mano - se ne renderanno conto.

Aldo Cazzullo

22 giugno 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_giugno_22/cazzullo-pontida_7d65a1ee-9c90-11e0-ad47-baea6e4ae360.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Nel Pdl panico e rabbia. «Adesso in galera ci finiranno tutti»
Inserito da: Admin - Luglio 21, 2011, 11:35:40 am
Il racconto

La giornata nelle due Aule

Nel Pdl panico e rabbia

«Adesso in galera ci finiranno tutti»

Anatema di Paniz: chi si rallegra se ne pentirà


ROMA - Arriva il sì all'arresto, Berlusconi, che ha ascoltato con le mani sugli occhi tutto l'intervento di Alfonso Papa - «l'altra notte ho dovuto dire ai miei due bambini, dieci e dodici anni, che questo week end forse il papà non tornerà a casa» -, schizza via e si chiude nella stanza riservata al premier, Papa si aggrappa a Renatone Farina - «portami lontano di qui» -, e le deputate del Pdl sono percorse da un'onda di panico. Come ai funerali in cui ognuno piange la propria morte, anche qui si presagisce una fine.

«È finita!» dice infatti Viviana Beccalossi. Mai vista la Santanché così scossa. Maria Rosaria Rossi, l'organizzatrice delle feste romane dell'estate scorsa, piange con le lacrime, le mettono occhiali scuri. Anna La Rosa, che è qui come giornalista: «Sono terrorizzata, mi sento come nel '93, stanno rifacendo quello che hanno fatto a Bettino!». Anna Maria Bernini barcolla: «È andata male, molto male». Quando poi Gabriella Carlucci annuncia la notizia del Senato - «Tedesco del Pd è stato salvato dall'arresto con i nostri voti!» -, la paura si muta in rabbia. «Adesso finiranno in galera tutti!» dice Osvaldo Napoli, vicinissimo al premier. Tutti, anche Milanese? «Anche Milanese!». E Stracquadanio: «Berlusconi ringrazi Feltri e Belpietro. Sono loro che hanno agitato la polemica sulla casta, hanno spaventato i leghisti, hanno messo i nostri elettori contro di noi». A quel punto tutti si ricordano della Lega. «Sono stati i leghisti!». «No, sono stati i maroniani!». «Maroni ha già l'accordo con D'Alema per il governo tecnico». «È la fine anche per Bossi, i suoi hanno votato in difesa di Papa, avete visto invece Maroni?». Il ministro dell'Interno in effetti ha votato platealmente con il solo dito indice della mano sinistra, come tutto il Pd, per mostrare a fotografi e telecamere che lui poteva pigiare solo il tasto del sì all'arresto. Dice un altro berlusconiano di aver visto leghisti fotografarsi con il telefonino mentre votavano contro Papa, e poi mandare l'immagine ai sostenitori, come a dire: «Io con la casta non c'entro nulla».

L'immagine della casta ha aleggiato su Montecitorio per tutta la giornata. Paniz, dopo aver sostenuto che Berlusconi poteva davvero pensare che Ruby fosse la nipote di Mubarak, ieri ha superato se stesso. «Chi vuole Papa in carcere non vuole che la legge sia uguale per tutti; vuole che i parlamentari siano meno uguali degli altri». Paniz rivendica di aver letto tutte le 14.932 pagine mandate alla Camera dall'odiato Woodcock e invoca «il rispetto delle regole, anche quelle sgradite alla piazza. Non è forse lo stesso Woodcock che voleva in galera Salvatore Margiotta del Pd, poi assolto, e arrestò il principe Vittorio Emanuele, felicemente prosciolto?». Buu e fischi dai banchi dei democratici, che al Senato annunciano di voler votare per l'arresto del loro collega Tedesco. Riparte Paniz: «Rimanere indifferenti di fronte agli indici di un evidente fumus persecutionis è impossibile».

Poi parla Mannino, racconta la sua sofferenza personale, condanna l'abuso del carcere preventivo, «secondo solo alla tortura». A Palazzo Madama, Tedesco chiede di essere arrestato; sa però che la maggioranza compatta voterà per lasciarlo libero. A Montecitorio ora interviene Papa, annunciato da un grido in romanesco: «Daje, a Pa'!». «Io sono innocente davanti alla mia coscienza, a Dio, agli uomini. La verità non ha bisogno di difensori; la verità si manifesta per il suo stesso essere». Poi il passaggio sui figli e sulla moglie, «unico mio bene da quando ventiquattro anni fa l'ho conosciuta». Altro grido, stavolta in napoletano, un omaggio a Merola: «Je songo carcerato, e mamma muore!». Ancora Papa, biblico: «La pianta della verità cresce nel campo della vita come la zizzania della menzogna». Berlusconi ascolta sinceramente angosciato, alla fine applaude, Cicchitto furibondo fa una tirata contro il giacobinismo «che tante vittime ha mietuto nel secolo scorso», con il Pdl in piedi che lo acclama freneticamente. Tutto quel che riesce a dire Di Pietro è che Papa non dovrebbe votare su se stesso.

Nessuno, a destra come a sinistra, ha il coraggio di riflettere in pubblico su un fatto: se un magistrato, magari a torto, decide di arrestare un piccolo imprenditore che lascia a casa decine di operai, una madre con i figli piccoli, un marito con la moglie malata, nessuno potrà impedirglielo; i parlamentari invece sono protetti da un filtro di solito efficacissimo, oggi spezzato dallo scontro interno alla Lega che vede prevalere Maroni su Bossi, i critici di Berlusconi sui suoi sostenitori. D'Anna del Pdl viene quasi alle mani in Transatlantico con Cera dell'Udc, i commessi incerti non sanno se intervenire, ci pensa Casini che placca il suo deputato con inaspettata mossa da rugbista e lo trascina via. D'Alema fa notare che nessuno a sinistra ha applaudito: «Non ci si rallegra per un arresto. Comunque, è ufficiale: la maggioranza non esiste più, e non da oggi». Paniz lancia una maledizione tipo fra' Cristoforo: «Verrà un giorno in cui tanti di coloro che stasera si rallegrano proveranno l'amaro sapore del rimorso».

Aldo Cazzullo

21 luglio 2011 10:02© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/politica/11_luglio_21/cazzullo_pdl-panico-paura_6f334b16-b366-11e0-a9a1-2447d845620b.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. IL PAPA E LA CORTE DELL'AIA
Inserito da: Admin - Settembre 14, 2011, 08:56:59 am
IL PAPA E LA CORTE DELL'AIA

L'ingiustizia di un'accusa

L'idea di Benedetto XVI, un uomo la cui mitezza è riconosciuta anche dai critici, trascinato davanti alla Corte penale internazionale per crimini contro l'umanità, come il generale Mladic, è uno scenario che sembrerebbe astruso pure ai militanti dell'anticlericalismo. Eppure potrebbe rivelarsi un rischio concreto, se sarà accolto il ricorso depositato ieri all'Aia da due associazioni americane di vittime dei preti pedofili.

Tocca al procuratore generale della Corte, Luis Moreno Ocampo, decidere nei prossimi mesi se accogliere o respingere il ricorso. Ma tocca a noi, fin da ora, interrogarci su come i nuovi strumenti del diritto internazionale possano creare imbarazzi politici, mostruosità giuridiche e profonde ingiustizie umane.

La pedofilia è il più odioso dei crimini. Lo dice anche il Cristo del Vangelo secondo Matteo, in un passo evocato più volte proprio da Benedetto XVI: «Piuttosto di scandalizzare un innocente, meglio sarebbe legarsi una macina di mulino al collo e gettarsi nel mare profondo». La richiesta di giustizia, che sale dalle famiglie delle vittime dei preti pedofili in America e non solo, deve trovare una risposta. E la Chiesa stessa in passato non ha fatto tutto il possibile per punire e prevenire, preferendo talora sopire e troncare. Ma, se c'è un Papa che non si è nascosto nel silenzio e nell'imbarazzo, ma ha denunciato con forza i crimini e l'omertà, quello è papa Ratzinger. La sua «Lettera ai cattolici d'Irlanda» è il documento più coraggioso che il Vaticano abbia prodotto al riguardo nella sua storia. Benedetto XVI non merita proprio di vedersi piombare addosso l'assurda accusa di crimini contro l'umanità.

Al centro della questione, però, non ci sono soltanto la pedofilia e lo status giuridico del Pontefice, unico capo religioso a essere anche capo di Stato. È il nuovo diritto internazionale a finire in discussione. Il mondo globale ha bisogno anche di codici e tribunali globali. Il diritto di ingerenza è stato rivendicato sia dalle Nazioni Unite sia dalle amministrazioni americane, democratiche e repubblicane. Fu in nome di quel diritto che Bush padre decise l'intervento in Somalia, poi precipitosamente chiuso da Clinton. All'istituzione della Corte dell'Aia si è opposto Bush figlio; che però ha posto la globalizzazione della democrazia alla base delle guerre in Afghanistan e in Iraq. La questione è aperta, il confine tra tutela dei diritti umani e rispetto della sovranità nazionale è ancora da tracciare. Saranno la storia e gli equilibri geopolitici a farlo. Ma l'idea che il Papa possa essere chiamato in causa per i crimini, per quanto odiosi, dei sacerdoti cattolici e per il silenzio delle gerarchie spalanca scenari che sarebbero rifiutati da qualsiasi governo. In teoria, ogni capo di Stato, anche il Nobel per la pace Obama, potrebbe essere processato all'Aia. Nell'antica Roma si era intuito che il massimo del diritto coincide con il massimo dell'ingiustizia. Oggi il formalismo e l'ideologismo possono creare formidabili danni alla causa della giustizia globale, forgiare argomenti a beneficio dei suoi avversari, e consentire ai veri criminali di agire indisturbati.

Aldo Cazzullo

14 settembre 2011 07:22© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_settembre_14/l-ingiustizia-di-un-accusa-aldo-cazzullo_c5a4e7c0-de90-11e0-ab94-411420a89985.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Ricci: le ragazze? Pagate per ascoltare le sue barzellette
Inserito da: Admin - Settembre 22, 2011, 05:00:48 pm
Dagli inizi con il Cavaliere al dispiacere per Santoro

«Inutile attaccare Silvio. Si è fatto da sé e deciderà lui come lasciare la scena»

Ricci: le ragazze? Pagate per ascoltare le sue barzellette


«Ero il preside dell'istituto per periti agrari di Coronata, sulle colline di Genova. Una mattina venne l'ispettore del ministero e mi chiese perché avessi la macchina targata Savona: "Lei arriva tutte le mattine da Albenga? Ma come fa?". In realtà, io arrivavo tutte le notti dal Derby di Milano. Cabaret. C'erano Andreasi, Cochi e Renato, Funari. Abatantuono curava le luci. Era il figlio della guardarobiera. Gli feci credere che "buliccio" in ligure volesse dire bullo, tosto. Lui si pavoneggiava: "Sono un buliccio...". Poi un giorno mi cercò Beppe Grillo. Era il 1977. L'avevano preso in Rai, gli serviva un autore...».
Antonio Ricci è nel suo piccolo ufficio a Milano2. Alle spalle, una foto di Berlusconi truccato da Stalin. Tutto è pronto per la ventiquattresima edizione di Striscia .

Ricci, ora il suo amico Grillo fa il capo partito. Lo voterà?
«A questo giro mi sono astenuto. Ma mi interessa la sua parte provocatoria. Mi fido più di un comico che di un politico di professione. Come mi fido più di un poeta che di un economista».

Da quando vi conoscete?
«Da una vita. Facevamo le serate insieme. E scherzi feroci. Tipo l'arrivo di Woody Allen al Derby: una truffa. Una volta mi presentò a Emilio Fede come manager della Bic, e gli propose di dirigere un tg nelle discoteche, a patto che mostrasse la nostra biro. "E che problema c'è?" rispose. Bisognerebbe anche ballare, aggiunsi io. Si sottopose al provino di ballo lì, al ristorante, davanti a tutti».

È vero che con Grillo abitavate a casa di Pippo Baudo?
«Sì. Fu un inverno gelido, il riscaldamento nel residence era rotto, Beppe tentava di scongelarsi mettendo a bollire pentole piene d'acqua. Così Baudo ci invitò da lui a Morlupo. Lo facemmo impazzire. Gli aprivamo l'armadio, indossavamo i suoi parrucchini. Lui era triste: Maria Grazia Grassini l'aveva lasciato, dopo una lite perché lei aveva recitato a seno nudo con Carmelo Bene. Pippo soffriva, si lamentava. Prendeva gli oggetti che avevano comprato insieme e diceva: "Questo l'ha toccato Maria Grazia, e io lo bacio!"».

Quando ha incontrato Berlusconi?
«In Rai era dura. Attaccammo la Dc e ci salvò Pertini, che conoscevo fin da bambino, quando il nonno mi portava ai suoi comizi ad Albenga (i comizi di Pertini erano cabaret puro). Poi Beppe attaccò il Psi e il viaggio in Cina di Craxi: "Ma se qui sono tutti socialisti, a chi rubano?". Mi chiamarono a Milano2 per Hello Goggi. Feci venire Leo Ferré: un mito, anarchico come il nonno, almeno pensavo. Sua moglie arrivò carica di pacchi comprati in via Montenapoleone. Lui prima di andare in scena si mise davanti allo specchio e si spettinò. C'erano anche Franco e Ciccio e io, stupido e snob, dicevo: spero di non incontrarli mai. Erano invece due grandi personaggi. Ciccio lo trovavi alle quattro di notte che fissava i cigni del laghetto. Oggi li rivedo in Ficarra e Picone».

Sì, ma Berlusconi?
«Gli proposi Drive In . Un programma dissacrante, che prendesse in giro gli Anni '80. Lui rimase interdetto. La tv che aveva in mente era tutt'altra: Johnny Dorelli, Mike Bongiorno, la Goggi appunto; nulla di trasgressivo, una super-Rai per attirare gli sponsor. Mi disse: "Lei è proprio sicuro di fare questa cosa? Sì? Allora facciamola. E diamoci del tu"».

Drive In è considerato l'inizio della degenerazione televisiva.
«Tanti ci hanno confuso con Colpo grosso . Drive In era satira. Il bocconiano. La modella di Armani che smoccolava in barese. Il paninaro che inventò dal nulla un linguaggio. E le ragazze fast-food: la caricatura del ritorno della maggiorata. Scoprii solo dopo che usavano un marchingegno per alzare il seno. Staino, Pietrangeli, Disegni e Caviglia, Gino e Michele: gli autori di sinistra lavoravano tutti lì».

Poi vennero le veline di Striscia. Lerner, con cui polemizzate ogni anno, dice che lei è stato finalmente costretto a dar loro la parola.
«Lerner è strumentale. Marketing. Lo fa per trarne giovamento, per apparire. Come Giovanardi quando attacca i gay e attizza la sua antagonista, la Concia. O come Masi, quando telefona a Santoro in diretta. In realtà, le veline hanno sempre parlato. La parte più importante, la telepromozione, è loro».

La parte più importante?
«La tv non è una finestra sul mondo. È una finestra sul mercato. Comunque Striscia sta dalla parte dei consumatori, delle associazioni. Fa, in tv, un po' quello che fa Grillo in politica».

Le spiace non rivedere Santoro?
«Sì. Michele è un maestro. Ha rifatto il Processo di Biscardi. Santoro è il puparo. Travaglio è il moviolista, che fa il punto della situazione; anche se il pubblico in studio, come le curve, fa il tifo e rimane della propria idea. Sceneggiata napoletana. C'è sempre un malamente : Ghedini, Belpietro, la Santanché. Seguirà brillante farsa, come dalle suore: ed ecco il finale con Vauro e le sue mossette».

Mai votato Berlusconi? Neanche una volta?
«Mai. Per motivi religiosi non posso non essere di sinistra. Un po' come Marco Rizzo: neo-vetero. Cinque anni fa ho anche fondato il Movimento SSSS: Si può essere di Sinistra Senza essere Stronzi. Ho avuto molte adesioni nella base. Tra i Vip però non ho sfondato».

Quella che secondo lei è satira, per Berlusconi è diventato stile di vita. Può continuare a guidare il governo?
«Lo san tutti che le ragazze in realtà venivano pagate solo per ascoltare le sue terribili barzellette. La difesa riuscirebbe facilmente a dimostrarlo e nessun giudice lo condannerebbe. Ma lui non vorrà. Secondo me ci gode che si conoscano le intercettazioni».

Sia serio.
«Lo sono. Come tutti gli uomini che si sono fatti da sé, Berlusconi si disfarrà da sé. Tentare di farlo fuori in modo forzoso è un esercizio di stile. Deciderà lui come uscire di scena, con un guizzo da comédien ».

Berlusconi si è mai lamentato di Striscia?
«Molte volte. Fin da quando Greggio fingeva una telefonata con Moana per poi scoprire che in realtà era Berlusconi nudo. A un Telegatto lui prese da parte i miei autori e disse: "Per cortesia, fatela finita. Le mie zie suore ci soffrono. E non ditelo a Ricci". Ovviamente me lo riferirono un minuto dopo. La volta successiva Greggio descrisse Moana-Berlusconi coperto di cinture Gibaud. Non la prese bene. Come quando andammo a intervistare Cuccia».

Cosa le disse quella volta?
«Era il momento in cui Mediaset doveva essere quotata in Borsa. Berlusconi usò un'altra delle sue tattiche: "Non sei stato tu, vero? Tu non avresti mai mancato di rispetto a una persona anziana, giusto?". Gli risposi: certo che sono stato io. So per certo che non ha gradito neppure rivedersi nella saga di Benny Hill».

Mandaste in onda anche il filmato della Tulliani con Gaucci. Fini se la prese con Berlusconi.
«Era già passato sui siti dei quotidiani. A segnalarmelo non fu il Cavaliere ma Edmondo Berselli, che non era un estimatore di Fini. Poi, certo, Striscia ha il suo peso».

Perché, secondo lei?
«Perché, anche se non siamo giornalisti ma cialtroni, noi andiamo in giro a cercarci grane, abbiamo 250 cause aperte, siamo noiosi e fastidiosi come le mosche. E ci attaccano. Dall'altra parte, la tv pubblica dà milioni di euro con i giochini. E nessuno ha nulla da obiettare».

Aldo Cazzullo

21 settembre 2011 07:34© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/politica/11_settembre_21/ricci-berlusconi-intrvista-addio-cazzullo_bb48fa0c-e410-11e0-bb93-5ac6432a1883.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. «Tremonti resti ma basta antibiotici...
Inserito da: Admin - Settembre 26, 2011, 09:24:13 am
«Giulio non FACCIA da solo. Primarie, ok Alfano ma siano previste per legge»

«Tremonti resti ma basta antibiotici

Ci vogliono le vitamine delle riforme»

Brunetta: Silvio è il medico, decide lui la cura. No alla patrimoniale dei poteri forti


Ministro Brunetta, è arrivato il momento delle dimissioni di Tremonti?
«No. L'errore che abbiamo fatto, ed è stato un errore collettivo, è pensare che Tremonti potesse sempre risolvere tutto. C'è stato un eccesso di delega. Tremonti sinora è stato un eccellente ministro dell'Economia, ma non può rappresentare da solo la collegialità del governo. Lui non lo può più pretendere; Berlusconi non glielo deve più consentire. Dal 2008 fino al 2014 abbiamo deciso provvedimenti di manovre cumulate per oltre 265 miliardi di euro: cioè abbiamo somministrato al corpo del Paese 265 miliardi di antibiotici. Adesso è l'ora delle vitamine. Vitamine strutturali: le riforme».

Lei è stato il primo a porre la questione Tremonti, quando tutti lo difendevano. Adesso è lei a difenderlo?
«Io dico che le dimissioni sono un trauma; e il Paese non ha bisogno di traumi, ma di risposte. Il governo è in grado di darle. In un momento come questo, calma e gesso. Teniamo la testa fredda».

Come valuta l'assenza di Tremonti nel voto su Milanese?
«Io ho votato in modo responsabile. A ciascuno la sua responsabilità. Guardiamo avanti. Ora il valore aggiunto è la collegialità; e questo vale per tutti. Il coordinamento dell'azione di governo spetta al premier. È lui il medico che deve decidere la cura».

Berlusconi è ancora in grado di farlo?
«Certo. Anzi, più fa il medico, meglio risponde agli attacchi forsennati, ingiusti, illegali alla sua persona. Sento dire: è talmente sotto tiro che sarebbe meglio si facesse da parte. Ma lo attaccano proprio perché non faccia il premier, per distoglierlo dalla sua carica rivoluzionaria. Come quando tentano di fermare il goleador ricorrendo al fallo sistematico».

Più che sulle riforme, il premier pare concentrato sulle «cene eleganti» e sugli interessi privati.
«Vedo un mare di ipocrisia in giro per il mondo. Chi è senza peccato scagli la prima pietra. Cosa si troverebbe intercettando magistrati, banchieri, giornalisti? Il mio consiglio a Berlusconi è questo: più lui fa il premier, più lui cambia l'Italia, più ridicolizza i suoi persecutori».

Le riforme passano anche attraverso una patrimoniale?
«No. Concordo con Franco Debenedetti: sarebbe il de profundis per le riforme. E con Alesina e Giavazzi: la patrimoniale è una foglia di fico voluta dai poteri forti per nascondere le rendite di posizione».

Che cosa intende per poteri forti?
«Tutte le rendite di posizione del nostro Paese: finanza, public utilities , patrimonio pubblico, cattivi sindacati. Una mano morta sull'Italia. Siccome questo governo ha cominciato a smantellare cattiva burocrazia, cattivo sindacato, aree di rendita nella scuola e nell'università, questo governo è diventato insopportabile per i poteri forti. Che reagiscono demonizzando il premier e lanciando l'idea salvifica della patrimoniale: in realtà, un modo per gettare la polvere sotto il tappeto».

Come ripianare i conti pubblici allora?
«Il paradosso è che siamo il Paese con la finanza pubblica più solida. Dal punto di vista del deficit, siamo i più virtuosi d'Europa: il nostro avanzo primario è il migliore. Ci penalizza il servizio del debito: quel che dobbiamo pagare per tenere su la montagna del debito. I mercati vogliono più rendimento per poter comprare i titoli italiani. Ma i fondamentali della nostra economia sono forti. Il sistema bancario tiene. Il tasso di disoccupazione è due punti sotto quello dell'area euro».

L'Europa, le agenzie di rating, le istituzioni internazionali sono molto più severe.
«Non è così. La vera specificità dell'Italia è il masochismo. Noi non guardiamo il bicchiere mezzo pieno ma quello mezzo vuoto, e ci facciamo del male, ci spariamo sui piedi. E questo nervosismo si trasmette ai mercati speculativi in cerca di opportunità».

Lei cosa farebbe per rilanciare l'economia?
«Noi abbiamo un'enorme quantità di capitale pubblico morto. Va trasformato in capitale vivo privato. C'è un capitale immobiliare che non fa economia, efficienza, produttività. Penso alla proprietà degli enti locali sul 99 per cento delle public utilities : luce, acqua, gas, trasporti, spazzatura. Alle case di Regioni, Province, Comuni, enti, Stato: due milioni di affitti irrisori; gli inquilini vorrebbero riscattarle, ma la politica non vuole. Siamo come una famiglia che fatica a pagare le rate del mutuo e ha tantissimo capitale che non rende niente».

Chi impedisce di privatizzare?
«Le forze della conservazione, quelle che io chiamo poteri forti, che si trasformano in giornali, partiti, voti. Elites conservatrici. Non parlo di destra e sinistra: la compagnia è molto mixata. Per fortuna, l'Italia è fragile ma anche resiliente».

Resiliente?
«C'è una bella raccolta di saggi, curata da Tommaso Padoa-Schioppa, cui collaborai anch'io, sulla resilienza dell'Italia: la proprietà per cui un materiale viene modificato, stressato, ma poi ritorna allo stato di prima o meglio di prima. Ercolino sempre in piedi: prende botte, ma si rialza. L'Italia alla fine ce la fa».

Ma si possono privatizzare Eni ed Enel, a questi prezzi di Borsa?
«Vendere i gioielli di famiglia a freddo sarebbe sbagliato. Bisogna farlo dentro un'onda di cambiamento. Dire con chiarezza che è finita l'Unione Sovietica in Italia, negli enti locali, nei ministeri, nel demanio, spiagge comprese. Cominciare una rivoluzione culturale, che stiamo tentando anche sotto l'aspetto costituzionale, con la riforma dell'articolo 41. Dentro questa ondata, si può diminuire il peso dello Stato in Eni, Enel, Finmeccanica. Non si tratta solo di vendere caserme, ma di fare una rivoluzione. La vogliono i mercati. La vuole l'Italia migliore. È anche il modo giusto di lottare contro l'evasione fiscale e il sommerso, che è il frutto del grande e perverso patto sociale tra lo Stato e i vari percettori di rendita. Altro che patrimoniale».

È d'accordo con Alfano, quando chiede primarie per tutte le cariche?
«Sì. Evitando le forme estemporanee, tipo primarie del Pd a Napoli. Giusto prevederle per legge. Magari anche in Costituzione».

Aldo Cazzullo
26 settembre 2011 08:14© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/11_settembre_26/tremonti-resti-ma-basta-antibiotici-ci-vogliono-le-vitamine-delle-riforme-aldo-cazzullo_7e7d1be8-e803-11e0-9000-0da152a6f157.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Il Paese guarda, attonito
Inserito da: Admin - Settembre 29, 2011, 04:52:32 pm
Il Paese guarda, attonito

Il partito che per quindici anni si è chiamato Forza Italia e ora si chiama Pdl nasce non solo come contenitore dei voti cattolici e socialisti. Si è proposto, sin dalla vera fondazione - il discorso della «discesa in campo» di Berlusconi -, come una forza di opposizione alla prospettiva di un Paese trasformato «in una piazza urlante, che grida, che inveisce, che condanna». Il centrodestra nasce cioè come difesa della politica dall'ingerenza della magistratura. Un obiettivo condivisibile, se non fosse stato sin dall'inizio viziato anch'esso dal conflitto tra il bene pubblico e gli interessi privati del leader, e di uomini che hanno guardato al suo partito come a un ombrello dai guai giudiziari. Garantismo e impunità sono separati da un confine ben preciso. Le vicende parlamentari di queste settimane l'hanno ampiamente oltrepassato. E il Popolo della libertà non appare più come un argine contro il dilagare delle Procure (cui in effetti accade di uscire dall'alveo), ma come il manto della Madonna della misericordia degli affreschi medievali, sotto cui corrono a ripararsi anche sedicenti perseguitati e autentici malandrini.

Le sentenze spettano solo alla magistratura. Non ai giornali. Ma neppure al Parlamento. Il Parlamento è chiamato a escludere che un eletto di cui si chiede l'arresto sia vittima di una persecuzione; o a dare una valutazione politica sull'opportunità che un ministro di un dicastero importante resti al suo posto, nonostante sia indagato per mafia. Il paragone con gli anni tra il '92 e il '94 non regge. I casi di Papa, di Milanese, di Romano non sono storie di ingranaggi della macchina del finanziamento illecito ai partiti: una macchina perversa, che però implicava una responsabilità collettiva, di sistema. Qui siamo di fronte a parlamentari accusati di ricevere regali costosi, auto di lusso, yacht in cambio di informazioni su inchieste giudiziarie o posti nei consigli d'amministrazione di aziende pubbliche; e a un ministro su cui incombono accuse che potrebbero rivelarsi anche più gravi di quelle che hanno condotto in carcere il suo ex compagno di partito Totò Cuffaro. Il garantismo impone di considerarli innocenti sino alla sentenza definitiva; l'opportunità politica e il principio di uguaglianza di fronte alla legge consigliano invece un passo indietro, sollecitato in passato dallo stesso presidente della Repubblica, nel caso infelice di Brancher, ministro per poche ore. Qui invece siamo al paradosso per cui Tremonti finisce imputato nel suo stesso partito non per avere mal riposto la fiducia nell'ex braccio destro, ma per non aver contribuito a «salvarlo».

L'opposizione ha la credibilità morale per condurre questa battaglia in nome dell'intero Paese? La risposta è no. Il caso Penati è gravissimo, e finora non sono venute risposte convincenti né dall'interessato né dai vertici del Partito democratico. E, quando fu chiesto l'arresto del senatore Pd Tedesco, nel voto segreto prevalsero le ragioni dell'impunità. È l'opinione pubblica, è l'intera classe politica che deve porsi la questione. Costruire un sistema giudiziario equo ed efficiente, che non punisca con la carcerazione preventiva - tutti i cittadini, non solo i parlamentari - ma accerti le responsabilità, è un'urgenza cui nessuno può sottrarsi. A maggior ragione i moderati e i liberali cui tocca ora chiudere al più presto questa stagione, e ricostruire su basi più solide quell'area della legalità e del merito che mai come oggi manca al Paese.

Aldo Cazzullo

29 settembre 2011 07:52© RIPRODUZIONE RISERVATA
da http://www.corriere.it/editoriali/11_settembre_29/cazzullo_paese_attonito_c82c5370-ea57-11e0-ae06-4da866778017.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Abbiamo fiducia nei nostri titoli
Inserito da: Admin - Novembre 05, 2011, 11:24:56 am
INVESTIRE NELL’ORGOGLIO NAZIONALE

Abbiamo fiducia nei nostri titoli


Ieri il signor Giuliano Melani è stato sommerso per tutto il giorno da mail e telefonate. Erano le risposte al suo appello, lanciato a pagina 24 del Corriere. Un cittadino sconosciuto, che assicura di non avere alcuna ambizione politica, ha invitato i suoi compatrioti a comprare titoli di Stato. Ma soprattutto ha sollecitato l’orgoglio nazionale. Noi crediamo che entrambi gli stimoli siano condivisibili.

L’Italia non è la Grecia, e non lo sarà mai. Ripeterlo è ovvio ma non inutile. Non c’è alcun pericolo che i titoli emessi dallo Stato italiano non siano onorati. I risparmiatori che in queste stesse ore hanno annunciato l’intenzione di spostare i loro investimenti dal nostro ad altri Paesi esprimono preoccupazioni comprensibili, ma sbagliate. L’Italia è la nazione descritta ieri a Cannes dal presidente Obama, che non ha le inclinazioni politiche del nostro governo e neppure una particolare simpatia per il nostro premier, ma ha voluto ricordare al mondo che l’Italia è un grande Paese, «con un’enorme base industriale e con asset straordinari». Una considerazione oggettiva, che per primi noi italiani dovremmo tenere sempre a mente.

Comprare Buoni del Tesoro, come il signor Melani e si spera altri milioni di risparmiatori potranno fare in piena libertà nei prossimi giorni, non è un azzardo. Se lo fa e lo ha fatto la Banca centrale europea perché non dovremmo farlo noi? Non si tratta di chiedere slanci patriottici, come quelli sollecitati in altri tempi, che non hanno portato fortuna. Si tratta di essere consapevoli di noi stessi, degli interessi comuni che ci legano, del rapporto che ci unisce a una patria unificata proprio 150 anni fa e a uno Stato a volte sentito come distante e nemico (e che a volte si comporta in modo tale da confermare questo pregiudizio), ma in realtà non è «altro» rispetto a noi.

Ognuno è tenuto a fare la propria parte. La politica deve trovare una soluzione che metta in sicurezza i conti pubblici, introduca subito le misure necessarie a tranquillizzare l’Europa e a far ripartire la crescita, e dia al Paese un governo stabile e un’ampia maggioranza parlamentare, se necessario anche attraverso elezioni. I cittadini sono chiamati a offrire una prova di orgoglio e insieme una dimostrazione di razionalità, evitando catastrofismi e fughe di capitali che sarebbero controproducenti due volte, per i rendimenti privati e per il bilancio pubblico. Ma neppure le banche possono chiamarsi fuori. Se a tutti è chiesto un segno di responsabilità, anche le banche possono dare il loro. Il modo è semplice, anche se inedito: rinunciare, per un giorno, alla commissione sulla vendita dei titoli pubblici. Si tratta di un sacrificio non indifferente, in un momento delicato per l’intermediazione finanziaria (per quanto le banche italiane siano messe meglio di quelle di altri Paesi, a cominciare dalla Francia). Ma il sacrificio degli istituti di credito darebbe un ulteriore vantaggio ai risparmiatori e un notevole sollievo allo Stato.

Non si tratta di fare un favore a politici che non lo meritano.

È il nostro stesso futuro a essere in gioco; è su noi stessi che stiamo investendo.

Aldo Cazzullo

05 novembre 2011 07:15© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_novembre_05/cazzullo-abbiamo-fiducia-nei-nostri-titoli_a0d591ee-076f-11e1-8b90-2b9023f4624f.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Una gazzarra senza coraggio
Inserito da: Admin - Novembre 16, 2011, 12:04:25 pm
Le contestazioni

Una gazzarra senza coraggio


La folla assiepata nella notte romana sotto il Quirinale e Palazzo Grazioli - più quella che ha puntato su Palazzo Chigi deserto - a urlare insulti, invocare le manette e gettare monetine al passaggio del premier dimissionario rappresenta uno spettacolo preoccupante.

Preoccupante anche per chi del premier non ha mai condiviso un'idea o una parola. Nell'ora delicatissima in cui tra mille difficoltà potrebbe nascere un governo di solidarietà nazionale, in un momento drammatico in cui il Paese è chiamato al massimo sforzo di unità, nessuno può chiamarsi fuori, ognuno è tenuto a rinunciare alle asprezze polemiche, a cercare un minimo comune denominatore con l'avversario, per percorrere insieme un tratto di strada prima di tornare a dividersi nella competizione elettorale.

È un sentiero stretto, quello su cui sta tentando di incamminarsi la politica italiana. Sarebbe stato impensabile, ancora poco tempo fa.
Ma è un sentiero reso obbligato dalla crisi e dall'attacco della speculazione internazionale contro il nostro Paese. Inscenare una gazzarra come quella di ieri sera, con le forze dell'ordine costrette a intervenire per l'ennesima volta nel cuore della capitale, è il contrario di ciò che il mondo si aspetta dall'Italia. Soprattutto, è il contrario di ciò di cui l'Italia ha bisogno. È vero che i fischi al leader perdente - non un assedio con il centro di Roma bloccato e momenti di tensione, come quella di ieri - sono una consuetudine delle democrazie. Un gigante come François Mitterrand trovò ad attenderlo all'uscita dall'Eliseo dopo quattordici anni una folla non proprio amichevole, e non se ne adontò. Occorre però ricordare che Berlusconi non è stato battuto da un voto elettorale.

Il governo cade a causa della crisi internazionale, e alla propria inadeguatezza a farvi fronte. Ma non va dimenticato che in questi diciassette anni Berlusconi ha sempre avuto un consenso vasto nel Paese, che oggi si è ridotto ma non è certo scomparso. Nel 1996 perse perché non aveva con sé Bossi. Dieci anni dopo per sconfiggerlo si dovette riunire in un'unica coalizione Dini e Cossutta, Mastella e il no global Caruso, la Binetti col cilicio e Luxuria vestito da donna: un'alleanza a malapena capace di vincere le elezioni, ma del tutto incapace di governare. La premessa di una nuova stagione non può prescindere dal rispetto per i sentimenti e le opinioni di chi in Berlusconi ha creduto. Prendersi vendette o rivincite alla fine di un ciclo lascia sempre un retrogusto amaro. Farlo ora, a metà del guado, è un esercizio imprudente oltre che improvvido. Non occorre grande coraggio per andare a urlare sotto casa di Berlusconi, o davanti alla sedi istituzionali. Ne occorre di più per unire le forze nell'emergenza anche con chi ha un sentire diverso dal proprio, nel nome di un interesse e di una responsabilità che mai come oggi sono comuni.

Aldo Cazzullo

13 novembre 2011 17:03© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/11_novembre_13/cazzullo-colle-gazzarra_c524a87a-0e02-11e1-a3df-26025bf830b6.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Parla l'ex premier: -- disperatamente
Inserito da: Admin - Novembre 20, 2011, 11:21:49 am
l'INTERVISTA

Berlusconi: governo fino al 2013

Sì a un'imposta simile all'Ici

Parla l'ex premier: «No alla patrimoniale E Monti ha garantito che non si candiderà»



Presidente Berlusconi, che cosa ha provato nel vedere un altro uomo a Palazzo Chigi?
«Che da adesso in avanti quando piove il ladro non sarò più io».

Qual è il suo giudizio su Monti e sul nuovo governo?
«È composto da tecnici di elevata competenza. Questo non significa che avranno carta bianca su tutto: saremo attenti su ogni provvedimento che arriverà alle Camere. Abbiamo chiesto l'impegno del governo a farsi promotore in Europa della trasformazione della Bce in garante di ultima istanza dell'euro, come lo sono le banche centrali nei confronti del dollaro, della sterlina e dello yen. Senza questa decisione non solo l'euro è a rischio, ma tutti i Paesi europei prima o poi sperimenteranno sulla propria pelle gli effetti della speculazione. Abbiamo chiesto anche l'impegno a rivedere le norme Eba che soffocano le banche italiane. Diremo no a eventuali proposte di misure recessive, e appoggeremo tutte le iniziative per promuovere lo sviluppo».

Monti è destinato a restare in carica per il tempo necessario a completare le riforme chieste dall'Europa, o fino al termine della legislatura?
«Non amo fare previsioni, ma non pongo limiti temporali all'attività del nuovo governo. La sinistra reclama una discontinuità con il nostro. Noi difenderemo invece tutti gli elementi di continuità, a cominciare dalle riforme che abbiamo concordato con l'Europa. Monti non potrà non ascoltarci. Il Pdl è il primo partito in Parlamento e sarà anche un punto di riferimento insostituibile per questo governo».

Questo significa che Monti può arrivare al 2013?
«Monti deve arrivare al 2013. I provvedimenti che deve portare in aula non sono pochi, e con i tempi e le regole vigenti richiedono un periodo non brevissimo. Così si completano i cinque anni e poi ci si rivolge agli elettori. Certo, se Monti prenderà misure in contrasto con la linea dei partiti che lo sostengono, come per noi la patrimoniale, non potrà andare avanti; anche se, come gli ho detto, io non ho mai usato l'espressione "staccare la spina". Del resto, lei crederà mica che Passera abbia lasciato Banca Intesa, o l'avvocato Severino abbia rinunciato al suo studio, per restare in carica cinque mesi?».

Allora perché i giornali della sua famiglia o a lei vicini attaccano Monti ogni giorno?
«Non so come dirlo: non sono io a dettare la linea. Del resto, lei crede che in questi anni Il Giornale e Libero mi abbiano giovato o danneggiato?».

Non votereste la patrimoniale neppure se Monti lo considerasse necessario? E la reintroduzione dell'Ici sulla prima casa?
«Siamo contrari alla patrimoniale. Monti ha fatto intendere che porterà la tassazione degli immobili in linea con la media europea, mentre ora è al di sotto. È possibile che questo comporti l'introduzione di un'imposta simile all'Ici, da noi già prevista con il federalismo, ma completamente diversa rispetto alla precedente impostazione già nella nostra riforma. Dunque una continuità di linea con il nostro governo, con un probabile anticipo dei tempi rispetto al 2014 che noi avevamo previsto».

Silvio Berlusconi fra i banchi di Montecitorio (Eidon/Frustaci)Silvio Berlusconi fra i banchi di Montecitorio (Eidon/Frustaci)
La legge elettorale va modificata? Il referendum va evitato o va tenuto regolarmente?
«Questa materia è di competenza del Parlamento e non rientra nel programma di governo. Sulla legge elettorale c'è molta ipocrisia. Chi critica il Parlamento dei nominati finge di non sapere che se si tornasse ai collegi uninominali i candidati sarebbero indicati sempre dai partiti. In difesa della legge esistente, ricordo che la fine delle preferenze ha ridotto la corruzione. In ogni caso, non accetteremmo mai una legge elettorale che non garantisca il bipolarismo e la possibilità per l'elettore di scegliere la coalizione vincente, il premier e il programma. La mia entrata in politica ha cambiato la storia d'Italia, consegnandole una riforma fondamentale per garantire la governabilità: il bipolarismo e l'alternanza di governo. Non è un caso se i nostri governi sono stati tra i più longevi della storia d'Italia. Ora c'è chi vorrebbe tornare indietro; ma noi lo impediremo».

Il Pdl manterrà la sua coesione senza lei a Palazzo Chigi? Non teme una diaspora?
«Assolutamente no. Io lavorerò sia in Parlamento, per assicurare la governabilità e le buone leggi, sia nel partito, per prepararlo alle prossime elezioni e vincerle».

È sicuro di non ricandidarsi nel 2013? In tal caso, il successore verrà eletto attraverso primarie? Lei chi voterebbe?
«Confermo che il nostro candidato sarà scelto attraverso le primarie tra i nostri iscritti, che sono già un milione e 200 mila. Quanto al pronostico, ho la ragionevole convinzione che a vincere le primarie sarà Angelino Alfano, che ha tutte le qualità per essere un ottimo presidente del Consiglio».

Quali sono i suoi rapporti con Fini? È possibile una riconciliazione?
«Nell'ultimo anno ho avuto solo rapporti istituzionali, secondo le procedure, compresa la telefonata dopo le mie dimissioni. Il resto sono fantasie della stampa, che ogni giorno alimenta un teatrino lontano dalla realtà. La verità è che il deterioramento della nostra maggioranza è iniziato con il peccato originale di Fini: la sua fuoriuscita dal Pdl è stata una decisione che resterà scolpita in negativo nella storia politica dell'Italia. E che gli elettori moderati non dimenticheranno mai».

Ma Fini è stato cacciato.
«Fini non è stato cacciato. Con i suoi tre moschettieri gettava discredito sul governo, con effetti negativi rilevati da tutti i sondaggi. Ricordo una vignetta del vostro Giannelli. Fini con le braccia incrociate diceva: "Oggi Berlusconi non ha parlato, come faccio a contraddirlo?". Abbiamo cercato un chiarimento, definendo il suo modo di agire incompatibile, ma ai probiviri abbiamo deferito Bocchino, Granata e Briguglio, non lui. Sono loro ad aver deciso di andarsene».

Fini non sarà d'accordo. Non crede poi sia stata un errore la rottura del 2008 con Casini? Si potrà ricostruire un'alleanza di centrodestra alle prossime elezioni?
«La rottura non è stata determinata da noi. A Casini abbiamo offerto infinite volte di recuperare un rapporto con il centrodestra, in nome dei valori comuni e della comune appartenenza al Partito popolare europeo. Penso che in un clima politico meno avvelenato sia possibile ritrovare lo spazio per un dialogo che serva a riportare tutti i moderati sotto lo stesso tetto».

Casini chiederebbe un prezzo alto. Potreste arrivare a offrirgli la candidatura a Palazzo Chigi?
«Queste non sono certo cose che decido io. Siamo il partito che discute di più al mondo: ufficio di presidenza, direzione nazionale... Entro l'anno faremo i congressi comunali e provinciali, entro marzo il congresso nazionale. Detto questo, ci sono leader che si occupano dell'interesse generale, e ci sono politici di professione che badano alla loro carriera».

È vero che avete chiesto a Monti di rinunciare fin da ora a guidare uno schieramento elettorale?
«È vero. Abbiamo chiesto a lui e a tutti i suoi ministri di impegnarsi pubblicamente a non presentarsi come candidati alle prossime elezioni».

E loro cosa vi hanno risposto?
«Di sì. Non ho parlato con i singoli ministri. Ma Monti mi ha detto che, se il governo andrà avanti, è logico che lui non approfitterà della situazione per candidarsi. Un impegno assunto alla presenza del capo dello Stato».

Cos'è successo tra lei e Tremonti? Come sono oggi i vostri rapporti?
«Buoni, sul piano personale. Sul piano della politica economica abbiamo due visioni diverse. Tremonti è per il rigore. Io sono per il rigore coniugato con lo sviluppo».

Buoni i rapporti tra lei e Tremonti?
«Non ci ha visti venerdì alla Camera? Lui si è seduto sotto di me, abbiamo parlato e scherzato in continuazione. Tremonti è così, infila una battuta dopo l'altra. Poi ci mandiamo al diavolo quando esprimiamo due linee diverse».

Con la Lega è possibile una ricucitura? Bossi è ancora il leader o comunque l'interlocutore?
«Sono sicuro che manterremo il rapporto stretto che c'è sempre stato tra noi e la Lega. La Lega è un alleato solido e leale. E il Pdl è l'unico vero alleato su cui la Lega potrà contare anche in futuro».

Che impressione le fa stare in una maggioranza in cui ci sono anche i postcomunisti del Pd e Di Pietro? La base del Pdl capirà?
«Questa non è una maggioranza politica. È una maggioranza parlamentare imposta dall'emergenza. Non ci sarà alcuna confusione di identità tra noi e la sinistra, nessuna alleanza consociativa tra il Pdl e il Pd. Come il presidente della Repubblica ha auspicato dando l'incarico a Monti, "il confronto a tutto campo tra i diversi schieramenti riprenderà appena la parola tornerà ai cittadini per l'elezione di un nuovo Parlamento"».

Un governo composto da ministri che non sono passati attraverso il vaglio degli elettori rappresenta una sospensione della sovranità popolare?
«Mi sembra evidente. Sospendere non significa porre fine: è un'emergenza temporanea, che richiede un'assunzione di responsabilità generale nell'interesse dell'Italia. Per questo tutti i partiti dei due schieramenti, tranne la Lega, hanno fatto un passo indietro e affidato ai tecnici un compito non facile, nel tentativo di rispondere ai mercati. Eppure in questi giorni tutti hanno potuto constatare che lo spread è rimasto elevato anche dopo le mie dimissioni: evidentemente il nostro governo non aveva alcuna colpa. Questa è una crisi dell'euro, che dietro di sé non ha un prestatore-garante di ultima istanza, quali le banche centrali delle altre monete forti, come il dollaro e la sterlina; così come non ha una politica economica unica per l'eurozona. Dotarsi di questi strumenti è il compito dell'Europa: una battaglia che l'Italia dovrà intestarsi. Ma ci vorrà tempo. Intanto noi dobbiamo salvare il nostro Paese, operando tutti insieme».

Lei si è lamentato per i fischi della settimana scorsa. Ma in passato lei ha alimentato lo scontro, apostrofando duramente gli elettori del centrosinistra.
«Mi sono dimesso per un atto di responsabilità e di amore verso il mio Paese, senza che il nostro governo sia mai stato sfiduciato. Ma questo non è bastato a chi per anni ha fatto politica demonizzando l'avversario. Noi abbiamo uno stile opposto. Da liberali veri, preferiamo costruire invece che distruggere, confrontarci sui contenuti per il bene del Paese piuttosto che delegittimare chi la pensa diversamente da noi, amare invece che invidiare e odiare».

Presidente, lei è arrivato a chiamare gli elettori di sinistra «coglioni».
«Non è andata così. Quell'espressione non fu usata per ingiuriare chi non vota per me, ma in una riunione a porte chiuse con i commercianti, per dire che un benestante non avrebbe certo potuto votare per chi aumenta le tasse e governa contro i suoi interessi. Io ho avuto un'educazione religiosa, e mi hanno insegnato a non ingiuriare il prossimo».

Non crede di aver commesso errori in questi ultimi tempi? Ci sono cose che non rifarebbe?
«Chi fa, sbaglia. Solo chi non fa nulla non sbaglia mai. E certi errori, anche se fatti in buona fede, li scopri solo con il tempo. Un ottimista vede un'opportunità anche nelle difficoltà. E io resto sempre un ottimista. Il governo Monti può essere un'opportunità per realizzare quelle riforme liberali che erano nel nostro programma, e non siamo riusciti a portare a termine per le resistenze che abbiamo incontrato da parte di tutti gli schieramenti».

Non è stato un errore il suo stile di vita?
«Ma quelle sono falsità, in cui sono caduti i giornali stranieri. Qui ora sembra che noi in tre anni e mezzo non abbiamo fatto nulla. Non è affatto così, a cominciare dalla politica estera. Mi hanno rovinato l'immagine con cose assolutamente non vere».

Come «assolutamente non vere»? Non è stato forse un errore dare confidenza a personaggi come Tarantini e Lavitola?
«Io non ho fatto niente di male. Tarantini veniva a cena da me. Abbiamo fatto diciassette cene in tutto. Lui aveva con sé belle ragazze, ma io non sapevo che venissero pagate, credevo che lui fosse un playboy, arrivava con la Arcuri... Lavitola era il direttore di un giornale storico come l'Avanti. Si proponeva come candidato alle elezioni. Non sapevo si inventasse un sacco di cose. Quando ho visto quei telefonini panamensi mi sono rifiutato di usarli, ho detto che queste cose le fa la malavita organizzata. E non ho più preso le sue telefonate. L'ultima volta, alle 11 e mezza di sera, il mio maggiordomo mi ha chiesto per cortesia di parlargli, visto che aveva chiamato venti volte. Ma nelle mie telefonate mantengo sempre la compostezza».

Non sempre. Una volta ha definito l'Italia «Paese di merda».
«Perché, lei al telefono non usa mai un po' di slang? Io amo profondamente l'Italia. Ma certo non stiamo attraversando un momento felice. Sa qual è il modo più facile per strappare l'applauso nei comizi? Chiedere alla gente se si sente tranquilla a parlare liberamente al telefono. Ogni volta è standing ovation».

Con il senno di poi, era proprio indispensabile lasciare? Si è sentito costretto dall'Europa, dai mercati?
«Le mie dimissioni non sono state affatto chieste dall'Europa. La crisi che stiamo vivendo è la più grave dal '29. L'unica strada per scongiurare questo scenario da incubo era mettere insieme maggioranza e opposizione. A causa della crisi, oggi non c'è un solo capo di governo in Europa che abbia la maggioranza dei consensi. Ricostruire la fiducia del popolo nei propri eletti e creare una nuova stagione di responsabilità è la grande sfida che nei prossimi anni impegnerà i leader politici in tutto il mondo, non solo in Italia».

Aldo Cazzullo

20 novembre 2011 | 9:35© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/11_novembre_20/berlusconi-governo-fino-2013-cazzullo-ici_4ff6a3a6-134c-11e1-8f9c-85bd5d41d537.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Unità nazionale (all'opposizione)
Inserito da: Admin - Dicembre 16, 2011, 04:49:49 pm
IL GOVERNO E L'INSOFFERENZA DEI PARTITI

Unità nazionale (all'opposizione)

Non si aveva idea di quante lobby, anche minuscole, fossero all'opera in Parlamento. Si sapeva della buona rappresentanza di avvocati.
Ma anche farmacisti e tassisti devono avere buoni contatti: infatti resteremo il Paese europeo in cui è più difficile trovare medicinali di largo consumo fuori dalle farmacie; mentre Milano e - più ancora - Roma rimarranno le uniche metropoli al mondo dove, anziché code di taxi in attesa di clienti, si formano code di clienti in attesa dei taxi. L'unica lobby che non si è manifestata è quella dell'interesse nazionale.

Neppure la gravità della crisi finanziaria e la prospettiva di mesi di recessione hanno incrinato il muro corporativo.
I 150 anni dell'unificazione hanno risvegliato l'orgoglio patriottico, ma fino ad adesso non hanno scalfito il vero male italiano: la prevalenza dell'interesse di parte su quello comune, del particolare sul generale. Uno scatto è ancora possibile, oltre che necessario. Purché ci si renda conto con chiarezza della situazione.

Mario Monti non guida il governo con la più ampia maggioranza parlamentare della storia. Guida il governo con la più ampia opposizione mai vista. Quella palese, anzi sguaiata, della Lega. Quella ormai dichiarata dell'Italia dei valori. E quella sottotraccia dei democratici che manifestano contro la manovra poi sostenuta in Parlamento, e di Berlusconi che fa ormai ogni giorno professione di «perplessità».

A questo punto Monti e i suoi ministri hanno due strade. Adeguare il proprio passo alla debolezza del sostegno parlamentare, avanzando con cautela e ritraendosi quando il malumore si fa manifesto, come nel caso delle liberalizzazioni mancate. Oppure procedere con decisione sulla via delle riforme, compresa quella del mercato del lavoro. Il governo ha anche qualche punto di forza. È composto da persone competenti e perbene. È considerato credibile in Europa. Ha mantenuto buoni indici di appoggio popolare, nonostante il salasso della manovra. Il disimpegno dei partiti paradossalmente può diventare un vantaggio, uno sprone a osare, uno stimolo ad andare avanti.

Certo le critiche aumenterebbero di tono, ma nessun partito si prenderebbe oggi la responsabilità di far cadere il governo: non il Pdl, che consegnerebbe così Monti all'altro schieramento; non il Pd, che sull'esecutivo di transizione si è giocato tutto, e finirebbe per ritrovarsi succube di Vendola e Di Pietro.

Questo governo rappresenta ancora l'occasione di introdurre una vera discontinuità, di dimostrare che è possibile operare per l'interesse comune anziché per quello delle categorie e delle corporazioni. Se invece il governo dovesse esitare e fermarsi un'altra volta, si garantirebbe forse una navigazione parlamentare più tranquilla, ma perderebbe il proprio autentico fondamento: la consapevolezza popolare che i sacrifici e i cambiamenti sono necessari e a lungo andare salutari; purché riguardino tutti, comprese le lobby piccole o grandi.

Aldo Cazzullo

16 dicembre 2011 | 8:17© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_dicembre_16/unita-nazionale-all-opposizione-aldo-cazzullo_4797a5fc-27b0-11e1-a7fa-64ae577a90ab.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Più fiducia in noi stessi
Inserito da: Admin - Dicembre 24, 2011, 07:21:28 pm
IL REGALO CHE TUTTI DOVREMMO FARCI

Più fiducia in noi stessi

È il Natale più difficile, forse più amaro degli ultimi anni. Per chi ha perso l'azienda o il lavoro. Per chi deve rinunciare ad abitudini consolidate o ad aspettative legittime. Per rendersene conto basta camminare nelle strade di qualsiasi città italiana, seguire le traversie di chi non riesce a trovare regali a misura delle proprie tasche. Eppure c'è un regalo che tutti quanti noi possiamo farci, c'è un tesoro nascosto nel fondo della crisi italiana. Non lo si trova nelle vetrine, non lo si può impacchettare, ma questo non diminuisce il suo valore, anzi. È la fiducia in noi stessi, nell'immenso potenziale di cultura, lavoro e sviluppo del nostro Paese. Che, com'è sempre accaduto, nei momenti difficili se non drammatici riesce a dare il meglio di sé.

Il 25 dicembre 2011 saranno passati - ce l'ha fatto notare un lettore, Giovanni Tagliabue - due terzi di secolo dal 25 aprile 1945: un lungo periodo di pace; bene che non è acquisito per sempre. Ma la Milano preoccupata di questi giorni è in realtà un giardino dell'eden rispetto a quella semidistrutta dei Natali di guerra e del dopoguerra. Eppure la città ferita dall'occupazione nazista e dalle bombe era percorsa da un'attività febbrile, da un fremito di energia, Strehler e Grassi ripulivano i muri delle camere di tortura per farne un teatro, migliaia di piccoli imprenditori e di operai si impegnavano nella ricostruzione. L'Italia della Resistenza ha vissuto momenti più difficili di quelli di oggi senza perdere la serenità e la fiducia, sentendo che proprio nell'ora più cupa si gettavano le fondamenta di un'era nuova, in cui si sarebbero aperti spazi di libertà, democrazia, crescita.

L'anno che si chiude sarà forse ricordato come l'avvio di una nuova ricostruzione. Un anno difficile, segnato da cinque manovre, che ha imposto sacrifici a chi aveva già dato molto. Ma anche un anno in cui il Paese si è ritrovato unito, oltre le contrapposizioni pregiudiziali. L'anniversario dei 150 anni è stato un successo. Ci si è resi conto che davvero - come ci hanno insegnato Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano - siamo più legati all'Italia di quanto amiamo riconoscere. Vicissitudini politiche che avremmo preferito non dover raccontare hanno portato a un assetto nuovo, in cui i principali partiti - bene o male - collaborano per uscire dall'emergenza. Ma non saranno un partito o un governo, da soli, a trarci dai guai. È dentro di noi che dobbiamo ritrovare la serenità e la fiducia di cui i nostri padri furono capaci. Proviamo a pensare alle volte in cui, all'estero, abbiamo detto che siamo italiani, e ci hanno sorriso.

Pensiamo alla grande domanda di Italia che c'è non soltanto nel resto d'Europa o in America ma anche nel mondo di domani; a quanti cinesi, indiani, brasiliani vorrebbero vestirsi come noi, comprare i nostri prodotti, adottare il nostro stile di vita. Questo mondo globale, che ci impaurisce e ci impoverisce, è anche una grande opportunità per l'Italia; perché un mondo che diventa sempre più uniforme, sempre più uguale a se stesso, guarda con ammirazione al Paese simbolo della creatività, del design, della fantasia, dell'arte, dell'estro, del gusto per il bello. Ricordiamoci chi siamo, e quanto possiamo fare. In tempo di crisi, non c'è regalo migliore. Ed è alla portata di tutti.

Aldo Cazzullo

24 dicembre 2011 | 11:44

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_dicembre_24/piu-fiducia-in-noi-stessi-aldo-cazzullo_7225c632-2dff-11e1-8940-3e9727959452.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Palermo, «capitale» senza speranza
Inserito da: Admin - Gennaio 19, 2012, 04:57:30 pm
Viaggio nel capoluogo siciliano

Palermo, «capitale» senza speranza

Ora impugna i forconi

La caccia ai politici e la cronaca di un fallimento


PALERMO — Palermo è fallita. E non per i debiti. Per la mancanza di prospettive, di speranze. Restano rabbia e dolore, cui un capopopolo scaltro e disperato ha dato un simbolo: i forconi.

Prendiamo il sindaco, Diego Cammarata, che si è dimesso lunedì scorso. Ha governato per dieci anni la quinta città italiana, la capitale di un’isola-nazione conosciuta nel mondo intero, e nessuno se n’è accorto. Sui quotidiani nazionali finì solo quando Striscia intervistò il dipendente pagato dal Comune per tenergli la barca.

Una città un Paese - Palermo, «capitale» senza speranza Una città un Paese - Palermo, «capitale» senza speranza    Una città un Paese - Palermo, «capitale» senza speranza    Una città un Paese - Palermo, «capitale» senza speranza    Una città un Paese - Palermo, «capitale» senza speranza    Una città un Paese - Palermo, «capitale» senza speranza

«Il peggior sindaco di tutti i tempi» ha sentenziato il presidente della Regione, Lombardo. Ma no, Cammarata non è stato neppure il peggiore. Semplicemente, non è stato. Fu eletto in quanto famiglio di Micciché, famiglio di Dell’Utri, famiglio di Berlusconi. «Nuddu ammiscatu cu’ nenti» lo definisce un ambulante al mercato del Capo: il Nulla. Poi ride spalancando la bocca sdentata.

La prima azienda è la Regione: 28 mila dipendenti, precari compresi. La seconda è il Comune: 19 mila. Un apparato produttivo da Nord Africa, costi burocratici da Nord Europa. La Palermo del 2012 ha angoli di bellezza struggente e altri da Terzo Mondo. Impossibile restituire con le parole l’incanto dei mosaici della Cappella Palatina appena restaurati; poi esci, entri nei vicoli, e a duecento metri dalla sede del Parlamento più antico e più pagato al mondo ti inoltri tra le macerie dei bombardamenti del ‘43, entri in una stalla con abbeveratoio, biada e tutto, cammini su selciati da asfaltare, avanzi a zigzag per evitare l’immondizia. Oggi la città è strozzata da una nuova emergenza: la jacquerie, la rivolta spontanea, senza partiti né sindacati, che ha preso il nome immaginifico di «Movimento dei forconi» e firma comunicati come questo, scritto tutto maiuscolo:

«È INIZIATA LA RIVOLUZIONE IN SICILIA! STANOTTE TUTTI I TIR AI PRESIDI! GRIDIAMO FORTE L’INDIGNAZIONE CONTRO UNA CLASSE POLITICA DI NEPOTISTI E LADRONI! ».

Sono camionisti, contadini, pescatori. Bloccano i rifornimenti alla città: vuoti e quindi chiusi i distributori di benzina, nei supermercati cominciano a mancare frutta e verdura. Ce l’hanno con tutti, da Lombardo a Sarkozy, da Cammarata alla Merkel, con Roma e con Bruxelles. I camionisti, molti con il ritratto di Padre Pio sul cruscotto, chiedono aiuti per il gasolio. I contadini vogliono più controlli sui prodotti stranieri e più sussidi per i propri: «Vendiamo il grano a 23 centesimi il chilo, paghiamo il pane a 3 euro e 50». I pescatori hanno occupato l’ingresso del porto per denunciare che le norme europee impediscono il lavoro, il pescespada è specie protetta, il novellame neanche a parlarne, «intanto i giapponesi che avrebbero due oceani a disposizione vengono qui a pescarci sotto gli occhi il tonno migliore». Il capopopolo che si è inventato il logo si chiama Martino Morsello, ha 57 anni, gira con un forcone di legno in pugno e firma mail come questa:
«IL SISTEMA ISTITUZIONALE È AL COLLASSO! I POLITICI RUBANO A DOPPIE MANI, E LO STESSO FANNO I BUROCRATI. LA RIVOLTA DEI SICILIANI È NECESSARIA E URGENTE. A MORTE QUESTA CLASSE POLITICA COME SI È FATTO CONTRO I FRANCESI CON IL VESPRO!».

Anche se su Facebook lancia proclami sanguinosi, nella realtà Morsello è un ex assessore socialista di Marsala, fondatore di un allevamento di orate finito male. Vive in camper con la moglie. Tre figli, tutti disoccupati. Esposti al prefetto e processi in corso contro le banche e la Serit, versione isolana di Equitalia. Una passione per la storia siciliana, in particolare per le rivolte che, sostiene, scoppiano quasi sempre tra gennaio e marzo: i Vespri appunto, ma anche i Fasci siciliani. «Nel 1893 qui vicino, a Caltavuturo, cinquecento contadini che avevano occupato le terre furono attaccati dai carabinieri. Tredici morti. Esplose una rivolta nazionale. E sa che giorno era? Il 20 gennaio! Oggi in Sicilia, domani in Italia!». Boato dei camionisti del presidio. I carabinieri li guardano con aria interrogativa. Sul camper c’è anche Rossella Accardo, vedova del capocantiere Antonio Maiorana, madre di Stefano, entrambi scomparsi, forse uccisi dalla mafia. L’altro figlio, Marco, è caduto dal settimo piano, non si sa come. Ecco l’ultimo proclama:
«NELLE PROSSIME ORE I MANIFESTANTI AGIRANNO CON MANIERE FORTI PER CHIEDERE AL GOVERNO REGIONALE I PROVVEDIMENTI ADEGUATI. IL 70% DEL COSTO DEL CARBURANTE È TASSA CHE ALIMENTA GLI STIPENDI DI POLITICI CORROTTI E MAFIOSI. LA RIVOLTA DIVENTERA’ NAZIONALE».

Ai blocchi sono partite le prime coltellate, un venditore ambulante di carciofi ha sfregiato un camionista. Più che i forconi, la Palermo borghese teme però gli ex carcerati della Gesip, la società che riunisce le cooperative sociali: duemila dipendenti, molti reduci dall’Ucciardone, che finora campavano di lavori socialmente utili. I soldi finiscono a marzo, loro minacciano di «mettere la città a ferro e a fuoco». L’espressione in questi giorni si spreca, ma loro hanno già mostrato di intenderla alla lettera, incendiando i cassonetti dei rifiuti che l’Amia fatica a smaltire: dopo i fasti delle consulenze d’oro e dei funzionari in vacanza a Dubai, la municipalizzata è inmano a tre commissari e sull’orlo del fallimento. L’Amat, l’azienda dei trasporti, attende 140 milioni dal Comune e da tempo non garantisce la revisione dei bus, come segnala la velenosa nuvola nera che si alza a ogni fermata come dalla coda di uno scorpione. La linea di pullman per l’aeroporto ha gasolio per una sola settimana. I tassisti non lavorano. Pure il museo di arte contemporanea, nuovo di zecca, è già a rischio chiusura.

A quanto ammontino i debiti del Comune non lo sa nessuno, neppure il sindaco dimissionario, che annuncia una ricognizione definitiva. Fino a qualche mese fa, una pezza la metteva il governo Berlusconi. A ogni Finanziaria qualche decina di milioni arrivava, magari per intercessione di Schifani che, come già i Borboni, ogni Natale distribuisce ai poveri il pane con la milza della focacceria San Francesco, marchio esportato in tutta Italia. Ora i soldi sono finiti, la manovra di agosto ha tagliato i contratti, migliaia di precari perderanno anche quei 500 euro al mese che non garantivano futuro, crescita, dignità, ma almeno sopravvivenza. E Morsello col forcone ha buon gioco a dettare alle agenzie:
«IL MOVIMENTO CHIAMA A RACCOLTA TUTTI I SICILIANI PER LIBERARE LA SICILIA DALLA SCHIAVITU’ DI QUESTA CLASSE POLITICA!».

Un’occasione ci sarebbe già a maggio: Palermo elegge il nuovo sindaco. Ma la confusione è massima. Per dire, l’emergente Gaetano Armao, assessore regionale all’Economia, è dato ora come candidato di Pd e Lombardo, ora di Pdl e Udc. In realtà, il centrodestra punta sul rettore dell’università, Roberto Lagalla. Ci proverebbe volentieri pure Ciccio Musotto, ex presidente della Provincia incarcerato per mafia e assolto, figlio di un grande personaggio della Palermo borghese, la pittrice Rosanna, discendente di garibaldini («il Generale è per me persona di famiglia, ho ancora il suo portaocchiali, quando scendeva Craxi a Palermo dovevamo nascondergli i cimeli»). Il Pd, che qui non tocca palla da quindici anni — «la sinistra siciliana è più debole che ai tempi del fascismo» ama dire Calogero Mannino —, si divide tra chi vorrebbe un candidato centrista, appoggiato da Lombardo e Terzo polo, e chi vorrebbe risolvere la questione con le primarie del prossimo 26 febbraio: Rita Borsellino contro il trentenne Davide Faraone, allievo di Matteo Renzi. Poi ci sarebbe Giuseppe Lumia, ex presidente dell’Antimafia. Ma di mafia a Palermo nessuno parla volentieri. Al più, ci si scherza. Come l’albergatrice che racconta: «I clienti stranieri mi chiedono sempre se nel quartiere c’è la mafia. All’inizio rispondevo di no, per tranquillizzarli. Loro però ci restavano malissimo, e uscivano delusi. Ora ho imparato a dire che sì, certo che c’è la mafia. Così escono con l’aria circospetta, strisciando lungo i muri, e si sentono davvero in un altrove».

Un altrove resta Palermo, di cui è giusto denunciare ogni guaio ma anche ricordare la commovente bellezza, gli stucchi del Serpotta più elaborati di quelli di Versailles, i fregi liberty del Basile degni dell’art nouveau parigina. Una terra da sempre produttrice di miti, oggi inaridita. Ci sarebbe Camilleri, che però ha quasi novant’anni e da sessanta vive a Roma; qui non tutti lo amano, se Lombardo lo voleva assessore Micciché lo definì «grandissimo nemico, prezzolato ideologico, assassino del Polo». Più che da miti, Palermo sembra abitata da fantasmi. La grande editrice Elvira Sellerio. I grandi preti: il cardinale Pappalardo, che si ritirò a contemplare la città dall’alto dell’eremo, e padre Pintacuda, che salì sulla montagna di fronte, nel Castello Utveggio, a dirigere per conto di Forza Italia il centro studi della Regione. Anime morte, come don Turturro, cugino dell’attore americano, il parroco antimafia che faceva innamorare popolane devote e giornaliste straniere: condannato per pedofilia.

Dal carcere sono usciti i killer del dodicenne Di Matteo sciolto nell’acido, ed è entrato—lontano, a Roma—Totò Cuffaro, cui non è bastato collezionare crocefissi, santi, ritratti di don Bosco e immagini della Bedda Madri (dell’Atto di affidamento della Sicilia al Cuore Immacolato di Maria stampò un milione di copie, «e le assicuro che l’Atto funziona, lo sa che abbiamo avuto due terremoti senza un solo morto?»). Dal carcere è uscito Mannino — «al terzo mese cominciai a pisciare sangue» —, dopo anni di processi per stabilire se il suo soprannome fosse Lillo, come lo chiamano i parenti, o Caliddu, come dicevano i pentiti. Leoluca Orlando, che vorrebbe candidarsi a sindaco per l’ennesima volta, colleziona invece nella sua villa liberty statuette di elefanti e ceramiche Florio («il massimo sarebbe un elefante in ceramica Florio. Lo cerco da sempre. Mai trovato»). Sotto la camicia, porta una mano di Fatima e la piastrina che lo certifica come affetto dalla sindrome di Kartagener, «siamo in quattro in tutto il mondo, stampati al contrario, il cuore a destra il fegato a sinistra». Ma in tutto il mondo non si trova una città come questa, nel bene e nel male.

Palermo (pan-ormos: tutto porto) è città madre, tonda, avvolgente, che accoglie ogni cosa come in un abbraccio, e ogni cosa racchiude: i mosaici come a Bisanzio, i suq come a Fes; il Trionfo della Morte di Palazzo Abatellis è più bello di qualsiasi danza macabra germanica; nella chiesa della Catena, gotico catalano, sembra di essere a Barcellona; San Domenico, barocco coloniale spagnolo, pare Cuzco. All’apparenza basta a se stessa, i calabresi disprezzati, i napoletani ignorati, i padani compatiti. In realtà, è figura dell’intero Paese.

Di una città come Palermo, di una Palermo risanata, l’Italia ha bisogno. Oggi si impugnano i forconi e si grida di rabbia; domani una soluzione si deve cercare. Perché non possiamo dire: se la cavi da sola. Se Palermo fallisce per sempre, è un fallimento nostro.

Aldo Cazzullo

19 gennaio 2012 | 9:43© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_gennaio_19/palermo-aldo-cazzullo_5c8e6534-4279-11e1-8207-8bde7a1445db.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. La città della «grande gelata»
Inserito da: Admin - Febbraio 07, 2012, 11:09:01 pm
Bologna

La città della «grande gelata»

L'arte di vivere è un ricordo vince la «comoda decadenza»

BOLOGNA - Dov'è finita Bologna?

Dove sono finite le grandi famiglie dell'industria? I Gentili hanno venduto i saponi Panigal ai tedeschi, i Sassoli de' Bianchi hanno venduto la Buton agli americani, i Goldoni hanno venduto agli inglesi, i Ferretti (barche) ai cinesi, i Gazzoni Frascara hanno venduto l'Idrolitina e le Dietorelle agli svizzeri; ma il caso più doloroso è quello dei Galletti, che hanno venduto la mortadella Alcisa ai modenesi. Ai Galletti resta però il ristorante Diana, tempio della borghesia cittadina, dove eredi delle varie casate, dopo aver investito in alloggi da affittare agli studenti, si ritrovano per il pranzo della domenica.
Dove sono finiti i cinema del centro di Bologna? I più grandi hanno chiuso: l'Arcobaleno di piazza Maggiore, il Metropolitan e l'Imperiale di via Indipendenza. Se non altro, al posto del cinema Ambasciatori c'è la libreria Coop, arrivata seconda al concorso dei negozi più belli al mondo (il vincitore è in Cina). Ma dell'Apollo hanno fatto un centro commerciale, dal Giardino, dal Marconi, dall'Adriano e dal Minerva hanno ricavato appartamenti, sempre da affittare a studenti; chiusi anche il Settebello, l'Olimpia, l'Embassy, il Fulgor; il Nosadella ha traslocato in periferia; il Fellini di viale XII giugno ora è una sala scommesse.

«Il capoluogo emiliano, la scuola, le mie radici» La testimonianza di Alessandro Bergonzoni (vedi video su corriere.it)

Dove sono finite le fabbriche di Bologna? Chiusi i cantieri Fochi, chiuse le officine Casaralta. Chiusa la Malaguti, in crisi da anni la Moto Morini, regge la Ducati, che però non è più la fabbrica di un tempo, dove lavoravano tante operaie da indurre William, leggendario macellaio dal collo taurino, ad aprire bottega ai cancelli; e ai colleghi, che gli chiedevano notizie, rispondeva: «Vedo passare settemila ragazze, vuoi che non ne abbia avute il dieci per cento?» (William non diceva esattamente «avute»).

«Non è più una città allegra» Lucio Dalla: la mia Bologna ieri e oggi (vedi video su corriere.it)

A proposito: dove sono finiti i macellai di Bologna? Erano più di 700 all'apice del boom economico, ora sono meno di cento. Decimata una categoria importante nella storia di una città sanguigna e gaudente: beccai erano i Carracci, sublimi pittori; beccai erano i Bentivoglio, che quando divennero notai e signori di Bologna conservarono la bottega, per ricordare a sé stessi da dove venivano. Simbolo di vigore e potere, la mercatura delle carni ha esercitato per secoli una primazia sulle altre, segnata anche dalle gesta erotiche; così, quando un macellaio confidò ai colleghi che la moglie lo tradiva con un fruttivendolo, venne espulso dalla categoria. Fu un sodale di William, Raffaellino, a motivare la sentenza: «Sono tre secoli che noi frequentiamo le mogli dei fruttivendoli, e finora non era mai accaduto il contrario!» (Raffaellino non disse esattamente «frequentiamo»). Quando nel '99 uno di loro si candidò a interrompere 54 anni di governo comunista, un barone universitario disse che un ex macellaio con la licenza media non poteva fare il sindaco di Bologna. Il giorno dopo, Giorgio Guazzaloca fu travolto dall'abbraccio di artigiani e operai comunisti, che come lui non avevano potuto studiare.
Dove sono finiti i cantautori, gli artisti, gli intellettuali bolognesi? Qui avevano preso casa Gianna Nannini e Renato Zero, Antonio Albanese e Diego Abatantuono, Umberto Eco e Michele Serra: se ne sono andati tutti. Neppure Francesco Guccini abita più in via Paolo Fabbri 43, nel quartiere piccoloborghese della Cirenaica, accanto al vecchio pensionato del numero 45, cui dedicò una delle sue canzoni più malinconiche; e quando lo seppero, i vicini del numero 41 andarono a bussare a Guccini all'alba, badando a non essere visti, e gli sussurrarono: «Noi preferiremmo non comparire...». È tornato a Bologna però Lucio Dalla, ha comprato casa sui tetti di san Petronio, dove da ragazzo gli capitava di uscire, "per sentire gli odori dei mangiari e i discorsi della gente", e talora di addormentarsi. In questi giorni di neve sta limando la canzone che porterà a Sanremo, cedendo alle insistenze di un compagno di giovinezza: «Con Gianni Morandi tutte le domeniche tifavamo Bologna allo stadio. Ma lo spareggio del '64 contro la Grande Inter si giocò a Roma, e non avevamo i soldi per andarci. Così accendemmo la radio davanti a una parete bianca, immaginando di proiettare la partita sul muro. Quando segnò Fogli, dalle finestre aperte arrivò il grido di 400 mila persone, il grido della città».

Dov'è finita la Bologna della politica? Questa era la capitale dell'altra Italia, del partitone comunista. Poi è diventata il laboratorio dell'Ulivo e del Partito Democratico, inventato da Nino Andreatta, costruito da Prodi e da Parisi. Ma il Pd, almeno come lo sognavano Andreatta e suo figlio Filippo, non è mai nato o perlomeno ha perso le radici bolognesi. Gli intellettuali del Mulino litigano, hanno fatto fuori il direttore della rivista Ignazi, ora devono scegliere un nuovo presidente al posto di Pedrazzi. Per il resto, a Fini di bolognese resta solo l'accento, Casini torna qui la domenica per portare al Diana la madre e il fratello Federico, identico a lui. Non si riesce neppure a trovare un sindaco bolognese: Cofferati era di Cremona, Delbono di Mantova. Incappato in un brutto scandalo - la fidanzata segretaria, le missioni-vacanza in coppia, il bancomat finanziato dall'amico imprenditore - si dimise dopo che le bolognesi sfilarono sotto il Comune con uno striscione definitivo: «Contro la crisi, bancomat per tutte». Adesso c'è Virginio Merola, da Santa Maria Capua Vetere, ma non è che abbia lasciato tracce; tanto meno quelle degli spartineve, che si sono visti poco e tardi. Un po' tutti dicono che la città è governata da Errani, presidente della Regione, e da Roversi Monaco, presidente della Fondazione Carisbo. E quindi c'è da preoccuparsi se Fabio Roversi Monaco, interrogato sulla sua Bologna, parla di «decadenza comoda».

Nato nel '38 ad Addis Abeba, figlio del governatore della regione di Sabbatà, per strada viene fermato da parroci che gli chiedono di restaurare anche la loro chiesa, come ha fatto con San Colombano e con il Compianto di Niccolò dell'Arca, lo splendido gruppo in terracotta con le Marie che piangono il Cristo. Spiega Roversi Monaco che i due veri punti di forza sono l'Università e la Fiera. Lui è stato rettore dell'Università per 15 anni e presidente della Fiera sino a sei mesi fa, e ammette che le cose non vanno benissimo: la città resta ricca, ma ancora non s'accorge del ridimensionamento. Di «grave decadenza» parla ogni 4 ottobre, san Petronio, e a ogni Te Deum del 31 dicembre anche l'arcivescovo Carlo Caffarra. Il suo predecessore Biffi definiva Bologna «sazia e disperata»; ora non è neppure così sazia. I mitici asili nido costano fino a 575 euro al mese, come collegi svizzeri; il metrò non si è fatto, e 49 bus «intelligenti» Civis, pagati e mai usati, languono nei depositi. Della Fiera si parla sui giornali per l'arte, che riguarda poche centinaia di mercanti e galleristi (quest'anno 50 in meno), e per il Motorshow, detestato dai bolognesi perché porta il turismo del sacco a pelo. I soldi si fanno con le fiere dei cosmetici - Bologna è la prima città d'Italia per consumo di profumi -, delle piastrelle (Cersaie) e dell'edilizia (Saie); ma la concorrenza di Milano si fa sentire. Giovedì scorso Pisapia è venuto qui sotto la neve, a promettere al collega Merola alleanza e non guerra. Ma a Milano (e a Torino) sono già finite le storiche banche bolognesi: la Carisbo a Intesa, il Credito Romagnolo a Unicredit.
L'Università con i suoi 83 mila iscritti regge, impoverita però dai tagli e dal meccanismo di cooptazione, che non produce più scuole come quella di economia: Caffè, Andreatta, Sylos Labini, Prodi, Quadrio Curzio. Soprattutto, Bologna ha divorziato dai suoi studenti. Lo si vide nei giorni dell'assassinio di Marco Biagi, quando i neolaureati non interruppero il rito delle corone d'alloro e del pranzo coi parenti. Lo si è visto lunedì scorso, quando i centri sociali hanno contestato la laurea a Napolitano.
Erano gli arrabbiati che occupano l'aula C di Scienze politiche, gli anarchici di Fuori Luogo, i duri del Crash, i dialoganti del teatro Tpo, e gli studenti di Bartleby, che vivono in una vecchia stazione della Croce Rossa ribattezzata come lo scrivano di Melville, quello che diceva «preferirei di no», dove custodiscono la collezione di riviste letterarie del poeta Roberto Roversi. Bartleby è in una via di fruttivendoli pachistani. Inutile chiedere indicazioni a loro: sono a Bologna soltanto a vendere frutta. Dalle vie dei pachistani di solito clochard e punkabbestia girano al largo, perché «quelli menano». I ragazzi di Bartleby raccontano ciò che si legge sugli annunci immobiliari: non si trova una stanza a meno di 400 euro, una camera a meno di 500, un monolocale a meno di 600; mangiare in mensa costa 7 euro, come a Montecitorio; e la città li guarda di malocchio, ricambiata. Da campus urbano i portici di via Zamboni e di piazza Verdi diventano luogo di spaccio, scippo, o anche solo insulti e sguardi aggrottati. Pure i musicisti di strada che tradizionalmente suonano sotto casa di Lucio Dalla, da quando lui reclutò un gruppo per un concerto, non assomigliano ai barboni romantici di «Piazza Grande». Piuttosto, a quelli disperati di «Com'è profondo il mare»: «Siamo i gatti neri, siamo pessimisti, siamo i cattivi pensieri/ e non abbiamo da mangiare».

Bologna non era solo la capitale dell'altra Italia, comunista. Rappresentava anche il sogno di una città laboriosa come Milano e calorosa come Napoli. Il crocevia d'Italia: l'Appennino che comincia subito fuori porta Saragozza, il Mediterraneo in fondo alla via Emilia. Il degrado dei rapporti umani si tocca con mano, come altrove, ma qui è più doloroso vedere il motociclista puntare il pedone passato col rosso, notare lo sguardo avido del bottegaio in attesa dietro l'insegna «compro oro».

Questo non significa che Bologna sia diventata una città qualsiasi. Anche nei giorni della grande gelata, i bolognesi li trovavi per strada, anche un po' più sorridenti del solito, qualcuno con gli sci di fondo, altri a tirarsi palle di neve sugli scalini di San Petronio. Un professore o ricercatore universitario ogni cento abitanti, i grandi collezionisti d'arte come gli Enriquez e i Golinelli, 250 comitati pro o contro qualcosa, una vita culturale e artistica che può tornare tra le più ricche d'Europa, e ogni tanto consegna alla scena nazionale uno Stefano Benni, un Freak Antoni, un Alessandro Bergonzoni. Ci sono famiglie e fabbriche che resistono, ad esempio nel settore del packaging: i Vacchi, i Marchesini, i Seragnoli, che impacchettano sigarette e finanziano il centro per i malati terminali. I Maccaferri esplorano le energie alternative, la Datalogic di Romano Volta ha il business dei codici a barre, un ramo dei Sassoli de' Bianchi si è inventato la Valsoia. Persino Bergonzoni, il grande affabulatore, ha una fabbrica, dove passa due pomeriggi la settimana: viti e ingranaggi, 50 operai, «dopo qualche anno difficile ora scoppiamo di lavoro». Passati gli azzardi di Consorte, Unipol e le Coop tentano di creare con Premafin il secondo gruppo assicurativo del Paese. E, dopo i restauri di conventi, affreschi, palazzi, Bologna assomiglia sempre più alla definizione che ne diede Pasolini, «la città più bella d'Italia», quella che ha conservato meglio l'impianto medievale, e un poco l'antica arte di vivere, che contempla anche la pietà e la speranza. Quando la moglie del macellaio Raffaellino si ammalò di Parkinson, anche lui si fece ricoverare con un sotterfugio al Giovanni XIII, e passò gli ultimi dieci anni a espiare le proprie colpe e tenerle le mani. E da qualche parte ci devono essere ancora oggi due ragazzi che ascoltano le partite del Bologna immaginando di proiettarle contro un muro bianco, e un giorno diventeranno Dalla e Morandi.

Aldo Cazzullo

6 febbraio 2012 | 14:04© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/cronache/12_febbraio_06/bologna-grande-gelata-cazzullo_5e203172-5096-11e1-aa9f-fca1e0292c07.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Una città, un Paese Genova, introversa e ribelle
Inserito da: Admin - Febbraio 13, 2012, 11:42:21 am
Una città, un Paese Genova, introversa e ribelle

La città che somiglia al paradiso (ma conta sempre meno)


Genova è risorta. Si è ripresa il mare, ha restaurato i palazzi. Non si è mai vissuto così bene, non è mai stata così bella. Peccato non conti quasi più nulla. Il «quasi» è obbligatorio per tre motivi. Da Genova, nel suo palazzo tra la Cattedrale e i carrugi, il cardinale Angelo Bagnasco governa la Chiesa italiana, dividendosi con Roma. A Genova, nella sua Fondazione a picco sul mare, uno dei più importanti architetti del mondo, Renzo Piano, progetta la modernità, dividendosi con Parigi e New York. E a Genova c'è il porto. Meglio, Genova è il porto del Nord Italia, lo sbocco al mare della Lombardia, l'affaccio di Milano al Mediterraneo. E il porto, con i suoi tanti volti - i container e l'acquario, i bacini di carenaggio e le crociere, i camalli e i traghetti per il Nord Africa -, resta il motore dell'economia di Genova, il suo ancoraggio al mondo, il fattore che definisce la sua identità.

Per il resto, la città non ha più il peso demografico e industriale che aveva. Da 900 a 600 mila abitanti in trent'anni; record di centenari, riuniti dal sindaco in una festa molto affollata; pochi i giovani, e metà sono stranieri. La storia ha finito per gemellare Genova con Torino. Per secoli le due città si sono avversate, un po' come oggi Roma e Milano. Torino era Roma: la corte, la politica, la burocrazia. Genova era Milano: le banche, il lavoro, i commerci. Paolo Conte ha raccontato lo spaesamento - passati gli Appennini - del piemontese, per cui «i gamberoni rossi sono un sogno»; e «che paura ci fa quel mare scuro che si muove anche di notte e non sta fermo mai». «Genova: industria pubblica e operai scontenti» diceva l'Avvocato Agnelli. Ora l'industria ha chiuso o traslocato. Anche Genova si è imborghesita. Ha ritrovato una sua dolcezza di vivere. E ha stemperato la sua durezza caratteriale e ideologica. Da sempre, questa è la città più di sinistra d'Italia. A Bologna la sinistra è sistema, potere, denaro, coop. Qui è ribellione. Si spiega anche così la clamorosa vittoria alle primarie del marchese comunista Marco Doria, e la disfatta del Pd. Genova è stata repubblicana quando l'Italia era monarchica, antifascista o almeno scettica ai tempi del Duce, comunista nell'era della Dc; i Savoia per riprenderla nel 1849 dovettero cannoneggiarla dal mare, nel luglio '60 i portuali spezzarono l'alleanza tra la Dc e la destra, durante il G8 i genovesi si schierarono apertamente con i manifestanti. A garantire la Genova borghese e cattolica provvidero nel dopoguerra Paolo Emilio Taviani, partigiano atlantico, storico ministro dell'Interno, e il cardinale Giuseppe Siri, Papa mancato, capo dell'ala destra della Chiesa italiana.

Il porto di Genova (Ceschina) Il porto di Genova (Ceschina)
Tra i carrugi con il cardinale
Da Siri fu consacrato sacerdote - nel 1966, a ventitré anni - Angelo Bagnasco, ora arcivescovo di Genova e capo dei vescovi italiani. «In privato, Siri era un uomo dolce, attento al rapporto umano. Veniva a trovarci in seminario ogni mercoledì. Quando ho detto messa per gli operai della Fincantieri, 750 posti di lavoro a rischio, i delegati della Fiom mi hanno parlato di Siri con gratitudine. Ancora si racconta di quando salvò il porto e le fabbriche, durante e dopo la guerra».

Con Bagnasco passiamo una mattinata tra i carrugi: il quartiere dov'è cresciuto, la chiesa della prima comunione, i palazzi costruiti sulle macerie dei bombardamenti tra cui giocava a guardie e ladri, la fabbrica di dolci dove il padre lavorò fino a 78 anni - «sotto Natale e Pasqua non tornava a casa neppure la notte, turni continui per fare panettoni e colombe» -, il vicolo delle prostitute: «De André nelle sue canzoni ne ha dato una visione consolatoria, rassegnata. Invece non dobbiamo rassegnarci». Anche a Bagnasco, come a Siri, capita di essere fermato per strada dai genovesi che vogliono ringraziarlo. Sono i beneficiati dal welfare finanziato dalla Curia con i 960 mila euro dell'8 per mille e costruito dalla Caritas e da 27 gruppi di volontari. Chi mantiene il cinquantenne rimasto senza lavoro. Chi accoglie il padre separato messo fuori casa. Chi insegna agli anziani a evitare gli sciacalli che comprano appartamenti a 500 euro il metro per rivenderli al decuplo. Chi diffonde la guida stampata da Sant'Egidio: «Dove dormire, dove mangiare, dove scaldarsi». Chi, come l'oncologa Maria Vittoria Mari, apre ambulatori per i figli dei poveri, e compra all'ingrosso sacchi di frutta e verdura per le madri straniere, cui non viene il latte per la cattiva alimentazione.

Spiega il cardinale di non avere nulla in contrario alla costruzione di una moschea, su cui Genova litiga da anni. Fa notare che una piccola moschea c'è già, dietro una serranda, accanto alla meravigliosa chiesa romanica di San Donato. Aggiunge che la Chiesa non è un ente assistenziale, ma aiuta gli ultimi perché il loro volto, segnato dal bisogno e dagli errori, è il volto di Dio. I parrocchiani lo guardano adoranti. Gli studenti della facoltà di architettura, dove prosegue la visita pastorale, lo fissano attoniti. Ad accoglierlo ci sono professori e burocrati. I giovani restano nelle aule. Lui passa a salutarli, qualcuno si avvicina, qualcuno ridacchia, qualcuno sbuffa. Il cardinale dice: «Fate un lavoro importante, la bellezza delle vostre opere ci conferma l'esistenza del Signore». Gli studenti non hanno l'aria di aver capito.

Nello studio dell'Architetto
Neppure Renzo Piano ha capito se è stata Genova a fare i genovesi, o i genovesi a fare Genova. La verità, dice, sta nel mezzo. La città è sottovalutata. La si dice avara, in realtà è parsimoniosa: una virtù, nell'età del consumismo. Più che diffidente, è prudente: un pregio, in un Paese credulone. Può sembrare chiusa, forse è solo riservata. Certo, per quanto il porto antico ridisegnato appunto da Piano sia ora un moltiplicatore di turismo, Genova non è il massimo dell'accoglienza. Sulle toilette di molti bar è scritto «GUASTO»; funzionano benissimo, ma prima devi consumare, poi ti daranno le chiavi. La città invecchia e la sera va a letto presto, allo storico cinema Ariston l'ultimo spettacolo è alle 21 e 15, pure in posti chic come l'enolibreria di via san Lorenzo ti portano il conto anche se non richiesto, dopo le undici le focaccerie chiudono e si mangia solo kebab. Dice però il suo architetto che Genova non è ruvida; è timida. Introversa. La ricchezza mai esibita, la bellezza spesso nascosta, nei cortili, negli arredi. Il centro storico non è tutto uffici come altrove, la gente ci vive e soprattutto convive, i ricchi al piano alto e i poveri al mezzanino, gli spacciatori in via del Campo e i professionisti nella parallela. I genovesi assomigliano alla loro città: non sono facili. Possono essere crudeli: i pisani lasciati morire di stenti e sepolti nel campo che ne porta il nome, i mendicanti imbarcati su navi affondate al largo, i telai dei concorrenti lionesi comprati per essere bruciati; da qui il grido dei veneziani, «genovesi mangiatevi il cuore se ancora l'avete!». Però possono comporre melodie più durature del tempo, come Ivano Fossati acclamato al Carlo Felice per l'ultimo concerto, come Fabrizio De André che con Piano andava in barca, come Gino Paoli con cui Piano è stato negli scout. Tutta gente di poche parole. «Mio padre, da genovese doc, non parlava quasi mai - ricorda l'architetto -. Però ogni domenica, dopo la messa, voleva andare al porto. Uno spettacolo di pietra e di acqua. Non c'erano i container. Gli oggetti volavano. Le automobili in braccio alle gru. Un capolavoro dell'effimero: tutto vola o galleggia, nulla tocca terra; ti viene voglia di costruire per sfidare la legge di gravità. Per questo c'è un po' di Genova in tutto quello che faccio».

Al porto con i camalli
Il primo giorno di lavoro alla Compagnia Unica, nel 1974, ad Antonio Benvenuti furono forniti i guanti, una tuta normale, una tuta da ghiaccio, una cappotta per i sacchi, una zappetta per i pacchi di caffè, un gancio normale, un gancio lungo per il caucciù e le carni (e gli scontri con la Celere), la tessera della Cgil e quella del Pci. Benvenuti rifiutò solo quest'ultima: dal partitone era già uscito, in quanto antiberlingueriano e leninista. Oggi è il console dei camalli (dall'arabo hamal , portatore), erede del leggendario Paride Batini. Nella sala chiamate ci sono ancora i ritratti di Lenin, Togliatti, Di Vittorio e Guido Rossa; ma i camalli oggi vengono qui solo per sfidarsi sul ring della savate, la boxe francese. Le convocazioni arrivano via sms, 364 giorni l'anno, tutti tranne il primo maggio. Domani sera fanno il karaoke. Racconta il console che qualcuno vota Berlusconi, altri Lega.

Negli Anni 70, il porto di Genova era pubblico e aveva 5 mila dipendenti, più 10 mila camalli. Quando nel '94 la gestione fu privatizzata, lo Stato si accollò debiti per centinaia di miliardi di lire. Ora i 15 terminal privati - del carbone, del sale, dell'alluminio... - hanno meno di duemila addetti, i camalli sono poco più di mille, e i conti sono in attivo. La fine del monopolio della Compagnia Unica ha invertito il declino. Raggiunta Marsiglia, superata Barcellona, Genova sta tornando il primo porto di destinazione finale del Mediterraneo (Valencia e Algeciras guidano la classifica dei porti di transito). Racconta il presidente, Luigi Merlo, che sono iniziati i lavori per raddoppiare i volumi, da 2 a 4 milioni di container: si scava il mare e si costruiscono nuovi piazzali. Già si litiga sulla nuova diga foranea, che dovrebbe sottrarre spazio al Mediterraneo e proiettare la città ancora più al largo. E a giugno partirà il fatidico terzo valico: previsti otto anni di lavori per abbreviare il viaggio delle merci verso Nord.
Attorno al porto, c'è un mondo. L'Accademia del mare, dove i diplomati del nautico studiano da capitani. Cinque bacini per riparare le navi. Il grattacielo in costruzione della Msc, i concorrenti della Costa, che ha scelto Savona e peggio per lei. Il quotidiano L'avvisatore marittimo (è arrivato un bastimento carico carico di...). Il fenomeno dell'acquario. Eataly. Il galeone del film «Pirati» di Polanski e la nave di «Love boat». Trentamila posti di lavoro nell'indotto.

Fuori dal porto, c'è una città in crisi, come il resto del Paese. Della Finsider e dell'Ansaldo restano aziende ad alta tecnologia, talora però amministrate da fuori. L'altoforno di Cornigliano, dove il brigatista Riccardo Dura sognava di gettare vivi i capisquadra, ora è spento, in attesa della riconversione a freddo gli operai sono cassintegrati. I 750 della Fincantieri di Sestri tengono in ostaggio una nave da crociera commissionata dagli americani dell'Oceania: la consegneranno quando avranno la garanzia che lo stabilimento non chiude; altrimenti minacciano di bloccare il festival di Sanremo, «i compagni Morandi e Celentano capiranno». Racconta Sergio Cofferati di aver visto, per la prima volta in vita sua, i commercianti scioperare con gli operai: se chiude la fabbrica, è finita per tutti.

L'«ex sindaco»
«Se non cambia, questa città ha dieci anni di vita» dice il sindaco in carica, Marta Vincenzi, figlia di un operaio dell'Ansaldo. Sfidata alle primarie da un'altra donna, anche lei del Pd, la senatrice Roberta Pinotti, figlia di un operaio dell'Enel. Battute entrambe dall'outsider Marco Doria. Una sorta di suicidio collettivo del Pd. La Vincenzi è molto simpatica. Porta prodigiosamente i suoi 64 anni. Però ha in parte dilapidato un patrimonio di popolarità, pasticciando un po' su tutto, dalla moschea alla Gronda, la nuova tangenziale. Opere necessarie, ma non amate. Se poi il sindaco propone ogni volta un luogo e un percorso diversi, i nemici si moltiplicano. Ha pure litigato con il boss locale e presidente della Regione, Claudio Burlando, figlio di un camallo, che non l'ha mai amata. Il resto l'ha fatto l'alluvione. Sei vittime, tutte femmine, due bambine e quattro donne: «Le porterò per sempre sulla coscienza» disse la Vincenzi. Si vota a maggio. Doria avrà forse come avversario Enrico Musso. Chiunque vinca, avrà punti fermi cui aggrapparsi. I grandi ospedali, il Gaslini per i piccoli e il San Martino per i vecchi. Marassi, lo stadio all'inglese. La Carige, che è rimasta la banca di Genova. Palazzo Ducale, dove la mostra su Van Gogh e Gauguin è prorogata a furor di visitatori. Lo Stabile, con il teatro della Corte e il Duse. E una bellezza appartata, silenziosa, da ammirare dai colli a strapiombo su cui si sale in ascensore. «Quando mi sarò deciso d'andarci, in paradiso, ci andrò con l'ascensore di Castelletto» scriveva Giorgio Caproni. Per De Andrè, invece, il paradiso era al primo piano delle case di via del Campo. Di sicuro, per i genovesi, il paradiso è da qualche parte nella loro città.

Aldo Cazzullo

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13 febbraio 2012 | 8:21© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/cronache/12_febbraio_13/cazzullo-genova_15983bfe-560c-11e1-b61e-fac7734bea4a.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Napoli, tra orgoglio e rancore
Inserito da: Admin - Febbraio 27, 2012, 11:32:26 am
UNA CITTA' UN PAESE

Napoli, tra orgoglio e rancore

Da Goethe a oggi dà identità all'Italia.

Rifiuti spariti (li mandano in Olanda).

E il welfare? Appaltato alla malavita



MILANO - Napoli si è ribellata e si è inorgoglita. Si è ribellata al Pd e al Pdl, a Bassolino e a Berlusconi, affidandosi a un magistrato fascinoso e controverso. E ha ritrovato un orgoglio che può prendere accenti rancorosi, come il risentimento verso il Nord «invasore e colonizzatore», embrione di una Lega Sud prossima ventura; ma può prendere anche direzioni costruttive. Se la colpa dei mali di Napoli è altrove, Napoli non può farci nulla. Ma a un numero crescente di napoletani la loro città, cosi com'era diventata, non va più bene. La amano molto, ma proprio per questo cominciano a cambiarla, partendo dai rifiuti, che non sono più per strada: non si potranno mandare per sempre in Olanda, ma intanto lo scandalo più nero è servito a scuotere la coscienza della città. Inorgoglita per due altri motivi: l'uomo che sta salvando l'Italia, profondamente napoletano, fin dal nome; e una squadra di calcio passata dalla serie C alla Champions, dove batte squadre di sceicchi e oligarchi.

ALLO STADIO SAN PAOLO - L'estate in cui Aurelio De Laurentiis comprò il Napoli, mancavano pure i palloni e le maglie per gli allenamenti: il capitano Francesco Montervino andò a comprarli in un negozio di articoli sportivi a Paestum. Era il 2004, e il Napoli giocava con il Sora e la Vis Pesaro. Martedì scorso, eliminato il Manchester City, toccava al Chelsea. I primi tifosi a entrare al San Paolo vi trovano trecento persone infreddolite avvolte nel sacco a pelo. Sono lì dalla notte prima. Lo stadio è presidiato per ordine del presidente, da quando si scoprì che un impiegato del Comune vi nascondeva una santabarbara. Lo spettacolo della curva B è impressionante, gli striscioni dei Napoli Club ricordano che questa non è una città ma, con Milano, l'unica megalopoli italiana, che va da Pozzuoli a Castellammare passando per Casoria, Pomigliano, Giugliano, Torre del Greco, Afragola, e spinge la sua influenza nel Lazio a Terracina, in Molise a Isernia, in Puglia a Foggia, in Basilicata a Potenza, in Calabria a Cosenza, in Abruzzo ad Avezzano: insomma, il vecchio Regno, Sicilia esclusa. Ai cancelli non si sente una parola in italiano, parlano tutti dialetto. Per il resto pare di essere a Wembley: erba verde, pioggia sottile, atmosfera solenne; chi si alza in piedi sui sedili viene ripreso dagli steward, « prego assettatevi », e proprio non si vedono i boss che entrerebbero mostrando non il biglietto ma la pistola. In realtà la pressione della violenza, forse anche della camorra sul calcio esiste, l'ha testimoniato l'inchiesta del pm Melillo che ha incriminato gli undici picchiatori dei «Bronx», drappello avanzato di una tifoseria in guerra con gli ultras del Nord: odiatissimi i veronesi, detestati i milanesi e ora anche i romani, amici solo genoani e catanesi.Allo stadio si vede male, la pista d'atletica allontana il campo e infatti si parla di spostarlo, per il sollievo degli abitanti di Fuorigrotta e per la preoccupazione dei tifosi della tribuna: «Se lo fanno a Ponticelli, a inizio partita nel parcheggio ci stanno ventimila macchine, alla fine ne restano diecimila». La tribuna autorità non è meno colorata della curva B. Avvocati e primari elegantissimi con vestiti di sartoria - «domani la porto dal mio sarto, ai Quartieri Spagnoli: una giacca 150 euro» - e il foulard nel taschino, ed energumeni con berrettino biancazzurro e sciarpa «Napoli-Chelsea io c'ero». Accolte da invocazioni le stelle locali: Gigi D'Alessio - « Giggi aviv'a vincere tu Sanremo! » -, Biagio Izzo l'attore che fa il napoletano nei cinepanettoni, il sindaco de Magistris che scatta foto coi tifosi; ma il più acclamato è Lapo Elkann, la cui popolarità a Napoli è impressionante. Al fischio d'inizio, per ultimo come le spose, arriva direttamente dagli spogliatoi De Laurentiis, «'o presidente», napoletano di ritorno, nato a Roma ma sudista d'elezione.La partita riesce spettacolare, nell'intervallo si ascolta «Tu vuo' fa' l'americano» in versione rock, alla fine curve e tribuna cantano insieme 'O surdato 'nnammurato - Oje vita, oje vita mia... -, l'allenatore sconfitto Villas Boas dichiara: «Avevamo contro lo spirito di una città, e contro una città non si può vincere». All'uscita tutti si protendono a toccare De Laurentiis ed Elkann: « Lapo vuje purtat bbuono, Lapo vuje avit'a turna' per i quarti 'e finale! ».

NOTTE SULLA VOLANTE -Puoi spegnere la sirena, i lampeggianti, anche i fari. Ma appena l'auto della polizia si affaccia, si sentono le grida: «Mariaaa! Mariaaa!». Non sono richiami d'amore. È la vedetta che avverte gli spacciatori. L'assistente Giuseppe Esposito, alla guida della volante Alfa05, e il commissario capo Lorenzo Gentile indicano il muro di lamiera tra le case, dietro cui la vedetta è appostata. In un attimo non c'è più nessuno. Tranne sei ragazzi. Sanno che la polizia non può far loro nulla. E sono talmente persi nel loro viaggio verso il nulla che non si muovono neppure. Uno si guarda il collo nello specchietto di un furgone, alla ricerca della vena giusta. A guardare la situazione economica e quella criminale, non è che i motivi di orgoglio siano tanti. Racconta il questore Luigi Merolla che, quand'era ragazzo, nella sua Bagnoli la criminalità non esisteva: lavoravano tutti all'Italsider. Ora della fabbrica sono rimaste mura sinistre e una spiaggia di detriti; e ci si deve arrangiare. Con un impiego pubblico: Napoli - tra Comune, Provincia, Regione - ha più dipendenti dell'Unione Europea. Con una bottega artigiana: l'antica economia dei bassi si è riprodotta a Secondigliano, ovunque laboratori che fanno abiti da sposa, cioccolato, borse, scarpe, ovunque insegne sgargianti di centri massaggi, «compro oro», negozi di uccelli esotici e centri per l'abbronzatura che si chiamano «Tropicana» e «Inferno giallo». Non mancano certo le storie di imprenditori di successo, anche se molti se ne vanno altrove: Luciano Cimmino della Yamamay a Gallarate, l'armatore Gianluigi Aponte della Msc in Svizzera. Ma, dopo la burocrazia, la prima fonte di manodopera e di welfare è la malavita. Spiega l'ex procuratore capo Giandomenico Lepore - incontrato nelle scuderie di Palazzo Sansevero mentre compra un Pulcinella dell'artista Lello Esposito - che i capi storici della camorra sono tutti morti o in galera, anche se qualcuno continua a comandare da Poggioreale. Contro il racket e l'usura si è fatto molto. «Il vero carburante delle mafie è la droga». La situazione, aggiunge il questore, in teoria è pessima; in realtà quel che c'era da perdere è già stato perso, quel che c'era da rubare, rubato. Scippi e rapine in periferia sono rari; i delinquenti colpiscono al Vomero o in centro: metà Napoli rapina l'altra metà. Merolla guida una macchina da 4.300 poliziotti. La questura di Napoli è da sempre una punta d'eccellenza, questori di Napoli sono stati l'attuale capo della polizia Manganelli e un personaggio leggendario come Arnaldo La Barbera. Anche Merolla è un personaggio: molto amato dai suoi uomini, melomane - habitué del San Carlo, il teatro con la migliore acustica al mondo -, gastronomo - il maître di Ciro a Santa Brigida gli propone a colpo sicuro il sartù appena sfornato -, spiega che i dati della criminalità sono in miglioramento. Il 1982, l'anno dei 200 omicidi, è lontano. Ancora nel 2006 ci furono 14 mila rapine. Ora sono 8 mila. Le altre si fanno altrove: «Napoli è una Tortuga che esporta rapinatori». La microcriminalità è più diffusa che a Palermo: la mafia stabilizza, la camorra destabilizza. Moltissimi i reati non denunciati, in particolare furti d'auto, che il derubato spera di riavere pagando al ladro il 10% del valore. Non è una notte di sparatorie, sono anni che i camorristi non sparano ai poliziotti, «sanno che sarebbero spazzati via» dicono loro con orgoglio. È una notte in cui però si sente il respiro e il dolore di una grande città. È morta una bambina cingalese di 4 mesi, bisogna verificare che non sia stata uccisa dai genitori, ma il loro strazio dice tutto, non ci sono segni di strangolamento, è stato un rigurgito. A una ragazza hanno strappato l iPhone di mano, in corso Umberto. In piazza Mercato tre marocchini sono sorpresi mentre caricano su un furgone nove ruote rubate, vengono interrogati e portati via. Si va sui luoghi dello spaccio. In via Tertulliano a Soccavo, dove si allenava il Napoli di Maradona. Poi alle Vele, ormai semideserte, abitate abusivamente dalle ultime famiglie. Le loro gemelle di Nizza sono condomini di lusso; queste saranno abbattute, due sono già sparite, ne resterà soltanto una, in memoria di un esperimento fallito. L'assistente Esposito è in servizio da 14 anni, Gentile è appena arrivato da Roma per amore ed è contento, dice che i napoletani sono più gentili, la moglie incinta non riesce a fare un passo senza che i vicini la riempiano di premure. I commissari sono tutti laureati, parlano come giuristi, dicono «porre in essere» e «fattispecie di reato». «La gente sostiene che non facciamo nulla contro lo spaccio, ma non è vero. Meglio di noi possono lavorare quelli della Mobile, che non portano la divisa. Ma per filmare gli spacciatori ci vuole tempo. Poi devi rivolgerti al pm, che deve avere l'autorizzazione del gip. Capita di aspettare un anno per un mandato d'arresto». Dal carcere lo spacciatore uscirà molto prima. Ci avviciniamo al ragazzo che si droga davanti allo specchietto del furgone. Avrà trent'anni, ma ha un volto da vecchina. Indossa i pantaloni della tuta e un giubbotto con il cappuccio, attorno alla gamba destra ha un ferro che sostiene una frattura mai guarita. È buio, tira vento, la prima sensazione è di paura e impotenza, poi in un attimo pensi che potrebbe essere tuo figlio o tuo fratello e ti prende una pena infinita, vorresti abbracciarlo e portarlo via; ma lui ha uno scatto, in mano ha una siringa piena di sangue, i poliziotti devono aver avuto l'ordine di evitare rischi inutili, ci portano a prendere un caffè in uno dei bar di Scampia aperti la notte; ma anche il commissario capo Gentile e l'assistente Esposito hanno cambiato umore, non sono ancora diventati cinici, si sentono impotenti, non rassegnati.

NEGLI OSPEDALI E TRA I VICOLI - Lo scandalo dei malati in barella a Napoli non ha indignato più di tanto. Al Cardarelli il «reparto barelle» esiste da tempo e resterà almeno per tre mesi. Secondo piano del padiglione C, ex reparto di oncologia. Decine di barelle, sia pure su ruote e con un materasso più spesso di quelle delle ambulanze. Altre sono nei corridoi dell'Osservazione breve intensiva e del Dea, Dipartimento emergenza accettazione. Scene consuete in molti ospedali italiani. Colpisce però l'incredibile numero di parenti, distesi sui materassini, accampati con biscotti e bottiglioni di aranciata: le guardie provano a mandare via qualcuno, ma dopo un po' tornano, accolti con sollievo dai ricoverati. A Napoli nessuno o quasi muore da solo. Chi dispone di un comodino ha portato i libri da casa. Grisham e Faletti, naturalmente. Ma anche testi di storia e filosofia. Si riflette, ci si prepara a tornare alla vita o ad affrontare l'ignoto. Vista anche una copia di Borges: «Altre inquisizioni». Pure nei Quartieri Spagnoli c'è un ospedale, la Confraternita dei Pellegrini. «Ti mando ai Pellegrini», detto nei vicoli, è una minaccia grave. «Ti faccio scolare» è una minaccia di morte, i cadaveri attendevano a lungo prima di essere inumati nella terra santa di Gerusalemme. La compenetrazione tra vita e morte è continua, mai viste tante mummie e tanti teschi come nelle chiese di Napoli. Quando c'erano i confratelli, fino a trent'anni fa, i posti letto erano 400. Ora comanda la Regione e sono 99, più qualche decina di barelle: cinque nel corridoio di cardiologia, tre in quello di chirurgia generale; è l'ora di pranzo, i malati mangiano dentro scatole di alluminio, distesi sul fianco come su un triclinio. Qualche metro più in giù, Spaccanapoli, con la casa di Benedetto Croce. Quando il filosofo morì, il 20 novembre 1952, Orio Vergani annotò in un memorabile articolo che le prime firme sul registro erano quelle incerte degli abitanti dei bassi. Quando fu sepolto Mario Merola, il 14 novembre 2006, Giuseppe D'Avanzo denunciò l'omaggio reso da Bassolino e Russo Iervolino alla «napoletaneria»: «La Napoli plebea e ormai culturalmente egemone si è come aggrappata alle spoglie di Merola per trovare ragione di se stessa, e la volontà di ripetere ancora in faccia a tutto il mondo e a tutti i napoletani spaventati: questa è Napoli e Napoli siamo noi». Oggi la città vive una fase paragonabile al '93, quando era crollato il sistema Dc dei Cirino Pomicino - tutt'ora presidente della Tangenziale - e le illusioni del bassolinismo erano intere. Anche adesso c'è un nuovo sindaco, ma i denari pubblici sono finiti, anzi il Comune fatica a trovare i soldi per gli stipendi, anche se spende per ospitare l'America's Cup. Però c'è un fervore di giovani, di volontari, di associazioni dai nomi immaginifici - Friarielli Ribelli, Fuorigrotta Moving, La Paranza - che riaprono il tunnel borbonico, gestiscono le catacombe, piantano fiori e piante. Ci sono soprattutto sempre più napoletani che non si rassegnano alla crisi, alla camorra, al degrado. Ci sono persino più motociclisti con il casco. I cantieri della metro sembrano eterni, ma ogni tanto partoriscono una stazione capolavoro dell'arte contemporanea, ieri piazza Dante, oggi piazza Borsa.

Croce amava citare un'antica definizione di Napoli: «Un paradiso abitato da diavoli». Di questa città oggi si potrebbe ripetere quel che disse Umberto Eco di Torino: «Senza l'Italia Napoli sarebbe più o meno la stessa; ma senza Napoli l'Italia non ci sarebbe». Se Torino ha fatto l'Italia a San Martino e a Mirafiori, con il Risorgimento e con l'industria, Napoli all'Italia ha dato un'identità. All'estero pensano il nostro Paese come un'immensa Napoli, il sole il mare la pizza gli spaghetti. Noi possiamo pensare a Totò, a Eduardo, a Di Giacomo, a Mimmo Paladino. Il principe di San Severo, quello del Cristo velato e degli esperimenti alchemici, ha lasciato scritto che «non è data all'umana debolezza l'esistenza di grandi virtù senza grandi vizi». A Napoli le virtù e i vizi d'Italia sono elevati a potenza. Come aveva intuito Goethe, «dov'è più forte la luce, l'ombra è più nera».

Aldo Cazzullo
http://blog.aldocazzullo.it

27 febbraio 2012 | 9:11© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/cronache/12_febbraio_27/cazzullo-napoli_158b6b38-6113-11e1-8325-a685c67602ce.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. I mille volti di Verona : dalla destra alla Lega
Inserito da: Admin - Marzo 19, 2012, 04:32:10 pm
Viaggio nel centro scaligero

I mille volti di Verona : dalla destra alla Lega

La città veneta resta comunque una delle più amate all'estero


Verona è considerata la città più di destra d'Italia: lo scenario dei delitti di Ludwig. La città più nichilista: la culla di Pietro Maso, che uccide i genitori per l'eredità e poi va in discoteca. La città più razzista: i tifosi dell'Hellas multati di continuo per i cori su neri e meridionali (cui i napoletani risposero con uno striscione contro l'incolpevole Giulietta). Ora è considerata la città più leghista, grazie al sindaco Tosi, quello che arrivò al consiglio comunale con una tigre al guinzaglio, e disse che non avrebbe mai messo il ritratto di Napolitano in ufficio.

In realtà, Verona non è nulla di tutto questo. È semplicemente una città un po' complessata. Certo, l'estrema destra esiste, ma non è più rumorosa che altrove. Certo, Tosi con ogni probabilità sarà rieletto sindaco, ma non in quanto leghista, anzi per il motivo opposto: è diventato il sindaco di gran parte dei veronesi, non a caso ha sfiorato la rottura con Bossi. Il complesso di Verona è non essere considerata per quel che vale, non contare per quel che pesa.

A molti veronesi non importa più di tanto. «Non c'è mondo per me al di là delle mura di Verona, c'è solo purgatorio, tortura, l'inferno stesso»: non è solo un verso di Shakespeare, scritto sui portoni di piazza Bra e tatuato sui corpi di molti tifosi dell'Hellas; è una mentalità diffusa. Però alla città un po' pesa essere rappresentata in modo così negativo nel resto del Paese. Tanto più che all'estero Verona è una delle città più famose d'Italia, all'altezza di Roma, Venezia, Firenze; infatti è la quarta per numero di turisti, tre milioni l'anno. Ricca anche in tempi di crisi, da sempre porta d'Italia per il mondo tedesco, Verona si sente sottorappresentata, avverte di non avere quel peso politico e culturale che la sua forza le consentirebbe. Questo vale un po' per tutto il Nord-Est, ma a maggior ragione per Verona, che del Nord-Est è la città più popolosa (264 mila abitanti il Comune, quasi un milione la Provincia). Gente che si sente a volte presa in giro dal potere romano. Se c'è un veneto in un film, per dire, è un mona, una macchietta. E al governo non c'è un veronese da vent'anni, dai tempi di Gianni Fontana ministro dell'Agricoltura e delle Foreste. Ci sarebbe anche Aldo Brancher, nominato ministro nell'estate 2010; ma dopo tre giorni il Quirinale lo rimandò indietro.

Nella tana degli ultrà
«A Pescara ci hanno gettato addosso topi e pesci morti!». «A Napoli ci hanno tirato conigli vivi, e poi molotov e bombe carta!». «A Salerno ci hanno pisciato addosso!». E in che modo, scusate? «Ingegnoso: bottiglie aperte e fatte scivolare sopra la rete che copriva il nostro settore. A Foggia invece hanno unto di grasso la ringhiera su cui dovevamo appoggiarci. Sempre a Pescara l'hanno cosparsa di colla: si sono impiastricciati anche i bambini. L'avessimo fatto noi a Verona, titoli in prima pagina. L'hanno fatto al Sud, e neanche una riga».
Incontrare alcuni tra i capi della tifoseria dell'Hellas è complicato. Detestano i giornalisti, dicono che li denigrano da sempre, che ingigantiscono i torti fatti e nascondono quelli subìti dagli ultrà. Anzi, loro rifiutano di farsi chiamare così: sono i «Butei», i Ragazzi. Ci ricevono nello scantinato di un'osteria fuori porta, trasformato in museo del tifo, con cimeli e maglie dal 1903 in poi: Zigoni, Dirceu, Elkjaer con lo scudetto dell'85, l'unico anno in cui ci fu il sorteggio integrale degli arbitri, prontamente abolito. Il leader storico è Alberto Lomastro, un muro di tatuaggi, capelli lunghi ormai brizzolati: se il sindaco Tosi continua ad andare in curva, lui adesso va in tribuna. Fu anche arrestato e poi scagionato, quando allo stadio impiccarono un manichino raffigurante un nero, tipo Alabama dopo la guerra civile. «Non siamo dei santi. Ci mettono in croce per qualche ululato, che si sente in tutte le curve. Ma i cattivi siamo sempre e soltanto noi». L'ululato è razzismo. «Non siamo razzisti, ma goliardi. Quando i napoletani vennero qui con lo striscione "Giulietta è 'na zoccola", non ci siamo offesi: le battute si danno e si prendono. Noi a Napoli non potevamo neppure andare». Fino a quando, nell'88, si misero in viaggio verso Sud in settanta, su un pullman e due furgoni. «Quella volta ci accolsero bene, riconobbero il nostro coraggio». È durata poco. «A Napoli vendono le sciarpe con la scritta "Io odio Verona". E nessuno fiata. Lo facessimo noi...».
Tosi minimizza: «L'Hellas ha più di diecimila abbonati. Se qualcuno si comporta male, non è giusto criminalizzare tutti. Del Chievo non importa a nessuno, almeno non a me. Chievo è un quartiere. L'Hellas è la città». Resta il fatto che la società quest'anno ha già pagato multe per oltre 146 mila euro. In settimana ne è arrivata un'altra da 40 mila, per i cori contro Oduamadi e Ogbonna, calciatori del Torino peraltro battuto 4 a 1. Già tre volte l'Hellas ha dovuto giocare a porte chiuse, a causa dei cori razzisti contro Coly del Perugia, Asamoah del Modena, Koné della Pro Sesto. «Ma a noi ci multano appena respiriamo! - lamenta Lomastro -. Siamo stati puniti pure per gli insulti contro Remondina, il nostro allenatore, caso unico nella storia del calcio. Poi al suo posto è arrivato Mandorlini. Una volta, per svelenire l'atmosfera, ha cantato "Ti amo terrone", una canzone degli Skiantos. Hanno multato pure lui. Ma con quella canzone gli Skiantos hanno vinto il premio Tenco, una cosa di sinistra!». Alla parola «sinistra» pare che l'antro dei Butei debba crollare da un momento all'altro. «Ma no. Tra noi c'è di tutto, da Forza Nuova a Rifondazione. Le Brigate gialloblù nei primi Anni 70 erano di sinistra. Abbiamo fatto alleanze con curve "rosse" come quella della Samp. Siamo persino amici con i tifosi del Lecce...».

Dal sindaco Tosi
Non soltanto nell'ufficio è bene esposto il ritratto di Napolitano, tra il tricolore e il berrettino dell'Hellas. Flavio Tosi ha pure invitato il presidente a celebrare i 150 anni, nel giugno 2011, e l'avrebbe voluto di nuovo sabato scorso, per il 17 marzo. Mostra la lettera con la risposta: «Caro sindaco, la ringrazio, ma ho già un impegno al Quirinale». Cos'è successo, Tosi? Ha cambiato idea? «Sono cambiato io. Fare il sindaco ti fa maturare. Capita a tutti, in gioventù, di dire sciocchezze. La storia del ritratto era una sciocchezza».
In questi anni Tosi ha compiuto due operazioni politiche. Ha traghettato la destra nell'orbita della Lega: non a caso ora il Pdl si divide, una parte con lui, l'altra con l'ex presidente della Fiera Luigi Castelletti (preceduto nei sondaggi anche dall'uomo della sinistra, l'ambientalista Michele Bertucco). E ha trasformato la Lega stessa: sempre meno partito ideologico legato al mito della secessione, al carisma di Bossi e al baricentro varesotto, sempre più sindacato del territorio, capace di incarnare le varie anime del Veneto. Per questo la polemica sulla lista civica trascende i destini di Tosi e della Lega; riguarda la città. Tosi non è un progressista illuminato, è un familista che ha fatto nominare la sorella Barbara capogruppo in consiglio comunale e promuovere la moglie in Regione (lei l'ha ripagato dicendo che voterà Pdl, lui assicura che la fronda familiare è rientrata). Non rinuncia alle bizzarrie, come il tuffo di Capodanno nel lago di Garda, tipo Mao nello Yangtze. Però è uno che vive in mezzo alla gente, lo incontri in pizzeria sino a tardi come il Bossi degli anni ruggenti, e per gli interessi dei veronesi rompe le scatole a tutti, comprese le multinazionali come Ikea: volete aprire uno stabilimento in periferia? Bene, però dovete assumere i licenziati della Compometal. All'Arena ha mandato come sovrintendente un perito agrario, che però ha risanato i conti. E quando un ragazzo, Nicola Tommasoli, fu massacrato da cinque estremisti neri per una sigaretta, Tosi espresse l'indignazione dell'intera comunità. Verona ha trovato un politico che non sarà estraneo ai complessi della città, ma proprio per questo la rappresenta. Per Tosi rinunciare alla propria lista avrebbe significato mettere la Lega davanti alla città; e la città non gliel'avrebbe perdonato.

Bossi aveva minacciato più volte di metterlo fuori per questo. Non erano parole al vento. Bossi ha sempre governato il partito così, per espulsioni. A maggior ragione in Veneto, terra per lui straniera. I capi della Liga sono sempre stati cacciati, da Rocchetta a Comencini. Il sindaco per ora l'ha scampata. Alla fine l'accordo è stato trovato, con un escamotage: non una, ma tante liste Tosi. Quella dei pensionati, dei cattolici, dei fuoriusciti pdl, magari pure dei Butei. Per ora Bossi ha deciso di non rompere con Maroni, che Tosi definisce «meraviglioso». Ma, se a giugno Tosi vincerà il congresso veneto contro il segretario Giampaolo Gobbo e i veronesi del cerchio magico, Federico Bricolo e Francesca Martini, il Senatur potrebbe ancora scegliere la guerra, per lasciare in eredità almeno un pezzo di Lega al figlio Renzo. In tal caso, può succedere di tutto, altro che la tigre in Comune. Che poi sarà stata un cucciolo narcotizzato. «Manco per sogno! D'accordo, fu un'altra sciocchezza. Era per fare pubblicità al circo padano. Una bella bestia, però, di nove mesi. Quando ho fatto per accarezzarla a momenti mi stacca il braccio!».

Dal «Cuccia di Verona»
Sul portone c'è il cartello turistico: «Casa di Romeo». Tutti sanno che Giulietta e Romeo non sono mai esistiti, eppure a milioni vanno a visitare la casa, la tomba e il balcone di Giulietta, che è in realtà un falso dichiarato, un sarcofago medievale attaccato al muro. Spiega il grande Paolo Poli, in questi giorni in scena al teatro Nuovo, che al mito di Giulietta e Romeo tutti sentono il bisogno di credere, non solo i venditori di grembiuli e altre carabattole per turisti appostati nei punti strategici. Nel cortile della casa di Giulietta non c'è più spazio per un solo cuoricino, una sola scritta. Quando il portone geme sotto il peso dei lucchetti, vengono tagliati e riposti in apposite ceste, presto sostituiti da altri segni di amori più recenti.

Nella «casa di Romeo» abita invece l'uomo più potente della città. Paolo Biasi, presidente della Fondazione Cariverona, tra i primi azionisti di Unicredit, dispensatore di fondi per chiese, mostre, associazioni. Detto il Cuccia di Verona per la sua riservatezza: mai un'intervista; né lo è quella di oggi. Semmai, una conversazione informale. Dice Biasi che lui non avverte alcun complesso, e non cambierebbe Verona con nessun posto al mondo. La città del resto ha un'antica tradizione autarchica e castrense. Ai tempi dei Cesari aveva seimila abitanti e un'Arena da 40 mila posti, costruita per gli eserciti di passaggio: «Verona era l'autogrill degli antichi romani» sorride Paolo Poli. Gli austriaci ne fecero fortezza e caserma. Da sempre Verona basta a se stessa. Ora però le cose sono cambiate. Non c'è più la banca-bottega, ma una banca che travalica le mura, mette radici a Milano, si espande all'estero e quindi può essere più utile all'impresa locale. Biasi ha buone parole anche per i rivali del Banco popolare e per gli industriali. Certo, l'aeroporto perde milioni l'anno a causa dell'alleanza sbagliata con Montichiari, ma ora si cerca un nuovo partner. La crisi picchia duro sulla manifattura, ma risparmia l'agroalimentare. L'export è inferiore a quello delle altre province venete (pesa il fatto che le auto Volkswagen importate in Italia passano da qui), ma è più legato alla terra, alle vigne, agli allevamenti. Se l'industria della carta è ridimensionata, la Index è leader europeo delle membrane impermeabilizzanti; se i francesi della Hoover licenziano, i turchi del gruppo Ziylan vorrebbero comprare la Lumberjack. Calzedonia e Intimissimi sono di qui. Le seconde generazioni non si riposano ma diversificano: Andrea Bolla con la Vivigas, Andrea Riello con le macchine utensili; Michele Bauli compra una fabbrica di brioches in India, Gianluca Rana produce sughi a Chicago. I Rana rappresentano il capovolgimento di un'abitudine italiana: il padre, Giovanni, ormai attore degli spot di famiglia, si diverte; Gianluca, il figlio, lavora.

Questo non significa che Verona sia così soddisfatta. E non solo perché un veronese su 20 è disoccupato e uno su 10 è povero. Ora che si affaccia sul mondo, la città fatica a definirsi, a capire chi è. I vicentini la considerano poco veneta, i mantovani non la sentono lombarda. L'antica dominatrice Venezia è poco amata, Milano è distante. Verona non si è mai governata da sola, e porta memorie di eserciti soverchiatori, in particolare con le donne: Carlotta Aschieri uccisa a 25 anni, incinta, dalle baionette degli austriaci in ritirata; Isolina Canuti, costretta da un ufficiale sabaudo ad abortire sul tavolaccio di un'osteria, decapitata per farla tacere, gettata nell'Adige, che qui non è un fiume placido come i tanti che attraversano le città italiane, è impetuoso e gelido come un torrente. È stato uno scrittore veronese, Stefano Lorenzetto, a raccontare lo spaesamento e la frustrazione nel pamphlet Cuor di veneto. Anatomia di un popolo che fu nazione . Chi collega Arnoldo Mondadori, Walter Chiari, Emilio Salgari, Cesare Lombroso a Verona? Eppure sono nati qui, per poi andarsene. L'erede di Lombroso oggi è Vittorino Andreoli, che qui considerano il «medico dei mati», mentre l'artista del fumetto Milo Manara è visto come un tipo curioso che disegna strane storie. Più che con la testa, questa è una città che si capisce col cuore: da qui sono partiti san Giovanni Calabria e San Daniele Comboni fondatore dei comboniani; la rete di associazioni benefiche è tra le più fitte d'Italia, ogni sera la Ronda della Carità distribuisce pasti caldi, il gruppo del Samaritano ha 250 letti per i clochard; l'oste del Calmiere, l'osteria del bollito e delle tagliatelle coi fegatini davanti a San Zeno, ha fondato un'associazione per combattere le malattie infantili del sangue, financo i Butei dell'Hellas finanziano la ricerca sulla sindrome di Louis-Bar, male crudele che uccide nella seconda decade di vita.

La città dei teatri si riempie d'estate, per il festival shakespeariano. Lo Stabile diretto da Paolo Valerio organizza versioni itineranti di Romeo e Giulietta nelle piazze, ora ha prodotto un «Sogno di una notte di mezza estate» con gli attori di Zelig, regia di Gioele Dix. Dice Paolo Poli che questa forse è l'ultima volta che recita a Verona; ma dev'essere una sua forma di scaramanzia. E in ogni caso aggiunge di essere sicuro, dopo sessant'anni di palcoscenico, che da qualche parte a Verona - forse non distante dall'ansa dell'Adige, dal Ponte Pietra, dai cipressi del teatro romano - Giulietta e Romeo esistono davvero, hanno superato gli odi e le rivalità, i pregiudizi e i complessi; e sono finalmente liberi di amarsi, senza che nessuno li veda.

Aldo Cazzullo

19 marzo 2012 | 8:52© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/cronache/12_marzo_19/verona-citta-amata-all-estero-ha-da-sempre-il-complesso-di-non-contare-abbastanza-aldo-cazzullo_4e8e80aa-718f-11e1-b597-5e4ce0cb380b.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. L'Aquila, una città sospesa tra dramma e speranza
Inserito da: Admin - Aprile 02, 2012, 05:02:56 pm
Viaggio nel capoluogo abruzzese

L'Aquila, una città sospesa tra dramma e speranza

Il ruolo (chiave) di giovani e artisti


Il 6 aprile 2009 il sole sorse alle 6 e 45. Nelle tre ore e un quarto di buio assoluto che seguirono il terremoto - i superstiti intravidero solo una colonna di fumo rossastro salire dalla città vecchia -, ognuno si comportò alla sua maniera. Chi si mise freneticamente a scavare. Chi rimase come imbambolato, incapace di reazioni. Chi radunò i figli e partì subito per il mare. Chi non voleva saperne di muoversi da casa. Chi ancora oggi non è tornato (almeno un migliaio), tra cui qualcuno che non risponde neppure più al telefono se vede sul display 0862, il prefisso dell'Aquila. Chi vorrebbe che la sua casa fosse ricostruita dov'era e com'era, anche sulla faglia di Paganica, che i geologi - uno di loro l'ha riconosciuto la scorsa settimana al processo - neppure sapevano esistesse. Quelli (314) che sono ancora in albergo. Quelli che hanno preso il contributo per l'affitto e vivono nella cantina del fratello. Chi ha appeso le chiavi del vecchio appartamento alla transenna sul corso, come i palestinesi all'ingresso dei campi profughi (una scena che ha impressionato David Grossman, lo scrittore israeliano). E chi si è costruito la casa con materiale fai-da-te.

Qualcuno si è lasciato morire. Tra gli anziani l'aumento dei decessi è un dato statistico, fa notare Pierluigi Biondi, sindaco di Villa Sant'Angelo, il secondo comune più colpito. Qualcuno ha cercato una soluzione al di fuori di sé. Tra i giovani, racconta Biondi, è cresciuto il consumo di droghe, alcol, psicofarmaci. Altri hanno semplicemente ricominciato a fumare. Chi ha paura a entrare in un luogo chiuso, chi non prende più l'ascensore. Sono cresciuti anche gli incidenti stradali: prima metà degli aquilani giravano solo a piedi, in un centro storico tra i più vasti d'Italia; ora girano solo in macchina.

Immaginate una città rimasta senza Cattedrale e senza Comune, senza liceo, università, biblioteca, Poste, teatro, senza ristoranti, bar, caffè, pub, pizzerie. E immaginate che tutto questo sia stato duplicato, in forme ovviamente meno belle e più scomode, sul «frontestrada» come si usa dire, in un dedalo di rotonde che da queste parti non si erano ancora viste.
Sono state duplicate anche le case. In 19 mila vivono nelle «new town»: confortevoli, neanche brutte, ma circondate dal nulla, senza una panetteria, una farmacia, una scuola (tranne l'asilo costruito dalla Fiat). Bazzano, Sant'Elia 1, Paganica 1, Paganica 2, Paganica 3: le hanno chiamate come le frazioni, eredi degli antichi castelli che fondarono la città, 99 secondo una tradizione forse inventata (99 è il numero magico dell'Aquila: 99 castelli che in città crearono 99 chiese, 99 piazze, 99 fontane...). L'unico punto di aggregazione è una tenda, con il calciobalilla, il televisore, il distributore di bibite a fare da bar, un tavolo da riunioni che la domenica diventa altare per la messa. Le vie si chiamano Fabrizio de André, Vittorio Gassman, Lucio Battisti.

Sostiene il sindaco Massimo Cialente che il momento peggiore fu all'inizio del 2010. Passata quella notte terribile, gli aquilani seppellirono i loro 309 morti, e non ebbero tempo di rendersi conto d'altro. Vennero qui un po' tutti. Berlusconi, più volte. I cantanti. La Nazionale di calcio. I leader del G8, ognuno con una promessa: la Merkel si impegnò a ricostruire Onna, Sarkozy la chiesa delle Anime Sante, Putin il palazzo Ardinghelli, Obama a sostenere borse di studio per i ragazzi dell'università. I volontari della Protezione civile cucinavano tre volte al giorno, «passavamo il tempo a mangiare» dice Cialente, che è medico e assicura che pure colesterolo e trigliceridi in media sono aumentati. Per costruire le new-town si lavorò giorno e notte, su tre turni. Poi, il 29 gennaio, la Protezione civile si congedò con una festa. «Alla fine del party hanno spento le luci e se ne sono andati - racconta il sindaco -. Il resto del Paese ha creduto che fosse tutto a posto. E noi ci siamo ritrovati soli. Con una città da ricostruire». E i leader del G8? «La Merkel ha fatto quel che aveva promesso. I canadesi e i giapponesi pure. Sarkozy, Putin, Obama? Qui non si è visto nulla. In compenso è arrivato un milione e mezzo dal Kazakhstan».

Ma la colpa non è solo degli altri. Il dissidio subito esploso tra il sindaco di centrosinistra e il commissario di centrodestra - il presidente della Regione Giovanni Chiodi - non ha certo aiutato. Tra 60 ordinanze governative, 80 decreti commissariali, centinaia di circolari, non si è capito più nulla. In tanti hanno presentato il piano di recupero del loro appartamento, ma in pochi hanno badato alle parti comuni. Tutti riconoscono all'abruzzese Gianni Letta di essersi dato da fare; ma i dissidi interni al governo hanno limitato le risorse. Risultato: due anni gettati via. Persino le case lontane dal centro storico, più facili da recuperare, sono ancora lì, con le crepe che ricordano gli affreschi medievali del Cattivo Governo. Ora, finalmente, qualcosa si muove. Il Comune ha approvato il piano per la ricostruzione. In cassa ci sono due miliardi. E c'è un ministro incaricato della questione, Fabrizio Barca. Qualche cantiere è partito, anche nel centro storico.

Il 6 maggio si vota per il nuovo sindaco, e anche questo sarà un elemento di chiarezza. Cialente ha vinto le primarie del centrosinistra. Alcuni tra i comitati spontanei sosteranno Ettore Di Cesare, imprenditore delle nuove tecnologie. Il Pdl è diviso: Alfano è venuto a benedire la candidatura dell'urbanista Pierluigi Properzi, ma in molti appoggiano Giorgio De Matteis, vicepresidente del consiglio regionale. I candidati sono nove, e la frammentazione potrebbe favorire Cialente.
Ma la soluzione non verrà solo dalla politica. I veri segni di speranza sono altri. È la sensazione che, passato il trauma improvviso e la lunga abulia, gli aquilani abbiano rialzato la testa. E stiano lavorando a una ricostruzione non meno importante, quella della comunità, dei rapporti umani, delle relazioni sociali, decisive anche sul piano economico in una città mai stata industriale, a maggior ragione da quando il polo elettronico è andato in crisi. Il Comune ha rilevato l'ex Italtel per farne un'incubatrice di imprese, al momento mezza vuota. Ma per un capoluogo che viveva di università (e di case da affittare agli studenti), di amministrazione, di teatro, di musica, di cultura, è fondamentale ricominciare a studiare, a recitare, a suonare, a parlarsi.

Fuori dal teatro comunale la locandina annuncia ancora lo spettacolo di domenica 5 aprile 2009: «Le invisibili» con Maddalena Crippa, storia di donne pachistane sfigurate con l'acido ma che nonostante tutto riprendono a vivere. Tre giorni dopo sarebbe dovuto arrivare Toni Servillo con «La villeggiatura» di Goldoni. Arrivò davvero, recitò nell'auditorium della Guardia di finanza. Il teatro Comunale è lesionato, la volta del foyer è a pezzi, ma qui gli attori non si sono mai fermati. L'Associazione artisti aquilani ha portato commedie e tragedie sotto i tendoni. Antonella Cocciante - la cugina di Riccardo - ha fondato un'associazione, Animammersa, per recuperare lo spirito nascosto della città, ha raccolto i racconti dei concittadini affidati a Facebook e ne ha tratto un'opera teatrale, recitata nelle new-town; ora per Pasqua si è inventata il festival «Mettiamoci una pezza», e ha ricevuto da tutto il mondo mille pezze colorate che per un giorno rivestiranno le rovine del centro storico. Per l'anniversario del terremoto, che quest'anno coincide con il venerdì santo, ci saranno la processione del Cristo morto e una fiaccolata: i nomi delle vittime saranno letti uno a uno. Quest'estate lo Stabile - diretto da Alessandro Preziosi, l'attore, e animato da Giorgio Iraggi - organizzerà spettacoli sulle piazze di fronte ai teatri distrutti o inagibili, Sant'Agostino e San Filippo. Mentre al Comunale i lavori sono partiti, e dovrebbero finire tra due anni.

Difficile calcolare i tempi per recuperare l'intero centro storico. Il sindaco dice dieci anni, al massimo quindici. Altri fanno notare che in Umbria, dove il sisma è stato meno grave, quindici anni sono già quasi passati, e il recupero degli edifici più lesionati non è neppure a metà. Intanto, all'imbocco del centro dell'Aquila, piazza Regina Margherita è stata riaperta, il giovedì e il sabato sera gli studenti sono tornati. (L'università nel 2009 aveva 27 mila iscritti. Grazie anche alla sospensione delle tasse, ne ha ancora 24 mila, per quanto tutti pendolari). Micael Passayan, madre aquilana e padre di origine armena, aveva un ristorante spagnolo, «Andalucia». L'ha ricostruito in un vecchio capannone dismesso, più colorato e allegro di prima. Fabio Climastone aveva una pizzeria, «La Quintana». Il 5 aprile fece notte con un cameriere, poi tirarono giù le serrande e rientrarono: al cameriere crollò casa davanti agli occhi, tirare tardi l'aveva salvato. Neppure la pizzeria c'era più. Climastone fondò con altri venti piccoli imprenditori un consorzio per la tutela dei prodotti locali, e ora gestisce uno dei ristoranti «Oro Rosso»: una catena che prende il nome dallo zafferano, ha aperto a Rimini e a Riccione, tra poco aprirà a Torino. Davide Stratta aveva un'enoteca in via Garibaldi. L'ha spostata in collina, dove ospita gli amici di «Scherza col cuoco», l'associazione che organizza corsi di cucina abruzzese in primavera e autunno, le «stagioni morte», in cui - lontano dal Natale e dalle ferie - c'è più bisogno di stare insieme. Mentre alla «Cantina del boss», nel parco del castello dov'è in costruzione l'auditorium donato dalla Provincia di Trento e da Renzo Piano, riunisce i suoi soci Matteo Gizzi, un ragazzo di 23 anni che sta creando la Banca di credito cooperativo dell'Aquila, per investire sul territorio una parte dei due miliardi che dormono nei conti correnti.

Certo, le immagini di vitalità svaniscono all'ingresso della zona rossa, vigilata da militari gentilissimi, ma vissuti come un peso dagli aquilani che non possono ancora entrare senza autorizzazione nel proprio quartiere, nelle vie dove sono nati e cresciuti. Il silenzio è assoluto, surreale. Due operai cingalesi dormono su una tavola di legno. Più in là, un gruppo di muratori mangia un panino attorno ad Anna Oxa che canta nel registratore, messo al volume più alto per infondere, se non buonumore, coraggio. Le sole altre anime vive sono i cani randagi, tra cui Pluto, celebre perché non perde una recita né una commemorazione.

I cantieri più avanzati sono quelli delle chiese. Per la ricostruzione il Vaticano ha mandato qui come vescovo ausiliare don Giovanni D'Ercole, uomo del cardinale Bertone: paracadutista, ha pilotato aerei civili, scalato il K2 con Alemanno, corso due volte la maratona di New York. All'Aquila si è beccato una richiesta di rinvio a giudizio per rivelazione di notizie apprese in un interrogatorio, durante l'indagine sui fondi Giovanardi, peraltro mai arrivati. Il 17 aprile il gup deciderà. Nel frattempo sono state restituite al culto San Mario alla Torretta, San Francesco a Pettino, Santa Rita, San Pio X al Torrione, santa Maria di Farfa, oltre alla meravigliosa basilica di Collemaggio, dove una cupola di plastica custodisce le spoglie di Celestino V. Recuperata la splendida facciata quattrocentesca di san Bernardino da Siena, che venne qui a morire, si sta lavorando a quella di San Silvestro, dove le giovani coppie venivano a sposarsi. A luglio sarà riconsacrata San Biagio, grazie alla Fondazione Banca di Roma, mentre il milione e mezzo del Kazakhstan servirà a recuperare San Giuseppino, sede dei Solisti Aquilani, che nell'attesa hanno ripreso a cantare nelle new town.
Appena fuori la zona rossa, il primo rumore che si sente è un misto di musiche, classiche e rap. Viene dalla palestra aperta da due fratelli di 24 e 22 anni, Jacopo e Alessio Scotti, con l'amico di origini iraniane Daryoush Shojaee, 24 anni. Prima del terremoto era un centro benessere. Ora è un punto di aggregazione dove si insegnano danza classica e breakdance.

Un'altra palestra la sta costruendo a Sant'Elia 2 Roberto Nardecchia: arbitro internazionale di basket, costretto a lasciare dopo un arresto cardiaco, nel terremoto ha perso tre allievi della sua scuola di minibasket, e ora ha chiamato il vecchio amico Meneghin per restituire ai superstiti un campo di pallacanestro.
Sono vicende come queste a ricordarci che il dramma e la speranza dell'Aquila ci riguardano, che la storia parla di noi. Perché l'intero Paese, per come l'abbiamo visto e raccontato in questi tre mesi, assomiglia un po' a questa città. Anche l'Italia, come l'Aquila, ha subìto un colpo duro, e talora si è lasciata andare. Anche l'Italia ha davanti a sé un tempo lungo per ricostruirsi, ma ha risorse - a cominciare dai suoi giovani - per farcela. Anche nel momento più duro, sarà bene ricordarsi che c'è anche un Paese che tiene, c'è anche un'Italia che - proprio come l'Aquila - resiste.


Aldo Cazzullo

http://blog.aldocazzullo.it

2 aprile 2012 | 9:07© RIPRODUZIONE RISERVATA

http://www.corriere.it/cronache/12_aprile_02/cazzullo-laquila-giovani-artisti_16e15332-7c8c-11e1-b9fa-a64885bf1529.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO.
Inserito da: Admin - Aprile 06, 2012, 03:16:29 pm
Ostentava una finta laurea in Medicina.

Interpreto' le ansie di una parte del Paese

Il prepotente di genio «Chi sbaglia deve pagare»

Intuì il malessere del Nord, tenne testa alla Dc e a Craxi. Ma con riti celtici e Padania ha lacerato il Paese.

Due volte con Berlusconi, più di tutti l'ha insultato e difeso


Ora il colore si sprecherà: e di colore Umberto Bossi ne ha sempre fornito molto, sin da quando si faceva chiamare Donato e imitava la voce di Celentano, oppure - finto medico - usciva di casa con lo stetoscopio nella borsa dicendo che andava in ospedale e invece si infilava al bar; ogni tanto poi organizzava una serata per festeggiare una laurea in medicina mai presa, e quand'era già un leader politico pretendeva ancora di aver fatto parte in gioventù di un'équipe che lavorava a un certo laser dai poteri taumaturgici.

Si sprecheranno anche le invettive, di cui l'Italia è generosa con gli sconfitti; e di invettive Bossi ne ha meritate davvero. Ha offeso prima gli italiani del Sud, poi gli extracomunitari; ha portato in politica il linguaggio delle peggiori osterie; ha detto di voler «raddrizzare la schiena» a un magistrato sulla sedia a rotelle; ha espulso dal suo partito chiunque gli facesse ombra, fosse pure la sorella; ha minacciato di morte ogni suo avversario, da ultimo Monti. Soprattutto, Bossi ha soffiato sul fuoco delle divisioni del Paese, rinfocolando antichi rancori, straparlando di una secessione impossibile, tentando di approfondire il solco tra gli italiani del Settentrione e quelli del Mezzogiorno.

Eppure, se Bossi fosse stato solo un mitomane e un prepotente, non avrebbe contribuito a far crollare un sistema politico collaudato da mezzo secolo, non avrebbe trascinato dietro di sé milioni di elettori, non si sarebbe procurato un posto nella storia italiana. E invece, nella nostra storia meschina e grandiosa, Bossi entra di diritto. Con il suo armamentario orribile e ridicolo di grida gutturali, di elmi cornuti, di insulti maschilisti e omofobi, di famigliona impresentabile, di figli dai nomi immaginifici (Eridanio, Roberto Libertà), di seguiti famelici. Ma anche con il coraggio pazzesco di andare contro la Democrazia cristiana - un partitone dal 40 per cento (dalle sue parti, nelle valli bianche dell'Alta Lombardia, anche di più) sostenuto dall'America e dal Vaticano -, di attaccare comunisti e preti, Craxi e per qualche tempo pure Berlusconi, di far crollare la Prima Repubblica e tentare di costruirne una Seconda basata sul federalismo.

Bossi è entrato nella nostra storia perché, con il suo intuito da ignorante - in questo davvero imitatore di Celentano -, con il suo fiuto da uomo di bar, ha sentito per primo la richiesta di autonomia che cresceva dal Nord, un Nord stanco di una burocrazia asfissiante, di un fisco opprimente, di uno Stato sentito come distante e nemico, del centralismo romano e dell'egemonia culturale mediterranea. Un Nord animato da sentimenti forse non nobili, forse rancorosi e piccolo borghesi, eppure diffusi: l'allergia crescente per una Rai romanesca, un cinema e in genere un'industria culturale estranea fin dal gergo e dall'accento; l'insofferenza magari sbagliata per piccole cose - tipo essere fermati e un po' maltrattati da carabinieri dall'accento invariabilmente meridionale -, magari legittima di fronte a miti editoriali e personaggi di cui se fossero nati a Verbania o a Thiene non si sarebbe accorto nessuno. Un Nord, liberato dal pericolo rosso ma non dall'eccesso di statalismo, che alla fine degli Anni 80 chiedeva di contare di più, di essere meglio rappresentato, e di poter spendere sul territorio una parte maggiore delle sue imposte.

A questa domanda di dignità e di identità, di diritti e di interessi, Bossi ha dato una risposta disastrosa. La sua Lega fin dal principio è stato il più «sudista» dei partiti: familista e clientelare, costruito attorno al più mediterraneo dei criteri, non il merito e le regole ma i legami personali (meglio se di sangue) e la fedeltà al capo. Adesso si leggeranno amarcord sugli inizi, sulla fase epica in cui Bossi portava Maroni sotto i cavalcavia per tracciare le scritte sull'autostrada, si faceva 200 mila chilometri l'anno - divenuti nelle agiografie anche 300, 400, 500 mila -, e Cossiga, come gli confiderà più tardi un po' scherzando un po' no, meditava di fargli nascondere la droga in macchina per screditarlo. Ma fin dagli esordi goliardi o gloriosi la Lega e il suo capo si portavano dentro il vizio che li avrebbe perduti: la pretesa di sostituire il centralismo di «Roma ladrona» (slogan che non nascondeva l'odio per la capitale quanto per lo Stato) con quello di Cassano Magnago, l'illusione di reggere un partito salito anche oltre il 10% nazionale sempre con lo stesso gruppo di amici varesotti; il Piemonte affidato a chansonnier o a leaderini usa e getta, il Veneto governato con le espulsioni, prima Rocchetta poi Comencini, e se ne avesse avuta ancora la forza Bossi avrebbe espulso volentieri pure Tosi.

L'altro limite è stato la follia di sostituire una nazione che culturalmente esiste da secoli come quella italiana con una nazione totalmente inventata, la Padania. La Lega ha dato il meglio di sé con sindaci popolari e capaci, ma non ha compreso sino in fondo che il localismo italiano è fondato sulla città, sul Comune, sul campanile; non su una presunta patria nordica che non è mai esistita. Il partito di Bossi è cresciuto a dismisura non grazie ma nonostante i matrimoni celtici, i riti druidici, le ampolle di acqua del Po, il lancio della pietra e del tronco, il giro ciclistico della Padania, Miss Padania, il campionato del mondo delle nazioni non riconosciute (che la Padania vinceva sempre a mani basse). Del sole delle Alpi e delle rune al Nord moderato che ha creduto di riconoscersi nella Lega non importava ovviamente nulla. Eppure Bossi se n'è servito per creare un mito di gruppo, per forgiare quel «cerchio magico» partito da Merlino e Obelix per finire ai maneggi tanzaniani dell'infido tesoriere Belsito, attraverso i successi di Credieuronord, la pseudobanca del Carroccio.

Eppure, si aveva un bel sorridere dei leghisti. Per tre decenni, Bossi li ha guidati con un fiuto pazzesco, da rabdomante. Un po' tutti, a sinistra e a destra, ne annunciavano la fine, e lui rispuntava dove meno te l'aspettavi. Spregiudicatissimo, capace di andare al governo con i missini (dopo avere urlato «mai coi fascisti!») e di sfilare il giorno dopo al corteo milanese del 25 aprile, ora di attaccare la Chiesa - i «vescovoni» - ora di presentarsi come difensore della famiglia tradizionale dai matrimoni gay e baluardo dell'Occidente contro le moschee e l'Islam, di aggredire i comunisti talora anche fisicamente e di fare incetta del loro elettorato (del resto negli Anni 70 proprio al Pci si era iscritto il giovane Bossi).

Il massimo di spregiudicatezza, il Senatur l'ha avuto nel rapporto con Berlusconi. A inizio '94 intuì che l'alleanza era un percorso stretto ma inevitabile. Finse un accordo con Segni, in modo da screditarlo, poi andò ad Arcore. In canottiera, però; e quel segno plebeo fu letto come una sana dissacrazione, una rivendicazione di diversità rispetto al miliardario col mausoleo in giardino. Poi arrivò la rottura, a ben vedere per lo stesso motivo che ha portato anche stavolta alla fine del governo di centrodestra: il no di Bossi all'abolizione delle pensioni di anzianità. Vennero gli anni dell'antiberlusconismo leghista, degli insulti anche grevi, di «Berluskaz» e del «mafioso di Arcore». Fino a quando il patto non venne riscritto, per le Regionali 2000 e le Politiche del 2001, quando la Lega perse voti ma andò al potere, grazie anche al rapporto di ferro tra il capo e Tremonti. L'«asse del Nord» venne infranto dall'ictus e dalla malattia. Fu nell'anno di sofferenza e silenzio seguito all'11 marzo 2004, quando la famiglia Bossi si trovò in gravi difficoltà anche materiali, che si strinse definitivamente il rapporto di lealtà ai limiti della sudditanza con Berlusconi, e la volontà indebolita del fondatore fu condizionata da quegli interessi privati che ora (a meno di ripensamenti) gli impongono le dimissioni.

Un anno dopo l'ictus, Bossi diede la sua prima intervista, che segnò il ritorno alla politica. Dopo giorni di appuntamenti rinviati e attese tipo tenda di Gheddafi, aprì la porta della villetta di Gemonio non ancora ristrutturata all'inviato del Corriere . Raccontò di serate in famiglia passate a suonare la chitarra e a cantare Battisti. Espresse desideri poi realizzati, sia pure con alterne fortune: sentire una canzone in dialetto lombardo al Festival di Sanremo; vedere un film sulla battaglia di Legnano. E annunciò la fondazione della dinastia: «Dopo di me verrà mio figlio Renzo». Infastiditi, i colonnelli presero a chiamarlo «il delfino». Allora il padre, nel giorno della cerimonia dell'ampolla alle sorgenti del Po, inventò quel soprannome - «Trota» - che al rampollo è rimasto impresso come un marchio di inadeguatezza.
Oggi, in un sussulto tardivo di dignità, Bossi si rende conto di aver fatto male i conti, e dice: «Chiunque abbia sbagliato, qualunque cognome abbia, pagherà».

Nell'ultima stagione di governo, il suo proverbiale fiuto si era esaurito. La spinta dei «barbari» si era infranta contro l'immobilismo berlusconiano e si era fatta parodia con la pantomima dei ministeri finti nel parco di Monza. Alla difesa del Cavaliere, Bossi ha pagato prezzi altissimi. Anche perché - e qui sta il suo vero fallimento - alla fine non ha portato a casa, cioè al Nord, quasi nulla: la «devolution» annullata dal referendum del 2006, il federalismo fiscale interrotto dalla crisi finanziaria; di altre bandiere storiche, dai dazi sulle merci cinesi alle ronde, meglio non parlare. Così come è meglio ricordare il Bossi purosangue delle origini anziché quello imbolsito del tramonto, che a ogni domanda sgradita risponde con il dito medio. Oggi i tre quarti d'Italia che non lo sopportava fa legittimamente festa. Altrettanto legittimo è rendere al vinto l'onore delle armi. Ora vedremo se Maroni riuscirà a rendere la Lega un partito plurale e legato agli interessi del territorio, o se farà la fine di Martelli. Di sicuro, la causa di un Nord che chiede più rappresentanza e più libertà non finisce con Bossi.

Aldo Cazzullo

6 aprile 2012 | 7:48© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_aprile_06/cazzullo-bossi-prepotente-di-genio_6d1ed24a-7fa9-11e1-8090-7ef417050996.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Segni di fiducia malgrado tutto
Inserito da: Admin - Aprile 14, 2012, 12:15:32 pm
BILANCIO DI UN VIAGGIO NELLE CITTA'

Segni di fiducia malgrado tutto


In quasi tutte le città, l'azienda con più dipendenti è il Comune. Quasi tutte sono candidate l'una contro l'altra a capitale della cultura europea per il 2019, o a patrimonio mondiale dell'Unesco (quando non lo sono già). Le procure che indagano su politica e affari hanno una gran mole di lavoro, nel Sud clientelare come nel Nord leghista. I gruppi industriali quasi ovunque cercano di alleggerirsi anziché crescere. Eppure è possibile uscire da un lungo viaggio in Italia convinti che il Paese in qualche modo tenga, resista, e per alcuni versi sia più unito di prima, pronto a ripartire.

Certo, i segni della crisi sono evidenti. A cominciare dalla proliferazione delle insegne «compro oro» (una sorta di simbolo dell'Italia di oggi) e «tutto a un euro», delle slot machine, delle pizzerie al taglio dove talora anche nei quartieri borghesi si compra la cena per tutta la famiglia. E il segno più doloroso dell'impoverimento è il degrado dei rapporti umani, il diradarsi di quelle relazioni che rendevano bello e allegro vivere nei centri storici, oggi splendidamente recuperati ma meno abitati di un tempo: molti ristoranti sono pieni di televisori accesi, molti centri commerciali tengono la musica a tutto volume, come a disincentivare la comunicazione tra le persone. L'Italia appare un Paese di cattivo umore. Impaurito dal futuro, spaventato all'idea di spendere e investire, come conferma il dossier Eurisko.

Eppure il tessuto sociale tiene. C'è un'Italia che resiste. Il patrimonio di ricchezza privata resta imponente, e andrebbe (almeno in parte) messo a frutto. Il potenziale turistico rimane talvolta inespresso; anche perché, grazie agli investimenti pubblici e privati di questi anni, le nostre città non sono mai state così belle. Forse le prospettive future dipendono anche dal modo in cui pensiamo l'Italia. Tendiamo ad esempio a concentrare l'attenzione sulla dorsale tirrenica, dove ci sono le grandi città tra cui quelle impoverite dal declino dell'industria statale, come Genova e Napoli; e dimentichiamo la dorsale adriatica, da Trieste tornata centro geografico d'Europa ai cantieri di Venezia, dal miracolo rinnovato dei romagnoli che riescono a vendere - ieri ai tedeschi oggi ai russi - un mare non bellissimo al fervore dei marchigiani, sino alla vitalità della Puglia (che non è solo vizio e corruzione) e alla resistenza dell'Abruzzo.

È vero che il Paese rischia di diventare meno multicentrico di un tempo: le banche locali sono finite quasi tutte a Milano, l'impasse del federalismo riporta i centri decisionali a Roma. Ma nessuna nazione al mondo ha così tante città forti di una propria storia, una propria identità, una propria specificità (non a caso i sindaci, pur con i loro problemi, non sono stati travolti dal discredito generale dei partiti). È sempre stato così; ma in un mondo globale, che diventa sempre più uniforme, questa è una ricchezza ancora non del tutto valorizzata. L'importante è essere consapevoli di chi siamo; e ricordarcelo anche nell'ora più difficile.

Aldo Cazzullo

14 aprile 2012 | 7:37© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_aprile_14/cazzullo-segni-di-fiducia-malgrado-tutto_194f8fbc-85f1-11e1-a210-601cc21801c2.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Onorevole Maroni. Decideremo al congresso se allearci con il Pdl
Inserito da: Admin - Aprile 15, 2012, 10:43:09 pm
L'intervista - «Decideremo al congresso se allearci con il Pdl»

«Dopo Bossi mai più un leader carismatico Il nuovo segretario? Potrei non essere io»

L'ex ministro Maroni: «L'indipendenza della Padania resta il nostro progetto. E il momento è propizio»


Onorevole Maroni, è davvero convinto che Bossi non sapesse nulla dell'uso privato di denaro pubblico al vertice della Lega?
«Conosco Umberto Bossi da oltre trent'anni: non è mai stato legato ai soldi, ha sempre anteposto la Lega alla famiglia, come quando nel '90 ruppe con la sorella. Mi pare impossibile che fosse consapevole di quanto accadeva. È il tributo che gli devo».

Ci sono le firme di Bossi sui documenti.
«Se verrà accertato il contrario, me ne dispiacerò. Se è per questo, come segretario federale ha firmato anche i bilanci. Continuo a ritenere che il Bossi che conosco io sia diverso. Non voglio credere sia cambiato. In ogni caso, stiamo facendo le nostre verifiche interne per stabilire se, quanto e chi ha sbagliato».

Chi conduce l'inchiesta interna?
«Sono in tre: Stefano Stefani, il nuovo amministratore; Silvana Comaroli, l'amministratrice del gruppo parlamentare; e Roberto Simonetti, il presidente della provincia di Biella, con l'aiuto di una società esterna, la Price WaterHouse. Passeranno al setaccio tutto: i conti correnti, gli assegni, la contabilità, le proprietà immobiliari, con l'impegno di concludere entro il 30 giugno, data del congresso federale. Anche perché ogni giorno ne spunta una nuova, adesso i lingotti d'oro, i diamanti... roba da film dell'orrore più che da partito politico».

E lei, cofondatore, non sapeva proprio nulla?
«Degli investimenti in Tanzania ho letto sul Secolo XIX . Dell'amministrazione si è sempre occupato l'amministratore. Quando nel 2006 divenni capogruppo alla Camera, mi rifiutai di versare il contributo a quello di allora, Balocchi, perché non si capiva come sarebbe stato speso».

Ma come ministro dell'Interno non sapeva che dirigenti della Lega a lei ostili erano intercettati?
«Ho sentito anche questa, che sarei il regista dell'operazione. Be', se fossi riuscito a coordinare la Procura di Milano, quella di Napoli e quella di Reggio Calabria, sarei l'uomo più potente d'Italia...».

Regista, no. Informato, magari sì.
«Non è così, e per fortuna che non è così. Quando divenni ministro, andai dal capo della polizia e da altri a chiarire che non intendevo essere informato su indagini in corso».

Ha mai incontrato Bonet?
«Mai. Fu lui, attraverso una parlamentare della Lega, a chiedere di vedermi, dopo che era uscita la storia della Tanzania. Rifiutai».

Sulla posizione di Calderoli che idea si è fatto?
«Nessuna. Non inseguo le intercettazioni. Sarà l'inchiesta interna a stabilire come sono stati spesi i soldi del partito. Mi rimetto a questo accertamento. Nel frattempo, faccio notare che Bossi è stato l'unico segretario a dimettersi; Bersani e Rutelli non l'hanno fatto. Renzo Bossi ha lasciato il consiglio regionale; Penati no».

Per la successione si parla di lei, ma anche di un terzo uomo tra lei e Bossi. Come stanno le cose?
«A Bergamo ho lanciato il programma. Primo, fare pulizia, senza caccia alle streghe: io non sono Torquemada. Secondo, nuove regole: soldi alle sezioni, non in Africa. Terzo: meritocrazia. Quarto: largo ai giovani. Non mi considero anziano, ma certo faccio parte della prima stagione, nata con Bossi. La Lega del futuro, la Lega 2.0, ha bisogno di giovani. Per fortuna ne abbiamo: Zaia, Tosi, Cota, Giorgetti. Hanno la stoffa del leader? Non lo so. Valuteremo».

E se si ricandidasse Bossi?
«Ho già detto che lo voterei. In ogni caso, dopo di lui non verrà un nuovo Bossi. Un leader carismatico è per sua natura insostituibile. Verrà un nuovo assetto. E una nuova squadra. Gli equilibri tra i territori sono importanti, non a caso lo statuto prevede che il presidente e il segretario non siano della stessa regione. Se il congresso eleggesse un segretario veneto, sarei l'uomo più felice del mondo».

Sta dicendo che il segretario potrebbe anche non essere lei?
«Certo. Di sicuro sarà un segretario davvero federale. Collegiale. Un primus inter pares. Che tenga insieme il partito. Se no frana tutto».

Preoccupato dalle amministrative?
«Il timore c'è. Nei sondaggi paghiamo, ma non così tanto. Ci sarà un rimbalzo. E in prospettiva non siamo messi così male; anzi. La questione settentrionale è lì, intatta. Dobbiamo attrezzarci per essere ancora noi a rappresentarla. In questi dieci anni siamo rimasti un po' indietro. Dobbiamo ridefinire le nostre proposte su ambiente, energia, banche, piccole e medie imprese».

Tornerete ad allearvi con il Pdl?
«Al congresso ci sarà da prendere una decisione. O puntare sull'identità e andare da soli; o costruire un accordo per far ripartire il federalismo».

Lei è per la seconda linea?
«L'istinto prevalente è per la prima. Io mi limito a ricordare che andando da soli abbiamo colto grandi vittorie elettorali, come nel '96, quando arrivammo al massimo storico, senza però essere determinanti. Costruendo alleanze abbiamo colto grandi vittorie politiche. Se il Pdl proseguirà con il rinnovamento e riconoscerà l'errore di aver sostenuto Monti, il dialogo potrà riprendere».

I suoi rapporti con Tremonti come sono?
«Freddi. Lui è insofferente a ogni critica. Ricordo le riunioni notturne con Pezzotta, Angeletti e D'Amato quand'ero ministro del Welfare: Tremonti s'alzava sbattendo la porta per un commento critico del Sole 24 Ore . Io però lo stimo molto. Ha spunti geniali. Nella fase di progettazione che ci attende, il suo contributo sarebbe prezioso».

Il regno di Formigoni non è durato troppo a lungo? Gli scandali della Regione Lombardia non la imbarazzano? «Sì, ma noi siamo gente seria e manteniamo gli impegni. Non faremo cadere Formigoni. Se poi nel 2013 lui deciderà di andare a Roma, noi ci candideremo a governare la Lombardia».

Come sarà la Lega del futuro? Parlerà ancora di secessione e indipendenza della Padania? O punterà su autonomia e federalismo?
«L'indipendenza della Padania resterà sempre il nostro progetto. Ci si può arrivare con la rivoluzione o con l'accordo, come hanno fatto Repubblica Ceca e Slovacchia; ma la prospettiva non è affatto tramontata, anzi, il momento è propizio. Gli Stati-nazione non contano più nulla. Non governano né i confini, né la moneta, né la politica estera; ora, con il fiscal compact, non governeranno neppure più le finanze. E anche la burocrazia di Bruxelles è in crisi. Noi non siamo antieuropeisti, ma neoeuropeisti: dall'Europa a 27 Stati si deve passare all'Europa delle macroregioni. Una sarà la Padania».

E l'Italia? Scomparirà?
«L'Italia è già scomparsa. Ha perso la sua sovranità. Lasci stare Monti, che si fa dettare l'agenda da Merkel e Sarkozy. Noi stessi siamo stati costretti a fare una guerra in Libia che non volevamo».

Ma lei, che è stato ministro dell'Interno, non si sente italiano?
«Io mi sento europeo. E sono profondamente legato alle mie origini, alla cittadina dove sono nato. Quando nel '94 da sconosciuto divenni ministro, i giornali scrissero che ero di Lozza, "quartiere di Varese". Mi ritrovai mezzo paese sotto casa. Pensavo volessero festeggiarmi. Erano lì per protestare: "Devi dire che siamo un Comune!". I Comuni sono la base del federalismo italiano».

Perché allora l'ampolla, il dio Po, i riti celtici?
«Quella è l'identità. La pancia. Enfatizzata dai giornali. Potrei risponderle citando i nostri 300 sindaci; compreso il "famigerato" Gentilini, eletto dai trevigiani che tutto sono tranne che baluba. O il Bossi che nel '91 dice: "Noi non siamo per un federalismo etnico e linguistico, ma sociale ed economico". Un imprenditore cuneese e uno triestino non parlano la stessa lingua e non hanno le stesse origini. Ma hanno gli stessi problemi».

Aldo Cazzullo

15 aprile 2012 | 9:06© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_aprile_15/cazzullo-intervista-maroni_4d80b27c-86c6-11e1-9381-31bd76a34bd1.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Vigilia di shopping dell'ex modella-cantante
Inserito da: Admin - Aprile 22, 2012, 04:33:35 pm
Première dame Dopo quattro anni, questi potrebbero essere gli ultimi giorni all'Eliseo per la donna che ha cambiato i gusti del presidente

Per strada con Carla Bruni, tra chihuahua e scongiuri

Vigilia di shopping dell'ex modella-cantante Ma ormai anche per lei è il tempo dei bilanci


PARIGI - Undici del mattino. Weekend elettorale. Il boulevard Haussman, ottavo arrondissement, dieci minuti a piedi dall'Eliseo, è deserto. Una donna alta dai capelli lunghi sciolti incede sul marciapiede, seguita da un uomo biondo, due passi indietro. Per passare inosservata non ha bisogno della parrucca, che ama indossare per mischiarsi alla folla. Senza trucco, pantaloni chiari della tuta infilati negli stivali bassi di camoscio, un cappotto nero a celare i segni della gravidanza recente. Borsa non firmata, occhiali scuri. Attraversa il boulevard e si ferma all'angolo con rue Roy, davanti a un «salon de toilettage», salone di moda e di bellezza canina. In vetrina c'è una nidiata di cuccioli. Lei si curva, felice come una bambina: «Qu'ils sont mignons!».

Signora Bruni, come sta? La première dame è di buon umore ed è contenta di parlare italiano. Quando poi le nomini Torino, si scioglie. A condizione di non farle domande di politica. Previsioni per il primo turno delle presidenziali? Carlà sorride e incrocia le dita lunghissime, prive di anelli: «Crepi il lupo!». Si parli semmai di cani. Lei e Sarkozy ne hanno due, un chihuahua e un labrador. Anche quelli in vetrina sono chihuahua, ma della variante «minicup»: non arrivano a un chilo, sono più piccoli ancora di quello di Carlà. Il negozio, dove lei capita di tanto in tanto, si chiama Calina: «calin» è l'aggettivo che indica la tenerezza che si prova verso un animale o una persona cara, cui ci lega un legame affettivo più che una passione sensuale. A casa, oltre al marito presidente, la aspetta Giulia, prima figlia femmina di Sarkozy dopo tre maschi.

Se i sondaggi non sbagliano clamorosamente, questi sono gli ultimi giorni all'Eliseo per la coppia italofrancese. E al declino di Nicolas Sarkozy corrisponde l'ingresso di Carla Bruni nella maturità. Le sue vite precedenti sono lontane. La donna che il sabato mattina passeggia in una Parigi deserta non ha più nulla della ragazza in passarella degli anni Novanta, fidanzata con il rocker Eric Clapton, e ha poco dell'artista alternativa che sussurra canzoni alla chitarra, si innamora del filosofo Enthoven e poi lo lascia per il figlio. Non sono soltanto il tempo e il chirurgo estetico - entrambi impietosi - ad aver cambiato Carlà. L'avventura in cui si è gettata come per gioco - la notte in cui incontrò Sarkozy già presidente e ancora libero a casa di un comune amico, il pubblicitario Séguela, quello della «force tranquille» di Mitterrand - l'ha inghiottita al di là di qualsiasi previsione. Lui cercava la vendetta su Cécilia e il riscatto sociale. Lei era innanzitutto curiosa. Tutto è successo molto in fretta. Un altro figlio, dopo quello avuto con Enthoven junior. Una sanzione ufficiale, una consacrazione planetaria.
Carlà ha sposato non solo Sarkozy, ma un ruolo, una funzione, un mestiere. Per la prima volta in vita sua, è stata moglie. Ora si è calata nella campagna elettorale. Ha seguito il comizio d'esordio, a Marsiglia, e quello di chiusura, l'altro ieri a Nizza. Domenica scorsa era in Place de la Concorde, sotto il palco, ad applaudire. Perfetta sia per assecondare la rottura incarnata dal marito - poco francese, figlio di un aristocratico ungherese, marito di una donna corsa, di una spagnola, ora di un'italiana - sia per frenare i suoi eccessi e affinare i suoi gusti (Sarkozy è passato da Sylvester Stallone a Luchino Visconti e dalla pepsi light al barolo). Lei è rimasta sempre in disparte, talora si è fatta viva su Twitter, magari con qualche gaffe, come quando ha scritto: «Noi siamo gente semplice». Ma tutto questo ora sta già passando. Oggi sarà il giorno della sorpresa, o della fine. Il rischio concreto è dover cedere l'Eliseo a un burocrate e la parte a una giornalista. Ma il problema è più del marito che suo. Un ex presidente, a maggior ragione se giovane e agitato come Sarkozy, è un personaggio in cerca d'autore. Carlà resta se stessa; e chissà cos'ha in animo di diventare, la prossima vita.

Aldo Cazzullo

22 aprile 2012 | 9:21© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/esteri/speciali/2012/francia-elezioni-presidenziali/notizie/per-strada-con-carla-bruni-cazzullo_0632374c-8c48-11e1-a888-e468d0e8abab.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Sarkozy non perde la sicurezza ...
Inserito da: Admin - Aprile 24, 2012, 05:23:30 pm
La Renault su cui arriva dai militanti è la stessa della notte vittoriosa del 2007

Sarkozy non perde la sicurezza: «Francesi, adesso unitevi a me» «La sinistra è lontana dall'avere una larga adesione».

Ma per la prima volta un presidente uscente arriva secondo

Dal nostro inviato  ALDO CAZZULLO


PARIGI - «Prima erano nove contro uno. Adesso siamo rimasti io e lui. Finora mi ha evitato. Ma adesso ci dovremo ben incontrare: stesso giorno, stessa ora». Non solo la Renault nera su cui arriva è la stessa della notte vittoriosa del 2007. Anche lui, Nicolas Sarkozy, è rimasto uguale, a giudicare dalla prima reazione che filtra dal suo entourage. Ai militanti lo dice subito: «Tre dibattiti. Voglio tre dibattiti con l'altro candidato». Che sarebbe Hollande, socialista di solito sorridente, ma da ieri un po' meno sicuro di vincere.



Anche Sarkozy avrebbe di che preoccuparsi. È la prima volta, nella storia della Quinta Repubblica, che un presidente in carica non arriva in testa al primo turno. Eppure lui non ha perso un'oncia di aggressività. Entra nell'arena con passo caracollante da cowboy. Spalanca le braccia tipo cantante confidenziale davanti ai fan. Gigioneggia. Paradossalmente, l'aspetto e l'umore sono migliori di quelli con cui si presentò cinque anni fa, la notte della vittoria. Il Sarkozy appena eletto non era euforico e sereno, ma teso e nervoso: più per la fuga dell'ondivaga moglie Cécilia, irreperibile tutto il giorno, che per la responsabilità che lo attendeva. Il Sarkozy superato al primo turno da «ça», «questa roba», come ha chiamato Hollande in campagna elettorale, è carico, arrembante. Grida sino quasi a perdere la voce: «Avete resistito a tutto! Siete stati formidabili, ammirevoli, coraggiosi! Grazie per quello che avete fatto per la Francia!». E si capisce benissimo che non sta parlando dei militanti, ma di sé.


Le prime parole sono per gli elettori di Marine Le Pen: frontiere, immigrazione, lavoro, sicurezza. «I francesi vogliono preservare il proprio modo di vivere. E io voglio proteggerli. Invito tutti i francesi che mettono l'amore di patria prima degli interessi privati a unirsi a me». In realtà, sarà dura. E non solo perché i sondaggi, che come al solito avevano sottostimato Marine Le Pen, ora dicono che meno della metà dei suoi elettori sosterrà Sarkozy al ballottaggio, mentre quasi il 20% sceglierà Hollande. I due milioni e mezzo di voti mancanti rispetto al 2007 rafforzano la schiera di coloro che non riconoscono a Sarkozy il fisico del ruolo presidenziale, che non gli perdonano né la frenesia del brevilineo - un Rastignac da un metro e 65 alla conquista di Parigi - né le origini straniere (era francese solo sua nonna materna, che sposò un ebreo greco; il padre era un ungherese sfuggito all'Armata Rossa e rimasto apolide sino a tarda età). L'ossessione per l'America, la passione per il denaro, il gusto per i sigari avana più che per il bordeaux, per le caramelle più che per i formaggi, erano apparsi segni di rottura, alla fine della lunga e spossata stagione di Chirac. Oggi rischiano di ritorcersi contro di lui, nell'ora in cui la Francia si sente impotente, e teme di non eleggere più il presidente della République, ma il governatore di una provincia d'Europa. Anche così si spiegano il record di Marine Le Pen, e i primi sondaggi che danno Sarkozy sconfitto il 6 maggio.


Eppure lui sente di poter ripetere il colpaccio. L'atteso spostamento a sinistra non c'è stato. Tra le due linee - l'attenzione alla destra e il dialogo con il centro - è destinata a prevalere la prima, incarnata dal segretario del partito, Jean-François Copé, l'uomo del 2017: non a caso i militanti lo accolgono con un'ovazione, mentre per il cauto premier Fillon hanno solo un applauso di circostanza. «Hollande en Corrèze, Sarkozy all'Elysée», gridano, invitando il socialista a restare nella sua remota e piovosa regione.


Tra i candidati Sarkozy ha votato per ultimo, e per ultimo parla. Alle 18 ha riunito lo staff all'Eliseo, alle 19 si è consultato con Copé e con l'ex premier Juppé. Poi, con uno dei suoi rari gesti di umiltà, ha lasciato la residenza presidenziale per raggiungere i militanti alla Mutualité, oltretutto storica sede di convegni sinistrorsi. Non ha abbassato il vetro fumé per rispondere alle domande dei reporter che lo seguivano in moto. Però ha ordinato all'autista di fermarsi al rosso.


Cinque anni fa, sulla Renault nera Sarkozy era solo. Cécilia - che non l'aveva neppure votato - si fece vedere solo alla festa, sciaguratamente organizzata da Fouquet's, ristorante da sceicchi, con tanto di lista degli invitati. Venti di loro in questi cinque anni hanno ricevuto la Legion d'Onore, qualcuno appalti da 3 miliardi di euro, come Martin Bouygues che sta costruendo il nuovo ministero della Difesa, il «Pentagono francese». Sarkozy fece trapelare che si sarebbe ritirato in convento, per prepararsi. Due giorni dopo fu fotografato nel mare di Malta su uno yacht da 60 metri, proprietà di Vincent Bolloré, finanziere tra i più ricchi d'Europa. L'inizio di una serie di errori e cadute di stile. I francesi gli avrebbero anche perdonato tutto, se le cose fossero andate bene. Sono invece andate malissimo.


Ma oggi paradossalmente la crisi può dargli una mano. Sarkozy giocherà la carta della paura e della protezione. Finora ha cercato soprattutto di impietosire i francesi: «Capitemi», «aiutatemi». Ora tenterà di spaventarli - la caduta dei mercati, il timore della sinistra - e di rassicurarli. Giocandosi il duello tv (Hollande gliene concederà uno solo, probabilmente il 2 maggio) sulla linea della «scelta di personalità»: sicurezza contro mitezza, forza contro sorriso. Oggi Sarkozy ricomincia da Tours, la città di Philippe Briand, il potente tesoriere, e di Guillaume Peltier, il capo dei giovani. «Non avremo mai più un leader così», commentava all'uscita dalla Mutualité uno di loro, e probabilmente ha ragione. Tra due settimane sapremo se per la destra e per la Francia è una condanna, o un sollievo.

23 aprile 2012 | 15:32

da - http://www.corriere.it/esteri/speciali/2012/francia-elezioni-presidenziali/notizie/cazzullo-nicolas-non-perde-la-sicurezza_a6070484-8d04-11e1-a0b5-72b55d759241.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Sarkozy non perde la sicurezza: «Francesi, adesso unitevi a me»
Inserito da: Admin - Aprile 25, 2012, 04:20:31 pm
La Renault su cui arriva dai militanti è la stessa della notte vittoriosa del 2007

Sarkozy non perde la sicurezza: «Francesi, adesso unitevi a me»

«La sinistra è lontana dall'avere una larga adesione». Ma per la prima volta un presidente uscente arriva secondo

Dal nostro inviato  ALDO CAZZULLO


PARIGI - «Prima erano nove contro uno. Adesso siamo rimasti io e lui. Finora mi ha evitato. Ma adesso ci dovremo ben incontrare: stesso giorno, stessa ora». Non solo la Renault nera su cui arriva è la stessa della notte vittoriosa del 2007. Anche lui, Nicolas Sarkozy, è rimasto uguale, a giudicare dalla prima reazione che filtra dal suo entourage. Ai militanti lo dice subito: «Tre dibattiti. Voglio tre dibattiti con l'altro candidato». Che sarebbe Hollande, socialista di solito sorridente, ma da ieri un po' meno sicuro di vincere.



Anche Sarkozy avrebbe di che preoccuparsi. È la prima volta, nella storia della Quinta Repubblica, che un presidente in carica non arriva in testa al primo turno. Eppure lui non ha perso un'oncia di aggressività. Entra nell'arena con passo caracollante da cowboy. Spalanca le braccia tipo cantante confidenziale davanti ai fan. Gigioneggia. Paradossalmente, l'aspetto e l'umore sono migliori di quelli con cui si presentò cinque anni fa, la notte della vittoria. Il Sarkozy appena eletto non era euforico e sereno, ma teso e nervoso: più per la fuga dell'ondivaga moglie Cécilia, irreperibile tutto il giorno, che per la responsabilità che lo attendeva. Il Sarkozy superato al primo turno da «ça», «questa roba», come ha chiamato Hollande in campagna elettorale, è carico, arrembante. Grida sino quasi a perdere la voce: «Avete resistito a tutto! Siete stati formidabili, ammirevoli, coraggiosi! Grazie per quello che avete fatto per la Francia!». E si capisce benissimo che non sta parlando dei militanti, ma di sé.


Le prime parole sono per gli elettori di Marine Le Pen: frontiere, immigrazione, lavoro, sicurezza. «I francesi vogliono preservare il proprio modo di vivere. E io voglio proteggerli. Invito tutti i francesi che mettono l'amore di patria prima degli interessi privati a unirsi a me». In realtà, sarà dura. E non solo perché i sondaggi, che come al solito avevano sottostimato Marine Le Pen, ora dicono che meno della metà dei suoi elettori sosterrà Sarkozy al ballottaggio, mentre quasi il 20% sceglierà Hollande. I due milioni e mezzo di voti mancanti rispetto al 2007 rafforzano la schiera di coloro che non riconoscono a Sarkozy il fisico del ruolo presidenziale, che non gli perdonano né la frenesia del brevilineo - un Rastignac da un metro e 65 alla conquista di Parigi - né le origini straniere (era francese solo sua nonna materna, che sposò un ebreo greco; il padre era un ungherese sfuggito all'Armata Rossa e rimasto apolide sino a tarda età). L'ossessione per l'America, la passione per il denaro, il gusto per i sigari avana più che per il bordeaux, per le caramelle più che per i formaggi, erano apparsi segni di rottura, alla fine della lunga e spossata stagione di Chirac. Oggi rischiano di ritorcersi contro di lui, nell'ora in cui la Francia si sente impotente, e teme di non eleggere più il presidente della République, ma il governatore di una provincia d'Europa. Anche così si spiegano il record di Marine Le Pen, e i primi sondaggi che danno Sarkozy sconfitto il 6 maggio.


Eppure lui sente di poter ripetere il colpaccio. L'atteso spostamento a sinistra non c'è stato. Tra le due linee - l'attenzione alla destra e il dialogo con il centro - è destinata a prevalere la prima, incarnata dal segretario del partito, Jean-François Copé, l'uomo del 2017: non a caso i militanti lo accolgono con un'ovazione, mentre per il cauto premier Fillon hanno solo un applauso di circostanza. «Hollande en Corrèze, Sarkozy all'Elysée», gridano, invitando il socialista a restare nella sua remota e piovosa regione.


Tra i candidati Sarkozy ha votato per ultimo, e per ultimo parla. Alle 18 ha riunito lo staff all'Eliseo, alle 19 si è consultato con Copé e con l'ex premier Juppé. Poi, con uno dei suoi rari gesti di umiltà, ha lasciato la residenza presidenziale per raggiungere i militanti alla Mutualité, oltretutto storica sede di convegni sinistrorsi. Non ha abbassato il vetro fumé per rispondere alle domande dei reporter che lo seguivano in moto. Però ha ordinato all'autista di fermarsi al rosso.


Cinque anni fa, sulla Renault nera Sarkozy era solo. Cécilia - che non l'aveva neppure votato - si fece vedere solo alla festa, sciaguratamente organizzata da Fouquet's, ristorante da sceicchi, con tanto di lista degli invitati. Venti di loro in questi cinque anni hanno ricevuto la Legion d'Onore, qualcuno appalti da 3 miliardi di euro, come Martin Bouygues che sta costruendo il nuovo ministero della Difesa, il «Pentagono francese». Sarkozy fece trapelare che si sarebbe ritirato in convento, per prepararsi. Due giorni dopo fu fotografato nel mare di Malta su uno yacht da 60 metri, proprietà di Vincent Bolloré, finanziere tra i più ricchi d'Europa. L'inizio di una serie di errori e cadute di stile. I francesi gli avrebbero anche perdonato tutto, se le cose fossero andate bene. Sono invece andate malissimo.


Ma oggi paradossalmente la crisi può dargli una mano. Sarkozy giocherà la carta della paura e della protezione. Finora ha cercato soprattutto di impietosire i francesi: «Capitemi», «aiutatemi». Ora tenterà di spaventarli - la caduta dei mercati, il timore della sinistra - e di rassicurarli. Giocandosi il duello tv (Hollande gliene concederà uno solo, probabilmente il 2 maggio) sulla linea della «scelta di personalità»: sicurezza contro mitezza, forza contro sorriso. Oggi Sarkozy ricomincia da Tours, la città di Philippe Briand, il potente tesoriere, e di Guillaume Peltier, il capo dei giovani. «Non avremo mai più un leader così», commentava all'uscita dalla Mutualité uno di loro, e probabilmente ha ragione. Tra due settimane sapremo se per la destra e per la Francia è una condanna, o un sollievo.

23 aprile 2012 | 15:32

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Titolo: ALDO CAZZULLO. Una memoria che costruisce
Inserito da: Admin - Maggio 27, 2012, 09:43:13 am
IL PAESE E L’EMERGENZA CRIMINALE

Una memoria che costruisce


La condanna dell’eterno ritorno, che condiziona la vita pubblica italiana, sembra trovare una conferma nel ventennale della morte di Falcone e Borsellino. Il Paese appare sospeso tra un passato destinato a ripetersi e un futuro che non arriva. E in effetti qualche punto in comune con il biennio ’92-’93 c’è: una crisi economico- finanziaria, un governo tecnico sostenuto da partiti in grave difficoltà, un passaggio di stagione politica, e fiammate di violenza che il procuratore nazionale antimafia Grasso definisce non senza ragione «terrorismo puro».

In realtà, non siamo tornati al punto di partenza. Come dice il presidente Napolitano, «siamo molto più forti di allora». Qualcosa in questi vent’anni è accaduto. Non soltanto i capimafia che parevano inafferrabili sono stati catturati e condannati, i loro patrimoni sequestrati, le loro terre affidate a giovani volontari. La società italiana, compresa quella del Sud, ha sviluppato anticorpi che combattono la patologia mafiosa. Le imprese siciliane hanno espresso un uomo come Ivan Lo Bello, che ha fatto della battaglia contro il racket e per la legalità il primo punto della sua agenda. Il movimento per la liberazione dal pizzo avanza sui passi coraggiosi di piccoli commercianti, artigiani, sacerdoti. Nei feudi della mafia, della camorra, della ’ndrangheta è cresciuta una generazione non più disposta ad accettare le angherie, le complicità, i silenzi. È la generazione colpita a Brindisi, qualunque sia la matrice dell’attentato. Adesso è importante che i Lo Bello, i commercianti antipizzo, i giovani come le amiche strette attorno alla bara bianca di Melissa Bassi non siano lasciati soli, come furono lasciati soli Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Un dovere che ci riguarda e ci impegna; tanto quanto il dovere — ribadito ieri dal premier Monti — di fare luce definitiva sulle stragi del ’92.

In questi vent’anni si è affermata un’idea-chiave: le mafie non sono un problema esclusivo del Sud. Sono una questione italiana, e non soltanto perché investono e corrompono pure al Nord. Anche nell’ora in cui i sentimenti più diffusi appaiono il malumore, la rabbia, lo sconforto, sta crescendo un’Italia che resiste e che riparte. «L’Italia che ce la fa», come l’ha definita il Corriere tre anni or sono. Un Paese perbene, impegnato a uscire dalla crisi ma che non esaurisce le sue energie nel lavoro in azienda e in famiglia, animato da uno spirito civico emerso nella straordinaria reazione popolare alla barbarie di Brindisi, e anche nelle ultime Amministrative, in cui — accanto a un preoccupante astensionismo e a esempi inaccettabili di violenza verbale — si sono viste nuove forme di partecipazione. Un Paese consapevole che la lotta alla mafia e la resistenza alla crisi sono un’azione comune, a prescindere dalle appartenenze geografiche e politiche. Per questo la testimonianza di Falcone e Borsellino chiama in causa tutti: la politica, che non può rinviare ancora le riforme necessarie, a cominciare dalla legge anticorruzione; noi stessi, che vent’anni fa accogliemmo la notizia della strage di Capaci con incredulità e sgomento; i nostri figli e nipoti, che non c’erano o non avevano l’età per ricordare. La memoria del sacrificio dei due magistrati simbolo della lotta alla mafia oggi è radicata, in un Paese cui la memoria talora ha fatto difetto. Non è un dato acquisito per sempre, è una base per conquistare la coscienza che il passato non si ripresenta mai allo stesso modo, e che il futuro sta arrivando. In quali forme, dipende innanzitutto da noi.

Aldo Cazzullo

24 maggio 2012 | 7:33© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_maggio_24/cazzullo-una-memoria-che-costruisce_9f982f5c-a55e-11e1-8ebb-5d15128b15be.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Cetto Laqualunque, il ritorno (a Montecitorio)
Inserito da: Admin - Giugno 12, 2012, 10:52:47 am
Satira - «Tutto tutto niente niente» è la radiografia del tracollo della classe politica

Cetto Laqualunque, il ritorno (a Montecitorio)

E un comico genovese diventa premier

Albanese racconta il nuovo film. Paolo Villaggio fa il presidente del Consiglio


Nel film che Antonio Albanese sta girando a Roma, il presidente del Consiglio è un comico genovese. Ma non Beppe Grillo; Paolo Villaggio. «Tutto tutto niente niente» è un film sul tracollo della politica; non a caso Cetto Laqualunque, la maschera del politicante al soldo della mafia che in «Qualunquemente» diventava sindaco, ora entra in Parlamento, passando per la galera. In carcere, Cetto incontra altri due personaggi, impersonati sempre da Albanese: Rodolfo Villaretto, avventuriero lombardo-veneto; e Franco Stoppato detto «Frengo», spacciatore fatto arrestare dalla madre. Si ritroveranno tutti e tre a Montecitorio, da deputati.

«La realtà supera la fantasia. Un anno e mezzo fa, quando con Piero Guerrera abbiamo scritto la sceneggiatura, non avrei mai detto che di un comico a Palazzo Chigi si sarebbe parlato seriamente. Del resto, l'ultimo Oscar in Italia l'ha vinto un comico, l'ultimo Nobel pure...». Ma lei, Albanese, voterebbe Grillo? «No. Né l'ho seguito molto: non vado su Internet, non sono in Rete; non ne ho bisogno e non ne ho il tempo, preferisco passeggiare in montagna o visitare un museo. Grillo mi pare una reazione, niente più. Come era una reazione la Lega. Però Grillo ha anche dei meriti: ad esempio ha dato voce a una rabbia che avrebbe potuto prendere derive estremiste e razziste, tipo i neonazisti in Grecia. Il suo linguaggio è un modo un po' troppo facile per denunciare, richiamare l'attenzione, aprire le coscienze. Ma il suo movimento può anche essere un'occasione. Vediamo intanto cosa succede a Parma».

Il film (che uscirà a Natale) non è girato a Montecitorio ma all'Eur. Il Palazzo della politica è ricostruito in forme metafisiche, quasi surreali, «a mostrare la vacuità del potere»; con Fabrizio Bentivoglio nel ruolo di un sottosegretario dal look inquietante, «tra Karl Lagerfeld e un personaggio di Batman» sorride Andrea Salerno di Fandango, la casa di produzione. «Qualunquemente» fu girato in una villa e tra arredi sequestrati alla mafia: un set espressionista. «Allo stesso modo, la politica è andata oltre l'immaginazione - dice Albanese -. Pensi di girare un fumetto, e ti accorgi che hai fatto del neorealismo: una radiografia dell'Italia. L'immagine della Finocchiaro al supermarket che si fa spingere il carrello dalla scorta è devastante, pare uno spot dell'antipolitica. Ma non soltanto il Pd, tutti i partiti avrebbero bisogno di vivere in modo più umile, di riavvicinarsi alla gente. E un politico sconfitto deve cambiare mestiere. È incredibile vedere personaggi che hanno devastato il Paese economicamente e moralmente, e adesso pretendono ancora di dirci cosa fare e cosa non fare». Mario Monti come le sembra? «Monti è un medico che ci sta medicando le ferite. E medicare le ferite fa un male terribile. Un governo di salvezza nazionale non può essere simpatico. Però ci sta facendo riacquistare credibilità: non credo che Obama avrebbe fatto aprire il G8 a casa sua, a Chicago, al predecessore di Monti. Anche il modo di affrontare il terremoto ha marcato una differenza di stile. Ora però il presidente del Consiglio deve trovare pure un modo diverso, ed efficace, di sistemare i terremotati».

Per Cetto Laqualunque sarà l'ultimo giro: «Conto di farlo morire presto. L'Italia merita di meglio». «Frengo» è un personaggio che risorge dopo quindici anni: il tifoso del Foggia di Zeman. «Nel film diventa uno spacciatore esiliato in Sud America, che la madre fa incarcerare in Italia per averlo vicino a sé e beatificarlo da vivo». Finirà anche lui a Montecitorio, accanto a un personaggio nuovo, Rodolfo Villaretto, deputato del Brenta, che saluta dicendo «un morsegon!» (risposta: «'na morsegada!»), vive nel paese immaginario di Brachetto e sogna una bretella Brachetto-Padova-Vienna, perché «noi siamo austriaci». Racconta Albanese che per mettere a fuoco la maschera di «Olfo» Villaretto è tornato a girare il Lombardo-Veneto, come aveva fatto nel '97, quando preparava lo spettacolo teatrale «Giù al Nord», titolo poi ripreso da un film di successo («Non mi hanno neppure avvisato, ma va bene così»). «Il Lombardo-Veneto è la mia terra. Mio padre, siciliano, venne a Olginate, vicino a Lecco, a fare il muratore. È morto qualche mese fa. Al funerale c'era tutto il paese. Era un uomo orgoglioso del suo lavoro, mi indicava un muro e diceva: "Vedi quello? L'ho fatto io". Mi ha insegnato la nobiltà dell'artigianato, del lavoro fatto con le mani. Il Nord è molto cambiato in questi 15 anni. Aziende enormi sono ridotte a fantasmi. Ne ho vista una in cui era rimasto l'industriale con un solo tornio e un solo operaio, il più anziano, ormai un parente che non aveva il coraggio di licenziare».

Eppure Albanese è convinto che l'Italia «abbia un grande avvenire. Siamo un Paese straordinario: la capitale della creatività, dell'estro, dell'arte, della cultura. Purtroppo i teatri sono tutti in crisi. Sono stato all'accademia di Brera, uno dei posti più belli del mondo, e ho trovato un profondo disagio. Questo è un grosso guaio pure per l'industria e per il lavoro, perché il boom economico nasceva anche dalla grande cultura teatrale e artistica degli Anni 60, dalla fantasia, dal talento, dalla capacità di improvvisare, di vedere le cose da un'altra parte». E lei, dopo la morte di Cetto, cosa farà? «Ogni comico ha un'autonomia di 20, 25 anni, finché lo assiste il "duende", il folletto dell'ispirazione. È successo anche ai più grandi, come Totò e Sordi. Poi si cambia mestiere. Come ha fatto Benigni, che è sempre eccezionale. O come ha fatto Grillo».

Aldo Cazzullo

10 giugno 2012 | 10:34© RIPRODUZIONE RISERVATA

da -


Titolo: ALDO CAZZULLO. Consapevoli del nostro valore
Inserito da: Admin - Giugno 25, 2012, 10:34:01 am
ITALIA-GERMANIA

L' Italia e la partita europea, ora sfidiamo Merkel. Consapevoli del nostro valore

Da tempo non si vedevano gli azzurri dominare così


Dal nostro inviato ALDO CAZZULLO

La Merkel felice dopo il successo tedesco sulla GreciaLa Merkel felice dopo il successo tedesco sulla Grecia
Fuori Cameron, ora tocca alla Merkel.

Se la Nazionale assomiglia al Paese che rappresenta, l'Italia nella battaglia d'Europa è messa benissimo.
Del resto, era da tempo che non si vedevano gli azzurri dominare una partita importante come ieri sera. Riconosciamolo: come nel 2006 in Germania, anche stavolta - all'inizio - non ce l'aspettavamo. E dire che l'avventura era cominciata malissimo.

Forse perché eravamo partiti nel peggiore dei modi possibili. La polizia nel ritiro della nazionale. Il terzino sinistro a casa (con uno dei difensori centrali, ieri sera ineccepibile, indagato ma graziato dalla burocrazia giudiziaria, che gli ha evitato l'avviso di garanzia). Il capitano incappato in una sgradevole storia di scommesse milionarie. Alle loro spalle, un Paese impaurito, di malumore, scettico sull'avvenire. Ma poiché, come d'abitudine, gli italiani danno il meglio di sé nei momenti peggiori, i nostri atleti hanno riscattato se stessi, e in qualche misura anche noi.

Alla vigilia, anche la nazionale - come l'Italia - appariva bloccata, non all'altezza delle sue grandi potenzialità. Per questo, la notte di Kiev ci parla anche del nostro futuro. Ce ne parlano i due giocatori-chiave, caricati di aspettative e di valenza simbolica: Mario Balotelli, avanguardia dei nuovi italiani, ex stranieri a volte pieni di complessi ma che possono dare un grande contributo allo sport e all'economia; e Antonio Cassano, il figlio di un Sud dal meraviglioso talento, che resta sempre in fondo alle classifiche europee ma pare sempre sul punto di decollare.

Balotelli e Cassano, l'immigrato e il meridionale, che ci avevano portato nei quarti battendo con i loro gol l'Irlanda, anche stavolta sono stati all'altezza. In particolare Mario, rimasto in campo 120 minuti, da stasera è davvero il centravanti della nazionale. E Buffon ha confermato con la sua parata decisiva di essere davvero (al di là dei legittimi dubbi sui suoi comportamenti privati) il leader di una squadra che ha dominato dal primo all'ultimo minuto un'Inghilterra molto mediterranea, prudente e attendista, diversissima da quella che il 14 novembre 1934 aggredì a Highbury gli azzurri campioni del mondo facendo tre gol in 12 minuti (ma subendone due nel secondo tempo).

Anche allora l'Italia schierava difensori con qualche problema giudiziario, come Allemandi, squalificato a vita e poi perdonato per aver venduto il derby di Torino per 25 mila lire (ne aveva pattuite 50 ma ne ebbe solo la metà; il resto gli fu negato perché anziché truccare la partita era stato il migliore in campo). E anche allora avevamo gli oriundi, come Thiago Motta: a Luisito Monti gli inglesi ruppero un piede, e Mumo Orsi, ala sinistra dall'animo sensibile alla musica, si mise un po' in disparte, proprio come qualche azzurro ieri notte, e Brera lo inchiodò così: «Latita, come sempre quando fa caldo, il violinista Orsi». «È l'Italia del Duce» titolò la Gazzetta dello Sport .

Più sobriamente, le buone notizie da Kiev consentono a Monti di rifarsi del brutto tiro che gli ha rifilato il premier britannico Cameron, spifferando alla stampa la sua proposta per abbassare lo spread facendo comprare titoli italiani al fondo salva-Stati. E ora sarebbe proprio il caso di mantenere le buone abitudini e infliggere la solita sconfitta ai tedeschi, e nella fattispecie alla Merkel. Nell'attesa, godiamoci anche la vittoria della Ferrari. E quanto di buono ha fatto questa nazionale.

Non era modesta la squadra, come sostenevano i critici. Non è modesto il Paese che questa squadra rappresenta. Andiamo contro i tedeschi senza rivalse nazionaliste, per una partita di calcio (ad Argentina '78 finì 0-0 con i panzer che si abbracciavano per lo scampato pericolo: l'Italia aveva dominato). Consapevoli però del nostra valore. Sicuri di noi stessi. E consci che nella battaglia d'Europa l'Italia può prevalere anche fuori dal campo.

25 giugno 2012 | 7:27

da - http://www.corriere.it/sport/euro-2012/notizie/25-giugno-ora-tocca-alla-merkel-cazzullo_cb0cefe4-be84-11e1-8494-460da67b523f.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Vendola: Casini è benvenuto. (balla del 2007).
Inserito da: Admin - Agosto 03, 2012, 07:08:49 am

Il governatore del Prc

Vendola: Casini è benvenuto. I Dico possono attendere
   

ROMA – «In questi giorni mi sento come alla scomparsa di una persona preziosa: solo quando viene a mancare ti accorgi di quante virtù avesse...». La persona preziosa, per fortuna vivente o almeno risorgente, è Romano Prodi. Lui è Nichi Vendola, presidente della Puglia, unico amministratore importante espresso dalla sinistra radicale. Che paradossalmente esce indebolita da una crisi innescata da richieste e proteste scaturite dal proprio alveo: i 12 punti su cui Prodi chiede oggi la fiducia segnano una torsione verso il centro; dei Dico non si parla più; e se nell'immediato si stringe a sostegno del governo, Bertinotti fa capire che in futuro ne potrebbe uscire. Una prospettiva che Vendola dice di condividere «in via metodologica e astratta, ma che non è certo all'ordine del giorno. Anzi».

«La questione del governo non riguarda solo la sinistra riformista, che rischia di farne una finalità ossessiva; riguarda anche noi, che rischiamo di amplificare le domande senza cercare le risposte. Ma il governo non deve diventare un feticcio, un idolo da adorare o da abbattere. Questo è per noi un passaggio particolarmente delicato: siamo condannati a governare, senza divenire subalterni a un governismo senza profilo. Come si fa? La ricetta non è il potere di interdizione, non sono i veti dei piccoli partiti, come si usava nella prima Repubblica e si usa nella seconda. Non credo alla prospettiva di governare guardando solo le dinamiche di Palazzo; ma con i dati oggettivi del Palazzo si devono fare i conti. L'estrema risicatezza dei numeri al Senato rende necessaria un'iniziativa politica che aiuti il governo». Per questo l'arrivo di Follini gli pare un'ottima notizia, anzi, «si è sbagliato a non tentare subito di coinvolgerlo. Una personalità di raffinata cultura democratica come la sua non poteva restare a lungo nel centrodestra». Ma, se Diliberto distingue tra l'arrivo di Follini e quello di un intero partito — l'Udc — che gli pare una iattura, Vendola fa un ragionamento diverso.

«Dobbiamo essere consapevoli che nel centrodestra si è aperta una frattura. La leadership berlusconiana è in crisi; e l'Udc è stata la prima forza a denunciare questa crisi. La nostra coalizione resta alternativa al centrodestra, ma dobbiamo coglierne i punti di frattura. Dialogare. Interloquire, per costruire anticorpi civili e culturali e forme più avanzate di convivenza. C'è bisogno di offrire governabilità al Paese. E lo si può fare innalzando il livello della discussione pubblica. Siamo d'accordo o no che la politica estera di Prodi e D'Alema è in sintonia con quanto di nuovo accade nel mondo, il Congresso che si ribella a Bush, Blair che ritira le truppe dall'Iraq? Vogliamo superare la rappresentazione della guerra civile simulata? La vogliamo cambiare o no la legge elettorale?». Vendola vorrebbe la stessa legge di Casini: il sistema tedesco. Che porterebbe a un superamento del bipolarismo e alla nascita di diversi blocchi: la destra, il centro cattolico, il partito democratico, la sinistra radicale. A chiedergli se il centrosinistra attuale potrà aprirsi all'Udc, Vendola risponde che «per il momento è l'Udc a chiamarsi fuori. Ma credo che presto possa determinarsi un'implosione di quello che oggi chiamiamo centrodestra. E con i settori del centrodestra che sono espressione di cultura democratica non possiamo perdere le comunicazioni. Ha ragione Follini, la mediazione non si fa per tenere insieme una coalizione da De Gregorio a Turigliatto; si fa sulle questioni reali, sui corpi e sui luoghi dell'Italia di oggi. Trovare un punto di equilibrio tra culture diverse non è un'attività ignobile; è la politica».

I 12 punti di Prodi non gli sembrano la paventata svolta centrista. «Sono una sintesi di priorità. Non sono né una smentita né un ribaltamento del programma dell'Unione. Consentono di uscire fuori da una navigazione a vista e di riprendere in mano la bussola e il timone». Mancano i Dico, ma Vendola non se ne scandalizza, anzi considera un errore averli affidati a un disegno di legge governativo: «Sulle questioni eticamente sensibili meglio scegliere il canale parlamentare, piuttosto che quello del governo. Così si è iperpoliticizzata la questione dei Dico, e la si è ricondotta allo scontro tra maggioranza e opposizione, rendendo più difficile entrare nel merito». Né la sinistra deve aver paura della Chiesa: «Se ci sono tentazioni neoclericali, bisogna evitare di replicare con tentazioni iperlaiciste, come se si fosse tutti chiamati a raccolta attorno al simulacro della breccia di Porta Pia». Vendola non vede una frattura con i movimenti pacifisti e no global.

«Il rapporto tra politica e società deve valere per tutti: per il governo, perché è nella ragione sociale di un governo di centrosinistra non perdere i contatti con i movimenti; e per i partiti, che non possono usare il prodigarsi della cittadinanza attiva come un supplemento di potere di veto, di interdizione». Sarebbe sbagliato e abusivo usare la piazza per fare pressione sul governo, «per aumentare il nostro potere contrattuale dentro il Palazzo; ma so che non è questa l'idea del mio amico di giovinezza Franco Giordano». Lei però sarebbe andato a Vicenza? «Trovo le ragioni della manifestazione molto fondate; ma non sovrappongo la mia parzialità politica al senso di quella manifestazione, non la piego a ragioni di bottega. Il governo fa bene a tenerne conto: nel discorso di D'Alema al Senato c'era un'apertura significativa. E' importante che il Palazzo sia permeabile alla società, ma è importante che la politica mantenga l'obbligo di individuare una sintesi, di scegliere. Tutti siamo chiamati, anche noi, a ridefinire la sinistra. La logica del tanto peggio tanto meglio sarebbe una catastrofe». E se i duri e puri si preparassero a scindere Rifondazione? «La vera scissione che temo è con la società, con i sentimenti della nostra gente, che ci chiede di reggere la prova del governo».

Aldo Cazzullo
05 marzo 2007

da - http://www.corriere.it/Primo_Piano/Politica/2007/02_Febbraio/27/vendola_casini.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Perché Obama ha vinto
Inserito da: Admin - Novembre 07, 2012, 11:03:18 pm
Flash per la Casa Bianca


Perché Obama ha vinto

Aldo CAZZULLO


BOSTON - - Avrà altri quattro anni difficili, non ha riconquistato il Congresso, rispetto al 2008 ha perso Indiana e North Carolina. Gli resta però la cosa più importante: la Casa Bianca. Per Obama il risultato è migliore delle previsioni. Il presidente ha visto confermati, accanto ai suoi limiti - bella storia e scarsa esperienza, più "narrazione" che sostanza -, anche il suo fascino, e una certa tenuta. Ma, più che a una vittoria dei democratici, siamo di fronte alla sconfitta dei repubblicani. Avevano il Paese in pugno, e l'hanno perduto. Ora daranno la colpa a Romney, considerato troppo moderato. E' vero il contrario. Il partito repubblicano (anche se non il suo candidato) è troppo estremista. Nell'ideologia, nel programma, nel linguaggio, nello stile. L'America non è certo diventata di sinistra, anzi chiede una politica più liberale: meno tasse, meno spese, meno governo. Ma i repubblicani perdono perché non parlano alla parte più avanzata nel Paese: a New York eleggono il sindaco (che però ha appoggiato Obama), in California riuscirono a eleggere governatore Terminator Schwarzenegger; ma alle presidenziali nelle grandi città aperte al mondo non toccano palla. Nella debacle si segnalano i media di Murdoch: il Wall Street Journal, che era il miglior quotidiano d'America, è diventato troppo di parte; Fox News è caricaturale nel suo odio per Obama. Presentare l'America del 2012 come un Paese socialista può far salire l'audience; ma fa perdere le elezioni.
Perchè Romney sta (forse) perdendo

Le urne sono ormai chiuse, arrivano i primi risultati favorevoli - sia pure di misura - al presidente, e ancora continuano a passare gli spot del profugo ungherese. E' un anziano benestante che racconta: «Sono cresciuto in un Paese socialista. So cosa vuol dire. Adesso vedo che pure l'America sta diventando socialista. Per questo voto repubblicano». Ora, paragonare l'America di Obama all'Est comunista significa non avere il senso del ridicolo (oltre al rispetto per le vittime del comunismo, quello vero). Per questo i repubblicani rischiano di perdere ancora una volta la Casa Bianca, dopo averla avuta a portata di mano, visto che l'economia è ferma e la crisi va avanti. Non è un trionfo di Obama. Da tempo non accadeva che un presidente fosse rieletto con un margine inferiore alla prima elezione: di solito o li cacciano (Carter, Bush padre) o li riconfermano largamente (Reagan, Clinton, Bush figlio). Più che una vittoria dei democratici, si profila una sconfitta dei repubblicani: condizionati da un'ideologia estremista, da un linguaggio troppo aggressivo, da una composizione etnica wasp (bianchi, anglosassoni, protestanti) che non rispecchia più le complessità dell'America.
Ehi, c'è Mr. President al telefono

La scena simbolo della vigilia resterà Obama che si siede tra i volontari, sorridente e all’apparenza rilassato, prende il telefono e chiama gli elettori incerti, ancora più sconcertati nel sentire la sua voce: «I’m Barack Obama. You know? The president of the United States». Una scena che aiuta a capire perché nonostante la delusione, il deficit, la crisi infinita, il presidente potrebbe essere rieletto. Visti i numeri del voto del 2010 per il Congresso, sarebbe un miracolo. E non è detto che vada davvero così. L’America rispetto a quattro anni fa è disillusa. Ma la favola del figlio del pastore kenyota che entra alla Casa Bianca ha ancora il suo fascino, e non solo sugli europei. L’ha riconosciuto lo stesso Romney, quando ha detto agli elettori indipendenti: «Non sentitevi in colpa se nel 2008 avete ceduto alla fascinazione di Obama e stavolta invece gli toglierete la fiducia». Bastava vedere Michelle sul palco del comizio finale, a Des Moines, Iowa, chiamare al suo fianco «the love of my life», l’amore della mia vita, e abbracciarlo stretto, per rendersi conto che comunque vada a finire quella di Obama resta una storia irripetibile. Con tutti i suoi limiti, a cominciare da quello originario: aver affidato la più grande potenza militare e culturale del mondo (più che economica ormai) a un uomo che non aveva mai gestito neppure un McDonald.
Il ritorno di Bill Clinton

ROANOKE (Virginia) - Lui vinse due volte, primo tra i democratici nel dopoguerra, nel 1992 e nel 1996. Nel 2000 Al Gore non lo volle tra i piedi; e perse. Nel 2004 John Kerry gli chiese aiuto, ma lui era appena stato operato di cuore, e si limitò a una comparsata. Anche Kerry fu sconfitto. Quattro anni fa si guadagnò un posto per Hillary al dipartimento di Stato con una serie di vigorosi comizi. Praticamente Bill Clinton non ha mai perso un'elezione. Stavolta sta battendo gli Stati contesi palmo a palmo. Tenendo decine di discorsi pubblici, tra cui la scorsa notte quello di Roanoke, qui in Virginia. Una mano in tasca, l'altra a disegnare cerchi nell'aria, dimagritissimo, invecchiato ma senza perdere fascino, Clinton piace ancora molto agli americani, e soprattutto alle americane. Nei comizi ricorda volentieri che i suoi otto anni coincisero con una grande crescita economica. Non fu certo merito suo, ma lui non fece grossi errori; e da queste parti non hanno dimenticato le guerre disastrose di Bush. Sostiene di essere più convinto ora rispetto al 2008 delle qualità di Obama. Ne loda a lungo la politica estera, che in realtà ha fatto sua moglie Hillary. Se il presidente e Romney recitano sempre lo stesso copione, lui gioca con la folla, la conquista con il talento naturale dell'attore, si interrompe, scherza, fa domande, riprende a parlare, gigioneggia. Dice che "Romney a forza di contorsioni potrebbe essere assunto al Cirque du Soleil". Nella Virginia profonda in molti non sanno cosa sia. Ma le militanti democratiche lo amano lo stesso, si fanno sotto per baciarlo o almeno toccarlo, poi si ritraggono sorridendo emozionate. Lui si allontana velocemente, per non cadere in tentazione, come ai vecchi tempi.
Ma chi vince?

WASHINGTON - La situazione è aperta. A chiedere agli americani chi vincerà, la grande maggioranza risponde: Obama. Ma a chiedere per chi voteranno, l'equilibrio è assoluto. Il Paese non è solo diviso; è fortemente polarizzato. Non soltanto i due candidati sono alla pari nei sondaggi (anche se il presidente conserva un minimo margine di vantaggio negli Stati decisivi). Entrambi sono l'espressione di due mondi inconciliabili, di due visioni alternative della società, dell'economia, dell'America; più ancora che in passato. Lo dimostra un sondaggio del Boston Globe, che mette a confronto nel tempo le convinzioni dei due schieramenti. Nel 1987, il 62% dei repubblicani pensava che il governo dovesse prendersi cura di chi non ce la fa; ora è soltanto il 40%. Oltre metà dell'elettorato democratico pensava che introdurre regole danneggiasse l'economia; ora la percentuale è scesa al 42%. Insomma, ai tempi di Reagan, nell'era della guerra fredda e della rivoluzione ideologica del liberismo, programmi e idee dei due campi erano meno distanti di oggi. Destra e sinistra sono parole quasi assenti dal lessico politico americano (soprattutto la seconda); però mai come adesso è chiaro che la distinzione tra destra e sinistra ha ancora un senso.

Michelle studia da Hillary

Michelle Obama sta facendo un'intensissima campagna elettorale per il marito, e non solo per lui. Marcia al ritmo di tre comizi al giorno. Perderà qualche punto di popolarità (ora è al 66 per cento), ma si sta creando un pubblico, e un elettorato. A Miami l'hanno accolta come una regina. Lei ha stretto i pugni, ha baciato sulla guancia (una volta sola, per fare prima) un numero impressionante di attivisti, quasi tutte donne, ha agitato le celebri braccia (ma vista da vicino colpiscono di più le mani, lunghissime). E ha fatto un discorso semplice e intenso, in cui molti possono riconoscersi, al di là delle appartenenze politiche: il padre malato, le figlie ormai adolescenti, il marito troppo impegnato. Dopo le elezioni Hillary farà un passo indietro e lascerà il dipartimento di Stato, sognando una difficile rivincita per la Casa Bianca. Ma la moglie di Clinton ha ormai 64 anni. Quella di Obama, appena 48.
La variabile Marchionne

MIAMI - Il suo volto e il suo maglioncino blu spuntano in tutti i tg americani. Sergio Marchionne irrompe nelle elezioni americane, indipendentemente dalla sua volontà. Obama sta picchiando duro sulla gaffe di Romney, che l'ha accusato di aver venduto la Chrysler agli italiani i quali avrebbero prontamente delocalizzato la produzione delle jeep in Cina. Marchionne è intervenuto per ribadire che le jeep in Cina non sono andate e non andranno. Ovviamente il Ceo (come si dice qui) di Chrysler non prende posizione in campagna elettorale; rassicura i suoi operai. Ma Obama non si lascia sfuggire l'occasione. Da qui l'ondata di spot e di e-mail inviate a giornalisti ed elettori. Tutto pur di conquistare l'Ohio, Stato industriale e più che mai - accanto alla Florida - decisivo.
Come vota Halloween

MIAMI - La notte di Halloween, che tradizionalmente precede di qualche giorno il voto, è uno degli indicatori da cui si può intuire dove soffia il vento. Non tanto dalla conta delle maschere di un candidato o dell'altro (è chiaro che il presidente in carica, amato od odiato che sia, è sempre in vantaggio), quanto dall'atmosfera, dai discorsi della gente, dai cori dei ragazzi. Segnali che a volte possono essere fuorvianti: nel 2004 Miami era percorsa da gruppi di adolescenti che annunciavano la fine di Bush; dovettero sorbirselo per altri quattro anni. Stavolta il clima è di disillusione. L'America ha reagito alla crisi ma ne ha ancora paura, e la delusione per Obama, i suoi azzardi, le sue incertezze, è palese. Nello stesso tempo Romney non entusiasma, in molti lo voteranno perché lo considerano un business man capace di risolvere anche i problemi altrui, ma non c'è traccia del movimento popolare del 2008. Non a caso le maschere di Obama e quelle di Romney sono pochissime, battute non solo da scheletri e vampiri ma anche da Batman e persino Zorro. In compenso i camerieri di Versailles, il ristorante degli esuli cubani, si sono messi per una notte in mimetica e occhiali scuri; e hanno brindato, più che all'avvento di Romney, alla dipartita di Castro.
Romney suda in Florida

MIAMI - Il comizio di Mitt Romney a Miami inizia con una preghiera - tutti a capo chino a recitare i Salmi - e finisce con un'esegesi parola per parola dell'inno. In mezzo, una lezione di economia, ascoltata in silenzio da un pubblico che vorrebbe essere incendiato. Lui invece è freddino, legnoso, pragmatico, razionale. E spiega il suo piano in cinque punti - energia, scuola privata, meno deficit, meno tasse, aiuti alle piccole imprese - a una folla di esuli che vorrebbero sentirsi annunciare l'invasione di Cuba. La folla si scalda solo quando l'orchestrina intona "Vamos a votar por Romney" sulle note di Guantanamera, e quando appare il cartello con la scritta "Obama comunista" ("Basta dollari a Castro! Basta ya!"). Molto auspicata la morte del dittatore. Alla fine Romney è quasi soffocato dagli abbracci. Suda, ha molto caldo, del resto è uomo del Nord e stasera ha un altro comizio, così al suo posto lascia volentieri in balia della folla Jeb Bush. Il fratello di George W. qui è stato governatore, ha moglie messicana, parla spagnolo e distrae volentieri gli anticastristi mentre Romney si mette in salvo. I sondaggi danno assoluta parità con Obama. Domani qui in Florida arriva Michelle.
Sandy aiuta Obama

A chi giova la bufera? Per tre giorni Obama e Romney hanno sospeso la campagna elettorale. Ma mentre il presidente si calava nella parte di comandante in capo, entrando nel bunker delle crisi, lo stesso delle ore della morte di Bin Laden, lo sfidante era costretto a farsi riprendere mentre caricava casse di acqua minerale destinate agli alluvionati. E se il sindaco di New York, Michael Bloomberg ha detto a Obama di non farsi vedere, il governatore repubblicano del New Jersey, Chris Christie, molto sovrappeso e molto popolare, l'ha portato in giro sulle coste devastate, in favore di telecamera. La catastrofe di solito stabilizza. Rafforza il potere. Induce a stringersi attorno a chi lo detiene. L'uragano Sandy potrebbe non cambiare l'esito delle elezioni, oppure rafforzare una tendenza che vede Obama in vantaggio, sia pure di pochissimo. Romney prova a invertirla partendo dalla Florida, dove i sondaggi lo danno praticamente alla pari con il presidente. Sono in mezzo ai sostenitori repubblicani che lo stanno aspettando all'università di Miami. Tra poco vi racconto.

http://www.corriere.it/esteri/speciali/2012/elezioni-usa/flash-per-la-casa-bianca/


Titolo: ALDO CAZZULLO. LE CAMERE TRA NOVITÀ E RINUNCE.
Inserito da: Admin - Novembre 24, 2012, 05:45:50 pm
LE CAMERE TRA NOVITÀ E RINUNCE

Un ricambio di qualità


Tra tre mesi, se il voto confermerà i sondaggi, avremo in Parlamento un centinaio di deputati e una cinquantina di senatori del Movimento 5 Stelle, di cui non si sa nulla: chi saranno, come saranno scelti. Non potranno essere peggiori di certi inquisiti e pregiudicati visti all’opera sinora. Con certezza però si sa solo che il loro leader, Beppe Grillo, in Parlamento non ci sarà. Comanderà da fuori. Attraverso il blog e le lettere dei suoi avvocati.

Non è una scelta isolata. Luca di Montezemolo scende in campo, ma non si candida alle elezioni. Walter Veltroni annuncia che continuerà a fare politica, ma lascia il seggio alla Camera. Pochi giorni dopo lo segue Massimo D’Alema. Un’intera generazione di dirigenti si prepara a fare altrettanto, senza che se ne conoscano i sostituti. Monti è senatore a vita, quindi in Parlamento ci sarà. Ma ancora non si sa quali tra i ministri tecnici — pur attivissimi in politica — siano disponibili a candidarsi.

Nobili rinunce? Forse sì. O forse la verità è un’altra. Il Parlamento è talmente screditato che conviene restarne fuori. Con la sua inazione e i suoi privilegi, è divenuto agli occhi dei cittadini la roccaforte della casta. Ma qual è l’alternativa? Un Parlamento di sconosciuti eterodiretti. Un affannarsi di peones preoccupati di perdere status e privilegi. Siccome non si è — colpevolmente —ridotto il numero dei parlamentari, e non si è ancora fatta la legge elettorale, continueremo ad avere Camere inutilmente affollate e nominate dai capi partito.

Intendiamoci: il ricambio è doveroso e salutare. Ma non è lasciando fuori i leader e gli uomini d’esperienza, magari per sostituirli con giovani scelti in base alla fedeltà e al look, che si riavvicinano i cittadini alle istituzioni. La fuga dal Parlamento non è un bello spettacolo e storicamente non porta mai bene. La migliore risposta che la classe politica può dare, di fronte alla sfiducia dei cittadini e al proprio stesso discredito, è assumersi una responsabilità. E fare una legge elettorale che consenta davvero ai rappresentati di scegliere i rappresentanti.

Ora la riforma è ferma, in attesa delle primarie del Pd. Se vincerà Bersani, sarà ancora più tentato dal tenersi l’attuale sistema. Che è pessimo. Ma siccome tutto si può peggiorare, i partiti si sono messi al lavoro. Segno dei tempi, la mediazione è affidata proprio a Calderoli, cui si deve sia la legge in vigore sia la definizione di «porcata». La trattativa verte su come modulare il premio di maggioranza o di governabilità al primo partito: il che può avere un senso, visto che al momento con il 33-34% attribuito dai sondaggi a Bersani e Vendola— la soglia cui arrivarono Veltroni nel 2008, Occhetto nel ’94, Berlinguer nel ’76: vale a dire la dimensione storica della sinistra italiana — si otterrebbe la maggioranza assoluta dei seggi. Ma la questione centrale è restituire ai cittadini il diritto di essere rappresentati, e quindi di scegliere. L’ideale sarebbe il ritorno ai collegi uninominali. Siccome l’obiettivo è lontano, un buon compromesso potrebbero essere collegi proporzionali piccoli, che esprimono pochi parlamentari e quindi stabiliscono un rapporto immediato tra elettori ed eletti. Altrimenti anche il prossimo Parlamento sarà un’assemblea pletorica, costosa e inutile. Incapace di prendere iniziative politiche e avviare quella riforma dello Stato di cui discute dai tempi della commissione Bozzi. E chiamata a vidimare le scelte del Parlamento- ombra composto dai leader non eletti.

Aldo Cazzullo

24 novembre 2012 | 7:42© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_novembre_24/cazzullo-un-ricambio-di-qualita_e5ac786a-35fd-11e2-bfd1-d22e58b0f7cd.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. La tenacia del barista Roberto per risvegliare la moglie Stefania
Inserito da: Admin - Dicembre 22, 2012, 06:32:13 pm
La storia

La tenacia del barista Roberto per risvegliare la moglie Stefania dal coma

Lui lavora alla Casa del Cinema di Roma, lei è ricoverata a Imola: nel giorno libero le fa ascoltare i messaggi delle bimbe


Il bar dove lavora Roberto, alla Casa del Cinema, è frequentato da attrici e gente famosa. Dietro le vetrate c'è uno dei panorami più belli al mondo: Villa Borghese, la Casina di Raffaello, il parco dei daini, e una chiesetta dove lui passa una volta al giorno, a pregare e a confidarsi con il sacerdote, don Aleardo. Perché Roberto si porta dentro una pena terribile: Stefania, la madre delle sue tre figlie, da cinque mesi è in stato vegetativo. È entrata in coma dando alla luce la più piccola, Rita. Negli ospedali della capitale non c'era posto: adesso è in una casa dei risvegli vicino a Imola. Ogni giorno Roberto porta le due bambine più grandi all'asilo, affida Rita alla madre di Stefania, si fa un'ora e mezza di auto, treno e bus per arrivare da Sacrofano al centro di Roma, serve i caffè al bar della Casa del Cinema, e torna a casa per preparare la cena alle bambine. Una volta ogni due settimane prende un giorno di ferie e parte per Imola, per far sentire a Stefania le canzoni che ascoltavano insieme, mostrarle i video delle bambine girati con il telefonino e i loro disegni, darle gli stimoli per richiamarla alla vita. La vita di Roberto è diventata durissima, anche perché non ha altri redditi al di fuori dello stipendio. La sorte sembra essersi accanita contro di lui. Ma la sua storia non è unica. Anzi, è una storia esemplare di un Paese colpito duro ma che alla sorte non si arrende. È una storia dell'Italia che resiste; e quindi ci riguarda tutti.

«Mi chiamo Roberto Bedetti. Ho 37 anni e tre fratelli. Il più piccolo, Antonio, 33 anni, è sulla sedia a rotelle dalla nascita: durante il parto gli è mancato il sangue al cervello, proprio com'è successo a Stefania. Mamma faceva la parrucchiera a Prati, ha dovuto rinunciare al lavoro per occuparsi di Antonio. Gli altri miei fratelli sono Maurizio, 44 anni, che allena una piccola squadra di calcio, e Alessandro, 40, che fa il barista a Ciampino. Anch'io ho lavorato sempre nei bar, tranne un periodo in cui ho fatto il portinaio. Ho cominciato a 16 anni in periferia, a Tor de' Schiavi, e nel 2009 sono arrivato qui, a Villa Borghese. Ero felice di essere responsabile di un bar così bello. Ero felice di amare Stefania e le nostre bambine».
«Ci siamo incontrati nel 2004, alla discoteca Magic Fly, sulla Cassia. L'ho invitata a ballare, abbiamo bevuto un gin fizz, ci siamo raccontati le nostre vite: dopo dieci giorni stavamo insieme. Siamo andati ad abitare a San Giovanni, poi nel suo paese, Sacrofano, dove le case costano meno. Il 7-7-2007 è nata Vittoria, l'11-11-2008 Beatrice: sotto il segno dello scorpione, come la mamma. Stefania faceva la cameriera al ristorante Grappolo d'Oro, a Ponte Milvio. Io ero già stato sposato, non riuscivo ad avere il divorzio e non abbiamo potuto sposarci: questo ci faceva soffrire perché siamo credenti e praticanti, in particolare siamo devoti a santa Rita da Cascia. Così, quando è arrivata la terza bambina, abbiamo deciso di chiamarla Rita. Il 31 luglio 2012 doveva essere il giorno più bello della nostra vita: ero nella corsia di un ospedale, Villa San Pietro, con le mie due figlie per mano, ad aspettare la loro sorellina. Invece è uscita un'infermiera a dirmi di portarle subito via, perché era successo qualcosa a Stefania».

«Ricordo un viavai di gente, sacche di sangue, il pianto delle bambine, la paura che la mia donna morisse. Le hanno fatto il cesareo, il suo ginecologo non si era accorto che la placenta era attaccata all'utero, non sono riusciti a intubarla, le hanno fatto la tracheotomia, a lungo il cervello è rimasto senza sangue e quindi senza ossigeno. Ho fatto le mie denunce, aspetto le decisioni della magistratura. Dopo quattro giorni l'hanno portata al San Filippo Neri, in terapia intensiva. Continua il calvario, Stefania ha una serie di infezioni, non si trova posto per lei nei luoghi di riabilitazione a Roma, finalmente dopo tre mesi la prendono a Montecatone, vicino a Imola, in una struttura per cerebrolesi gravi. La risonanza mostra lesioni frontali e parietali e una lesione al cervelletto. I medici temono che sia diventata cieca».
«La settimana scorsa le ho fatto ascoltare le nostre canzoni, e ha pianto. "Cercami" di Renato Zero, che ho conosciuto ed è una persona straordinaria. "Giorgia" di Vasco Rossi. "L'amore è una cosa semplice" di Tiziano Ferro. Le leggo le letterine di Vittoria, che non fa ancora le elementari ma ha già imparato a leggere e scrivere, era stata Stefania a insegnarle a scrivere "mamma". Le stringo le mani, ma non è facile, perché sono contratte, come il suo volto. Cerco di trasmetterle il mio amore, e questo è facilissimo, perché non l'ho mai amata come adesso. Le ho fatto ascoltare anche il videomessaggio registrato da Totti, che è mio amico fin dalla giovinezza, perché lavoravo in un bar a San Giovanni dove lui passava tutti i giorni. Francesco è stato generoso come sempre, le ha detto: "A Stefà, se sei della Roma devi tener duro!"».

«La mia vita ora è molto infelice, perché andare a Imola in macchina costa, c'è un albergo convenzionato che comunque si paga 35 euro a notte, e pure la famiglia di mia moglie è povera. Suo fratello, che mi accompagna, fa il fabbro ma lo pagano in nero. Sua sorella fa la commessa in un negozio di abbigliamento in corso Francia. Suo padre è morto. Sua madre, che si occupa di Rita, ha un tumore al seno. Io ho dovuto lasciare il posto di responsabile del bar, continuo a lavorare sei giorni su sette ma prendo due ore di permesso per "allattamento", si dice proprio così. Mi hanno spiegato che c'è una legge, la 104, che concede un anno di permesso per accudire parenti disabili; ho chiesto all'Inps di piazzale Flaminio, mi hanno detto che siccome non sono sposato con Stefania non ne ho diritto».
«Alle bambine ho detto la verità: la mamma dorme, e noi aspettiamo che si risvegli. C'è un assistente del Comune che il pomeriggio le va a prendere all'asilo, c'è l'associazione "L'albero del Pane" di Sacrofano che mi aiuta, ma non è facile. Ho perso venti chili. Però non mi arrendo. Passerà questa crisi. Forse ritroverò Stefania, forse no. La notte della vigilia pregherò per lei insieme con le nostre figlie. A Natale vado a Imola a portarle la catenina con la Madonna del Divino Amore. A Santo Stefano sono qui a lavorare».

Aldo Cazzullo

22 dicembre 2012 | 10:48© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/cronache/12_dicembre_22/la-storia-del-barista-roberto-bedetti-con-una-moglie-in-coma_89cee13e-4c11-11e2-a778-2824390bcabe.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. IL DECENNALE DELLA SCOMPARSA DI GIANNI AGNELLI
Inserito da: Admin - Gennaio 25, 2013, 03:38:04 pm
IL DECENNALE DELLA SCOMPARSA DI GIANNI AGNELLI

«L'Avvocato che mi tolse all'Olivetti era quello sciatore nella bufera»

Il ricordo di Gianluigi Gabetti, il manager al suo fianco: «Resistono il suo europeismo e l'indipendenza del gruppo»

di  ALDO CAZZULLO


«Crans, Svizzera, fine Anni 80. Penso di approfittare della presenza di André Meyer per far incontrare Giovanni Agnelli con il grande banchiere americano e due importanti finanzieri europei, ospiti nella sua villa. Mi trasferisco là il giorno prima. Nevica tutta la notte, il traffico è bloccato, le linee telefoniche da Sion in su interrotte. All’evidenza, Agnelli non potrà venire. Stiamo guardando il bianco paesaggio attraverso le vetrate, quando notiamo uno sciatore che scende velocemente attraverso il campo di golf davanti alla villa, arriva a pochi metri da noi, si ferma e ci sorride, slacciando la corazzatura allacciata alla gamba destra. Era l’Avvocato. Saputo della nevicata, si era fatto portare in elicottero su un colle vicino a Crans per poi scendere con gli sci. Chiese qualche minuto per mettersi in ordine e alle 10 in punto la riunione ebbe inizio. Del resto teneva molto alla puntualità, capitava spesso di arrivare in orario e trovarlo già lì ad aspettare…».

Dottor Gabetti, cosa resta di Agnelli a dieci anni dalla sua scomparsa?
«Non riesco a pensare alla sua morte come a una scomparsa, perché la sua figura è presente nelle molte vicende da lui originate. Non scomparsa, quindi, e neppure mestizia o malinconia: sono termini incompatibili con il suo modo di vedere la vita come continua alternanza di forti sentimenti e di forti azioni».

A quali vicende si riferisce?
«L’europeismo. Il rapporto con l’America. L’unità della famiglia. L’indipendenza del gruppo Fiat e la sua espansione internazionale».

Gianni Agnelli e Gianluigi GabettiGianni Agnelli e Gianluigi Gabetti
Alla fine della sua vita, l’Avvocato amava ricordare che l’acronimo Fiat era ancora valido: «Siamo ancora una fabbrica, abbiamo sede in Italia, facciamo automobili, la testa è a Torino». Secondo lei sarà ancora così?
«Guardi che Giovanni Agnelli aveva chiarissima la necessità di aprirsi al mondo. Per decenni la Fiat ha trattato un’alleanza in America. Prima con la Ford. Poi con la General Motors; e si profilava la possibilità di una vendita. Alla fine è stata la Fiat a rilevare la Chrysler. L’America era il suo orizzonte. Ma aveva un forte legame con l’Europa, ereditato dal nonno, che negli anni del fascismo prefigurò in un libro gli Stati Uniti d’Europa. Lui poi aveva conosciuto Schuman, Monnet, Altiero Spinelli, Luigi Einaudi, che oltretutto era piemontese. Era amico di Delors e di Gaston Thorn, suo predecessore alla presidenza della Commissione europea. Vedeva spesso Kohl».

Torino ricorda l'avvocato Agnelli

Quando vi siete incontrati per la prima volta?
«Negli anni 60. Allora lavoravo in America per l’Olivetti. Mi mandò a chiamare, mi fece molte domande. A lungo non si fece più vivo. Poi nell’aprile 1970 mi telefonò: "Sono a New York. Lei cosa sta facendo?". D’istinto gli dissi la verità».

Vale a dire?
«Stavo andando a giocare a tennis con mia moglie. Lui si scusò: "Speravo mi potesse raggiungere". Rinunciai al tennis».

E le chiese di guidare l’Ifi, la finanziaria di famiglia.
«A dire il vero, come prima cosa mi chiese, visto che ero nel board del Moma, se potevo aiutarlo a visitare il museo nel giorno di chiusura: c’era una mostra dedicata alla collezione di Gertrude Stein che gli interessava. Ci riuscii, e lui ne fu molto felice. Volle rivedere anche la collezione permanente. Riconosceva tutti i quadri da lontano: "Quello è Braque, quello Picasso" e così via. E comunque sì, mi chiese di lasciare l’Olivetti per l’Ifi. Avvertii il mio presidente di allora, Visentini».

Come la prese?
«Malissimo. Cossa vol queo lì? (Gabetti si produce in un’imitazione perfetta di Visentini). Partì subito per gli Stati Uniti. Dovetti dirgli che avevo deciso di accettare. Lo riaccompagnai all’aeroporto in un silenzio tombale. Poi telefonai ad Agnelli».

Lei non lo chiamava Avvocato, vero?
«No. In presenza di altri, lo chiamavo presidente. E ci siamo sempre dati del lei. Stavo attento a non avvicinarmi troppo a lui, e glielo dissi. Il rischio era restare schiacciati dalla sua personalità: avrei perso il mio punto di vista, e non avrei più potuto essergli utile».

Com’erano i vostri rapporti?
«Mi telefonava tutti i giorni, sempre alle 6 e 40: "Gabetti, cosa c’è di nuovo?". In realtà, lui ne sapeva molto più di me: aveva già letto i giornali - li mandava a prendere alle 5 del mattino alla stazione di Porta Nuova - e telefonato in America a Kissinger, che non amava ricevere chiamate la sera, ma per Agnelli faceva eccezione. Ogni tanto mi invitava a pranzo a Villa Frescot. Pranzi simbolici: un piccolo risotto, un trancio di pesce, un bicchiere di vino francese. Solo alla fine sono riuscito a fargli scoprire i vini piemontesi: prima Gaja, poi Ceretto e Bartolo Mascarello con la complicità del suo fidatissimo Bruno Gasparini».

Il leggendario maggiordomo Brunetto.
«Lui. Si stava a tavola meno di mezzora. Poi Agnelli andava a riposare».

Parlava piemontese?
«Un poco. L’aveva imparato dal nonno, e lo citava volutamente. Di una persona immatura diceva: A l’è ’na masnà, è un bambino. Era profondamente legato a Torino. Si è battuto molto per l'assegnazione delle Olimpiadi invernali: stava già male, si fece caricare a forza di braccia sull’elicottero che doveva portarlo a Sion, dove si teneva la riunione decisiva».

Lei è stato partigiano. Parlavate mai della guerra e della Resistenza?
«Qualche volta sì. In guerra Agnelli aveva fatto più di quel che gli era richiesto. Passò un inverno in Russia. Poi la sua unità fu spostata in Africa. Il carro armato davanti al suo, su cui stava il comandante, il colonnello Lequio, fu falciato da uno Spitfire inglese».

E dopo l’8 settembre?
«Non ebbe dubbi su quale fosse la parte giusta. Del resto non aveva mai avuto simpatia per il fascismo. Certo, a Roma aveva conosciuto Ciano. Ma a Torino il nonno gli aveva messo accanto Massimo Mila e Franco Antonicelli, di cui tutti sapevano che erano antifascisti. Un giorno Antonicelli non venne: era stato arrestato. Dopo l’8 settembre Agnelli passò le linee per unirsi alle formazioni italiane che combattevano con la Quinta Armata. Ebbe un grave incidente, fu assistito dalla sorella Suni, che faceva la crocerossina. Erano giorni di grande incertezza, l’Europa era stata divisa a Yalta ma non si sapeva ancora se l’Italia sarebbe stata nella sfera d’influenza americana o in quella sovietica. Corse voce che Stalin avesse rinunciato perché preferiva non avere direttamente a che fare con il Papa».

È vero che lei era contrario al primo intervento della Fiat nel Corriere?
«Sì. Gli dissi che non la vedevo chiara, che in Rizzoli avremmo trovato molte realtà che non conoscevamo».

E lui?
«Per lui il Corriere era un simbolo. Un giorno mi mandò a chiamare. Mi dissero che stava scendendo, lo aspettai in cortile. Parlammo a lungo. Poi salì in macchina - gli piaceva guidare di persona, usando solo la mano destra - e prima di partire abbassò il finestrino e disse solo: "Ah, alla fine il Corriere l’abbiamo preso". E filò via».

Com’era il suo rapporto con l’America?

«A dicembre ho rivisto David Rockefeller e Kissinger: entrambi sono convinti che Agnelli sia stato, su scala mondiale, l’italiano più significativo e importante del secolo breve. Capitava che avvertisse all'ultimo momento del suo arrivo a New York, e ogni volta era facile organizzare una colazione alla quale si premuravano di venire, annullando sovente impegni, oltre a Kissinger e a David Rockefeller, suo fratello Nelson, Warren Buffett, André Meyer. Una volta c’era David Paley, presidente della Cbs, un’altra Katherine Graham proprietaria del Washington Post, un’altra ancora il direttore del New York Times. Tutti vedevano in Agnelli la persona che meglio poteva metterli al corrente non solo delle cose italiane, ma anche dei principali Paesi europei e sudamericani. Quanto fu felice quando acquisimmo un pacchetto importante di azioni del Rockefeller Center…».

Come andò?
«David Rockefeller era rimasto molto dispiaciuto che, per una serie di vicende alle quali eravamo rimasti estranei, il Rockefeller Center, simbolo della potenza americana, fosse finito in mano ai giapponesi. Con i colleghi studiai una soluzione che avrebbe consentito di porre rimedio. Ne feci menzione ad Agnelli e lui si elettrizzò a quella idea. Con il concorso di Jerry Speyer, importante esponente del real estate americano e con l’appoggio di Goldman Sachs, riuscimmo nell’impresa. Non posso dimenticare lo scoppio di allegria dell’Avvocato quando poté darne notizia al suo amico David. Intendiamoci: non avrebbe mai fatto, con i soldi dei suoi familiari e degli azionisti terzi, un affare per un amico personale; ma l'idea che un’operazione di quella importanza, che molto giovò anche al prestigio del nostro gruppo, potesse essere condivisa non solo con un grande americano, ma a con un grande amico, lo rese felice. Agnelli non era un sentimentale, ma era capace di forti sentimenti e di forti amicizie».

Lei non sapeva di fondi dell’Avvocato all’estero?
«Non mi sono mai occupato del patrimonio personale dell’Avvocato, in Italia o all’estero. Per quanto riguarda l’Ifi, dal '71 in avanti preparai con ottimo successo un programma di diversificazione degli investimenti sui mercati internazionali. Ma negli ultimi anni della sua vita l’Avvocato mi disse di liquidare gli investimenti esteri dell’Ifi e delle sue controllate Ifil e Ifint (poi affluite nell’attuale Exor) in modo che i ricavi fossero impiegati per far fronte alle esigenze della Fiat, la cui situazione si era venuta sempre più aggravando. Dopo la sua morte, quelle risorse vennero in effetti utilizzate anzitutto per la ricapitalizzazione a cascata dell’intero gruppo, con sbocco finale sulla Fiat. Dopo la scomparsa di Umberto, attingemmo a quelle stesse risorse per finanziare la nostra operazione di equity swap».

Cioè l’operazione che consentì alla famiglia di mantenere il controllo della Fiat, ma costò a lei e a Grande Stevens un processo.
«Fu un’operazione di difesa da iniziative speculative che avrebbero minato la compattezza del patrimonio del principale gruppo industriale del Paese, facendone uno "spezzatino"».

Iniziative da parte di chi?
«Non l’ho mai saputo con certezza. Nel 2006 la procura di Torino eccepì sul testo della nostra comunicazione alla Consob e iniziò una vicenda giudiziaria che ci ha visti vincenti in primo grado. Ora il processo è in grado di appello».

È vero che Agnelli aveva soggezione di Cuccia?
«Non direi. Ammirava molto la sua cultura, era affascinato dal suo stile monastico e dalle maniere perfette, lo divertiva il suo humour - Cuccia esplodeva talora in risate improvvise -, ma badava a che il rapporto rimanesse sempre in equilibrio. Se Cuccia si addentrava nelle vicende del nostro gruppo al di là di un certo segno, Agnelli non lo assecondava, anche perché lui non si sarebbe mai peritato di occuparsi delle cose di Mediobanca. Avevano in comune la stima per Adolfo Tino e per Ugo La Malfa, l’unico politico che l’Avvocato tenesse davvero in grande considerazione. Le conversazioni tra Agnelli e Cuccia erano uno spettacolo. Davano su vari personaggi giudizi taglienti, anche se mai feroci».

Quali personaggi?
«Mai su dirigenti del nostro gruppo. Più facilmente sui politici».

Quali erano i difetti dell'Avvocato?
«Erano il reciproco delle sue qualità. Era molto rapido, e questo poteva andare a scapito dell’approfondimento. Va detto però che la sua capacità di capire al volo cose e persone era impressionante. Non è vero che soffrisse la noia. Lo facevano soffrire le persone noiose; ma non al punto da farlo diventare scortese».

Com’era il rapporto con il nipote John?
«Il modello era il rapporto che lui a sua volta aveva avuto con il nonno, il Senatore. L’Avvocato puntava su John e sono certo che non ne fu mai deluso. Lo mandò a conoscere Cuccia e Kissinger. Una volta incontrai l’Avvocato a Parigi con John e Lapo: li stava portando a visitare un museo, era molto serio».

E il rapporto con il figlio Edoardo?
«La sua morte fu un colpo durissimo, reso ancora più grave dal dolore di non essere mai riuscito a stabilire un rapporto con lui».

Credeva in Dio? Era religioso?
«Negli ultimi tempi si poneva la questione. Ne parlava in particolare con Bobbio, che vedeva con regolarità. Aveva apprezzato molto “De senectute”, il suo libro sulla vecchiaia; casa Bobbio era diventato il suo confessionale. Aveva avuto un’educazione religiosa, la domenica andammo qualche volta a messa insieme a Villar Perosa. È vero che lui qualche volta stava in piedi; ma in fondo alla chiesa».

Quand’è stata l'ultima volta che l’ha visto?
«Era già molto provato, costretto sulla sedia a rotelle, con le mani rovinate dai segni delle flebo. Era sempre molto composto però. Sino alla fine ha avuto un atteggiamento quasi da soldato: ad esempio non ci stringevamo quasi mai la mano, secondo le migliori tradizioni militari. Al momento di lasciarci, però, mi prese la destra e se la posò sulla guancia. Mi chiese di tenere unita la famiglia. Poi mi fece una sorta di saluto militare, e mi congedò».

23 gennaio 2013 (modifica il 24 gennaio 2013)

da - http://www.corriere.it/cultura/13_gennaio_23/agnelli-intervista-gabetti_d82ea060-65a4-11e2-a9ef-b9089581fbcf.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. I PARTITI E IL RITORNO DI ANTICHI STECCATI
Inserito da: Admin - Febbraio 01, 2013, 12:09:51 am
I PARTITI E IL RITORNO DI ANTICHI STECCATI

Il richiamo della foresta


Se questa campagna elettorale fosse un film o un romanzo, il titolo non potrebbe che essere «Il richiamo della foresta». Anziché rivolgersi nel complesso a un elettorato mai così incerto, i leader preferiscono rinfocolare i propri sostenitori. Si spiegano così non soltanto la grottesca uscita di Berlusconi sul Duce, ma anche la composizione delle liste del Pd e la sua strategia di comunicazione: «silenziare» renziani e veltroniani, privarsi volentieri di riformisti come Pietro Ichino, puntare su ex leader della Cgil e pure su operaisti anni 70 come Mario Tronti. Quanto alla lista Monti, non è riuscita a scrollarsi di dosso l'immagine di «partito dei notabili»; tanto più che la «terremotata povera» vantata dal presidente del Consiglio era in realtà la moglie di un funzionario del Senato. Se poi si considerano le leghe Nord e Sud, che per definizione presidiano il proprio territorio, la sindrome del «richiamo della foresta» appare ormai conclamata.

Il risultato sarà un voto molto diverso da quello del 2008. All'epoca l'elettorato si concentrò su due grandi partiti. Per la prima volta dal 1976, l'Italia aveva due forze, Pdl e Pd, al 38 e al 34 per cento (curiosamente nello stesso rapporto numerico che legava Dc e Pci). Il voto del 2013 si annuncia molto più frammentato. Dopo le ultime elezioni entrarono in Parlamento cinque partiti (oltre ai due maggiori e ai rappresentanti delle minoranze linguistiche, anche Lega Nord, Italia dei valori e Udc). Stavolta, considerate le casacche oggi mimetizzate in aggregazioni come quelle di Ingroia ma pronte domani per essere esibite dopo il voto, il numero dei partiti potrebbe uscirne moltiplicato o elevato a potenza.

Intendiamoci: mobilitare i propri elettori è una necessità in qualsiasi sistema politico, compresi quelli bipartitici come gli Stati Uniti.
Ma non si vincono le elezioni, e non si pongono le premesse per un governo solido, senza parlare all'intero Paese, senza avanzare una proposta valida per la gran parte dell'opinione pubblica. L'occasione del 24 febbraio è irripetibile. Perché non ci sono mai stati tanti cittadini che non sanno per chi votare. Giovani chiamati alle urne per la prima volta. Cattolici disorientati dalla fine di una stagione. Associazioni deluse dai punti di riferimento tradizionali. Mai come ora ci sarebbe spazio per politiche in grado di andare oltre antichi steccati: come non vedere, ad esempio, che imprenditori e lavoratori hanno interessi analoghi di fronte alla declinante egemonia della finanza? Che temi come il sostegno alla natalità e alle donne che lavorano sono sentiti in ceti sociali e territori molto diversi?

C'è poi una questione cui gli elettori sono estremamente sensibili ma che i candidati esitano a mettere al centro della discussione: i tagli al costo della politica. Il tema è affrontato con una sorta di virginale pudore; forse perché comporta un'autocritica per il passato.
Ma non basta qualche nota in fondo a pagine di programmi verbosi e inutili. Serve un impegno chiaro, da assumere non come corollario ma come premessa di qualsiasi azione riformatrice: ridurre drasticamente il numero dei parlamentari, le loro indennità, i loro privilegi.

Chi assumesse oggi con forza questo impegno sarebbe ancora in tempo per mutare il destino di una campagna, che sinora sembra fatta apposta per aizzare i tifosi e allontanare gli indecisi.

Aldo Cazzullo

31 gennaio 2013 | 11:32© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_gennaio_31/richiamo-foresta_e46eb7aa-6b6e-11e2-bfdf-0d9d15b9395f.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Un’impresa a rischio forzatura
Inserito da: Admin - Febbraio 14, 2013, 05:21:00 pm
CONTRO

Un’impresa a rischio forzatura

L'esordio dell'atleta sudafricano, bi-amputato, ai Giochi olimpici. In pista con le protesi va in semifinale nei 400


Vi è parso che la presenza di Pistorius alle Olimpiadi fosse una bella storia innestata su una forzatura? Non siete gli unici. Sono d’accordo con voi. Partecipare alle Olimpiadi è il sogno di tutti i ragazzi. Miliardi di ragazzi. Purtroppo, solo diecimila ci riescono. E la grande maggioranza di loro resterà del tutto anonima. La crudeltà della natura e i limiti della volontà umana effettuano una spietata e a volte ingiusta selezione. Altre volte la natura, e la sorte, sono particolarmente ingiuste. Una mutilazione o una malattia spezzano carriere o vocazioni da atleti. Per questo hanno inventato le Paralimpiadi.

Un grande successo. Ci sono atleti, pubblico, entusiasmo, anche sponsor. Perché quasi in ogni famiglia c’è una storia che può riconoscersi nell’evento. Anche Pistorius ha il suo sponsor. Che ieri ha comprato paginate su tutti i giornali inglesi, per propagandare la sua impresa: partecipare alle Olimpiadi, quelle «vere». Legittimo. All’apparenza, la sua è una storia fuori dall’ordinario. In realtà, è tutta dentro la logica promozionale sintetizzata dallo slogan «nothing is impossible», traduzione del latino «nihil difficile volenti»: nulla è impossibile, se davvero lo vuoi. Neppure gareggiare con sofisticatissimi attrezzi che è politicamente corretto chiamare gambe. Purtroppo, la realtà è diversa. Nella realtà, tantissime cose sono impossibili, anche se le desideriamo con tutto il nostro cuore. Banalmente, è ormai impossibile anche salire sul podio di una gara veloce se si è bianchi e non dopati; condizione abbastanza diffusa. La tecnologia avanza, e presto potrà risolvere molti problemi che a noi sembrano senza soluzione. Presto ogni deficit di natura o di accidente sarà almeno in superficie risolto, ogni limite congenito o dettato dalla sorte sarà colmato. Ma non credo che le persone diversamente abili abbiano bisogno di questo. Hanno già adesso, qui e ora, molti modi di mettere la loro forza morale al servizio della comunità, o anche solo di se stessi. Wolfgang Schaeuble, l’uomo più potente d’Europa, che governa l’economia tedesca e modera gli eccessi della donna più potente, la Merkel, è da decenni su una sedia a rotelle. Lui e i tanti come lui non hanno bisogno di un Pistorius per sentirsi padroni di se stessi e partecipi di una realtà comune. Il resto è una forzatura. Più che ai bambini afghani senza gambe, serve allo sponsor che compra paginate sui giornali inglesi.

Aldo Cazzullo

5 agosto 2012 | 11:56© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://olimpiadi.corriere.it/2012/notizie/05-agosto-un-impresa-a-rischio-cazzullo_8fac4cd2-dee2-11e1-9e96-0d6483763225.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Il loden, il cane, l'ombra della Merkel
Inserito da: Admin - Febbraio 26, 2013, 05:12:55 pm
Il loden, il cane, l'ombra della Merkel

«Incompresa» l'idea del Professore

Con le parole d'ordine Europa e rigore, è diventato il candidato del sistema. La scomparsa del centro.


Ancora due mesi fa, pareva la volta buona che il centro, per quasi mezzo secolo luogo storico della Prima Repubblica e poi sepolto dalla Seconda, potesse risorgere. Le condizioni all'apparenza erano propizie. La sinistra, persa incredibilmente la chance Renzi, appariva - ed era - inchiodata al suo insediamento tradizionale.

La destra, ostaggio dei ripensamenti e dei guai di Berlusconi, sembrava sul punto di frantumarsi. E il centro trovava in Mario Monti un candidato autorevole, per giunta presidente del Consiglio uscente e punto di riferimento per Bruxelles, i partner europei, le gerarchie ecclesiastiche, i mercati, l'establishment internazionale. Ma il voto di ieri segna una rivolta proprio contro l'Europa, contro le gerarchie di qualsiasi segno, contro ogni establishment. I favori di Angela Merkel, come già dimostra la sconfitta di Sarkozy, non portano bene. E la Chiesa ha altro a cui pensare.

Al di là del risultato finale di Monti, che date le circostanze potrebbe anche non essere disprezzabile, non c'è dubbio che l'operazione centrista sia fallita. Perché il presupposto era la disgregazione della destra, il crollo del blocco sociale Berlusconi-Lega, la ricostruzione di una casa per i moderati italiani sulle macerie di leaderismi e populismi. Il Ppe, il fantomatico Partito popolare europeo, era pronto. Il Paese no. Il centro sotto il profilo politico quasi non esiste più. Prima ancora, si è volatilizzato sotto il profilo sociale, quasi antropologico.

I moderati italiani, nella loro maggioranza, non sono più gli stessi; e non sono più neppure così moderati. Vent'anni di berlusconismo e leghismo hanno cambiato rappresentanza, toni, linguaggio del centrodestra; o forse ne hanno rivelato la vera natura, liberata dalle mediazioni e dalle cautele del quarantennio democristiano. Dopo averlo bene o male sostenuto in Parlamento, Berlusconi ha incentrato la sua campagna elettorale contro Monti e contro tutto quel che Monti rappresenta: l'Europa, la moneta unica, il rigore finanziario, e ovviamente l'Imu, additato come il simbolo del governo tecnico. E il fatto che l'accordo tra il centro e la sinistra fosse l'unica coalizione di governo ipotizzabile alla vigilia non ha certo aiutato Monti nella difficile operazione di recupero dei delusi dalla destra.

Ancora peggio è andata a Fini e Casini. Assurti a paradigma dei politici di professione, pagano al di là dei loro demeriti. Fini non rientra alla Camera, di cui era presidente, perché si è ritrovato solo; la destra lo considera un traditore per la sua battaglia antiberlusconiana, i riformisti cui sperava di rivolgersi non si riconoscono in lui. Casini aveva scommesso sul crollo del bipolarismo, e in effetti un terzo Polo è emerso; ma non è il suo. L'Udc non ha mai avuto un grande peso elettorale, ma in questi mesi aveva esercitato un ruolo importante, dal Csm alla Rai, che da oggi farà certo più fatica a rivendicare. Chi pensava che il mondo cattolico si schierasse, è rimasto deluso: dalle Acli a Sant'Egidio, il peso di associazioni e movimenti non è stato affatto decisivo, anche perché talora le prime file non sono scese in battaglia; il che vale ovviamente pure per gli industriali, a cominciare da Montezemolo.

Alla Camera la lista Monti fagocita gli alleati, ma non c'è dubbio che pure il Professore abbia sbagliato campagna elettorale: i tentativi di «umanizzarlo» spogliandolo del loden e mettendogli in braccio cagnolini randagi gli ha tolto autorevolezza senza dargli popolarità; il resto l'ha fatto la legge dei media, che ogni giorno estraeva dal suo periodare denso una frasetta che irritava ora Bersani, ora i cattolici - l'indicazione della Bonino al Quirinale -, ora persino l'«amica» Merkel. Però la vera incomprensione è stata con gli italiani. Da premier, Monti ha imposto sacrifici inevitabili ma pesanti, e da candidato ha proposto riforme radicali e ragionamenti complessi a un elettorato disilluso e arrabbiato.

Berlusconi, che è in politica da vent'anni, è in parte riuscito a presentarsi come forza antisistema. Monti, che era all'esordio, ha finito per divenire l'emblema del sistema stesso. Paradossalmente, se avesse rinunciato a candidarsi oggi potrebbe rimanere al suo posto, a Palazzo Chigi, unico punto di riferimento di un Paese ingovernabile. La scelta di giocare la partita di persona rende tutto più difficile. Forse, tra qualche tempo, quando la rabbia si sarà attenuata, si potrà giudicare l'anno di governo tecnico in modo più generoso. Resta il fatto che gli italiani non sono più gli stessi, o sono sempre di meno coloro che si riconoscono in un certo linguaggio, in uno stile, in una visione del Paese e dell'Europa. Non è ancora, o forse non è più, tempo per centristi.

Aldo Cazzullo

26 febbraio 2013 | 8:13© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/speciali/2013/elezioni/notizie/26-febbraio-loden-cane-ombra-merkel-cazzullo_f9b469e4-7fe0-11e2-b0f8-b0cda815bb62.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO I riferimenti al fondatore dei gesuiti. E il pensiero al poverello
Inserito da: Admin - Marzo 14, 2013, 03:57:04 pm
I riferimenti al fondatore dei gesuiti. E il pensiero al poverello di Assisi

«Le nuove vesti? Prima si va dalla Madonna»

La prima giornata da pontefice di Papa Francesco.

La preghiera davanti all'icona Salus populi romani

di  ALDO CAZZULLO


Ai cerimonieri che come prima cosa volevano portarlo dal sarto, Papa Francesco l’ha detto fin dalle 5 e mezza di stamattina: prima si va dalla Madonna. E i francescani della basilica di Santa Maria Maggiore l’hanno appreso quando, aprendo la chiesa, hanno trovato la gendarmeria vaticana in perlustrazione.

Jorge Mario Bergoglio è arrivato alle 8 e ha compiuto pochi gesti, tutti significativi. Ha pregato sull’antichissima icona della Madonna, la «Salus populi romani», dipinta secondo la tradizione da San Luca, cui i gesuiti come lui sono legatissimi: i missionari della Compagnia di Gesù che andarono ad annunciare il Vangelo in Cina portavano proprio la riproduzione di questa icona. Poi Papa Francesco ha pregato nella cappella Sistina di Santa Maria Maggiore, dove Ignazio da Loyola, fondatore dei gesuiti, ha celebrato la prima messa. Ha sostato davanti alla tomba di san Pio V, il Papa di Lepanto e anche unico Papa piemontese della storia, prima di Bergoglio, che è argentino ma di genitori piemontesi. Si è inginocchiato davanti ai resti della mangiatoia di Betlemme. Prima di andarsene, ha raccomandato a padre Ennio Monteleone, a padre Angelo Gaeta a agli altri confessori della basilica: «Siate misericordiosi».

Infine ha pregato san Francesco Saverio, altro gesuita, e san Francesco d’Assisi, davanti alla pala d’altare nella navata sinistra che raffigura l’estasi del Poverello. Ma tutti in chiesa hanno pensato a un’altra immagine, quella affrescata da Giotto nella basilica superiore ad Assisi: il sogno di Innocenzo III, con Francesco che sostiene la Chiesa e ne evita il crolllo.

14 marzo 2013 | 10:33

da - http://www.corriere.it/esteri/speciali/2013/conclave/notizie/14-cazzullo-papa-francesco-santa-maria-maggiore_38b99f32-8c8a-11e2-ab2c-711cc67f5f67.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Una scossa per tutti
Inserito da: Admin - Marzo 15, 2013, 06:29:07 pm
Una scossa per tutti

La sfida al mondo vecchio che Jorge Mario Bergoglio ha lanciato con i primi, rivoluzionari gesti del suo pontificato, a cominciare dalla scelta del nome, non è rivolta solo alla Chiesa. È rivolta anche a noi. Ci riguarda. Il coraggio con cui il nuovo Papa intende combattere la corruzione, gli intrighi, l'ostentazione, l'egoismo non si fermerà alle mura del Vaticano o sul sagrato delle parrocchie. Investirà la comunità dei credenti e l'intera società: non solo le autorità politiche, con cui Bergoglio ha sempre avuto rapporti franchi e tutt'altro che compiacenti, dai militari a Menem, da De la Rua ai Kirchner; ma pure le coscienze di tutti e di ciascuno.

È bello avere un Papa che dopo l'elezione non sale sulla Mercedes scura ma sul pullmino con i cardinali, che rimanda i sarti venuti a prendergli le misure per andare a portare un mazzo di fiori alla Madonna, che paga il conto della stanza dov'era ospitato a Roma dopo aver cambiato da solo la lampadina bruciata. Però il carisma fortissimo di papa Francesco non va ridotto a questo, non si esaurisce nel rappresentarlo come «uno di noi». Certo, in una stagione di impoverimento, l'esempio della massima autorità religiosa dell'Occidente che vive - nei limiti che saranno possibili - con uno stile semplice è incoraggiante, e dovrebbe essere di monito a cardinali e politici. Ma la rivoluzione di papa Francesco è più ampia. Le sue spalle non intendono solo sostenere la chiesa che crolla, come nel sogno di Innocenzo III affrescato ad Assisi da Giotto. Non è solo la crisi economica la sua angoscia. È la crisi della modernità, che ci colpisce tutti, religiosi e laici, ricchi e poveri.

Fa impressione sentire il Papa parlare di «mondanità del demonio», che consiste nel «mettere al centro se stessi. È quello che Gesù vede tra i farisei: "Voi che date gloria a voi stessi, gli uni agli altri"». Non a caso, affacciandosi su piazza San Pietro, Francesco ha invitato i fedeli a dare gli uni agli altri non gloria ma «amore, fratellanza, fiducia». Il Papa denuncia un mondo in cui non c'è rispetto per il prossimo e non c'è fiducia nel domani. Nessuno si fida dell'altro e a maggior ragione della Chiesa e dello Stato. In molti confondono la mitezza con la debolezza, non onorano i debiti, non confessano più i crimini o anche solo gli errori.

Al nichilismo dei tempi il Pontefice ha opposto ieri «edificazione, confessione, cammino». L'ha fatto con stile umile ma potente, da discepolo di san Francesco e da rigoroso soldato della Compagnia di Gesù. Il suo motto è Miserando atque eligendo : avere misericordia per tutti, ma scegliere; distinguere l'innocente e il colpevole, il giusto e l'ingiusto, il meritevole e l'ignavo. Per questo voler imprigionare papa Francesco nelle categorie di conservazione e progressismo, o peggio ancora destra e sinistra significa perdere l'occasione che ci offre. Perché quando suonano le campane di San Pietro, non dobbiamo chiederci se suonano per il segretario di Stato o per la Curia o per lo Ior; esse suonano per noi.

Aldo Cazzullo

15 marzo 2013 | 9:11© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_marzo_15/scossa-per-tutti_4d91cb3e-8d32-11e2-b59a-581964267a93.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Renzi: «Ora patto con il Pdl oppure alle urne
Inserito da: Admin - Aprile 04, 2013, 05:22:17 pm
L'intervista «In sei mesi si può cambiare la legge elettorale e anche abolire le Province»

Renzi: «Ora patto con il Pdl oppure alle urne

Bersani si è fatto umiliare dagli arroganti M5S»

Il sindaco di Firenze: basta vivacchiare, bisogna avere le idee chiare. Riuniamo i gruppi e lanciamo una proposta forte


«Pensiamo a cos'è successo nel mondo dal 25 febbraio a oggi. In Vaticano c'era ancora Ratzinger; in un mese è stata scritta una pagina di storia. Il pianeta corre. E l'Italia è totalmente ferma. Le aziende chiudono. La disoccupazione aumenta. E la politica perde tempo. La tempistica prevista dalla Costituzione va rispettata. Ma qui si sta facendo melina. Si rinvia tutto alla scelta di un presidente della Repubblica più sensibile a dare l'incarico a Tizio o a Caio. Ma questo alimenta l'antipolitica. La vera moralità non è solo tagliare i costi; è rendere efficiente quel che fai».

Matteo Renzi, cosa dovrebbe fare il Pd? Un governo con il Pdl, o no?
«Il Pd deve decidere: o Berlusconi è il capo degli impresentabili, e allora chiediamo di andare a votare subito; oppure Berlusconi è un interlocutore perché ha preso dieci milioni di voti. Non è possibile che il noto giurista Migliavacca un giorno proponga ai grillini di votare insieme la richiesta di arresto per Berlusconi, che tra l'altro non è neanche arrivata, e il giorno dopo offra al Pdl la presidenza della convenzione per riscrivere la Carta costituzionale. In un momento si vagheggia Berlusconi in manette, in un altro ci si incontra di nascosto con Verdini. Non si può stare così, in mezzo al guado. Io ho tutto l'interesse a votare subito. Ma l'importante è decidersi».

Se si torna a votare subito con Bersani candidato premier, lei che fa?
«Guardi, non nego che fino a qualche settimana fa la mia valutazione passava dal capire cosa potevo fare da grande. Ma in questo momento è secondario quel che fa Renzi o quel che fa Bersani. Qui c'è una crisi talmente profonda che una sola cosa conta davvero: quel che fa l'Italia.
Io parlo contro il mio interesse. In tanti mi dicono: "Matteo stai buono, non fare interviste, stai zitto, tanto la prossima volta tocca a te". Ma io non ragiono in questo modo. Non voglio stare buono così qualcosa mi tocca. Non voglio essere cooptato da altri. Non voglio essere l'ultimo di quelli che c'erano prima. Semmai vorrei essere il primo di una fase nuova. E mi stupisco quando sento dire da alcuni dei nostri: "Non possiamo fare questa cosa perché gli italiani non ci capirebbero". Non sono gli italiani che non ci capiscono; siamo noi che non capiamo loro.
Come se gli italiani fossero meno capaci di noi di intendere o di volere....».

Quindi il Pd secondo lei dovrebbe fare un accordo con Berlusconi.
«Non necessariamente. Deve smettere di fare melina. Non parto dall'accordo con Berlusconi. Parto dal fatto che si devono avere idee chiare.
O si va a votare, e la cosa non mi spaventa; anche se, ad andare in Parlamento, non trovi un deputato convinto in cuor suo che si debbano sciogliere le Camere, per quanto nessuno abbia il coraggio di dirlo fuori. Altrimenti si fa un patto costituente da cui nasce la Terza Repubblica. Qui invece si punta a prendere tempo e a eleggere un capo dello Stato che ci dia più facilmente l'incarico di fare il nuovo governo».

Lei chi vedrebbe al Quirinale?
«Si figuri se mi metto a fare dei nomi. L'importante è che sia una personalità autorevole, scelta pensando ai prossimi 7 anni, non alle prossime 7 settimane».

Ma il Pd deve scegliere il capo dello Stato con Grillo o con Berlusconi?
«Non si deve partire dagli equilibri tattici, ma dalle persone. Si trovi una candidatura forte; poi chi ci sta ci sta. Allo stesso modo, per il governo si deve partire dalle cose da fare».

Quali cose?
«Anziché vivacchiare, rendiamo utile questo tempo. Bersani riunisca fin dalla prossima settimana i gruppi parlamentari. Non l'ennesima direzione che diventa una seduta di autocoscienza; i gruppi parlamentari, che tra l'altro sono quasi tutti bersaniani. Giovani in gamba, persone di valore, che però si sono riuniti finora, credo, solo tre volte. Lanciamo una proposta forte. Il sindaco d'Italia: una nuova legge elettorale, grazie a cui si sa subito chi ha vinto. Abolizione del Senato, che diventa la Camera delle autonomie, con i rappresentanti delle Regioni e i sindaci delle grandi città che vanno a Roma una volta al mese e lavorano senza ulteriori indennità; così il Parlamento è più efficiente e costa la metà».

Sono leggi costituzionali. Ci vuole tempo.
«In sei mesi si può fare. Come anche l'abolizione delle Province; per davvero però, non per finta come si è fatto finora. Se invece riteniamo che lo spazio per parlare con il centrodestra non ci sia, allora andiamo a votare. Ma in fretta».

Comunque il patto costituzionale passa attraverso un accordo di governo con il Pdl. Proprio quello che Bersani esclude.
«Andare al governo con Gasparri fa spavento, lo so. Non a caso io sono pronto a votare subito. Ma se il Pd ha paura delle urne deve dialogare con chi ha i numeri. Il Pd avanzi la sua proposta, senza farsi umiliare andando in streaming a elemosinare mezzi consensi a persone come la capogruppo dei 5 Stelle, che hanno dimostrato arroganza e tracotanza nei nostri confronti».

Che impressione le ha fatto quella diretta?
«Mi veniva da dire: "Pierluigi, sei il leader del Pd, non farti umiliare così!". Ho pensato a cosa doveva provare una volontaria che va a fare i tortellini alla festa dell'Unità: credo ci sia rimasta male nel vedere il suo leader trattato così, alla ricerca di un accordicchio politico».

Grillo è il vero vincitore delle elezioni, con lui si dovrà pur parlare.
«Se avessimo fatto ciò che dovevamo fare Grillo non arrivava a doppia cifra. Se un marziano fosse arrivato in Italia il 25 febbraio, avrebbe visto tre leader tutti e tre convinti di aver vinto o comunque di essere andati bene, più un quarto, Monti, che diceva: in pochi giorni non potevo fare di più. Nel frattempo l'economia attraversa una crisi drammatica. E noi passiamo le giornate a farci spiegare dalla Lombardi, con un'arroganza che non si vedeva dai tempi della Prima Repubblica, cosa siamo e cosa non siamo? Rivendico il diritto alla dignità della politica, che è una cosa seria. Noi non dobbiamo inseguire Grillo. Facciamo noi i tagli alla politica, aboliamo il finanziamento pubblico ai partiti e poi vediamo chi insegue».

Ci sono i dieci saggi al lavoro.
«Cosa ci possono dire di nuovo Violante e Quagliariello? Non sono certo la soluzione, al più possono essere concausa della crisi. Lo dico con grande rispetto per il presidente Napolitano: dare la colpa a lui per l'impasse è come dare la colpa al vigile se in città c'è traffico.
Ma ora il Pd deve avere un sussulto di orgoglio: via il Senato, via le province, legge elettorale dei sindaci. Una gigantesca operazione di deburocratizzazione, con una grande scommessa sull'on line. E un piano per il lavoro, che dia risposte al dolore delle famiglie e alle sofferenze delle imprese. Vedo invece che hanno ancora rinviato il decreto per pagare i debiti della pubblica amministrazione, e mi chiedo: ma questi da quanto tempo non vanno in un'azienda?».

Ce l'ha con Monti?
«Monti ha fatto un lavoro importante, soprattutto all'inizio. Ora deve proseguire, fino a quando non avremo un nuovo governo».

E Berlusconi? Come sono in realtà i vostri rapporti? E' vero che le ha proposto di fare un partito insieme?
«Macché. L'ho visto quattro volte in vita mia. Ad Arcore, com'è noto. All'inaugurazione dell'alta velocità. In prefettura a Firenze nel 2006.
E, nel novembre 2011, a San Siro, dove lui era per il Milan e io per il mio amico Pep Guardiola. Non lo vedo da allora. L'accusa di intelligenza con il nemico è tipica di una parte del nostro schieramento. Io non voglio Berlusconi in galera. Voglio Berlusconi in pensione».

E intanto va da Maria De Filippi.
«La polemica su Amici è emblematica di un astio ideologico verso gli italiani che non sopporto. Rivendico il diritto e il dovere di parlare ai ragazzi che seguono Amici, che non sono meno italiani dei radical chic che mi criticano. Io voglio cambiare l'Italia mentre una parte della sinistra vuole cambiare gli italiani. Sono due cose diverse...».

Ma perché andarci proprio con il "chiodo"?
«Chi mi rimprovera di aver scelto un abbigliamento alla Fonzie forse si sente un po' Ralph Malph».

Se si torna a votare, lei chiederà al Pd nuove primarie?
«Sì. Non posso essere legittimato dal gruppo dirigente che intendo cambiare. Ma in questo momento non mi pongo il problema.
Certo non posso dimettermi da italiano. Voglio bene al Pd, ma prima ancora voglio bene all'Italia. E non riesco a restare in silenzio di fronte allo spettacolo di una politica che continua a pescare la carta "tornate al vicolo corto". Dobbiamo dare un orizzonte al Paese, perché anche le aziende che vanno bene o i privati che potrebbero consumare oggi sono rannicchiati, impauriti».

Lei vorrebbe una politica finanziata solo da privati. Ma così, dice Bersani, la faranno soltanto i ricchi. Gli imprenditori che la finanziano non le hanno mai chiesto qualcosa in cambio?
«A Firenze ho varato un piano regolatore a volumi zero: non si può più costruire, solo restaurare; non mi sono certo fatto condizionare da interessi privati. E poi in Italia abbiamo il più grande finanziamento pubblico ai partiti dall'Occidente; non mi pare che questo abbia dissuaso i ricchi dal fare politica».

Aldo Cazzullo

4 aprile 2013 | 8:55© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_aprile_04/intervista-renzi-bersani-si-e-fatto-umiliare_d6de1dac-9ce6-11e2-a96c-45d048d6d7eb.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Casini: abbiamo lottato contro il bipolarismo ma lo ha superato..
Inserito da: Admin - Aprile 07, 2013, 06:22:43 pm
L'intervista

«Con Monti ho fatto una scelta sbagliata La prossima volta il centro si schiererà»

Casini: abbiamo lottato contro il bipolarismo ma lo ha superato Grillo


«Davanti all'Italia vera, la politica è in ritardo inammissibile. Le aziende chiudono. Gli esodati si suicidano. L'edilizia è ferma. Un sistema politico che, in questa situazione, non riesce in 40 giorni a formare un governo dà di sé una prova devastante».

Pier Ferdinando Casini, lei per 40 giorni ha praticamente taciuto. Del resto ha preso una bella botta.
«Nella vita si vince e si perde; l'importante è avere il tempo per la rivincita. È successo questo: il bipolarismo che io ho sempre combattuto, secondo me con buone ragioni, è stato messo in crisi non dall'irruzione dal centro, ma dall'esplosione di Grillo. Un fenomeno che unisce tante cose: antipolitica, invidia sociale, giusto bisogno di partecipazione, il senso dei giovani di una mancanza di futuro. Un fenomeno che si nutre di sentimenti anche divaricanti; per questo non si può contaminare, Grillo deve fare il cane da guardia e dire no a tutto. Alla prima scelta che il movimento fa, si spacca, fosse pure il no alla Tav; perché c'è anche chi le infrastrutture le vuole. Nel frattempo immette nel sistema politico tossine oggi molto sottovalutate. Il ritiro immediato dall'Afghanistan, subito apprezzato da una certa sinistra, sarebbe una Caporetto, uno "sciogliete le righe" che comprometterebbe i sacrifici che l'Italia ha fatto per avere voce nella comunità internazionale».

Tra le cause del boom di Grillo dimentica i ritardi di voi "professionisti della politica".
«Chi è senza peccato scagli la prima pietra; però bisognerebbe riportare un po' tutti al senso della realtà. Vengono annunciate come svolte epocali cose sempre accadute: i dipendenti della Camera mi hanno visto spesso alla loro mensa, e nell'appartamento presidenziale credo di aver dormito non più di due o tre sere in cinque anni. Noi politici dobbiamo liberarci dal complesso di colpa: l'esperienza e la tecnica sono necessarie; guardi questa discussione surreale sulle commissioni, che palesemente non si possono costituire finché non c'è un governo e non si sa quale sia la maggioranza e quale l'opposizione. Il problema vero non è mangiare alla mensa dei dipendenti; è rendere la politica efficiente».

Il centro è pronto a un governo con Pd e Pdl?
«Oggi la sfida non è più tra destra, centro e sinistra, ma tra un'idea della democrazia rappresentativa che si vuole conservare e un'idea della democrazia diretta via Web, che porta alle drammatiche contraddizioni di parlamentari scelti on line con 50 voti, che arrivano a Roma convinti che la perestrojka l'abbia fatta Stalin. Oggi questa è la nostra sfida. Abbiamo cercato di fare una battaglia limpida per superare il bipolarismo, e l'hanno superato gli altri. Noi abbiamo scosso l'albero, altri hanno raccolto i frutti. E il tentativo di Monti di ammiccare all'antipolitica non ha intercettato gli elettori, che all'imitazione preferiscono l'originale».

È deluso da Monti?
«Monti ha fatto sino in fondo il suo dovere: l'Italia rischiava la deriva greca, lui l'ha evitata. Va ricordato da una parte che tutti hanno votato i provvedimenti di Monti ma solo noi ci abbiamo messo la faccia, e dall'altra che Monti non può essere responsabile di tutti i ritardi italiani. Questo calcio dell'asino collettivo, questo tentativo di rimozione mi pare prova di immaturità».

Ma come leader politico Monti ha fallito.
«Non sono deluso da Monti, sono deluso da una scelta cui anche io ho concorso e che si è rivelata sbagliata. Io ne porto parte di responsabilità: non vado a emendare gli altri, emendo me stesso. Abbiamo cambiato noi stessi i connotati di Monti: da servitore dello Stato, da Cincinnato che era, abbiamo pensato potesse essere l'uomo della Provvidenza per l'affermazione del centro. E in campagna elettorale noi abbiamo donato il sangue, ma alla fine il centro ha preso appena 3 o 4 punti in più di quando andai da solo contro Veltroni e Berlusconi».

Quindi ora cosa farete?
«Oggi noi dobbiamo essere i collanti di chi ritiene che la partita sia tra populismo e difesa della democrazia rappresentativa. In questo senso si deve affrontare la sfida del Quirinale e del governo. Se il calvario cui Bersani si è sottoposto con i Cinque Stelle era il modo per tranquillizzare un'ala del Pd e dimostrare che lui non ha pregiudizi ma li ha subìti, lo capisco. Se invece l'idea è sperare di governare con la complicità un movimento che non solo non intende essere complice ma rischia di cambiare i connotati della nostra idea di democrazia, allora è un gravissimo errore. Non possiamo inseguire Grillo, mettendoci metaforicamente con i cronisti che devono raccontare le pratiche quasi esoteriche cui sottopone i suoi adepti. L'unico modo di battere Grillo è riformare le istituzioni».

Sono vent'anni che parlate di legislatura costituente.
«Sì. Oggi però c'è l'occasione per farlo davvero. Capisco che per i militanti di sinistra pensare di sostenere un governo con il Pdl sia un pugno nello stomaco; lo stesso vale per gli aficionados che vanno in piazza con Berlusconi. Ma se noi vogliamo vincere questa sfida dobbiamo fare un percorso limitato nel tempo, di uno o due anni, affidato a un governo che prenda i provvedimenti più urgenti per l'economia e faccia le riforme indispensabili: superamento del bicameralismo, abolizione del Senato - e parlo da senatore -, legge elettorale che consenta agli italiani di scegliersi i parlamentari».

Quale legge elettorale?
«Dobbiamo riflettere seriamente se tornare o meno ai collegi uninominali. Insomma, occorre un'operazione gigantesca di restyling istituzionale. Solo così i partiti possono sconfiggere l'antipolitica; perché l'antipolitica non si farà mai cooptare. Se no, meglio votare subito; però rischiamo di prorogare questo stallo per sei mesi avendo gli stessi risultati».

Il premier può essere Bersani?
«Monti è stato un tecnico chiamato al capezzale dell'Italia: le sue scelte migliori le ha fatte nei primi tempi, quando appariva chiaro che c'era un sostegno del Pd e del Pdl; più si è appannato il sostegno, più i tecnici hanno cominciato ad avanzare senza bussola, come nel caso dei marò. Oggi occorre un'assunzione di responsabilità della politica. O accettiamo l'idea di essere tutti ladri e tutti incapaci; oppure, se vogliamo riscattare la politica, dobbiamo farcene carico. Senza delegare a terzi».

Questo implica un'intesa con Berlusconi.
«Io non sono mai stato tenero con Berlusconi negli ultimi anni. Ma dobbiamo prendere atto che una fetta di italiani crede in lui. Mi auguro un patto leale tra Bersani e Berlusconi per rimettere in moto la politica. Altrimenti, chiunque vincesse, vincerà sulle macerie».

Chi va al Quirinale?
«Un uomo o una donna frutto di una scelta condivisa, che non sia percepito dal popolo di centrodestra come nemico e dal popolo di centrosinistra come imposto da Berlusconi. La legge ha dato alla coalizione che ha prevalso per lo 0,5% un premio di maggioranza spropositato. Fare un'operazione da 51% per il Quirinale sarebbe una lesione fortissima».

Cosa pensa di Renzi?
«Leggo la sua intervista al Corriere , e penso che abbia ragione. Poi lo guardo da Maria De Filippi vestito come Fonzie, e mi cadono le braccia. Vedremo se è più un maratoneta o un centometrista».

Colpisce che proprio lei parli di collegi uninominali. Questo implica che il centro scelga dove andare. A destra o a sinistra?
«Il centro cos'è? Una cultura della responsabilità, che vuole le riforme mai fatte per i veti ideologici della sinistra e una certa incapacità della destra. Ora comincia una nuova stagione. È evidente che la prossima volta dovremo schierarci. Faremo una scelta coerente con l'idea che abbiamo della democrazia, dell'Europa, delle riforme sociali. Misureremo le alleanze sul grado di affinità che avremo nel processo costituente».

Come va in famiglia? Sua moglie Azzurra ha smentito via Twitter le voci di separazione...
«Cosa vuole che le dica? Sto felicemente con mia moglie da più di 13 anni. c'è ancora chi non si rassegna. Si mettano il cuore in pace».

ALDO CAZZULLO

7 aprile 2013 | 8:29© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_aprile_07/cazzullo-con-monti-fatto-scelta-sbagliata_c5bc1eb0-9f49-11e2-bce6-d212a8ef12b1.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. La vittoria di Marino e il grande equivoco delle primarie
Inserito da: Admin - Aprile 09, 2013, 11:22:51 am
Il caso

La vittoria di Marino e il grande equivoco delle primarie

Da quando la scelta è diventata «vera» vince sempre il candidato più a sinistra


Non si vorrebbe mancare di rispetto al mitico «popolo delle primarie», sempre entusiasta e numeroso (anche se domenica a Roma meno del solito); ma si ha l'impressione che questo «popolo» non abbia compreso bene a cosa servono, le primarie.
In America, dove le hanno inventate, l'obiettivo non è scegliere il personaggio più simpatico, identitario, vicino alla sensibilità dei militanti, portatore della linea più dura, pura, radicale. L'obiettivo è scegliere il candidato che ha più chances di battere gli avversari. L'uomo in cui possono riconoscersi non tanto i «compagni», quanto la maggioranza dei concittadini o dei connazionali. Allo stesso modo si sono comportati i socialisti francesi, che in entrambe le occasioni in cui sono stati consultati per le presidenziali hanno scelto un esponente del centro del partito: prima la Royal, che prese un dignitoso 46,5%; poi Hollande, che sconfisse Sarkozy.

In Italia, all'inizio le primarie sono state il modo di confermare una decisione già presa dai partiti (Prodi, Veltroni). Poi la scelta è diventata «vera». Da allora, vince quasi sempre il candidato più a sinistra. Pisapia a Milano. Doria a Genova. Zedda a Cagliari. Lo stesso Bersani, due volte: contro Franceschini, e soprattutto contro Renzi. E' vero che i sindaci hanno tutti vinto, a volte rispettando la tradizione come a Genova, a volte ribaltandola come a Milano. Ma è noto che alle amministrative la sinistra ha gioco più facile rispetto alle politiche. Dopo il deludente risultato del 24 febbraio, è stato scritto che Renzi non si sarebbe certo fermato sotto il 30%. Ma questo era chiaro già al tempo delle primarie: non c'era un sondaggio che non indicasse in lui il candidato più competitivo. Ha prevalso il richiamo dell'identità (e anche dell'apparato).

Le primarie di Roma indicano che la lezione non è stata appresa. Non c'erano candidati di primo piano, è vero. C'era però un recordman delle preferenze come David Sassoli. E c'era soprattutto Paolo Gentiloni, l'unico ad avere un'esperienza nell'amministrazione della capitale e nel governo del Paese; ma nonostante l'appoggio di Renzi e di Veltroni ha avuto un risultato imbarazzante. I militanti romani hanno plebiscitato come d'abitudine il candidato più a sinistra, Ignazio Marino (dietro cui pure si intravede l'apparato, nella forma della macchina organizzativa di Goffredo Bettini). Marino è un personaggio per certi aspetti interessante: chirurgo prestato alla politica, all'avanguardia sui diritti civili. Magari potrà pure vincere (anche a Roma, come in quasi tutte le grandi città italiane, il centrosinistra ha una base di partenza più ampia del centrodestra). Restano alcune perplessità oggettive. Nato a Genova da madre svizzera e padre siciliano, un percorso professionale tra Cambridge, Pittsburgh, Filadelfia e Palermo, Marino non c'entra molto con la capitale. Potrà anche strappare qualche voto grillino; ma avrà parecchie difficoltà a intercettare moderati e cattolici.

Presto potrebbero essere convocate nuove primarie nazionali, in vista del voto anticipato. Siccome la sinistra viaggia con un'elezione di ritardo - nel 2006 fu schierato Prodi anziché Veltroni, mandato a perdere due anni dopo; nel 2013 è stato schierato Bersani anziché Renzi -, stavolta dovrebbe toccare al sindaco di Firenze. L'Italia non schierata lo aspetta, a torto o a ragione. Ma già spunta Fabrizio Barca, i cui meriti come ministro sfuggono ai più, ma che può vantare un impeccabile pedigree rosso (a cominciare dal padre, intellettuale di punta del Pci, direttore dell'Unità e di Rinascita); che non è un torto ma, agli occhi dell'ostinata maggioranza degli italiani, neppure un merito. Se ne possono trarre molte considerazioni, tutte legittime. Tra le quali c'è anche questa: non esistono, come la sinistra tende a credere, un'Italia immatura, sempre pronta a bersi le promesse di Berlusconi, e un'Italia "riflessiva"; esistono due minoranze di militanti - numerose se misurate in piazza o ai gazebo, piccole in termini assoluti -, pronte a seguire l'istinto e la passione, ma incapaci di indicare una soluzione condivisa a una vastissima Italia di mezzo, che alla politica crede sempre meno.

Aldo Cazzullo

9 aprile 2013 | 7:54© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_aprile_09/marino-pd-primarie_6e29c69e-a0d8-11e2-9e3c-268a004da2ea.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Cicchitto: «Violante al Quirinale Può guidare la pacificazione»
Inserito da: Admin - Aprile 11, 2013, 05:24:40 pm
L'intervista L'ex capogruppo del Pdl: l'altra possibilità è Gianni Letta

Cicchitto: «Violante al Quirinale Può guidare la pacificazione»

«Scrissi un libro contro di lui, ma ora è cambiato».

Governo con il meglio di Pdl e Pd, a cominciare da Alfano e Bersani


«Non possiamo ricorrere a una formula sbiadita, mandare al Quirinale una figura smorta. Serve una scelta al massimo livello. Una personalità che pacifichi il Paese, chiuda una stagione, e vari un governo d'emergenza, con il meglio delle classi dirigenti dei due grandi partiti e dei due mondi, centrosinistra e centrodestra».

A quale figura pensa, Fabrizio Cicchitto?
«Prima mi lasci dire i motivi. La situazione è la più drammatica dalla fine della guerra. Non penso che gli industriali abbiano sempre ragione, anzi spesso hanno torto; ma non possiamo ignorarli, quando dicono che non ce la fanno più. Il Paese rischia di andare a sbattere per il combinato disposto della crisi internazionale, dell'approccio rigorista imposto dall'Europa, del movimento protestatario che vuole distruggere le istituzioni e scassare tutto. Un movimento alimentato da casi di perversione: Fiorito, Penati, Lusi, Regione Lombardia, Monte dei Paschi di Siena; ma soprattutto dal fatto che la politica un tempo distribuiva risorse, per cui i cittadini ne tolleravano i privilegi, mentre ora le drena. Giocare sul tatticismo e sui palliativi è assolutamente sbagliato. Occorre una risposta all'altezza della gravità del momento».

Qualcosa si muove, o no? Bersani e Berlusconi si sono visti.
«Un incontro che mi ha ricordato Leopardi: "Vaghe stelle dell'orsa......"».

Cioè non hanno concluso nulla?
«Mi pare che Bersani abbia scisso il Quirinale dal governo per poter dire ai suoi di aver stabilito un rapporto per nulla compromettente, nella speranza di portare sul Colle un uomo che gli dia quell'incarico pieno che saggiamente Napolitano gli ha negato».

Un'ambizione legittima per il leader del partito di maggioranza relativa, non trova?
«Ma cosa può fare un governo che dovrebbe mendicare ogni volta i voti grillini al Senato? Bersani dovrebbe aver capito, dopo le umiliazioni cui si è sottoposto, che l'accordo con i Cinque Stelle è impossibile. E che noi non siamo disposti a farci umiliare a nostra volta, consentendo la nascita di un governo in cui non siamo ammessi in quanto impresentabili».

Qual è l'alternativa?
«Un governo con il meglio di Pd e Pdl. A cominciare da Bersani e Alfano. E con esperti di alto livello che siano espressione delle due culture. Monti e la tecnocrazia sostenuta dai grandi giornali hanno fallito. Ora serve un governo politico destinato a durare tre anni, che prenda le misure economiche necessarie a salvare il Paese e ridisegni la struttura dello Stato: presidenzialismo alla francese, sistema elettorale a doppio turno, monocameralismo, abolizione delle Province».

Sono anni che ne parlate, e non avete fatto nulla.
«Infatti la premessa di questa grande operazione è un'autocritica, che vale sia per noi sia per il Pd. Il prossimo governo dovrà andare a Berlino e a Bruxelles a chiedere il rinvio del pareggio di bilancio, per poter ridurre le tasse e fare una politica espansiva. Altro che governicchio; dovrà essere un governo fortissimo».

E chi potrebbe essere allora il capo dello Stato in grado di inaugurare la nuova stagione?
«Vedo solo due possibilità. Gianni Letta: il meglio della sensibilità istituzionale del centrodestra, che ha sempre svolto un ruolo di alto profilo e su questo terreno darebbe garanzie a tutti...».

E la seconda?
«Dall'altra parte, paradossalmente, Luciano Violante».

Violante? Ma se voi socialisti l'avete sempre accusato di essere il vostro carnefice...
«Io ho scritto un libro, "L'uso politico della giustizia", contro di lui. Lo considero il responsabile della gestione unilaterale di Mani Pulite e dell'antimafia, per colpire la Dc moderata, i laici e i socialisti, salvare la sinistra Dc e un Pds che aveva tutte le forme di finanziamento irregolare possibili e immaginabili. Ma proprio perché Violante ha guidato quel tipo di operazione, ha poi manifestato una consapevolezza in parte togliattiana che una stagione va chiusa».

Violante come Togliatti?
«Togliatti ne chiuse una ancora più drammatica: la guerra civile. Negli articoli e nei libri di questi anni, l'evoluzione del pensiero di Violante è evidente. Lui che viene da lì, lui che ha cavalcato la fase dell'uso politico della giustizia, è l'unico ad avere la forza per provare a chiuderla, e promuovere una nuova pacificazione italiana. Violante non vuole rimanere appiccicato all'immagine di chi ha guidato dal '92 in poi i momenti più duri di una guerra civile fredda. Vuole superarla. E ha l'autorità per farlo».

Ne ha parlato con Berlusconi?
«La riflessione è mia. Comunque sì, ne ho parlato. C'è un dibattito in corso. Al momento accordi non ce ne sono».

Si rende conto che, se l'accordo si facesse su Violante, non sarebbero solo i grillini a gridare non dico a un "inciucio", ma più seriamente a un patto di potere e impunità?
«Ma chiunque venga proposto sarà massacrato. Ad Amato tireranno fuori la storia della pensione, Marini sarà liquidato come un vecchio democristiano. Il gioco al massacro ci sarà comunque. Questo stallo va affrontato virilmente, non con un atteggiamento subalterno. La situazione presenta tali elementi di rischio che ci vuole uno scatto della classe dirigente di Pd e Pdl. Due partiti che sono stati non solo avversari, ma per certi aspetti nemici, ora devono incontrarsi per chiudere la storia durissima che dura dal '94 e fare un salto di qualità. Investendo i loro uomini migliori in un nuovo governo. E mandando al Quirinale una personalità di alto profilo: Gianni Letta, o Luciano Violante. Altrimenti, purtroppo, l'unica via d'uscita, come dice anche Renzi, sono le elezioni. Ma io mi auguro proprio che lo sbocco sia positivo».

Aldo Cazzullo

11 aprile 2013 | 9:59© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_aprile_11/cicchitto-violante-quirinale_43d482ea-a267-11e2-b92e-cf915efd17c3.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Alfano: faremo solo le riforme condivise...
Inserito da: Admin - Maggio 20, 2013, 11:57:19 pm
L'intervista

«Matrimonio nell'interesse del Paese Il governo non è legato ai processi»

Alfano: faremo solo le riforme condivise. Sul resto deciderà chi vince alle urne. Al centro dell'accordo la questione economica


Ministro Alfano, il governo ha avuto una partenza difficile. Una grana a settimana: l'Imu, Brescia, la giustizia, la legge elettorale...

«Questo è il governo che nessuno si aspettava prima del voto. Ed è il governo che solo Silvio Berlusconi aveva pensato fosse quello giusto dopo il voto. Ci sono voluti due mesi, ma alla fine l'Italia ha avuto un governo. È chiaro che il governo non vive della solidarietà delle forze politiche che lo compongono; vive della comune volontà di realizzare il programma. Il destino del governo è legato al destino del programma».

Questo significa che il governo non ha limiti temporali? Può essere un governo di legislatura?
«Non bisogna farsi illusioni, ma non bisogna deprimersi. Piedi per terra e sguardo rivolto al futuro: non dobbiamo aumentare l'Iva, dobbiamo detassare l'assunzione dei giovani per incentivare gli imprenditori a fare occupazione, semplificare la burocrazia, riaffermare che essere proprietari di una casa non è una colpa. Lo scopo che realmente sorregge tutto è tirare fuori l'Italia dalla crisi economica. L'obiettivo ultimo è tirarci fuori dal guaio in cui una serie di scelte sbagliate anche di politica economica ci ha cacciati».

Si riferisce a Monti?
«Non è il tempo delle lamentazioni. È il tempo di pensare al futuro e di come regalare ai nostri figli giorni migliori di questi».

Scusi, il governo appare già in bilico, e lei pensa ai figli, al futuro remoto?
«Sì, proprio ai nostri figli. Sa qual è una considerazione che ho fatto? Che i miei due figli Cristiano e Federico sono coetanei dei figli di Enrico Letta e delle nipoti di Anna Maria Cancellieri. Nunzia De Girolamo ha una bambina piccola. Al Quirinale ho visto i ragazzi di Josefa Idem. Una caratteristica di questo governo è che tutti hanno dei bambini in casa. Se questo governo dice di voler regalare giorni migliori ai propri figli non è una metafora, non è un'immagine letteraria; è esattamente l'idea di un'Italia che pensa al futuro, con lo sguardo di un padre che lo vorrebbe regalare bellissimo ai propri figli».

Nel frattempo avete cominciato a litigare sulla giustizia e sul Porcellum.
«Il primo Consiglio dei ministri non l'abbiamo dedicato alla giustizia e neanche alla legge elettorale, ma all'economia e alla sobrietà della politica. Chi vuol fare il ministro lo fa gratis. I lavoratori in difficoltà sono aiutati con la cassa integrazione guadagni. Alle famiglie viene detto con chiarezza che supereremo la tassazione sulla casa. Devo riconoscere una perfetta corrispondenza tra il discorso di Enrico Letta che ha avuto la fiducia delle Camere e quello che è stato fatto nel primo Consiglio dei ministri operativo».

Vale a dire?
«È stato chiaro lo scarto tra le polemiche sui giornali e l'azione del governo. I giornali si sono occupati di una cosa, i partiti hanno litigato su altre cose, il governo ha preso decisioni che servono a tirare fuori l'Italia dalla crisi e altre ne deve prendere. È evidente che questo governo è stato accolto con favore dall'opinione pubblica, che chiede provvedimenti che aiutino le famiglie e i lavoratori in difficoltà, e con la grande diffidenza, se non con l'ostilità, di quello che chiamerei il "comparto dell'indotto del conflitto"».

Chi c'è dietro "l'indotto del conflitto"?
«È un comparto trasversale tra politica, economia e giornalismo, che dal conflitto trae lucro. Pensi a certi giornali "rosiconi" che, di fronte ai dati positivi della Borsa, additano solo i buoni risultati del gruppo fondato da Berlusconi. Pensi all'enorme letteratura antiberlusconiana, che perde appeal nel momento in cui la sinistra fa l'accordo con lui».

Lasci stare i giornali. In realtà la sinistra è in grande sofferenza, proprio per l'accordo con Berlusconi.
«Anche il nostro elettorato non ama la sinistra. Né sarebbe veritiero, sebbene romantico, definire questo come un matrimonio d'amore. È un matrimonio d'interesse: la cosa bella è che l'interesse non è quello degli sposi, delle parti, ma quello del Paese. Finché i coniugi avranno la percezione di fare l'interesse del Paese, e il Paese condividerà questa percezione, allora il governo andrà avanti. Per questo occorre tenere al centro la questione economica, che è la ragione più profonda dell'accordo».

Siete soddisfatti del compromesso sull'Imu?
«Le esclusioni in riferimento al blocco dell'Imu coincidono con quelle del 2008, quando fu eliminata l'Ici. Mi sento portatore di un fortunato e singolare record: al primo Consiglio dei ministri operativo della scorsa legislatura facevo parte del governo che tolse l'Ici; ora, con una coalizione molto differente, il primo Consiglio dei ministri segna il blocco dell'Imu. Senza considerare il pagamento dei debiti della pubblica amministrazione, e il riconoscimento del principio che i debiti fiscali dei privati e i loro crediti siano compensabili».

In effetti lei è l'unico a essere stato ministro sia nel governo Berlusconi sia ora. È anche vicepresidente del Consiglio e segretario del Pdl. Non è un po' troppo?
«Io sono vicepresidente in quanto segretario del Popolo della libertà. E sono segretario di un partito che ha il suo leader, che è Silvio Berlusconi. Una leadership forte, vitale e indiscussa».

Appunto. Il "matrimonio d'interesse" ha un suocero ingombrante. Non c'è il rischio che lei e i suoi combattiate una battaglia al governo e fuori Berlusconi e i suoi combattano la loro battaglia, contro la magistratura e non solo?
«La battaglia nostra al governo è la battaglia per fare uscire l'Italia dalla crisi. E il governo nasce per la tenace volontà di Silvio Berlusconi di farlo nascere. Quindi nasce grazie a Berlusconi, non nonostante Berlusconi. Altro che suocero».

Questo significa che la sorte del governo non è legata alle sentenze dei suoi processi?
«È così. Gli interessi a confondere le acque sono stati tali da non aver valorizzato un concetto molto chiaro e molto forte espresso proprio da Silvio Berlusconi: nessun fallo di reazione sulle vicende giudiziarie. Del resto ci sarà un motivo per cui l'opinione pubblica sta premiando il suo atteggiamento responsabile, "pro patria"...»

Sulle intercettazioni come finirà?
«Lei parla con chi ha dato il nome a un tentativo di riforma, ma qui siamo in presenza di una situazione molto chiara: ci sono iniziative e leggi, in ogni ambito, che solamente un governo di centrodestra potrebbe portare avanti. E ci sono iniziative e leggi che potrebbe portare avanti solamente un governo di centrosinistra. La conseguenza è che questo Parlamento e questo governo non faranno ciò che solo il centrodestra potrebbe fare, né ciò che solo il centrosinistra potrebbe fare...».

Quindi niente stretta sulle intercettazioni da una parte, niente "ius soli" e unioni di fatto dall'altra?
«...Per fare ciò che ciascuna parte vorrebbe fare, occorrerà attendere le prossime elezioni. Chi vincerà, realizzerà il proprio specifico programma, quello che esprime la propria identità in ogni ambito. Adesso invece si potranno fare solamente ciò che il centrodestra e il centrosinistra sono capaci di condividere».

Ma come si può cancellare dall'agenda di governo un tema decisivo come quello della giustizia?
«Ho grande considerazione e rispetto per Annamaria Cancellieri. Sarà lei a individuare ciò che in materia di giustizia può essere condiviso dal Pdl, dal Pd e da Scelta civica».

È vero che siete disposti a cambiare l'attuale legge elettorale solo accanto a una riforma presidenzialista?
«Noi non abbiamo una posizione che dipenda dalle nostre utilità. Il Mattarellum, basato sui collegi uninominali, è stato usato tre volte: due volte, nel '94 e nel 2001, abbiamo vinto noi. Anche l'attuale sistema è stato usato tre volte: nel 2006 hanno vinto loro, nel 2008 noi, la terza volta è questa... Non c'è un sistema che ci fa vincere e uno che ci fa perdere. Il sistema elettorale serve a contare i voti; se non hai i voti, non vinci. È evidente che adesso sarebbe sbagliato trovare la soluzione definitiva sulla legge elettorale. Se si va a Parigi, trovi semipresidenzialismo e doppio turno. A Berlino trovi il cancellierato e il proporzionale».

Voi quale sistema preferite?
«La nostra posizione è quella consolidata dal voto al Senato nella primavera scorsa: elezione diretta da parte dei cittadini del presidente della Repubblica; disponibilità ad approvare una legge con il doppio turno di collegio. Sto leggendo il libro di Veltroni e vedo che su questo punto la pensiamo allo stesso modo».

Com'è andato il litigio con Letta nel viaggio verso il convento?
«Guardi, con Letta ci conosciamo da più di vent'anni, ma abbiamo sempre militato su fronti diversi. Veniamo da due diverse metà campo e questo è emerso spesso, l'ultima volta a Spineto. È possibile che riemerga in futuro».

E di Renzi cosa pensa?
«Abbiamo collaborato sul tribunale di Firenze quand'ero ministro della Giustizia. Ma mi pare evidente che stia giocando una partita sempre più dentro la sinistra italiana, per assumerne la leadership».

Con Letta state litigando anche sulla scelta del capo della polizia?
«La decisione è imminente e di certo non deve avere la spillina di partito appuntata al petto. Spero verrà fuori la scelta migliore per il nostro Paese. È chiaro che la prima richiesta che farò al prossimo capo della polizia sarà catturare Matteo Messina Denaro».

Lei ora è al Viminale e deve battersi contro le mafie che gravano sul Sud e si infiltrano al Nord.
«Lei mi sta intervistando nel giorno del compleanno di Giovanni Falcone. Stamattina (ieri, nda ) ho dedicato un pensiero di gratitudine a lui. Credo che chi milita nelle istituzioni, e soprattutto in ministeri delicati, debba sempre sforzarsi di onorare la memoria dei tanti eroi che famosi o no hanno dedicato la propria vita e il proprio sangue alla nostra Italia. Ci sono anche eroi che nessuno conosce. Giovedì alla festa della polizia ho visto più di un bambino accanto alla propria mamma ritirare la medaglia del padre poliziotto che non c'è più, dopo aver salvato altre vite dagli esiti di un catastrofico incidente stradale o vittime innocenti da un rapinatore. Un bambino ha salutato mio figlio e mi si è stretto il cuore. Quei bambini devono sempre sapere che il loro papà è morto per un qualcosa di grande, per un qualcosa di giusto. E noi dobbiamo essere capaci di onorarne la memoria».

Aldo Cazzullo

19 maggio 2013 | 8:43© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_maggio_19/alfano-matrimonio-governo_c2c799a0-c04b-11e2-9979-2bdfd7767391.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. «Io come Balotelli. Per tanti a sinistra sono un'ossessione»
Inserito da: Admin - Maggio 27, 2013, 04:38:40 pm
L'intervista - «Renzi l'unico che mi ha difeso. Vedo bene lui, Letta e Franceschini»

Brunetta: ferocia solo perché sono basso

«Io come Balotelli. Per tanti a sinistra sono un'ossessione»


«Bastaaa!!! C'è una differenza profonda tra come io sono e come mi descrivono. Sono ossessionati da me».
Chi è ossessionato da lei, onorevole Brunetta?
«La sinistra. D'Alema mi ha chiamato energumeno tascabile, Furio Colombo mini-ministro. La damnatio di Gino Strada, la "seggiola" di Dario Fo, gli psicologismi d'accatto di Francesco Merlo, per cui la mia politica sarebbe frutto del mio complesso... Bastaaa!!!».
La critica giornalistica è sacra. Le altre sono battute, per quanto infelici.
«Una battuta la accetterei. Ma in queste parole infami c'è lo sguardo che mi è dedicato, ed è profondamente razzista. Fanno come con Balotelli: siccome è un vincente, gli fanno buu».
Balotelli è nero e lei...
«E io sono piccolo. Perché tanta ferocia nei miei confronti? Per la mia altezza? Perché un nano osa pensare e non solo fare la comparsa nei film di Fellini? Osa parlare di tutto e non solo della sua statura? Osa far politica a tutto tondo e con grinta, senza limitarsi a raccontare le discriminazioni subite perché povero e basso nel liceo dei signori? Persino Renzi...».
Renzi l'ha difesa.
«...Sì, a sinistra è stato l'unico, e lo ringrazio. Poi però dice che stanno prevalendo le idee di Brunetta come se fossero cosette, roba da poco. Ho qui l'agenzia: l'altro giorno ha detto che "era meglio prendere i voti di destra che avere Brunetta". Anche Fonzie-Renzi è ossessionato da me. Fa comodo ignorare che mi sono guadagnato la cattedra universitaria con studi e sudore, facendomi largo tra i soliti pregiudizi; e che con Tarantelli sono stato il progettista dell'accordo di san Valentino, il blocco della scala mobile che salvò l'Italia; da allora vivo sotto scorta. Ora sono un leader culturale di un'area. Però non mi attaccano per le mie tesi, ma per la mia statura. Anche Monti l'ha fatto. Pur di non darmi ragione, ridono di me. Cercano di ridicolizzarmi».
L'hanno sempre presa in giro, fin da quando era ragazzo?
«No. Nella Venezia popolare dove sono nato mi rispettavano. Tutto è cominciato con la politica. Quando ho messo mano alla riforma della pubblica amministrazione, non hanno reagito nel merito, ma prendendosela con il mio fisico e il mio carattere».
Viene in mente De André.
«Lo so: "Un nano è una carogna di sicuro/ perché ha il cuore troppo troppo vicino al buco del culo". Basta con la storia del nano e del complesso che ne avrei derivato. Balle. È come dire: quello è così perché è povero, quello ha la faccia da delinquente... Ma siamo pazzi? Così si torna a Lombroso: e il passo tra Lombroso e Mengele, tra il determinismo e l'eugenetica, è breve. Come può un medico come Gino Strada dire che io sono "esteticamente incompatibile con Venezia?". Per fortuna la natura umana non è solo nel dato biologico. Lo dico da laico: c'è l'anima, c'è l'intelligenza, c'è lo spirito, c'è la poesia, c'è l'emozione. C'è il sublime. E, per tornare a De André, nessuno conosce "la statura di Dio". Il mio punto di forza è essere me stesso, tutto intero. Ho il carattere che ho: un cattivo carattere come tutti quelli che ne hanno uno. Sono uno che si arrabbia; ma poi se uno mi tende un mignolo gli do il braccio. E qualche idea buona l'ho avuta. Ricorda l'intervista che diedi al Corriere nel 2009?».
Certo. Diceva che di troppo rigore si muore e bisognava fare una politica per lo sviluppo.
«Ero il solo a contestare la linea di Tremonti. Sono stato il primo a denunciare l'imbroglio dello spread e la pretesa della trazione germanica dell'Europa. Ho scritto con Enrico Letta la risoluzione congiunta di centrodestra e centrosinistra sull'Europa. Berlusconi ha preso sul serio le mie analisi, ponendo le basi per il rilancio del Pdl. Le mie tesi sono mie, di neo-keynesiano, uomo di sinistra. Nano di sinistra? Basta, con questa autodefinizione spero si chiuda per sempre questo capitolo».
Come fa un uomo di sinistra a stare con Berlusconi?
«Sono un socialista riformista. Guardo dove stanno i comunisti, e sto dalla parte opposta».
Ora siete al governo insieme però.
«Non è il mio governo. Ciascuno ha chiesto il voto per il suo programma. Tuttavia, un minuto dopo l'esito del voto sono diventato uno dei più convinti assertori della necessità di una grande coalizione, di questo governo, che chiamo di pacificazione nazionale. Una pacificazione non seduta, una grande coalizione che non si contempla l'ombelico ma realizza un programma necessario. Io come capogruppo del Pdl mi comporto da cane da guardia del programma. E sinora la mia guardia funziona. Sull'Imu ha funzionato. Ora si tratta di congelare l'Iva. Umanizzare Equitalia. E imporre un passo diverso all'Europa. Siamo l'unico Paese in cui destra e sinistra sono d'accordo nel voler mutare la politica europea di austerità».
Più che capogruppo la descrivono come un satrapo. I deputati Pdl non possono fare un'interrogazione senza concordarla con lei.
«Lo prevede lo statuto. Un partito non può andare in ordine sparso, altrimenti si combinano i pasticci, come quello sulle intercettazioni. Ma io non ho un rapporto gerarchico con gli altri deputati. Siamo tutti colleghi. E quando parlo alla Camera avverto la loro sintonia con me». I suoi saranno in sintonia, ma si fatica a vederla nel ruolo di pacificatore.
«Ho già dimostrato di saper lavorare per la grande coalizione senza strombazzamenti. L'ultima finanziaria del governo Monti in realtà è l'esito di un incontro tra due compagni di scuola veneziani, uno del Pd e uno del Pdl, Pierpaolo Baretta e Renato Brunetta, che hanno riscritto il testo di Grilli».
È un tono brusco quello con cui lei parla di pacificazione.
«Dopo la fine della guerra di resistenza, non è che i costituenti parlassero spargendo petali. Usavano un linguaggio duro. Un duro linguaggio di pace. Anche noi oggi dobbiamo chiudere una guerra civile. Per questo me la sono presa con l'afasia della presidente Boldrini dopo l'aggressione che abbiamo subìto a Brescia, a opera di militanti che avevano le insegne di Sel, il suo partito. Gliel'ho detto: Bertinotti non avrebbe taciuto».
Cosa farà nella commissione vigilanza Rai? Chiederete un cambio ai vertici?
«I vertici furono scelti ai tempi di Monti. Il nuovo governo deciderà. Io chiederò di far rispettare la legge: si mettano on line tutti gli stipendi; dirigenti, giornalisti, artisti. E proporrò di abbassare il canone e metterlo in bolletta: pagare meno, pagare tutti. Dipendesse da me, la Rai la privatizzerei. Due reti ai privati, una di servizio pubblico. Basta follie: basta Benigni, basta Camilleri, basta sudditanza culturale».
A Berlusconi cosa conviene?
«Basta anche con questa ossessione. L'antiberlusconismo - senza paragonare i fenomeni, ci mancherebbe - ha aspetti eclatanti e altri sottili e non detti, come l'antiebraismo. Gli zar quando avevano problemi interni risvegliavano l'odio antiebraico, e trasformavano la ribellione in pogrom. Così accade oggi a sinistra. Se vuole avere un futuro diverso dalla tristizia dei manettari, la sinistra deve smettere di alimentare l'antiberlusconismo come collante velenoso, che uccide i suoi stessi ideali. Non parlo tanto dei professionisti dell'insulto greve, come Fo e Strada. Parlo dei radical chic come Scalfari, Merlo, Colombo, D'Alema...».
Bisognerebbe smettere pure di parlare di radical chic. C'è qualcuno che le piace a sinistra?
«Intravvedo qualcosa di nuovo e promettente in Letta, Franceschini, Renzi. Pur nelle ambiguità, anche in Epifani; se non altro per le sue origini socialiste».
Ma in cosa consisterebbe poi questa pacificazione?
«Ad esempio, a me piacerebbe vedere senatore a vita Umberto Veronesi con Silvio Berlusconi».
Quanto dura il governo?
«Mi ricorda la visita di leva di Andreotti, che secondo l'ufficiale medico doveva defungere in pochi mesi e campò più di settant'anni. Ogni governo nasce per durare una legislatura. E dura finché governa. Nessuno è così pazzo da far cadere un governo che governa».

Aldo Cazzullo

26 maggio 2013 | 9:31© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_maggio_26/brunetta-feroci-perche-sono-basso_09985f0c-c5cb-11e2-91df-63d1aefa93a2.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Renzi pronto a correre per la guida del Pd
Inserito da: Admin - Giugno 06, 2013, 03:16:35 pm
Renzi pronto a correre per la guida del Pd

«Segretario e sindaco non sono incompatibili»

«Sono stanco di passare per il monello in cerca di un posto. Il pranzo con Briatore? No a questo moralismo senza morale»


BRESCIA - Matteo Renzi fatica a camminare tra la stazione e la metropolitana di Brescia, tutti tentano di fermarlo, qualcuno ha scritto a mano su foglietti di carta: «Renzi segretario». «È così dappertutto. Sono stato in posti dove non è andato nessuno: prima in Friuli per la Serracchiani, poi a Treviso, Vicenza, San Donà di Piave, Villafranca. Visti i risultati dei nostri candidati sindaci, mi sono convinto che il Pd può vincere ovunque, anche in Veneto, anche qui in Lombardia. La nostra gente ci chiede soprattutto questo: stavolta fateci vincere davvero. Perché noi non abbiamo mai davvero vinto: nel '96 facemmo la desistenza che provocò poi la caduta di Prodi; nel 2006 arrivammo primi con 24 mila voti mettendo insieme Turigliatto e Mastella, Luxuria e Lamberto Dini; stavolta abbiamo mancato un gol a porta vuota. Noi dobbiamo dare una risposta alla nostra gente, agli emiliani che sono stati i primi a dire no a Marini, ai bersaniani che in queste ore mi chiedono: Matteo ora basta, ci stai o no?».
Appunto: ci sta o no? Si candiderà alle primarie per la segreteria del Pd?
«Dipende dal Pd, non da me. Se riusciamo a uscire dalla palude, a imporre i nostri temi, la nostra gente capirà il governo con il Pdl. Se tiriamo a campare, se ci facciamo dettare l'agenda da Berlusconi, se non riusciamo a fare le riforme, allora...».
Le pare che le riforme siano partite bene?
«La prima cosa dovrebbe essere la legge elettorale. Invece vedo che la si vuol mettere per ultima. È sbagliato. È l'idea che "il problema è ben un altro" che porta a non far niente. Se non si trova un accordo sul sistema elettorale, mi pare difficile che lo si trovi su tutta la riforma dello Stato».
La vedo scettico.
«Sento che si parla di saggi, di commissioni. Ma non occorre un saggio per dire ad esempio che la burocrazia italiana è da rifare; te lo dice anche uno scemo. Quando la politica non vuole risolvere le cose, fa una commissione. Invece bisognerebbe chiudersi in una stanza e decidere».
Quindi lei è a un passo dalla candidatura.
«Io mi sono stancato di passare per il monello in cerca di un posto, il ragazzo tarantolato con la passione del potere. Sono l'unico che non si è seduto su nessuna poltrona ed è rimasto dov'era prima. Se c'è bisogno di me, me lo diranno i sindaci, i militanti. Persone che stimo molto, mi consigliavano di non farlo; ora però si vanno convincendo anche loro. Di sicuro, se succede, non sarà come l'altra volta una campagna improvvisata, per quanto bella. C'è bisogno di una squadra ben definita».
A quali nomi pensa?
«I migliori in ogni campo: energia, scuola, innovazione tecnologica. Di solito ai politici interessa il loro futuro personale. Io non ho ancora le idee chiare sul mio futuro, ma le ho chiarissime sul Pd e sull'Italia. Noi tra dieci anni possiamo essere la locomotiva d'Europa. Ma dobbiamo cambiare. Dobbiamo aiutare gli imprenditori invece di ostacolarli. Dobbiamo abbassare il costo dell'energia. Dobbiamo avere il coraggio di dire al Sulcis che non ha senso andare avanti con il carbone di Mussolini pagato dallo Stato».
Perché non può farle il governo Letta queste cose?
«Io spero che Letta abbia successo. Lo stimo, abbiamo un bel rapporto. Apprezzo il suo equilibrio; mi convincerà meno se cercherà l'equilibrismo. Non so fino a quando potremo governare con Schifani e Brunetta, i loro capigruppo. Il governo dura se fa le cose. È come andare in bicicletta: se non pedali, cadi. Io posso anche uscire a cena con gente che non sopporto, ma solo se il cibo è buono, la conversazione decolla e dopo si va a vedere un bel film. Se invece si resta in silenzio, meglio alzarsi e andarsene».
A leggere il suo libro, sembra quasi che le abbiano fatto intravedere Palazzo Chigi mentre c'era già un accordo alle sue spalle...
«Non credo sia così. La verità è che non era il mio turno. A Palazzo Chigi io andrei per smontare tutto e ricostruire daccapo: il fisco, la burocrazia. Per fare questo occorre un mandato forte. Letta dice che ci vuole il cacciavite. Io userei il trapano».
Non crede che se lei fosse eletto segretario il governo rischierebbe di cadere in pochi mesi, come Prodi quando divenne segretario Veltroni?
«Il rischio c'è. Anche più grave di quello del 2007: allora c'era un governo di centrosinistra, questo è un governo che vede sinistra e destra insieme. Ma sarebbe ancora peggio vivacchiare senza risolvere nulla, perdere un altro giro».
Dovrà scegliere tra segretario del Pd e sindaco di Firenze?
«Il problema non si pone, almeno non si pone adesso. Non c'è incompatibilità. Avere una funzione nazionale sinora ha aiutato a fare meglio il sindaco, ad esempio a trovare i fondi per salvare il Maggio fiorentino. Ora poi l'Europa finanzierà direttamente i Comuni e non solo le Regioni. Con la riforma del titolo V della Costituzione abbiamo fatto un grosso errore: alla burocrazia statale si è aggiunta la burocrazia regionale».
Berlusconi chiede il presidenzialismo, lei frena. Ma non era presidenzialista pure lei?
«Non ho in mente una soluzione piuttosto di un'altra. Si può pensare all'elezione diretta del premier, che rafforza il governo, o del presidente della Repubblica, che però a questo punto non potrebbe più essere una figura di garanzia, dovrebbe essere un capo. L'importante è che ci sia qualcuno che si assuma la responsabilità, a cui dire grazie se ha successo o dare la colpa se fallisce».
Ma lei si vedrebbe al Quirinale?
«Le ho già detto che la mia preoccupazione non è il mio futuro politico. Ho 38 anni. Sa quali sono le due cose che mi danno più fastidio?».
Dica.
«La prima è quando mi descrivono roso dall'invidia, come se il mio treno fosse passato. Quando attribuiscono a me trame contro Letta, tipo la mozione di Giachetti per il ritorno ai collegi uninominali. Ora, se c'è uno che ha diritto di parlare di legge elettorale è Giachetti, ha fatto pure lo sciopero della fame, io non lo farei neppure se mi pagassero, ma rispetto le battaglie dei radicali. Nel merito sono d'accordo con lui; ma non ne sapevo nulla. Paradossalmente, sono proprio gli ex democristiani a dipingermi come un piantagrane. Tentano di logorarmi».
E la seconda?
«Quando mi dicono che non sono di sinistra. A me, il primo sindaco ad aver fatto un piano a volumi zero che ferma la cementificazione, con l'obbligo di aprire un giardino a dieci minuti di passeggiata da ogni casa, con le chiavi affidate alle mamme. Ora ho pedonalizzato un'altra parte del centro, dietro Palazzo Vecchio. Ma di questo non parla nessuno. Si parla solo del pranzo con Briatore».
Anche lei, però...
«Mi hanno dipinto come un'olgettina perché sono andato ad Arcore da Berlusconi, e ora con Berlusconi hanno fatto un governo. Mi hanno attaccato perché sono andato dalla De Filippi; dopo di me sono andati don Ciotti e Gino Strada e nessuno ha detto niente. Mi prendono in giro per il giubbotto di pelle, e non sanno che la pelletteria è un settore che tira, in dieci anni ha raddoppiato l'export. Ora mi attaccano perché ho incontrato Briatore. Io non la penso come lui. L'imprenditore cuneese con cui sono più in sintonia è Oscar Farinetti. Però sono curioso. Non voglio chiudermi nel mio steccato. Penso di poter imparare qualcosa da qualsiasi persona; a maggior ragione se è diversa da me, se ha avuto successo in quello che ha fatto, nello sport e nel lusso, se crea posti di lavoro».
Con il Billionaire?
«Non vado al Billionaire, non ho il fisico. Ma questo moralismo senza morale lo trovo insopportabile, questa saccenteria, questa pretesa di superiorità etica è la maledizione della sinistra. Per me la politica è una prateria, non una riserva indiana. Tra poco faccio il comizio. Sa qual è il passaggio su cui prenderò più applausi? Quando dirò che bisogna andare a cercare i voti della destra. Berlusconi vinse nel '94 con il milione di posti di lavoro e il nuovo miracolo italiano, nel 2001 con "meno tasse per tutti", e noi ironizzammo su questo. Fu un errore. Il Paese ha bisogno di speranza, sogni, fiducia. Berlusconi ha illuso gli italiani. Poi è seguita la disillusione. Ora è il tempo delle decisioni».
Lei ha preso l'abitudine di vedere pure D'Alema.
«Ma quale abitudine! Solo perché adesso ci parliamo... Ammiro il suo humour. Alla direzione Pd è andato da Matteo Orfini e gli ha detto: "Vedo che finalmente ci sono giovani turchi che fanno qualcosa di interessante. Peccato che siano a Istanbul».
Con D'Alema avete un patto?
«No. Con D'Alema è interessante discutere. Come con Veltroni. Io non rinnego la battaglia per la rottamazione. La rifarei; anche se rinunciare a D'Alema e tenersi Fioroni non è stato un affare. Però un partito ha bisogno di molte intelligenze e voglio ripartire dalle giovani leve, anche chi ha votato per Bersani. Voglio un partito vivo, in cui vengo fatto fuori e faccio fuori, ma in modo aperto, trasparente. Non chiedo fedeltà. Chiedo lealtà».
Non ha paura, da segretario di partito, di non avere più l'appeal sull'opinione pubblica che ha ora? Di non essere più Renzi?
«Io funziono solo se sono Renzi. Non sarò mai la copia di un funzionario di partito. La questione è un'altra: rimettere l'Italia in gioco, recuperare un pensiero lungo, passare dal Paese del piagnisteo al Paese dell'opportunità».
Il decreto sull'abolizione del finanziamento pubblico ai partiti la convince?
«Ho fatto voto di non parlare male del governo; quindi taccio».
Non può cavarsela così.
«Mi pare la logica dell'"adelante con juicio". Si poteva avere più coraggio. Spero che il Parlamento lo migliori. E che venga abolito il Senato, trasformandolo in camera delle autonomie: 315 parlamentari in meno significano meno costi e più efficienza. Ma l'importante oggi non è dire; è fare. Subito. Non le sembra che a Roma abbiano già perso troppo tempo?».

Aldo Cazzullo

6 giugno 2013 | 10:01© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_giugno_06/renzi-corsa-segreteria-pd_0d2b2c74-ce6a-11e2-869d-f6978a004866.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Esame di maturità
Inserito da: Admin - Luglio 10, 2013, 09:54:34 am
Esame di maturità


La crisi italiana non è soltanto di competitività e di liquidità. È anche una crisi di fiducia. Il governo può e deve prendere misure per sostenere le imprese e favorire l'accesso al credito; ma la fiducia non può essere restituita per decreto.
Fa bene il capo dello Stato a richiamare l'attenzione sul «Paese che non si ripiega su se stesso», e sulle opportunità che lo attendono. Come ha detto Giorgio Napolitano, c'è un'Italia che resiste alla crisi e non si arrende all'idea che il futuro coincida con il destino; e c'è un mondo che guarda all'Italia come alla patria della creatività e della cultura, delle cose buone e delle cose belle. Il mondo globale è un fattore di crisi, perché il lavoro viene esportato, con la delocalizzazione, e importato, con l'immigrazione. Ma il mondo globale è anche una grande chance per il Paese dell'artigianato di qualità, della manifattura di pregio, del design, dell'arte, che non ha motivo di sottovalutarsi e deve spezzare la cappa di autolesionismo.

Per il suo richiamo alla coesione e alla fiducia, il presidente della Repubblica non poteva scegliere una circostanza più adatta del lancio dell'Expo 2015 - voluto da governi di ogni colore - e un luogo più indicato di Monza, alle porte di Milano. Per quanto tempo si sia perduto, l'Expo può ancora essere un grande successo. Intanto perché verte sul cibo - un settore di punta per il nostro export - e sullo sviluppo sostenibile, il che chiamerà in causa il volontariato, il no profit, le energie sociali e anche il ruolo della Chiesa cattolica, rigenerata dall'avvento di Papa Francesco. E perché l'Expo sarà per l'Italia una vetrina affacciata sul mondo di domani, sulla Cina, sull'India, sul Brasile, sull'Africa, sul nuovo Medio Oriente che uscirà da una travagliata stagione. Questa vetrina non poteva che essere a Milano, una metropoli che porta la vocazione alla centralità nel suo stesso nome: Mediolanum, la città che sta in mezzo. Finanza, editoria, design, moda, lirica, calcio, ospedali d'avanguardia, università d'eccellenza: Milano ha radici solide, come il Paese che rappresenterà nel 2015. L'importante è che l'Italia sappia ritrovare se stessa.

Molto dipende anche dal governo Letta. Un governo che non era nei desideri di nessuno, ma è l'unico possibile. Il Paese non reggerebbe all'ennesima legislatura perduta: le misure per rilanciare l'economia, le riforme per rendere la politica più efficiente e meno costosa, il semestre di presidenza Ue sono prove da non fallire. Enrico Letta sta confermando la sua competenza e la sua preparazione, ma deve andare oltre. Non si pretende da lui il carisma, che per le larghe intese sarebbe più di ostacolo che di aiuto. Guidare un governo però richiede comunque capacità di leadership. Un premier può essere tecnicamente bravissimo, ma se non «sente» il Paese, se non lo ascolta e non lo interpreta, se non va nelle aziende e nelle scuole, se si lascia trascinare dal gorgo dell'agenda istituzionale, non riuscirà a restaurare la fiducia che oggi manca. Napolitano chiede giustamente stabilità. E la stabilità dei governi dipende anche dalla loro capacità di entrare in sintonia con un Paese che mantiene fondamenta salde, ma ha bisogno di essere rinfrancato sulle proprie capacità di ripresa.

8 luglio 2013 | 7:57
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Aldo Cazzullo

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_luglio_08/esame-maturita_f0fea1d0-e78b-11e2-898b-b371f26b330f.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. De Gregori: non voto più La mia sinistra si è persa tra ...
Inserito da: Admin - Agosto 02, 2013, 11:15:09 am
Il cantautore torna a parlare di politica sei anni dopo le critiche a Veltroni

De Gregori: non voto più La mia sinistra si è persa tra slow food e No Tav

«Ringrazio Dio che il Pd non governi con Grillo»

Forse potevamo farci meno domande su Noemi e più sull'Ilva


Aldo Cazzullo

Francesco De Gregori, sono sei anni, da quando in un'intervista al «Corriere» lei demolì la figura allora emergente di Veltroni, che non parla di politica. Che cosa le succede?
«Succede che il mio interesse per la politica è molto scemato. Ha presente il principio fondativo delle rivoluzioni liberali, "no taxation without representation?". Ecco, lo rovescerei: pago le tasse, sono felice di farlo, partecipo al gioco. Però, per favore, tassatemi quanto volete, ma non pretendete di rappresentarmi».

Cos'ha votato alle ultime elezioni?
«Monti alla Camera e Bersani al Senato. Mi pareva che Monti avesse governato in modo consapevole in un momento difficile. Sono contento di com'è andata? No. Oggi non so cosa farei. Probabilmente non voterei. Con questo sistema, tanto vale scegliere i parlamentari sull'elenco del telefono».

Dice questo proprio lei, considerato il cantautore politico per eccellenza? L'autore de «La storia siamo noi», per anni colonna sonora dei congressi della sinistra italiana?
«Continuo a pensarmi di sinistra. Sono nato lì. Sono convinto che vadano tutelate le fasce sociali più deboli, gli immigrati, i giovani che magari oggi nemmeno sanno cos'è il Pd. Sono convinto che bisogna lavorare per rendere i poveri meno poveri, che la ricchezza debba essere redistribuita; anche se non credo che la ricchezza in quanto tale vada punita. E sono a favore della scuola pubblica, delle pari opportunità, della meritocrazia. Tutto questo sta più nell'orizzonte culturale della sinistra che in quello della destra. Ma secondo lei cos'è oggi la sinistra italiana?».

Me lo dica lei, De Gregori.
«È un arco cangiante che va dall'idolatria per le piste ciclabili a un sindacalismo vecchio stampo, novecentesco, a tratti incompatibile con la modernità. Che agita in continuazione i feticci del "politicamente corretto", una moda americana di trent'anni fa, e della "Costituzione più bella del mondo". Che si commuove per lo slow food e poi magari, "en passant", strizza l'occhio ai No Tav per provare a fare scouting con i grillini. Tutto questo non è facile da capire, almeno per me».

Alla fine la sinistra si è alleata con Berlusconi.
«Questo governo non piace a nessuno. Ma credo fosse l'unico possibile. Ringrazio Dio che non si sia fatto un governo con Grillo e magari un referendum per uscire dall'euro. Se poi molti nel Pd volevano governare con Grillo e io non sono d'accordo non è un dramma. Ora il Pd è di moda occuparlo, prendere la tessera per poi stracciarla. Non ne posso più di queste spiritosaggini».

Apprezza Letta?
«Le ho detto che seguo poco. Se mi chiede chi è ministro di cosa, magari non lo so. Quando viaggio compro sei giornali, ma dopo dieci minuti li poso e comincio a guardare fuori dal finestrino...».

Colpa dei giornali o della politica?
«Magari è colpa mia. Mi sento, mischiando Prezzolini e Togliatti, un "inutile apota". Comunque nutro un certo rispetto per il lavoro non facile di Letta e di Alfano. Sono stufo del fatto che, appena si cerca un accordo su una riforma, subito da sinistra si gridi all'"inciucio", al tradimento. Basta con queste sciocchezze. Basta con l'ansia di non avere nemici a sinistra; io ho sempre avuto nemici a sinistra, e non me ne sono mai occupato. Ho votato Pci quando era comunista anche Napolitano. Ma viene il momento in cui la realtà cambia le cose, bisogna distaccarsi da alcune vecchie certezze, lasciare la ciambella di salvataggio ed essere liberi di nuotare, non abbandonando per questo la tua terra d'origine. Non ce la faccio più a sentir recitare la solita solfa "Dì qualcosa di sinistra". Era la bellissima battuta di un vecchio film, non può diventare l'unica bandiera delle anime belle di oggi. Proviamo piuttosto a dire qualcosa di sensato, di importante, di nuovo. Magari scopriremo che è anche di sinistra».

Di Berlusconi cosa pensa?
«Berlusconi è stato fondamentalmente un uomo d'azienda. Nel suo campo e nel suo tempo una persona molto abile, non un vecchio padrone delle ferriere. Ha fatto politica solo per proteggere i suoi interessi, senza avere nessun senso dello Stato, nessun rispetto per le regole e, credo, con alle spalle una scarsa cultura generale. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. È imputato di reati gravi e si è difeso dai processi più che nei processi. Che altro vuole sapere? Aveva ragione l'Economist : Berlusconi era inadatto a governare l'Italia. Mi chiedo però anche se l'Italia sia adatta a essere governata da qualcuno».

Un premier non telefona in questura per far liberare un'arrestata dicendo che è la nipote di Mubarak, non crede?
«Certo. Andreotti non si sarebbe mai esposto così. Però, guardi, ho seguito con crescente fastidio e disinteresse l'accanimento sulla sua vita privata. Forse potevamo farci qualche domanda in meno su Noemi e qualcuna di più sull'Ilva di Taranto? Pensare di eliminare Berlusconi per via giudiziaria credo sia stato il più grande errore di questa sinistra. Meglio sarebbe stato elaborare un progetto credibile di riforma della società e competere con lui su temi concreti, invece di gingillarsi a chiamarlo Caimano e coltivare l'ossessione di vederlo in galera. Non condivido nulla dell'etica e dell'estetica berlusconiana, ma mi irrita sentir parlare di "regime berlusconiano": è una falsa rappresentazione, oltre che una mancanza di rispetto per gli oppositori di Castro o di Putin che stanno in carcere. E ho trovato anche ridicolo che si sia appiccicata una lettera scarlatta al sindaco di Firenze per un suo incontro col premier».

Renzi appare l'uomo del futuro.
«Renzi è uno che ha sparigliato. Se il Pd avesse candidato lui probabilmente avrebbe vinto. Ma la scelta del termine rottamazione non mi è mai piaciuta, mi è sempre parsa volgare e violenta. E poi non sono più disposto a seguire nessuno a scatola chiusa».

Quindi non crede in lui? E non voterà alle primarie?
«Il verbo "credere" non dovrebbe appartenere alla politica. Non basta promettere bene e saper comunicare. E poi penso di non votare alle secondarie, si figuri se voterò alle primarie. Il Pd sta passando l'estate a litigare. E magari anche Renzi ne uscirà logorato».

Aveva acceso speranze Grillo e l'idea della rete come veicolo di partecipazione.
«Ho trovato inquietante la campagna di Grillo, il suo modo di essere e di porsi, il rifiuto del confronto, le adunate oceaniche. Condivido i tagli ai costi della politica e la richiesta di moralizzazione che viene da molti e che Grillo ha saputo ben intercettare. Molti elettori e molti eletti del M5S sono sicuramente persone degne e capaci di fare politica. Ma questa idea della Rete come palingenesi e istituzione iperdemocratica mi ricorda i romanzi di Urania».

Con Veltroni avete fatto pace?
«Per quell'intervista mi saltarono addosso in molti, compresi alcuni colleghi cantanti. Qualcuno mi chiese addirittura "Chi ti ha pagato?". Con Veltroni ci siamo incontrati per caso un paio di mesi fa al Salone del Libro a Torino, abbiamo parlato qualche minuto e credo che questo abbia fatto piacere a tutti e due. È sempre una persona molto ricca sul piano umano. Ma non mi andava di essere catalogato tra i Veltroni Boys».

Non c'è proprio nessuno che le piaccia?
«Papa Francesco, la più bella notizia degli ultimi anni. Ma mi piaceva anche Ratzinger. Intellettuale di altissimo livello, all'apparenza nemico del mondo moderno e in realtà avanzatissimo, grande teologo e per questo forse distante dalla gente. Magari i fedeli in piazza San Pietro non lo capivano. Ma il suo discorso di Ratisbona fu un discorso importante».

Oggi non canterebbe più «Viva l'Italia»?
«Al contrario. Sono convinto che l'Italia abbia grandi chance per il futuro. E ogni volta che canto quella canzone sento che ogni parola di quel testo continua ad avere un peso. "L'Italia che resiste", ad esempio; e solo le anime semplici potevano pensare che c'entrasse qualcosa con lo slogan giustizialista "resistere resistere resistere". "L'Italia che si dispera e l'Italia che s'innamora". L'Italia che ogni tanto s'innamora delle persone sbagliate, da Mussolini a Berlusconi. Ma il mio amore per l'Italia, e per gli italiani, non è in discussione. Sono stato berlusconiano solo per trenta secondi in vita mia: quando ho visto i sorrisi di scherno di Merkel e Sarkozy».

31 luglio 2013 | 7:51
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da - http://www.corriere.it/politica/13_luglio_31/de-gregori-non-voto-piu-cazzullo_ae273fd8-f9a2-11e2-b6e7-d24d1d92eac2.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. ITALIA FUORI (BENE) MA LE CAMERE NE DISCUTANO
Inserito da: Admin - Settembre 03, 2013, 09:59:29 am
ITALIA FUORI (BENE) MA LE CAMERE NE DISCUTANO

UN DIBATTITO NON INUTILE

La crisi in Siria e i rischi di un conflitto


Quando dal pareggio elettorale del 2005 nacque in Germania la Grande Coalizione, Cdu e Spd trattarono per settimane sino a definire un programma concordato. I partiti che in Italia hanno costituito il governo delle larghe intese non sono d'accordo su nulla, tranne una cosa. Paradossalmente, è la stessa, unica cosa che riunifica le correnti del Pd, divise su tutto il resto. L'oggetto di questo grande embrassons-nous è il disinteresse per la Siria. Un coro senza stonature: per carità, meglio il dialogo, noi non c'entriamo, se la vedano loro.
Per giorni tra destra e sinistra è stato tutto un compiacersi per la nostra estraneità, il nostro pacifismo, il nostro buonsenso che ci tiene fuori dai guai. Mario Mauro: «Senza l'Onu non ci muoviamo». Emma Bonino (irriconoscibile): «La partecipazione italiana non è scontata neanche con l'ok dell'Onu». La Bernini (Pdl): «Il ministro Bonino ha perfettamente ragione». Calderoli: «Ci è bastato il Kosovo». Gozi (Pd): «Non è il Kosovo, no all'intervento». Epifani: «Dietro la mossa di Usa, Francia e Gran Bretagna c'è solo una volontà di ritorsione». D'Alema: «Un attacco non risolverà niente». Il blog di Grillo: «Ridicolo Obama Nobel per la pace! Questo nero ben felice di servire l'uomo bianco». Rodotà, Landini e Cecilia Strada: «Le armi non serviranno certo a pacificare la Siria».

Questa non è la reazione di un grande Paese, che ha nel Mediterraneo i suoi interessi vitali, il suo futuro, e pure i suoi militari. Né si devono strumentalizzare le parole del Papa: è giusto auspicare la pace; ma la guerra in Siria non l'ha portata Obama, c'è già, semmai la si deve fermare. Il problema è come. Contro l'intervento ci sono molte buone ragioni, espresse sul Corriere da Angelo Panebianco e Sergio Romano: non ultima appunto la presenza in Libano di oltre mille nostri soldati, che rischiano di trovarsi tra due fuochi. L'Italia ha già dato molto alla comunità internazionale: non si tratta di esporre altri uomini, e di spendere altro denaro pubblico. Ma proprio perché l'impegno delle forze armate e dei contribuenti ci ha restituito una dignità e un ruolo, una questione tanto cruciale non può essere liquidata con una scrollata di spalle.

Le orrende immagini dei civili massacrati dal loro stesso governo sono il punto di non ritorno per un regime tra i più abietti della terra. Gli Assad hanno mantenuto il potere in questi anni con l'appoggio iraniano e russo e grazie a torture e fosse comuni. Nei loro arsenali ci sono tonnellate di iprite, sarin e altri gas letali. La storia insegna che in questi casi far finta di nulla non è una soluzione; e purtroppo talora non lo è neppure l'Onu, dove siedono anche i protettori del regime. È possibile in effetti che l'Italia sia più utile in un ruolo politico che militare. Ma non possiamo sottrarci almeno alla discussione. La questione riguarda tutti, e in particolare il centrosinistra. Nel momento in cui gli unici due leader progressisti del G8, Obama e Hollande, sostengono l'intervento, il Pd pensa di ritrovarsi di fatto sulla linea di Putin? Letta ha mosso un passo, esprimendo «comprensione» per le ragioni della Casa Bianca; ma una simile formula rischia di ricordare gli equilibrismi andreottiani, se non sarà seguita da gesti concreti. Il primo potrebbe essere una seria disamina della crisi alla Camera, quando (entro fine mese) si voterà il rifinanziamento delle missioni di pace. Si discute del Mediterraneo in tutti i Parlamenti, da Londra a Washington; sarebbe il caso di dedicarvi una sessione pure a Roma. Non per discutere interventi militari, ma per delineare a pieno un ruolo politico, oggi del tutto oscuro.

3 settembre 2013 | 7:53
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ALDO CAZZULLO

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_settembre_03/dibattito-non-inutile_feb7d218-1456-11e3-9c5e-91bdc7ac3639.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. La fenomenologia dell’insulto in Rete
Inserito da: Admin - Gennaio 08, 2014, 10:34:00 pm
PARMA

La fenomenologia dell’insulto in Rete
Le maledizioni via web rivolte all’ex segretario Pd operato per emorragia cerebrale

È un fenomeno ormai noto, e certo non solo italiano: la rivolta contro l’establishment e contro ogni forma di rappresentanza, i partiti e i sindacati, le élites e le istituzioni. È ormai palese che la rabbia alimentata dalla crisi e moltiplicata dai social network brucia nello stesso rogo colpevoli e innocenti, senza badare alle responsabilità e neppure alle fragilità della morte e della malattia. Ma la gragnuola di insulti e maledizioni seguita alle notizie sul malore di Bersani va al di là di qualsiasi previsione e consapevolezza. Sapevamo che il pozzo dei livori e dei rancori si fa sempre più oscuro. Ma non ci eravamo accorti di quali profondità avesse raggiunto. Tra i tanti messaggi di odio, spesso firmati con nome, cognome e fotografia, ce n’è uno che colpisce in particolare. Dice: «Anche mio nonno è stato in ospedale, ma non se n’è fregato nessuno». Non è certo uno dei più crudeli, anzi. Altri interventi, nell’esprimere feroce giubilo e malauguri di sofferenza, fanno capire come la Rete abbia infranto tabù e freni inibitori che resistevano dai tempi delle società tribali.

I SOCIAL NETWORK E LE VICENDE PERSONALI - Ma la frustrazione e la solitudine che emergono da quel «post» sono davvero lo specchio del disagio del tempo in cui ci è dato vivere. Quelle parole indicano che non c’è più - o si vorrebbe che non ci fosse - la giusta distanza tra dimensione intima e vita pubblica. Nel villaggio globale, che i social network hanno nello stesso tempo dilatato e rimpicciolito, ognuno ha l’illusione che le proprie vicende personali diventino o debbano diventare di interesse generale. Tutti parlano, molti gridano, minacciano, offendono; e non si capacitano che nessuno ascolti. Il crollo di credibilità della politica (di cui i politici portano grande responsabilità) viene dopo. Prima ancora viene l’insoddisfazione del ritrovarsi nella piazza elettronica del tutto soli con un dolore privato che non è possibile condividere con nessuno. Non l’uomo, ma il proprio io diventa misura di tutte le cose. E il legittimo amore di se stessi si fa ossessione egolatra, destinata ad avvitarsi sempre più nel rancore. Il Novecento dei grandi lutti popolari è finito per sempre, e non è il caso di rimpiangerlo. Ma questa somma di solitudini incapaci di pietà per gli altri e anche solo di consolazione reciproca fa paura; perché, da uomini, non vi riconosciamo nulla di umano.

07 gennaio 2014
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Aldo Cazzullo

Da - http://www.corriere.it/politica/14_gennaio_07/fenomenologia-dell-insulto-rete-e958203a-7766-11e3-823d-1c8d3dcfa3d8.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Il sindaco e il primo giorno da «quasi premier»: non avevo scelta
Inserito da: Admin - Febbraio 15, 2014, 10:29:00 am
IL RETROSCENA

Il sindaco e il primo giorno da «quasi premier»: non avevo scelta
Il colloquio con Delrio Cuperlo lo chiama: no a un liberista all’Economia

«Non era il modo in cui lo sognavo. Ma non avevo altra scelta». È il ritornello del giorno dopo. Matteo Renzi lo ripete a tutti i suoi interlocutori. «Mi ero fatto un altro film: vincere le elezioni, prendere milioni di voti, battere la destra. Non è il consenso che mi manca: per me, sarebbe stato meglio andare a votare subito; ma non per il Paese. Non era possibile. Non senza legge elettorale: con il proporzionale avremmo avuto le larghe intese a vita. Non senza aver riformato il Senato». E poi - questo Renzi non lo dice, ma è ben presente nelle sue valutazioni - Napolitano non avrebbe concesso le elezioni anticipate né ora, né durante il semestre europeo; e il capo dello Stato ha anche ventilato la possibilità di dimissioni, qualora il leader del Pd si fosse mosso in modo da rendere necessario lo scioglimento delle Camere. Un nuovo governo Letta con qualche ministro renziano, oltre a responsabilizzare ancora di più il partito e il suo segretario, avrebbe significato prolungare per un altro anno quella che lui definisce «la palude». «Sarebbe stata la fossa del Pd. E sia ben chiaro - è il ragionamento che Renzi fa nelle conversazioni private - che Enrico non si è mai dichiarato disponibile a un Letta bis, a un vero, nuovo governo nato attraverso una crisi, ma soltanto a un rimpasto. Noi non gli abbiamo mai fatto mancare un voto, neppure in passaggi su cui eravamo perplessi, tipo la fiducia alla Cancellieri. Ma non potevamo sostenere un governicchio per mesi e mesi». Anche gli uomini più vicini a Renzi negano di aver teso un tranello a Letta, di avergli mai fatto credere che «Matteo» si sarebbe accontentato di un rimpasto.

Il sindaco riconosce che forse avrebbe fatto meglio a non usare provocazioni tipo «Enrico stai sereno». Ma questa è la sua natura, il suo stile, il suo linguaggio. «Se non altro, non diranno che sono democristiano». E poi due settimane fa, quando Renzi si chiamava fuori dall’ipotesi del cambio in corsa a Palazzo Chigi, davvero non pensava che la situazione precipitasse così in fretta. Hanno influito, certo, le pressioni delle forze sociali, da Squinzi alla Camusso, per un nuovo governo che rilanciasse l’economia e garantisse i partner europei. Ma sono state decisive da una parte l’apertura di Napolitano, che ha rinunciato a difendere a oltranza Letta rimettendo la questione al partito, e dall’altra appunto l’atteggiamento del Pd, a cominciare dagli uomini di Bersani.

Nel vertice ristretto di lunedì sera, il capo dei deputati Speranza ha avvertito Renzi di non poter assicurare la tenuta del gruppo sulla legge elettorale, con il voto segreto. Di fronte alla prospettiva che saltasse la riforma, il segretario ha rotto gli indugi, e nella riunione di martedì mattina con i parlamentari ha fatto in modo di accelerare, dicendo: «O si ricarica la batteria, o la si cambia». Anche l’opposizione interna ha scelto di cambiarla. Alfano e Scelta civica non aspettavano altro, pur di allontanare lo spettro delle elezioni anticipate (anche se alla prospettiva di arrivare al 2018 non crede quasi nessuno).

«La verità è che mille parlamentari non avevano alcuna intenzione di andare a casa», sintetizza un uomo distante dal Palazzo (né vi entrerà come ministro: «troppi impegni in azienda») ma che sente Renzi tutti i giorni, Oscar Farinetti. «Io ero tra coloro che lo consigliavano di andare a votare subito, come credo volessero i militanti della sinistra e la maggioranza degli italiani. Ma gli ho anche detto che il Paese non può aspettare l’estate. Ci sono cose da fare subito, qui e ora, altrimenti l’Italia muore. Chiudono cento aziende al giorno. Se in pochi mesi non si dimezza la pressione fiscale sulle imprese, non si taglia la burocrazia, non si semplificano le norme sul lavoro con il contratto unico, non si creano nuovi incentivi all’export, moriamo. Non c’è un minuto da perdere. Matteo si stava incartando in una melina in cui aveva tutto da perdere. Qui non c’è da usare il cacciavite di Letta; ci vuole uno schiacciasassi».

Un allarme che Renzi si è sentito ripetere ieri anche da interlocutori che non entreranno al governo (oggi ci sarà un colloquio decisivo con Andrea Guerra di Luxottica, cui verranno offerte le Attività produttive, ma che è orientato a rifiutare). Il primo giorno da premier virtuale è stato in realtà una giornata da sindaco. Il pomeriggio passato con 1268 coppie di anziani, venute a Palazzo Vecchio per festeggiare San Valentino, ha ulteriormente migliorato l’umore di Renzi, che vi ha letto un segno: al di là delle perplessità che arrivano dalla base, e sono diffuse anche nella sua cerchia, l’investimento emotivo che il Paese ha fatto su di lui resta forte, almeno a giudicare dalla furia con cui le anziane signore cercavano di baciarlo e parlargli dei nipoti. Due ore di colloquio a quattr’occhi con Delrio, il suo vero numero 2, lo hanno riportato alla realtà. Così come una telefonata di Cuperlo, che gli ha chiesto di «non mettere un liberista al ministero dell’Economia». Poi Renzi ha visto gli assessori, per chiudere due pratiche prima di lasciare il Comune: il regolamento urbanistico, per attuare il piano a volumi zero (sarà possibile «costruire solo sul costruito»); e il nuovo stadio della Fiorentina a Mercafir, nella zona dei mercati, un investimento dei Della Valle da 200 milioni di euro. I ritmi ora si fanno serrati: domani o lunedì l’incarico di formare il nuovo governo, lunedì mattina l’ultima giunta prima di scendere a Roma. Renzi non si dimetterà da sindaco, per evitare l’arrivo del commissario. Attenderà di decadere per incompatibilità, in modo da lasciare la gestione del Comune a un nuovo vicesindaco, che potrebbe essere già l’uomo scelto per la successione (fiorentini permettendo), Dario Nardella. «L’avresti detto un anno fa che saremmo arrivati fin qui?» gli ha chiesto Renzi, rievocando la sconfitta alle primarie. Già allora il sindaco si era candidato per andare a Palazzo Chigi. E già quando, dopo le elezioni, Napolitano si trovò a scegliere tra Letta, Amato e lui, era pronto ad accettare. La scelta di questi giorni non può essere definita un sacrificio, ma il coronamento di un sogno, sia pure non nei modi in cui sperava. «Alla terza possibilità, stavolta non potevo tirarmi indietro».

15 febbraio 2014
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Aldo Cazzullo

Da - http://www.corriere.it/politica/14_febbraio_15/sindaco-primo-giorno-quasi-premier-non-avevo-scelta-9b566092-9609-11e3-9817-5b9e59440d59.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Quando Renzi al liceo voleva cacciare Forlani
Inserito da: Admin - Febbraio 19, 2014, 11:35:32 am
Il ritratto del sindaco di Firenze / «Lo chiamavano il Bomba, le sparava grosse»
Quando Renzi al liceo voleva cacciare Forlani
Le battute, il look, gli scout.
La carriera costruita (sin da piccolo) sulla guerra all’establishment

Al liceo lo chiamavano il Bomba, perché le sparava grosse. Così almeno raccontò un suo ex compagno in una perfida telefonata a un’emittente fiorentina, Lady Radio. Avevano sorriso anche i professori, leggendo il suo articolo su «Il divino», mensile del liceo ginnasio Dante di Firenze: «Forlani ha commesso molti errori, anche nella formazione delle liste, e dovrà passare la mano, com’è giusto che sia per un segretario che perde il 5%. La Dc deve veramente cambiare, in modo netto e deciso, mandando a casa i Forlani, i Gava, i Prandini e chi si oppone al rinnovamento...». Era il 1992. Matteo Renzi aveva 17 anni.

È laureato in giurisprudenza (con 109; mancò il 110 perché discutendo la tesi litigò con il relatore), ma non ha un curriculum di eccellenza. Parlotta l’inglese con l’accento toscano, ma non ha fatto master all’estero. Matteo Renzi non è frutto delle élites. È un politico puro. Con i suoi limiti, e con due punti di forza: il fiuto e l’energia. Il fiuto gli ha suggerito che l’unico modo per emergere a sinistra era andare contro la vecchia guardia, cavalcando l’insofferenza della base per leader che non vincevano mai. Poi ha usato contro l’intera classe politica lo stesso linguaggio e gli stessi argomenti della gente comune. Infine ha alzato il tiro contro l’establishment, dalle banche ai sindacati. Si è insomma costruito contro il Palazzo. Per questo l’opinione pubblica è perplessa, ora che lui nel Palazzo entra senza passare dal voto popolare. Ma la sua energia può imprimere uno scossone a un Paese sprofondato in una crisi di fiducia.

Il più giovane presidente del Consiglio è nato l’11 gennaio 1975 a Rignano sull’Arno, 9 mila abitanti, 23 chilometri da piazza della Signoria. Il padre Tiziano - piccolo imprenditore che diventerà consigliere comunale per la Dc - e la madre Laura Bovoli vivono in un palazzone di via Vittorio Veneto, con la primogenita Benedetta di tre anni (nel 1983 arriverà Samuele e nel 1984 Matilde, l’unica impegnata nei comitati elettorali del fratello). Dopo un mese di prima elementare, la maestra, signora Persello, lo promuove: il bambino è sveglio, può passare in seconda. Serve messa a don Giovanni Sassolini, parroco di Santa Maria Immacolata. Gioca stopper nella Rignanese, ma riesce meglio come arbitro e come radiocronista. (Ancora l’anno scorso, in una partita di beneficenza, ha preteso di tirare un rigore: parato, per giunta dal sottosegretario Toccafondi, alfaniano). Si fa eleggere rappresentante di classe. Entra negli scout. Guida un gruppo in una gita in Garfagnana: si perdono in un bosco, passano la notte all’addiaccio. I compagni lo chiamano «Mat-teoria», perché parla parla ma poi a lavorare sono sempre gli altri. Il capo scout Roberto Cociancich scrive: «Matteo ha doti di leader. Lo vedremo crescere». Oggi Cociancich è senatore pd, inserito nel listino in quota Renzi.

Nel 1994, mentre l’Italia antiberlusconiana inorridisce nel vedere il padrone delle tv private entrare a Palazzo Chigi, Renzi va nelle tv private di Berlusconi: in cinque puntate della «Ruota della fortuna» con Mike Bongiorno vince 48 milioni. L’anno dopo, a vent’anni, fonda a Rignano un circolo in sostegno di Prodi. Nel 1999 si laurea con una tesi su «La Pira sindaco di Firenze» e sposa Agnese Landini, conosciuta agli esercizi spirituali nell’Agesci.

Organizza la rete di strilloni per conto dell’azienda del padre, per distribuire La Nazione in strada. Con i soldi che ha guadagnato parte assieme agli amici scout per il Cammino di Santiago: una settimana di pellegrinaggio a piedi. Al ritorno i capi gli propongono di candidarsi alla guida del partito popolare di Firenze, che ha appena toccato il minimo storico: 2 per cento. Renzi accetta e vince il congresso. Segretario nazionale è Franco Marini.

Palazzo Vecchio è in mano ai postcomunisti. Ai cattolici, cioè a lui, tocca la Provincia. La trasforma «da cimitero degli elefanti a fucina della propria carriera», come scrive il suo biografo David Allegranti. Si inventa la kermesse culturale «Il Genio fiorentino», la società di comunicazione Florence Multimedia, e Florence Tv, un canale che ne illustra le gesta. Il primo a invitarlo in una tv vera è Corrado Formigli su Sky. Gli spettatori scoprono un ragazzo che non parla come un politico ma come uno di loro. Fa gaffe e le racconta, confonde Churchill con De Gaulle e ne ride. Nel 2006 passa in città Berlusconi. Ai suoi uomini confida: «Quel Matteo è bravo, ma sbaglia a vestirsi di marrone: fa tanto sinistra perdente».

Scrive Claudio Bozza del Corriere Fiorentino che qualcuno lo riferisce all’interessato. Il marrone è abolito. Da allora, Renzi evita anche di vestirsi come un politico. Preferisce i jeans Roy Rogers Anni 80 e il giubbotto di pelle da Fonzie («ma la pelletteria è un settore trainante dell’export italiano!»), oppure le camicie bianche senza cravatta con le giacche blu elettrico di Scervino. Taglia il ciuffo. Dimagrisce mangiando banane e iniziando a correre. Martella i colleghi. Corteggia la categoria che lo attrae di più: gli imprenditori. Una città abituata a perpetrare le sue gerarchie si riconosce nel giovanotto venuto dal contado.

Nel 2009 Renzi si candida alle primarie per Palazzo Vecchio. Il partito ha prescelto Lapo Pistelli, di cui è stato assistente parlamentare. Lo batte con il 40,5% contro il 26,9. Dirà un anno e mezzo dopo: «Non ho vinto io perché ero un ganzo, è che gli altri erano fave». Supera al ballottaggio il portiere Giovanni Galli ed è sindaco. Come primo provvedimento, elimina le auto blu: tutti a piedi. Lui gira in bicicletta (prova anche l’auto elettrica: tampona la macchina davanti. Poi impara). Comunica che la tranvia in centro, di cui si discute da anni, non si farà, anzi: piazza Duomo diventerà pedonale. Addio comunicati stampa: le notizie le dà direttamente lui, su Facebook e poi su Twitter. Nomina dieci assessori, cinque uomini e cinque donne, tra cui Rosa Maria Di Giorgi, che gli chiede: «Ma in giunta si vota?». Lui risponde: «Certo. Però il mio voto vale undici». Oggi non ne è rimasto neanche uno. Il sindaco li ha sempre scavalcati, parlando direttamente con i funzionari. Quando intuisce che qualcuno passa informazioni riservate ai giornalisti, per scovarlo racconta con tono da cospiratore a tre assessori tre piani diversi per il traffico: individua così il colpevole.

Il presidente di Confindustria Firenze, Giovanni Gentile, critica la sua proposta di introdurre la tassa di soggiorno, lui replica: «Gentile conta come il presidente di un club del burraco». In una vecchia stazione ferroviaria, la Leopolda, riunisce i giovani del partito, affida il format a Giorgio Gori e la regia a Fausto Brizzi. Dice che la classe dirigente del Paese va «rottamata», come le automobili. La settimana dopo, va a pranzo da Berlusconi ad Arcore. «Per Firenze questo e altro» si giustifica. In realtà, Renzi non è antiberlusconiano; semmai postberlusconiano. Frase-chiave: «Io lo voglio mandare in pensione, non in galera».

Nell’estate 2012 sfida Bersani per la candidatura a Palazzo Chigi. Ma il vero obiettivo polemico è D’Alema. D’Alema consiglia a Bersani di evitare lo scontro, il segretario fa cambiare lo statuto per indire le primarie: «Renzi non vince». Il giro d’Italia di Renzi in camper è trionfale. Lo slogan: «Adesso!». La nomenklatura del Pd lo avversa come un usurpatore. Bersani è costretto al ballottaggio, ma prevale, anche a causa del regolamento che restringe la partecipazione. Renzi respinge l’idea di una lista con il suo nome, quotata nei sondaggi al 15%. L’appoggio alla campagna del partito è blando; ma neppure lui immagina la débâcle. Quando Bersani tenta di aprire ai Cinque Stelle, Renzi lo gela: «Si è fatto umiliare». Bersani rinuncia a formare il governo.

Si vota per il Quirinale. Marini gli telefona per chiedere appoggio. Renzi sbotta con i presenti: «Ma vi rendete conto? Mi ha chiamato per dirmi di aiutarlo a diventare presidente della Repubblica, perché lui è cattolico. Che vuol dire? Anche io sono cattolico, ma per me è un valore prezioso e privato». I renziani votano Chiamparino, poi Prodi, infine Napolitano. Lui si illude per un giorno che il presidente rieletto possa affidargli l’incarico, che tocca a Letta. È allora che decide di candidarsi alla segreteria del Pd. Per la nomenklatura l’usurpatore è diventato un male necessario. L’obiettivo minimo è evitare che Letta e Alfano si accordino per una legge elettorale proporzionale che renda eterne le larghe intese. L’obiettivo massimo è Palazzo Chigi. Frase-chiave: «La vecchia sinistra ha sempre voluto cambiare gli italiani. Io voglio cambiare l’Italia».

16 febbraio 2014
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Aldo Cazzullo

Da - http://www.corriere.it/politica/14_febbraio_16/quando-renzi-giornale-liceo-voleva-mandare-casa-forlani-0cf39f80-96dc-11e3-bd07-09f12e62f947.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. E Matteo puntò tutto sull’età Svolta generazionale in attesa...
Inserito da: Admin - Febbraio 22, 2014, 06:09:29 pm
IL COMMENTO

E Matteo puntò tutto sull’età
Svolta generazionale in attesa del resto
Novità sottolineata anche dal presidente Napolitano.
Ora la sfida è cambiare davvero


Quando al Quirinale è iniziato a circolare il nome di Guidi, molti cronisti hanno pensato a Guidalberto, storico dirigente degli industriali italiani. Era invece Federica: sua figlia. Non potendo avere il braccio destro Delrio al ministero dell’Economia, dovendo accontentare gli alleati e le correnti avverse del suo stesso partito, Renzi ha puntato sul ricambio generazionale per marcare la propria impronta sul governo. Si è impuntato per avere agli Esteri una neoquarantenne, Federica Mogherini, al posto di un politico esperto come Emma Bonino. Ha accorpato due incarichi - Riforme e Rapporti con il Parlamento - affidandoli al ministro più giovane, Maria Elena Boschi, 33 anni compiuti il 24 gennaio, unica esponente del «giglio magico» fiorentino. Anche vedere al governo una giovane donna con il pancione, come Marianna Madia, 33 anni e incinta di otto mesi, rappresenta un segno di apertura al futuro, in un Paese a volte gerontocratico.

Da sola, però, l’età non basta. Essere giovani non è un difetto, come appare talora in Italia; ma neppure un merito. Il ricambio generazionale non è soltanto un fatto anagrafico; consiste nel fare cose nuove, o nel fare le cose di prima in modo diverso. Renzi va al governo in modo vecchio. Non con un voto popolare, ma con una manovra interna a quel Palazzo contro cui si era scagliato con parole e toni non così diversi da quelli di Grillo. Per redimersi dal «peccato originale», come l’ha definito l’Osservatore Romano , il nuovo premier ha bisogno di ricostruire il proprio rapporto con l’opinione pubblica. Per questo ieri sera al Quirinale, con la voce arrochita da due ore e mezza di colloquio con Napolitano (e con gli interlocutori chiamati al telefono), si è rivolto direttamente ai suoi coetanei, sottolineando l’età media della squadra, mai così bassa - 48 anni -, e rivolgendo «un messaggio ai ragazzi: non è vero che la politica non è una cosa seria; non è vero che in Italia nulla è possibile».

Già dieci mesi fa l’investitura di Enrico Letta, cui Napolitano aveva poggiato fisicamente il braccio sulle spalle, segnava un passaggio di generazione. Ma i quarantenni sono troppo poco solidali tra loro per riuscire a fare rete, a sostenersi l’un l’altro. Una condanna confermata dalla sorte di Letta, abbandonato dai coetanei del suo partito e alla fine anche da Alfano. Ora tocca ai trentenni. L’età di Renzi rappresenta in sé una novità, ribadita anche dal capo dello Stato. Il Paese, non soltanto il presidente del Consiglio, assume un rischio, in parte mitigato dalla presenza al suo fianco di uomini di maggiore esperienza e rapporti internazionali. La sfida ora è dimostrare che l’Italia può cambiare davvero, può dare una chance non solo a ragazzi fortunati cooptati ai vertici della politica (Mogherini, Madia, Orlando, Lorenzin sono entrati in Parlamento con il Porcellum) ma anche ad ambienti e ceti rimasti finora ai margini della vita pubblica. Grillo, il leader più votato dai giovani alle ultime elezioni, sa che qualora Renzi avesse successo le proprie fortune declineranno, ed è pronto a un’opposizione durissima, al limite dell’ostruzionismo fisico alle Camere.

La strada del premier si preannuncia in salita, fin dal voto di fiducia. I nomi e l’anagrafe sono importanti, ma non sufficienti. Se il nuovo governo saprà parlare a generazioni lontanissime dalla politica, se dimostrerà che è davvero possibile intaccare il muro dei privilegi e dei conservatorismi italiani, soltanto allora si potrà parlare di autentico ricambio.

22 febbraio 2014
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Aldo Cazzullo

Da - http://www.corriere.it/politica/14_febbraio_22/matteo-punto-tutto-sull-eta-svolta-generazionale-attesa-resto-7893e30e-9b90-11e3-87f4-ff088781357a.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Basta con le élite arteriosclerotizzate
Inserito da: Admin - Febbraio 24, 2014, 06:43:20 pm
L’ex premier: nella macchina dello Stato si mandino via i diecimila che non servono e si assumano mille competenti
«Basta con le élite arteriosclerotizzate Ma non tutti i vecchi sono da rottamare»
Amato: «Credo molto al ringiovanimento. Bene la lotta alla burocrazia. Ma Letta ha 47 anni e ha un grande futuro davanti»

Professor Giuliano Amato, Renzi indica nella lotta alla burocrazia «la madre di tutte le battaglie». Gli uomini a lui più vicini mettono sotto accusa l’intero establishment italiano. Il quale, dicono, considera il nuovo premier come un «barbaro».
«A me non è sembrato proprio che lo sia».
Ma la storia di Renzi è tutta dentro un fenomeno non solo italiano: la rivolta contro le élite.
«Esistono élite innovative, che portano innovazione, ed élite arteriosclerotizzate, che ostacolano l’innovazione. Renzi non deve fare la guerra alle élite, ma alle élite arteriosclerotizzate. Abbiamo bisogno di specialisti dell’innovazione che ci aiutino a cambiare. Altrimenti si ricade in quella che proprio sul Corriere abbiamo definito “la sindrome dell’uno di noi”».
L’alta burocrazia e tutta la macchina dello Stato sono viste sempre più come un blocco ostile alla crescita e al ricambio. Non crede?
«Trovo interessante che si ponga oggi come questione da risolvere il rapporto tra la politica e l’establishment burocratico. All’estero mi hanno fatto notare: quando parlate di riforme di struttura, puntate l’occhio sempre e solo sul mercato del lavoro; ma la prima questione italiana sono gli apparati amministrativi, e le esternalità negative che generano».
Appunto.
«Ma la battaglia contro la burocrazia può essere una delle tante battaglie retoriche contro un facile nemico. Non dimentichiamoci che la burocrazia, proprio per la regolarità delle sue norme, venne ritenuta da Max Weber l’espressione necessaria della razionalità dello Stato rispetto all’arbitrio, al carisma, alle varietà delle tradizioni che prima di essa esistevano. È significativo però che lo stesso Weber nei suoi ultimi anni, prima di morire ancora giovane di febbre spagnola, parlò della burocrazia come di “macchina senz’anima”, “spirito coagulato”. Lui stesso coglieva nella burocrazia l’entropia cui era soggetta, perdendo di vista il fine per cui sono state create le norme, pensando all’autotutela dei propri interessi piuttosto che alla tutela degli interessi per cui viene mantenuta dalla società».
È quello che accade in Italia: la burocrazia che si autoalimenta.
«Sì, ci sono momenti in cui di queste malattie della burocrazia si risente in modo particolare. L’Italia oggi attraversa uno di quei momenti. Ma ci sono anche momenti in cui la burocrazia di cui si dispone viene vissuta come strumento delle innovazioni che si vogliono introdurre. Pensi al New Deal, all’importanza che ebbero gli apparati nel realizzare le riforme impostate nei cento giorni. Pensiamo a noi stessi, alle grandi figure tra il politico e il burocratico che trasformarono l’Italia nei primi decenni del Novecento».
A chi pensa?
«Ad Alberto Beneduce: figura tecnica che riformò tutto il rapporto tra Stato ed economia; l’uomo dell’Iri, del Crediop, dell’Imi e, insieme con altri, della riforma della Banca d’Italia. Penso a figure come Arrigo Serpieri, che dà un assetto nuovo alla nostra agricoltura, e come Oscar Sinigaglia, primo presidente dell’Ilva, poi della Finsider. Ancora pochi anni prima, però, mentre Giolitti sta cercando di trasformare l’Italia ancora gretta nell’Italia che riconosce gli scioperi e i diritti sociali, un uomo come Salvemini fa una sparata contro “l’albero mortifero della burocrazia, lenta, complicatissima, non rispondente affatto ai bisogni delle popolazioni perché risponde esclusivamente ai propri bisogni”».
Pare il ritratto dell’Italia di oggi.
«Oggi l’Italia deve cambiare e percepisce come allora che la burocrazia, anziché veicolo di cambiamento, è un freno. Già negli Anni 50 Peter Drucker intuisce che, in un mondo che si sta globalizzando, quei grandi conglomerati burocratici che sono gli apparati pubblici e gli stessi apparati delle imprese sono destinati ad andare a sbattere, e occorrono organizzazioni più flessibili, capaci di mettere alla prova tutte le nuove professionalità di cui si può disporre. Da qui la domanda se debbano cambiare le regole o le persone e la loro cultura. Sono vere entrambe le cose: le regole alimentano una vecchia cultura; ma senza nuove persone e una nuova cultura, le vecchie regole prevalgono».
Mi spiace riportarla da Peter Drucker a Luca Lotti...
Per arrivare all’attualità serve ancora un passaggio. Il reinventing governement del tandem Clinton e Gore, che avevano capito la lezione di Drucker, fu un grande piano di riorganizzazione del personale pubblico volto a cambiare le professionalità, e a portare non le procedure ma gli obiettivi al centro dell’azione pubblica».
Perché da noi non è accaduto?
«Perché negli ultimi decenni le figure tecniche sono scomparse dall’amministrazione pubblica. Fino agli anni 50 e 60 esistono ruoli tecnici che fanno capo in particolare ai ministeri più operativi: Lavori pubblici, Trasporti, Agricoltura. Questo personale tecnico va in pensione e non viene sostituito. Prevale il laureato in giurisprudenza, con una media cultura in diritto, che è la figura tipica per la quale la preoccupazione di non avere problemi con la Corte dei conti è naturalmente prevalente sulla preoccupazione di raggiungere il risultato dell’azione pubblica. Facciamo anche noi tentativi di reinventing governement ...».
Ad esempio?
«Nei primi anni 80 Giorgio La Malfa da ministro del Bilancio introduce l’analisi costi-benefici per la valutazione degli investimenti pubblici. Pochi anni dopo Mario Sarcinelli, grande direttore generale del Tesoro, fa passare una legge per assumere giovani con nuove professionalità, come budget e management del debito, di cui l’Italia aveva bisogno. È la stagione in cui il Tesoro si rinnova, in cui arrivano Draghi e Bini-Smaghi. Ci si rende conto che il controllo di ciò che fa lo Stato non può essere solo giuridico, e che la Corte dei conti deve essere formata anche da economisti».
Oggi nella Corte dei conti gli economisti si contano sulle dita di una mano.
«È così. Lo sforzo maggiore lo fa Franco Bassanini, con le leggi di fine anni 90 che introducono il controllo gestionale e il controllo strategico. È l’intervento riformatore più esplicitamente derivato dal modello di Clinton e Gore. Loro però ebbero otto anni, durante i quali lavorarono anche sul personale. Bassanini ebbe solo due anni: cambiò le regole, non il personale; e le nuove regole vennero assorbite dalle vecchie».
Ora è arrivata la crisi del debito, e la spending review.
«E lo Stato non riesce a dotarsi di nuove professionalità. Per spendere il meno possibile fa il blocco del turn-over, trattiene finché morte non li separi coloro che non gli servono, e chiude la porta a coloro che gli servirebbero. Dove operano dirigenti nuovi, portatori di un nuovo spirito, l’amministrazione riesce a funzionare. Non va cancellato tutto, non vanno eliminati tutti. Ci sono molte persone disponibili a cambiare. Se ne mandino via diecimila che non servono, e se ne mettano mille nei punti giusti: giovani che siano fattori di cambiamento».
Il ricambio non è solo un fatto anagrafico, quindi.
«Deve cambiare non solo l’età, ma anche la formazione. Non insegniamo più diritto e basta: l’analisi economica è ingrediente essenziale della formazione del giovane giurista. Il medico non studia più solo medicina, ma le scienze della salute, che implicano la conoscenza del funzionamento delle strutture sanitarie. Abbiamo straordinari sovrintendenti, ma i Beni culturali hanno uno spaventoso bisogno di manager di Beni culturali; non necessariamente chi ha gestito un McDonald’s riesce a esserlo, ma difficilmente può esserlo un bravo archeologo».
Dario Nardella ha indicato tra i “poteri costituiti” che esercitano un freno all’innovazione, o un’influenza eccessiva sul sistema, anche la Banca d’Italia. Lei che ne pensa?
«Anche se il sistema bancario va tutto in direzione europea, da noi la esercita perché è diventata l’ultima scuola che è rimasta. Io ho grande stima delle persone che escono dalla Banca d’Italia, in genere hanno una preparazione economica superiore; ma considero non felice il destino di un Paese che ha come unica scuola di formazione la sua banca centrale. Noi avevamo avuto le partecipazioni statali come grandi scuole di formazione. Io sono tra coloro che ha contribuito alla liquidazione dell’Iri, e non ne sono pentito; ma certo perdemmo un patrimonio positivo di formazione».
Come trova Renzi? Che effetto le fa vedere a Palazzo Chigi, dove lei è stato due volte, un “ragazzo” di 39 anni?
«Al ringiovanimento dell’Italia credo moltissimo. Mi auguro che sia così. Ormai sono chiuso in convento, faccio il giudice costituzionale, non mi occupo di politica; ma quando ho visto in tv confrontarsi per le primarie del Pd tre giovani di cui il più vecchio aveva 50 anni, da italiano ho provato d’istinto un senso di soddisfazione».
L’hanno chiamata rottamazione.
«Be’, non sono perché vengano rottamati tutti i vecchi. Un minimo di spirito di autodifesa lo dovrò pure avere... Sono un ultrasettantenne, ma sono ancora meglio di tanti cinquantenni, sul campo».
Si riferisce al tennis?
«Ovviamente. Il segreto è giocare con avversari più forti di te. C’è sempre qualcosa da imparare».
C’è anche chi esce di scena precocemente. Letta è stato trattato in modo ingeneroso?
«Proprio perché ha 47 anni, Enrico Letta ha un grande futuro davanti. Di questo sono sicuro».

© RIPRODUZIONE RISERVATA
24 febbraio 2014
ALDO CAZZULLO

Da - http://www.corriere.it/politica/14_febbraio_24/basta-le-elite-arteriosclerotizzate-ma-non-tutti-vecchi-sono-rottamare-a7a1d7cc-9d21-11e3-bc9d-c89ba57f02d5.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Renzi e la fiducia, diretta sms
Inserito da: Admin - Febbraio 26, 2014, 05:44:34 pm
Renzi e la fiducia, diretta sms

di Aldo Cazzullo

    Lunedì, 24 febbraio 2014

22:52 La saggezza del leggendario Marzullo incrociato alla buvette. "Se R. va, va; ma se non va..."
22:51 R ha ribadito che vuole arrivare al 2018. Sottinteso: se cado prima, cado sul cambiamento, non sulla conservazione; e vado a chiedere la fiducia agli italiani
22:49 La senatrice Merloni: "R non ha tutti i torti, qui dentro c'è gente che non ha un grande collegamento con la vita reale..."
22:44 Sull'intervento del sudtirolese R è sul punto di assopirsi
22:42 E' tornata la Boschi, oggi in nero
22:41 R è ormai esausto. I senatori prima di essere aboliti ancora parlano. La fiducia arriverà a notte fonda
22:14 "Forse avrei dovuto fare un discorso più cerimonioso. Ma questo non è un lifting, non è un'operazione di potere. Noi ci giochiamo tutto".
22:14 R. "L'Italia non può essere il paese del "grazie vi faremo sapere", è un paese che può essere leader nel mondo..."
22:08 R. "Ho provato un senso di vergogna" quando non siete riusciti a trovare un successore a Napolitano
22:06 Sacrosanto il passaggio sui 60 miliardi di mercato dei prodotti "Italian sounding", che "suonano" italiani ma non lo sono
21:59 "Non siete in un Truman Show! Io non avrò mai un doppio registro. Vi rispetto ma non chiedeteci di essere diversi da come siamo fuori"
21:58 Ora R rivendica di aver parlato in aula con lo stesso linguaggio e lo stesso tono di sempre e denuncia lo scollamento tra il Palazzo e i cittadini
21:55 Renzi vagamente ironico: "E' stato un pomeriggio istruttivo per me..."
21:38 Delrio: "Matteo non si aspettava questo gelo". Casini: "Socmel, cosa si aspettava? Ci ha detto che ci manda tuttti a casa..."
21:24 La Finocchiaro al nome Renzi increspa il bel volto in un'espressione di disgusto: "diciamo che non mi entusiasma..."
21:20 Rubbia: "ma R i soldi dove li trova?"
21:19 Bonaiuti: a Berlusconi il discorso di R è piaciuto
20:27 Giovanardi alla buvette è sinceramente indignato: "ci ha preso per 315 beoti! Come se non avessimo mai visto una scuola, una comunità di recupero, un incidente stradale!"
20:18 Finalmente un leghista, Volpi: "Non venga qui a fare Candy Candy..."
20:17 Blundo, 5 stelle: "dietro di lei c'è De Benedetti!". I grillini devono avere con De Benedetti un fatto personale


    20:15 Purtroppo Grasso toglie la parola al leggendario Scilipoti
    20:15 Scilipoti ottimista: "la grande maggioranza degli italiani sta scivolando della povertà..."
    20:14 Parla il leggendario Scilipoti e non delude le attese: "intravedo un aspetto anticipatorio di elementi che conducono a una critica risoluta e implacabile..."
    20:13 Albert Laniece della Val d'Aosta annuncia che voterà la fiducia ma gradirebbe che R annullasse i tagli fatti da Trenitalia alle linee per la Val d'Aosta
    20:08 R si riscuote solo quando sente la parola "sindaco"
    20:02 Renzi ha due libri sul banco. Uno è Murakami, l'altro il saggio di Ichino sul lavoro. Sta sfogliando Murakami.
    19:59 Stefano di Sel: "Abolire il Senato non risolve certo i problemi del Paese!". Viva approvazione in aula: e allora teniamocelo!
    19:56 La grillina Simeoni richiama R distratto: "Presidente! Presidente!". E lui: "Chi? Io?"
    19:54 L'ex magistrato Casson fa capire che voterà la fiducia a R nonostante gli faccia orrore
    19:54 Arriva la Finocchiaro, R strizza l'occhio pure a lei che lo definì "miserabile", lei risponde con un cenno della mano
    19:50 Diciamo che finora il livello della discussione in Senato ha abbastanza giustificato l'idea di abolirlo
    19:43 Il grillino Puglia la sa lunga: "accà nisciuno è fesso...voteremo la sfiducia al governo Berlusconi, anzi Renzi, tanto è lo stesso...ci scatenerete contro le truppe mediatiche ma non ci fermerete!"
    19:41 Minzolini recapita messaggio di B: "se la legge elettorale non si fa subito e non entra in vigore subito, il patto salta"
    19:39 Minzolini curvo sul foglio alza il tiro su Alfano cui ricorda "il caso kazako" e su Napolitano: "c'è qualcuno cui non piacciono le elezioni..."
    19:38 L'unico intervento di vera opposizione da Forza Italia è di Minzolini che alla Cinquetti contrappone i Jalisse: "ho sentito fiumi di parole..."
    19:37 Altro gioco di parole della Fuksia: "siamo alla pace dei Renzi..."
    19:36 La Fukia continua a poetare: "il governo sará foscolianamente una corrispondenza di amorosi Renzi..."
    19:35 La grillina Fuksia: "il governo è un misto di comunione e fatturazione e falce e carrello, più lei con l'aria fresca e scanzonata come se fosse al campo dei boy scout"
    19:28 Zanda capogruppo Pd sempre più scapigliato continua ad andare a trovare R
    19:24 Ecco Tremonti, una smorfia di disgusto sul volto
    22:42 E' tornata la Boschi, oggi in nero
    22:41 R è ormai esausto. I senatori prima di essere aboliti ancora parlano. La fiducia arriverà a notte fonda
    22:14 "Forse avrei dovuto fare un discorso più cerimonioso. Ma questo non è un lifting, non è un'operazione di potere. Noi ci giochiamo tutto".
    22:14 R. "L'Italia non può essere il paese del "grazie vi faremo sapere", è un paese che può essere leader nel mondo..."
    22:08 R. "Ho provato un senso di vergogna" quando non siete riusciti a trovare un successore a Napolitano
    22:06 Sacrosanto il passaggio sui 60 miliardi di mercato dei prodotti "Italian sounding", che "suonano" italiani ma non lo sono
    21:59 "Non siete in un Truman Show! Io non avrò mai un doppio registro. Vi rispetto ma non chiedeteci di essere diversi da come siamo fuori"
    21:58 Ora R rivendica di aver parlato in aula con lo stesso linguaggio e lo stesso tono di sempre e denuncia lo scollamento tra il Palazzo e i cittadini
    21:55 Renzi vagamente ironico: "E' stato un pomeriggio istruttivo per me..."
    21:38 Delrio: "Matteo non si aspettava questo gelo". Casini: "Socmel, cosa si aspettava? Ci ha detto che ci manda tutti a casa..."
    21:24 La Finocchiaro al nome Renzi increspa il bel volto in un'espressione di disgusto: "diciamo che non mi entusiasma..."
    21:20 Rubbia: "ma R i soldi dove li trova?"
    21:19 Bonaiuti: a Berlusconi il discorso di R è piaciuto
    20:27 Giovanardi alla buvette è sinceramente indignato: "ci ha preso per 315 beoti! Come se non avessimo mai visto una scuola, una comunità di recupero, un incidente stradale!"
    20:18 Finalmente un leghista, Volpi: "Non venga qui a fare Candy Candy..."
    20:17 Blundo, 5 stelle: "dietro di lei c'è De Benedetti!". I grillini devono avere con De Benedetti un fatto personale
    20:15 Purtroppo Grasso toglie la parola al leggendario Scilipoti
    20:15 Scilipoti ottimista: "la grande maggioranza degli italiani sta scivolando della povertà..."
    20:14 Parla il leggendario Scilipoti e non delude le attese: "intravedo un aspetto anticipatorio di elementi che conducono a una critica risoluta e implacabile..."
    20:13 Albert Laniece della Val d'Aosta annuncia che voterà la fiducia ma gradirebbe che R annullasse i tagli fatti da Trenitalia alle linee per la Val d'Aosta

24 febbraio 2014

Da - http://www.corriere.it/direttasms/renzielafiducia_95/index_renzielafiducia_95.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Oscar a «la grande bellezza»
Inserito da: Admin - Marzo 04, 2014, 07:23:54 pm
Oscar a «la grande bellezza»
Premio a un film su Roma, ma non pensiamo che tanto ce la caveremo sempre
Riconoscimento alla pellicola sulla Capitale mentre vive un periodo di massimo discredito

Di Aldo Cazzullo

Toni Servillo in una scena de «La grande bellezza» di Paolo Sorrentino (Ansa/Fiorito)Toni Servillo in una scena de «La grande bellezza» di Paolo Sorrentino (Ansa/Fiorito)

La coincidenza è perfetta. «La grande bellezza», film ambientato, dedicato, ispirato a Roma fin dal titolo, vince l’Oscar proprio mentre Roma vive il tempo del suo massimo discredito: finanziariamente fallita, amministrata in modo pessimo, prigioniera dello smog e della sporcizia, impoverita dalla maleducazione di molti suoi abitanti e dall’incapacità di molti suoi politici. Così è Roma: una capitale non sempre all’altezza di se stessa, e nel contempo unica al mondo.

L’unica città del pianeta con quasi tre millenni di storia, morta e risorta più volte dalle sue stesse ceneri, fondatrice di un impero universale e centro della Chiesa cattolica, la quale in venti secoli non ha avuto solo demeriti e ha saputo rigenerarsi in modo straordinario proprio un anno fa, con l’elezione di Papa Francesco. (Si potrebbe fare un paragone con Il Cairo. Ma le piramidi sono un monumento morto a una civiltà morta; per visitarle si paga un biglietto. Il Pantheon è vivo, la gente entra ed esce liberamente, vi è sepolto il re che ha fatto l’Italia, vi riposa Raffaello; e, come fece scrivere il Bembo sulla sua tomba, la natura - definita «rerum magna parens», la grande madre delle cose - quando era vivo temette di essere vinta, e quando morì temette di morire con lui).

Pur non essendo romano, o forse proprio per questo, Paolo Sorrentino ha capito tutto. Mai nessun artista della sua, della nostra generazione aveva raccontato in modo così definitivo Roma, nella sua meraviglia e nella sua prosaicità, per il suo universale e per il suo provinciale, fin dalla prima inquadratura del film: la signora appoggiata ai gloriosi busti del Gianicolo con le ragnatele e la Gazzetta dello Sport aperta sul titolo «Allarme per Totti» (scena che sarebbe stata perfetta se al posto della milanese Rosea ci fosse stato il Corriere dello Sport). Il fatto che l’America premi un film su Roma proprio nell’ora del suo massimo discredito, non deve indurci a pensare che tanto alla fine ce la caveremo sempre. Deve farci sperare che non sia detta l’ultima parola, sulla nostra capitale e sul nostro Paese.

03 marzo 2014
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://cinema-tv.corriere.it/cinema/14_marzo_03/premio-un-film-roma-ma-non-pensiamo-che-tanto-ce-cavaremo-sempre-8ef26924-a2e6-11e3-b600-860f014e2379.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. LE DIFFICILI SCELTE SUI TEMI ETICI Dialogo sereno senza ideologie
Inserito da: Admin - Marzo 24, 2014, 05:19:52 pm
LE DIFFICILI SCELTE SUI TEMI ETICI
Dialogo sereno senza ideologie

Di Aldo Cazzullo

Sempre più sindaci aprono registri delle unioni civili e dei testamenti biologici. È possibile che qualcuno sia mosso dall’ideologia. L’impressione è che molti rispondano a una domanda dei cittadini. Sono segni; che però non bastano. Servono leggi. Norme chiare, universali, condivise.

Di solito si obietta che in Parlamento non c’è una maggioranza definita, di sinistra o di destra, e quindi i temi etici vanno rinviati alla prossima legislatura: il vincitore deciderà. Ma è vero il contrario. Proprio perché il governo Renzi si regge su una maggioranza eterogenea (cui su alcune riforme si aggiunge Berlusconi), è questo il momento per trovare un’intesa al di là degli schieramenti e quindi rappresentativa delle varie sensibilità e culture del Paese, destinata a durare (almeno nelle linee di fondo) senza essere legata all’esito delle prossime elezioni.

L’Italia è l’unico Paese dell’Occidente a non avere una legge sulle unioni civili - che non sono il matrimonio omosessuale - e sul fine vita, che non è sinonimo di eutanasia. Il presidente Napolitano ha già sollecitato il Parlamento a intervenire. Sulle unioni civili e sul testamento biologico la Chiesa ha dato segnali di apertura al dialogo, a cominciare dal superamento dell’espressione stessa dei «valori non negoziabili», come ha chiarito papa Francesco nell’intervista al Corriere della Sera. Il buon senso e la cura delle persone sono parte della misericordia civile e religiosa. Devono prevalere sui modelli ideologici e sul disinteresse per la vita vera e il dolore altrui.

Finora i partiti hanno affrontato i temi etici più come una bandiera da sventolare che come una questione da risolvere. Non si sono confrontate due visioni dell’uomo e dei suoi diritti-doveri; si sono scontrate due opposte propagande. Il clima politico di questa legislatura, che sta cominciando a sciogliere con maggioranze ampie nodi ingarbugliati da anni, permette di proseguire lungo altre strade su cui serve un consenso vasto. Ad esempio, è possibile anche superare la rigidità di regole che rendono stranieri in patria i figli degli immigrati fino a diciotto anni, trovando un compromesso che leghi la cittadinanza al completamento di un ciclo di studi. Se le aule parlamentari saranno intasate per mesi dalle misure economiche e dalle riforme istituzionali, ciò non toglie che si possa lavorare alle nuove norme nelle commissioni, senza sottrarre tempo a una discussione approfondita ma anche senza rimandare tutto alla prossima legislatura, che tra l’altro potrebbe essere remota.

Ci sono diversi modi per tutelare i diritti, le aspettative, gli affetti, le cure. Il compito della politica è trovare una soluzione mediana tra impostazioni differenti. Quel che proprio non si può fare è chiamarsi fuori, rifiutare di assumersi responsabilità, rinviare sine die o limitarsi a gridare per rinfocolare la propria parte, lasciando i cittadini e le famiglie da soli con la frustrazione e la sofferenza.

© RIPRODUZIONE RISERVATA
20 marzo 2014 | 09:05

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_marzo_20/dialogo-sereno-senza-ideologie-db0e2a62-aff4-11e3-a027-9deb5b03f50b.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. «No, il Senato non sarà più elettivo»
Inserito da: Admin - Aprile 04, 2014, 04:37:12 pm
Il premier spiega i quattro punti del piano: facciamo sul serio, anche Berlusconi deve rispettare il patto
«No, il Senato non sarà più elettivo»
Renzi striglia Grasso: «Lancia avvertimenti. Se la riforma non passa, mollo tutto. Ho giurato sulla Costituzione, non sui professoroni. Faremo il salario minimo»
di ALDO CAZZULLO

«Il Senato non deve essere eletto, se non passa la riforma finisce la mia storia politica. Se Pera o Schifani avessero lanciato avvertimenti come Grasso, la sinistra avrebbe fatto i girotondi sotto Palazzo Madama». Matteo Renzi, in un’intervista al Corriere, reagisce così alle parole del presidente del Senato sulla riforma. «Basta con i professionisti dell’appello - insiste -, ho giurato sulla Costituzione non su Rodotà e Zagrebelsky. Se vogliamo ribaltare burocrazia ed establishment dobbiamo partire dalla politica».

Matteo Renzi, il presidente del Senato è contro la sua riforma costituzionale. La leader della Cgil è contro la sua riforma del lavoro. Più in generale, l'impressione è che l'establishment, il sistema, non sia entusiasta dell'esordio del suo governo.
«L'impressione è che se ne siano accorti, che facciamo sul serio. Ci hanno messo un po', ma se ne sono accorti. Domani (oggi per chi legge) presenteremo il disegno di legge costituzionale per superare il Senato e il titolo V sui rapporti Stato-Regioni. Sarà uno spartiacque tra chi vuole cambiare e chi vuole far finta di cambiare. Entriamo nei canapi. Vedremo chi correrà più forte».
Le rimproverano proprio questo: l'impazienza, la precipitazione.
«Sono trent'anni che si discute su come superare il bicameralismo perfetto. Questo stesso Parlamento doveva approfondire il tema con la commissione dei 42. Non è più possibile giocare al "non c'è stato tempo per discutere". Ne abbiamo discusso. Venti giorni fa, nella conferenza stampa su cui avete tanto ironizzato, quella della "televendita", abbiamo presentato la nostra bozza di riforma costituzionale. L'abbiamo messa sul sito del governo. Abbiamo ricevuto molti spunti e stimoli, anche da Confindustria e Cgil, gente che non è che ci ami molto. Abbiamo incontrato la Conferenza Stato-Regioni e l'Anci. Abbiamo fatto un lavoro serio sui contenuti. Ora è il momento di stringere. Il dibattito parlamentare può essere uno stimolo, un arricchimento. Ma non può sradicare i paletti che ci siamo dati» .
Quali sono i punti irrinunciabili del vostro disegno di legge?
«Sono quattro. Il Senato non vota la fiducia. Non vota le leggi di bilancio. Non è eletto. E non ha indennità: i rappresentanti delle Regioni e dei Comuni sono già pagati per le loro altre funzioni».
L'elezione diretta dei senatori è il cardine della proposta di Pietro Grasso. E anche Forza Italia pare d'accordo.
«L'elezione diretta del Senato è stata scartata dal Pd con le primarie, dalla maggioranza e da Berlusconi nell'accordo del Nazareno. Non so se Forza Italia ora abbia cambiato idea; se è così, ce lo diranno. L'accordo riduce il costo dei consiglieri regionali, che non possono guadagnare più del sindaco del comune capoluogo. Elimina Rimborsopoli. È un'operazione straordinaria, un grande cambiamento. È la premessa perché i politici possano guardare in faccia la gente. Se vogliamo eliminare la burocrazia, le rendite, le incrostazioni, la logica di quella parte dell'establishment per cui "si è sempre fatto così", dobbiamo dare il buon esempio. Dobbiamo cominciare a cambiare noi. Con la legge elettorale, con l'abolizione delle Province, con il superamento del Senato. Rimettere dentro, 24 ore prima, l'elezione diretta dei senatori è un tentativo di bloccare questa riforma. E io domani (oggi, nda ) la rilancio. Scendo io in sala stampa a Palazzo Chigi, con i ministri, a presentarla».
Sarà un altro show?
«Ma no, lascio fare a loro. Però scendo anche io, ci metto la faccia. Quel che dev'essere chiaro è che su questo punto mi gioco tutto».
Sta dicendo che se non passa la vostra riforma del Senato cade il governo?
«Non solo il governo. Io mi gioco tutta la mia storia politica. Non puoi pensare di dire agli italiani: guardate, facciamo tutte le riforme di questo mondo, ma quella della politica la facciamo solo a metà. Come diceva Flaiano: la mia ragazza è incinta, ma solo un pochino. Nella palude i funzionari, i dirigenti pubblici, i burocrati ci sguazzano; ma nella palude le famiglie italiane affogano. Basta con i rinvii, con il "benaltrismo". Alla platea dei "benaltristi", quelli per cui il problema è sempre un altro, non ho alcun problema a dire che vado avanti: non a testa bassa; all'opposto, a testa alta. Noi il messaggio dei cittadini l'abbiamo capito, non a caso il Pd vola nei sondaggi: la gente si è resa conto che ora facciamo sul serio. Avanti tutta».
Ma cosa rimarrebbe da fare al Senato secondo lei?
«Il nuovo Senato non lavora tutti i giorni su tutte le proposte di legge, ma su quelle che riguardano la Costituzione, i territori, l'Europa. Vogliamo discutere una funzione in più o in meno? Benissimo».
Mario Monti propone di inserire rappresentanti della società civile.
«La proposta di Monti è dentro il pacchetto del governo, e ne rappresenta uno dei pezzi più delicati e discussi dai costituzionalisti: lasciamo ventuno senatori non scelti dalle Regioni e dai Comuni ma indicati dal capo dello Stato, in rappresentanza della società civile. Se non si deve costituzionalizzare la Camera delle autonomie, non per questo il Senato deve diventare il "Cnel-2, la vendetta". Il Cnel è uno dei grandi fallimenti della storia repubblicana. Non a caso tentano di difendere il Cnel parti sociali e associazioni di categoria che prima ci chiedono di cambiare tutto, poi ci mandano documenti affinché tutto resti com'è».
Grasso le ha detto con chiarezza che in Senato non ci sono i numeri per la riforma che vuole lei.
«Sono molto colpito da questo atteggiamento del presidente Grasso. Io su questa riforma ho messo tutta la mia credibilità; se non va in porto, non posso che trarne tutte le conseguenze. Mi colpisce che la seconda carica dello Stato, cui la Costituzione assegna un ruolo di terzietà, intervenga su un dibattito non con una riflessione politica e culturale, ma con una sorta di avvertimento: "Occhio che non ci sono i numeri". Mai visto una cosa del genere! Se Pera o Schifani avessero fatto così, oggi avremmo i girotondi della sinistra contro il ruolo non più imparziale del presidente del Senato. Io dico al presidente Grasso: non si preoccupi se non ci sono i voti; lo vedremo in Parlamento. Vedremo se i senatori rifiuteranno di ascoltare il grido di cambiamento che sale dall'Italia, il grido che tocco con mano con evidenza direi da sindaco quando vado in giro, quando leggo le mail che ricevo. C'è un Paese che ha voglia di cambiare. Noi al Paese avanziamo una proposta per ridurre i costi e aumentare l'efficienza della politica. Siamo disponibili a migliorarla; non a toccare i paletti concordati. Oggi vedremo se qualcuno si tirerà indietro. Lo dico per il presidente Grasso, che stimo: lanciare avvertimenti prima che la riforma vada in discussione è un autogol. Non lo dice il segretario del partito che l'ha voluto in lista, né il presidente del Consiglio. Lo dice un ormai ex studente di diritto parlamentare».
Guardi che i professori, da Rodotà in giù, le danno torto.
«Ho letto altri commenti di tanti professori, molto interessanti. Non è che una cosa è sbagliata se non la dice Rodotà. Si può essere in disaccordo con i professoroni o presunti tali, con i professionisti dell'appello, senza diventare anticostituzionali. Perché, se uno non la pensa come loro, anziché dire "non sono d'accordo", lo accusano di violare la Costituzione o attentare alla democrazia? Io ho giurato sulla Costituzione, non su Rodotà o Zagrebelsky».
La sua riforma costituzionale include le norme per rafforzare i poteri del premier, compresa la revoca dei ministri?
«Ne ha parlato Forza Italia. Ma non erano nell'accordo del Nazareno, e non le abbiamo messe».
Sulla riforma del lavoro il no viene dai sindacati, e dalla sinistra del Pd. Oggi i contratti a termine possono essere rinnovati una volta sola. Con il decreto del governo potranno essere rinnovati otto volte per 36 mesi. Non significa aumentare la precarietà?
«In questo momento la vera sfida è far lavorare la gente. Oggi la gente non sta più lavorando. La disoccupazione ha raggiunto percentuali enormi, atroci. Ne parlavamo con Obama, colpito dalla tenuta sociale di un Paese con il 12% di disoccupazione. È vero che noi abbiamo un welfare molto diverso da quello americano. Ma in questo scenario io credo che ci fosse bisogno di dare subito un segnale netto sul lavoro, in particolare su apprendistato e contratti a termine. Non si utilizzi questo segnale per trasmettere un'idea sbagliata. Il nostro obiettivo è rendere più conveniente assumere a tempo indeterminato piuttosto che a tempo determinato; ma non lo si raggiunge mettendo blocchi. Si può usare la leva fiscale, e vedremo se ci sono le condizioni. E si devono modificare in modo complessivo le regole, come faremo con il disegno di legge delega. Vedo che sta crescendo l'attenzione degli investitori sul nostro Paese. Certo, è il frutto di fenomeni macroeconomici nelle Borse di tutto il mondo, delle attese sulle nostre aziende. Ma ci sono anche grandi attese sul nostro governo: che sta portando gli interessi al livello più basso da anni; che sta portando capitali non dico a investire ma ad affacciarsi sul mercato italiano. Questo lo si deve pure alla determinazione con cui abbiamo voluto iniziare dalle riforme della politica e del lavoro».
Nel disegno di legge delega ci sarà pure il salario minimo?
«Ci saranno sia il salario minimo sia l'assegno universale di disoccupazione. Ne discuterà il Parlamento, anche delle coperture. Affronteremo una delle grandi questioni del nostro Paese: trovo sconvolgente che l'Italia abbia il tasso di natalità più basso. Dobbiamo garantire le tutele della maternità alle donne che non le hanno».
È imminente una tornata di nomine: Eni, Enel, Finmeccanica, Terna, Poste. Ci saranno uomini nuovi?
«Illustreremo le nostre scelte nei prossimi giorni. "Uno alla volta, per carità..."».
Le privatizzazioni delle aziende a controllo pubblico andranno avanti?
«La prossima settimana approveremo il Def che individua nel dettaglio le coperture per i tagli all'Irpef, all'Irap, alla bolletta energetica delle piccole e medie imprese, e individuerà la linea d'orizzonte economica di questo governo».
Sull'economia lei non mi sta rispondendo.
«Ma se la politica dimostra di saper riformare se stessa, l'Italia diventa credibile in Europa, e anche la sua credibilità economica cresce. Il nostro pacchetto di riforme ha impressionato i partner internazionali. Quel che conta adesso non è il programma; è il crono-programma. Tutti hanno sempre detto che bisogna superare il bicameralismo e ridurre i parlamentari; ora noi dobbiamo farlo, in tempi certi. Questo crea imbarazzi e difficoltà. Ma a me non interessa il futuro di un centinaio di politici. A me interessa il futuro delle famiglie italiane. Quando vado ai vertici internazionali immagino come sarà l'Italia da qui a cinque anni. Come sarebbe bello che l'Italia fosse più semplice, più smart, più attrattiva, che spendesse meno per gli interessi sul debito e più per il futuro. Io la vedo, questa Italia. Mi pare di toccarla. Ma il cambiamento deve partire dai politici. Come puoi cambiare il Paese e l'Europa, se non hai il coraggio di cambiare il Senato?».
A che punto è la storia delle sue case? Oggi il Fatto quotidiano scrive che, prima dell'appartamento pagato da Carrai, lei a Firenze aveva affittato una mansarda «a prezzo simbolico» da Luigi Malenchini, marito di Livia Frescobaldi, nominata dal Comune nel gabinetto Vieusseux.
«Capisco il tentativo di dimostrare che tutti sono uguali. Ma cascano male. L'appartamento non era semplicemente pagato da Carrai: era di Carrai. Chi doveva pagarlo, scusi! I miei contratti, come il mio conto corrente, sono pubblici e trasparenti. Io ho una sola casa e ho il mutuo sopra. Il cda del Vieusseux, come sanno tutti i fiorentini, è gratis, e comunque le nomine sono state fatte anni dopo il periodo dell'affitto, che tutto era tranne che simbolico, tanto e vero che ho disdettato dopo un anno perché non riuscivo a pagarlo. Ma visto che è stata chiamata in ballo la magistratura, che ha aperto un fascicolo, aspettiamo e vediamo cosa diranno i giudici. Capisco l'astio, ma su queste cose con me cascano male».

31 marzo 2014 | 07:46
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_marzo_31/no-senato-non-sara-piu-elettivo-7985844e-b895-11e3-917e-4c908e083af6.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Francesco e due uomini coraggiosi
Inserito da: Admin - Aprile 28, 2014, 12:28:46 pm
Canonizzazione La celebrazione, l’abbraccio con Ratzinger, l’annuncio di novità importanti sulla famiglia
Francesco e due uomini coraggiosi
Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II santi, l’elogio di Bergoglio

di ALDO CAZZULLO

Alla fine il Papa è, come deve essere, uno solo. Per quanto la folla saluti con un applauso le immagini di Roncalli e di Wojtyla sulla facciata di San Pietro, per quanto Ratzinger concelebri con 150 cardinali e 700 vescovi, il «giorno dei quattro Papi» consacra in realtà la rinascita della Chiesa, a poco più di un anno dall’elezione di Francesco. E Francesco ha voluto santificare nello stesso mattino due predecessori oggettivamente diversi come Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, ha abbracciato due volte - all’inizio e alla fine della cerimonia - il Papa emerito, e in questo modo ha collocato se stesso nel loro solco, in un’originale continuità, proprio nel momento in cui va misurando l’entusiasmo che accompagna la sua opera di rigenerazione del Vaticano e del cattolicesimo.

Due anni fa, in questi stessi giorni, i reporter di tutto il mondo venivano a Roma a raccontare di scandali, corvi, carte trafugate, spiritualità corrotte, poteri declinanti. Oggi, i volti associati a quelle vicende, al di là delle colpe e dei meriti, son ancora tutti qui. Sull’altare, insieme con l’arcivescovo di Cracovia Dziwisz e il vescovo di Bergamo Beschi, ci sono i due decani della Curia, Re e Sodano, e in prima fila l’ex segretario di Stato Bertone e l’ex potente capo dei vescovi italiani Ruini. C’è padre Georg. E c’è Ratzinger, palesemente emozionato, prima quando Napolitano va a chiedergli notizie della sua salute, poi quando Bergoglio gli rende omaggio, perché - come ha detto al Corriere - «il Papa emerito non è una statua in un museo, partecipa alla vita della Chiesa». Ma la stagione recente del Vaticano appare paradossalmente molto più remota rispetto a quelle evocate dalle immagini di Roncalli e Wojtyla e dai racconti dei pellegrini, raccolti in piazza e davanti ai diciotto maxischermi sparsi per Roma, dalle basiliche al policlinico Gemelli dove a Wojtyla salvarono la vita.

Oggi la Chiesa è Francesco. Apparso con i suoi due volti. Prima solenne con la mitra e gli occhiali, asciutto nell’omelia più breve che si ricordi, a volte in difficoltà nel respirare e nello scendere le scale. Poi del tutto trasformato a bordo della papamobile, ringiovanito, di buon umore, capace di riconoscere senza occhiali gli amici nella folla - «ti chiamo dopo» dice facendo con le dita il segno della rotella del telefono come si usava qualche tempo fa -, capace soprattutto di dare a ognuno l’illusione di essere riconosciuto, come se il Papa stesse indicando, benedicendo, parlando proprio con lui.

Di fronte alla complessità e alla durata del pontificato di Wojtyla, Bergoglio ha scelto di indicarlo come «il Papa della famiglia», ricordando i due Sinodi che nei prossimi mesi il Pontefice e i suoi vescovi dedicheranno appunto al matrimonio, alla maternità, all’atteggiamento verso i divorziati, su cui si annuncia un confronto serrato. Sarà quasi una sorta di Concilio, come quello legato alla memoria di Giovanni XXIII, che Bergoglio ha definito «il Papa della docilità allo Spirito Santo»: come a dire che il Vaticano II non è legato a una singola personalità - per quanto grande e ora anche santa - ma fu voluto da forze superiori a quelle umane; che la grande modernizzazione avviata da Roncalli, «guida guidata», è ormai inscritta nella storia della Chiesa, una volta superate le degenerazioni, che lo stesso Bergoglio in Sud America ha combattuto, e respinte le tentazioni di tornare indietro, che la sua elezione e il suo pontificato hanno spazzato via.

I fedeli sono qui dalle due del mattino. Quando si sono aperti i cancelli di via della Conciliazione, le avanguardie hanno preso posto e atteso l’alba pregando e cantando. Bivacchi attorno a Castel Sant’Angelo, sacchi a pelo, coperte termiche. I pellegrini hanno ritrovato luoghi e riti antichi: i francesi e gli africani francofoni in piazza Farnese, sotto la loro ambasciata e gli affreschi dei Carracci; i polacchi in piazza Navona, senza neanche un bagno. Calca e risse nei tentativi di avvicinamento a San Pietro, grida, malori, ambulanze: cento i ricoverati, nessuno grave. L’atmosfera del mattino ricorda i funerali di Wojtyla: vento, aria di tempesta, ma nonostante le previsioni il tempo tiene, le cento delegazioni entrano in piazza, resterà qualche sedia vuota ma non quelle di Mugabe e dei suoi cari che si portano in Vaticano a ogni occasione, i tiratori scelti sui tetti tengono nel mirino il Cupolone, 830 sacerdoti e diaconi si schierano in vista della comunione, 10 mila tra poliziotti, carabinieri e gendarmi vaticani fanno il loro lavoro; alla fine i pellegrini saranno un milione, inquadrati dal vero simbolo di Roma, che non è la lupa ma la transenna.

Ogni generazione parla del Papa della sua giovinezza. È anche la festa dell’identità nazionale polacca, e della piccola patria bergamasca. La teca con il sangue di Wojtyla è portata da Floribeth Mora Diaz, la costaricana guarita dopo aver sentito la sua voce; un’altra miracolata, suor Marie Simon Pierre, uscita dal Parkinson, legge una preghiera. L’urna con un frammento di pelle di Roncalli è portata dai quattro nipoti, dal sindaco di Sotto il Monte Eugenio Bolognini che è suo pronipote, da una suora delle Poverelle e da don Ezio Bolis, presidente della Fondazione che ne porta il nome. Il Papa buono non fa miracoli. Il suo miracolo, come nota l’altro pronipote Emanuele Roncalli, è aver condotto la Chiesa nella modernità, lui figlio di contadini ottocenteschi, è aver parlato la lingua dei semplici, lui che era un raffinato diplomatico ma come il gesuita Francesco sapeva, dopo aver molto studiato, rivolgersi a tutti.

Bergoglio bacia le reliquie e pronuncia in latino la formula della canonizzazione, interrotto dagli applausi: «Beatos Ioannem Vigesimum tertium et Ioannem Paulum secundum sanctos esse decernimus et definimus...». È l’unico momento medievale o comunque legato alla tradizione di una cerimonia globale. Anche il Novecento è finito: Wojtyla e Roncalli «sono stati sacerdoti, vescovi e Papi del ventesimo secolo, ne hanno conosciuto le tragedie, ma non ne sono stati sopraffatti - dice Francesco -. Più forte, in loro, era Dio; più forte era la fede in Gesù Cristo Redentore dell’uomo e Signore della storia; più forte in loro era la misericordia di Dio». Non hanno «avuto vergogna delle piaghe di Cristo», né hanno avuto pudore delle proprie sofferenze: se le immagini dell’agonia pubblica di Wojtyla sono nella memoria collettiva, anche Roncalli visse la malattia con dignità e forza morale; furono «due uomini coraggiosi».

Alla fine Francesco ringrazia il suo vicario Vallini, il sindaco Marino e le forze dell’ordine. Poi affronta le delegazioni, dopo aver reso omaggio alla statua lignea della Madonna. Il primo è Napolitano con la moglie Clio, poi il presidente polacco Komorowski, «los reyes catolicos» Juan Carlos e Sofia vestita di bianco di fronte al Papa, i reali del Belgio e altri ventuno capi di Stato, quindi i capi di governo, Renzi con la moglie Agnese, il nuovo premier francese Manuel Valls, e una teoria di africani e asiatici che abbracciano Bergoglio, si fanno imporre una mano sulla testa, chiedono di benedire la foto dei nipoti o invocano un selfie, accontentati a volte con un sorriso a volte con impazienza: la cerimonia dura da quasi due ore e mezza, e i fedeli in piazza aspettano di vedere Francesco da vicino.

Infatti la folla, rimasta a lungo in un silenzio impressionante, ora impazzisce, sulla Papamobile arriva di tutto, anche una sciarpa della Roma: lui ovviamente la prende e si fa fotografare. Marino balza a bordo e bacia il Papa sulle guance: lo fanno scendere. L’auto percorre il sagrato, la piazza, poi via della Conciliazione. La solennità della cerimonia si stempera nella festa, il vento sempre più impetuoso fa sventolare i vessilli polacchi e un po’ tutte le bandiere della cristianità. Si aprono le porte di San Pietro, i fedeli sfilano a rendere omaggio alle tombe dei nuovi santi, si annuncia che la basilica resterà aperta fino a notte, mentre finalmente la tensione del cielo si spezza in un temporale.

28 aprile 2014 | 07:06
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_aprile_28/francesco-due-uomini-coraggiosi-c7d00056-ce8f-11e3-b1ed-761dab5779b9.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. La sconfitta di un sistema Il rigetto della classe dirigente...
Inserito da: Admin - Maggio 26, 2014, 06:11:55 pm
La sconfitta di un sistema
Il rigetto della classe dirigente europea


Di ALDO CAZZULLO

Non è il «voto di protesta» annunciato dai sondaggisti, e forse neppure lo «choc salutare» evocato da Prodi. È qualcosa di più. Le elezioni del 2014 saranno ricordate come la sconfitta storica di un sistema politico. L’eclissi dei partiti tradizionali. Il rigetto dell’establishment europeo. Proprio quando i cittadini sono chiamati per la prima volta a indicare il presidente della Commissione di Bruxelles, scelgono invece in percentuale mai viste movimenti che negano l’Europa e sostengono il ritorno al passato delle monete e delle sovranità nazionali.

Nel Regno Unito l’Ukip triplica il 3% delle Politiche del 2010, umiliando conservatori e laburisti. Il Front National passa dal 6% delle scorse Europee al 25, diventando il primo partito di Francia. E la bassa affluenza (a Londra ha votato solo un terzo dell’elettorato, a Parigi meno della metà, sia pure in leggera crescita rispetto al 2009) non può essere certo un alibi; semmai è un aggravante. Tanto più che le forze ostili all’Europa crescono dappertutto, dalla Danimarca all’Austria.

Il risultato di ieri indica due cose. L’Europa ha sbagliato la risposta alla crisi. Tutto il mondo ha reagito al crollo finanziario e industriale con una politica di espansione e di investimenti; solo l’Europa a guida tedesca ha seguito la linea dei tagli e del rigore, impoverendo tutti i Paesi tranne la Germania. Non deve stupire che il voto in Germania sia stato l’unico a riprodurre schemi tradizionali, isola rocciosa e refrattaria nel cuore della tempesta. Ma non è solo questione di politica economica. Il voto europeo conferma una tendenza diffusa ben oltre il continente: il segno del nostro tempo è la rivolta contro le élites, contro le istituzioni, contro le forme tradizionali di rappresentanza. E l’Europa è sentita come fondamento e garante di quelle élites contro cui ci si ribella: perché, come ha detto Marine Le Pen, «il popolo è stanco di obbedire a leggi che non ha votato e di sottomettersi a commissari che non hanno ricevuto la legittimità del suffragio universale».

Ovviamente, il successo di forze xenofobe e scioviniste deve preoccupare. Ma la risposta non è gridare allo scandalo. È un cambiamento profondo: apparati meno costosi, burocrazia più snella, un ceto politico capace di riformare se stesso, di rinunciare ai privilegi, di combattere la corruzione. In quasi tutta Europa, la sinistra non approfitta del fallimento di una Commissione di Bruxelles egemonizzata dal centrodestra, anzi arretra: perché la sinistra stessa è vista come parte di quelle élites, di quell’establishment, di quel sistema che viene rifiutato. Ma leggere un risultato epocale con le lenti tradizionali della dicotomia destra-sinistra non aiuta a capire. Il vero confronto di queste elezioni è stato tra l’alto e il basso della società: un confronto senza vincitori tra classi dirigenti anchilosate e populismo, tra il pensiero unico monetarista e la velleità di un impossibile balzo all’indietro.

L’Italia non fa affatto eccezione. Mai si era visto in una democrazia occidentale il movimento fondato da un ex comico arrivare alle percentuali raggiunte da Grillo un anno fa e quasi confermate ieri... E il Pd si afferma perché si affida a un giovane considerato fino a ieri un usurpatore, un alieno, un corpo estraneo al partito, emerso grazie alla rude richiesta di rottamare la nomenklatura della sinistra, e che pure a Palazzo Chigi ha continuato a costruire la propria politica «contro»: scegliendo come obiettivo polemico i sindacati, Confindustria, la burocrazia, le prefetture, la Rai, insomma il sistema. Un’Europa che funzioni meglio e una politica economica che mobiliti risorse ed energie contro la crisi saranno domani i rimedi migliori. Ma l’onda populista non refluirà tanto facilmente. E ogni Paese cercherà la propria soluzione. In Francia, ad esempio, il trionfo del Front National finirà per rimettere in campo l’unico che, piaccia o no, ha il carisma per contrastare Marine Le Pen: il vituperato Nicolas Sarkozy.

26 maggio 2014 | 06:55
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Da - http://www.corriere.it/politica/speciali/2014/elezioni-europee/notizie/sconfitta-un-sistema-1b57524e-e491-11e3-8e3e-8f5de4ddd12f.shtml


Titolo: A. CAZZULLO. Veltroni: «Grazie a Matteo si è avverata la vocazione maggioritaria
Inserito da: Admin - Maggio 29, 2014, 11:00:22 pm
L’intervista al leader che nel 2008 aveva fatto raggiungere al partito il risultato più alto
Veltroni: «Grazie a Matteo si è avverata la vocazione maggioritaria»
Il fondatore del Pd: «Veniamo da mondi diversi, ma l’idea è la stessa. Lui ha quella cattiveria che io non ho saputo avere»

Di ALDO CAZZULLO

Walter Veltroni, il suo «record» delle elezioni 2008 è stato spazzato via.
«Sono tra quelli che hanno festeggiato il superamento di quella soglia, raggiunta in condizioni di grande difficoltà: la crisi del governo dell’Unione, la forza di Berlusconi».

Quella volta però vinse la destra.
«Il 2008 fu una tappa per insediare la ragione stessa della nascita del Pd: dare all’Italia quel grande partito riformista di massa che non aveva mai avuto. Un partito a vocazione maggioritaria, che andasse oltre le colonne d’Ercole dei 12 milioni di voti che la sinistra ha raggiunto nei suoi momenti più alti. Un partito votato dai piccoli imprenditori e dagli operai, perché ha a cuore la comunità nazionale, l’interesse generale del Paese. Un partito non “socialdemocratico” ma democratico, aperto a identità diverse. Per me è un sogno che si avvera».

In mezzo però c’è stata la rottamazione. La vittoria di Renzi non nasce anche dal fallimento della vostra generazione?
«Non mi pare la cosa più rilevante. La nostra generazione ha commesso molti errori, ma non si può dimenticare che ha portato per la prima volta la sinistra al governo, e ha posto le premesse, dal Lingotto al Circo Massimo, perché la vocazione maggioritaria del Pd si realizzasse. Renzi ha fatto emergere una nuova classe dirigente. Succede, è giusto, ed è nel corso della storia. Anche noi lo facemmo, quando passammo dal Pci al Pds».

Ma ci voleva uno che non venisse da quel mondo per raggiungere il risultato.
«Renzi e io veniamo da mondi diversi, ma abbiamo la stessa idea: il Pd non deve limitarsi a riempire il proprio recinto, per poi unirlo al recinto dei vicini. Il Pd deve saper parlare a tutti gli italiani. Questo risultato storico è frutto di due circostanze oggettive: il fatto che Renzi sia al governo da poco, e abbia indicato la possibilità di un cambiamento; e la crisi di Berlusconi. Ma c’è anche una circostanza soggettiva: la personalità stessa di Matteo, la sua determinazione, la “cattiveria” che io non ho saputo avere; cosa che mi sono sempre rimproverato come un difetto. Se il sogno si è avverato, il merito è suo. Compreso il merito di aver sfidato, da riformista, tutti i conservatorismi».

Come giudica il risultato di Grillo?
«L’esasperazione del linguaggio non ha pagato. Né ha pagato la logica dello scontro tra amico e nemico. Detto questo, Grillo è ancora sopra il 20%. Non ho mai creduto al parallelo con Marine Le Pen: l’elettorato dei Cinque Stelle è molto più complesso, esprime una richiesta di innovazione che in parte Renzi è riuscito a intercettare».

L’estrema destra nazionalista è il primo partito sia in Francia sia in Inghilterra.
«Questo rende ancora più prezioso il risultato raggiunto in Italia da un partito che ha un’idea indiscutibile e insieme innovativa dell’Europa. Ma sarebbe un grave errore che la Commissione di Bruxelles pensasse di averla sfangata e continuasse come prima. La crisi istituzionale ed economica genera paura, chiusura sociale, populismo: una somma di ingredienti che può creare guai spaventosi. L’Europa è come un aereo che ha superato la fase del decollo: o prosegue il volo, o si schianta. Dobbiamo fare gli Stati Uniti d’Europa, costruire l’Europa della tecnologia, dello sviluppo, dell’ambiente, delle politiche sociali».

In Italia si tornerà presto a votare per le Politiche?
«Non credo. Ho apprezzato le prime dichiarazioni degli esponenti di Forza Italia, che non rinnegano gli accordi sulle riforme elettorali e istituzionali. Nel progetto del Pd ci sono bipolarismo e alternanza, più capacità di decisione democratica, più poteri del governo, più controllo delle Camere, partiti aperti e trasparenti, una macchina dello Stato più leggera ed efficiente. Fare le riforme è il compito di questo Parlamento».

Berlusconi è finito?
«Se con tutto quello che è successo Berlusconi riesce ancora a mettere insieme il 16,8%, vuol dire che ha ancora un’area di consenso. Cercherà di mettere in campo una nuova leadership: probabilmente quella di sua figlia Marina».

Alfano tornerà con Berlusconi o resterà alleato del Pd?
«Sono contento che sia Vendola sia Alfano abbiano raggiunto il quorum. Alfano lavora per costruire un centrodestra moderato, nell’ambito di un bipolarismo normale. Non credo però che potrebbe stare in una destra antieuropea».

Ma con Grillo i poli non sono tre?
«Se le istituzioni funzionano, se la politica decide, anche Grillo non potrà limitarsi a dire no ma dovrà partecipare ad azioni positive. Attenzione però a non sottovalutarlo. E a non perdere di vista il 40% di italiani che si è astenuto, nonostante si votasse in due Regioni e in 4 mila Comuni».

Che effetto le ha fatto sentire piazza San Giovanni scandire il nome di Berlinguer, rispondendo all’invito di Casaleggio che evocava la questione morale?
«Berlinguer aveva ragione a porre la questione morale, che vale sempre, per tutti, ogni giorno. Ma è sbagliato usare Berlinguer nella battaglia politica. Io nel mio film l’ho raccontato fermandomi al giorno in cui è morto. Non si possono attribuire le proprie idee a chi non c’è più. Berlinguer è un patrimonio della democrazia italiana; come Moro, La Malfa, Pertini, Parri».

Se la legislatura continua, tra i compiti di questo Parlamento potrebbe esserci l’elezione del nuovo presidente della Repubblica.
«Tra i motivi per cui mi piace questo risultato, c’è la sconfitta dell’attacco a Napolitano. So quanto gli è costato restare al suo posto. Ora si può lavorare a quel percorso di riforme istituzionali che il presidente ha sollecitato al momento della sua rielezione».

Lei da segretario Pd avanzò la candidatura di Ciampi. Stavolta?
«Non ho più queste responsabilità. Si può amare il potere, e si può amare la politica. Se ami il potere, quando lo perdi è tutto finito. Se ami la politica, continui a farla per tutta la vita. Io sono fatto così: potrei avercela con Renzi; invece lo apprezzo. E ho fatto campagna per lui in giro per l’Italia come centinaia di migliaia di militanti».

27 maggio 2014 | 07:56
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DA - http://www.corriere.it/politica/14_maggio_27/grazie-matteo-si-avverata-vocazione-maggioritaria-1500e450-e563-11e3-8e3e-8f5de4ddd12f.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Nardella: contro i no meglio le urne
Inserito da: Admin - Agosto 06, 2014, 04:30:06 pm
Il sindaco di Firenze: I senatori sembrano marziani, lontani dalla vita reale
Nardella: contro i no meglio le urne
«Renzi lavora su una nuova classe di dirigenti al governo e nei ministeri.
Il caso Cottarelli? I tecnici devono eseguire, le scelte sono politiche»

Di Aldo Cazzullo

Dario Nardella, lei ha preso il posto di Renzi come sindaco di Firenze. Ma il renzismo oggi appare impantanato. Mentre il Senato da mesi discute di se stesso, l’economia è ferma. Cos’è successo?
«È successo che l’arrivo dei “barbari”, come siamo considerati dall’establishment e dalla vecchia classe politica, ha suscitato una reazione durissima e trasversale, che raggruppa partiti, economia, sindacati nella difesa del vecchio sistema. È un’Italia malata di accidia, che si macchia del peccato peggiore: l’avversione a operare. Un’Italia che giudica con insofferenza tutto ciò che spinge al cambiamento. La vicenda del Senato è emblematica».

Vista la crisi drammatica del Paese, non era meglio cominciare con l’economia, anziché con una prova di forza sulle riforme istituzionali?
«È vero che con il Senato non si mangia. Ma il bicameralismo causa gravi danni. Un provvedimento impiega 300 giorni a essere approvato in prima lettura; nel frattempo sono fallite centinaia di migliaia di aziende. La riforma del Senato è una condizione necessaria per recuperare la fiducia dei cittadini nella politica. Proprio per questo le ultime sedute, viste da fuori, sono imbarazzanti. I senatori sembrano marziani, lontani anni luce dalla vita reale. Ogni seduta è una pugnalata alla credibilità delle istituzioni».

Non sono soltanto le opposizioni ad accusarvi di fretta eccessiva e di autoritarismo.
«Fretta? Sono decenni che si discute. Anche la sinistra ha sbagliato quando contrastò in modo ideologico la riforma costituzionale del 2005».

Quella che aumentava i poteri del premier?
«E riduceva il numero dei parlamentari. Renzi ha fatto bene a cercare il più ampio consenso possibile sulle riforme. Ma le opposizioni sinora non hanno dimostrato di perseguire davvero il bene comune: altrimenti avrebbero presentato 10 o 20 emendamenti incisivi e per loro importanti, non ottomila. L’imboscata con il voto segreto è stata un avvertimento, un dispetto che peggiora la riforma, mantenendo al Senato competenze che non c’entrano nulla con la Camera delle autonomie. Spero ancora che la situazione si sblocchi. Anche sulla legge elettorale».

Credere di cambiare la Costituzione in poche settimane era un’illusione, non pensa?
«Come sindaco mi fa rabbia vedere una classe politica così ripiegata su se stessa, che attacca le riforme con argomenti assurdi. Mai come ora, il meglio è nemico del bene. A forza di cercare la riforma perfetta, si continua a rinviare. Questo è il momento di tirare le somme. Invece c’è tutta una parte del Paese, dai 5 Stelle a Sel ad altri mondi fuori dalla politica, convinta che debba trionfare Sisifo. Vorrebbero vedere Renzi e il governo trascinare ogni volta un masso sulla cima del monte, per poi farlo precipitare verso il basso e ricominciare da capo».

Quindi come se ne esce? Con le elezioni anticipate?
«Di fronte all’accidia di forze politiche che sanno dire solo no, tanto varrebbe fare la nuova legge elettorale e andare al voto. Il pantano del Senato fa male a tutti, e mina la nostra credibilità anche a livello internazionale. Resto convinto che si debba tentare sino alla fine di andare avanti con questo Parlamento e affrontare le riforme del lavoro e della pubblica amministrazione. Una verifica politica l’abbiamo avuta, anche se qualcuno vorrebbe dimenticarla: il 40,8% di appena due mesi fa. L’atteggiamento di chi contrasta l’esigenza di superare il bicameralismo offende la maggioranza degli italiani».

Ma si votava per il Parlamento europeo.
«Voto o non voto, comunque ci vuole una svolta. Bisogna sbloccare questa situazione. Così non si può procedere. Anche perché ci rimette tutta l’Italia».

Che effetto le hanno fatto le critiche di Diego Della Valle al premier?
«Sono rimasto sorpreso. Ho grande stima sia di Renzi sia di Della Valle. I loro rapporti sono sempre stati molto buoni. Sono sicuro che sia un’incomprensione superabile».

Della Valle ha posto anche la questione della squadra di governo. Dice che ci vorrebbero «molti Padoan». Uomini di maggior esperienza. Lei che ne dice?
«Matteo ha detto che quest’estate si concentrerà proprio sul rafforzamento della squadra, dal punto di vista sia tecnico sia politico. Le riforme ambiziose che Renzi vuole portare in fondo hanno bisogno di persone competenti e credibili. Oltre al leader, la cui bravura non è in discussione, molto dipenderà dal suo entourage. Sarà un passaggio decisivo».

Cambierà qualche ministro?
«Secondo me, i ministri lavorano bene. Fossi in lui cambierei quello che c’è sotto i ministri. Partirei dal rivedere l’assetto tecnico; anche perché è proprio tra i tecnici e nelle burocrazie che si annidano le maggiori resistenze. Renzi è andato a toccare punti sensibili: la battaglia sugli stipendi dei dirigenti pubblici, la riforma della pubblica amministrazione, i permessi sindacali, i tagli alla Rai. Tutte cose che sino a qualche mese fa erano tabù. Ora sono usciti allo scoperto non voglio dire i privilegi, ma uno status quo che nessuno aveva osato mettere in discussione. Sarebbe ingenuo pensare che non ci siano contraccolpi. Accanto a una classe politica nuova, occorre una nuova classe di dirigenti: a Palazzo Chigi, nei ministeri, nelle organizzazioni di rappresentanza sociale ed economica, nel privato».

Nel frattempo perdete Cottarelli. Che denuncia: i tagli sono già stati vanificati da nuove spese.
«A me pareva che si riferisse soprattutto al Parlamento. In ogni caso, Cottarelli non può fare la foglia di fico di una classe politica che non sa decidere. Condivido le parole del premier: le scelte di spending review sono scelte politiche; i politici che si nascondono dietro i supercommissari non sono convincenti. Da sindaco, dovendo tagliare la spesa e migliorare i servizi, non mi sono rivolto ai tecnici. I tecnici devono eseguire. Su stipendi, abolizione delle Province, costo del lavoro, pensioni decide la politica».

Si riferisce al taglio delle pensioni più alte?
«Immagino che l’esecutivo ci lavorerà dopo l’estate, insieme al Jobs Act».

Servirà anche una manovra correttiva?
«Non sono in grado di dirlo. Dipenderà da quello che ci dirà il governo, dai dati che arriveranno dopo l’estate. Da Firenze, città metropolitana che vale 31 miliardi di Pil, posso dirle quel che ci chiedono le aziende: infrastrutture e ripresa dei consumi».
Che languono.

«Debba arrivare o no una manovra, resto convinto che occorra proseguire sulla strada intrapresa con lo sblocca-Italia, per far ripartire le opere pubbliche, e con gli 80 euro, per spingere sui consumi».

La «svolta» che lei chiede significa anche allargare la maggioranza di governo a Berlusconi?
«Non mi pare un’ipotesi all’ordine del giorno. Diverso è il discorso sulla riforma del Senato e sulla legge elettorale. Sarebbe opportuno rivedere il patto del Nazareno su alcuni punti, ad esempio le preferenze. Con una sola Camera elettiva, è ancora più importante che i parlamentari siano rappresentativi del territorio e vengano scelti con il voto dei cittadini. Il modello dei Comuni resta un buon esempio».

3 agosto 2014 | 12:04
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_agosto_03/nardella-contro-no-meglio-urne-38ed06a8-1aee-11e4-b652-72373bf3d98f.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. L’INCONCLUDENZA A CINQUE STELLE Come disperdere un patrimonio
Inserito da: Admin - Agosto 06, 2014, 04:56:41 pm
L’INCONCLUDENZA A CINQUE STELLE
Come disperdere un patrimonio

di Aldo Cazzullo

Esiste un confine tra la protesta e la sceneggiata, tra la critica anche dura e la sparata quotidiana, tra amministrare in modo più vicino alla sensibilità dei cittadini e assecondare le pulsioni istintive e disperate. Questo confine i 5 Stelle lo stanno oltrepassando. Al punto che il movimento, divenuto appena 18 mesi fa il primo d’Italia, rischia oggi di sgretolarsi, senza che i partiti abbiano concluso molto più di nulla nella riforma della politica e nel rilancio dell’economia.

Certo, le cose non vanno bene per nessuno. Il governo Renzi, dopo un avvio promettente e il successo elettorale, procede alternando proclami ed errori. Berlusconi sembra aver rinunciato a fare del centrodestra un’alternativa credibile, accontentandosi di una sorta di appoggio esterno all’esecutivo per gestire il proprio declino. L’Italia è l’unico grande Paese che non ha ripreso a crescere: la sfiducia e il disagio sociale si toccano con mano. Eppure la forza che si proclama unica opposizione non soltanto non trae alcun beneficio dall’impasse, ma continua a dare prove di inconsistenza.

La battaglia contro una riforma che non convince i costituzionalisti e non appassiona certo i cittadini è senz’altro legittima; ma i grillini non sono riusciti ad aggregare il dissenso né dentro né fuori dal Senato, e ne escono di fatto sconfitti, con il consueto corollario di scene imbarazzanti e difficoltà ortografiche. Mentre i parlamentari dimostrano la loro inadeguatezza, il Comune più importante conquistato dai 5 Stelle alle ultime e elezioni, Livorno, si schiera in difesa di Stamina. Alla crisi del movimento si aggiunge quella del leader. Beppe Grillo in questi anni ha dimostrato straordinarie doti di rabdomante e di comunicatore, ha intercettato e dato voce a un disagio trascurato dai partiti; ma ora appare intento a disperdere quel patrimonio con una serie di dichiarazioni balneari - è l’unico politico già in vacanza - con cui un giorno definisce Bossi «il più grande statista degli ultimi cinquant’anni», il giorno dopo sostiene che i suoi avversari sono peggio di un dittatore da migliaia di morti, in un crescendo che sarebbe ridicolo se non fosse preoccupante.

Liquidare il Movimento 5 Stelle come un’ondata populista destinata a rifluire rapidamente sarebbe sbagliato, oltre che irrispettoso del vastissimo consenso raggiunto alle elezioni politiche (e in parte confermato alle Europee). Al netto di un linguaggio inaccettabile, Grillo poteva rappresentare non soltanto uno sfogo alla protesta, ma anche una novità utile a scardinare un sistema ingessato. Chi l’ha votato, oltre a denunciare corruzione e privilegi scandalosi, voleva sbloccare un assetto in cui al fallimento di Berlusconi corrispondeva l’inadeguatezza del Pd di Bersani. Grillo è stato il volto italiano di una tendenza diffusa in tutto l’Occidente (determinante anche per il successo di Renzi): la rivolta contro le élites , il rigetto dell’establishment ; e la dinamica in cui i 5 Stelle si muovono non è più tra destra e sinistra, ma tra l’alto e il basso della società. È un fenomeno che può anche avere effetti positivi, se diventa motore del cambiamento. Ma se alimenta un falò di rabbia in cui ardono allo stesso modo colpevoli e innocenti, se liquida il dissenso con il rito catartico del linciaggio e dell’espulsione online, se asseconda le paure e le superstizioni antiscientifiche, se specula sulla fragilità e sulla rassegnazione di un Paese piegato dalla crisi, allora Grillo non serve a nessuno, neppure a se stesso.

6 agosto 2014 | 08:17
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_agosto_06/come-disperdere-patrimonio-8a0c015a-1d29-11e4-863e-cfd50bac8a56.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Renzi e la diffidenza (ricambiata) di banchieri e manager
Inserito da: Admin - Settembre 06, 2014, 04:54:35 pm
«Salotti buoni»
Renzi e la diffidenza (ricambiata) di banchieri e manager
L’habitué di Cernobbio: «Non parla neanche col governatore Visco, figuriamoci con noi».
E l’ex ministro Tremonti: «Matteo mi copia»

Di ALDO CAZZULLO

«Non parla neanche con il governatore Visco, figuratevi se considera noi» dice un habitué di Cernobbio. Renzi non va nei «salotti buoni», oggi verrà qui in Lombardia ma in visita a un rubinettificio, «da chi investe soldi veri». Al Workshop Ambrosetti ci sono però i suoi nominati - Starace, Marcegaglia, Grieco, Caio - e i suoi trombati. «I’m a very important man!» dice, certo scherzando, l’ex capo dell’Eni Scaroni a un giornalista straniero, porgendogli il suo biglietto da visita. «La situazione? Disastrosa. Siamo in mani altrui. Se il New York Times scrive che Renzi è un pirla, va a casa». Renzi è un pirla? «No - si fa serio Scaroni -. Ma ha fatto il ganassa. E ora deve passare ai fatti. Il banco di prova sarà la riforma del lavoro. Se la fa davvero, la sua credibilità cresce. Altrimenti...». Insomma, il premier è atteso al varco. Per sua fortuna, c’è qui anche Renato Brunetta, suo grande estimatore: «Renzi è il peggior presidente del Consiglio della storia unitaria, a parte Monti, che è fuori concorso». Il Professore, a Cernobbio tradizionalmente molto omaggiato, arriva malinconico a tarda sera vestito di grigio, sotto una pioggerella autunnale, nel disinteresse dei presenti: oggi lo attende una mattinata di ex - Barroso, Almunia, Trichet, Prodi, ulteriormente moderati da Enrico Letta - il cui tema è, non a caso, «realizzare le riforme».

Nel 1999 qui venne Aznar, Silvio Berlusconi disse che bisognava fare la riforma del lavoro sul modello spagnolo. Sono le stesse frasi che ricorrono oggi, quindici anni dopo. Berlusconi tornò a Cernobbio nel 2005, per un passaggio memorabile: arrivò in elicottero, unico senza cravatta a parte i sommozzatori in muta che vigilavano dal lago, rivendicò di aver fatto incontrare Putin e gli ayatollah, corteggiò Paola Saluzzi, e previde che l’Italia era attesa da un periodo di formidabile sviluppo. In sala c’era Romano Prodi, che ribatté: le riforme della giustizia e del lavoro le faremo noi. Si attende da allora. Brunetta: «Meglio che non le faccia Renzi. Quel che tocca, peggiora. Palazzo Chigi non esiste più: lui ha fatto fuori tutti. Il risultato è che i provvedimenti sono scritti malissimo, pieni di strafalcioni. Gli uffici legislativi del Quirinale sono disperati: devono riscrivere ogni parola».

Non che il premier stia così antipatico a tutti. Non a Francesco Merloni, ad esempio. «Non lo conoscevo. Mi chiamano dalla sua segreteria con tre giorni di preavviso e mi dicono: il presidente del Consiglio farà visita alla vostra fabbrica in Vietnam. Mi scapicollo in Vietnam. Il mattino riunione in ambasciata, ci sono anche Colaninno e una ventina di colleghi. Dico che noi imprenditori siamo accusati di delocalizzare, invece internazionalizziamo le nostre imprese: sono due cose molto diverse.
Renzi all’apparenza è distratto, annoiato. Poi nello stabilimento prende la parola e dice: “Voi imprenditori siete accusati di delocalizzare, invece internazionalizzate le vostre imprese: sono due cose molto diverse...”. Una spugna. Lo stesso discorso l’ha rifatto altre quattro volte in Cina». E l’amministratore delegato di Google Italia, Fabio Vaccaroni: «Renzi ha riacceso interesse attorno al nostro Paese, non è vero che non contiamo nulla: Eric Schmidt, il mio presidente, vuol sempre venire qui da noi. Ora però il premier dovrebbe fare qualche riforma che all’estero riusciamo a spiegare. Se agli americani parlo di flessibilità del lavoro, mi capiscono. Se parlo di bicameralismo perfetto e superamento del Senato, mi guardano con gli occhi sbarrati». Arriva Prodi. Brunetta: «Romano aveva Ciampi all’Economia, Napolitano agli Interni, Dini agli Esteri, Andreatta alla Difesa. Renzi ha la Giannini e la Madia». Che le ha fatto la Madia? «Non sa niente. Niente!».

Arriva il grande vecchio Shimon Peres, che discute con John McCain la sua visionaria e geniale idea di un’Onu delle religioni per fermare le guerre. Più modestamente, gli ospiti italiani discutono la profezia di Berlusconi: «Sosteniamo Renzi, altrimenti arrivano la troika e i prelievi dai conti correnti». «Magari arrivasse la troika...» mormora un banchiere. Spiega però l’ex ministro dell’Economia Grilli di aver rifiutato a suo tempo il commissariamento perché «non sarebbe servito a nulla. Si prendevano la nostra sovranità in cambio di 80-90 miliardi. Ma cosa ce ne facciamo di 80-90 miliardi?». Tremonti da Renzi si considera lusingato: «Mi copia. Ha proposto di mandare in tv i film in inglese in prima serata e di detassare i piccoli lavori condominiali.

Rivendica il primato della politica sulla burocrazia. Dovrei chiedere il copyright». Poi l’ex ministro si fa serio: «Il problema non è la burocrazia; è la matematica. Non è un caso che tutti i premier, compresi Monti e Letta, siano caduti sulla finanziaria: mica erano tutti sciocchi. I numeri non li cambiava neppure Stalin. Dove li trova Renzi 20 miliardi di tagli, in un bilancio che - interessi a parte - è già in attivo?». Lei fece i tagli lineari. «E feci bene: sono gli unici che hanno funzionato. Lo dice pure Cottarelli». Passa Umberto Veronesi: «Mai visto Renzi in vita mia. Mi pare giovanilmente spregiudicato. Ma un po’ di spregiudicatezza giovanile in questa Italia ci vuole».

Gnudi, ministro con Monti, ora commissario all’Ilva: «Renzi deve costruirsi una squadra. Non è che può passare le notti a lavorare da solo con Delrio». Arriva Enrico Letta. Brunetta: «In Europa si poteva piazzare lui. Invece Renzi ha messo la Mogherini, giovane priva di esperienza, in un posto che non conta nulla e conterà meno di prima. Lady Ashton aveva dietro l’eredità dell’Impero britannico. La Mogherini dietro che cosa ha? L’Italietta di Faccetta Nera ?».
Nella discussione sulle riforme si apre talora uno spiraglio di speranza. Claudio Costamagna, l’ex banchiere più vicino a Prodi, ora presidente Impregilo, dice che «le nostre potenzialità sono enormi. E non solo per le cose che si dicono sempre: arte, bellezza, cultura, made in Italy . Per i nostri talenti. Abbiamo ragazzi che a Londra e in Germania si sognano. Basterebbe poco per ripartire: una giustizia con regole e tempi certi, un mercato del lavoro moderno. Il premier si muova». «Il problema - conclude Grilli - è che le riforme gli italiani non le vogliono. Il Paese non vuole cambiare: tra garanzie e opportunità, sceglie sempre le garanzie». Brunetta: «Ma che vi importa se Renzi non è venuto?».

6 settembre 2014 | 07:05
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_settembre_06/renzi-diffidenza-ricambiata-banchieri-manager-827bfe6a-3582-11e4-bdcf-fc2cde10119c.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Renzi, asse anti «salotti» con Squinzi
Inserito da: Admin - Settembre 07, 2014, 05:16:08 pm
Renzi, asse anti «salotti» con Squinzi
«A Cernobbio chiacchiere, qui si fa» «Quelli di Cernobbio non ne azzeccano una»

Di ALDO CAZZULLO

Dice Renzi: «Di là c’è un convegno in un hotel cinque stelle sul lago con Barroso, Trichet, Almunia ed Enrico» (Letta). «Di qua si apre un rubinettificio alla periferia di Brescia con Annibale, Domenico, Luciano, Elio. Quale crede che sia il mio posto?». Chi sono Annibale e gli altri? «Sono i vecchi operai della Bonomi, quelli che ho citato dal palco. Li ho visti all’ingresso e mi sono fatto dire i nomi». Annibale è un bel vecchio con una benda su un occhio e il bastone; Aldo Bonomi, che nella nuova fabbrica ha investito 50 milioni di euro e darà lavoro a 220 operai, lo abbraccia: «Annibale mi portava a scuola quand’ero piccolo e mi pompava le ruote della bicicletta». Guardi Renzi che anche sul lago, a Cernobbio, si impara qualcosa, venerdì c’erano Shimon Peres e John McCain. «Infatti ci vanno cinque ministri, ci saranno più ministri a Cernobbio che a Bologna per la chiusura della festa dell’Unità, compreso il compagno Poletti», ride indicando il ministro del Lavoro, molto applaudito per il discorso più breve della storia: 40 secondi praticamente in dialetto emiliano. Si inserisce il presidente di Confindustria Squinzi: «A Cernobbio non mi hanno mai visto e mai nemmeno mi vedranno», dice citando forse inconsapevolmente una canzone di De Gregori a proposito del festival di Sanremo. «Cernobbio è una fiera delle vanità - conclude Squinzi -. Io sono uno abituato a stare in fabbrica».

Poletti accusa un improvviso mal di schiena e decide di non andare a Cernobbio neanche lui. Riprende Renzi: «Noi andiamo avanti. Cattivi e determinati. Io accetto le critiche, ma preferisco quelle della gente a quelle dei soliti noti, che stanno lì da trent’anni e non ne hanno mai azzeccata una. Per fortuna, vedo che tra la gente il sentimento nei miei confronti è ancora positivo. E non perché amino me. Perché in me vedono uno che nell’Italia ci crede davvero». È davvero convinto di aver fatto la scelta giusta per l’Italia, impuntandosi sulla Mogherini? «Certo. Non è stata una vittoria di qualcuno; è stata una vittoria del Paese, cui viene affidato un ruolo cruciale in un momento cruciale. Mi verrebbe voglia di tirare fuori i titoli di quest’estate, quando dicevano: “Tornerà a mani vuote...”». D’Alema ha riaperto le ostilità. «Perfetto. Mi attaccano D’Alema e Bersani: cosa posso volere di più dalla vita? Mancava Rosy Bindi, la attendevo con ansia, e ora si è aggiunta pure lei. En plein».

L’avversario è connaturato al renzismo, il nemico è fondamentale per uno che si è costruito contro la classe dirigente del suo partito, e ora che è al governo continua a muoversi come se fosse all’opposizione: non a caso applaude quando il padrone di casa Bonomi ricorda l’insostenibilità del fisco e il peso della burocrazia. L’occasione di avere nelle stesse ore e a pochi chilometri un simbolo dell’establishment come Cernobbio è ghiotta, e infatti davanti agli operai bresciani il premier accenna più volte a «grandi convegni» da disertare, a «luoghi in cui si discute mentre qui si fa», a «coloro che enunciano i problemi anziché risolverli»; perché «i grandi esperti hanno fallito, mentre la rubinetteria è un settore d’eccellenza del made in Italy». Ma l’applauso più facile e più fragoroso lo ottiene quando grida che «abbiamo troppi politici, e con la riforma del Senato abbiamo finalmente cominciato a ridurli». Il retrotesto è evidente, e rimanda alle categorie grilline: io sono uno di voi, non uno di loro; «il presidente del Consiglio non è che un bonus pater familias».

All’ingresso della fabbrica, tricolore, inno di Mameli e il prete - don Virgilio Tonetti da Lumezzane San Sebastiano - con turibolo per la benedizione. Servizio d’ordine agitatissimo. Il senatore Mucchetti sul palco delle autorità. La soubrette russa Natasha Stefanenko saluta «il nostro presidente del Consiglio». La folla lo chiama da dietro il cancello, lui si nega, «scusate sono in un ritardo vergognoso, ci salutiamo dopo», ma neppure alla fine troverà il tempo di stringere qualche mano (a parte gli operai dello stabilimento).

Renzi esordisce promettendo che non parlerà più di gufi, «per non offendere i gufi», intesi come specie ornitologica. Non si tiene però dal raccontare l’aneddoto prediletto, quello di «Ginettaccio Bartali» che diceva sempre «l’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare» ma poi «rischiava la pelle per portare in bicicletta i documenti falsi per salvare gli ebrei» (qui Annibale, che a differenza dei cronisti non l’ha mai sentita, si commuove, «anche se io ero per Coppi»). Il discorso è improntato sulle due Italie: l’Italia dei professoroni, dei pessimisti, «di quelli che chiacchierano», insomma di Cernobbio; e l’Italia «di quelli che fanno, che hanno costruito il Paese, che ancora oggi si spaccano la schiena», insomma dei rubinettifici, «punto di forza del Bresciano che è uno dei cuori dell’economia italiana».

Il mondo globalizzato, è l’idea di Renzi, finora è stato vissuto come una minaccia; «in realtà il nostro spazio-nazione è maggiore che in passato. Tra dieci anni avremo 800 milioni di nuovi consumatori. Non dobbiamo solo attrezzarci per accoglierli come turisti; dobbiamo puntare sulla qualità del made in Italy, fare qui prodotti che nessuno riesce a fare altrove, anche se in tanti provano a copiarli». Il premier cita Carlo Maria Cipolla: la nostra forza non è solo la cultura, ma «la capacità di fare cose straordinarie». L’Obama della notte della rielezione (senza nominarlo: «Anche qui da noi il meglio deve ancora venire»). E Adriano Olivetti: «Nel settore pubblico abbiamo applicato il suo principio: il dirigente non può guadagnare più di dieci volte l’ultimo impiegato, e pazienza per i dirigenti convinti di esercitare una missione divina. C’è ancora molto grasso che cola nell’amministrazione pubblica». Indulge fin troppo nell’autoironia: «Saluto i fratelli Aldo e Carlo Bonomi, so che ci sono anche delle sorelle, volevo cominciare con “fratelli e sorelle”, ma avreste pensato: questo qui si è montato la testa». Un’operaia grida «bravo Matteo!», e lui: «È mia cugina, l’ho pure pagata». «Uno vede chi è oggi il presidente del Consiglio, e pensa: come siete caduti in basso». Poi alla fine non si trattiene e attacca «i gufi che cominciano a criticare fin dalla mattina presto, che schiaffeggiano pure le nuvole, che tengono il broncio pure all’arcobaleno», contrapposti a «coloro che ce la mettono tutta perché ancora credono al futuro del Paese; a cominciare da voi bresciani, teste dure che avete fatto la storia d’Italia», non a caso «il Nord cresce come e a volte meglio della Germania».

Chiusura con il consueto «non molleremo di un centimetro», «costi quel che costi». Squinzi lo bacia sulle guance. Renzi scappa, gli altri passano al brindisi con franciacorta e bagoss. Il punto è che pure a Cernobbio, accanto a chi attende il cadavere del governo lungo il lago, qualcuno diceva più o meno le stesse cose: l’Italia ha potenzialità immense; deve rinunciare a pigrizie e facili garanzie per poterle cogliere. Certi ambienti però, nella strategia di Renzi, è meglio averli nemici che alleati. «Avanti così, cattivi e determinati».

7 settembre 2014 | 08:37
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_settembre_07/renzi-asse-anti-salotti-squinzi-a-cernobbio-chiacchiere-qui-si-fa-cb623c3a-3658-11e4-b5da-50af8bd37951.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Redipuglia e le radici italiane del Papa
Inserito da: Admin - Settembre 14, 2014, 06:46:44 pm
La visita
Redipuglia e le radici italiane del Papa
Il passaggio di un Papa straniero in un luogo simbolo della nostra identità

Di Aldo Cazzullo

La visita di Francesco a Redipuglia, in programma stamattina, non segna soltanto il passaggio di un Papa straniero in un luogo simbolo della nostra storia e della nostra identità. Rappresenta anche il recupero delle sue radici italiane, che il Pontefice ha sempre rivendicato. Bergoglio è e si sente argentino. Però porta nel cognome le origini astigiane. E parla il dialetto meglio della gran parte dei piemontesi (a Roma ancora si stampano manifesti con le frasi di Wojtyla, «semo romani, damose da fa’»; in Piemonte, regione dall’identità meno definita, non ha lasciato tracce la strepitosa espressione dialettale che Francesco usò in piazza San Pietro, «non bisogna fare la munia quaccia», letteralmente la monaca accovacciata: in italiano si potrebbe dire «gatta morta» o in alternativa «moralista ipocrita», ma non è la stessa cosa). Era della provincia astigiana il nonno di Bergoglio, Giovanni, nato a Bricco Marmorito di Portacomaro Stazione, combattente della Grande Guerra.

«Ho sentito tante storie dolorose sulla guerra dalle labbra di mio nonno, che l’ha fatta sul Piave» disse il Papa il 6 giugno scorso, parlando in piazza San Pietro ai carabinieri nel bicentenario della fondazione dell’Arma. Giovanni Bergoglio fu chiamato alla visita di leva il 28 giugno 1904, riformato per «deficienza toracica», richiamato nel 1915 allo scoppio della guerra, a trentun anni. Matricola 15.543, «professione caffettiere, capelli castani, mento tondo, naso aquilino», viene assegnato al 78° reggimento di fanteria. Arriva in prima linea il 10 luglio 1916, sul Medio Isonzo. Partecipa alla sesta battaglia, l’unica in cui l’esercito italiano compie progressi significativi: il Sabotino è preso in 38 minuti, grazie anche all’accorgimento di mettere dischi bianchi sulla schiena dei fanti, per evitare che l’artiglieria italiana tiri come di consueto su di loro; «fu come l’ala che non lascia impronte/ il primo grido avea già preso il monte» poetò D’Annunzio. Seguirono la rotta di Caporetto e la difesa sul Piave. Ma non sono ricordi di gloria quelli che Giovanni Bergoglio ha tramandato al nipote. Era il dolore al centro dei suoi racconti. Il 78° reggimento (come hanno ricostruito Avvenire e Tv2000 ) ebbe 882 morti, 1.573 dispersi, 3.846 feriti. Giovanni fu congedato con una dichiarazione di buona condotta e un premio di 200 lire.

A Redipuglia, davanti ai resti di centomila soldati - e della crocerossina Margherita Kaiser Parodi Orlando, morta di spagnola -, il Papa pregherà per i caduti di tutte le guerre, comprese quelle in corso, che ha definito «la terza guerra mondiale», sia pure «a intervalli» di spazio e di tempo. Non a caso porterà in dono la lampada del patrono d’Italia, San Francesco, che viene dal convento di Assisi. Resta valido il significato profondo di quel che Redipuglia rappresenta per la nostra storia: il più grande sacrario di una guerra che era meglio non fare, che impose un prezzo inaccettabile di sofferenza e di sangue, ma segnò anche la prima prova per una nazione giovane e fragile: una prova che fu superata. E ora sappiamo che tra i nostri antenati che quella guerra combatterono c’era anche il nonno di un Papa argentino, che sta cambiando la storia della Chiesa e lavora per aprire nuove prospettive di pace.

13 settembre 2014 | 08:58
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_settembre_13/redipuglia-radici-italiane-papa-f0d5e636-3b0f-11e4-9b9b-3ef80c141cfc.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Andrea ORLANDO «Per i pm più discrezionalità sui reati Il Pd?...
Inserito da: Admin - Ottobre 21, 2014, 11:14:29 pm
L’INTERVISTA - Andrea ORLANDO
«Per i pm più discrezionalità sui reati Il Pd? Rischio comitato elettorale»
Il ministro: sulla riforma della giustizia giusto andare oltre la maggioranza. San Vittore va chiuso

Di Aldo Cazzullo

Ministro Orlando, anche lei pensa che i magistrati facciano troppe ferie? «Penso che il taglio delle ferie si sia caricato di un significato ulteriore. Non è certo la pietra angolare della riforma; ma non è neppure un atto di lesa maestà, o un’aggressione».

È evidente che le ferie sono un simbolo. Il punto è che la giustizia è lenta e incerta.
«Non sono solo un simbolo. È uno dei tanti provvedimenti per migliorare le performance della giustizia. Pur riconoscendo la specificità del lavoro dei magistrati, credo se ne possa e se ne debba discutere».

Questa settimana arrivano alla Camera il decreto e la legge delega sulla riforma del civile. Il governo punta sulla composizione extragiudiziale. Che esiste già; e non funziona.
«Ampliamo percorsi che già ci sono. Ne apriamo di nuovi. E facciamo diventare gli avvocati promotori di questi percorsi. L’avvocato non ha interesse solo a mantenere la causa; diventa un soggetto che previene e ricompone il conflitto».

Così il cittadino deve pagare per avere giustizia.
«Non è vero. Lavoriamo a un sistema di incentivi: una parte delle spese per gli arbitri e per la negoziazione sarà detraibile. E non è vero che la giustizia viene privatizzata: se le parti non si ritengono soddisfatte, possono tornare alla giustizia ordinaria. La vera privatizzazione è un processo che dura 10 o più anni, in cui soccombe la parte più debole, che non è nelle condizioni di aspettare».

In Italia ci sono troppi avvocati?
«Il blocco del turn-over ha spinto una generazione verso la libera professione. La crisi dello status dell’avvocato diventa un problema democratico: l’avvocatura era un bacino in cui si selezionava la classe dirigente del Paese. Miglioreremo la formazione dei giovani, che potranno fare il tirocinio accanto a un giudice, e attueremo la riforma dell’ordinamento: avremo avvocati specializzati, come i medici».

È possibile rivedere l’obbligatorietà dell’azione penale?
«Il principio costituzionale deve restare. Però leggi già votate dal Parlamento hanno già ampliato la flessibilità. La riforma introduce un ulteriore elemento di discrezionalità per il pm, la condotta riparatoria: chi fa un danno si impegna a risarcirlo, ripristina la situazione precedente, e il reato si estingue prima del processo».

Perché si parla sempre di svuotare le carceri? E’ impossibile costruirne di nuove? Riconvertendo quelle nei centri storici, da San Vittore a Milano a Regina Coeli a Roma?
«Costruire è necessario. Va anche detto che l’aumento dei detenuti non è dovuto a un aumento dei reati, ma a una scelta politica. L’Italia ha deciso di aumentare il ricorso al carcere per droga e immigrazione. Meglio puntare sulla pena in comunità, sui lavori di pubblica utilità. Con Regioni e Comuni rimoduleremo il piano carceri, anche per cogliere l’occasione urbanistica legata a immobili di grande valore. Io sono per chiudere le carceri ottocentesche con i raggi, come San Vittore, non per riaprirlo altrove ma per sostituirlo con un carcere più piccolo fuori Milano».

È possibile limitare l’appello e il ricorso in Cassazione?
«Ci confronteremo con l’associazione magistrati e con gli avvocati. Non credo a ricette tranchant, tipo abolire l’appello. Ma si può far sì che non tutto sia appellabile, e non tutto possa finire in Cassazione. Nella riforma è prevista una sorta di “superpatteggiamento”: una confessione con sconto di pena, una “condanna concordata” non appellabile».

La responsabilità civile dei magistrati non sarà una punizione?
«Modificare la legge Vassalli del 1988 era una necessità, imposta anche dall’Unione Europea, che ci obbliga a varare una nuova legge entro fine anno. Se il Parlamento non farà in tempo dovremo intervenire per decreto; ma la considero un’extrema ratio. La responsabilità dei magistrati resta indiretta: paga lo Stato, che può rivalersi sul magistrato, che però risponderà per l’errore, non in base alla grandezza della causa. Altrimenti nessuno vorrà fare processi grandi e quindi rischiosi».

La magistratura ha un atteggiamento conservatore?
«Avevamo avviato un dialogo costruttivo. Ho visto un cambio di atteggiamento molto forte legato alla vicenda delle ferie, forse perché le si è attribuita un’enfasi che è stata scambiata per un’aggressione».

Renzi ha sbagliato?
«Penso abbia voluto emblematizzare alcuni interventi, come in altri campi. C’è bisogno di parlare con l’opinione pubblica, di semplificare il messaggio. Credo che l’Anm sappia che noi non abbiamo mai fatto di questa misura un punto centrale. Mi auguro che si riprenda la discussione, ora che la legge di stabilità risponde a molte richieste dei magistrati. Ci sono i soldi per mille assunzioni nelle cancellerie, per stabilizzare i precari della giustizia, per riqualificare il personale».

L’Anm critica le nuove norme sull’autoriciclaggio: limitarlo alle attività economiche e speculative consente ad esempio di comprarsi una villa con i fondi neri.
«Se il reato di autoriciclaggio fosse una cosa semplice sarebbe già stato introdotto non tanto dalla destra, che non l’ha mai voluto, quanto dalla sinistra. Si tratta di una misura storica. Il cuore è impedire l’inquinamento dell’economia da parte di capitali illeciti, che alterano la concorrenza. Possiamo stabilire che comprare una villa con i fondi neri alteri il mercato immobiliare. Ma non possiamo semplicemente moltiplicare le sanzioni già previste per il reato presupposto, quello per intenderci con cui si è fatto il nero».

Come cambieranno le intercettazioni?
«Il tema va affrontato. La delega lo prevede. Dobbiamo conciliare le esigenze delle indagini con quelle della privacy e del diritto all’informazione. Serve un filtro per non far finire nei fascicoli ciò che non è penalmente rilevante».

Il patto del Nazareno prevede un accordo sulla giustizia?
«No. E non ne ho avuto alcun tipo di segnale. Non ho mai ricevuto un diktat legato a patti segreti. Ma l’esigenza del confronto è fisiologica. Nella maggioranza ci sono forze che avevano programmi sulla giustizia molto diversi. E i numeri molto risicati al Senato ci impongono il confronto con le opposizioni. So che la navigazione è difficile: bisogna cercare ogni giorno punti di contatto. Ma andare oltre la maggioranza non è solo un’esigenza numerica; è un esigenza politica. Non è un obbligo previsto dalla Costituzione. Ma dopo lo scontro di questi vent’anni costruire una grande infrastruttura come la giustizia è una questione di rilevanza democratica».

Sta dicendo che il governo vuole fare la riforma della giustizia con le opposizioni?
«Sul civile c’è stato in commissione un atteggiamento costruttivo da parte di tutte le opposizioni. Mi auguro prosegua in Aula. Il consenso cambia a seconda del tema. Ci sono priorità simili sui reati di criminalità economica con i 5 Stelle e con settori di Forza Italia sulla responsabilità dei magistrati. Sul civile si possono ridurre le distanze con tutti. Del resto non esiste “la” riforma della giustizia. Esistono molti provvedimenti».

Un eventuale appoggio di Berlusconi su alcuni punti farà pensare a patti inconfessabili. Grazia compresa.
«La storia di questi mesi dimostra che si tratta di allarmi infondati. Un genere letterario, più che un’azione del legislatore o del governo».

Che voto dà a Renzi?
«Sicuramente positivo. Renzi sta cercando di rompere la temperie tecnocratica degli ultimi vent’anni, sorprendendo tutti. Renzi ha smentito Renzi. Ai tempi di Monti lo ricordo tra i più convinti supporter della sua agenda. Ora ha ridato respiro alla politica, incrinando la logica ragionieristica della gestione europea della crisi. Non solo rigore, ma redistribuzione del reddito e incentivi. Ora va proposta una politica industriale».


Lei però viene da una parte del Pd che rischia di essere spazzata via. Il partito diventerà il comitato elettorale di Renzi?
«Il rischio comitato elettorale c’è. Ma non inizia con Renzi. Non si tratta di coltivare la nostalgia del tempo delle sezioni. Dobbiamo costruire il partito facendo i conti con le nuove tecnologie, dando uno sbocco alla partecipazione attiva dei cittadini, in altre forme oltre a quelle delle primarie. Altrimenti sono in pericolo, oltre al partito e alla qualità democratica, anche le riforme. Che non dipendono solo dalle norme, ma da quel che si riesce a cambiare nel profondo del Paese».

D’Alema e Bersani faranno la scissione?
«Sono convinto di no. Non è nella loro cultura politica un posizionamento di mera testimonianza».

19 ottobre 2014 | 10:23
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_ottobre_19/per-pm-piu-discrezionalita-reati-pd-rischio-comitato-elettorale-5504d58a-5768-11e4-8fc9-9c971311664f.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Ruini: io dico no alle unioni civili
Inserito da: Admin - Ottobre 22, 2014, 06:08:09 pm
Ruini: io dico no alle unioni civili
L’ex presidente dei vescovi italiani, Camillo Ruini, parla di Chiesa, gay e divorziati: «Questa ondata libertaria potrebbe defluire»

Di Aldo Cazzullo

Eminenza, dal Sinodo esce una Chiesa divisa. Si è votato, le posizioni sostenute dal Papa hanno prevalso, ma di misura. Che impressione ne ha tratto?
«Quella che papa Francesco ha espresso nel discorso conclusivo: non una Chiesa divisa, ma una Chiesa con posizioni differenti. Una Chiesa che è comunione: l’unico corpo di Cristo, in cui siamo membri gli uni degli altri. Mi pare un po’ forzato dire che certe posizioni erano sostenute dal Papa piuttosto che certe altre. Lui stesso ha voluto che ci fosse piena libertà di parola. Ed è anche molto arrischiato parlare di maggioranze e minoranze».
Però si sono coagulati elementi di dissenso e di malumore verso Francesco. È normale? O ne possono derivare conseguenze negative?
«Questi elementi ci possono essere, non è certo la prima volta. Accadde anche al Concilio. Conseguenze negative si possono verificare se qualcuno dimentica che il Papa è il capo e il fondamento visibile dell’unità della Chiesa».
Francesco ha criticato «gli zelanti, gli scrupolosi, i premurosi, i cosiddetti tradizionalisti, gli intellettualisti». A chi si riferiva?
«Ma ha criticato anche i buonisti, chi vorrebbe scendere dalla croce o truccare il depositum fidei per accontentare la gente. Collocare il Papa da una parte contro l’altra è fare il contrario di quanto il Papa stesso ci domanda».
Nell’intervista con Ferruccio de Bortoli, Francesco ha detto di non riconoscersi nella formula dei valori non negoziabili. Ma quella formula è stata centrale negli ultimi anni per il Vaticano, e anche per la Cei.
«La formula risale a una nota del novembre 2002 della congregazione per la dottrina della fede, guidata allora dal cardinale Ratzinger, che l’ha usata talvolta anche da Papa. L’espressione riguardava l’impegno dei cattolici nella vita politica e il senso era precisato nella nota stessa: serviva a distinguere le esigenze etiche irrinunciabili dalle questioni su cui è legittima per i cattolici una pluralità di orientamenti. Io stesso usai quella formula. Ma non amo fare questioni di parole e non ho difficoltà a rinunciare a un’espressione che in effetti è stata spesso equivocata; come se privasse i cattolici impegnati in politica della loro libertà e responsabilità, mentre si limita a richiamarli alla coerenza, affidando questa richiesta di coerenza alla libertà di ciascuno».
È vero che un gruppo di cardinali durante il Sinodo è andato da Ratzinger per chiedere un suo intervento, ricevendone un rifiuto?
«Non ne ho mai sentito parlare. Sarei un po’ sorpreso se si fosse verificato, senza che prima o poi qualche voce mi giungesse alle orecchie».
Qual è oggi il ruolo del Papa emerito? Le capita di parlargli?
«Sono stato a trovarlo due volte, l’ultima nel settembre scorso. Abbiamo parlato soprattutto di teologia. Il suo ruolo l’ha precisato lui stesso: non esercita alcuna funzione di governo; sostiene la Chiesa dal di dentro, con la preghiera e con la forza del suo pensiero teologico».
È davvero impossibile dare la comunione a un divorziato senza violare l’indissolubilità del matrimonio?
«Se il matrimonio rimane indissolubile, e quindi continua a esistere, contrarre un nuovo matrimonio sarebbe un caso di bigamia; e avere rapporti sessuali con altre persone sarebbe un adulterio. Non si può pretendere che il matrimonio sia indissolubile e che ci si possa comportare come se non lo fosse».
Regola immutata, prassi più elastica: sarà questo il compromesso finale?
«È probabile. Nella messa di ieri si cita un salmo che dice: “Verità e misericordia si sono baciate”. Questa idea è già nell’Antico Testamento, è nel mistero di Dio. Realizzarla nel mondo creato può essere faticoso. Ma abbiamo un anno di tempo per trovare la strada giusta».
Lei ha parlato di diritto divino. Il Papa vi ha invitati a farsi sorprendere da Dio.
«Io penso così, e devo dire quello che penso. Anche il Papa ha riaffermato l’indissolubilità, l’unità, la fedeltà, la procreatività del matrimonio, in termini molto netti».
Sta dicendo che Francesco ha cambiato linguaggio e temi, puntando sul sociale, ma non la dottrina?
«Ogni Papa ha la sua sensibilità. Wojtyla era un polacco che si era temprato nella battaglia contro il comunismo, e per questo passò per un Papa conservatore: in realtà definiva il Concilio “la più grande grazia del XX secolo”. Ratzinger è un grande teologo tedesco. Francesco è il primo Papa latinoamericano, e ha una sensibilità diversa».
La valutazione corrente è che la Chiesa sia passata dal conservatorismo al progressismo. È sbagliato?
«L’ottica non è appropriata, ma se si vogliono usare categorie mondane si può dire anche questo. E può accadere che noi uomini di Chiesa diamo a questo linguaggio improprio qualche pretesto. Rimane il fatto che la Chiesa è una cosa diversa. È una comunione».
Esiste oggi un’opposizione nella Chiesa? Con un suo capo?
«Non c’è un’opposizione, e tanto meno un capo dell’opposizione. Non riesco a immaginare a chi si possa aver pensato per un ruolo di questo genere: nessuno ne ha la velleità».
Ha letto il libro di Antonio Socci, «Non è Francesco»?
«Non l’ho letto. Se vuole sapere cosa penso della tesi secondo cui il Papa sarebbe stato eletto invalidamente, le dico subito che la considero totalmente infondata e abbastanza ridicola. Non ho mai sentito un solo cardinale che abbia partecipato al conclave dire qualcosa che in qualche maniera le assomigliasse».
Non trova che nell’editoria laica sia partito un «attacco da destra», che dà voce a una parte del mondo cattolico che non si riconosce in questo papato?
«Un piccolo attacco di questo genere purtroppo esiste; forse anche per reazione alla tendenza di altri editori laici ad appropriarsi di papa Francesco, per trasformarlo in un sostenitore delle tesi contrarie al cattolicesimo. Le due cose si rimpallano; ma la potenza mediatica di questo secondo atteggiamento è molto più forte. Gli uni hanno i fucili ad avancarica, gli altri hanno l’aviazione».
Simboli, vestiario, stile: l’hanno colpita le scelte di Francesco? Compresa quella di non vivere nell’Appartamento?
«Mi hanno colpito molto, ma in maniera decisamente favorevole. Credo siano state una vera benedizione per la Chiesa: hanno contribuito a farle superare un momento difficile. In particolare, il Papa sta a Santa Marta non per motivi “ideologici”, ma perché si trova meglio a contatto costante con la gente, come ha detto lui stesso».
Lei è d’accordo con il cardinale Scola, quando dice che la Chiesa è in ritardo sull’omosessualità?
«La questione del ritardo o dell’anticipo dipende dalla direzione di marcia in cui si va. Quando da giovane sacerdote venivano a parlarmi e talora a confessarsi vari omosessuali, dicevano di trovare nella Chiesa un ambiente rispettoso e comprensivo. Di alcuni divenni amico. Adesso la Chiesa è considerata in ritardo perché continua a ritenere l’omosessualità non conforme alla realtà del nostro essere, che è articolata in due sessi dal punto di vista organico, psicologico e più in generale antropologico. Sarà il tempo a dire se, sostenendo questo, la Chiesa è in ritardo o in anticipo rispetto all’opinione prevalente».
In Italia pare vicina l’intesa sulle unioni civili, con il consenso di Berlusconi. È un errore?
«Su questo punto mi sono espresso al tempo dei Dico, e non ho cambiato parere. È giusto tutelare i diritti di tutti; ma i veri diritti, non i diritti immaginari. Se c’è qualche diritto attualmente non tutelato che è giusto tutelare, e ne dubito, per farlo non c’è bisogno di riconoscere le coppie come tali; basta affermare i diritti dei singoli. Mi pare l’unico modo per non imboccare la strada che porta al matrimonio tra coppie dello stesso sesso».
Ma in Italia si parla di unioni civili, non di matrimonio.
«Se il contenuto è molto simile, serve poco cambiare il nome del contenitore».
Cosa pensa di Marino che a Roma registra le nozze gay?
«Un sindaco ha il diritto di sostenere le proprie posizioni, ma non può per questo violare le leggi dello Stato».
Ci sarà anche in Italia un movimento di protesta?
«Nessuno può escluderlo. In Francia il movimento “Manif pour tous” non è certo stato organizzato dalla Chiesa: è una forza grande e variopinta, che ha indotto il governo a essere più prudente».
Sta dicendo che l’ondata libertaria può defluire?
«Negli Anni 70 anche molti non marxisti erano convinti che il marxismo fosse un orizzonte insuperabile per la cultura e la storia. Ma poi il marxismo si è dissolto e sono subentrate prospettive diverse. Allora mi occupavo di giovani: nel giro di pochi anni è cambiato tutto; Marx non interessava più. Non so dire se accadrà qualcosa di analogo con l’attuale tendenza libertaria; ma non lo escludo».

22 ottobre 2014 | 07:05
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_ottobre_22/ruini-io-dico-no-unioni-civili-a7ff7ba6-59a6-11e4-b202-0db625c2538c.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Le due sinistre parallele che non si appartengono più
Inserito da: Admin - Novembre 03, 2014, 05:51:01 pm
DUE EPOCHE
Le due sinistre parallele che non si appartengono più

di Aldo Cazzullo

La sinistra del futuro è il mungitore sikh con bandiera rossa o Fabio Volo con telecamera? I precari dei trasporti o il finanziere Serra che propone di impedire loro di scioperare? I tipografi dell’Unità con la foto degli occhiali rotti di Gramsci o i nuovi alfieri del made in Italy Bertelli, Farinetti, Cucinelli?

La mattinata al corteo della Cgil e il pomeriggio alla Leopolda hanno mostrato che la scissione - anche cromatica - non è nelle volontà, è nelle cose. Mai vista a Roma una manifestazione così rossa, ognuno con la sua pettorina: chimici, tessili, agroindustria, costruzioni e legno, energia e manifattura, trasporti e Nil, Nuove identità di lavoro, che non si sa come chiamare. A Firenze in molti hanno avvertito l’opportunità di indossare la camicia bianca. Contro Berlusconi la Cgil sfilava in un’atmosfera di rabbia e di gioia, si sentivano tensione ed energia. Stavolta il sentimento prevalente è l’angoscia. Certo, si canta e si balla con gli inni tradizionali - Bandiera Rossa, Bella Ciao, Contessa - e la musica etnica. Ma i manifestanti raccontano storie di sconfitte e talora di disperazione, come quelle degli ex lavoratori dell’ex stabilimento Montana di Paliano, Frosinone: «Sono venuti di notte con i Tir, hanno portato via i macchinari e la merce, non abbiamo più trovato nulla. In 36 siamo rimasti senza lavoro». Alla Leopolda si tenta di rappresentare la fiducia e si finisce per esprimere soddisfazione, talora compiacimento. Rituale tra la convention Usa e la seduta degli alcolisti anonimi: «Mi chiamo Alfredo, sono il direttore di una piccola società di biotecnologia...». Slogan: «Il futuro è solo l’inizio».

Anche Landini con felpa Fiom dice che «questo corteo è solo l’inizio». Se Renzi ha conquistato il centro, è inevitabile che alla sua sinistra nasca un nuovo partito; e i punti di riferimento non saranno certo D’Alema e Bersani, cui neppure la minoranza Pd obbedisce più, e forse neanche la Camusso, che con tono lamentoso critica la prima manovra espansiva di un governo italiano da tempo. Landini appare il leader predestinato della sinistra che verrà, l’antagonista naturale di Renzi, cui lo avvicina un feeling personale ma da cui lo separa il sospetto di essere stato usato, anche in funzione anti-Cgil. In futuro potranno ancora rendersi utili l’uno all’altro: il premier confermerà di aver rotto con la sinistra tradizionale, il sindacalista di essere l’unico vero oppositore. Per Renzi il corteo non esprime odio ma estraneità, i pensionati della Spi imbacuccati contro il primo freddo ne parlano come di un nipotino deviato, i percussionisti africani in maglietta portano un cartello con la sua caricatura.

Renzi si improvvisa conduttore e chiama sul palco i «cortigiani» come li definisce Vendola, in realtà tra i più importanti imprenditori italiani, qualcuno sin troppo entusiasta. Cucinelli vaticina «un grande rinnovamento morale, civile, economico, spirituale». Oggi è atteso Farinetti: «Dirò che sono un renzista, non un renziano; fedele al metodo, non all’uomo». Dall’ultima Leopolda è cambiato tutto, Renzi è andato al governo, ha ricompattato il partito chiudendo l’accordo con Errani in Emilia e Rossi in Toscana, ha messo ai margini gli uomini del rinnovamento come Richetti, che è venuto lo stesso. La sinistra è al potere ma l’Unità ha chiuso, «il voto a tempo indeterminato non esiste più» dice del resto il premier, tra due anni potrebbe avere un Parlamento docile nelle sue mani con Salvini sindaco di Milano e la Meloni di Roma.

Patrizio Bertelli, il signor Prada: «Io rispetto gli operai, ho passato la vita con loro, ma questo corteo mi è sembrato una liturgia, come la Pasqua e il Natale».

Alla fine si è andati o di qua o di là, nessuno ha osato farsi vedere sia al corteo sia a Firenze, neppure l’ex segretario del sindacato e del partito, Epifani: «Ho scelto Roma, non ce la faccio ad andare alla Leopolda, che comunque considero interessante. Il problema è come il Pd possa tenerla insieme con una piazza in cui la maggioranza l’ha votato». Un problema irrisolvibile. Non è come quando i ministri comunisti di Prodi protestavano contro il loro stesso governo: quella fu una contraddizione, o un’astuzia, subito punita dagli elettori. Ora ci sono due mondi separati, che non si riconoscono e non si appartengono più.

26 ottobre 2014 | 08:45
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_ottobre_26/due-sinistre-parallele-che-non-si-appartengono-piu-30335ace-5ce0-11e4-abb7-a57e9a83d7e3.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Significato di una ricorrenza Il filo sottile della memoria
Inserito da: Admin - Novembre 04, 2014, 11:51:54 am
Significato di una ricorrenza
Il filo sottile della memoria
Di Aldo Cazzullo

Oggi il presidente Napolitano consegnerà la medaglia d’oro al valor militare ad Andrea Adorno, alpino di Catania, ferito in combattimento sulle montagne dell’Afghanistan. Una cerimonia che in altre democrazie sarebbe routine; ma non in Italia. È la prima volta che si tiene al Vittoriano. È la prima volta che il soldato insignito non è un ufficiale, ed è vivo. In altri tempi, l’alpino siciliano sarebbe parso un ossimoro. Oggi l’esercito ha riconquistato prestigio, grazie ai militari in missione di pace nei territori più difficili del pianeta. E grazie anche al nostro legame con la storia e l’identità italiana, che si sta rivelando più forte di quanto pensassimo.

Quest’anno l’Europa ha celebrato i cent’anni della Grande guerra. Il 4 novembre, anniversario della vittoria, chiama in causa l’Italia, che il prossimo 24 maggio ricorderà l’ingresso nel conflitto. Fu l’inizio di un calvario, dagli assalti sconsiderati alle decimazioni, che costò sofferenze terribili. Davanti ai centomila morti di Redipuglia, papa Francesco ha già avuto parole di condanna per tutte le guerre; e sarebbe giusto che lo Stato italiano, unico a non aver riabilitato i fanti fucilati per volontà di una casta militare sprezzante delle vite umane, trovasse parole di pietà per tutte le vittime. Nello stesso tempo, non è inutile ricordare che quella guerra l’Italia la vinse. Poteva essere spazzata via; invece superò la prima prova della sua storia unitaria. E dimostrò di non essere più un nome geografico, come la volevano gli austriaci, ma una nazione.

Ogni paragone con il passato è fuorviante: il Paese che oggi si allarma per Ebola non è lo stesso che seppellì 350 mila morti di febbre spagnola in un mese. Ma ogni generazione ha la sua guerra da combattere. Quella contro la crisi è lontana dall’essere vinta. Siccome la capacità di resistenza e la forza morale che i nostri antenati dimostrarono cent’anni fa non possono essere andate disperse nel tempo, sta a noi ritrovarle dentro noi stessi e riaccenderle dentro i nostri figli. Questo vale per gli uomini e a maggior ragione per le donne, che un secolo fa dimostrarono di saper prendere il posto dei mariti, nelle campagne, nelle fabbriche, nelle università.

Oggi i fanti non ci sono più. La memoria è un dovere nei confronti dei nostri padri, e ancor più nei confronti dei 650 mila ragazzi che padri non sono diventati. La riscoperta dei simboli dell’unità può essere retorica, quindi inutile, e consolatoria, quindi controproducente. Ma si rivela utilissima, quando sentiamo che la vicenda nazionale incrocia quella delle nostre famiglie. È di noi, come sempre, che parla la storia.

4 novembre 2014 | 07:42
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_novembre_04/filo-sottile-memoria-fb2da526-63e9-11e4-8b92-e761213fe6b8.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. L’intervista Carlo De Benedetti
Inserito da: Admin - Novembre 15, 2014, 05:36:32 pm
L’intervista Carlo De Benedetti

«Renzi energico e spregiudicato Mi ricorda il Fanfani degli anni ‘50»
L’ingegnere: il nuovo presidente? Il premier non lascerà che sia uno che distragga l’attenzione da lui»

Di Aldo Cazzullo

«Compio ottant’anni, sono un uomo fortunato e sono vissuto in un’epoca straordinaria: dalla fabbrica - nel 1958 mio padre fermò il lavoro alla Gilardini per festeggiare Tunìn, il primo operaio arrivato con l’auto anziché in bici - all’economia digitale. Mi sono ammazzato di lavoro, poi a sessant’anni mi è successa una cosa che non credevo possibile: mi sono innamorato, e mi sono risposato. Grazie a mia moglie Silvia ho scoperto un’altra vita. Abbiamo girato il mondo in barca, ho coltivato interessi in campi che già prediligevo: arte, collezioni, musei...».

Ingegner De Benedetti, è sicuro di non avere nulla da rimproverarsi? Sull’Olivetti, ad esempio.
«Assolutamente no. Nessuna azienda europea dell’informatica è sopravvissuta. Olivetti fu l’unica a entrare nella telefonia mobile, realizzando la più grande creazione di valore in Italia in cinque anni. Certo, io avevo una bulimia di lavoro, e anche di conquista. Tentai di scalare la Sgb, comprai la Buitoni, la Perugina, le figurine Panini, Yves Saint Laurent, Valeo... Così distolsi non quattrini ma mie personali energie dall’Olivetti. Però la diversificazione nella telefonia fu un successo: Omnitel fu venduta a Mannesmann per 14.500 miliardi di lire».

Non si rimprovera neppure di aver pagato tangenti?
«Sono stato l’unico ad andare da Di Pietro a dire: “Mi assumo tutte le responsabilità, per quel che so e per quel che non so, ma voglio che nessun dirigente dell’Olivetti sia coinvolto”. Altri prestigiosi miei colleghi non si regolarono allo stesso modo».

Come fu la giornata passata a Regina Coeli?
«Del carcere ricordo la consegna dei documenti. L’ispezione anale. Ma le esperienze dure fanno bene. A 10 anni ero in un campo di concentramento svizzero. Nulla di paragonabile a Mauthausen, dove morirono i miei cugini. Però la doccia fredda all’alba d’inverno, senza asciugamani, con soltanto la paglia dove dormivi per asciugarti, l’ho provata. Una lezione di vita utilissima».

Cos’altro ricorda della guerra?
«Mio padre faceva tenere a mio fratello Franco e a me un album di ritagli con le notizie della persecuzione degli ebrei e le foto dei campi di concentramento. Chiedemmo perché dovessimo farlo. Lui rispose: “Perché un giorno qualcuno dirà che tutto questo non è successo”».

Come tessera numero 1 del Pd, riconosce...
«Questa è una favola: non ho mai avuto tessere».

...Riconosce di aver cambiato giudizio su Renzi? Nel 2011 lei disse al Corriere: “Di Berlusconi ne abbiamo già avuto uno, e ci è bastato”.
«Sì: per quanto i due personaggi abbiano qualche punto di contatto, mi sono ricreduto. Renzi è un fuoriclasse. Per quattro motivi. Innanzitutto, è molto intelligente».

Berlusconi non è intelligente?
«Berlusconi è furbo».

E gli altri motivi?
«L’energia: non ne ho mai vista tanta in un politico. Forse si può fare un paragone con il Fanfani degli Anni ‘50. L’empatia. Dicono che Renzi ricordi Craxi, per decisionismo e abilità politica; Craxi però era antipatico. E poi Renzi è una spugna. Di economia non sa molto; ma in un attimo assorbe tutto. È veloce e spregiudicato».

Eppure non ha portato il Paese fuori dalla recessione.
«Questa manovra non è risolutiva. Il vincolo del 3% è incompatibile con riforme vere. E le riforme senza soldi non si fanno. Il premier dovrebbe fare come Schröder, quando ottenne di sforare i parametri per tre anni. Oggi Renzi non se la sente; ma sono certo che, quando avrà avviato le riforme, lo farà. Fino ad allora, l’Italia non uscirà da recessione e deflazione».

È così pessimista sulla nostra economia?
«Sono pessimista sulla tenuta europea. E condivido quanto sostiene Larry Summers: ci attende una stagnazione secolare. La distruzione del ceto medio creerà una società con pochi ricchi, molti poveri e molti eroi che cercheranno di costruire una famiglia con 1500 euro al mese».

Facciamo 1580.
«Gli 80 euro sono stati un brillante spot elettorale. Ma è difficile pensare che rimettano in moto l’economia. Detto questo, Renzi è l’unico che possa riportare l’Italia al suo standard».

Non salva neanche Prodi?
«Buone intenzioni. Ma non si governa mettendo insieme Ciampi e Bertinotti, Padoa-Schioppa e Ferrero».

D’Alema?
«Non ha lasciato segno».

Renzi però governa con Berlusconi.
«Non è detto che lo farà ancora a lungo».

Cosa pensa del patto del Nazareno?
«Il premier ha fatto benissimo a stringerlo. E Berlusconi per sopravvivere non poteva fare altro. È innamorato di Renzi e disgustato dal suo partito».

Cosa farà Berlusconi?
«Penso che venderà tutto a uno straniero, e per farlo non può avere il governo contro. In Italia non c’è nessuno disposto a comprare le sue aziende. La tv generalista è messa molto peggio dei giornali».

Quindi su Renzi, tra Scalfari e Mauro, ha ragione Mauro?
«Scalfari è un mio grandissimo amico oltre che geniale imprenditore e innovatore nel campo del giornalismo. Ma - lo dico scherzando - lui vorrebbe vedere Reichlin primo ministro. Ogni domenica mattina mi confronto con tre novantenni. Piero Ottone. Gianluigi Gabetti: un uomo che ha meriti colossali. E Scalfari, cui mi lega un’affinità: entrambi siamo dentro e fuori il sistema; lo critichiamo, ma ne facciamo parte».

Chi sarà il prossimo direttore di Repubblica ?
«Finché Ezio ne ha voglia, il direttore sarà Ezio. Si è preso Repubblica non solo “a collo”, come diciamo noi piemontesi, ma addosso. Oggi Repubblica è lui».

L’editoria però è in crisi. Come uscirne?
«Dobbiamo far crescere i nostri brand. Repubblica ha un milione e mezzo di follower su Twitter, molti di più su Facebook».

Come monetizzare tutto questo?
«Siete la concorrenza, non lo dico. Ma se i giovani pensano che il nostro brand sia importante, significa che sentono l’esigenza di una gerarchia tra le troppe notizie da cui sono bombardati. Noi forniremo questa gerarchia. Non si tratta più di raccontare quel che è accaduto, ma perché è accaduto».

Anche sulla Fiat deve ricredersi: lei ne prevedeva il fallimento.
«Marchionne si è rivelato un genio della finanza. Ha avuto un successo straordinario. Ma non è un uomo di automobili. In materia finanziaria vorrei essere bravo come Marchionne. So che qualcuno mi ritiene un finanziere...».

Sta dicendo che lei non è un finanziere?
«Io sono sempre stato un imprenditore che ha capito la leva della finanza. E nei 100 giorni in cui rimasi in Fiat, con Giorgetto Giugiaro inventammo la Panda».

Cos’ha rappresentato per lei l’Avvocato?
«È stato l’unico uomo che mi ha affascinato. Ho stimato La Malfa, Berlinguer, Ciampi e Visentini: sono state tutte persone importanti per me. L’Avvocato mi affascinò: gli invidiavo l’impalpabile. Mi sedusse pur con i suoi limiti, che riconosceva lui per primo; perché era cinico anche con se stesso».

È vero che Steve Jobs da giovane le propose di investire in Apple, e lei rifiutò?
«Ero a Cupertino con Elserino Piol. Erano le 7 di sera. Ero esausto per le riunioni e per il fuso. Piol mi dice di passare in un garage dove ci sono due capelloni con i jeans stracciati che lavorano a un mini-computer: erano Wozniak e Jobs. Steve mi propose di rilevare il 20% della sua società per 30 milioni di dollari. Me ne andai. Oggi quella quota varrebbe 100 miliardi. Ma quella partita non la persi solo io, l’ha persa l’industria europea che sulle nuove tecnologie ha rinunciato a un pezzo di futuro».

Non ha nulla da rimproverarsi nemmeno su Sorgenia?
«Non sono mai stato neppure in consiglio. Da presidente Cir approvai l’investimento. La facilità di accesso al credito, tipica di quegli anni, ha indotto la società a indebitarsi troppo; il resto l’ha fatto il crollo dei prezzi e del consumo di energia. Penso che la società, una volta portato l’indebitamento a livelli più sostenibili, abbia buone prospettive».

E sull’indagine per omicidio colposo per l’amianto all’Olivetti?
«Ribadisco la mia estraneità. Non tutti hanno idea di cosa significhi governare un gruppo di 70 mila dipendenti. Secondo l’indagine l’amianto era anche negli uffici dove ho lavorato per 18 anni. Se lo avessi saputo e ne avessi conosciuto la pericolosità, non crede che l’avrei fatto togliere?».

Quando si vota, secondo lei?
«Nella primavera 2015. Dopo che il 31 dicembre Napolitano si sarà dimesso».

Chi sarà il presidente della Repubblica?
«Posso dirle quali connotati dovrà avere, coniugando realismo e aspirazione. Renzi non lascerà che sia eletto qualcuno che distragga l’attenzione da lui. Ma il presidente dovrà essere un politico dal grande profilo istituzionale, che conosca a fondo il funzionamento delle Camere».

Renzi dura?
«Dipende dall’economia. Se avrà il coraggio di sfondare gli assurdi parametri di Maastricht e capirà che i corpi intermedi costituiscono parte della struttura di una società democratica, ce la farà».

E l’Europa durerà?
«Bob Dylan 50 anni fa cantava “è tempo di cambiare il mondo”; forse aveva capito molto più di tanti economisti. Davanti a noi abbiamo due problemi: la deflazione e la recessione; non stiamo combattendo né l’una né l’altra. L’Europa è dominata da spinte nazionaliste, e in Germania c’è la Merkel, non Kohl. Se alle prossime elezioni greche vince Tsipras, per l’euro saranno giorni durissimi, e a quel punto si dovrà cambiare per forza. Ma non so se nella direzione giusta».

14 novembre 2014 | 13:47
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_novembre_14/renzi-energico-spregiudicato-mi-ricorda-fanfani-anni-50-c1be146a-6bfa-11e4-ab58-281778515f3d.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Crisi e conflitti, senza rispetto L’età dell’odio che va fermata
Inserito da: Admin - Novembre 25, 2014, 04:30:13 pm
Crisi e conflitti, senza rispetto
L’età dell’odio che va fermata

Di Aldo Cazzullo

Pare di vivere nell’età dell’odio. Dopo anni passati a stupirci che la crisi non producesse conflittualità sociale, ora lo scenario è cambiato. Il linguaggio della discussione pubblica ha quasi raggiunto la virulenza degli anni 70, e alle parole cominciano a seguire i fatti. Gli incendiari grillini sono stati scavalcati dalla rivolta di Tor Sapienza, mentre i centri sociali aggrediscono leader sgraditi (e provocatori), e quasi ogni giorno viene devastata una sede di partito.

Le cause sono molte. La sofferenza di chi perde il lavoro. La disperazione dei giovani che non lo trovano e talora neppure lo cercano. Ma anche la diffidenza reciproca di categorie che si detestano, di corporazioni che additano nelle altre la causa del male italiano assolvendo solo se stesse. E l’immigrazione senza controllo ha acceso una guerra tra poveri, scatenando la rabbia delle periferie e generando negli stranieri estraneità e frustrazione che, sommate al senso di impunità che lo Stato italiano comunica ai nuovi arrivati, minacciano di innescare tensioni già esplose ai margini delle metropoli europee.

La risposta della politica è debole. L’allarme di Napolitano sugli estremismi interni e sul timore di «lupi solitari» islamici è passato quasi inosservato. Il durissimo scontro tra Renzi e la Cgil non aiuta. Il baratro apertosi a destra è stato riempito da Salvini, che ha schierato la Lega con i nazionalisti francesi.

Sia chiaro: il passato non torna. Ma può insegnarci qualcosa. Il pericolo non viene solo dalle centrali del terrore; anche la violenza diffusa, l’odio manifesto, la crisi morale che ha il suo riflesso quotidiano nel degrado dei rapporti umani possono fare molto male alle nostre vite. La lezione della storia recente è che la violenza non va tollerata; altrimenti si riprodurrà in modo esponenziale. Com’è ovvio, il diritto a manifestare pacificamente non può essere messo in discussione: le prove di forza, di solito esercitate sui deboli, non servono a nulla se non ad alimentare la spirale dell’odio. Si tratta invece di ripristinare la legalità: non è possibile che chi si ritrova la casa «sequestrata» dal racket delle occupazioni non abbia gli strumenti per riprendersela, non è possibile rassegnarsi all’idea che in Italia sia lecito fare qualsiasi cosa senza prendersene la responsabilità. Nello stesso tempo chi partecipa alla vita pubblica dovrebbe tenere i nervi saldi, ristabilire un minimo di rispetto reciproco, e impegnarsi perché il governo italiano e quello europeo mettano in campo una politica sociale, che attenui la sofferenza e crei opportunità per i giovani. Il rogo dell’odio va spento, prima che ci avveleni l’aria e bruci le nuove generazioni.

23 novembre 2014 | 08:56
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_novembre_23/eta-dell-odio-che-va-fermata-8182f0dc-72e4-11e4-9964-9b0d57bdf835.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Goffredo Bettini: «Ora è peggio che nel ‘92...
Inserito da: Admin - Dicembre 13, 2014, 04:38:58 pm
L’intervista

Goffredo Bettini: «Ora è peggio che nel ‘92. Marino? Lasci e si ricandidi»
L’eurodeputato del pd smentisce di aver favorito la cooperativa di Buzzi.
E su Renzi dice: «Giusto commissariare ma non ha impresso la svolta decisiva al paese»

Di Aldo Cazzullo

Al citofono la voce dal finto accento siciliano è scherzosa: «Sono l’onorevole Bettini, quello della cupola; quarto piano». Di persona, però, Goffredo Bettini è molto arrabbiato. «Non dimenticherò mai di aver visto la mia foto al Tg1, il mio nome accostato a quello di delinquenti. Sono entrato in politica notevolmente ricco uscendone non dico povero, ma assai meno ricco. E querelo chiunque dica o scriva che io ho favorito la cooperativa 29 Giugno o qualunque altro soggetto coinvolto nell’inchiesta».

Salvatore Buzzi, il capo della cooperativa, diceva: «Ce manda Goffredo».
«Da me non venne Buzzi ma il suo vice, Carlo Guaranì: uno che assomiglia a Danny De Vito, bassetto, con la cravatta scompigliata. Mi parlò di cinema, di teatro, e di un progetto in Sicilia. Gli dissi che non ne sapevo nulla e di rivolgersi alle persone competenti: se non sbaglio, il “giro” finì in prefettura, pensi un po’. Alla mia segreteria risulta un incontro. Io ne ricordo due».

Quindi li conosceva.
«Certo che li conoscevo. Non era il mio mondo, come loro stessi dicono nelle intercettazioni; ma la cooperativa 29 Giugno è un pezzo della sinistra romana. Sono quelli che hanno aiutato a fare il film dei fratelli Taviani che vinse l’Orso d’oro a Berlino. La fondazione è nata alla presenza di Di Liegro e Laura Ingrao. Furono i primi a occuparsi non di edilizia ma di detenuti, malati psichici, immigrati. Nessuno poteva immaginare che quella fosse solo una faccia della medaglia, e l’altra faccia fosse rivolta verso la criminalità».

Davvero non potevate immaginare?
«No. Qui è diventato impossibile fare politica. Si crocefigge Micaela Campana per un sms in cui chiama Buzzi “capo”; ma sono cose che si fanno, anche se a me non piacciono, era il modo per gratificare un compagno che si riteneva importante. Rivendico che nessuno potesse immaginare, ad esempio, che Odevaine avesse una doppia vita. Parliamo di persone abilissime nel camuffarsi. Odevaine aveva persino cambiato cognome. Si è scoperto perché gli è stato negato il visto per gli Usa a causa di una condanna per droga».

Però il sistema era trasversale. E il Pd non può chiamarsi fuori.
«Le rispondo con quello che scrissi in un libro del 2011, Oltre i partiti: “Non c’è più la forza del leone, ma della volpe, più della furbizia, rimane l’appetito. E la corruzione non si ferma sulla soglia del centrosinistra”. Oggi la crisi della rappresentanza si è aggravata; e non è che ce ne siamo accorti quando l’ha detto la simpatica Madia. Siamo in una situazione peggiore di quella del ‘92. Si parla di Roma perché Roma è stata scoperchiata; ma non credo che molte altre città siano meglio».

Sa cosa colpisce di Mafia Capitale? La permeabilità. Il calciatore e il personaggio tv che non chiamano la polizia ma la malavita. La commistione.
«Questa commistione ha date molto chiare. Dopo Mani Pulite e fino al 2008 Roma è stata un modello di buona amministrazione».

Di cui lei era considerato l’uomo forte.
«Io mi sono occupato di amministrazione solo con Rutelli. Poi sono andato all’Auditorium e alla Festa del cinema, continuando a occuparmi di politica. È stata una stagione straordinaria. Abbiamo fatto i grandi lavori del Giubileo senza un avviso di garanzia».

L’età dell’oro?
«Non sorrida. Il modello Roma regge fino alla vittoria di Alemanno, che subito inizia una campagna per distruggerlo. E Alemanno aveva le cambiali di una vita politica da pagare. Non dico fosse ricattato; diciamo che era premuto da personaggi che l’hanno portato al disastro».

Volenterosamente aiutati dalla sinistra.
«È vero. Liquidata una classe dirigente, con me in testa, i nuovi leader locali del Pd hanno avviato in Campidoglio una stagione consociativa, che è diventata un terreno sfruttato dall’affarismo criminale, animato da sopravvissuti all’eversione e alla delinquenza politica degli Anni 70, di destra ma anche di sinistra».

E lei cosa faceva? Allora era il coordinatore nazionale del Pd di Veltroni.
«Chiesi il congresso. Berlusconi aveva vinto le elezioni, ma Walter aveva costruito un partito del 34%: poteva guidare l’opposizione e preparare la rivincita. In direzione erano d’accordo con me Gentiloni e Tonini, lo stesso Bersani era disponibile; gli altri erano contro. Veltroni fu costretto a creare il “caminetto”, a far entrare le correnti, che lo indussero alle dimissioni. Tutto comincia da lì. E io me ne andai all’estero. È ignobile e fa comodo dipingermi come uno che decideva tutto: ho vissuto anni di solitudine totale. Mi occupavo di cinema a Bangkok, Manila, Rangoon e ho scritto libri».

Da dove è tornato per rifilare ai romani Marino.
«Sì. Ma io non ho imposto nessuno. Il sindaco lo doveva fare Nicola Zingaretti, che politicamente considero figlio mio. A settembre però Nicola è venuto a dirmi che non se la sentiva. E io l’ho apprezzato, in un Paese in cui tutti vogliono fare tutto e c’è la fila pure per fare il presidente della Repubblica. Ne parlai con Barca, ma anche lui rifiutò. Allora furono indette le primarie. E io dissi che non bastavano Gentiloni e Sassoli: buoni candidati, che però rischiavano di essere travolti dai grillini».

Le primarie vinte da Marino sono state regolari?
«Non regolari; regolarissime. Quando si muove il voto d’opinione, le primarie non possono essere inquinate. Invece le primarie per designare i parlamentari sono state, almeno a Roma, una farsa. Ogni candidato doveva essere sostenuto da 500 iscritti, nessun iscritto poteva sostenere più di un candidato: era tutto chiaramente deciso prima dai capibastone».

Sta dicendo che i parlamentari romani del Pd sono «abusivi»?
«Sto dicendo che le primarie così non hanno senso. Andrebbero riservate a cariche monocratiche: sindaco, presidente di Regione, premier».

Renzi ha commissariato il Pd romano.
«Ha fatto bene; ma non ha ancora impresso al partito la svolta che sta tentando di imprimere al Paese. Non a caso a Roma la segreteria del Pd ha aiutato la costituzione di una nuova corrente spuria, i neo-dem».

Invece cosa dovrebbe fare?
«Azzerare tutte le tessere. Tutti gli iscritti dovrebbero essere ricontattati. E i nuovi dovrebbero essere ricevuti per due ore dal segretario di sezione: il tempo necessario per capire se uno vuole la tessera per un ideale o perché ha preso dei soldi. Bisogna ridare potere alle persone. E toglierlo alle correnti. È sufficiente non riconoscere più alle correnti rappresentanza nei gruppi dirigenti e nelle istituzioni; ne resteranno pochissime».

Renzi ce la farà?
«Non sono renziano, ma appoggio e ammiro la sua battaglia contro tutte le rendite di posizione. Purtroppo nel Paese si è creata una santa alleanza contro di lui, che mi fa rabbia e mi rende estremamente pessimista. Renzi deve restare al governo se ha i mezzi per produrre il cambiamento che ha promesso. Altrimenti ci conviene andare dritti a votare. E io credo che in questo momento sia meglio andare dritti a votare».

Anche a Roma? Il prefetto dovrebbe sciogliere il Comune?
«Il Comune della capitale italiana sciolto per mafia avrebbe un effetto devastante all’estero».

Quindi Marino deve restare al suo posto?
«Fossi in lui, di fronte a uno stillicidio di notizie che finirebbe per condizionare tutto, sarei io stesso a dimettermi e poi ricandidarmi. Marino stravincerebbe e sarebbe, a quel punto, molto più libero».

Non vorrà dire che Marino è un buon sindaco?
«La stampa ne scriveva come di un deficiente, ora ne scrive come di un santo. In realtà, Marino è uomo di grandi capacità. Ma è un uomo solo. Abbiamo un rapporto di affetto e di rispetto, ma mi ha chiesto raramente consigli, tantomeno per la squadra. Che è debole. A Marino servirebbe quel che aveva Rutelli: 2 o 300 persone - imprenditori, intellettuali, sindacalisti, lavoratori - che portino ogni giorno avanti la sua idea di città».

12 dicembre 2014 | 07:38
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_dicembre_12/goffredo-bettini-ora-peggio-che-92-marino-lasci-si-ricandidi-bbc25908-81c7-11e4-bed6-46aba69bf220.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. L’onore di un’altra Italia
Inserito da: Admin - Gennaio 01, 2015, 04:32:25 pm
L’onore di un’altra Italia

Di Aldo Cazzullo

Sono ancora troppi i punti oscuri nel naufragio del Norman Atlantic. Il giallo dei dispersi, la presenza di clandestini a bordo, le cause dell’incendio, forse collegate alle lacune nel sistema di sicurezza del traghetto. Due soli fatti sono sicuri. Ci sono almeno dieci morti: stiamo parlando di una tragedia. Cui però l’Italia ha saputo reagire.

È difficile dare torto all’ammiraglio De Giorgi, quando parla di «impresa storica». Salvare 427 persone da una nave in fiamme, con venti a cento chilometri l’ora e onde alte cinque metri, non richiede soltanto una buona organizzazione e un coordinamento efficiente; richiede un’abnegazione di fronte alla quale noi che commentiamo sui giornali o sui social network dovremmo esprimere soltanto gratitudine.

Gli elicotteristi che hanno messo in pericolo le proprie vite per salvare quelle degli altri, i marinai della San Giorgio che si sono fatti carico di responsabilità altrui, il ruolo della guardia costiera e dell’aeronautica: c’è un’Italia che in giorni considerati di tregua ha saputo rischiare in proprio.

Questo è il punto: in un Paese efficiente, in cui ognuno fa fronte ai propri compiti, i rischi dovrebbero essere limitati alle situazioni imponderabili. Nelle situazioni imponderabili non rientra l a storia del Norman Atlantic. Le inchieste della magistratura dovranno fare il loro corso; fin da ora però è possibile avanzare il dubbio che quel traghetto non avrebbe dovuto imbarcare passeggeri - oltretutto in circostanze confuse -, né tantomeno Tir con clandestini a bordo, e lasciare il porto.

Il comandante della nave, Argilio Giacomazzi, è indagato; com’è naturale in un caso di naufragio. Ma già il fatto che abbia lasciato l’imbarcazione per ultimo - circostanza che dovrebbe essere normale - evoca inevitabilmente il disastro della Concordia, che è costato vite e ha molto nuociuto alla reputazione del nostro Paese, ulteriormente peggiorata dalla scena di Schettino in cattedra nella prima università della capitale.

Non è davvero il caso di trarre metafore affrettate da una vicenda ancora da chiarire, che pure avviene proprio nei giorni in cui si tende a fare bilanci. Come ogni volta, le tragedie in mare sollecitano il meglio e il peggio della natura umana. Così abbiamo ascoltato le testimonianze sugli uomini che picchiavano le donne per farsi trarre in salvo al loro posto; ma abbiamo anche letto sul Corriere della Sera l’intervista ad Antonio Laneve, il pilota del 36° stormo dell’aeronautica che ha salvato trenta passeggeri, tra cui tre bambini, pensando che avrebbero potuto essere i suoi figli. L’Italia si conferma ancora una volta il Paese in cui c’è sempre qualcuno che deve farsi carico degli errori e delle approssimazioni di altri.

Ora occorre andare sino in fondo, chiarire e punire le responsabilità, prevenire nuovi drammi applicando con serietà le regole. Intanto, in queste ultime notti di un anno difficile, in cui ci è accaduto spesso di vergognarci di essere italiani, diciamo grazie a uomini di cui possiamo andare orgogliosi.

30 dicembre 2014 | 08:08
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_dicembre_30/naugrafio-norman-onore-un-altra-italia-fed284a8-8fea-11e4-a207-f362e6729675.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. La strage di Charlie Hebdo Le mille matite della libertà
Inserito da: Admin - Gennaio 10, 2015, 03:53:55 pm
La strage di Charlie Hebdo
Le mille matite della libertà

Di Aldo Cazzullo

I giornali latini ripubblicano le vignette di Charlie Hebdo. I giornali anglosassoni tendono a nasconderle, talvolta a condannarle. Non sono soltanto diverse scelte editoriali; corrispondono a una diversa lettura della tragedia di Parigi, e del passaggio storico che stiamo vivendo. Atto di guerra o terrorismo? Scontro tra culture o attacchi di una minoranza nemica della sua stessa comunità?

Alcune di quelle vignette sono efficaci. Altre non fanno ridere. Altre ancora appaiono inopportune. Si possono criticare. Ma sarebbe un errore grave dividersi oggi sulla libertà d’espressione, che va difesa sempre, anche quando diventa libertà di dissacrazione. Il contrasto tra il riso e l’integralismo religioso è antico di secoli. Umberto Eco ne ha tratto un best seller mondiale, sostenendo che l’uomo è l’unico animale che ride, ed è l’unico animale che sa che deve morire; se il riso è l’antidoto alla paura della morte, è logico che il nichilismo islamista ne abbia orrore. Ogni terrorista ha trovato giustificazioni e alibi, pure nel recente passato italiano. Questa volta non ne dovrà trovare. Non ci sono provocatori e provocati; ci sono vittime e carnefici.

Dissacrare però non basta. È anche il momento di costruire: valori, regole, convivenza basata sul rispetto reciproco e sulla legalità. Negare che sia in corso una guerra, che l’altra sponda del nostro mare sia il campo di battaglia e l’Europa la retrovia in cui l’esercito islamico tenta di reclutare o infiltrare i suoi combattenti, sarebbe negare la realtà. Ma il confronto con l’Islam non può essere ridotto alla guerra. È un tema cruciale della modernità, del nostro tempo segnato dalle migrazioni e dal mondo globale. I l confronto con l’Islam è un tema che attraverserà le nostre vite. Chiama in causa non soltanto le capacità militari e di intelligence dell’Europa; ne sollecita l’identità culturale, la coesione sociale. Contrapporre violenza a violenza, uniformare tutti i musulmani in un’unica condanna farebbe il gioco degli assassini di Parigi; che sperano di suscitare l’intolleranza proprio nella terra di Voltaire, che contano di seminare l’odio tra popoli che la storia ha condannato a combattersi, come nell’Algeria degli Anni Cinquanta, ma anche a convivere, attorno a un unico mare e talora nella stessa terra.

La Francia è il Paese più esposto, non solo perché ha avuto un impero coloniale; è il Paese del velo vietato per legge, della Repubblica laica in piena crisi identitaria. Ma anche l’Inghilterra multiculturale ha generato terroristi e tagliagole. L’Italia il suo Islam lo sta importando, ed è cruciale costruire argini più efficaci all’immigrazione senza controllo. Possiamo essere orgogliosi delle vite salvate in mare, e nello stesso tempo agire contro gli scafisti e impedire atti di aperta ostilità, come le imbarcazioni lanciate con il pilota automatico contro le nostre coste. È importante tenere alta la guardia, rafforzare la prevenzione e la sicurezza. Ma non è meno importante costruire - con la scuola, con la politica, anche con la discussione pubblica che passa attraverso i media - un sistema di princìpi condivisi da trasmettere ai nostri figli e ai nuovi italiani.

A maggior ragione ora che il disagio legato alla distruzione del lavoro tradizionale rende più difficile accogliere profughi e immigrati, il confronto con l’Islam va affrontato sapendo chi siamo e in cosa crediamo. La risposta migliore all’offensiva fondamentalista è consolidare la nostra democrazia, riaffermare i nostri valori. Tra questi, oltre alla laicità dello Stato e al rispetto della donna, c’è anche il diritto a criticare e, se si vuole, a ridere del fanatico il quale «vi diceva che la verità ha il sapore della morte; e voi non credevate alla sua parola, ma alla sua tetraggine».

9 gennaio 2015 | 07:48
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_gennaio_09/mille-matite-liberta-charlie-hebdo-1f071da6-97ca-11e4-bb9d-b2ffcea2bbd2.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO L’Europa tenga la guardia alta Ma chiudersi adesso è un errore.
Inserito da: Admin - Gennaio 12, 2015, 10:01:20 pm
Il commento
L’Europa tenga la guardia alta
Ma chiudersi adesso è un errore
Forse per la prima volta nella storia, ieri a Parigi si è vista in campo l’Europa

Di Aldo Cazzullo

Forse per la prima volta nella storia, ieri a Parigi si è vista in campo l’Europa. L’Unione disunita, pavida, insicura sin quasi al disprezzo di se stessa, almeno nel lutto si è ritrovata. L’immagine dei leader sottobraccio - Hollande accanto alla Merkel, Rajoy a Cameron -, o che si abbracciano come parenti che partecipano dello stesso dolore, è speculare all’onda di commozione e solidarietà che ha attraversato il continente: élite e popolo per una volta dalla stessa parte. Questa è l’Europa migliore: quella che porta nella prima fila di una manifestazione Netanyahu e Abu Mazen, quella che accoglie il premier ucraino Yatseniuk. Non era mai accaduto prima; e non è un caso.

Gli attentati islamici di Madrid (11 marzo 2004, 191 morti) e di Londra (7 luglio 2005, 52 vittime più i 4 terroristi) furono molto più sanguinosi delle giornate di Parigi, ma non suscitarono una mobilitazione altrettanto vasta. Londra reagì senza emotività, come una città abituata alle bombe: «Business as usual», si lavora come sempre. A Madrid, come a Parigi, ci fu una marcia con due milioni di persone, cui parteciparono personalità straniere: l’allora premier francese Raffarin, Berlusconi che era presidente del Consiglio, Prodi che guidava la Commissione europea (Prodi c’era anche ieri, con Renzi e la Mogherini). Ma non soltanto il cancelliere tedesco Schröder restò a casa; la Spagna stessa si divise, la destra tentò sino all’ultimo di incolpare i baschi dell’Eta, la sinistra vinse elezioni che avrebbe perduto e che non era preparata a vincere. Ieri si è vista una Francia compatta, sia pure con Marine Le Pen ai margini. Potrebbe rivelarsi il giorno della svolta per la presidenza Hollande, sino a qualche giorno fa il leader più impopolare al mondo, e del vero ritorno in campo di Sarkozy. Ma è più importante notare che almeno per un giorno l’Europa ha ritrovato una sintonia di spirito; e chiedersi perché questo sia accaduto proprio adesso, e proprio a Parigi. Nelle altre occasioni gli assassini islamici avevano colpito nel mucchio: in una stazione, nella metropolitana. Questa volta l’attacco è stato mirato alla libertà d’espressione. E l’Europa ha reagito all’aggressione contro uno dei suoi valori fondativi. Non era scontato che accadesse. Perché nessun valore è conquistato per sempre.

Sarebbe illusorio pensare che, siccome quattro secoli fa abbiamo avuto Locke e tre secoli fa Voltaire, la laicità dello Stato e la tolleranza per le religioni e le opinioni altrui siano acquisite; esse vanno fatte vivere ogni giorno, trasmesse ai nostri figli, insegnate ai nuovi europei. Certo, non c’è motivo di rallegrarsi; e non solo perché è stata una giornata di lutto. I propri valori l’Europa li ha contraddetti troppe volte, per imperizia o per egoismo. Umiliata in Bosnia, precipitosa nella Libia abbandonata a se stessa dopo la caduta di Gheddafi, assente nella Nigeria flagellata ancora ieri da Boko Haram, ferma ai margini nel Medio Oriente in guerra, l’Europa è chiamata a due sfide decisive già nei prossimi giorni. Ieri i ministri degli Interni si sono scontrati sull’opportunità di rivedere gli accordi di Schengen sulla libera circolazione; forse non a tutti è chiaro che la priorità non è reintrodurre le frontiere interne, ma difendere quelle esterne, soccorrendo i profughi siriani e libici sul posto, fermando gli scafisti, chiudendo le rotte dei moderni mercanti di uomini. E il 25 gennaio il voto della Grecia, che non può essere coartata nella sua libertà, metterà alla prova le capacità di visione di Bruxelles e Berlino, chiamate ad allentare il rigore che soffoca il Sud dell’Unione senza suscitare una nuova tempesta finanziaria. I fatti diranno presto se l’Europa è davvero nata a Parigi, o se avrà il destino che il poeta Aragon attribuiva alla Gauche francese: «Sempre divisa, si riunisce solo dietro a una bara».

12 gennaio 2015 | 08:43
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Titolo: ALDO CAZZULLO. Quirinale, le manovre Una scelta senza veti e interessi
Inserito da: Admin - Gennaio 31, 2015, 04:47:36 pm
Quirinale, le manovre
Una scelta senza veti e interessi

Di Aldo Cazzullo

La scenografia dell’incontro di Firenze tra la Merkel e Renzi - cena a Palazzo Vecchio, visita notturna alla Venere di Botticelli, conferenza stampa congiunta ai piedi del David di Michelangelo - è parsa andare oltre la routine dei vertici bilaterali, e anche oltre la costruzione di un rapporto personale. È sembrato che Renzi, inconsapevolmente o scientemente, volesse comunicare un messaggio: il premier tiene in prima persona e se possibile nella sua città i contatti con l’estero, a cominciare da quelli con il Cancelliere della prima potenza europea; non ha bisogno di avere al fianco o sopra di sé una personalità di rilievo internazionale. Del resto, Renzi ha tratteggiato in modo esplicito la figura di presidente della Repubblica a cui pensa: un arbitro, certo saggio, ma con un ruolo limitato dalla nuova legge elettorale, che grazie al ballottaggio designa un vincitore e circoscrive i poteri del Quirinale al perimetro della rappresentanza.

Ora, nessuno augura all’erede di Napolitano di affrontare le crisi istituzionali toccate in sorte al predecessore. Ma la fase storica che stiamo attraversando - con un’instabilità finanziaria latente che può essere innescata già dal voto di oggi in Grecia, una battaglia interna per il taglio del debito e una europea per gli investimenti pubblici ancora tutte da vincere, una ripresa economica ancora tutta da costruire - suggerisce l’esigenza di scegliere un presidente conosciuto e autorevole dentro e fuori i confini. C erto, figure di questo profilo non si trovano a ogni angolo. Inevitabilmente si finisce per cercarle in una cerchia spesso logora e impopolare, contro la quale Renzi ha costruito la propria politica e la propria ascesa. Attento com’è al consenso, il premier appare preoccupato dall’idea di legare il proprio nome a una scelta invisa all’opinione pubblica; e lo si può capire. Eppure, come conferma il sondaggio del Corriere , la maggioranza dei cittadini vorrebbe un capo dello Stato che avesse esperienza politica e statura internazionale. Renzi dovrebbe considerare che il presidente risponde al Paese e non a lui; e che una figura di alto profilo potrebbe servire anche a lui, oltre che al Paese, nel difficile tempo a venire.

Per questo non sarebbe male se nei prossimi giorni si avviasse un confronto aperto e trasparente sull’identikit e pure sul nome del successore di Napolitano, al di là del rituale scaramantico per cui indicare un candidato equivale a eliminarlo. Qualche cena semisegreta a Trastevere in meno, qualche discussione pubblica in più. Un’elezione di secondo grado a scrutinio segreto è esposta per natura all’inquinamento dei veti, delle rivalità, degli interessi di parte. Due anni fa andò così. La richiesta che stavolta sale dai cittadini è trovare in tempi brevi una soluzione all’altezza delle incognite e delle opportunità che abbiamo di fronte.

25 gennaio 2015 | 09:32
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_gennaio_25/quirinale-editoriale-scelta-senza-veti-interessi-6d6005da-a45e-11e4-9025-a3f9ec48a2fa.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Quirinale, per l’ex Cavaliere il sapore di un affronto
Inserito da: Admin - Febbraio 06, 2015, 05:55:57 pm
L’AVVERSIONE PER LA SINISTRA DC

Quirinale, per l’ex Cavaliere il sapore di un affronto
La scelta dem di Sergio Mattarella per il Colle e le tensioni con Matteo Renzi

Di Aldo Cazzullo

Più che un patto, si è rivelato una beffa. Il nome che il suo alleato ed erede putativo Renzi ha tirato fuori è il simbolo di quel che Berlusconi detesta di più. Da sempre l’ex premier considera gli uomini della sinistra Dc i suoi atavici nemici: quello che per loro è rigore, per lui è grigiore; quello che per loro è moralità, per lui è moralismo. Loro si chiamano cattolici democratici, lui li chiama cattocomunisti. Così Berlusconi si è sentito tradito da un governo di cui si considerava il socio di minoranza. M entre tra gli ex comunisti Berlusconi ha spesso scelto uomini con cui dialogare - D’Alema innanzitutto, ma per qualche tempo anche Veltroni -, i cattolici di sinistra sono da sempre in conflitto con i suoi referenti politici, fin da prima della discesa in campo: dorotei e socialisti. E loro non hanno mai nascosto di provare nei suoi confronti una distanza antropologica prima che politica.

Sergio Mattarella non è soltanto il ministro che si dimette perché Andreotti ha posto la fiducia sulla legge Mammì, che salvaguarda il monopolio di Arcore sulle tv private; è il dirigente del Partito popolare europeo che definisce «un incubo irrazionale» l’ingresso di Forza Italia nel Ppe, appoggiato dallo stesso Kohl.

La sobrietà del personaggio agli occhi di Berlusconi diventa noia; la sua passione per la giustizia, giustizialismo. Quel che per l’uno è una virtù, per l’altro è un vizio. Per questo, e non soltanto perché ieri mattina l’ha trattato male al telefono, Berlusconi è davvero risentito con Renzi. Che ha tenuto insieme il Pd e individuato una figura moralmente inattaccabile che difficilmente gli farà ombra, almeno dal punto di vista mediatico. Ma ha capovolto lo schema con cui aveva governato per un anno, in sostanziale accordo con Forza Italia.

Enrico Letta, ieri insolitamente loquace, si augurava che l’ex Cavaliere ci ripensasse, e finisse per sostenere o almeno non ostacolare Mattarella: «La legge Mammì è storia di venticinque anni fa. Anch’io vengo dalla sinistra Dc; eppure Berlusconi ha votato il mio governo. Fare politica significa cambiare. Dicono che Mattarella alla Corte costituzionale si è sempre opposto alle istanze di Berlusconi? E come fanno a dirlo? I giudici costituzionali si esprimono in segreto». Un ripensamento in effetti è sempre possibile, sollecitato da Confalonieri e Gianni Letta, oltre che dai centristi affezionati ai loro posti di governo e preoccupati da una rottura con Renzi. Ma Berlusconi dovrebbe davvero far violenza a se stesso.

Non è affatto detto che, se salirà al Colle, Mattarella si rivelerà un presidente apertamente ostile all’ex premier, come Scalfaro (che non veniva dalla sinistra Dc).

Il processo che preoccupa di più Berlusconi è quello sulla compravendita dei senatori, dove non ci sono «olgettine» che negano, ma un parlamentare, Sergio De Gregorio, che sostiene di aver ricevuto denaro in cambio del passaggio da sinistra a destra, dalla risicata maggioranza di Prodi (lui sì ex dc di sinistra) all’opposizione. In caso di condanna, un gesto di clemenza proveniente dalla parte lesa sarebbe più praticabile e utile per Berlusconi di un impossibile salvacondotto generale.
Si apre uno scenario lungo sette anni, in cui gli umori e le attitudini del Quirinale, di Palazzo Grazioli e di Palazzo Chigi possono incrociarsi ed evolvere in modi oggi imprevedibili. Resta il fatto che oggi Berlusconi si è sentito tradito dall’uomo che percepiva come il proprio autentico erede politico. È probabile che i due facciano pace. Renzi se lo augura, anche perché - a differenza di Scalfaro, di Prodi, di Fini e di altri - non ha ancora sperimentato cosa significa avere contro la macchina editoriale berlusconiana.

30 gennaio 2015 | 07:58
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Da - http://www.corriere.it/politica/speciali/2015/elezioni-presidente-repubblica/notizie/quirinale-mattarella-berlusconi-sapore-un-affronto-a06a8436-a84c-11e4-9642-12dc4405020e.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. La fabbrica, la Nutella, i successi
Inserito da: Admin - Febbraio 20, 2015, 04:49:44 pm
1925-2015
La fabbrica, la Nutella, i successi
Morto Michele Ferrero, il magnate che parlava in dialetto
Faceva notte ad assaggiare cioccolato e a provare decine di possibili varianti

Di Aldo Cazzullo

Ha costruito la più grande multinazionale dolciaria al mondo dopo la Nestlé parlando piemontese, è diventato l’uomo più ricco d’Italia senza mai dare un’intervista a un giornale. Sue fotografie quasi non esistono: per una vita i quotidiani hanno continuato a pubblicare una sua immagine giovanile, quando lui ormai aveva settant’anni.

Diffidava dei manager, che cambiava spesso. Ossessionato dal prodotto, sceglieva di persona i dipendenti delle uniche categorie che lo interessavano: chimici e venditori. Non guardava neppure il curriculum. Nascosto dietro un vetro opaco, gli bastava uno sguardo per dare un giudizio, ovviamente in dialetto. Per indicare una persona di buon comando ma poco creativa, diceva: «Chiel lì è mac bun a fé le comisiun», quello è capace solo di fare le commissioni, di eseguire il compito che gli è stato affidato. Quando trovava una persona estrosa ma non del tutto affidabile, lo definiva «’n artista»; «chiel lì bat i querc», quello lì batte i coperchi, indicava invece che la sregolatezza prevaleva sul genio.

Ragioniere, rifiutava le lauree honoris causa, rispondendo che «basta il buon senso». In privato era anche più severo: «Mi raccomando, pochi laureati»; «pì a studiu, pì ven stupid», più studiano più diventano stupidi. Leggendaria la sua capacità di lavoro: il giorno preferito per le riunioni è sempre stato la domenica. Un’altra frase ricorrente era «vag ’n chimica», vado nei laboratori, dove faceva notte in camice bianco con i collaboratori più stretti ad assaggiare cioccolato e a provare decine di varianti. Seguiva di persona ogni cambiamento nella formula della Nutella, più riservata del Sacro Graal, e la ricerca dei nuovi prodotti, dai Rocher al Grand Soleil. «Ricordatevi: ca piasa a madama Valeria», che piaccia alla signora Valeria, simbolo della casalinga media. Alla fine affidava ai suoi uomini un pacchettino con le diverse varianti: «Ca lu fasa tasté a sua fumna», lo faccia assaggiare a sua moglie; il verdetto della signora sarebbe stato decisivo.

Lui aveva sposato la sua segretaria, Maria Franca. Da quando era stato colpito da un male agli occhi, che negli ultimi anni l’aveva reso quasi cieco, appariva in pubblico sempre sottobraccio alla moglie. Molto amato dai dipendenti e in genere dagli albesi, amava distribuire le gratifiche di persona, talora infilate nel taschino. Di politica non parlava mai. Una volta lo sentirono dire: «Sono socialista, ma il mio socialismo lo faccio io». Costruì un welfare aziendale che si occupava di tutto, dalla sanità al dopolavoro: l’inno delle gite aziendali dei pensionati - «nui suma ansian, ansian d’la Ferero» -, da cantare sulla musica di «Marina», a un certo punto dice: «Dima grasie a monsu Michele», ringraziamo il signor Michele. Quello che per i sindacati era paternalismo, per lui era il modo di evitare i conflitti. Se le fabbriche delle grandi città assumevano agricoltori cattolici e ne facevano operai comunisti, lui mandava a prendere i contadini dell’Alta Langa con i pullman che li portavano in fabbrica e li riportavano al podere la sera; il lavoro nei campi d’estate e nella fabbrica di cioccolato d’inverno ha evitato lo spopolamento delle colline, e ha reso ricca la terra della Malora fenogliana. Spaventato dal fisco e dai sequestri di persona, portò la famiglia prima a Bruxelles, dove fu processato e alla fine assolto per esportazione di capitali, poi a Montecarlo. Negli ultimi tempi si divideva tra la casa di Cap Ferrat, in Costa Azzurra, e quella di Altavilla, la collina che sovrasta Alba.

I fondatori dell’azienda erano Pietro, suo padre, che si occupava della pasticceria, e Giovanni, suo zio, che seguiva i mercati. Lui ha chiamato i figli Pietro, affidandogli la produzione, e Giovanni, affidandogli le vendite. Li amava teneramente, al punto da battezzare la barca di famiglia «Papos», come il nomignolo con cui lo chiamavano da bambini; ma li sottoponeva a prove iniziatiche. La domenica portava il primogenito Pietro nella fabbrica in riva al Tanaro, gli faceva chiudere gli occhi, e spariva: il piccolo doveva ritrovare l’uscita da solo, fidando sul senso di orientamento e sull’olfatto (il quartiere e talora l’intera città, a seconda del vento, profuma di cioccolato). Quando nel ’94 il Tanaro allagò la fabbrica, tutta la famiglia mise gli stivaloni e cominciò a spalare, sotto lo sguardo di Berlusconi atterrato in elicottero. Del Cavaliere fu generoso inserzionista e amico; lo seguì nella battaglia per la Sme; non nella discesa in campo. Evitò sempre la Borsa come la peste. Investì in Mediobanca. Religiosissimo, in ognuno dei venti stabilimenti sparsi nel mondo ha fatto mettere all’ingresso una colonna con la Madonna di Lourdes, dove organizzava pellegrinaggi.

L’ultima volta che l’hanno visto in pubblico è stato nella Cattedrale di Alba, per il funerale di Pietro, morto d’infarto in Sudafrica nell’aprile 2011 mentre andava in bicicletta. Ai vecchi collaboratori continuava a ripetere: «Che disgrassia», che disgrazia. Nelle cerimonie il suo discorso consisteva in due parole: «Tanti auguri». Ma nel Natale 2013 sorprese tutti e raccontò a braccio la storia dei suoi esordi: «La prima volta che entrai in una panetteria-pasticceria per vendere la crema alle nocciole che faceva mio padre, il negoziante mi chiese brusco: “Cosa vuole?”. Non ebbi il coraggio di offrirgli il prodotto. Comprai due biove di pane e uscii. Andò così in altri due negozi. Nel quarto lasciai la merce in conto vendita. Tornai il giorno dopo: l’avevano venduta tutta». Poi chiuse con una sorta di testamento: «Possiamo essere orgogliosi della nostra storia. Abbiamo un debito con questa terra. La fabbrica resterà qui».

15 febbraio 2015 | 08:33
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_febbraio_15/fabbrica-nutella-successi-morto-michele-ferrero-magnate-che-parlava-dialetto-7736dfd0-b4e3-11e4-b826-6676214d98fd.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Il turpiloquio come arma politica
Inserito da: Admin - Marzo 03, 2015, 05:15:14 pm
Gli obiettivi, le parole
Il turpiloquio come arma politica

Di Aldo Cazzullo

Pare un imitatore di Grillo: per il turpiloquio, ancora più fastidioso, e i continui vaffa; per il collaudato schema «noi» contro «loro», basso contro alto, piccoli contro grandi, artigiani contro banchieri; per la commistione destra-sinistra, CasaPound-don Milani. E per lo splendido isolamento, «non abbiamo bisogno di alleati, i nostri alleati sono sessanta milioni di italiani»; ma allora come conta Salvini di vincere le elezioni e realizzare il Paese meraviglioso in cui tutti pagano il 15% di tasse e sono gli svizzeri a portare i soldi?

Il turpiloquio è ancora più fastidioso proprio perché Salvini non è Grillo, cioè un comico. Il suo tono, anche quando vorrebbe essere ironico, è greve, bieco, vagamente minaccioso. Il linguaggio è a volte tecnicamente neofascista, come quando parla di «zecche» e «infami», a volte tecnicamente neogrillino: «Questo sfortunato Paese...», «ci stanno rubando il futuro...». Sugli immigrati i due leader la pensano quasi allo stesso modo, di suo il leghista aggiunge una facile invettiva contro i rom, invitati sotto la minaccia delle ruspe ad «andare a fare i rom da un’altra parte», suscitando il frenetico entusiasmo delle camicie nere romane nella piazza che fu di Giorgio Almirante (il quale per i rom aveva simpatia: Zingari si intitolava un film romantico diretto dal padre Mario Almirante, protagonista la cugina Italia Almirante).

Il mondo di Salvini è diviso nelle due parti già individuate da Grillo a San Giovanni. Di là, l’Europa e il suo servo sciocco Renzi, le grandi banche, Il Sole 24 Ore , Marchionne, i grandi giornali, la Rai, Equitalia, i falsi invalidi, la grande finanza, l’Agenzia delle Entrate, «quelli che hanno la villa a Cortina, mandano i figli alla scuola privata, hanno il portafoglio pieno a sinistra», e «quelli che hanno letto un sacco di libri ma non li hanno capiti»; di qua, «quelli che lavorano sedici ore al giorno», «quelli che si alzano alle quattro del mattino», «quelli che tirano su la saracinesca all’alba e la tirano giù la sera» - categorie che esistono ma a cui non appartiene Salvini -, «i derubati dallo Stato», i veri invalidi, le banche popolari «che Renzi si vuole fottere», quelli che sparano ai rapinatori «perché se entri in casa mia in piedi devi sapere che puoi uscirne steso», e «noi che di libri ne abbiamo letti solo due, ma li abbiamo capiti». Le categorie amiche avranno protezione sociale; agli altri, «calci in culo», «un mazzo così» e analoghi simpatici destini.

La confusione ideologica è massima. «Chi non salta è comunista», «i professori di sinistra hanno insegnato tutto dei fenici e nulla delle foibe»; però al pantheon leghista sono annessi don Milani, Mauro Corona, Marco Paolini (Salvini chiama Mauro pure lui) e Oriana Fallaci, «non solo la Fallaci de La rabbia e l’orgoglio ma pure quella del libro più bello che abbia mai letto, Un uomo , sulla storia di Alekos Panagulis»; poco importa che Panagulis fosse un oppositore di sinistra (sia pure non comunista) ai colonnelli greci graditi a CasaPound, e che la Fallaci definisse Bossi «il becero con la camicia verde e la cravatta verde che non sa nemmeno quali siano i colori della bandiera italiana». Salvini invece ha il polsino tricolore e indossa una felpa per chiedere la liberazione dei marò, ma si rifiuta di dire «Italia», meglio «le Italie»: veneti e sardi, lombardi e salentini devono avere «libera determinazione», insomma possono andarsene in qualsiasi momento, non si sa bene dove. Invece del «Va’ pensiero», musica da kolossal hollywoodiano; il posto d’onore a fianco del capo non è per Bossi, salito sul palco verso la fine a fare pateticamente le corna a Maroni nelle foto, ma per Buonanno, ex missino come Borghezio.

Intendiamoci: in piazza del Popolo sono rappresentate paure e inquietudini autentiche. E in qualche passaggio è difficile dissentire da Salvini, ad esempio quando ricorda che la natalità è crollata alla quota del 1861, e «un popolo che non fa figli muore». Ma subito il livello di demagogia risale oltre il sopportabile, quando sono messi in mezzo prima i fanti della Grande Guerra caduti per proteggere i confini oggi indifesi, poi il Papa: «Cosa gliene frega al Vaticano se le prostitute esercitano per strada o in casa?». Chiusa in linea con il nuovo corso nazionale e antieuropeo: «grazie Roma», «smonteremo Bruxelles».

Di strategia politica si è parlato poco; e non solo perché la priorità era scaldare la piazza. A Salvini interessa presidiare la destra, non tessere alleanze; far saltare il sistema, non governarlo. Ieri ha confermato che la Lega è in salute; ma non ha dissipato l’impressione che, se l’opposizione è questa, l’odiato Renzi resterà «sulla sua comoda poltrona» ancora a lungo.

1 marzo 2015 | 09:54
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_marzo_01/salvini-turpiloquio-arma-politica-imita-grillo-f4845532-bfef-11e4-9f09-63afc7c38977.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Galassia Cinquestelle Un timido segnale di disgelo
Inserito da: Admin - Marzo 05, 2015, 03:57:05 pm
Galassia Cinquestelle
Un timido segnale di disgelo

Di Aldo Cazzullo

La svolta di Grillo, se sarà confermata dai fatti, rappresenta una novità importante per la vita pubblica italiana. Perché la scoperta che la politica non è solo distruzione dell’antico regime e ricerca del consenso, ma anche dialogo, lavoro parlamentare, compromessi, accordi, può giovare non solo ai 5 Stelle, ma soprattutto al Paese.

In questi anni Grillo è riuscito in un’impresa mai vista in una democrazia: costruire, con la complicità di partiti e leader screditati, un movimento antisistema in grado di raccogliere un quarto dei voti. Ha usato un linguaggio inaccettabile, ma ha intercettato l’indignazione e le speranze di ceti, categorie, generazioni non rassegnate a una corruzione e a un degrado morale che sembrano non toccare mai il fondo. Finora però Grillo ha sprecato questo grande capitale politico, questo investimento emotivo che una larga parte dell’elettorato aveva fatto su di lui e che non può essere ridotto a un lessico pur condannabile (e subito imitato da Salvini, senza il gusto del paradosso e la levità sarcastica dell’originale).

Grillo si era illuso, procedendo sulla linea del dileggio universale, dell’espulsione dei dissidenti, del rifiuto di qualsiasi confronto e collaborazione con altre forze, di accrescere ancora il proprio consenso. La battuta d’arresto alle Europee, l’emorragia di parlamentari, la prova di irrilevanza offerta nell’elezione del nuovo capo dello Stato devono averlo convinto a cambiare rotta. Intendiamoci: è presto per trarre conclusioni definitive. Grillo è capace di ricambiare idea domani mattina, o forse l’ha già fatto; ieri sera era ricominciato il solito battibecco con il Pd. Ma sarebbe sbagliato sottovalutare il suo nuovo atteggiamento verso il Quirinale e la sua intervista di ieri al nostro Emanuele Buzzi, con passaggi inconsueti tipo «può essere che forse abbia sbagliato io». Grillo ha un bel dire che queste cose le ha sempre ripetute; finora non vi aveva mai dato seguito. Stavolta molto dipenderà dalla risposta del Partito democratico, che sbaglierebbe a fare cadere l’apertura dei 5 Stelle.

Non si tratta di costruire l’ennesima maggioranza variabile, ma di allargare il consenso su provvedimenti e questioni che riguardano tutti, come la riforma della tv pubblica e la lotta alla povertà. Sottrarre la Rai al controllo della politica, obiettivo mille volte annunciato e mai davvero perseguito, corrisponde alle aspettative dei cittadini che pagano il canone. E il reddito di cittadinanza, concepito non come sussidio assistenziale ai rassegnati che non studiano e non lavorano, ma come sostegno a coloro che sono colpiti dal cambiamento ineludibile del sistema economico, potrebbe rispondere a un’esigenza complementare al nuovo mercato del lavoro. Anche se difficilmente compatibile con i problemi di bilancio.

Grillo e Renzi non si amano. Ma sono due frutti diversi di una stessa radice: la rivolta contro l’establishment dei vecchi partiti, l’esigenza di una politica nuova, al prezzo di una certa ruvidezza di parole e di metodi. Non potranno certo governare insieme. È prematuro credere che possano davvero trovare accordi su temi concreti. Ma farebbero bene a provarci «con onestà intellettuale», come chiede Grillo. Se i rappresentanti di un elettorato che i sondaggi valutano ancora attorno al 20% cominciano a giocare, allora il gioco si fa un po’ meno duro, ma molto più interessante.

5 marzo 2015 | 08:24
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_marzo_05/m5s-timido-segnale-disgelo-43c52ace-c2ff-11e4-9a3c-d1424c2aada1.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. La Lega non vuole più abbattere Roma ora il suo nemico è l’Europa
Inserito da: Admin - Marzo 07, 2015, 04:27:54 pm
SABATO La manifestazione leghista
Le paure che sfilano nella capitale


Di Aldo Cazzullo

La Lega che sfila a Roma come la Cgil è una novità non banale. Domani andrà in scena la rappresentazione della svolta di Salvini. Finora la Capitale era l’altrove, il nemico. Ma ora il nemico non è più lo Stato nazionale, divenuto semmai un rifugio; è l’Europa, la Germania, la moneta unica, la finanza internazionale. La Lega non vuole più abbattere Roma, la vorrebbe amministrare, insieme con la Meloni, scalzando Marino; e intanto la sceglie come fondale del corteo che apre la nuova stagione, con il corollario di artisti indignati e neofascisti scalpitanti.

Lo sbarco di Salvini nel Centro-Sud è molto difficile. La Lega del Mezzogiorno prima o poi nascerà, ma non come sottomarca di un partito - si pensi al fallimento di Miccichè - o come agenzia in franchising della Lega Nord. In attesa di un Bossi romano o napoletano, la nuova strategia del Carroccio, che ieri è arrivato a un passo dalla rottura con Forza Italia, va seguita con attenzione. Troppo facile liquidarla come «deriva lepenista». Il successo di Salvini è tutto dentro un tempo segnato sia dalla rivolta contro l’establishment non solo politico, sia dalla domanda di protezione che arriva dalla provincia impaurita da fenomeni globali - la distruzione del lavoro, l’impoverimento del ceto medio, le ondate migratorie, la guerra sull’altra sponda del Mediterraneo - che l’Europa non tenta neppure di governare. Il Nord che si affaccia a Roma è un territorio uscito sfibrato da due decenni di bassa crescita e da cinque anni di recessione. La Lega non può certo rivendicarne la rappresentanza esclusiva. Ma la sua buona salute è lo specchio capovolto di un disagio sociale che il governo farebbe bene a prendere molto sul serio.

Appena tre anni fa, la Lega padana di Bossi affondava nel discredito di una penosa storia familista sin troppo italiana. Se adesso la Lega nazionalista di Salvini supera Berlusconi nei sondaggi e conquista città che finora le avevano tenacemente resistito, come Padova, questo non si deve solo alla dialettica dell’«altro Matteo» - che anzi a volte lo porta a straparlare, ad esempio su Lampedusa - o all’attivismo di un Tosi alla disperata ricerca di un ruolo oltre le mura di Verona. La Lega tiene la scena perché la «questione settentrionale» è lì, intatta, e se possibile aggravata.

La richiesta che sale dalle regioni più dinamiche del Paese - uno Stato più leggero, una Pubblica amministrazione più efficiente, un Fisco più equo - è rimasta inascoltata. Lo Stato continua a considerare i produttori, anziché benemeriti da proteggere, pecore da tosare; ognuno di loro ha l’impressione di procedere trascinando il peso di lavori improduttivi, di burocrazie che si autoalimentano, di privilegi castali che le recenti liberalizzazioni non hanno neppure scalfito. La questione non è solo economica, ma culturale. Il Nord si sente sottorappresentato nella vita pubblica, segnata da una sorta di «egemonia mediterranea», da una Tv di Stato la cui lingua ufficiale è il romanesco, da un’industria cinematografica che se mette in scena un piemontese o un veneto ne fa un gretto sfruttatore o un mona. Al di là del folklore - c’è da augurare ai leghisti che nessuno si presenti sotto il Colosseo con elmi cornuti; le telecamere non aspettano altro -, le paure e le rivendicazioni che saranno espresse domani a Roma meritano una risposta più seria delle solite battute.

27 febbraio 2015 | 07:41
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Da - http://www.corriere.it/cultura/15_febbraio_27/paure-che-sfilano-capitale-a74ce542-be49-11e4-abd1-822f1e0f1ed7.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Il leader della Fiom: «Abbiamo più consenso del governo»
Inserito da: Admin - Aprile 04, 2015, 11:32:03 am
L’alternativa difficile

L’opposizione confortevole della piazzetta (rossa) di Landini
Il leader della Fiom: «Abbiamo più consenso del governo»

Di Aldo Cazzullo

Se questo è il popolo di Maurizio Landini, appare un po’ disunito, e non così invincibile. Intendiamoci: a Roma è accaduto un fatto politico di rilievo. La piazza - o meglio la «piazzetta» - rossa di ieri ha tenuto a battesimo un movimento che forse non diventerà un partito in senso tecnico, ma che si presenterà alle prossime elezioni politiche contro il Pd. Però l’opposizione di Landini da una parte e di Salvini dall’altra, per quanto virulenta a parole, nei fatti più che a una tenaglia pronta a stritolare il premier somiglia a due confortevoli guanciali tra cui riposare. La piazza della Fiom non era neppure lontana parente di quella di Cofferati, anzi non era neppure particolarmente tonica. Nessuno si aspettava la replica del Circo Massimo; ma colpisce constatare che il superamento ormai compiuto dell’articolo 18 non abbia provocato a sinistra la mobilitazione vista quando Berlusconi l’aveva solo proposto.

Nel frattempo è accaduto di tutto, la produzione industriale è crollata, il Paese si è impoverito, la vecchia classe dirigente della sinistra è stata messa ai margini. Renzi non è stato accettato da tutti, anzi molti nel Pd continuano a considerarlo un usurpatore che sta portando il partito verso una mutazione genetica; ma dietro le bandiere rosse non c’è per ora un vero movimento sociale di opposizione. Ci sono militanti vecchi e nuovi (l’età media era altina, più che nella piazza di Salvini del mese scorso) cui il nuovo corso non aggrada. Renzi non è certo un democristiano per toni e per modi, ma è un centrista: nel suo schema c’è spazio per una forza alla sua sinistra; se poi anche la destra a trazione leghista si radicalizza, tanto meglio, almeno per lui. In realtà all’Italia servirebbe un’opposizione credibile, che rappresentasse un’alternativa di governo; ma questo non è nelle possibilità e neanche nelle intenzioni di Landini (e forse neppure di Salvini).

Landini ha un progetto diverso: fare leva sul disagio sociale per rifondare la sinistra e restituire alla Fiom e ai movimenti una centralità da giocare su più tavoli; la conquista della Cgil, la competizione con Renzi - e con Marchionne -, l’apertura di una fase di elevata conflittualità. Ma non è di questo che il Paese ha bisogno. E non è questo che il Paese chiede in una fase in cui finalmente si rivede un po’ di sviluppo.

Lo schieramento di Landini può valere percentuali vicine a quelle della Rifondazione comunista di Bertinotti; ma non apre una stagione, non fa cadere un governo, non condiziona il futuro. I primi segnali di ripresa, le aziende anche grandi che tornano ad assumere, il timido riaffacciarsi della fiducia sono segnali che, se confermati, richiudono la «piazzetta rossa» nel perimetro della testimonianza.

29 marzo 2015 | 10:08
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_marzo_29/opposizione-confortevole-piazzetta-rossa-landini-0e4b4dae-d5e9-11e4-b0f7-93d578ddf348.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Se Renzi fallisce, fallisce anche il centrosinistra»
Inserito da: Admin - Aprile 16, 2015, 11:39:20 am
Pisapia: «Milano è la vera capitale.
Se Renzi fallisce, fallisce anche il centrosinistra»
«Stimo molto Letta ma con l’attuale premier c’è un cambio di passo anche se non condivido l’abolizione dell’articolo 18 e i tagli agli enti locali»

Di Aldo Cazzullo

Giuliano Pisapia è a Palazzo Marino, sul tavolo il suo libro «Milano città aperta» che Rizzoli sta per pubblicare, sotto le finestre il brusio della folla del Salone del Mobile.
Sindaco, Milano è piena di cantieri e di stranieri, sta per cominciare l’Expo. Perché non si ricandida? E perché lo dice proprio adesso?
«È una decisione maturata da tempo. Ho sempre parlato di un impegno per cinque anni. E il 20 maggio ne faccio 66. In questo tempo è cresciuta una classe dirigente di giovani che ormai è pronta».
Chi vorrebbe come successore?
«Nomi non ne faccio, ma ne ho in mente diversi: in giunta, nel consiglio comunale, nei consigli di zona, in città. Dovranno essere le primarie a decidere».
Non è che il suo successore sarà Salvini?
«Lo escludo. Con un leghista alla Regione, Berlusconi non può accettare un candidato leghista pure in Comune. Salvini è abile a sfruttare le criticità. Ma la maggioranza dei milanesi condivide i valori di accoglienza che abbiamo praticato in questi anni».
Lei stesso riconosce il disagio sociale che l’immigrazione ha causato nelle periferie. Guardi che pure in centro è difficile fare due passi la sera senza essere fermati da decine di questuanti di ogni tipo.
«Prima era peggio. Certo, con la crisi la povertà è aumentata. Ma molti immigrati si integrano. Guardi il sito di Expo: la maggior parte dei lavoratori sono extracomunitari. Senza di loro l’Expo non si farebbe».
E l’ipotesi Berlusconi sindaco?
«Con il partito a pezzi e le aziende da salvare, escludo che si assuma per cinque anni un impegno gratificante ma durissimo come questo. In ogni caso, ho battuto Berlusconi due volte; potrei sempre farlo una terza».
Perché due volte?
«Nel 2011 era il capolista di Forza Italia. E poi, su un piano diverso, l’ho battuto in tribunale: ero parte civile al processo Mondadori; Previti condannato, lui prescritto ma obbligato al risarcimento».

Le primarie
Lei ha detto che i vertici romani del Pd vogliono distruggere il modello Milano, l’alleanza con Sel. Si riferiva a Renzi?
«È stata estrapolata una frase da un contesto in cui dicevo una cosa molto diversa: quasi tutti gli elettori del Pd vogliono una coalizione di centrosinistra, non l’alleanza con l’Ncd. Capisco che i numeri in Parlamento per ora la impongano. Non so cosa abbia in mente Renzi per il futuro».
Qualche frizione con il premier lei l’ha avuta.
«Gli riconosco coraggio e determinazione. Stimo profondamente Enrico Letta, ma va riconosciuto che Renzi ha avuto un cambio di passo. Mi è anche simpatico. Se fallisce, fallisce il centrosinistra, e rischia di non ripartire il Paese. Però non condivido l’abolizione dell’articolo 18. E considero sbagliati i tagli a oltranza agli enti locali, che con le piccole opere possono creare posti di lavoro».
Nel libro critica pure lo stile del premier, il modo in cui si è rivolto ai sindacati e ai magistrati.
«Siamo profondamente diversi. Frasi come “Ce ne faremo una ragione” o “brr che paura” io non le avrei mai dette. A volte la sua determinazione sconfina nell’irrisione. È un errore cercare divisioni anche quando non è necessario. Se Renzi unisse di più, avrebbe più forza».
Dal suo libro non esce benissimo Stefano Boeri...
«Ha fatto tutto lui. Dopo la vittoria mi chiese di fare il vicesindaco; ma spettava a una donna. Allora voleva fare il prosindaco; ma il prosindaco non esiste. Allora l’assessore all’Urbanistica; ma come poteva un architetto che aveva lavorato con la Moratti e per società che stavano costruendo mezza Milano fare l’assessore all’urbanistica? Così è andato alla Cultura».
E avete rotto.
«Aveva grandi idee ma ne trascurava la realizzazione. C’era un problema di sicurezza per un concerto all’ex Ansaldo, ma lui non se ne occupò; gli altri assessori dovettero stare lì tutta la notte a vigilare con la polizia locale».
Cosa si aspetta dall’Expo?
«Si può davvero arrivare a venti milioni di visitatori. Mi interessano le infrastrutture che rimarranno. E i temi: fame nel mondo, sprechi alimentari, sana alimentazione; alla cascina Triulza ce ne occuperemo con le varie associazioni anche dopo l’Expo. Con Slow Food noi della giunta e altri volontari ospiteremo nelle nostre case oltre mille pescatori e campesinos, altri saranno accolti dalla Curia».
Teme contestazioni?
«Massima apertura a chi non è d’accordo; ma non si possono permettere disordini e violenze» .
Lo sa che fioriscono allarmi terrorismo e anche leggende metropolitane?
«È arrivata pure a me la mail con la storia dell’arabo che perde il portafoglio e come ricompensa avverte la donna che glielo riporta: “Non prenda la linea rossa della metro il primo maggio...”. Non ci ho dormito la notte».
E poi?
«Ho ricostruito la catena: una mia amica mi ha detto di averlo saputo da una persona di cui si fida, la quale a sua volta... Alla fine ho scoperto che veniva da un gruppo di ragazzi che hanno fatto uno scherzo. E che la stessa leggenda è stata diffusa alla vigilia delle Olimpiadi di Londra e di altri grandi eventi. Questo ovviamente non significa che si possa abbassare la guardia. Ma almeno quell’allarme, che in un primo tempo mi sembrava verosimile, è stato chiarito».
Lei scrive che Milano è la vera capitale d’Italia. E Roma?
«Non è una mia opinione: lo dicono tutte le statistiche. Milano è prima per car e byke sharing, per co-working, per start-up. Per i diritti: registro delle unioni civili, testamento biologico, fecondazione eterologa. Per la raccolta differenziata è la prima in Europa. La ripresa parte da qui. Lo ripeto: Milano oggi è la vera capitale d’Italia. E sta tornando a essere la capitale morale» .
E i ladri dell’Expo?
«L’amministrazione non è stata toccata. Gli intercettati parlano di me come di un rompiballe» .
Una capitale in vendita. Gli sceicchi comprano i grattacieli di Porta Nuova. Che effetto le fa?
«Mica li possono portare via. So per certo che molti grandi gruppi attendono di vedere se l’Expo avrà successo per fare investimenti a Milano. Sono già arrivate e arriveranno le sedi di diverse multinazionali. A tutte chiederemo quel che abbiamo chiesto per Porta Nuova: fare anche qualcosa per la città. Prima c’era Ligresti che comandava. Ora è cambiato tutto. Per me gli immobiliaristi non sono nemici; sono interlocutori con cui si può collaborare».
Avrebbe mai detto, anche solo vent’anni fa, che l’Inter sarebbe diventata indonesiana e il Milan forse cinese?
«Mai. Però ho incontrato Thohir tre volte. È davvero innamorato della squadra. Da interista mi fa piacere».
Quindi non tifa per il ritorno di Moratti?
«Moratti è un mio amico. E per Milano Moratti è ancora l’Inter».
Con il cardinale Scola come si è trovato?
«All’inizio mi ha confuso con mio fratello Guido, che era suo compagno nella Gioventù studentesca di don Giussani... Abbiamo lavorato molto bene insieme. L’ultima volta si è rivolto “ai credenti, ai non credenti, e ai credenti che credono di essere non credenti”, guardandomi negli occhi».
Cioè Scola la sta convertendo?
«No. Mi sono formato negli scout, i valori cattolici sono i miei valori. Ma non ho la fede. Sono molto affascinato dal buddismo. L’incontro con il Dalai Lama è stato tra i più belli, accanto a quelli con papa Francesco e con i bambini delle scuole. Vado spesso a mangiare in mensa con loro. Arrivo all’ultimo momento, senza avvisare. Come quando da parlamentare andavo a trovare i detenuti...».
Il ministro Orlando vuole chiudere San Vittore. E lei?
«Io sono contrario. Finché la condizione dei reclusi non migliorerà, finché le carceri saranno piene di presunti innocenti, l’attenzione della città deve restare alta. E poi le visite di parenti, avvocati e magistrati sarebbero più scomode».
Lei scrive che non sapeva neppure come votasse la sua segretaria. Possibile?
«Per le nomine non ho mai guardato all’appartenenza ma alla competenza. Dopo aver letto il libro, mi ha confidato che è più a destra».

15 aprile 2015 | 07:31
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DA - http://milano.corriere.it/notizie/politica/15_aprile_15/pisapia-renzi-intervista-centrosinistra-articolo-18-84f83abe-e32e-11e4-8e3e-4cd376ffaba3.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. La Sindone e l’Italia che vuole ripartire
Inserito da: Admin - Aprile 20, 2015, 05:56:06 pm
Il mistero
La Sindone e l’Italia che vuole ripartire
La verità sulla Sindone non esiste, ma è un simbolo dell’identità locale e nazionale. Anche per l’Italia uscita sfibrata, ma non vinta, dalla crisi

Di Aldo Cazzullo

Un milione di prenotazioni per vedere il lenzuolo che molti storici considerano un falso medievale è un fatto che va oltre la fede. È la conferma di un’Italia che dopo gli anni della decostruzione e della dissacrazione avverte il bisogno di ricostruire, che dopo il tempo del lamento e del disgusto di sé vuole sentirsi comunità e ritrovare le radici. La verità sulla Sindone non esiste. Perché un dubbio e di conseguenza un mistero resisterà sempre. Ma non è questo il dato che conta nell’ostensione di Torino. Negli stessi giorni in cui il mondo guarda all’Expo, e le élites internazionali si portano alla Biennale di Venezia, un popolo si mette in viaggio verso l’altra capitale del Nord, per celebrare un rito religioso ma anche identitario. E la Sindone è senz’altro un elemento dell’identità locale e nazionale. Non a caso fu traslata a Torino quando i Savoia francofoni fecero la scelta dell’Italia.


Le ostensioni servivano al prestigio della dinastia, il lenzuolo appariva sul balcone del Palazzo a celebrare matrimoni e nascite. Poi, nel clima laico di Cavour e del Risorgimento, il fascino della cappella che il Guarini pensò come una metafora della morte e della resurrezione, con i marmi scuri in basso e la luce delle finestre in alto, apparve attenuato: a Torino si faceva e si pensava ad altro. Ma il mistero fu rilanciato quando per la prima volta un uomo, Secondo Pia, fotografò la Sindone: ne apparve un’immagine straordinaria, quasi un negativo fotografico, in cui molti contemporanei lessero il volto di Dio.

L’ostensione del 1978, in una Torino scristianizzata all’apice dell’era industriale e scossa dalla violenza politica, fu un inaspettato e clamoroso successo (avevo dodici anni e ricordo un’interminabile coda sotto il sole, un’Italia popolare di rosari e veli neri, un clima di grande suggestione collettiva). Seguirono la commissione d’inchiesta e le conclusioni negative tratte dal cardinale Ballestrero, che «maneggiava la Sindone come uno strofinaccio da cucina» come annotò indignato Vittorio Messori. Ma poi venne Wojtyla, che non la considerava «un segno» come i predecessori, aveva l’assoluta certezza che quel lino avesse avvolto il corpo di Cristo e quell’immagine fosse il riflesso dell’energia della resurrezione.

Ora - il 21 giugno - verrà Francesco, e con ogni probabilità non farà ipotesi né valutazioni, si ritirerà in preghiera e dialogherà con i fedeli che hanno visto in lui una risposta all’emergenza dei tempi: la crisi economica, il disagio sociale, la sfiducia nel futuro, il difficile confronto con l’Islam. Temi che sono al centro del pontificato di Bergoglio - sociale più che dottrinario - e che torneranno nel Giubileo d’autunno a Roma.

Il modo stesso in cui la Sindone ha attraversato i secoli, sfuggendo a una serie di vicissitudini e di incendi - l’ultimo nella notte di venerdì 11 aprile 1997 - che sono stati letti anche come agguati di forze maligne, restituisce l’idea di un «simbolo identitario», come l’ha definito il sindaco Fassino, la cui lettura va oltre le indagini dei «sindonologi»: una strana scienza che mescola la medicina legale alla botanica alla numismatica ed è servita più a costruire carriere e fragili notorietà che a chiarire un enigma destinato a rimanere tale.

Per l’Italia uscita sfibrata ma non vinta dalla crisi, quel «simbolo identitario» e la grande attenzione che suscita può essere un segnale importante, non contrario ma complementare al significato religioso del pellegrinaggio.

E la Torino che si prepara ad accogliere i visitatori, a tre quarti d’ora di treno dalle folle dell’Expo, è una città profondamente cambiata rispetto a quella della grande ostensione del 1998 (2 milioni e 400 mila arrivi) segnata dalla visita di Giovanni Paolo II. Dopo essere uscita dall’era fordista, anche Torino come Milano sta andando oltre l’economia dei servizi per entrare - con il Politecnico, le fondazioni di arte contemporanea, i nuovi musei, le tecnologie d’avanguardia, i centri di ricerca - nell’economia della conoscenza. I pellegrini della Sindone non sono il Medioevo che ritorna; sono l’Italia d’inizio secolo che tenta di ritrovare se stessa.

19 aprile 2015 | 12:09
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Da - http://www.corriere.it/cronache/15_aprile_19/sindone-simbolo-ripresa-italia-crisi-e70135d6-e67a-11e4-aaf9-ce581604be76.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Liste regionali Le periferie dei partiti in polvere
Inserito da: Admin - Maggio 11, 2015, 10:38:00 am
Liste regionali
Le periferie dei partiti in polvere

Di Aldo Cazzullo

A l confronto del parco candidati alle prossime Amministrative, il campo di Agramante era coeso come una falange macedone. A sostegno di De Luca in Campania, per dire, ci sono gli amici di De Mita e quelli di Cosentino, i movimentisti di sinistra e il consigliere regionale di Storace, già pellegrino sulla tomba del Duce; se si considera che il candidato governatore rischia di essere sospeso appena eletto, si ha una vaga idea del disordine che regna nelle periferie del Pd; per tacere dello scontro in Liguria, dove la sinistra interna segue la corsa di Pastorino contro la renziana Paita come l’avanguardia del vagheggiato nuovo partito. Va detto però che a destra le divisioni sono ancora più profonde: dalla Puglia, dove Fitto fa le sue prove di scissione, al Veneto, dove Tosi già candidato premier della Lega si ritrova guastatore centrista.

Il risultato è la polverizzazione dei partiti. Ed è la crisi del bipolarismo, finora definito da Berlusconi: prima si stava con o contro di lui; adesso si gioca tutti contro tutti, o tutti con il giocatore che ha la palla, come nelle partite da bambini. Il disgelo postberlusconiano ha creato una situazione liquida, in cui i naufraghi trasmigrano verso il vincitore annunciato, pronti a rimettersi in viaggio verso altri lidi alla prima crisi o sentenza del Tar. Un curioso paradosso, proprio ora che la nuova legge elettorale rafforza il ruolo dei partiti, conferendo il premio di maggioranza alla lista più votata senza consentire apparentamenti al ballottaggio, e affidando in larga parte la scelta dei deputati ancora alle segreterie romane. Pure la leadership di Renzi, che si impone con le buone o con le cattive in Parlamento, in periferia arriva diluita, e non riesce a impedire pasticci come l’industriale berlusconiano che vince le primarie del Pd ad Agrigento o il ritorno a Enna di Miro Crisafulli, che di sé disse: «Se fossi di Forza Italia sarei già a Guantánamo».

Il punto è che nessuna norma e nessun leader può trasformare la politica italiana in ciò che dovrebbe essere, e non è: la rappresentanza degli interessi e dei territori, attraverso la selezione dei migliori, che si mettono al servizio della comunità. Oggi, tranne rare eccezioni, l’ultima cosa che viene in mente a un imprenditore di successo, a un giovane di talento, a un intellettuale dal curriculum internazionale è fare politica, occuparsi della cosa pubblica, e appunto candidarsi alle elezioni. I partiti non hanno mai avuto - per legge - tanto potere, e non sono mai stati - nella realtà - così poveri: di iscritti, di sezioni, di giornali; di ideologie (il che può anche non essere grave), e soprattutto di idee (il che è gravissimo). Renzi ogni tanto parla di una legge che attui la Carta costituzionale e garantisca il «metodo democratico» della partecipazione previsto dall’articolo 49. La sua minoranza interna obietta che non è certo Renzi il più indicato a guidare una simile riforma. Ma anziché battersi per il ritorno delle preferenze, permeabili alle clientele quando non alle mafie, il Pd nelle sue varie componenti e quel che rimane del centrodestra avrebbero l’interesse a disciplinare le primarie per legge, e a mettere un po’ d’ordine in una politica dove lontano dal centro del potere nessuno sembra rappresentare altri che non se stesso.

4 maggio 2015 | 08:15
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_maggio_04/periferie-partiti-polvere-368f0638-f21e-11e4-88c6-c1035416d2ba.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. LA GIORNATA CONTRO L’OMOFOBIA
Inserito da: Admin - Maggio 19, 2015, 09:29:59 am
LA GIORNATA CONTRO L’OMOFOBIA

Un confronto davvero libero sui nuovi diritti civili
L’Italia è l’unico Paese dell’Occidente senza una legge che riconosca le unioni civili. Ora che è finita la stagione dei veti di Oltretevere, il tempo è finalmente propizio per costruire una «grande società»

Di Aldo Cazzullo
L’Italia è l’unico Paese dell’Occidente a non avere una legge che riconosca le unioni civili. E sulla cittadinanza conserva norme concepite quando era un Paese di emigranti, e non un Paese — anche — di immigrati.

Il richiamo del presidente Sergio Mattarella contro l’omofobia e «ogni discriminazione» è arrivato nel momento opportuno. Sarebbe sbagliato attribuire al presidente parole che non ha detto e intenzioni che non ha manifestato. Il Quirinale non interverrà nella definizione delle nuove regole che il Parlamento è chiamato a scrivere, per sanzionare crimini ma anche per riconoscere diritti.

Ma può avere un ruolo significativo, a maggior ragione perché sul Colle si è insediato un uomo di formazione cattolica; proprio ora che è finita la stagione dei veti di Oltretevere. Questo non significa ovviamente che la Chiesa sia pronta a riconoscere le coppie di fatto. Ma il clima non è più di scontro frontale. E il tempo è propizio per un confronto libero.

In molti, ricordando che le ultime elezioni politiche non hanno dato una maggioranza parlamentare né alla sinistra né alla destra, sostengono che in questa legislatura sia impossibile introdurre nuovi diritti civili. È vero il contrario. Proprio perché non esiste alle Camere un orientamento culturale e politico prevalente, questa è la stagione giusta per trovare un minimo comune denominatore, una maggioranza vasta che vada oltre gli schieramenti precostituiti e approvi norme destinate a durare, e non a essere spazzate via nella legislatura successiva. Già lo si è visto sul divorzio breve. Inoltre, le categorie storiche di destra e sinistra, già logore di loro, in questo campo aiutano poco a capire; non a caso il matrimonio omosessuale con diritto di adozione è rimasto in vigore nella Spagna governata dai popolari e nell’Inghilterra conservatrice.

In Italia un simile cambiamento non troverebbe una maggioranza in Parlamento, e probabilmente neppure un ampio consenso nella società. Però la discussione deve essere aperta e rispettosa delle varie culture e sensibilità. Il dissenso non può essere demonizzato. Chi difende le proprie idee non può essere tacciato di omofobia, ma neppure di libertinaggio. È giusto discutere di tutto. Ad esempio le parole di Domenico Dolce e Stefano Gabbana sono state irrise, ma indicavano una questione su cui è lecito interrogarsi: oggi una coppia omosessuale o una donna sola possono andare all’estero e avere un figlio grazie a ovuli donati (o comprati) e uteri in affitto; ma una coppia omosessuale o una donna sola non possono andare in un orfanotrofio italiano ad adottare un bambino.

La discussione però dura da tempo, e non può essere infinita. Prima della fine della legislatura si dovrà trovare un accordo, diciamo pure un compromesso, parola di cui non si deve avere paura, perché non rappresenta il tradimento di un ideale ma la conquista di un terreno comune; che dovrebbe allargarsi anche al tema cruciale del fine vita. Il governo Renzi fa bene a rivendicare una funzione propulsiva, ma dovrà evitare forzature. Anche a proposito della nuova legge sulla cittadinanza. Oggi il figlio di italiani è italiano anche se non vive e non vivrà mai nel nostro Paese: potrà ad esempio contribuire a decidere come spendere tasse che non paga. Invece il figlio di stranieri nato in Italia non è italiano e non lo diventa per troppo tempo: questo anacronismo genera estraneità e irresponsabilità; è difficile per i nuovi italiani riconoscersi in una comunità di valori da cui si viene esclusi. Siamo un Paese troppo permeabile per introdurre lo ius soli. La fase storica impone rigore e serietà, compenetrazione di diritti e di doveri. Ma è possibile fin da ora legare la cittadinanza al completamento di un ciclo di studi: deve essere la scuola dell’obbligo, oggi troppo spesso evasa anche dai figli di italiani, a trasmettere la lingua e i princìpi — a cominciare dall’uguaglianza tra l’uomo e la donna — conquistati con il travaglio di generazioni, che non vanno dispersi ma diffusi.

È una «grande società» quella che possiamo costruire, in cui nessuno verrà discriminato per i suoi orientamenti sessuali e per il colore della sua pelle. L’occasione è adesso.

18 maggio 2015 | 10:40
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_maggio_18/confronto-davvero-libero-nuovi-diritti-civili-b47b188a-fd2b-11e4-b490-15c8b7164398.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Il primo stop e una lezione per Renzi
Inserito da: Admin - Giugno 02, 2015, 12:03:35 pm
Regionali 2015, L’analisi del voto
Il primo stop e una lezione per Renzi
Il renzismo non è finito ma il segretario del Pd deve ricucire con la sua minoranza interna e concedere qualcosa. Per esempio sulla riforma del Senato

Di Aldo Cazzullo

E’ la prima battuta d’arresto per Matteo Renzi da quando ha conquistato prima la guida del partito, poi Palazzo Chigi e quindi il 40,8% alle Europee. Se si votasse oggi per le politiche, il Pd non vincerebbe al primo turno. E andrebbe al ballottaggio certo da favorito, ma senza grandi riserve di voti cui attingere.

Le incrinature sono molte. Il problema non sono tanto le percentuali, difficili da paragonare con quelle del 2014. Ma dura è la botta in Umbria, tenuta per un soffio. E durissima in Liguria, dove i fuoriusciti del Pd fanno perdere la Paita. In Veneto la candidata renziana Moretti è doppiata da Zaia. In Campania Renzi ha adottato De Luca negli ultimi giorni, dopo averlo a lungo subìto. In Toscana vince il suo nemico storico Rossi, con cui si è riconciliato. In Puglia trionfa Emiliano, evitato dal premier in campagna elettorale, e il Pd ha percentuali modeste. Nelle Marche il risultato più rilevante è la penosa figura di Spacca, “governatore” del centrosinistra che ha provato a farsi rieleggere con il centrodestra, ed è arrivato quarto.

Questo non significa affatto che il renzismo sia finito, e neppure che sia in crisi. Renzi ha ancora in mano il pallino della politica italiana. E’ chiaro però che ha commesso errori. E che deve giocare la partita in modo diverso. Lo schema Renzi-contro-tutti non funziona. Il Pd può andare da solo, ma deve essere unito. A maggior ragione ora che Berlusconi vede premiata la linea dell’opposizione, il premier deve ricucire con la sua minoranza interna, che non è composta solo da una nomenklatura di rottamati; ha ancora un seguito nel Paese, in particolare là dove la sinistra è radicata. Ora Renzi dovrà cedere qualcosa; ad esempio sulla riforma del Senato, che con ogni probabilità tornerà a essere elettivo.

Ma il problema di Renzi non è solo la coesione interna al partito. E’ la squadra di governo, che non è all’altezza della sua grande ambizione di cambiare l’Italia. Non solo. Il presidente del Consiglio deve interrogarsi sul suo rapporto con gli italiani. Finora ha cercato di rianimare un Paese sfiduciato, di cattivo umore, che aveva perso la fiducia in se stesso. Qualche risultato si comincia a vedere. Ma Renzi ha anche iniziato a scontrarsi con le resistenze delle corporazioni, dei dipendenti pubblici, dei sindacati, degli insegnanti. E non ha ancora inciso il vero bubbone italiano: l’evasione fiscale, l’economia illegale e criminale, l’illegalità diffusa.

Per realizzare il suo progetto, Renzi ha bisogno di suscitare dietro di sé un movimento popolare autentico. Deve mobilitare energie, coinvolgere i giovani e i delusi dalla politica, parlare di più con i cittadini, e ascoltarli. Renzi ha sempre giocato a tutto campo, ha cercato i voti di Berlusconi, ha tentato di attrarre a sé la vasta area dell’antipolitica. Ma stavolta non ci è riuscito. L’astensione, che non è un buon segnale per nessuno, non l’ha aiutato (era proprio il caso di fissare il voto amministrativo durante il “ponte” più lungo dell’anno?). Il favorito naturale per le prossime politiche resta lui. Non dovrà però dare nulla per scontato.

I Cinque Stelle sono andati molto bene. Candidati sconosciuti hanno superato il 20%. Fino a quando ci saranno consiglieri regionali che ricevono diecimila euro al mese di vitalizio, fino a quando i parlamentari continueranno ad assegnarsi l’un l’altro indennità e prebende, ci sarà sempre benzina nel motore di Grillo. C’è un voto grillino irriducibile, antisistema, velleitario, che sogna di dare mille euro al mese a tutti in cambio di nulla. Ma c’è anche un voto civico, indignato più che rassegnato, portatore di una forte spinta al rinnovamento, che non si riconosce più – o non ancora – nei partiti. Il centrodestra va meno peggio di quanto si pensasse. Dove è unito, come in Liguria e in Umbria, ha un buon risultato, oltretutto con due moderati come Toti che parla come l’orsetto Bubu e come il pacifico sindaco di Assisi. Ma un po’ dappertutto il primo partito del centrodestra è la Lega. E alle politiche sarà difficile se non impossibile costruire un listone che tenga insieme tutti, da Salvini ad Alfano, da Berlusconi alla Meloni. Oggi Salvini sarebbe il candidato premier più forte per arrivare al ballottaggio. Ma al ballottaggio sarebbe il candidato più debole. Il leader meglio piazzato resta Renzi. Ma dovrà fare meglio di così.

1 giugno 2015 | 02:20
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DA - http://www.corriere.it/politica/15_giugno_01/regionali-2015-analisi-voto-cazzullo-9c68a372-07f1-11e5-811d-00d7b670a5d4.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Prodi: «Dal caos greco al voto anti-Ue, Europa a rischio ...
Inserito da: Admin - Giugno 05, 2015, 11:09:04 pm
Prodi: «Dal caos greco al voto anti-Ue, Europa a rischio disgregazione»
«Renzi? Non c’è una politica alternativa a quella tedesca. Un errore isolare Putin»

Di Aldo Cazzullo

«È un lunedì nero per l’Europa».
Romano Prodi, si riferisce al precipitare della crisi greca?
«Mi riferisco alla Grecia, e non solo. In Spagna crollano i partiti. Francia e Inghilterra si sono chiamate fuori dall’accordo sugli immigrati. Ma la notizia peggiore è il voto polacco» .
Ha vinto il candidato antieuropeo: Andrzej Duda.
«Un voto straordinario: in negativo, s’intende. Nei sondaggi Duda era testa a testa con il candidato di Tusk, Bronislaw Komorowsky. Invece ha vinto a valanga, grazie ai voti della Polonia rurale. E questo è un segno inquietante. La Polonia è il Paese che ha performato meglio in questi anni, che ha ricevuto più aiuti dall’Europa. È la sesta economia dell’Unione. Ne esprime il presidente, Donald Tusk. Ma l’uomo di Tusk ha perso. E ha vinto l’uomo di Kaczynski. Con una linea portatrice di tensioni, perché fortemente antieuropea. Antitedesca. E antirussa».
Lei è accusato di essere un po’ troppo morbido con i russi. In particolare con Putin.
«Duro o morbido non sono concetti politici. Puoi essere duro se ti conviene, o morbido se ti conviene; non puoi fare il duro se te ne vengono solo danni. Isolare la Russia è un danno. Il problema è avere chiara l’idea di dove devi arrivare. Se vuoi che l’Ucraina non sia membro della Nato e dell’Ue, ma sia un Paese amico dell’Europa e un ponte con la Russia, devi avere una politica coerente con questo obiettivo. Se l’obiettivo è portare l’Ucraina nella Nato, allora crei tensioni irreversibili».
In Spagna invece vincono movimenti civici. Non è detto sia un segno negativo.
«È vero. Lì è in corso una rivoluzione politica, contro i vecchi partiti più che contro l’Europa. Il governo popolare è obbediente alla linea tedesca; e il popolo gli si rivolta contro, a cominciare dalla grandi metropoli, che danno il tono al Paese. Ma sono davvero troppi in Europa i segnali di disgregazione; non da ultimo il referendum britannico, lo spettro dell’uscita di Londra. E se si leva un vento di disgregazione, non lo ferma nessuno».
Il vento soffia da Atene.
«Tanto tuonò che piovve. È ormai chiaro che la Grecia tanti soldi da pagare non li ha. Lo sapevano tutti. Il 25% dei greci è disoccupato, il reddito è crollato molto più di quanto si attendessero i fautori dell’austerity. La Grecia non ha lo sfogo dell’export che ha l’Italia, la Grecia esporta meno della provincia di Reggio Emilia; vive di noli marittimi, un po’ di cemento, un po’ di turismo; se crolla il reddito interno, crolla tutto. È stato un braccio di ferro in cui ognuno ha pensato che l’altro cedesse; invece per salvarsi ognuno dovrebbe cedere qualcosa. Se la Germania fosse intervenuta all’inizio della crisi, ce la saremmo cavata con 30-40 miliardi; oggi i costi sono dieci volte di più».
Tsipras e Varoufakis non hanno colpe?
«I greci hanno mostrato una sbruffoneria che ha mal disposto i negoziatori. Ho notato un’irritazione progressiva nei loro confronti, man mano che usavano parole violente. Tirare fuori il nazismo non ha aiutato. Schaeuble non lo puoi prendere in giro. Purtroppo lui può prendere in giro te, perché è forte. Ma sentire i soliti pregiudizi sulla pigrizia mediterranea è un altro segno di disgregazione».
Alla fine la Grecia uscirà dall’euro?
«Siamo alla canna del gas. Ma c’è ancora lo spazio per un accordo. A due condizioni: che sia chiaro; e che sia subito. Non è più possibile un altro rinvio. Si può ancora arrivare a un mezzo default, con la Grecia che ottiene l’allungamento dei termini e la ristrutturazione del debito, che non potrà essere rimborsato per intero, ma in cambio accede ad alcune richieste: neppure le promesse elettorali di Tsipras potranno essere mantenute per intero» .
Se salta la Grecia, si sente dire, la prossima è l’Italia. C’è un rischio contagio, come paventa ad esempio Luigi Zingales?
«Non ci sono le condizioni oggettive per il contagio. Il bilancio italiano è sotto controllo, i tassi sono bassi, si intravede la ripresa, sia pure debole. Zingales ipotizza un panico, con i capitali che fuggono. E la miccia del panico è l’incertezza. La speculazione si nutre di incertezza. Nessuno specula su un Paese se sa già che non viene abbandonato dagli altri».
Rispetto al 2011, abbiamo Draghi e il quantitative easing.
«E’ vero: sul versante finanziario abbiamo eretto una difesa. Ma sul versante delle decisioni politiche siamo sguarniti come e peggio di prima».
Nel libro scritto per Laterza con Marco Damilano, “Missione incompiuta”, lei sostiene che proseguendo su questa strada l’Europa andrà a pezzi. Nel frattempo abbiamo fatto altri passi sulla strada sbagliata?
«Sì. L’Europa non ha più politica, né idee; ha solo regole, aritmetica. Quando definivo “stupido” il patto di stabilità, sapevo che si sarebbe arrivati a questo punto. Non si governa con l’aritmetica. Junker ha annunciato il suo piano di investimenti nove mesi fa. Il tempo in cui nasce un bambino. Ma non si è ancora visto nulla» .
La Mogherini come si muove?
«Conosce i dossier e si muove bene, ma può fare poco: perché il centro del potere si è spostato dalla Commissione agli Stati, in particolare alla Germania».
Allora l’Europa è davvero alla canna del gas?
«Ho fiducia in un fatto: ogni volta che l’Europa è arrivata sull’orlo del baratro, ha avuto un colpo di reni, uno scatto di nervi. Quando si capisce che è in gioco tutto, scatta un allarme collettivo».
La Merkel ha la statura per imporre la svolta?
«Questo lo vedremo. Di sicuro ne ha la forza. La Germania non può prendersi la responsabilità storica che l’Europa si slabbri».
Renzi come si sta muovendo?
«Di richiami alla solidarietà europea ne ha fatti, ma non si vede una politica alternativa a quella di Berlino. Eravamo un’Unione di minoranze; ora siamo un’Europa a una dimensione, quella tedesca. Ho sperato a lungo che Francia, Spagna e Italia trovassero una linea comune. Non ci sono riusciti, perché ogni Paese credeva di essere più bravo dell’altro; in particolare la Spagna e la Francia pensavano di essere più brave dell’Italia. Il voltafaccia di Parigi sugli immigrati è clamoroso: l’Europa ha annunciato un accordo, e l’ha disatteso sei giorni dopo. Almeno Cameron ci ha presi in giro fin da subito: ha offerto le sue navi per il salvataggio dei profughi, a patto che restassero tutti in Italia».
Dobbiamo prepararci a un intervento contro l’Isis?
«No, no, no. E’ proprio quello che l’Isis vuole: attirare soldati occidentali nella guerra civile islamica, per farne un bersaglio e rinfocolare la popolazione. Se poi sono soldati italiani, di un’ex potenza coloniale, meglio ancora per l’Isis, e peggio ancora per noi».
Allora dobbiamo abbandonare la Libia ai tagliagole?
«Il fatto che in Libia ci siano più governi dipende soprattutto dai governi stranieri che li appoggiano. Il governo di Tripoli si regge su Turchia e Qatar, quello di Tobruk su Arabia Saudita ed Egitto; che a loro volta dipendono dagli Stati Uniti, dalla Russia e indirettamente dalla Cina. Se le grandi potenze trovano un accordo, l’Isis finisce in un giorno. Se le grande potenze usano il Medio Oriente per il loro grande gioco, l’Isis prospererà» .

26 maggio 2015 | 08:18
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_maggio_26/prodi-europa-rischi-c572bc04-036d-11e5-8669-0b66ef644b3b.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Pietà per i fucilati innocenti non significa retorica pacifista
Inserito da: Admin - Giugno 06, 2015, 05:29:26 pm
Grande Guerra
Pietà per i fucilati innocenti non significa retorica pacifista
Se i parlamentari hanno votato all’unanimità a favore della riabilitazione di centinaia di soldati vittime di una disciplina eccessiva, ciò non vuol dire disconoscere i meriti di coloro che resistettero sul Piave a costo della vita

Di Aldo Cazzullo

Nel marzo 1917 un reggimento della brigata Ravenna protesta per una licenza promessa più volte e sempre negata. Viene sparato qualche colpo in aria, ma l’ordine è ristabilito con facilità. Il comandante della divisione si porta sul posto con i carabinieri. Non trova nessuno: il reggimento è già in marcia verso il fronte. Vengono scovati due fanti che dormono nelle baracche: l’ordine è di fucilarli. Uno piange disperato: «Ma perché, cosa ho fatto che mi volete fucilare? Ho sette figli!». I carabinieri, impietositi, esitano. Il comandante della divisione grida: «Fate finire questo cicaleccio! Siano fucilati e subito; gli ordini sono ordini».

Il castigo è solo agli inizi. Venti soldati vengono estratti a sorte, e cinque sono scelti per essere fucilati. Il plotone d’esecuzione trema, occorrono sei salve per uccidere tutti. Il comando di divisione valuta che non sia abbastanza: altri vengono mandati sotto processo. Tra loro un caporale che si è presentato volontario nel 1915 e ha già combattuto in Libia. Condannato a morte con altri commilitoni, rifiuta di farsi bendare e dice al plotone d’esecuzione: «Mirate giusto, mirate al petto, e servite sempre il vostro Paese. Viva l’Italia!». Il comandante di brigata, indignato, commenta che «bisognava promuoverlo, non fucilarlo». Ma il comandante del corpo d’armata vuole a sua volta guadagnarsi qualche merito agli occhi di Cadorna, e ordina di fucilare altri diciotto uomini. La brigata è terrorizzata. In tutto ha visto fucilare 29 commilitoni per una protesta subito rientrata senza violenze.

In linea di principio, quel che ha scritto sul Corriere del 27 maggio Angelo Panebianco è ineccepibile: uno Stato non può mettere i disertori sullo stesso piano di coloro che morirono combattendo. Ma nella Grande Guerra lo Stato italiano non fece fucilare soltanto disertori. Tra i decimati non ci furono solo «coloro che si ribellarono agli ordini rifiutandosi di combattere». La grande maggioranza delle esecuzioni sommarie avvenne sorteggiando uomini che avevano come unica colpa l’essere inquadrati in un reparto che a giudizio dei generali non era stato abbastanza combattivo.

Non si veniva puniti per le proprie responsabilità; c’era quasi sempre l’elemento dell’«alea», della sorte. Vennero fucilati uomini che neppure erano presenti nel giorno dell’assalto sfortunato o dell’accenno di ribellione. Violazioni minori venivano sanzionate legando il colpevole a un palo, in piedi sulla trincea, esposto al fuoco nemico; alcuni impazzirono; gli altri non furono comunque più gli stessi, piegati dall’umiliazione. Era lo stesso Stato che — unico tra tutti quelli coinvolti nella guerra — vietava alle famiglie di mandare viveri ai prigionieri, considerati alla stregua di disertori: «Imboscati d’Oltralpe» li chiamava D’Annunzio. Il risultato fu che centomila prigionieri italiani morirono di fame nei campi austriaci. Non è forse da comportamenti come questi che nasce, o si approfondisce, la distanza tra lo Stato e i suoi cittadini? Non fu anche il disprezzo coltivato e ostentato per le loro vite a fiaccare i soldati? Il 15 agosto 1917 in una trincea sopra Caporetto viene trovato un foglio con una poesia satirica, che dice più o meno: se non ci rimpiazzano, ci arrendiamo. Il responsabile non si trova. Lo scritto viene mostrato al generale Cavaciocchi, che ordina una punizione esemplare: vengono estratti a sorte quattro uomini e fucilati. Mancano poco più di due mesi alla rotta. Non a caso uno dei primi provvedimenti del nuovo comandante, Armando Diaz, sarà ripristinare un trattamento più umano per i soldati, ricostruire il rapporto tra lo Stato e il suo stesso esercito.

Panebianco ha ragione quando scrive che l’Italia di oggi non è pronta politicamente e moralmente a fronteggiare le responsabilità sullo scacchiere mediterraneo che le vengono dalla geografia e dalla storia. Ed è probabile che non siano pronti neppure il governo e il Parlamento. Ma se i parlamentari hanno votato per una volta all’unanimità un gesto di pietas per centinaia di fucilati innocenti, questo non significa di per sé cedere alla retorica del pacifismo a oltranza, e neppure disconoscere i meriti di coloro che sul Piave resistettero a costo della vita; significa risanare, almeno per quanto è possibile oggi, una delle molte fratture nel rapporto tra l’Italia e gli italiani.

28 maggio 2015 | 09:23
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_maggio_28/pieta-fucilati-innocenti-non-significa-retorica-pacifista-ceb340c2-0507-11e5-ae02-fdb51684f1d6.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. La strategia dell’ariete
Inserito da: Admin - Giugno 06, 2015, 05:32:15 pm
L’EDITORIALE
La strategia dell’ariete
Il centrodestra si riscopre competitivo per il governo del Paese

Di Aldo Cazzullo

Quindi la destra italiana è tutt’altro che morta. Nell’ora del massimo disorientamento dei suoi leader, con Berlusconi che sbaglia comizio, Alfano che a Roma governa con Renzi e in tutte le Regioni si presenta contro di lui, Salvini che fa il pieno di voti su posizioni antieuro e antisistema, la destra supera il 60 per cento in Veneto, conquista la Liguria rossa, può conquistare Venezia per la prima volta dal 1993, è competitiva in Umbria e nella stessa Campania, perde nettamente solo là dove è divisa. Sia chiaro: una maggioranza politica e sociale, che nelle sue varie stagioni ha vinto quasi tutte le elezioni politiche dal ‘48 a oggi, non poteva essere evaporata o convertita in blocco al renzismo. Ma se nel momento di maggior debolezza - e con una fortissima astensione che tradizionalmente avvantaggia la sinistra - i risultati sono quelli visti domenica, allora il centrodestra è competitivo per il governo del Paese.

Renzi dovrebbe tenerne conto. Tramontato il patto del Nazareno, il Pd può provare a fare da solo, purché sia unito. L’uno contro tutti, all’evidenza, non ha pagato. La presenza di un nemico è consustanziale a Renzi, fa parte della sua natura competitiva e della strategia che l’ha portato a Palazzo Chigi. Ma scagliarsi nello stesso tempo contro la minoranza interna, i sindacati, i burocrati, la Rai, le banche, la corporazione degli insegnanti, quella dei dipendenti pubblici e via battagliando è servito solo a scontentare settori tradizionalmente vicini alla sinistra, non a prendere voti a destra. Per conquistare i moderati e i delusi non basta andare da Del Debbio o da Barbara D’Urso; occorre affrontare i nodi su cui il Paese aspetta risposte. Il taglio delle tasse. Il governo dell’immigrazione, grazie anche a una nuova politica europea. La sicurezza e la certezza della pena.

Sono temi che appartengono al bagaglio tradizionale del centrodestra. Il fatto che in passato Berlusconi non sia riuscito a coltivarli non esime Renzi dal provarci: al governo ora c’è lui. Ed essere al governo, nell’Europa continentale ancora percorsa dalla crisi, non è un vantaggio. Eppure, se si dovesse votare presto, il premier resterebbe il favorito: un conto è sostenere candidati più subìti che scelti, un altro è impegnarsi in prima persona. Anche perché l’opposizione ha un problema da risolvere.

Per arrivare al ballottaggio previsto dalla nuova legge elettorale, Forza Italia e Lega devono presentarsi nella stessa lista. E devono esprimere un leader comune. Oggi Salvini è il candidato più forte per battere Grillo al primo turno. Ma rischia di essere il candidato più debole al secondo turno, quando si deve conquistare il centro. O a destra matureranno altre personalità; oppure Salvini dovrà dimostrare di avere una cultura di governo compatibile con l’appartenenza all’Unione Europea. L’aliquota unica al 15% è uno slogan accattivante per quanto impossibile. La fuoriuscita dall’euro e la deportazione dei rom mobilitano l’elettorato più radicale; ma poi le elezioni, quelle vere, le vincono i miti come Toti e Zaia.

3 giugno 2015 | 07:52
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Da - http://www.corriere.it/cultura/15_giugno_03/strategia-dell-ariete-0b7cf22a-09b1-11e5-b7a5-703d42ecd92c.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Regionali 2015, L’analisi del voto Il primo stop e una lezione...
Inserito da: Admin - Giugno 14, 2015, 04:15:10 pm
Regionali 2015, L’analisi del voto
Il primo stop e una lezione per Renzi
Il renzismo non è finito ma il segretario del Pd deve ricucire con la sua minoranza interna e concedere qualcosa. Per esempio sulla riforma del Senato

Di Aldo Cazzullo

E’ la prima battuta d’arresto per Matteo Renzi da quando ha conquistato prima la guida del partito, poi Palazzo Chigi e quindi il 40,8% alle Europee. Se si votasse oggi per le politiche, il Pd non vincerebbe al primo turno. E andrebbe al ballottaggio certo da favorito, ma senza grandi riserve di voti cui attingere.

Le incrinature sono molte. Il problema non sono tanto le percentuali, difficili da paragonare con quelle del 2014. Ma dura è la botta in Umbria, tenuta per un soffio. E durissima in Liguria, dove i fuoriusciti del Pd fanno perdere la Paita. In Veneto la candidata renziana Moretti è doppiata da Zaia. In Campania Renzi ha adottato De Luca negli ultimi giorni, dopo averlo a lungo subìto. In Toscana vince il suo nemico storico Rossi, con cui si è riconciliato. In Puglia trionfa Emiliano, evitato dal premier in campagna elettorale, e il Pd ha percentuali modeste. Nelle Marche il risultato più rilevante è la penosa figura di Spacca, “governatore” del centrosinistra che ha provato a farsi rieleggere con il centrodestra, ed è arrivato quarto.

Questo non significa affatto che il renzismo sia finito, e neppure che sia in crisi. Renzi ha ancora in mano il pallino della politica italiana. E’ chiaro però che ha commesso errori. E che deve giocare la partita in modo diverso. Lo schema Renzi-contro-tutti non funziona. Il Pd può andare da solo, ma deve essere unito. A maggior ragione ora che Berlusconi vede premiata la linea dell’opposizione, il premier deve ricucire con la sua minoranza interna, che non è composta solo da una nomenklatura di rottamati; ha ancora un seguito nel Paese, in particolare là dove la sinistra è radicata. Ora Renzi dovrà cedere qualcosa; ad esempio sulla riforma del Senato, che con ogni probabilità tornerà a essere elettivo.

Ma il problema di Renzi non è solo la coesione interna al partito. E’ la squadra di governo, che non è all’altezza della sua grande ambizione di cambiare l’Italia. Non solo. Il presidente del Consiglio deve interrogarsi sul suo rapporto con gli italiani. Finora ha cercato di rianimare un Paese sfiduciato, di cattivo umore, che aveva perso la fiducia in se stesso. Qualche risultato si comincia a vedere. Ma Renzi ha anche iniziato a scontrarsi con le resistenze delle corporazioni, dei dipendenti pubblici, dei sindacati, degli insegnanti. E non ha ancora inciso il vero bubbone italiano: l’evasione fiscale, l’economia illegale e criminale, l’illegalità diffusa.

Per realizzare il suo progetto, Renzi ha bisogno di suscitare dietro di sé un movimento popolare autentico. Deve mobilitare energie, coinvolgere i giovani e i delusi dalla politica, parlare di più con i cittadini, e ascoltarli. Renzi ha sempre giocato a tutto campo, ha cercato i voti di Berlusconi, ha tentato di attrarre a sé la vasta area dell’antipolitica. Ma stavolta non ci è riuscito. L’astensione, che non è un buon segnale per nessuno, non l’ha aiutato (era proprio il caso di fissare il voto amministrativo durante il “ponte” più lungo dell’anno?). Il favorito naturale per le prossime politiche resta lui. Non dovrà però dare nulla per scontato.

I Cinque Stelle sono andati molto bene. Candidati sconosciuti hanno superato il 20%. Fino a quando ci saranno consiglieri regionali che ricevono diecimila euro al mese di vitalizio, fino a quando i parlamentari continueranno ad assegnarsi l’un l’altro indennità e prebende, ci sarà sempre benzina nel motore di Grillo. C’è un voto grillino irriducibile, antisistema, velleitario, che sogna di dare mille euro al mese a tutti in cambio di nulla. Ma c’è anche un voto civico, indignato più che rassegnato, portatore di una forte spinta al rinnovamento, che non si riconosce più – o non ancora – nei partiti. Il centrodestra va meno peggio di quanto si pensasse. Dove è unito, come in Liguria e in Umbria, ha un buon risultato, oltretutto con due moderati come Toti che parla come l’orsetto Bubu e come il pacifico sindaco di Assisi. Ma un po’ dappertutto il primo partito del centrodestra è la Lega. E alle politiche sarà difficile se non impossibile costruire un listone che tenga insieme tutti, da Salvini ad Alfano, da Berlusconi alla Meloni. Oggi Salvini sarebbe il candidato premier più forte per arrivare al ballottaggio. Ma al ballottaggio sarebbe il candidato più debole. Il leader meglio piazzato resta Renzi. Ma dovrà fare meglio di così.

1 giugno 2015 | 02:20
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DA - http://www.corriere.it/politica/15_giugno_01/regionali-2015-analisi-voto-cazzullo-9c68a372-07f1-11e5-811d-00d7b670a5d4.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. LA GIORNATA CONTRO L’OMOFOBIA Un confronto davvero libero...
Inserito da: Admin - Giugno 16, 2015, 11:40:59 pm
LA GIORNATA CONTRO L’OMOFOBIA
Un confronto davvero libero sui nuovi diritti civili
L’Italia è l’unico Paese dell’Occidente senza una legge che riconosca le unioni civili.
Ora che è finita la stagione dei veti di Oltretevere, il tempo è finalmente propizio per costruire una «grande società»


Di Aldo Cazzullo
L’Italia è l’unico Paese dell’Occidente a non avere una legge che riconosca le unioni civili. E sulla cittadinanza conserva norme concepite quando era un Paese di emigranti, e non un Paese — anche — di immigrati.

Il richiamo del presidente Sergio Mattarella contro l’omofobia e «ogni discriminazione» è arrivato nel momento opportuno. Sarebbe sbagliato attribuire al presidente parole che non ha detto e intenzioni che non ha manifestato. Il Quirinale non interverrà nella definizione delle nuove regole che il Parlamento è chiamato a scrivere, per sanzionare crimini ma anche per riconoscere diritti.

Ma può avere un ruolo significativo, a maggior ragione perché sul Colle si è insediato un uomo di formazione cattolica; proprio ora che è finita la stagione dei veti di Oltretevere. Questo non significa ovviamente che la Chiesa sia pronta a riconoscere le coppie di fatto. Ma il clima non è più di scontro frontale. E il tempo è propizio per un confronto libero.

In molti, ricordando che le ultime elezioni politiche non hanno dato una maggioranza parlamentare né alla sinistra né alla destra, sostengono che in questa legislatura sia impossibile introdurre nuovi diritti civili. È vero il contrario. Proprio perché non esiste alle Camere un orientamento culturale e politico prevalente, questa è la stagione giusta per trovare un minimo comune denominatore, una maggioranza vasta che vada oltre gli schieramenti precostituiti e approvi norme destinate a durare, e non a essere spazzate via nella legislatura successiva. Già lo si è visto sul divorzio breve. Inoltre, le categorie storiche di destra e sinistra, già logore di loro, in questo campo aiutano poco a capire; non a caso il matrimonio omosessuale con diritto di adozione è rimasto in vigore nella Spagna governata dai popolari e nell’Inghilterra conservatrice.

In Italia un simile cambiamento non troverebbe una maggioranza in Parlamento, e probabilmente neppure un ampio consenso nella società. Però la discussione deve essere aperta e rispettosa delle varie culture e sensibilità. Il dissenso non può essere demonizzato. Chi difende le proprie idee non può essere tacciato di omofobia, ma neppure di libertinaggio. È giusto discutere di tutto. Ad esempio le parole di Domenico Dolce e Stefano Gabbana sono state irrise, ma indicavano una questione su cui è lecito interrogarsi: oggi una coppia omosessuale o una donna sola possono andare all’estero e avere un figlio grazie a ovuli donati (o comprati) e uteri in affitto; ma una coppia omosessuale o una donna sola non possono andare in un orfanotrofio italiano ad adottare un bambino.

La discussione però dura da tempo, e non può essere infinita. Prima della fine della legislatura si dovrà trovare un accordo, diciamo pure un compromesso, parola di cui non si deve avere paura, perché non rappresenta il tradimento di un ideale ma la conquista di un terreno comune; che dovrebbe allargarsi anche al tema cruciale del fine vita. Il governo Renzi fa bene a rivendicare una funzione propulsiva, ma dovrà evitare forzature. Anche a proposito della nuova legge sulla cittadinanza. Oggi il figlio di italiani è italiano anche se non vive e non vivrà mai nel nostro Paese: potrà ad esempio contribuire a decidere come spendere tasse che non paga. Invece il figlio di stranieri nato in Italia non è italiano e non lo diventa per troppo tempo: questo anacronismo genera estraneità e irresponsabilità; è difficile per i nuovi italiani riconoscersi in una comunità di valori da cui si viene esclusi. Siamo un Paese troppo permeabile per introdurre lo ius soli. La fase storica impone rigore e serietà, compenetrazione di diritti e di doveri. Ma è possibile fin da ora legare la cittadinanza al completamento di un ciclo di studi: deve essere la scuola dell’obbligo, oggi troppo spesso evasa anche dai figli di italiani, a trasmettere la lingua e i princìpi — a cominciare dall’uguaglianza tra l’uomo e la donna — conquistati con il travaglio di generazioni, che non vanno dispersi ma diffusi.

È una «grande società» quella che possiamo costruire, in cui nessuno verrà discriminato per i suoi orientamenti sessuali e per il colore della sua pelle. L’occasione è adesso.

18 maggio 2015 | 10:40
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_maggio_18/confronto-davvero-libero-nuovi-diritti-civili-b47b188a-fd2b-11e4-b490-15c8b7164398.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. L’intervista Andrea Orlando
Inserito da: Admin - Giugno 16, 2015, 11:44:30 pm
L’intervista Andrea Orlando
«Il partito della nazione è superato Ora dobbiamo ricostruire il Pd»
Il ministro: abbiamo tenuto, ma metà degli elettori resta a casa
Sopravvalutate le Europee


Di Aldo Cazzullo

Andrea Orlando è chiamato in causa dal risultato delle elezioni come ministro di Grazia e Giustizia, come elemento di raccordo fra renziani e vecchia guardia del partito, e come ligure, figlio di militanti del Pci spezzino.

Ministro Orlando, non lo neghi: è stata una battuta d’arresto.
«Il Pd tiene e vince. Affronta riforme difficili e adesso governa nella stragrande maggioranza delle Regioni. Forse si era sopravvalutato il voto delle Europee. Ma il segnale d’allarme è il risultato complessivo: nonostante la crescita di forze dichiaratamente antisistema, metà dell’elettorato se ne sta a casa. Se sommiamo i voti dei movimenti anti-euro e l’astensionismo siamo di fronte a un tema enorme. Dobbiamo chiedere un cambiamento profondo delle politiche economiche europee se vogliamo evitare che la crisi sociale si trasformi in crisi democratica».

Renzi per prima cosa dovrà ricucire con la minoranza interna?
«Per prima cosa dobbiamo ricostruire il Pd. La suggestione del partito della nazione mi pare superata da queste elezioni. Oggi l’obiettivo è costruire un grande soggetto riformista del centrosinistra. Qualche anno fa avrei detto una grande forza del socialismo europeo; oggi è un richiamo non più sufficiente. Il multipolarismo anche in Italia è un dato strutturale».

Addio partito della nazione, quindi.
«Io non ci ho mai creduto. L’ho sempre considerata un’idea ambigua, addirittura pericolosa. Una forza politica del centrosinistra europeo deve mantenere solide radici, e conquistare una parte dell’elettorato moderato».

Nell’ora di massimo disorientamento, la destra si dimostra a sorpresa competitiva.
«L’Italia è un Paese dove la destra ha un substrato storico fortissimo. L’idea di sbaragliarla soltanto con una leadership forte e con un posizionamento politico intelligente è una velleità che non ho mai condiviso».

D’accordo. Ma come spiega ad esempio il crollo in Veneto?
«Guardi, l’illusione dello scorso anno - lo sfondamento al centro e la tenuta a sinistra - poteva essere consolidata con il lavoro sul territorio, con la costruzione di un partito che in questi mesi non c’è stata. Per onestà intellettuale, devo riconoscere che non c’è stata neppure negli anni precedenti. È stato un errore pensare di poter trasfondere la luna di miele alle Regionali, senza strumenti organizzativi, senza luoghi di mediazione».

Sta dicendo che avete sbagliato la campagna elettorale?
«Sto dicendo che la campagna elettorale non basta e tantomeno quella fatta dai singoli candidati. Osservo però che per esempio non c’è stata un’iniziativa sui territori per spiegare agli insegnanti e ai genitori cosa c’era di buono nella riforma della scuola, magari anche per raccogliere dissensi e perplessità. E anche i temi su cui eravamo tutti d’accordo, ad esempio gli ecoreati, non sono stati sostenuti dall’attività politica sul territorio. Nella mia provincia il partito non ha poi neppure fatto la conclusione della campagna elettorale. Da quando faccio politica, è la prima volta».

Lei ha 47 anni e fa politica da ragazzo. In Liguria avete sbagliato candidato?
«Il candidato che vince le primarie è il candidato giusto. Ha pesato tantissimo il comportamento sleale di un pezzo del partito. Ma è stato un errore anche aver pensato che le primarie potessero risolvere tutto, dal programma alla coalizione».

Quanto ha influito il caso Bindi, la lista degli impresentabili?
«Non voglio entrare nella vicenda Bindi e impresentabili. Certo è stato un fattore di disorientamento per gli elettori e anche per i militanti sentire dirigenti del Pd dare un giudizio sul governo assai più duro dei più aspri oppositori. É un elemento cui il popolo del centrosinistra non era abituato, e che certo non ha aiutato».

Lei crede alla possibilità di tenere unito il partito democratico?
«Quando ci siamo riusciti, abbiamo fatto cambiare noi idea agli altri. È successo per l’elezione di Mattarella, per la pubblica amministrazione, per l’anticorruzione e anche in materia di giustizia. Un supplemento di ascolto è sempre utile; purché non sia finalizzato a evitare di arrivare al risultato, e purché venga rispettato il principio di maggioranza».

Si può rivedere la riforma del Senato, in modo da renderlo elettivo?
«Sulla composizione del Senato Renzi ha già aperto ben prima delle elezioni. L’importante è che un’apertura non sia esibita come uno scalpo conquistato sul terreno delle Regionali. Sarebbe abbastanza surreale se la sconfitta in Liguria fosse vista da una parte del Pd come un successo interno».

«Repubblica» scrive che lei potrebbe essere il nuovo premier.
«Ho letto e ho controllato la data del giornale: era proprio il 2 giugno. Pensavo fosse il primo aprile».

La leadership di Renzi non è in discussione?
«La sua vittoria alle primarie, e la sconfitta delle altre ipotesi compresa quella che sostenevo io, sono state incontrovertibili. Renzi è andato a Palazzo Chigi per un voto della direzione, sollecitato dalla minoranza. Il governo e il parlamento stanno portando a casa risultati. É un dinamismo che si inizia a percepire anche a livello internazionale e questo dá forza al Paese. Una crisi di governo oggi sarebbe lunare. Pensiamo piuttosto a come sostenere la battaglia più difficile: quella in Europa, per superare l’austerità. Come conferma il voto italiano dopo quello di altre nazioni, è una battaglia non solo per uscire dalla crisi ma per difendere l’impianto democratico dei Paesi europei e l’Europa stessa».

Non crede che la battuta d’arresto del Pd nasca anche da altre questioni?L’immigrazione fuori controllo. Il senso di insicurezza. La giustizia che non garantisce la certezza della pena.
«Le statistiche su quantità e qualità delle sanzioni dicono cose diverse. Siamo tra i Paesi che per una serie di reati hanno le pene più alte. Si può sempre fare meglio e stiamo lavorando sui tempi dell’esecuzione della pena: è stato giusto l’adeguamento salariale per le forze dell’ordine; stiamo lavorando per rendere più rapido il processo penale. Ma la ragione del malessere, al di là del singolo episodio di cronaca, non è un’escalation di reati, che non c’è se si eccettua l’aumento dei furti nella case, su cui stiamo intervenendo; è invece il disagio economico e sociale, è la qualità delle periferie».

Sui rom e sull’immigrazione Salvini ha fatto la campagna elettorale.
«Sono temi su cui la sinistra ha avuto un atteggiamento di sufficienza che va superato. Ma sarebbe un errore inseguire la Lega sul fronte della paura».

Non dirà pure che sarebbe un errore tagliare vitalizi e privilegi per inseguire Grillo? L’astensionismo si spiega anche così. Come crede che si sentano i cittadini, nel leggere che un ex consigliere regionale Pd come Frisullo in Puglia prende 10.383 euro al mese?
«Alla Camera e al Senato la questione è stata affrontata. Le Regioni hanno pessima stampa e pessimi esempi: fenomeni da esecrare, che però non spiegano un astensionismo di queste dimensioni. C’è qualcosa di molto più profondo. Una parte di società non si sente più rappresentata dai processi democratici, non si sente più inclusa nell’occupazione, nel welfare. I privilegi sono benzina sul fuoco, ma il fuoco sono le diseguaglianze sociali. Per spegnerlo occorre ribaltare le politiche economiche a livello europeo e sostenere la ripresa con politiche industriali. Deve essere questo il primo impegno del governo» .

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3 giugno 2015 | 07:25

Da - http://roma.corriere.it/notizie/politica/15_giugno_03/partito-nazione-superato-ora-dobbiamo-ricostruire-pd-3c5461ae-09b0-11e5-b7a5-703d42ecd92c.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Crimini e quote I migranti, paradosso italiano
Inserito da: Admin - Giugno 25, 2015, 07:25:46 pm
Crimini e quote
I migranti, paradosso italiano

Di Aldo Cazzullo

Immaginate di essere Cameron, il premier britannico, che ha il referendum sull’Europa a breve. O Rajoy, il suo collega spagnolo, che ha le elezioni a novembre. Oppure Hollande, bocciato nei sondaggi da 8 francesi su 10; o il suo primo ministro Valls, che ogni volta non sa se ritroverà la poltrona. O sua maestà Merkel, che tra tante debolezze rischia il delirio di onnipotenza. Vi è appena arrivata dall’Italia l’ennesima richiesta di aiuto sull’immigrazione: navi da impiegare nel Mediterraneo, quote di africani e siriani da accogliere, denari da spendere. E nello stesso momento vi è arrivata la rassegna stampa con le notizie dalla capitale italiana sulla banda bipartisan — destra e sinistra in società — che dall’immigrazione trae la sua ricchezza.

Le intercettazioni tradotte dal romanesco perdono un po’ di virulenza linguistica, ma il quadro è chiaro: la politica dell’accoglienza in Italia è in mano (anche) ad avanzi di galera, che si fanno pagare due euro al giorno preferibilmente in nero per ogni migrante, che possono scendere a un euro se i migranti sono almeno cento; tanto le cifre variano a piacimento, perché di nessuno viene registrata l’identità; non sono persone, sono numeri su cui speculare. Che figura ci facciamo? Quale Paese è un Paese che finisce sui giornali del mondo con notizie così? Con quale credibilità possiamo chiedere soccorso all’Europa? Come non capire che in questo modo forniamo un alibi perfetto agli egoismi delle altre nazioni?

Intendiamoci: l’Europa non ha la coscienza pulita. Di fatto i Paesi confinanti con l’Italia hanno sospeso gli accordi di Schengen, e gli stranieri sbarcati a Lampedusa e in Puglia vengono bloccati a Ventimiglia e al Brennero; per tacere della nuova emergenza, i profughi in arrivo sulla frontiera orientale. Di fronte a un evento destinato a segnare la nostra epoca, la risposta europea è fiacca e meschina.

Cameron offre navi per salvare i naufraghi — che vanno salvati sempre, s’intende — purché finiscano tutti in Italia. Hollande e Valls ricordano il vecchio Arafat, che all’estero parlava di pace in inglese e a casa rinfocolava le folle in arabo: quando vengono in Italia si profondono in assicurazioni e promesse, subito dimenticate al rientro in patria. Il governo fa bene a protestare e a insistere: sull’immigrazione si gioca popolarità e credibilità. Ma vicende come quelle di «Mafia Capitale» indeboliscono l’intero Paese. Nessuno scandalo potrà far dimenticare l’umanità degli abitanti di Lampedusa, il gran lavoro dei marinai e degli altri uomini in divisa, la generosità dei volontari, la mobilitazione del mondo cattolico. Ma non basta limitarsi a dire che chi ha sbagliato deve finire in galera. È un sistema politico che dev’essere rifondato, all’insegna della legalità e dell’efficienza.

Fino a quando l’Italia sarà la terra della corruzione e dell’impunità del male, sarà sempre l’anello debole dell’Europa. Per contare qualcosa nella comunità internazionale non bastano la fantasia, l’estro, la bellezza, il genio; occorre anche un po’ di onestà. Gli altri europei non sono meno corrotti di noi per natura (come dimostra la penosa vicenda Fifa); sono soltanto più rigorosi con la corruzione. E non mancheranno di rinfacciarcelo.

6 giugno 2015 | 08:33
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_giugno_06/i-migranti-paradosso-italiano-1721e4de-0c0c-11e5-81da-8596be76a029.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. L’intervista - Il capo di stato maggiore della difesa «No al ...
Inserito da: Admin - Giugno 27, 2015, 10:38:59 am
L’intervista - Il capo di stato maggiore della difesa «No al blocco navale in Libia»
Il generale Graziano: senza una risoluzione dell’Onu sarebbe un’azione di guerra

Di Aldo Cazzullo

Il generale Claudio Graziano, 61 anni, piemontese di Villanova d’Asti, si è insediato tre mesi fa come capo di stato maggiore della Difesa, e si ritrova con l’Isis in Libia, gli sbarchi sulle coste, 4 mila uomini nei luoghi più pericolosi della terra - Iraq, Afghanistan, Somalia, Libano - e ovviamente il bilancio da tagliare. Questa è la sua prima intervista.

Generale Graziano, l’Italia è davvero preparata a fare la sua parte nel Mediterraneo? O siamo del tutto alieni all’idea della guerra, o comunque della difesa?
«L’Italia è stata coinvolta in molte missioni, ha avuto molti caduti, ma non ha mai avuto un disertore. Altri Paesi ne hanno avuti. In questi anni, mai un soldato italiano ha abbandonato il suo posto. A nessuno è mai mancato il coraggio di fronte agli attacchi».

Non mi riferisco al valore delle forze armate, ma alla cultura politica del Paese.
«Guardi che la percezione dell’Italia in Europa è cambiata moltissimo in questo tempo. E anche la percezione delle forze armate in Italia: ogni anno 80 mila giovani chiedono di entrare; cercano lavoro, certo, ma sono animati dalla spinta di aiutare gli altri. Tutto cominciò con la missione in Libano guidata dal generale Angioni: fu una sorpresa per tutti. Oggi noi in Libano abbiamo il comando in una regione delicatissima, dove si incrociano i due grandi archi di crisi: quello Sud, che sale dall’Africa, e quello Est, che scende dall’Ucraina».

Oggi nella percezione degli italiani l’emergenza è legata alla Libia, e agli sbarchi incontrollati sulle nostre coste. Il suo predecessore, ammiraglio Binelli Mantelli, in un’intervista a Fabrizio Caccia del «Corriere della Sera» ha detto in sostanza che l’operazione Mare Nostrum consentiva di padroneggiare la situazione meglio di Triton.
«Non mi permetto di commentare parole del mio predecessore. Oggi noi siamo impegnati nell’operazione Mare Sicuro, un’azione aeronavale per la sicurezza e il controllo che impiega quattro navi e aerei senza pilota, e si aggiunge al lavoro di Triton per il controllo delle frontiere. Credo che possiamo dirci soddisfatti».

Ma gli sbarchi continuano. Si invoca un blocco navale. Cosa ne pensa?
«Un blocco navale, in assenza di una risoluzione Onu o della richiesta del Paese interessato, è un’azione di guerra. Si fa contro un nemico. Sarebbe controproducente. Siccome in nessun caso viene meno il dovere di salvare le vite dei naufraghi, i barconi punterebbero contro le navi del blocco».

Ora l’Europa prepara una nuova missione, che dovrebbe avere un mandato Onu. Ma secondo lei è possibile chiudere la rotta di Lampedusa?
«Attendiamo di conoscere i contorni della missione. Credo sia possibile un’operazione di contrasto che punti a inabilitare i barconi e a perseguire i criminali. Si può assumere il controllo della situazione. Certo, quella che vediamo è l’avanguardia di un fenomeno epocale, che riguarda decine di milioni di uomini in fuga da carestia e guerra. Non è più un problema militare ma globale. La Libia è il collo di bottiglia di flussi che partono dall’Eritrea, dalla Somalia, dal Ciad, dalle Repubbliche centrafricane, dal Kenya. E dalla Siria».

Cominciamo dal collo di bottiglia. Ci sarà un intervento occidentale in Libia?
«In Libia l’Italia ha sempre svolto un ruolo di leadership, per interesse nazionale, per vicinanza culturale, per ruolo storico. Avevamo pure addestrato forze libiche, a Cassino. Anche oggi non abdichiamo alle responsabilità. Ma l’esperienza ci insegna che, per essere credibile e avere consenso, l’attività dev’essere sviluppata dalle forze locali; altrimenti si è all’anticamera dell’insuccesso. Prima ci deve essere un accordo tra le varie fazioni. Noi possiamo aiutare i libici a stabilizzare la Libia, sia con l’azione diplomatica, sia fornendo il supporto necessario».

Gli Stati usciti dalla fine dell’era coloniale non esistono più. L’Isis controlla vasti territori tra Siria e Iraq. Prima o poi bisognerà intervenire.
«Stiamo già intervenendo. L’Italia è in Iraq. Facciamo parte della coalizione internazionale anti Isis. Abbiamo 500 uomini tra il Kuwait, dove c’è l’aviazione, Erbil e Bagdad, dove siamo impegnati in un’azione di advice and assist: contribuiamo ad addestrare le forze irachene. Il problema deve essere risolto a terra dagli iracheni: noi dobbiamo metterli in condizione di poterlo fare. In Afghanistan è accaduto: le forze afghane dieci anni fa erano deboli e disorganizzate; oggi contano su 350 mila uomini tra soldati e poliziotti».

In Siria il nemico dell’Isis è Assad, dobbiamo sostenerlo?
«Noi non siamo in Siria. Le speranze sono affidate alla politica e alla diplomazia. E le regole della diplomazia inducono talora a considerare il nemico amico. Le organizzazioni internazionali devono dare una risposta globale alla crisi del Medio Oriente, perché tutto è intrecciato: collasso degli Stati; flussi migratori; terrorismo».

Gli sbarchi possono portare in Italia militanti dell’Isis?
«Come ha detto il capo della polizia Pansa, non ci sono evidenze che ci siano terroristi sui barconi. Un’organizzazione può infiltrare i suoi uomini in molti modi, anche senza i migranti. Il terrorismo c’è: l’Isis è in Iraq, in Siria, in Libia, in Algeria, nel Sinai. Il fatto che tenda a insediarsi stabilmente piuttosto che colpire ovunque, come faceva Al Qaeda, non deve indurci ad abbassare la guardia. Ma dobbiamo tener conto della loro abilità nell’usare le strategie di comunicazione, senza farcene troppo condizionare».

Maroni propone di mettere i soldati sui treni, «pronti a sparare». Lei che ne pensa?
«Non commento la proposta del presidente Maroni. Mi viene in mente che la linea ferroviaria Torino-Aosta era gestita dai militari... Noi abbiamo già settemila uomini impegnati nell’operazione Strade Sicure: l’ex presidente della comunità ebraica di Roma Pacifici ci ha ringraziato ad esempio per quanto stiamo facendo nell’antico ghetto. Siamo pronti a intervenire in ogni situazione in cui lo richieda il Paese, compatibile con la nostra professionalità. La sicurezza sui treni è però legata alla professionalità della polizia ferroviaria, che ha una preparazione specifica».

Come vivono i militari la vicenda dei due marò?
«La solidità della risposta dei fucilieri di marina Girone e La Torre è un esempio per tutti. Lo è il loro orgoglio, la loro dignità. La soluzione dev’essere politico-diplomatica».

L’esercito manterrà la stessa efficienza malgrado i tagli?
«Sì. Il ministero della Difesa ha promosso il libro bianco, un documento essenziale, che dispone in modo coerente i diversi elementi della questione sicurezza: le possibili minacce, l’evoluzione degli scenari, le risorse disponibili, le lezioni apprese nei vari teatri, le nuove esigenze di personale; da qui vengono individuate le aree di prioritario interesse del Paese. In questo modo si risparmia e si ottiene uno strumento interforze. Il nostro personale è straordinario, ma tenuto conto che c’è stata una professionalizzazione accelerata tende a risultare un pochino più anziano delle medie internazionali».

Dobbiamo ringiovanire l’esercito?
«Sì, tenendo conto dell’esigenza del personale e delle sue aspettative. E dobbiamo aumentare il rapporto con il mondo sociale. Le forze armate devono operare in sinergia con il resto del Paese, di cui rappresentano un ottimo biglietto da visita».

Gli F35 vi sono proprio indispensabili? Tutti e 90?
«Sono già stati ridotti. Sono un’arma molto evoluta, indispensabile in alcuni scenari. Quando ti sparano addosso, un conto è rispondere con un mortaio da 120, un conto con una bomba sganciata da un aereo. Il numero finale sarà il frutto del processo di revisione strategica intrapreso dalla Difesa in base agli indirizzi del libro bianco».

È il centenario della Grande Guerra. Sono stati messi sullo stesso piano disertori e combattenti?
«No. L’Italia non ha messo sullo stesso piano i disertori e gli eroi che sul Piave hanno salvato la patria. È in atto una discussione per restituire dignità a chi l’aveva persa. Nella Grande Guerra abbiamo avuto oltre 600 mila morti, la metà in cento chilometri quadrati: era inevitabile che si creassero situazioni di disperazione. Cent’anni fa nessun esercito le avrebbe perdonate; ora è diverso».

Alla maturità solo il 2,5% degli studenti ha fatto il tema sulla Resistenza, impostato sul testamento del generale Fenulli. È rimasto deluso?
«Il tema storico viene tradizionalmente evitato: alla scuola di guerra l’abbiamo fatto in tre su duecento. Mi ha colpito semmai un altro dato. Accanto ai partigiani, nella Resistenza ci sono i militari. La caduta di prestigio, seguita alla gestione superficiale dell’armistizio, non ha fatto venire alla luce storie e sacrifici di cui oggi, con la nuova considerazione di cui godono le forze armate, possiamo andare orgogliosi».

21 giugno 2015 | 08:16
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Da - http://www.corriere.it/cronache/15_giugno_21/no-blocco-navale-libia-2308f284-17dc-11e5-b9f9-a25699cf5023.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Mafia Capitale e degrado, l’ultima occasione di Marino
Inserito da: Admin - Luglio 12, 2015, 04:49:06 pm
Mafia Capitale e degrado, l’ultima occasione di Marino
La città è assediata dai problemi, la morte di un bambino nella metropolitana è l’ultimo gravissimo episodio che testimonia la crisi. Ora il sindaco deve dare una svolta

Di Alzo Cazzullo

La capitale d’Italia sta diventando un caso internazionale di incuria e degrado. La morte di un bambino in una metropolitana da anni a livelli mediorientali, ulteriormente peggiorati da giornate di sciopero a singhiozzo, ne è soltanto l’ultimo, gravissimo segno. Va avanti a singhiozzo pure l’aeroporto, in piena stagione turistica e alla vigilia del Giubileo. Mentre lo scandalo di Mafia Capitale si va profilando in tutta la sua gravità: emerge un quadro sempre più serio di contaminazione tra malaffare e malapolitica; e cresce l’impressione che non sia affatto finita qui.

Se una città si riduce in tali condizioni, è inevitabile guardare al sindaco. Ignazio Marino non ha responsabilità immediate nei disastri di questi giorni (Fiumicino non è neppure nel suo Comune); ma non può considerarsi soltanto un capro espiatorio. Nessuno dubita della sua integrità personale; ma finora la sua difesa è stata debole.

Non basta addossare le responsabilità al partito. Tutti sanno che il Pd romano è inquinato da clientelismo e corruzione; non a caso è stato commissariato. Troppi segnali però indicano che Marino ha fatto poco, come sostiene nella sua relazione il procuratore Pignatone. Tre dipartimenti su 15 (Politiche sociali, Ambiente, Emergenza abitativa) in mano a Mafia Capitale; la richiesta del prefetto Gabrielli di rimuovere il direttore generale del Comune e di sciogliere il consiglio municipale di Ostia; interferenze in grado di inquinare gli appalti e le scelte delle società controllate, dall’Ama all’Ente Eur: gli elementi raccontati sul Corriere da Giovanni Bianconi confermano che non bastano l’onestà e le buone intenzioni a liberare l’amministrazione dagli interessi criminali.

Marino non può pensare di rispondere al disagio della capitale con formule tipo «resterò fino al 2023», come se avesse la rielezione in tasca. Non può illudersi di continuare come se nulla fosse. Deve dimostrare di essere capace di uno scatto. Deve aprire una nuova stagione. Costruisca un’altra giunta, di altro livello, aperta a tecnici non legati ai partiti, a personalità della cultura e delle professioni, a esponenti di primo piano della società civile. Ce ne sono molti, disposti a fare qualcosa per la loro città. Se Roma è sporca, caotica, corrotta, lo si deve anche a una parte dei suoi cittadini, che forse la amano più a parole che con i comportamenti. Chiunque contrasti un tono medio di accidia e degrado morale rischia l’impopolarità. Marino però è riuscito benissimo a diventare impopolare, senza incidere sui comportamenti viziosi. È arrivato il momento di ribaltare il quadro.

Tra le sue grandi risorse, Roma ha una fortissima identità (i romani da più generazioni sono pochi ma i nuovi arrivati diventano romani rapidamente), segnata da tolleranza, ironia, accortezza, capacità di adattamento. Il confine con il menefreghismo, il cinismo, l’astuzia, l’arte di arrangiarsi è molto labile, e spesso è stato oltrepassato. Ma ora una maggioranza crescente di romani, al di là degli schieramenti ideologici, avverte la necessità di un cambiamento profondo, di una ricostruzione incentrata su regole, legalità, buona amministrazione, valori etici e anche estetici. Se Marino è in grado di prendere la testa di questo movimento, lo faccia, e dimostri in primo luogo di saper cambiare se stesso e la propria amministrazione. Se non è in grado, sarebbe meglio per lui lasciare di propria volontà, senza essere costretto dalla forza delle cose. «Fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce» è scritto sul profilo del sindaco su WhatsApp. Una colta citazione di Lao Tse. Qualcuno gli ricordi che era anche il motto di Giulio Andreotti.

11 luglio 2015 | 07:56
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_luglio_11/mafia-capitale-degrado-l-ultima-occasione-marino-7e97c7c4-2790-11e5-ab65-6757d01b480d.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Monti: «Atene sbaglia ma Berlino stia attenta o scatenerà una...
Inserito da: Admin - Luglio 19, 2015, 06:06:11 pm
L’intervista
Crisi Grecia, Monti: «Atene sbaglia ma Berlino stia attenta o scatenerà una rivolta degli spiriti»
«La responsabilità è della Grecia molto più che di Bruxelles e dopo il voto Tsipras ha dilapidato un patrimonio di simpatia»

Di Aldo Cazzullo

Professor Monti, come va a finire?
«Il negoziato continua. È in evoluzione ora per ora. La posizione del governo greco, per quanto disordinata, sta cambiando: Atene è disposta ad accettare più cose di prima. E nell’Eurogruppo c’è una vasta disponibilità a riprendere in esame il dossier».

Ma la Merkel dice che bisogna aspettare il referendum.
«Il più rigido mi pare Schäuble».

Se lei dovesse scommettere, punterebbe sull’uscita della Grecia dall’euro, o contro?
«Il tentativo è offrire a Tsipras qualcosa di più, in modo da indurlo a passare dal no al sì al referendum. È possibile un accordo su basi diverse dal passato: meno privatizzazioni, meno disagio sociale, una lotta più forte all’evasione e alla corruzione. Tutti i sondaggi indicano che il sì è in rimonta. E che la grande maggioranza dei greci, tra il 70 e l’80%, non vuole il ritorno alla dracma. Io, oltre a un grande amore, ho una grande fiducia nel popolo greco».

Ma la Grecia non ha gravi responsabilità?
«Certo. Se la situazione è così complessa, la responsabilità è di Atene molto più che di Bruxelles: dei governi degli ultimi decenni, e anche di Tsipras e Varoufakis, che in pochi mesi con i loro comportamenti egocentrici hanno dilapidato il patrimonio di simpatia conquistato con la vittoria elettorale».

L’Europa però non ha certo dato prova di lungimiranza.
«Qui si fa confusione. La troika non vuol dire l’Europa. E non sono mai stato tanto convinto come ora di aver fatto bene a imporre all’Italia uno sforzo che ci ha evitato la troika».

È sicuro che valesse la pena fare sacrifici, senza veder migliorare le condizioni delle famiglie e delle imprese ?
«La troika significa umiliazione e politica neocoloniale. Noi l’abbiamo evitata. Nel novembre 2011 i tassi erano quasi all’8%. Oggi i tassi sono sotto controllo».

Grazie alla Bce di Draghi.
«Il presidente Draghi non avrebbe potuto fare quel che ha fatto, se l’Italia non avesse avviato le riforme strutturali, a cominciare da quella delle pensioni, e non avesse messo ordine nei conti. Sarebbe stato accusato di favorire il proprio Paese. È stato un lavoro di punta e di tacco: prima la Merkel, al consiglio europeo 2012, si persuade a dire che gli interventi di stabilizzazioni sono giustificati; poi viene il tacco della Bce, che avvia gli interventi».

Ma dove sono oggi i frutti dei sacrifici imposti dal suo governo, che hanno depresso l’economia?
«L’economia italiana cresce la metà rispetto ai Paesi dell’Eurogruppo da 15 anni. Non è stato il mio governo a deprimerla. Anzi, con le riforme che abbiamo avviato, proseguite dai miei successori, abbiamo posto le basi per la ripresa. Quelle cose non le abbiamo fatte perché ce le ha chieste l’Europa. Le abbiamo fatte nell’interesse e per la dignità dell’Italia. Le ricordo che siamo l’unico Paese dell’Europa del Sud, Francia compresa, a essere uscito dalla procedura d’infrazione».

Il partito di Berlusconi dà una versione molto diversa di quella svolta. Parla di una cospirazione internazionale per mettere lei al suo posto.
«Sono andato a riascoltarmi il videomessaggio di Berlusconi del 24 ottobre 2012. Dice testualmente che da questa sindrome rivelatasi paralizzante “siamo infine usciti con la scelta responsabile, fatta giusto un anno fa, con molta sofferenza ma con altrettanta consapevolezza, di affidare la guida provvisoria del Paese in attesa delle elezioni politiche al senatore e tecnico Mario Monti, espressione di un Paese che non ha mai voluto partecipare alla caccia alle streghe. Il presidente del Consiglio e i suoi collaboratori hanno fatto quel che hanno potuto, cioè molto...”».

Oggi c’è Renzi. Sta guidando o sta seguendo?
«Guidando?».

Professore, ci siamo capiti: l’Italia di Renzi ha un ruolo attivo, o va a rimorchio degli altri?
«Preferirei evitare di parlare di Renzi. Non ne ho titolo: non siedo ai tavoli della trattativa».

È il presidente del Consiglio. Avrà un’opinione su di lui.
«Posso dirle questo. Renzi ama ripetere che in Europa occorre meno burocrazia e più politica. È una frase di grande grossolanità. A quale politica si riferisce? Se politica significa andare ai vertici pensando solo agli interessi di casa propria, ai sondaggi, alle elezioni successive, allora di politica ce n’è fin troppa. Se i leader, e parlo in generale, si imprigionano nello schema delle 140 battute di un tweet, allora non sono leader, ma follower. Se pensano ai dibattiti tv, dove prevali se esprimi un concetto in dieci secondi, allora saranno i populisti a prevalere; perché in dieci secondi riesci a esprimere solo tesi populiste. Era anomalo che il consiglio europeo si occupasse soltanto delle crisi finanziarie, e non dei populismi nascenti. Ora la situazione è più pericolosa. Guai a privilegiare gli interessi nazionali. Serve un Kohl, capace di perdere le elezioni pur di salvare il disegno dell’euro, che i tedeschi non volevano».

Ora c’è la Merkel. Sta vincendo la partita? O la sta perdendo?
«La Merkel vince solo se tiene la Grecia dentro l’euro e favorisce l’accordo finale. Se invece si avesse la sensazione che la Merkel e Schäuble non hanno voluto l’accordo, in Europa ci sarebbe una rivolta degli spiriti, un tumulto delle anime: uno scenario drammatico, per l’Europa e per la Germania».

Appunto: se dall’euro la Grecia dovesse uscire, cosa accadrebbe?
«Come ha detto Draghi, sarebbe un’esperienza del tutto nuova per tutti. È difficile prevedere le reazioni dei mercati, se venisse meno la certezza dell’irreversibilità della moneta unica. Qualcuno potrebbe avere la tentazione di scommettere contro altri Paesi».

Contro l’Italia?
«No. Di questo sono certo: non sarebbe l’Italia l’anello debole della catena».

Quale allora?
«Spagna e Portogallo sono messe peggio di noi, che pure abbiamo un rapporto debito pubblico-Pil più alto. Ma pensiamo piuttosto a evitare questo scenario».

Resta il fatto che l’Europa non è stata all’altezza della situazione .
«Ma l’Europa non sta violando la democrazia greca, come non ha violato la democrazia italiana. Quelle che chiamiamo regole europee non sono fatte per il piacere di qualche burocrate, ma per i greci di domani, per gli italiani di domani; per impedire di continuare a fare debiti per stare meglio oggi, e fare poi stare molto peggio i nostri figli e nipoti. Sono certo che i greci lo comprenderanno, e daranno prova di aver compreso. E io conto di poter ripetere quel che dissi nell’estate 2011, e che ora mi viene rinfacciato».

Si riferisce al video, oggetto di ironie in Rete, in cui lei indica nella Grecia il maggior successo dell’euro?
«Lo dissi da Gad Lerner. E sono convinto che presto potrò rivendicarlo: senza il pungolo della moneta unica, la Grecia non si sarebbe mai messa sulla via delle riforme per sconfiggere la corruzione, il clientelismo, l’evasione fiscale, e rendere il proprio sistema economico moderno e competitivo. Lo stesso concetto, ovviamente in una scala e in una situazione diverse, vale per l’Italia. Se vogliamo la ripresa, quella vera, anche gli italiani devono cambiare i loro atteggiamenti».

2 luglio 2015 | 07:36
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_luglio_02/mario-monti-atene-sbaglia-ma-berlino-stia-attenta-o-scatenera-rivolta-spiriti-b5dad326-2078-11e5-b510-55e71b40db58.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Gli scioperi selvaggi, il degrado delle città e l’immagine del...
Inserito da: Admin - Luglio 30, 2015, 10:09:50 pm
L’EDITORIALE
Non siamo solo questo
Gli scioperi selvaggi, il degrado delle città e l’immagine del Paese

Di Aldo Cazzullo

Occorre dire con forza che questa non è l’Italia. O, almeno, che non tutta l’Italia è così. Purtroppo il massacro mediatico che da 48 ore il giornale più famoso del mondo sta conducendo ai danni della capitale e del Paese non è fondato solo su pregiudizi; è alimentato dalle immagini che i lettori mandano al New York Times per avvalorare l’idea della sporcizia, dell’inefficienza, del degrado estetico e morale. E il fatto che molti commenti alle foto della vergogna siano nonostante tutto di simpatia per le nostre bellezze e le nostre sventure non ci consola, anzi ci amareggia ancora di più.

Forse i conducenti della metropolitana peggiore d’Europa che si fermano a singhiozzo, i piloti che bloccano gli aerei Alitalia, i custodi che chiudono il Colosseo e Pompei per assemblea non hanno compreso che simili atteggiamenti sono incompatibili con il ruolo dell’Italia nel mondo globale. Per rivendicare diritti e salari si deve cercare la comprensione dei concittadini, non esasperarli. E l’immagine di Roma e dell’Italia all’estero non è solo questione di orgoglio nazionale. È il crinale su cui si gioca il rilancio e il declino del Paese, l’opportunità di far funzionare l’accoglienza, le infrastrutture, l’industria culturale - con i posti di lavoro qualificati che ne derivano - e il rischio di sprofondare il più grande patrimonio artistico del mondo in una Disneyland di serie B, dove non c’è neanche da divertirsi.

Purtroppo questo non l’ha capito neppure Ignazio Marino. Anche l’incapacità di risolvere un’impasse politica che si trascina da mesi è il metro della crisi del Paese. Il sindaco appare in fase confusionale. In realtà ha davanti a sé solo due strade: o costruisce una nuova giunta di alto livello, senza cedere agli interessi dei gruppi di pressione e dei comitati d’affari; oppure si dimette. Ma la partita che si decide in questi mesi va oltre il destino di una giunta e di una città. Sono la funzione e il futuro del Paese a essere in discussione. E non soltanto perché chance come l’Expo e il Giubileo non torneranno.

I tesori italiani non sono stati certo scoperti adesso. Ma oggi più che mai sono preziosi. Perché nel mondo globale non è mai stata tanto forte la domanda di bellezza, di cultura, di arte, di storia, e anche del genio, dei saperi, della creatività con cui la bellezza è stata prodotta. L’Italia che percepisce il turismo come rendita anziché come servizio, che non investe sul recupero e la valorizzazione dei suoi beni, che chiude Fiumicino prima per un banale incendio divenuto devastante rogo e poi per scioperi - a fine luglio -: è un’Italia non all’altezza di se stessa.

Per fortuna c’è un’Italia diversa. Che ha tenuto duro negli anni neri della crisi, investendo sulla qualità e sulla formazione, lavorando ai restauri e alla costruzione di reti museali ed espositive, affinando attraverso la ricerca e la tecnologia l’arte di fare le cose buone e le cose belle, conquistando nuovi mercati. È un’Italia che finisce di rado sulle pagine dei giornali internazionali, ma che va raccontata e rappresentata. Per una volta dovrà pur essere la moneta buona a cacciare quella cattiva. Non possiamo rassegnarci a vedere migliaia di giovani architetti, archeologi, ingegneri, artisti emigrare all’estero, e ad essere - a volte giustamente - sbeffeggiati da stranieri che si fermano per il tempo di scattare qualche umiliante fotografia.

27 luglio 2015 (modifica il 27 luglio 2015 | 07:06)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_luglio_27/italia-degrado-scioperi-non-siamo-solo-questo-editoriale-cazzullo-c0f83a20-341c-11e5-b933-63839669b549.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. La Grecia e le illusioni del fronte antieuropeo
Inserito da: Admin - Agosto 02, 2015, 04:40:05 pm
La Grecia e le illusioni del fronte antieuropeo

Di Aldo Cazzullo

Dunque la vacanza ateniese non è stata gratis. Anzi. Il conto del semestre pueblo unido del duo Tsipras -Varoufakis, e della brigata internazionale portatasi in supporto ad Atene, è durissimo. E a pagarlo saranno i greci. Non gli armatori, le ragazze chic di Kolonaki, i magnati con i conti all’estero; ma i pensionati, gli studenti, i poveri, il variegato fronte che ha sostenuto Syriza e i suoi alleati della destra nazionalista, ha votato No al referendum, e ora subisce un piano molto più punitivo di quello che avevano ottenuto i vecchi, screditati partiti. E il conto dei populismi rischia di essere altrettanto salato in altri Paesi. A cominciare dal nostro.

Intendiamoci: c’è poco da esultare per la vittoria della linea del rigore. Esiste ormai una questione tedesca. La Germania ha raggiunto con la pace l’obiettivo che aveva fallito scatenando due guerre mondiali: conquistare l’egemonia in Europa. Non ne sta facendo un uso generoso, e neppure lungimirante. Tsipras l’hanno creato un po’ anche la Merkel e Schäuble: se fossero stati meno arcigni prima, non si sarebbero ritrovati poi ad Atene un governo rossobruno. Il punto è che la strana alleanza dei populisti - siano di destra, di sinistra o post ideologici - ha trovato terreno fertile anche lontano dall’Egeo. La rivolta contro i partiti tradizionali, le forme consuete di rappresentanza, le istituzioni europee e l’austerity teutonica percorre l’intero continente, e prende forme molto diverse. Legittime, comprensibili; ma non indolori.

In Spagna, dove si vota tra quattro mesi, il movimento degli Indignati ha filiato sia Podemos, una forza di sinistra in aperta polemica con il partito socialista, sia Ciudadanos, centristi che insidiano i popolari di Rajoy. In Francia il populismo ha il volto nazionalista di Marine Le Pen. In Italia il fronte rossobruno di Atene ha un sostegno che va da Fassina a Salvini e alla Meloni, passando per i falchi di Forza Italia e per il Movimento 5 Stelle, ai massimi storici nei sondaggi. In mezzo, postdemocristiani che non toccano palla da anni, Berlusconi che oscilla tra il rancore verso la Merkel e gli interessi aziendali, e Renzi che in Europa fatica molto a farsi ascoltare sia sull’emergenza migranti, sia sulla necessità di nuovi investimenti per lo sviluppo.

È inevitabile che le sirene del populismo antieuropeo e antitedesco traggano consensi da questa situazione. Ma sarebbe illusorio pensare che l’uscita dalla moneta unica, o il rifiuto dell’Europa, siano una liberazione gioiosa.
Contro la dura logica di Berlino e di Bruxelles si sono scontrati tutti i governi italiani. Sia quelli, presto diventati impopolarissimi e condannati alla damnatio memoriae (Amato 1992, Monti 2012), chiamati a porre rimedio ai disastri altrui. Sia quelli eletti dal popolo con promesse destinate all’amara verifica dei rapporti di forza continentali: nella moneta unica siamo entrati ai tempi di Prodi con una tassa, chiamata nobilmente eurotassa anche se servì anche a coprire magagne nostrane, e ci siamo rimasti ai tempi di Berlusconi rinunciando all’illusione elettorale delle due aliquote secche al 23 e 33%. Ora Salvini ne promette una sola al 15, uguale per tutti, con ulteriori detrazioni a garantire la progressività: sarebbe meraviglioso, no?

La verità è che la battaglia contro l’austerity e per la crescita passa attraverso una tela faticosa di alleanze internazionali, di riforme interne, di tagli alla spesa (finora finiti nei libri più che nei bilanci), e infine attraverso un confronto durissimo con una cancelliera che ha vinto tre elezioni, si appresta a vincerne una quarta nel 2017 e dietro ha una grande coalizione e un Paese solido. Insomma: sarà un viaggio lungo e difficile; e, come dimostra il caso Tsipras, le scorciatoie sono tutte bloccate.

16 luglio 2015 (modifica il 16 luglio 2015 | 08:24)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_luglio_16/grecia-illusioni-fronte-antieuropeo-02d84f54-2b7e-11e5-a01d-bba7d75a97f7.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. La Resistenza oltre i partigiani Per una lettura non solo «rossa»
Inserito da: Admin - Agosto 06, 2015, 11:34:46 am
Il dibattito
La Resistenza oltre i partigiani
Per una lettura non solo «rossa»
Risposta a Giampaolo Pansa sul libro «Possa il mio sangue servire» (Rizzoli).
«Bisogna superare l’idea che tra gli antifascisti quelli che contavano erano solo i comunisti»

Di Aldo Cazzullo

Attendevo con curiosità, avendo scritto un libro in difesa della Resistenza, la replica di Giampaolo Pansa, arrivata domenica dal suo Bestiario su «Libero». Curiosità dovuta al fatto che le critiche sono sempre più utili degli elogi, a maggior ragione quando provengono da un maestro di giornalismo. Oltretutto Pansa, cavallerescamente, ricorda la sera a Reggio Emilia in cui ci trovammo a fronteggiare gli energumeni venuti a impedire la presentazione del suo libro (Giampaolo tace i nomi dei colleghi che se la diedero a gambe; e anch’io taccio). Sulla Resistenza restiamo però in dissenso.


Il punto non è Piazzale Loreto. Fu un crimine: il corpo del nemico ucciso va sempre rispettato. La tesi su cui Pansa ironizza - il corpo di Mussolini fu esposto anche per comunicare a tutti, in epoca pre-televisiva, che il Duce era morto davvero e il fascismo davvero finito - non è mia, la cita Umberto Eco nel suo ultimo libro. Personalmente la trovo persuasiva. Tentare di capire il motivo di un fatto non significa giustificarlo; tanto meno può essere giustificato lo scempio che del corpo fu fatto.


Il punto è che Pansa, pur avendo intitolato una delle sue numerose autobiografie Il revisionista , pare fermo all’idea della Resistenza come «cosa di sinistra»: una guerra «combattuta tra due esigue minoranze»; e tra gli antifascisti quelli che contavano davvero erano i comunisti. « “La Resistenza è rossa” divenne lo slogan più urlato nelle celebrazioni del 25 aprile: in due parole descrivevano una realtà - sostiene Pansa -. Certo, la guerra partigiana non fu soltanto un affare dei comunisti. È una verità conosciuta da sempre». Forse conosciuta, ma a lungo taciuta, o passata in secondo piano. Invece è tempo di liberarsi dal senso comune della Resistenza sempre e solo rossa.


Intendiamoci: molti partigiani erano comunisti. Liquidarli come fanatici che volevano solo «fare dell’Italia un satellite di Mosca» è un’argomentazione perfetta per la polemica di oggi; ma all’epoca l’urgenza era scegliere da quale parte stare, con o contro i nazisti invasori. Molti comunisti diedero la vita. Molti tacquero sotto le torture. Altri ancora si macchiarono di crimini. In Possa il mio sangue servire ho dedicato un capitolo a Porzûs, dove partigiani comunisti uccidono partigiani «bianchi» delle brigate Osoppo: tra loro c’era Francesco De Gregori, lo zio del cantautore che ne porta il nome; e c’era Guido Pasolini, che prima di essere ammazzato scrive al fratello Pier Paolo per farsi mandare dalla madre un fazzoletto tricolore, perché vuole indossare quello e non «lo straccio rosso» (divenuto pudicamente in altri libri «lo straccio russo»); nel post-scriptum Guido chiede scusa al fratello, che sa essere bravissimo scrittore, perché non ha avuto tempo di rileggere la lettera, in quanto deve «salire in montagna immediatamente».


Non tutti i partigiani delle Garibaldi erano comunisti: molti erano ragazzi senza partito, che volevano sfuggire alla leva di Salò. Poi c’erano i partigiani cattolici, monarchici, socialisti, giellisti. Non era di sinistra Edgardo Sogno, che passò il resto della vita a combattere i comunisti, ma allora si batteva perché gli Alleati rifornissero anche i garibaldini, di cui riconosceva il valore. Non era di sinistra il generale Raffaele Cadorna (nipote del generale che prese Roma, figlio del comandante della Grande guerra), che si fece paracadutare con una gamba lesa nell’Italia occupata. Non era di sinistra Maggiorino Marcellin, il sergente degli alpini che in Val Chisone fronteggiò con mille uomini le SS e la Luftwaffe.

Non era di sinistra il colonnello Montezemolo, che guidò la Resistenza a Roma prima di essere torturato e ucciso alle Ardeatine. Non erano di sinistra i banchieri e gli industriali che per una volta portarono i soldi dalla Svizzera in Italia per sostenere la guerra di liberazione. Non erano di sinistra i tre carabinieri di Fiesole - Vittorio Marandola, Fulvio Sbarretti, Alberto La Rocca - che vanno a farsi ammazzare in una domenica di agosto, un pomeriggio pieno di sole, per salvare dieci ostaggi civili che non hanno mai conosciuto. Non era di sinistra don Ferrante Bagiardi, che quando vede fucilare 74 suoi parrocchiani sceglie di morire con loro dicendo: «Vi accompagno io davanti al Signore». Non era di sinistra suor Enrichetta Alfieri, che rischiò la vita per salvare i prigionieri dei fascisti a San Vittore: al processo di beatificazione testimoniarono due di loro, due pericolosi rivoluzionari: Indro Montanelli e Mike Bongiorno.


Il punto è che la Resistenza non è esaurita dalla guerra partigiana. Ci furono molti modi di dire no ai nazisti e ai loro collaboratori. Operai che scioperarono per boicottare la produzione bellica tedesca. Imprenditori che salvarono i loro operai dalla deportazione in Germania. Ferrovieri che rallentarono i treni per consentire ai deportati di saltare giù. Medici che firmarono certificati falsi pagando di persona. Francescani che aprirono i loro conventi agli ebrei. Contadini che non amavano i partigiani, ma fecero la scelta più rischiosa, accettando di aiutarli. E gli oltre 600 mila internati in Germania, che preferirono restare nei lager nazisti in condizioni drammatiche piuttosto che andare a Salò a combattere altri italiani. Quasi 90 mila militari morirono dopo l’8 settembre: i fucilati di Cefalonia, i bersaglieri che si batterono al fianco degli Alleati, e appunto le vittime dei lager. Di loro non si parla mai. È il momento di riconoscere che la Resistenza è patrimonio della nazione, non di una fazione.

23 giugno 2015 | 09:13
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Da - http://www.corriere.it/cultura/15_giugno_23/resistenza-oltre-partigiani-una-lettura-non-solo-rossa-cazzullo-pansa-ab418710-1976-11e5-9779-e399e180b2ac.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Una lunga estate choc ma l’Europa è meno fragile
Inserito da: Admin - Agosto 22, 2015, 05:26:27 pm
Una lunga estate choc ma l’Europa è meno fragile

Di Aldo Cazzullo

L’estate che rischiava di essere l’ultima per l’Europa disegna alla fine uno scenario meno peggiore del previsto. Una stagione cominciata con l’Unione a pezzi e la moneta unica per la prima volta dichiarata non irreversibile si chiude con una prospettiva di ricostruzione politica e di ripresa economica, per quanto ancora troppo debole. Un’occasione da non lasciar cadere.

Due mesi fa si guardava alla Grecia come al primo tassello di un domino letale destinato a far crollare l’intera impalcatura della costruzione europea. E si guardava alla Germania come a un vampiro avido di sangue altrui. Nel frattempo qualcosa è accaduto. La Merkel, pur con i suoi errori e i suoi limiti, è riuscita a far approvare dal Bundestag il piano di aiuti ad Atene, con un margine di dissenso del tutto fisiologico in una grande coalizione, e in ogni caso non superiore rispetto ad altre votazioni meno cruciali. Ora Tsipras, dopo la primavera spensierata e l’azzardo del referendum, prende atto che il suo governo ha cambiato sia politica sia maggioranza, e coerentemente indice elezioni anticipate cui si presenta non più come capo populista, ma come leader capace di amputare le estreme (rosse o brune che siano) e di proseguire lungo un cammino di risanamento che per quanto difficilissimo si è dimostrato l’unico possibile.

Negli stessi mesi, le grandi potenze mondiali hanno rivelato lacune che sino a poco fa apparivano ben dissimulate. Il crollo della giovane Borsa di Shanghai è il segnale d’allarme che conferma gli squilibri non solo finanziari ma anche politici e sociali della crescita del gigante cinese. In America il potere ormai poco più che simbolico di Obama lascia spazio a una stagione elettorale lunga 14 mesi, dall’esito incertissimo, in cui si confrontano quelli che in termini polemici si potrebbero definire vecchi arnesi — la moglie di Clinton e il secondo figlio di Bush — e outsider improbabili come Joe Biden e Donald Trump. Questo ovviamente non significa che l’Europa esangue e litigiosa di giugno sia divenuta l’anello forte del mondo globale; magari avessimo l’energia delle economie emergenti e la capacità di rinnovamento che la democrazia americana potrebbe mostrare pure stavolta. Significa, più realisticamente, che il mondo globale ha bisogno di un’Europa forte, stabile, capace di coesione e di visione.

Per quanto i segnali della rentrée siano incoraggianti (solo la politica italiana è felicemente in vacanza, essendosi occupata in agosto quasi solo di Rai), sarebbe sbagliato trarre conclusioni premature. La vera partita è ancora da giocare; e non soltanto perché l’ennesimo piano di salvataggio della Grecia rappresenta appena una chance, non certo una garanzia di successo. Il vero modo per battere i populismi antieuropei, usciti suonati dalla battaglia di Atene, è costruire una vera Unione politica, con quote di sovranità elargite non a una sovrastruttura burocratica o a un’emanazione germanica, ma a istituzioni democraticamente rappresentative e responsabili. Se ne discute da anni. La Merkel a parole si dice pronta. Hollande ha fatto una proposta interessante. Il bistrattato Rajoy potrebbe uscire meno malconcio del previsto dalle elezioni spagnole di novembre. Cameron affiderà presto il ruolo britannico nel continente all’ordalia del referendum. Quanto a Renzi, si attende che batta un colpo. Per una volta, il momento è propizio. Ma non è un momento che possa durare in eterno.

21 agosto 2015 (modifica il 21 agosto 2015 | 16:14)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_agosto_21/lunga-estate-choc-ma-l-europa-meno-fragile-7b310fe8-47cd-11e5-9031-22dbf5f9fa34.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Piste di atletica senza italiani specchio di un Paese stanco
Inserito da: Admin - Settembre 01, 2015, 04:48:14 pm
Generazioni
Piste di atletica senza italiani specchio di un Paese stanco
Un tempo andavamo di fretta: c’erano i velocisti, da Berruti a Mennea, e i fondisti, da Cova ad Antibo. Dopo la favola del sudtirolese Schwazer finita male, tutto si è fermato.
Non è solo questione tecnica. Sembra che la fatica faccia sempre più paura

Di Aldo Cazzullo

Che tristezza la pista dei Mondiali di atletica senza una maglia azzurra. Lo specchio di un Paese che non corre più; almeno non a piedi.

Ieri si è chiusa, nello splendido stadio che vide gli inquietanti fasti del regime cinese all’Olimpiade 2008, la manifestazione sportiva più importante dell’anno. L’Italia del tutto assente. È stata un’edizione memorabile, con grandi emozioni restituite da Gaia Piccardi ai lettori del Corriere, con la conferma di campioni da Bolt a Farah che saranno ricordati tra i più grandi di sempre. Ma la prestazione degli azzurri è stata mortificante. Anzi, non è stata. Non soltanto non hanno vinto neppure una medaglia; non ci hanno neppure provato. In molte discipline non avevamo un solo atleta ai blocchi di partenza.

Un tempo andavamo di fretta. C’erano i velocisti: Berruti, Mennea. (Ancora ai Mondiali di Helsinki 1987 la staffetta 4 x 100 azzurra era medaglia d’argento; a Pechino 2015 non era neppure in gara). Poi abbiamo avuto grandi fondisti, da Cova ad Antibo, e maratoneti, da Bordin a Baldini. Non era l’età dell’oro, ci furono trasfusioni sospette e il salto troppo lungo di Evangelisti; ma l’atletica italiana esisteva. Ed esisteva la marcia, forse la specialità più consona a un popolo abituato a camminare, e a sacrificarsi, da Dordoni a Pamich, da Damilano a Brugnetti. Poi arrivò Schwazer, la bella favola del sudtirolese con il tricolore finita nella vergogna. Da allora si è spenta la luce.

Non è solo una questione tecnica. O di impianti, che non erano certo migliori di quelli di oggi. È che la fatica ci fa sempre più paura. E avanza l’idea che il sacrificio non serva a nulla, che la partita sia già giocata, e perduta. Ovviamente non è facile esprimere un campione, o un’eccellenza; ma oggi non si intravede neppure un movimento, una cultura, uno sforzo individuale e comune. Neanche l’immigrazione, per il momento, ci sostiene: tra i tanti africani e maghrebini di casa nostra non è ancora emerso un campione vero. Correre è uno dei mestieri che gli italiani non vogliono più fare, e non abbiamo ancora trovato nuovi italiani che ci sostituiscano.

Bisogna sempre stare attenti a maneggiare lo sport come metafora: le migliori stagioni dello sport italiano sono coincise con momenti di rinascita o di ripartenza collettivi, come l’Olimpiade di Roma ‘60 e in parte i Mondiali di calcio dell’82; altre volte i trionfi sono avvenuti nei momenti più neri, come il 1938 del secondo titolo di Pozzo e della vergogna delle leggi razziali e dell’alleanza con Hitler. Però mai come stavolta lo stato comatoso dell’atletica sembra rispecchiare l’umore di un Paese depresso, abulico, arrivato quasi al disprezzo di se stesso. Un Paese in cui lottare per emergere è considerato inutile o disdicevole. Un Paese che arriva a raccogliere decine di migliaia di firme sul web contro la sua atleta più vittoriosa di tutti i tempi, Valentina Vezzali.

Per fortuna anche questa metafora potrebbe presto rivelarsi fallace. La cronaca ci consegna ogni giorno esempi di resistenza e di tenacia, oltre a qualche segnale di ripresa. E se parte di una generazione si è arresa anzitempo — le statistiche dei giovani che non studiano, non lavorano e non si formano sono drammatiche —, un’altra parte si mostra pronta a combattere, va a cercare all’estero il lavoro che non trova in Italia, e affronta lo sport con quel giusto equilibrio di ambizione e rabbia, di talento e di lavoro. Senza arrivare agli eccessi di Mennea — i tecnici americani che videro le sue tabelle di allenamento chiesero: «L’uomo che ha fatto tutto questo è morto, vero?» —, i nostri ragazzi farebbero bene a sapere che non molto tempo fa sono esistiti loro formidabili coetanei, capaci pure di battere i velocisti neri («Steve Williams mi affiancò in curva; avevo le sue ginocchia all’altezza del mio mento» ha raccontato ancora Mennea a Emanuela Audisio). A Rio 2016 manca un anno: vediamo se nel frattempo matura qualcosa, in pista e fuori.

31 agosto 2015 (modifica il 31 agosto 2015 | 08:52)
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Da - http://www.corriere.it/cultura/15_agosto_31/piste-atletica-senza-italiani-specchio-un-paese-stanco-36f4db9a-4faa-11e5-8a95-dfd606371653.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. (D’Alema: semina zizzania come avveniva da sempre nel PCI)
Inserito da: Admin - Settembre 05, 2015, 08:56:30 am
L’INTERVISTA MASSIMO D’ALEMA

D’Alema: «Renzi danneggia il partito rinnegando la storia comune»
L’ex premier: «Sì, sono stato sprezzante, ma non cattivo. Renzi svilisce la nostra storia.
Io coperto d’insulti, per ordine dall’alto è cominciato un linciaggio di tipo staliniano»


Di Aldo Cazzullo

«Sono appena tornato dall’Arabia Saudita, e sono rimasto colpito dalla percezione terribile dell’Europa: un continente diviso, preda di febbri populiste, incapace di governare un’emergenza in cui abbiamo anche noi le nostre responsabilità. L’Europa ha contribuito a destabilizzare la regione: per quello che ha fatto, con guerre e interventi militari; e per quello che non ha fatto, disinteressandosi delle conseguenze».

Presidente D’Alema, l’Italia tenta di internazionalizzare l’emergenza migranti. A che punto siamo?
«È un tentativo apprezzabile. Si comincia a capire che occorre uno statuto europeo del rifugiato, che le frontiere italiane, greche, ungheresi sono frontiere dell’Unione e spetta all’Europa presidiarle. Ma occorre un salto di qualità. Quando ci fu la crisi in Kosovo, non facemmo nessun vertice: ci parlammo al telefono, distribuimmo i profughi: 30 mila in Italia, 40 mila in Germania, 150 mila in Albania assistiti con i soldi nostri. Non si videro barconi. Nessuno affogò. Ma era un’altra Europa. Con valori comuni».

Tra i valori in crisi ci sono quelli del socialismo europeo. Lei ha sostenuto che i socialisti scompaiono se si allineano ai conservatori, come ad Atene, e reggono se dialogano con i radicali, come a Madrid. Ma la sinistra radicale lei l’ha sempre combattuta. E ora il Pd dovrebbe inseguirla?
«La situazione è ben diversa dal 1996. Allora si trattava di liberare la sinistra dallo statalismo e di arricchirla con aspetti positivi del liberalismo. Oggi siamo dopo la grande crisi della globalizzazione neoliberista. E il riformismo socialista non riesce a ridurre disoccupazione e disuguaglianza. Ecco perché sorge il populismo, e sorge una sinistra di tipo populista, che non va confusa con l’estremismo. Podemos non ha nulla a che vedere con i gruppetti estremisti».

Ma secondo una lettura diffusa Renzi fronteggia gli stessi nemici che fronteggiò lei: le rigidità sindacali, gli antiberlusconiani militanti...
«Raffigurare la storia italiana come se berlusconismo e antiberlusconismo si fossero annullati in una litigiosità inutile, senza produrre nulla, è una raffigurazione falsa. Il centrosinistra produsse importanti cambiamenti. Abbiamo fatto la riforma delle pensioni e del mercato del lavoro, le privatizzazioni e le liberalizzazioni, la politica estera nei Balcani e in Libano. Abbiamo portato l’Italia nell’euro».
E avete avuto grandi fallimenti.
«Altre cose non ci sono riuscite. Ma rappresentare questi vent’anni come una lunga rissa in cui a un certo punto appare Renzi è una sciocchezza pubblicitaria. Al contrario, Renzi dovrebbe riconoscere quel che ha avuto in eredità. Tra gli elementi che contribuiscono alla crescita del Pil c’è l’Expo, che Renzi ha ereditato dal governo Prodi, senza avere il buon gusto di dire almeno grazie. Mi ha colpito l’atteggiamento sgradevole nei confronti del suo predecessore. Enrico Letta ha messo in sicurezza il Paese. E Renzi ne parla in modo inutilmente sprezzante».

Anche lei ha avuto modi sprezzanti.
«È vero e infatti ho sbagliato. Lo riconosco. E ho pagato un prezzo per questo. Ma posso essere stato spigoloso; non sono cattivo, né vendicativo. Io ho difeso con spigolosità le mie idee; non ho mai massacrato le persone. Ho avuto con Veltroni e Prodi un confronto politico franco. Ma ho indicato io Veltroni come vicepresidente del Consiglio. E quando Prodi cadde in modo drammatico, e non certo per mia responsabilità, l’ho indicato io come presidente della Commissione europea. Soprattutto, non ho mai svilito la nostra storia comune, come sta facendo Renzi. È vero che in passato il centrosinistra ha conosciuto divisioni. Ma oggi si rischiano lacerazioni ben più drammatiche».

Il Pd è a rischio scissione?
«Sono stato coperto di insulti per aver fornito in un dibattito qualche dato oggettivo: nei sondaggi siamo precipitati dal 41% al 32; e le regionali hanno confermato la tendenza. Per ordine dall’alto è iniziato un linciaggio di tipo staliniano. Il Pd sta abbandonando molti valori della sinistra, ma non i metodi dello stalinismo. Oggi i trotzkisti da fucilare se il piano quinquennale falliva vengono chiamati “gufi”. E siccome Palazzo Chigi ha una certa influenza sui media, vari commentatori sono intervenuti per dirmi che non si possono paragonare le Regionali alle Europee. Sono cose che credo di sapere. Paragoniamo allora le Regionali 2015 alle precedenti. Abbiamo perso 330 mila voti in Emilia, 315 mila in Toscana, 150 mila in Veneto e in Campania. In tutto sono un milione e 300 mila».

È cresciuta l’astensione.
«È vero; ma soprattutto nelle Regioni rosse. Gran parte dell’elettorato rimasto a casa era nostro. In campagna elettorale mi sono preso gli insulti di molte persone cui dicevo di votare il Pd; adesso mi insultano dall’altra parte. Il vicesegretario del mio partito dice che faccio polemiche di basso livello. Ma qui è basso il livello dei voti. Dio acceca coloro che vuole perdere».

Ripeto: il Pd è a rischio scissione?
«Non è a me che deve fare questa domanda. Mi occupo di politica internazionale. Non ho problemi, non cerco cariche...».
La si sospetta invece di acrimonia personale, per non aver avuto la carica di alto rappresentante per la politica estera europea.
«È falso, e glielo dimostro. Io lavoro a Bruxelles, e collaboro lealmente con Federica Mogherini, che apprezzo molto».

Torniamo al rischio scissione.
«L’attuale Pd non ha rotto solo con la tradizione della sinistra, ma anche con una parte importante del cattolicesimo democratico. In questo modo ha lasciato molto spazio ad altre offerte politiche. Ora il Pd è a un bivio. O ricostruisce il centrosinistra. Oppure crea un listone con il ceto politico uscito dal berlusconismo. Ho visto un sondaggio che dice che con questo listone, o come è stato elegantemente definito rassemblement, avremmo meno di voti di quelli che raccoglierebbe da solo il Pd».

Sta dicendo che bisognerebbe cambiare la legge elettorale?
«Sì. La legge è stata costruita per un Pd al 40%; oggi rischia di diventare una trappola mortale. Il ballottaggio sarebbe tra Renzi e Grillo; e dubito che i leghisti voterebbero Renzi. Farsi la legge elettorale su misura porta sfortuna: chi ci ha provato, compreso Berlusconi, ha perso. Sarebbe saggio evitare questa roulette russa, che rischia di consegnare il Paese neanche a una maggioranza, ma a una minoranza populista».

Non vorrei sembrarle insistente, ma se si dà il premio elettorale alla coalizione anziché alla lista, allora nel Pd diventa possibile una scissione da sinistra.
«Questo deve chiederlo a Speranza o a Cuperlo. Io sto dicendo un’altra cosa. Qui è in gioco l’assetto del sistema democratico. Se si sceglie una legge elettorale che sacrifica la rappresentanza alla governabilità, allora bisogna riequilibrare il sistema con garanzie, contrappesi, tutela dei diritti fondamentali dei cittadini: a cominciare dall’elezione diretta dei senatori. Lo stesso vale per la riforma fiscale. Un conto è tagliare le tasse sul lavoro e sulle imprese; un altro è tagliare le tasse sulla casa ai benestanti. Quello fu uno dei terreni di sfida tra Prodi e Berlusconi. Renzi ha scelto la posizione di Berlusconi».

Renzi sostiene che sta facendo le cose che lei aveva intenzione di fare, dalle riforme istituzionali al superamento dell’articolo 18. Avete in comune pure il dialogo con Berlusconi, e lo scontro con gli antiberlusconiani. Come quello che lei sostenne al Palasport di Firenze con Paul Ginsborg, all’apice della stagione dei girotondi.
«Berlusconi nel 2001 venne in elicottero a Gallipoli per cacciarmi dal Parlamento. Nel 2013 mi disse che non avrebbe mai potuto votarmi per il Quirinale perché a destra ero considerato il peggiore avversario. Ricordo bene il confronto pubblico con Ginsborg. Lui aveva scritto nei suoi libri cose diverse da quelle che avevo scritto nei miei. Ma il confronto delle idee richiede che ci siano delle idee».

Renzi le rinfaccia che non può difendere l’Ulivo l’uomo che a Gargonza lo affossò.
«Io non sono mai stato un ulivista nel senso ideologico del termine. A Gargonza contrastai l’ideologia della supremazia della società civile sulla politica: tema di una certa attualità. Ma l’Ulivo io contribuii a costruirlo e portarlo al governo, con oltre il 40%: al di sopra del livello massimo del Pd attuale».

Che effetto le fa vedere quasi tutti i suoi collaboratori di un tempo schierati con Renzi? Rondolino, Velardi...
«Velardi si schierò già con Lettieri e la Polverini».

...Latorre, Orfini.
«Mi fa un certo effetto di tristezza. Colpisce la solerzia con cui alcuni si impegnano nelle polemiche contro di me. Anche questo appartiene al metodo staliniano: fare attaccare i reprobi dai vecchi amici, dai familiari».

Renzi ha torto anche quando dice che l’alternativa a lui non è un Pd più a sinistra, è Salvini?
«Questo è lo scenario che lui preferisce. Ma bisognerà vedere se nel centrosinistra emergerà nel prossimo futuro una personalità in grado di contendere a Renzi la leadership. Non bisogna sottovalutare un fatto. A destra la legge della convenienza funziona. A sinistra no. A sinistra è più forte la legge della convinzione».

Che cosa intende dire?
«Che è avvenuta una cosa più grave di una rottura politica; una rottura sentimentale. Un parte degli elettori di sinistra hanno rotto con il Pd, e difficilmente il Pd li potrà recuperare. Io ho litigato con molte persone che mi hanno detto: “Non vi ho votato e non vi voterò mai più. Non siete più il mio partito”. E non lo dice un gufo; lo dice uno che resta nel Pd, seppur maltrattato. Sarebbe saggio cambiare tono. Perché c’è qualcosa in Renzi che va al di là delle scelte politiche; è proprio questo tono sprezzante e arrogante, verso le persone del nostro stesso mondo, verso la nostra stessa storia. Berlusconi e Bossi si insultarono, si querelarono, ma il giorno dopo per convenienza si misero d’accordo. A sinistra questo non può accadere. Siamo fatti diversamente».

3 settembre 2015 (modifica il 3 settembre 2015 | 09:46)
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_settembre_03/renzi-danneggia-partito-rinnegando-storia-comune-f54f8b48-51f9-11e5-aea2-071d869373e1.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Renzi: «Vado ovunque, ma se devo scegliere preferisco Bono Vox»
Inserito da: Arlecchino - Settembre 06, 2015, 05:37:40 pm
L’incontro a CERNOBBIO
Renzi: «Vado ovunque, ma se devo scegliere preferisco Bono Vox»
Il premier al Forum Ambrosetti: «Un anno fa non sono venuto perché sarebbe stato un convegno: stavolta ho risultati da rivendicare, non buone intenzioni»

Di Aldo Cazzullo, inviato a Cernobbio

CERNOBBIO «A me piace andare dappertutto: in una rubinetteria come l’anno scorso, a Cernobbio come oggi, al festival dell’Unità e al Gran premio di Formula Uno come sto per fare. Posso vedere i grandi professori, così come ora incontro Bono Vox; che mi interessa di più», dice sorridendo Matteo Renzi.

Un anno fa evitò Cernobbio, andò a inaugurare la rubinetteria dei fratelli Bonomi a Gussago, periferia di Brescia, e disse agli operai: «Io oggi avrei dovuto essere in un albergo a cinque stelle, dove si radunano professoroni che mangiano tartine al salmone e non ne azzeccano una da vent’anni. Invece sono qui, con voi. Perché là si discute, qui si fa. Là si enunciano i problemi, qui si risolvono. Loro hanno fallito, voi date speranza al Paese spaccandovi la schiena...». Ieri Renzi è arrivato nell’albergo a cinque stelle in elicottero, tra banchieri, finanzieri, presidenti di società pubbliche da lui nominati.

«Io mi diverto in ogni caso - racconta al «Corriere» -. Mi sono divertito ad andare dai ciellini a dire che vent’anni di berlusconismo hanno bloccato il Paese. Oggi mi sono divertito a dire all’establishment italiano che i salotti buoni sono chiusi per sempre. Che la logica degli «amici degli amici» è finita. Che la stagione del capitalismo di relazione appartiene al passato. Che il sindacato ha fatto danni, ma i patti di sindacato ne hanno fatti ancora di più. Che la politica deve cambiare e sta cambiando, ma pure l’imprenditoria deve cambiare uomini e logiche, e aprirsi a una nuova generazione. E a dire che secondo la stragrande maggioranza degli economisti gli 80 euro non sarebbero serviti a niente, mentre ora Bankitalia sostiene che hanno fatto ripartire i consumi. Qui non se ne saranno accorti; chi guadagna 1200 euro al mese sì».

Il moderatore Gianni Riotta scherza: «È la prima volta che Renzi viene a Cernobbio, voi potrete dire ai nipoti: io c’ero». Applauso. L’atmosfera è di apertura di credito, con due piccole tifoserie opposte, odiatori e supporter, guidate spiritualmente da Renato Brunetta e dal finanziere anglo renziano Davide Serra: «Io conto gli anni della politica italiana a partire da questo governo. Avanti Renzi e dopo Renzi». Guardi che lo diceva anche Enrico La Loggia a proposito di Berlusconi... «L’Italia ha quattro jolly: tassi al minimo, euro più debole, petrolio basso». E il quarto? «Il quarto jolly è Matteo, no?». Anche Brunetta è ottimista sulle sorti del premier: «Non mangia il panettone. Cade tra poche settimane. È un pugile suonato: ha preso tante di quelle botte che basta uno

schiaffetto per mandarlo al tappeto. E dopo non si va a votare; si fa la grande coalizione. Con un premier di centrodestra. O con Mario Monti, se necessario».

Monti è in sala. Come Enrico Letta, che si infila in ascensore.
Renzi: «Stavolta ho evitato di polemizzare con i predecessori. Non era la sede, non era il momento. Del resto i fatti sono sotto gli occhi di tutti: il Parlamento è lo stesso del 2013. Ma prima non riusciva a eleggere il presidente della Repubblica; ora l’ha eletto. Le riforme erano impantanate; adesso vanno avanti». C’è l’accordo con la minoranza Pd sulle nuove regole per l’elezione dei senatori? «No. Si sta discutendo. A me va bene tutto: il listino collegato alle elezioni regionali, oppure delegare la scelta alle Regioni. L’importante è che non si rivoti un articolo che è già stato votato due volte». Argomento ostico per gli stranieri, quasi tutti grandi ex, da Shimon Peres che spiega la sua idea visionaria di un’Onu delle religioni per fermare le guerre, a Kofi Annan, innamorato del lago di Como: «Lasciata la guida delle Nazioni Unite, mi ritirai qui in incognito. Dopo tre mesi ero in crisi d’astinenza e andai in paese a cercare i giornali. Mia moglie mi disse: “Così ti riconosceranno”. L’edicolante in effetti mi fece: “Ma io la conosco! Lei è Morgan Freeman!”».

Varoufakis abbronzatissimo ammonisce Renzi: «È davanti alle sue colonne d’Ercole. Può sfidare l’ortodossia europea dell’austerity. Vedremo se ne ha la forza». Davide Serra: «Non date retta a quest’uomo, sa come lo chiamiamo noi a Londra? Varoufucker. Matteo non ha bisogno di lezioni da nessuno. È business on: sempre sul pezzo. On the way: sulla strada giusta». Scusi Serra, lei è italiano e sta parlando a un giornale italiano: perché non parla italiano? «Io non leggo i vostri giornali, io leggo solo Ft, Times e Bloomberg».

A dire il vero, il premier dribbla le domande più tecniche: Galateri chiede lumi sul mercato di capitali, Abete sulle garanzie per il credito alle piccole imprese, Granata sugli equity swap; tutti e tre vengono rinviati al ministro Padoan, «l’uomo più prudente del mondo», che parla stamattina. Scusi Serra, ma Renzi sa di economia e finanza? «Io conosco sia Cameron, sia Hollande, sia Merkel; e le posso assicurare che Matteo sa di economia più di Cameron, più di Hollande, più di Merkel. Quelli di Bankitalia hanno alzato il sopracciglio perché non conosceva il primary surplus, l’avanzo primario; ma ci ha messo tre secondi a capirlo». Brunetta: «Di economia non sa niente! Niente! Ha copiato da noi l’idea di abolire la tassa sulla prima casa, ma l’Europa lo impedirà: altrimenti lo vorranno fare tutti, perché tutti hanno le elezioni».

Dice Renzi che «un anno fa non sono venuto a Cernobbio perché sarebbe stato un convegno: mi sarei dovuto limitare a un elenco di buone intenzioni. Stavolta avevo risultati da rivendicare, in particolare davanti agli investitori internazionali; e mi pare che la loro reazione sia stata positiva. Non sto dicendo che va tutto bene, anzi. Se cala il prezzo del petrolio è un bene, se crolla è un male; perché destabilizza ulteriormente le regioni più calde del pianeta, il NordAfrica, il Medio Oriente, la Nigeria. Ma l’Italia c’è, sui migranti l’Europa sta venendo sulle nostre posizioni. L’importante è che tutti, anche le banche e le imprese, trovino il coraggio di cambiare». Brunetta: «Per fortuna ci siamo. L’impostore sta per venire scoperto, l’imbroglione è sul punto di essere smascherato, l’abusivo sta per pagare il suo azzardo morale». Serra: «Brunetta, come D’Alema, Tremonti, Bersani, mi ricorda il circo Togni. Uno spettacolo grottesco che appartiene al passato. Vedremo se gli italiani preferiscono Matteo o il circo Togni».

6 settembre 2015 (modifica il 6 settembre 2015 | 08:51)
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_settembre_06/premier-vado-ovunque-ma-se-devo-scegliere-preferisco-bono-vox-ccaa1a7a-545e-11e5-b241-eccff60fea73.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Migranti, quella lezione tedesca per la destra di casa nostra
Inserito da: Arlecchino - Settembre 11, 2015, 11:46:02 am
Migranti, quella lezione tedesca per la destra di casa nostra

Di Aldo Cazzullo

L’accoglienza dei profughi in Germania non è la scelta di un governo di sinistra. È la scelta del leader del centrodestra europeo, Angela Merkel. E l’organizzazione è gestita - nonostante qualche mugugno - dal governo bavarese, dominato da sempre dalla destra identitaria e dura del «toro» Strauss e di Stoiber. Ma la destra italiana, dov’è? È pronta a fare la propria parte, nelle regioni e nelle città che amministra, o è ferma alla propaganda? È per il modello tedesco, o per quello ungherese? L e immagini storiche dell’arrivo dei siriani a Monaco sono destinate a restare nella memoria per molte ragioni. Evocano un contrappasso della storia: i persecutori del secolo scorso che accolgono i perseguitati del nostro tempo. Sono anche il segno di un risveglio tardivo: per troppo tempo i Paesi più esposti al flusso migratorio - l’Italia, la Grecia, la stessa Turchia, che non fa parte dell’Ue ma ha retto finora il peso maggiore della crisi siriana - hanno chiesto invano agli altri Paesi europei di farsi carico di un’emergenza epocale. Se Berlino e Bruxelles si fossero mosse prima, si sarebbero evitati lutti ed esasperazioni. Ma lo scatto della Germania rappresenta per l’Italia una lezione politica.

La Merkel ha saputo fronteggiare la xenofobia che ha visto montare alla propria destra. Le immagini degli attacchi ai centri di accoglienza sono state decisive per indurla alla svolta di questi giorni tanto quanto le fotografie che hanno percosso la coscienza del mondo. I cristiano sociali della Baviera hanno fatto il resto.

E il conservatore Cameron per la prima volta non si chiama fuori. In Europa si affaccia, sia pure in ritardo, una destra della legalità e della responsabilità; ovviamente non disponibile ad accogliere chiunque, ma determinata a non respingere più chi fugge davvero dalla guerra. In Italia siamo ancora alla rissa, con Renzi che distingue tra esseri umani e bestie, Salvini che si sente chiamato in causa e gli dà del verme. E siamo alle diverse varianti del populismo, consolatorio o allarmista; al solito schema della sinistra buonista e della destra cattivista, dell’«accogliamoli tutti» e del «prendeteveli a casa vostra». Per fortuna, al di là di qualche scena di isteria dovuta più che altro alle carenze organizzative del governo e alle strumentalizzazioni politiche dell’opposizione, gli italiani si sono comportati in questi mesi con umanità, e nelle zone più esposte - a cominciare da Lampedusa - con una generosità di cui possiamo andare fieri. Adesso anche chi ha incarichi di governo deve fare altrettanto.

La solidarietà non può essere disgiunta dalla sicurezza; e sarebbe il caso che Renzi desse ai familiari dell’orribile delitto di Palagonia quella risposta - con i fatti più che con le frasi fatte - che sollecitano invano da giorni. Ma l’evolversi della situazione europea implica che pure la destra italiana, in particolare dove ha responsabilità di governo, esca dalle logiche consuete e batta un colpo. Cosa ne pensano i «moderati» della Lega, gli Zaia e i Maroni, che legittimamente aspirano a un ruolo nazionale? Che ne dicono i sindaci delle grandi città del Veneto, i leghisti Tosi e Bitonci e il veneziano Brugnaro, che in laguna (a parte le polemiche retrograde su omofobia e Gay Pride) sembra portare avanti un interessante esperimento post-ideologico? Il loro punto di riferimento è la Csu bavarese o la xenofobia del governo di Budapest? E Forza Italia discute solo delle proprie polemiche interne?

Con la Germania è giusto polemizzare, ma qualcosa ogni tanto sarebbe bene imparare. Oppure dobbiamo rassegnarci al fatto che la destra della legalità e della responsabilità non può passare le Alpi?

8 settembre 2015 (modifica il 8 settembre 2015 | 08:15)
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_settembre_08/migranti-quella-lezione-tedesca-la-destra-casa-nostra-c9fd0912-55ef-11e5-b0d4-d84dfde2e290.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Odi e amori di Ingrao, un comunista di ferro
Inserito da: Arlecchino - Settembre 28, 2015, 07:34:59 pm
DOPO LA SCOMPARSA A ROMA

Odi e amori di Ingrao, un comunista di ferro
Il dirigente del Pci scomparso all’età di 100 anni in versione privata nel libro «Volevo la luna».
Il rapporto stretto con le figlie, la simpatia per Togliatti, le critiche a Pasolini

Di Aldo Cazzullo

Suo nonno aveva combattuto con Garibaldi, a Varese. Lui aveva conosciuto Mao, e ne era rimasto spaventato. Aveva discusso con Castro e pure con Che Guevara: «Mi portò in spiaggia e mi fece notare con orgoglio che tutto era dello Stato, anche le sdraio. Ma lo Stato non deve mica fare il bagnino». Al liceo aveva studiato con Gioacchino Gesmundo, «il professore» di Roma città aperta, ucciso alle Ardeatine. Quelli che ora ne parlano come di un fascista pentito dicono sciocchezze: Ingrao partecipò ai Littoriali, si iscrisse al sindacato fascista per contattare operai, ma fu ardentemente comunista; il che dovrebbe bastare per darne un giudizio severo, essendo il comunismo una grande tragedia del Novecento. Va detto che l’uomo, per quanto di vanità quasi infantile, aveva una storia di grande interesse da raccontare. Seppe farlo nel libro-intervista con Antonio Galdo, nell’autobiografia “Volevo la luna” (Einaudi), un libro scritto benissimo, e anche in un’intervista che diede al Corriere per i suoi 90 anni.

Non taceva i turbamenti della sua vita infinita, fin da quando uno zio crudele lo sorprese mentre giovinetto si masturbava («di colpo mi scoprì seminudo, col piccolo membro maschile drizzato. Disse qualcosa di volgare che mi fece bruciare di vergogna. Fino a quando mio nonna levò un urlo e lo cacciò: e poi mi fece una lieve carezza senza parole»). Rievocava i toni foschi e plumbei del comunismo: la riunione di dirigenti e giornalisti «in un’antica villa nei boschi maestosi attorno a Bucarest dalle lunghe stanze un po’ buie», dove lui direttore viene contestato pure «per le immagini di donnine seminude a cui l’ Unità - ahimè! - indulgeva»; le notti di vigilia dell’ undicesimo congresso, quando Ingrao era «convinto che nell’angolo della strada di casa mia ci fosse un compagno della cosiddetta “vigilanza” a controllare chi in quell’ ora veniva da me, come in funzione di poliziotto di Botteghe Oscure». Fu il congresso della sua sconfitta: lui, movimentista, battuto da Amendola, il “socialdemocratico”. Votò per la radiazione del gruppo del Manifesto, che gli era molto vicino, e lo rimpianse per il resto della vita: «Fu davvero un’azione assurda, perché nulla mi costringeva a quel gesto di capitolazione e si può dire di tradimento verso quei miei antichi compagni di lotta». Parlava con simpatia del Sessantotto e alla militanza delle figlie: Celestina aggredita dai fascisti, Renata colpita a Valle Giulia dalla polizia («la sera aveva i segni crudeli delle manganellate sul giovane corpo»), Chiara partita a Parigi per il Maggio, il genero Marco che lancia sanpietrini contro i poliziotti: «Non so se mi sentii un po’ disertore». Criticava Pasolini, schierato invece con gli agenti: una «evidente civetteria», prova di «quanto fosse debole ancora, nel mio paese, la percezione del livello della lotta in campo in Europa».

Si trovava meglio con Togliatti che con Berlinguer, che lo volle presidente della Camera per lo stesso motivo per cui Moro volle presidente del Consiglio Andreotti, uomo della destra Dc: tranquillizzare l’opposizione interna ai due partiti, ostile al compromesso storico. Non durò. Sapeva fare autocritica, anche come uomo: «Ero un giovane maschio reazionario e parassitario», che amava «rotolarsi (con la figlia) all’infinito, nel letto, pizzicandola e sbaciucchiandola», ma non aiutare nelle faccende domestiche. E quando la moglie, Laura Lombardo Radice, era in clinica a partorire, lui telefonò dalla stazione e detta imperioso: «È una femminuccia? Si chiamerà Celestina, come mia madre». Però raccontava con tenerezza l’incontro con Laura, staffetta dei gruppi antifascisti: «C’era sempre il timore di essere seguiti dalla polizia. Prendevamo i tram al volo per sottrarci ai pedinamenti, e avevamo concordato una copertura: Laura e io dovevamo fingere di essere fidanzati. Un giorno le feci una carezza, e lei mi fermò: “Che credi di fare? Ricordati che siamo fidanzati solo per finta”. Siamo stati insieme tutta la vita». Era meno disposto all’autocritica parlando del comunismo: «Pentirmi? Assolutamente no. Resta il meglio della mia vita: ciò che ho cercato di dare al mondo degli oppressi e degli sfruttati. Mi sono pentito, se si può dire così, di pesanti errori che ho compiuto nella mia lunga vita di militante comunista. Il più grave fu nell’autunno del ‘ 56, quando sull’ Unità scrissi un pessimo articolo che attaccava gli insorti di Budapest che si ribellavano ai sovietici. Non me lo sono mai perdonato».

28 settembre 2015 (modifica il 28 settembre 2015 | 11:10)
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_settembre_28/odi-amori-ingrao-comunista-ferro-4f8c5240-65bd-11e5-aa41-8b5c2a9868c3.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Ruini minaccia Se vanno avanti sulle unioni civili le proteste...
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 08, 2015, 11:35:50 am
L’intervista
Ruini: «Se vanno avanti sulle unioni civili le proteste non mancheranno»
Parla il cardinale: «Le differenze con Francesco? Io vicino a Giovanni Paolo II e Benedetto. Per le parole di monsignor Charamsa provo più pena che sorpresa»


Di Aldo Cazzullo

Cardinal Ruini, quale impressione le ha fatto il «coming out» di monsignor Charamsa?
«Un’impressione di pena, più ancora che di sorpresa, soprattutto per il momento che ha scelto».

L’intervista al «Corriere» ha avuto un’eco molto vasta. Influirà sul Sinodo?
«Non farà certo piacere ai sinodali, ma non avrà alcun influsso sostanziale».

Dice monsignor Charamsa: «La Chiesa capisca che la soluzione proposta ai gay credenti, l’astinenza dalla vita d’amore, è disumana». Lei cosa si sente di rispondergli?
«Gli direi molto semplicemente: come prete ho anch’io l’obbligo di tale astinenza e in più di sessant’anni non mi sono mai sentito disumanizzato, e nemmeno privo di una vita di amore, che è qualcosa di molto più grande dell’esercizio della sessualità».

È parso però che il Papa abbia aperto al dialogo, quando disse «chi sono io per giudicare un omosessuale che cerca Dio?».
«Questa è forse la parola più equivocata di papa Francesco. Si tratta di un precetto evangelico - non giudicare se non vuoi essere giudicato - che dobbiamo applicare a tutti, omosessuali evidentemente compresi, e che ci chiede di avere rispetto e amore per tutti. Ma papa Francesco si è espresso più volte chiaramente e negativamente sul matrimonio tra persone dello stesso sesso».

Esiste una «lobby gay» ai vertici della Chiesa? Il Papa stesso lo disse, sia pure in un incontro informale.
«Si sentono molte chiacchiere in merito. Se sono vere, è una cosa triste, sulla quale bisogna fare pulizia. Personalmente però non ho elementi per parlare di lobby gay, e non vorrei calunniare persone innocenti».
Dica la verità: al di là del rispetto e anche dell’obbedienza, papa Bergoglio lascia perplessi voi cardinali legati alla stagione di Wojtyla e di Ratzinger.
«Non ho difficoltà a riconoscere che tra papa Francesco e i suoi predecessori più vicini ci sono differenze, anche notevoli. Io ho collaborato per vent’anni con Giovanni Paolo II, poi più brevemente con papa Benedetto: è naturale che condivida la loro sensibilità. Ma vorrei aggiungere alcune cose. Gli elementi di continuità sono molto più grandi e importanti delle differenze. E fin da quando ero uno studente liceale ho imparato a vedere nel Papa prima la missione di successore di Pietro, e solo dopo la singola persona; e ad aderire con il cuore, oltre che con le parole e le azioni, al Papa così inteso. Quando Giovanni XXIII è succeduto a Pio XII, i cambiamenti non sono stati meno grandi; ma già allora il mio atteggiamento fu questo».

In Francesco rivede papa Giovanni?
«Per vari aspetti, sì. Bisogna essere ciechi per non vedere l’enorme bene che papa Francesco sta facendo alla Chiesa e alla diffusione del Vangelo».

Francesco è un Papa «di sinistra»? Le differenze non sono soltanto nello stile, non crede?
«Certo le differenze non sono solo di stile. Ma non toccano la missione di principio e fondamento visibile dell’unità della fede e della comunione di tutta la Chiesa. Quanto all’essere di sinistra, lo stesso papa Francesco vi è tornato sopra più volte, dicendo che la sua è semplicemente fedeltà al Vangelo, non una scelta ideologica. Ultimamente ha pure aggiunto, scherzando, di essere “un po’ sinistrino” ... se ricordo le parole esatte».

C’è il rischio che il Papa sia strumentalizzato sul piano ideologico, come teme il cardinale Scola?
«Che certe prese di posizione del Papa vengano enfatizzate e altre passate quasi sotto silenzio, è più di un rischio; è un fatto. Più che di strumentalizzazioni parlerei di schemi applicati alle personalità pubbliche; schemi ai quali i media si affezionano e difficilmente rinunciano. È successo anche a me: mi collocavano sempre nello schema».

Ad esempio?
«Sul matrimonio gay presi la posizione più aperta che si poteva prendere; ed è stata giudicata la più chiusa».

Lei disse che si potevano riconoscere diritti individuali.
«E ora lo dicono giuristi come Mirabelli. Tutti i diritti individuali si possono riconoscere e molti sono già stati riconosciuti».

Ma l’Italia non ha ancora una legge sulle unioni civili. Le norme di cui si discute in Parlamento richiamano il modello tedesco, non quello francese e spagnolo: niente matrimonio, niente adozioni. Perché un cattolico non potrebbe votarle?
«Proprio il modello tedesco prevede che le copie omosessuali abbiano in pratica tutti i diritti del matrimonio, eccetto il nome. E la proposta di legge su cui si discute in Parlamento apre uno spiraglio pure all’adozione. Si sa benissimo, e alcuni sostenitori della proposta lo dicono chiaramente, che una volta approvata si arriverà presto ai matrimoni tra persone dello stesso sesso e alle adozioni. Personalmente condivido il commento del cardinale Parolin, dopo il referendum in Irlanda: “Il matrimonio omosessuale è una sconfitta dell’umanità”. Perché ignora la differenza e complementarità tra uomo e donna, fondamentale dal punto di vista non solo fisico ma anche psicologico e antropologico. L’umanità attraverso i millenni ha conosciuto la poligamia e la poliandria, ma non per caso il matrimonio tra persone dello stesso sesso è una novità assoluta: una vera rottura che contrasta con l’esperienza e con la realtà. L’omosessualità c’è sempre stata; ma nessuno ha mai pensato di farne un matrimonio».

Ci sarà anche in Italia un movimento di protesta contro le unioni civili?
«Le avvisaglie ci sono già state con la manifestazione del 20 giugno in piazza San Giovanni. L’organizzazione è stata minima, e il riscontro mi ha colpito molto: si è parlato di 300 mila persone. Se si andasse avanti per una certa strada, difficilmente le proteste mancheranno».

Lei ha detto al «Corriere» che l’ondata libertaria rifluirà, come è rifluita l’ondata marxista. Come fa a esserne così certo?
«Non ho detto che rifluirà, ma che potrebbe rifluire. La possibilità e la speranza, non la certezza, di un cambiamento di direzione è suggerita dal contrasto tra l’ondata libertaria e il bene dell’umanità, che non è una somma di soggetti chiusi in se stessi, ma una grande rete in cui ciascuno ha bisogno degli altri. Mi stupisce che i governanti, che dovrebbero avere a cuore la coesione, non si rendano conto che in questo modo avranno società sbriciolate».

È possibile riammettere alla comunione i divorziati risposati?
«No. I divorziati risposati non si possono riammettere alla comunione non per una loro colpa personale particolarmente grave, ma per lo stato in cui oggettivamente si trovano. Il precedente matrimonio continua infatti a esistere, perché il matrimonio sacramento è indissolubile, come ha detto papa Francesco nel volo di ritorno dall’America. Avere rapporti sessuali con altre persone sarebbe oggettivamente un adulterio».

È possibile pensare a eccezioni caso per caso?
«Non mi piace la parola “eccezioni”. Sembra voler dire che ad alcuni si concede di prescindere dalla norma che li riguarda. Se invece il senso è che ogni singola persona e ogni singola coppia vanno considerate in concreto per vedere se quella norma le riguarda o non le riguarda, questo è un principio generale che va tenuto presente sempre, non solo per il matrimonio ma per tutto il nostro comportamento».

In astratto è possibile quindi che un divorziato risposato riceva la comunione?
«Sì, se il matrimonio è dichiarato nullo».

Le nuove disposizioni al riguardo non rischiano di ammorbidire il vincolo, di introdurre una sorta di divorzio cattolico?
«Il rischio può esistere solo se le nuove disposizioni non vengono applicate con serietà. Bisogna migliorare anzitutto la preparazione dei giudici. Introdurre surrettiziamente una specie di divorzio cattolico sarebbe una pessima ipocrisia, molto dannosa per la Chiesa e per la sua credibilità. Ma la decisione di papa Francesco, che molti di noi - me compreso - auspicavano, non ha niente a che fare con un’ipocrisia del genere».

Se la mancanza di fede di uno degli sposi può portare alla dichiarazione di nullità, non si aprono spazi molto vasti?
«Certo. E per questa ragione papa Benedetto, pur essendo convinto che la fede sia necessaria per il matrimonio sacramentale come per ogni altro sacramento, è stato molto prudente nel trarre da questo principio conseguenze pratiche. Anche papa Francesco si è limitato a indicare la mancanza di fede come una delle circostanze che possono consentire il processo più breve davanti al vescovo, quando questa mancanza di fede generi la simulazione del consenso, o produca un errore decisivo quanto alla volontà di sposarsi. Scherzosamente potrei dire che chi si è spinto più avanti su questa strada sono piuttosto io, nel mio contributo al libro degli undici cardinali che esce in questi giorni...».

Una famiglia di migranti in ogni parrocchia: la convince? O condivide le perplessità dell’arcivescovo di Bologna?
«Il cardinale Caffarra ha messo in luce le condizioni senza le quali l’accoglienza diventa difficile, e può anche essere controproducente. Cercare di realizzarle è un servizio e non un ostacolo all’accoglienza».

Caffarra sostiene che bisogna accogliere i migranti «conosciuti».
«Conosciuti nel senso di identificati. Diciamo la verità: molti anche nella Chiesa non accolgono nessuno; molti accolgono così, alla garibaldina. Bisognerebbe trovare una via di mezzo».

4 ottobre 2015 (modifica il 4 ottobre 2015 | 11:46)
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Da - http://www.corriere.it/cronache/15_ottobre_04/ruini-se-vanno-avanti-unioni-civili-proteste-non-mancheranno-c72265ae-6a6f-11e5-b2f1-e50684c95593.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Immigrazione, la paura della gente non è una colpa
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 14, 2015, 02:46:06 pm
Gli italiani e i migranti
Immigrazione, la paura della gente non è una colpa

Di Aldo Cazzullo

La paura forse non è la più nobile delle attitudini; ma non è una colpa. Non va alimentata e usata, come fa la Lega. Ma non va neppure negata e rimossa, come fa la sinistra e anche una parte del mondo cattolico. La paura si vince rimuovendone le cause.

Oggi molti italiani hanno paura delle migrazioni non perché siano ostili alle persone dei migranti, ma perché vedono che l’emergenza è gestita male, e soprattutto non ne vedono la fine. L’impressione è che il governo e gli enti locali stentino a organizzare sia l’accoglienza, sia i rimpatri; e soprattutto non riescano a disegnare un orizzonte che dia ai cittadini quella sicurezza anche psicologica senza cui l’integrazione resta utopia. Il tentativo di coinvolgere l’Europa sta dando i primi risultati. Ma gli italiani sanno che le guerre civili nel NordAfrica e in Medio Oriente non sono affatto finite, che per stabilizzare l’area serviranno anni se non decenni; e non intravedono ancora né le regole né le azioni che consentano di salvare i profughi, sottraendoli ai trafficanti di uomini, e di selezionare all’origine i «migranti economici», distinguendo le figure professionali di cui l’Italia ha bisogno dalla massa che andrebbe fermata o rimandata indietro.

I migranti non arrivano in un Paese prospero, coeso, sereno. Si affacciano in un’Italia che vive un vero e proprio dopoguerra. La crisi ha lacerato in modo devastante il tessuto industriale e sociale, soprattutto al Nord, soprattutto in provincia.

Le reazioni emotive di fronte a migranti che non si sono ancora neppure visti, come nel paese rosso di Badia Prataglia sull’Appennino toscano, e gli scontri tra i parroci che li accolgono e i sindaci che li respingono, come a Bondeno, in riva al Po, non sono conseguenze del razzismo, ma dell’insicurezza. Che cresce proprio perché nella discussione pubblica non viene considerata, bensì liquidata con un’alzata di spalle o uno sguardo di commiserazione.

Sui media tende a prevalere una visione irenica e spensierata dell’immigrazione, tipica di un’élite per cui gli stranieri sono colf a basso costo e chef di ristoranti etnici; tanto i figli vanno alla scuola internazionale, e i nonni nella clinica privata. L’immigrazione può rivelarsi un sollievo per il sistema produttivo, ma comporta un prezzo, tutto a carico delle classi popolari, chiamate a combattere ogni giorno una guerra tra poveri per il posto all’asilo, il letto in ospedale, la lista d’attesa al pronto soccorso, e pure la casa e il lavoro.

Certo, alle società esangui e anziane d’Europa servono le energie formidabili che salgono dalle sponde meridionali e orientali del Mediterraneo. Ma non è forse cinica la logica di rimpiazzare con i nuovi venuti i bambini che gli italiani non fanno più, anziché sostenere la maternità o almeno mettere in condizione le donne di scegliere liberamente? Anche sull’apporto dei migranti all’economia è nata una retorica, ridimensionata sul Financial Times da Martin Wolf, editorialista britannico orgogliosamente figlio di profughi: per coprire i buchi del welfare e della previdenza l’Europa dovrebbe accogliere in pochi anni decine di milioni di stranieri. Che non sbarcano nelle vaste praterie deserte d’America, ma in Paesi - come il nostro - montuosi e densamente antropizzati, cioè popolati da secoli non solo dall’uomo e dalle sue opere ma da memorie e culture, retti su equilibri precari da ricostruire ogni volta. Così diventano simboli anche l’altalena contesa nel giardino di Padova chiuso tra il campo profughi e l’asilo, o la rivolta di Gorizia in difesa del parco che custodisce i segni drammatici della sua storia, trasformato in bivacco.

C’è da essere orgogliosi del modo in cui molti italiani stanno reagendo. Volontari laici e cattolici fanno un grande lavoro, spesso sopperendo alle lacune della pubblica amministrazione. E gli uomini in uniforme continuano a salvare vite, dovere giuridico e morale che in nessun caso può mai venire meno. Ma lo Stato, insieme con gli altri Paesi europei, deve fare molto altro: alleggerire il peso che grava sulle nostre frontiere, organizzando il viaggio dei profughi e il respingimento dei clandestini; e far funzionare la macchina dell’integrazione, legando i diritti ai doveri, che comprendono la conoscenza e il rispetto dei nostri valori, a cominciare dall’uguaglianza tra uomo e donna. Forse don Abbondio aveva torto: il coraggio uno se lo può dare. A patto di rispettare la paura ed eliminarne le ragioni.

14 ottobre 2015 (modifica il 14 ottobre 2015 | 07:32)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_ottobre_14/immigrazione-paura-gente-non-colpa-a239b3d4-7233-11e5-b015-f1d3b8f071aa.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Forza Italia e l’alleato inevitabile
Inserito da: Arlecchino - Novembre 07, 2015, 09:55:49 pm
Il rapporto con Salvini
Forza Italia e l’alleato inevitabile
Con il centro presidiato da Renzi, Berlusconi è «obbligato» a cercare Salvini

Di Aldo Cazzullo

Ma perché dovrebbe stupire, scandalizzare, dividere Forza Italia - o quel che ne resta -, il fatto che Berlusconi vada nella piazza della Lega a Bologna? Era il caso di montare uno psicodramma? Non vale neppure la pena rispondere a chi sta cercando di creare un clima da luglio 1960: è evidente che qualsiasi forza politica democratica ha diritto di espressione in qualsiasi città; e proprio da Bologna, con una manifestazione dal titolo molto esplicito, Grillo lanciò la sua rincorsa al 25 per cento. Più interessante è capire perché desti meraviglia e acrimonia, anche dentro Forza Italia, la circostanza che il fondatore manifesti con la Lega.

Non c’è dubbio che, se dovesse scegliere un commensale o un compagno di vacanze, Berlusconi preferirebbe Renzi a Salvini. Ma, dopo la fine delle larghe intese e dopo la rottura del patto del Nazareno, l’alleanza con i leghisti e la ricostruzione del centrodestra è per lui la via obbligata. Ogni leader politico ha uno schema in testa. E con quello gioca la sua partita. Lo schema di Berlusconi fin dal ‘94 è sempre stato unire tutti gli oppositori della sinistra, dai moderati ai radicali, senza arretrare di fronte a nulla: il Bossi secessionista, il Fini secondo cui Mussolini era il più grande statista del Novecento, e poi gruppuscoli e personaggi anche meno significativi. Non si vede perché non dovrebbe cercare anche ora l’alleanza con una Lega in salute, oltretutto in un momento in cui Salvini sembra aver rinunciato, almeno a parole, alla scorciatoia populista - l’uscita dall’euro, la guerra a Berlino e a Bruxelles - che la svolta greca ha dimostrato impraticabile.

Berlusconi rischia di sottomettersi a Salvini? Ma il consenso ormai è lì, lì ormai - anche a causa degli errori di questi anni - sono i suoi elettori, non al centro, presidiato da Renzi: un’area in cui sarà molto difficile che partitini nati da operazioni di Palazzo si trasformino in una forza politica autonoma e competitiva alle elezioni. E, se vuole conservare un ruolo di raccordo, Berlusconi deve stare dov’è il consenso; tentando di orientarlo in una prospettiva ragionevole di opposizione e di alternanza, anziché verso una deriva antisistema. Che poi nel ruolo di trait d’union che fu di Tremonti ci sia oggi il suo arcinemico Brunetta - grande sostenitore della flat tax, l’aliquota unica proposta dal Carroccio - è solo un’apparente bizzarria che conferma la regola della politica italiana degli ultimi vent’anni.

Non è impossibile che sia proprio la Lega a esprimere il candidato premier del centrodestra. Anche la Cdu - mutato il molto che c’è da mutare - nel 1998 lasciò che corresse per la cancelleria il capo degli alleati bavaresi della Csu: Stoiber però fu travolto dal socialdemocratico Schröder, il cui slogan era appunto «Die Neue Mitte», il nuovo Centro. Al di là della dimostrazione di forza a Bologna, per Salvini un ballottaggio contro Renzi sarebbe ostico; tanto più che il suo sbarco al Sud per ora è fallito, perché la Lega Sud non può nascere come una sottomarca di un prodotto del Nord. Ma se Salvini e Berlusconi trovassero insieme un uomo davvero nuovo, credibile e fuori dai giochi, come è stato Brugnaro per Venezia, allora l’esito finale potrebbe riaprirsi; perché il centrodestra in Italia ha una riserva di voti più ampia, e non è scontato che lo schema di Renzi - giocarsi la partita a tutto campo, ponendosi non come antiberlusconiano ma come postberlusconiano - porti i voti necessari a compensare l’emorragia a sinistra. Restare accanto alla Lega, per ricostruire un’alleanza credibile in futuro per il governo del Paese: al di là delle intemperanze verbali che certo ascolteremo domani da piazza Maggiore, Berlusconi non ha prospettive diverse da questa.

7 novembre 2015 (modifica il 7 novembre 2015 | 07:45)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_novembre_07/forza-italia-l-alleato-inevitabile-b4bfa78a-8515-11e5-8384-eb7cd0191544.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Un ricordo di Glucksmann, il grande nemico del male
Inserito da: Arlecchino - Novembre 11, 2015, 06:13:01 pm
Un ricordo di Glucksmann, il grande nemico del male

Di Aldo Cazzullo

Ritrovare la via che dai Grands Boulevards sale verso Montmartre ed entrare nella casa di André Glucksmann, né borghese né bohémien, dai pavimenti di legno curvi sotto il peso di migliaia di libri, dava la confortevole sensazione che si potesse ancora pensare il mondo, o almeno la Francia. In Francia si erano incontrati i suoi genitori, ebrei austriaci, in fuga dal nazismo. Il giovane André aveva studiato con Aron, ed era stato molto vicino a Sartre: fu lui a riconciliarli, invitandoli da Giscard, a chiedere aiuto per i boat-people vietnamiti (i due non si parlavano da trent’anni, da quando Sartre aveva detto a Malraux che de Gaulle era «un piccolo Hitler», e Malraux gli aveva dato uno schiaffo. Sartre ruppe sia con lui sia con Aron. Era la prima volta che Sartre entrava all’Eliseo in vita sua. Aron gli si sedette accanto e gli disse: «Bonjour, mon petit camarade»).

Glucksmann era cresciuto a Billancourt, tra la fabbrica Renault e la mensa operaia. Veniva da sinistra, e con la sinistra era molto critico. Appoggiò Sarkozy perché vedeva in lui un’idea della «Francia tutta intera, da quella giacobina a quella cattolica»; e il giorno dopo la vittoria cominciò a criticare Sarkozy, a maggior ragione quando il presidente si mise a inseguire il Front National, che Glucksmann disprezzava. Ha scritto un libro meraviglioso, Lettres Immorales de la France e de l’Allemagne, in cui spiegava la differenza tra i due Paesi partendo dai diversi finali della fiaba di Cappuccetto Rosso: «Nella versione francese la bambina muore. In quella tedesca rispunta dalla pancia del lupo. È l’idealismo. L’incapacità di vedere il male. Ieri Hitler, oggi Putin, con cui i tedeschi fanno tranquillamente affari». Putin era la sua bestia nera: fu al fianco dei ceceni e dei giornalisti perseguitati. Aveva una moglie molto bella. Era uomo di grande spirito, ma non rideva mai alle proprie battute. Diceva sorridendo le cose serie, e seriamente le cose divertenti. Persone così intelligenti si incontrano poche volte nella vita. Era un vero europeo.

11 novembre 2015 (modifica il 11 novembre 2015 | 08:49)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_novembre_11/ricordo-glucksmann-grande-nemico-male-ca3b9f3c-883b-11e5-a995-c9048b83b4c2.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. ATTACCHI TERRORISTICI IN FRANCIA
Inserito da: Arlecchino - Novembre 15, 2015, 09:07:40 pm
ATTACCHI TERRORISTICI IN FRANCIA
Attentati a Parigi, un disastro per Hollande. Ma la Francia reagirà
Dopo i nuovi attacchi Charlie Hebdo, all’indomani della strage, la Francia si risveglia ancora vulnerabile correndo il rischio di farsi sopraffare dalla paura

Di Aldo Cazzullo, inviato a Parigi

Nel sabato spettrale di Parigi si consuma anche la tragedia di un capo di Stato, di una classe dirigente, di un’idea della Francia. L’attacco a Charlie Hebdo era un attacco ai valori francesi, alla libertà d’espressione, e Hollande seppe riunificare il Paese, guidando la grande marcia per le vie della capitale accanto ai leader del mondo libero. La sua bassissima popolarità ebbe un rimbalzo: il presidente era stato all’altezza della situazione. Stavolta è diverso. Stavolta è un disastro. Di sicuro, anche stavolta la Francia reagirà, si mostrerà compatta contro il terrorismo, darà prova di dignità e fierezza. Ma nulla potrà cancellare lo scacco.

Per tutti: per l’apparato di sicurezza dello Stato, per la classe politica tradizionale - non solo francese -, per le sorti del confronto delicato e difficile tra il ventre del Paese e gli immigrati, tra la Francia e l’Islam. Hollande era allo stadio. L’hanno portato via. Si giocava Francia-Germania, derby d’Europa, primo obiettivo di questo attacco al continente, diretto anche contro l’alleanza franco-tedesca, contro la nazionale francese «blanc-black-beur» simbolo dell’integrazione con le ex colonie africane e maghrebine, e contro la sua tifoseria «meticcia»: una parola che in Francia era un insulto ed è diventata un valore. Spaventato, scosso, nella notte il presidente ha parlato al Paese. Poi si è fatto vedere in strada, come dopo gli attentati del gennaio scorso. Quindi ha fatto quel che fanno i politici quando fronteggiano una tragedia molto più grande di loro: si è chiuso in una serie di vertici e riunioni, consigli dei ministri e consigli di sicurezza. Alle 11 del mattino è tornato a parlare. Un discorso efficace, con toni che a volte volevano essere sbrigativi - «saremo spietati» -, a volte volevano essere, ed erano, nobili: «La Francia trionferà sulla barbarie. Difendiamo la nostra patria e molto di più; difendiamo i nostri valori, la nostra umanità». Il presidente ha invitato all’Eliseo i rappresentanti di tutti i partiti, compreso il Front National. Il richiamo all’unità avrà il suggello della cerimonia laica di Versailles, dove lunedì Hollande riunirà l’Assemblea nazionale e il Senato in seduta congiunta. Una scelta indovinata, solenne. Che però non cambia la sostanza delle cose. È certo che la Francia saprà reagire.

È probabile che la carica di stabilizzazione, lo spirito di «rassemblement» provocati da un attacco come questo evitino nell’immediato ricadute negative per il presidente e l’assetto politico-istituzionale che si regge sull’Eliseo, sul rapporto privilegiato con Berlino, sul ruolo della Francia a Bruxelles. Ma la sensazione di insicurezza dei cittadini e di inadeguatezza della politica che si respira in queste ore è destinata a dare frutti avvelenati nel tempo. E poco importa se contro un atto di guerra diffusa come questo - sia pure previsto dopo l’intervento francese in Siria - l’intelligence e i corpi di polizia possano fare poco, almeno nelle prime ore. A gennaio Marine Le Pen rimase isolata, non fu invitata alla marcia, a differenza di Sarkozy. Questa volta l’idea di base del lepenismo - troppi musulmani in Francia, troppi immigrati in arrivo, troppo lassismo alle frontiere - è diventata un mormorio diffuso, quasi un luogo comune. Tra meno di un mese si vota per le regionali, la sinistra al governo perderà quasi dappertutto, Marine è in testa ai sondaggi a Lilla e sua nipote Marion in Provenzia-Alpi-Costa azzurra. Ma la partita in gioco è molto più ampia. Costruzione europea, integrazione, immigrazione: da oggi nulla sarà come prima. E la campana non suona solo per una Parigi fredda e deserta, che presto tornerà a vivere; batte in tutti i palazzi di governo d’Europa; batte anche per noi.

14 novembre 2015 (modifica il 14 novembre 2015 | 12:48)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_novembre_14/attentati-parigi-disastro-hollande-ma-francia-reagira-e546a2e8-8aa9-11e5-8726-be49d6f99914.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Parigi: Le vittime devono trovare un nome
Inserito da: Arlecchino - Novembre 17, 2015, 06:58:57 pm
Dopo gli attacchi

Le vittime devono trovare un nome
I parenti entrano per il riconoscimento dei cadaveri.
Escono barcollando, in lacrime, cercando l’aria con la bocca spalancata.
Ma dopo il dolore, c’è la dignità ferita e l’orgoglio

Di Aldo Cazzullo, inviato a Parigi

In riva alla Senna, tra la Gare de Lyon e la colonna della Bastiglia, c’è la Morgue. L’istituto di medicina legale, dove sono custoditi i corpi dei morti di Parigi. Tutti dovranno subire l’autopsia. Sono stati riconosciuti in 103. Ventisei restano da identificare. All’ingresso ci sono tre poliziotti e tre psicologi, tutti sulla sessantina, due donne dai capelli bianchi e un uomo calvo. Sono coetanei dei genitori delle vittime. Li accolgono. Li preparano. Offrono un tè caldo o un’arancia. Spiegano come dovranno comportarsi all’interno. Non hanno l’aria grave ma comprensiva, a volte tentano di sorridere. I familiari dei morti si abbandonano a loro completamente. Stanno vivendo un momento che ricorderanno per sempre, i pochi minuti trascorsi con gli psicologi creano un rapporto molto intenso. Poi entrano nell’edificio di mattoni rossi, salgono al primo piano, un unico enorme ambiente illuminato da finestroni ad arco, e attendono in un angolo, seduti su sedie di plastica, di essere chiamati. Escono barcollando, in lacrime, cercando l’aria con la bocca spalancata.

Dopo lo strazio la dignità ferita
Ma va detto che, dopo la prima reazione di strazio, viene fuori in molti un misto di dignità ferita e di fierezza, insomma di rabbia e di orgoglio, che in effetti sono i sentimenti popolari che all’evidenza prevalgono in questi casi. Ci sono i figli dell’immigrazione, neri e maghrebini, che non hanno pudore di piangere, e le tradizionali famiglie francesi, più trattenute. Chi non ce la fa viene portato sotto una tenda bianca, dov’è stato allestito un pronto soccorso. Tirano dritto il padre, la madre e il fratello minore di Ludovic Boumbas, ucciso mentre cenava con gli amici al ristorante «La Belle Equipe», la bella squadra. Sono arrivati da Lilla, hanno salutato Ludovic, ora aspettano un taxi. All’immenso dolore privato si unisce il peso del dolore pubblico. In queste occasioni c’è chi si chiude, e chi invece sente il bisogno di parlare. La madre è inebetita, il fratello piange, il padre - capelli brizzolati, cappotto blu, occhiali, quasi identico all’attore americano James Earl Jones, quello che interpreta Alex Haley in Radici - invece tiene a raccontare del figlio. «Noi siamo del Congo. Ludovic lavorava alla Federal Express, per vivere, ma gli piacevano molto i libri e la musica. Disegnava. Era un ragazzo molto buono». Buono? Il Daily Mail scrive che è stato un eroe, che si è gettato addosso ai terroristi, che ha salvato una ragazza facendole scudo con il suo corpo. «Questo non lo so. Non so se era un eroe. Per me era molto di più. Era mio figlio». Il taxi è arrivato, il padre di Ludovic Boumbas deve andare. I poliziotti lo salutano militarmente.

16 novembre 2015 (modifica il 16 novembre 2015 | 16:00)
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_novembre_16/attentati-parigi-dolore-vittime-morgue-parenti-06003d22-8c6d-11e5-b416-f5d909246274.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Ribellarsi nel nome di Valeria
Inserito da: Arlecchino - Novembre 24, 2015, 06:33:58 pm
Ribellarsi nel nome di Valeria

Di Aldo Cazzullo

All’inizio era solo la vittima italiana. Poi ha avuto un volto, un nome, una storia. Infine Valeria Solesin è diventata un simbolo. In cui si è riconosciuta una generazione, la sua, e anche le altre, la precedente e le successive, che hanno visto in lei una sorella più grande, una figlia, una nipote. Per questo il dolore privato è diventato un lutto pubblico, e oggi piazza San Marco ne sarà giusto scenario.

Come sia avvenuta questa immedesimazione, è difficile dire. A poco a poco si è scoperto che Valeria era davvero una bella persona. Una giovane donna. Una volontaria. Una ricercatrice. Attraverso di lei non solo abbiamo sentito ancora più vicina la strage di Parigi. Abbiamo in qualche modo esorcizzato il senso di colpa che proviamo verso i ragazzi della sua età; ma questo non può essere una consolazione, deve essere un impegno. Il Paese delle pensioni e delle corporazioni, più ricco di rendite che di opportunità, abituato a considerare la cultura e la ricerca un costo più che un investimento, è molto avaro con i suoi giovani.

Valeria Solesin non ha piagnucolato, non si è chiusa in un lamento sterile contro il mondo intero. Il mondo l’ha affrontato, è andata all’estero, ha trovato lavoro in un’università di grande prestigio. Se i kamikaze avessero attaccato la Parigi dei turisti, di venerdì sera, gli italiani colpiti sarebbero stati molti di più. Invece hanno attaccato la Parigi popolare frequentata da Valeria: «l’Italienne » come l’hanno chiamata le tv francesi, che hanno trasmesso immagini di solidarietà da molti Paesi, ma non dal nostro.

L’Italia è stata rappresentata dal sorriso di Valeria e dalle dichiarazioni - riviste decine di volte - della madre.

I genitori sono stati all’altezza della figlia. Hanno avuto l’intelligenza di capire che la loro pena interiore era diventata comune, sono riusciti a farvi fronte, e hanno trovato nella solidarietà un elemento di conforto. Oggi in piazza non vedranno solo il presidente della Repubblica e il sindaco, il patriarca e l’imam, gli amici e i concittadini. Vedranno l’avanguardia di un Paese a cui, come ha detto la signora Solesin, Valeria mancherà.

Piazza San Marco non è solo un pezzo importante dell’identità italiana, un luogo di incontro tra culture e civiltà. Fu anche il teatro della prima manifestazione di donne della storia unitaria. Le veneziane accolsero il nuovo re con un corteo che chiedeva diritto di voto e di cittadinanza nel nuovo Stato; Vittorio Emanuele non capì e credette di tacitarle con il dono di un anello bianco rosso e verde. Cominciò quel giorno ad accumularsi il debito storico del Paese nei confronti delle donne. In passato le vite interrotte dalla violenza hanno suscitato in quelli che restano sentimenti di rimpianto anche rabbioso per chi «è morto senza dire l’ultima parola, senza dire addio a nessuno, senza concludere la sua opera, senza lasciarci un messaggio».

Altre volte è prevalsa l’idea che «qualcosa restava; erano morti i suoi amici, morti i suoi vent’anni, ma qualcosa viveva, qualcosa che non si era ancora spezzato». Il messaggio oggi non potrebbe essere più chiaro: piangere è inevitabile ma non basta, il male va combattuto e il male non è soltanto il nemico, è anche l’ignavia, la rassegnazione, il ripiegamento su se stessi, la resa alla violenza o anche solo al destino. Se sapremo ribellarci a tutto questo, qualcosa di Valeria Solesin resterà.

24 novembre 2015 (modifica il 24 novembre 2015 | 07:21)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_novembre_24/ribellarsi-nome-valeria-b23c6e52-9272-11e5-b7a6-66411f67f00e.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. L’INTERVISTA ANTONIO CAMPO DALL’ORTO
Inserito da: Arlecchino - Novembre 24, 2015, 06:42:41 pm
Politica L’INTERVISTA ANTONIO CAMPO DALL’ORTO
«Manager, direttori, programmi Così voglio cambiare la Rai»
Il dg: troppi talk show la stessa sera. Lo scandalo tangenti? Diffonderemo la legalità

Di Aldo Cazzullo

Antonio Campo Dall’Orto, lei si è insediato in Rai ad agosto. Siamo quasi a Natale. Cos’ha fatto in tutto questo tempo?
«Ho iniziato la costruzione delle architravi per la grande trasformazione con cui porteremo la Rai nel mondo di oggi. Per fare solo qualche esempio ho istituito una direzione creativa che contaminerà tutte le attività, e una direzione digitale, che farà della Rai una media company. Ricordo l’accordo con Sky per portare Rai 4 sul satellite e quello con Netflix per la coproduzione di Suburra. Ci vuole più tempo a costruire una macchina nuova che a mettere il carburante in una vecchia. Noi stiamo costruendo una macchina del tutto nuova».

Una rivoluzione?
«Una rivoluzione presuppone la rottura con il passato. Diciamo una fortissima accelerazione al cambiamento, per portare avanti un percorso che si è interrotto. In passato ad esempio designer, creativi, artisti lavoravano per la televisione pubblica: dobbiamo ricominciare. In questi anni è come se l’azienda si fosse mossa in un tempo rallentato».

Quale Rai ha trovato?
«Mi ha colpito la grande passione di chi ci lavora. La sua identità. Più di quanto pensassi. Ma la Rai è ferma al modello tv, e basta».

È una tv. Cos’altro dovrebbe fare?
«Il tema è partire dal prodotto. Che si tratti di un programma di informazione, di una fiction o di un programma radio, questi vanno pensati fin dalla loro origine per tutte le destinazioni possibili, dalla tv allo smart phone a internet. Il tutto cercando di rendere evento tutto ciò che lo può essere».

In che modo?
«Lavorando sulla comunicazione e il coinvolgimento delle persone. Prenda le Olimpiadi: cominciano il 5 agosto, ma la promozione partirà a Natale, e riguarderà anche le Paralimpiadi. Prenda la storia di Lea Garofalo, donna coraggiosa e poco conosciuta, che abbiamo raccontato martedì scorso. Alla base c’è sempre il talento di chi racconta, ma abbiamo fatto promozione e collegamento con gli altri nostri programmi, creando un evento destinato a rimanere nell’immaginario di chi l’ha visto. Risultato: quasi il 20% di ascolti; quasi il doppio dei due talk show in programma contemporaneamente».

I talk sono morti?
«Non dico questo. Anzi, stanno migliorando, riconosco la volontà di diventare più comprensibili. Pe esempio la formula del sabato sera di Fazio funziona. Ma sono troppi. E non ha senso schiacciarli l’uno contro l’altro nella stessa sera. Credo molto nella tv scritta, che è maggior garanzia di qualità. Certo non si può scrivere tutto; ma la parte non scritta perde forza se manca la qualità degli interpreti».

Lei è considerato renziano della prima ora. Andava alla Leopolda. Qual è il suo margine di autonomia da Renzi?
«Autonomia totale. Ho un mandato chiaro: riportare la Rai a compiere in modo più alto il servizio pubblico, basandomi su due linee: competenza e meritocrazia».

Sta dicendo che non sente mai Renzi?
«L’ho sentito il 5 agosto, quando mi ha chiesto di fare il direttore generale, ma non mancheranno i momenti di confronto. Per il resto, i miei interlocutori sono soprattutto dentro l’azienda, non fuori».

Qual è la sua idea di servizio pubblico?
«Aiutare a costruire il futuro. Lo sviluppo sociale. L’alfabetizzazione digitale degli italiani: l’agenda digitale europea impone di ridurre entro il 2020 i “digital divide” al 15% della popolazione. La Rai deve fare bene i suoi contenuti e distribuirli in tutti i modi che consentono questo salto culturale».

Cambierà tutti i direttori di rete e tutti i manager?
«Ci sarà un giusto equilibrio tra le competenze esterne e quelle interne. La direzione creativa e quella digitale non esistevano. Per la direzione digitale ho individuato un manager che proviene da esperienze internazionali. Per la direzione creativa sto facendo una ricerca che coinvolga sia interni che esterni. In altri ruoli valorizzeremo i talenti che sono già in Rai e sono disposti ad accettare la sfida della trasformazione».

Quant’è grave lo scandalo tangenti? Si parla di 38 milioni di fondi neri, di 37 dossier interni sequestrati dalla magistratura. Lei ha mandato via il capo dell’ufficio legale. Al capo dell’Audit hanno bruciato la macchina. Che succede in Rai?
«Ci sono cose coperte dal segreto istruttorio. Posso dirle questo: stiamo facendo tutto quello che serve per diffondere in Rai la cultura della legalità. Andremo avanti dritti, qualunque cosa possa essere accaduta. All’insegna della massima trasparenza, per supportare le tantissime persone perbene che lavorano giorno e notte per la tv pubblica».

Come cambierà l’informazione? Quante saranno le Newsroom? Perché se saranno tre, tanto vale tenere i tre tg.
«Il punto è usare meglio le risorse, e ancor di più le persone. Lo facciamo bene quando usiamo linguaggi diversi e dovremo farlo sempre di più in futuro. RaiNews 24 immagini e notizie; i tg racconti brevi; gli approfondimenti sono basati sul confronto tra opinioni. Abbiamo un brand molto forte sulle inchieste, Report , ma dobbiamo per esempio lavorare di più sugli approfondimenti. Dobbiamo lavorare sull’efficienza e sull’efficacia. Ci sono buone idee: il programma di Severgnini mi è piaciuto».

Cambierà il direttore del Tg1?
«Prima decideremo come cambiare l’informazione, poi guarderemo alle persone. A me pare però che l’informazione in Rai la sappiamo fare bene».

Vespa sarà ancora centrale nella sua Rai?
«Lo speciale di Vespa sui fatti di Parigi è andato bene. Nello stesso tempo se ne stava occupando Fazio, in modo molto diverso, e anche lui è andato bene. L’importante è trovare i toni giusti».

C’è un caso Rai3? La rete che fu di Guglielmi ha sbagliato troppe trasmissioni, non crede?
«È sbagliato inserire cose partendo dal nostro gusto, anziché dal gusto del pubblico. Le varie reti devono costruire spazi editoriali complementari, pensando anche ai giovani. Oggi per i giovani la Rai è un brand poco attrattivo. Sono stati fatti tentativi per innovare Rai3, ma ancora non si è trovata una strada che riesca a unire tradizione e innovazione».

Non comprate troppi prodotti fuori, anziché produrli facendo lavorare tutti i dipendenti?
«No. Ci sono aree in cui noi produciamo solo internamente, come l’informazione. Altre, come la fiction e il cinema, in cui finanziamo produzioni esterne. Nell’intrattenimento si deve trovare un equilibrio. Molte competenze negli ultimi 20 anni sono uscite dall’azienda, e vanno cercate fuori».

Gli agenti non hanno troppo potere?
«In tutto il mondo per ingaggiare gli artisti si tratta con i loro agenti. In Italia è tutto concentrato in troppe poche mani. Più l’editore ha chiara la propria missione, maggiore è la sua forza contrattuale».

Rai fiction e Rai cinema si fonderanno?
«No. Sono due modelli di business molto diversi».

Non ci sono un po’ troppe fiction edificanti, su santi e preti?
«La mia indicazione è privilegiare contemporaneità e, se possibile, ambizione internazionale».

Ad esempio?
«Una fiction come È arrivata la felicità, che racconta la società che cambia, è un buon esempio di servizio pubblico. Come Sotto copertura sull’arresto del boss Iovine. Su queste cose investiamo volentieri. Su prodotti melò come Grand hotel facciamo fatica. Non dico non si debbano fare; ma non vedo perché dovremmo spenderci soldi pubblici».

Ci saranno esuberi tra i dipendenti?
«Ci saranno efficienze. Alcune strutture sono superate; faranno altro, o saranno chiuse. Ma gli esuberi non sono certo la prima cosa da cui partirò».

Si va verso il canone in bolletta, con il governo che se ne tiene un po’?
«Il cambiamento che propongo è molto ambizioso, e richiede qualche risorsa in più. Investire sulla multipiattaforma digitale costa. Anche perché secondo me il servizio pubblico deve avere meno pubblicità. Dal primo maggio il canale Yo-yo per i bambini e i canali culturali come Rai5 non avranno pubblicità».

Dà per persa la battaglia degli ascolti?
«Tutt’altro. Io voglio una tv popolare che non abbia l’angoscia degli ascolti. E voglio anche una tv di qualità. Tornerà l’indice di gradimento. Il Qualitel darà la media mensile dei vari programmi. Quelli di Alberto Angela ad esempio hanno un buon riscontro».

Ne ha parlato con Ettore Bernabei?
«Certo. Mi ha raccontato com’era la sua Rai. Oggi la tv deve conquistarsi spazio in mezzo a mille offerte alternative. Ai tempi del monopolio il pubblico non poteva che seguirti. Oggi lo devi conquistare ogni giorno».

22 novembre 2015 (modifica il 22 novembre 2015 | 07:53)
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DA - http://www.corriere.it/politica/15_novembre_22/campo-dallorto-intervista-cosi-voglio-cambiare-la-rai-a823a6ae-90e4-11e5-bbc6-e0fb630b6ac3.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Il secondo turno delle elezioni regionali Marine Le Pen a ...
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 17, 2015, 07:39:21 pm
Il secondo turno delle elezioni regionali
Marine Le Pen a bocca asciutta

Ma per batterla devono unirsi tutti
Il voto non ha solo ridimensionato le aspirazioni del Front National, ma aperto interrogativi sul futuro di Hollande, Valls e Sarkozy

Di Aldo Cazzullo

Non soltanto oggi Marine Le Pen non potrebbe essere eletta presidente della Francia; non è stata eletta neppure presidente della Regione Nord-Pas de Calais-Picardie. Non ha vinto neanche sua nipote Marion in Provenza-Alpi-Costa Azzurra. Questo non cancella il risultato clamoroso di domenica scorsa: il Front National è il primo partito del Paese, e per batterlo si devono unire tutti gli altri. Questo crea una tensione che durerà almeno sino alle presidenziali del maggio 2017.

La mobilitazione chiesta non solo dalla sinistra, ma anche dall’associazione degli imprenditori e da una parte del mondo cattolico, c’è stata. Sono andati a votare quasi quattro milioni di francesi che domenica scorsa erano rimasti a casa. L’affluenza oltre il 58% annacqua le militanze e le radicalità. Il meccanismo del ballottaggio, in cui spesso si vota «contro» piuttosto che «per» qualcuno, penalizza le estreme.

Marine Le Pen rivendica comunque una vittoria morale; e in effetti è un’ingiustizia che il suo partito abbia solo due deputati all’Assemblea Nazionale. Il sistema è impostato sul bipolarismo; ma i poli ora sono tre. Una larga parte dei francesi non è rappresentata dalla politica; e questo crea una stortura, un’esasperazione che Marine denuncerà e nel contempo tenterà di alimentare.

Il presidente Hollande è rimasto in silenzio per tutta la settimana. Ha tentato di rappresentare l’uomo di Stato al di sopra delle parti. Al posto suo ha parlato – fin troppo - il primo ministro Valls, che è giunto a prevedere il rischio di una guerra civile. I socialisti governavano tutte le regioni; il passo indietro è netto. Valls esce ridimensionato. Il candidato alle presidenziali del maggio 2017 sarà quasi certamente Hollande. Il problema per lui sarà arrivare al ballottaggio. Potrebbe non farcela, a meno che non sia il candidato unico della sinistra: una chance possibile solo in un clima di drammatizzazione. I risultati dimostrano che al secondo turno Hollande potrebbe battere Marine Le Pen.

Se invece il ballottaggio fosse tra Marine e un candidato della destra repubblicana, la sconfitta del Front National sarebbe certa. Ma chi sarà il prescelto? L’uomo che avrebbe maggiori possibilità è l’ex primo ministro di Chirac, Alain Juppé. Sarkozy ha ancora una certa presa sul partito. Stanotte ha colto un’apparente vittoria. Ma Sarkozy ha troppi guai giudiziari. E troppi nemici. Persino l’ex portavoce della sua campagna nel 2012, Nathalie Kosciusko-Morizet, lo sta abbandonando. I Repubblicani conquistano sei Regioni, ma a Lilla e a Marsiglia vincono grazie ai voti socialisti. Il programma con cui Sarkozy è rientrato in politica, tutto incentrato a destra, in una concorrenza difficilissima con il clan Le Pen, è messo in discussione. Le primarie dell’anno prossimo saranno una battaglia durissima.

Il voto francese cambia anche l’Europa. I populisti non sono ancora in grado di vincere un’elezione a doppio turno. Ma sono arrivati a un passo dal farcela. I partiti socialisti sono ovunque in grave crisi: domenica prossima si vota in Spagna, e i popolari di Rajoy sono favoriti; ma non avranno la maggioranza assoluta. Il centrodestra tradizionale non ha i voti per governare da solo: quel che è successo ieri in Francia – socialisti che sostengono la destra repubblicana – nella Germania della Grande Coalizione avviene da due anni. Marine Le Pen non ha vinto; ma continuerà a condizionare la Francia e l’Europa.

13 dicembre 2015 (modifica il 13 dicembre 2015 | 22:00)
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_dicembre_13/elezioni-francia-commento-cazzullo-e2df7f72-a1cc-11e5-80b6-fe40410507f1.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. La leader è laica e ribelle, la nipote cattolica e anti-gay.
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 19, 2015, 05:33:54 pm
Elezioni regionali francesi
La sfida delle signore Le Pen: Marion e Marine, due idee e un clan «Siamo noi i veri repubblicani»
La leader è laica e ribelle, la nipote cattolica e anti-gay.
Alle regionali, comunque vadano i ballottaggi, hanno fatto il pieno di voti, ma l’Eliseo è lontano

Di Aldo Cazzullo

«Siamo noi i veri repubblicani. Siamo noi i difensori della nazione e dei suoi valori: libertà uguaglianza fraternità laicità». Ha fatto un discorso quasi gollista, Marine Le Pen, dopo aver ottenuto un sontuoso 42% al primo turno delle elezioni regionali francesi, che va oltre le previsioni dei sondaggi. Ha persino parlato di «grandeur», come faceva il Generale. Un capovolgimento totale, per un partito che ha sempre visto nei gollisti il proprio nemico naturale. Cinque minuti prima, l’ultimo erede di quella famiglia politica, Nicolas Sarkozy, rifiutava qualsiasi accordo con la sinistra contro il Front National: Hollande e le signore Le Pen per lui pari sono. Comincia così un’era del tutto nuova della storia francese ed europea.

Nel segno di Jeanne d’Arc
Le vincitrici di stanotte hanno lo stesso ambizioso modello - Giovanna d’Arco - e lo stesso nome: Marion (anche se la zia si fa chiamare Marine). Eppure non potrebbero essere più diverse. Le due signore Le Pen, che hanno fatto del Front National il primo partito di Francia e tra una settimana diventeranno presidenti delle due Regioni agli antipodi, il Nord atlantico di Lilla e Calais e il Sud mediterraneo di Marsiglia e Nizza, hanno storie e idee molto distanti. Questa ambiguità contribuisce alla crescita straordinaria dell’estrema destra. Ma costituisce anche il limite che le renderà difficile, se non impossibile, la conquista dell’Eliseo e del Paese. (VEDI LA MAPPA DEL VOTO).

Su fronti opposti
Marine è nata nel fatale 1968 ed è la terza figlia di Jean-Marie. Marion Maréchal-Le Pen, 26 anni giovedì prossimo, è figlia della secondogenita del fondatore, Yann. Il Front non è un partito. E’ un clan. Una famigliona dove ci si detesta. Il patriarca del resto l’ha teorizzato: «Il potere e la grandezza nascono dalla lotta. Gli europei si sono combattuti per decine di secoli, e hanno costruito una civiltà che ha dominato il mondo intero. Ora hanno fatto la pace, sono divenuti imbelli, e non contano più niente». I Le Pen sono per la guerra. Purtroppo per lui, Jean-Marie l’ha persa, ed è stato espulso. Comandano le donne. Marion è cattolica. Marine è laica, ha divorziato due volte (ora sta con l’ex segretario del partito, Louis Aliot), difende l’aborto. Marion è vandeana. Marine è rivoluzionaria. Marion ha manifestato contro i matrimoni omosessuali. Marine ha portato al vertice del partito omosessuali dichiarati. Marion è conservatrice, ai limiti della reazione. Marine è movimentista, ai limiti della confusione. Non a caso Marion ha superato il 40% nella Regione Paca, Provenza-Alpi-Costa azzurra, culla dell’immigrazione maghrebina, da anni feudo della destra per quanto divisa; mentre Marine viaggia su percentuali ancora più alte nel Nord-Pas de Calais (cui ora è stata aggregata la Piccardia), terra un tempo rossa di miniere e di industrie e ora desertificata e disperata. Marine Le Pen rifiuta di definirsi un’estremista. Per lei la divisione non passa più tra la destra e la sinistra, ma tra il sopra e il sotto della società, tra le élites e il popolo, tra gli enarchi fautori del libero mercato, dell’Europa unita e della società multietnica e la Francia profonda, “Paese di razza bianca”, sorvolata e spaventata dalla mondializzazione, dagli emigrati, ora dal terrorismo. Non a caso il Front è quasi al 50% tra gli operai e nelle banlieues popolari; mentre nel centro di Parigi non arriva al 20.

L’errore storico sul fascismo
Accusare Marine e Marion di fascismo, come da sempre tende a fare la sinistra francese, non è solo un errore tattico; è un errore storico. Il Front National non è figlio della Francia filonazista e clericale di Vichy. Jean Marie Le Pen tentava – a 16 anni – di arruolarsi nelle file della Resistenza quando Mitterrand riceveva dalle mani del maresciallo Pétain la francisque, massima onorificenza del regime. Il Front National è figlio dell’Algeria francese e dell’Oas, l’Organization de l’Armée Secrète che tentò di assassinare De Gaulle. E’ figlio delle sconfitte in Indocina (dove Jean-Marie combatté tra i paracadutisti), del crollo dell’impero coloniale, della frustrazione nazionalista; e i suoi nemici mortali, almeno fino ad ora, non sono mai stati i socialisti ma i gollisti in tutte le loro declinazioni. Questo rende ancora più importanti le parole pronunciate stanotte da Marine. Che però ha un problema: il crollo della sinistra. La figlia di Le Pen infatti spera di trovare al ballottaggio delle presidenziali 2017 Hollande, contro cui avrebbe qualche chance, anziché Sarkozy o peggio ancora Juppé, il delfino di Chirac, da cui sarebbe agevolmente sconfitta. Dietro il suo successo non c’è soltanto la richiesta di una stretta sull’immigrazione e di una lotta senza quartiere contro i terroristi, per i quali Marine invoca il ritorno della ghigliottina. C’è l’angoscia di una nazione abituata all’egemonia, che ora sente di non contare molto più di nulla. E c’è la frustrazione di scoprirsi impotente, dopo i discorsi di Hollande che Marion ha definiti «tonitruanti»: «Il presidente parla di guerra e non ha la forza di farla davvero».

La fine dell’Europa?
A dispetto della sua trasversalità, Marine rimane un personaggio anti-sistema. Se dopo Lilla conquistasse anche Parigi, sarebbe la fine dell’Europa. Il suo programma le impone di strappare non solo il trattato di Schengen, che un po’ tutti i francesi considerano superato, ma anche il trattato di Maastricht, che nel ’92 fu approvato da una maggioranza striminzita. Marine vuole restituire ai compatrioti 200 euro al mese di stipendio e soprattutto la sovranità. L’indipendenza da Berlino e da Bruxelles. Una gigantesca retromarcia. Il ritiro della Francia dalla storia.

L’eredità del padre
Marine non è una persona sgradevole. Come non lo è il padre: odiose sono le sue idee, a cominciare dall’antisemitismo rinnegato dalla figlia; ma in un Paese di politici sussiegosi, in cui il presidente socialista chiama i poveri «gli sdentati», i Le Pen sono gente alla mano. Il capo famiglia, il nonno di Marine, era un pescatore che nel 1942 affondò su una mina al largo della natia Bretagna. Lei fuma, beve, ha un tratto un po’ virile, pacche sulle spalle, cori a squarciagola. Ha la grinta del padre e l’imprevedibilità della madre, Pierrette, che dopo la separazione per vendetta posò nuda su Playboy. (Anche Marion ha avuto le sue vicissitudini: cresciuta da Samuel Maréchal, imprenditore e dirigente del Front, è stata riconosciuta solo dopo anni dal padre biologico, Raul Rauque, giornalista e diplomatico). Ma tra Marine e l’Eliseo ci sono due ostacoli. Ieri ha votato a malapena la metà dei francesi; per la scelta del presidente la partecipazione è molto più alta, e questo annacqua le militanze e le radicalità. E mentre al secondo turno delle Regionali possono partecipare tre e più candidati, e quindi il 40% basta per vincere, al ballottaggio per il capo dello Stato si arriva in due. Pur nel momento del trionfo di Marine, la maggioranza dei francesi stenta a credere che possa diventare presidente. Anche se da quando il terrore le ha dichiarato guerra la Francia cammina su un sentiero inesplorato. E per la fine dell’Europa non tifano solo i nazionalisti francesi.

6 dicembre 2015 (modifica il 6 dicembre 2015 | 22:18)
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_dicembre_06/sfida-signore-pen-marion-marine-due-idee-clan-fca3f2c2-9bef-11e5-9b09-66958594e7c5.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO Elezioni in Spagna: quale governo? I socialisti ago della bilancia
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 23, 2015, 06:17:08 pm
Il dopo voto
Elezioni in Spagna: quale governo?
I socialisti ago della bilancia
Il Psoe deve decidere se far nascere un governo di minoranza dei popolari o tentare l’avventura di un governo di sinistra con Podemos e i separatisti catalani. Intanto dice «no» a Rajoy premier, veto sul suo nome in particolare

Di Aldo Cazzullo, inviato a Madrid

La ragione o l’istinto? L’Europa o il popolo? Il futuro o la storia? Il dilemma è tutto sulle spalle all’apparenza erculee, in realtà fragili del leader Pedro Sanchez, e soprattutto dell’establishment del partito socialista. Il Psoe deve decidere se far nascere un governo di minoranza dei popolari – ipotesi minimalista ma realista -, o tentare l’avventura di un governo di sinistra con Podemos e i separatisti catalani, ipotesi romantica ma ai limiti dell’utopia, o ancora far precipitare il Paese verso nuove elezioni.

Ieri notte Sanchez ha riconosciuto che tocca a Rajoy, come capo della lista più votata, tentare di formare l’esecutivo. Ma stamattina, dopo la riunione dell’esecutivo, ha mandato il numero 2 del partito César Leuna a chiarire che i socialisti voteranno no a Rajoy. E se il premier facesse un passo indietro e il Pp. presentasse un candidato? Leuna non ha risposto. Quindi non ha escluso nulla. Le pressioni saranno fortissime. La base socialista guarda a sinistra: giustificare una forma di collaborazione con il nemico storico non sarà facile. Ma l’Europa considera l’ascesa al governo di Iglesias col codone da tanguero come una minaccia. E i baroni socialisti la pensano allo stesso modo; soprattutto quelli dell’Andalusia e dell’Estremadura, le regioni più povere, più legate allo Stato centrale, più ostili alle secessioni catalana e basca; e anche le uniche in cui il Psoe è arrivato primo.

La questione non è solo locale. La Germania ha già perso il bastione orientale del suo sistema, la Polonia. Non può permettersi di perdere anche il bastione occidentale, la Spagna. Il grosso del debito pubblico spagnolo è in mani tedesche. E l’Europa non è un’astrazione; esiste. L’Europa ha versato 40 miliardi di euro per salvare le banche spagnole. E non vuole avventure. Certo, Iglesias è talmente duttile che può rivelarsi un nuovo Tsipras. Ieri sera però cantava “El pueblo unido jamas sera vencido” nella piazza davanti al museo Reina Sofia, dov’è custodito Guernica di Picasso. Oggi ha proposto un “compromesso storico” per riscrivere la Costituzione e riconoscere che la Spagna è uno “Stato plurinazionale”: inaccettabile per il Pp ma anche per buona parte del Psoe. Nel dubbio, la Merkel preferisce decisamente una grande coalizione - molto difficile -, o comunque un accordo tra socialisti e popolari.

Spinge in questa direzione il vecchio Felipe González, che detesta Podemos e ne è detestato. Una coalizione di sinistra del resto non ha i numeri senza gli autonomisti baschi e i separatisti catalani. Barcellona manda in Parlamento 17 deputati indipendentisti; e la versione catalana di Podemos, grazie alla spinta del sindaco Ada Colau, è il primo partito. Iglesias vuole indire un referendum sulla secessione della Catalogna (personalmente è contrario, ma vuole che siano i catalani a decidere). Se i socialisti lo seguissero su questa via si suiciderebbero nel resto del Paese. Ma se si arroccassero in difesa dello status quo e di un governo dei popolari, Podemos punterebbe a nuove elezioni cui presentarsi come l’unica forza davvero alternativa.

Il re avrà un bel prodigarsi; ma può fare poco. I tempi sono lunghi: il Parlamento è convocato per il 13 gennaio. Se non emergeranno novità, Felipe VI proporrà come candidato presidente Rajoy. Prima è richiesta la maggioranza assoluta, poi quella semplice; se il governo ancora non nasce, restano due mesi di trattative per evitare nuove elezioni. Con le incognite economiche e finanziarie che l’instabilità, aggravata dalla questione catalana, porta con sé. La Spagna non è un’isola, fa parte dell’euro, di un sistema internazionale, della scacchiera globale. E anche quelli che hanno votato Rajoy sono popolo.

21 dicembre 2015 (modifica il 21 dicembre 2015 | 15:03)
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_dicembre_21/elezioni-spagna-quale-governo-socialisti-ago-bilancia-53ee6e0e-a7a8-11e5-927a-42330030613b.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Voto in Spagna, una carezza e un pugno per Rajoy, il leader...
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 26, 2015, 11:15:57 pm
Voto in Spagna, una carezza e un pugno per Rajoy, il leader «grigio»
Sarà un voto storico che segnerà la fine del bipartitismo.
Il premier del P.p. avrà bisogno di alleati per continuare a governare


Di Aldo Cazzullo, nostro inviato a Madrid

MADRID - Alla fine arriverà primo quest’uomo grigio, la barba grigia, il carisma di Paperoga, che chiude una campagna incolore quanto lui esibendo due sole macchie rosse: il berretto da Babbo Natale e il segno del pugno ricevuto sulla guancia sinistra da un contestatore minorenne. Alla fine arriverà primo Mariano Rajoy: «il nipotino di Franco» secondo la stampa internazionale; in realtà, un democristiano che ha fatto quel che la Merkel gli ha detto di fare.

Premurosa, l’altro giorno a Bruxelles la Cancelliera l’ha accarezzato sulla guancia colpita: se dopo la Polonia a Est dovesse perdere anche la Spagna a Ovest, l’altro Paese satellite, sarebbe un guaio. Le telecamere hanno letto il labiale di Rajoy: «Noi siamo primi, secondi il Psoe o i socialisti». «Vuoi dire Podemos?». «Sì, Podemos». «Secondi?» ha chiesto incredula Angela.

Manuela Carmena, la nuova alcaldesa (sindaco) di Madrid, è accusata di voler vietare il Natale? E allora Rajoy chiude il suo giro di Spagna con la «Cena de Navidad», una festa natalizia qui nella capitale. L’ingresso costa 20 euro, include il fazzoletto azzurro del partito, la maglietta azzurra, il porta-caramelle azzurro riciclabile come regalo ai nipoti. L’età media è alta. Padiglione 5 della Fiera, tra l’aeroporto e il campo di allenamento del Real. Il premier si è ripreso bene dal gancio incassato nelle vie di Pontevedra, la città dov’è cresciuto: «L’odio non mi fermerà. Quattro anni fa la Spagna era in ginocchio; ora è in piedi. C’è il rischio di una vittoria dell’estrema sinistra, che manderebbe il Paese in rovina. Noi stasera siamo qui per far onore al motto che ci siamo dati: la Spagna seria».

Nella settimana finale i sondaggi sono vietati. L’ultimo pubblicato da El Pais dà Rajoy al 25%. Le voci che girano nei giornali e le sensazioni che si respirano alla «Cena de Navidad» collocano il premier molto sopra. Ma arrivare primo non significa vincere le storiche elezioni di domani, che segnano la fine del bipartitismo spagnolo. Nel novembre 2011, nei giorni della caduta di Berlusconi, il Partito Popular ottenne il 44% e la maggioranza assoluta dei seggi. Stavolta avrà bisogno di alleati per governare. Rajoy non esclude un’intesa con i socialisti, purché si levi di torno il segretario Pedro Sanchez, che in Tv l’ha insultato definendolo «una persona indecente»; ma la grande coalizione non fa parte della cultura politica del Paese, la numero 2 del Psoe, la «presidenta» dell’Andalusia Susana Diaz, l’ha già definita «un’idea patetica, da sconfitti».

Gli unici con cui i popolari potrebbero accordarsi sono i Ciudadanos, i Cittadini di Albert Rivera, che ieri si è detto pronto ad astenersi per far nascere un governo Pp di minoranza; ma senza Rajoy alla testa. Il premier del resto ha impostato tutta la campagna contro il giovane emergente, e nelle urne finirà per ridimensionarlo. Rivera ha chiesto un intervento Nato in Siria; lui ha evitato di incontrare Hollande per non prendere impegni. Rivera intende accorpare i comuni al di sotto dei 5 mila abitanti; lui lancia la campagna «mi pueblo no se cierra», il mio paesino non si chiude. Rivera si presenta come il nuovo; lui lo definisce «un prodotto di marketing, con un quarto d’ora di storia». Rivera ha riempito i teatri delle grandi città; Rajoy ha girato i villaggi della Spagna profonda, cucinato piatti tipici, giocato a domino con gli anziani, preparato il caffè alle signore. Si è fatto vedere a Barcellona solo giovedì sera, poi è stato a Valencia, ora è qui a Madrid: «Noi vogliamo difendere l’identità nazionale. Noi vogliamo una Spagna unita, nel rispetto della monarchia e della Costituzione». Parte il coro: «Yo soy español, español, español!».

La campagna elettorale in fondo gliel’hanno fatta i separatisti. Con il No all’indipendenza di Barcellona, Rajoy si è guadagnato la riconoscenza degli altri spagnoli. I secessionisti sono come sempre i ricchi, in questo caso catalani e baschi. I poveri restano attaccati alla mammella dello Stato. E la Catalogna, con la volontà di dichiararsi nazione, con la pretesa di imporre la propria lingua ai «charnegos» venuti da fuori, è vista ormai con ostilità dalla Spagna cattolica, eterna, conservatrice, che stasera intona l’ Adeste Fideles e poi Noche de paz , Campana sobre campana , El pequeno tamborilero e tutti i classici natalizi.
Al tavolo con il leader - empanadas, jamon, insalata di pasta - c’è la donna che ha tentato invano di prendergli il posto: Esperanza Aguirre, ala destra del partito. Non c’è riuscita perché il Pp ha un tratto militare. Il capo comanda e gli altri obbediscono; e Rajoy è più duro di quanto sembra. Un fondista. E’ sopravvissuto a due sconfitte consecutive, nel 2004 e nel 2008, contro Zapatero non contro Churchill. Ha resistito allo scandalo Barcenas, il tesoriere al centro di un vorticoso giro di fondi neri. Ha rotto con i suoi mentori: l’ex premier Aznar e l’ex arcivescovo di Madrid Rouco Varela, che gli rimproverano una gestione economicista, poco attenta ai valori occidentali e cristiani. Lui è un pragmatico. Ha governato come un notaio.

In effetti, Rajoy è un notaio. Di serie B: «Registratore di proprietà». Nato a Santiago de Compostela, terra di pellegrinaggi. Spagna atlantica, fiera, zitta. E’ galiziano come Franco, ma la sua famiglia non è franchista: il nonno scrisse con Alexandre Boveda lo statuto autonomo della Galizia; il regime lo perseguitò e gli tolse la cattedra; Bodega fu messo al muro. Il padre invece fu un giudice disciplinato. Mariano si è sposato tardi, il che ha alimentato a lungo voci sulla sua virilità; i tre figli sono ancora piccoli. Di Franco ha la «retranca» gallega: un misto di astuzia sfuggente, ironia cinica, disincanto, accortezza. Parte del Paese nel segreto dell’urna lo appoggerà per assecondare un richiamo all’ordine, anche perché l’economia si sta rimettendo in moto.

Qui la crisi ha colpito in modo drammatico, più ancora che nel resto d’Europa. La Germania, che possiede la maggior parte del debito pubblico spagnolo, ha salvato le banche facendo arrivare 40 miliardi di euro; ma 150 mila famiglie hanno perso la casa. In 4 milioni sono rimasti senza lavoro. Ora un milione l’ha ritrovato; ma sono quasi tutti contratti a termine. Il Pil è salito del 3,4%, ma cresce come cresce la Spagna: in modo diseguale, con la forza di un popolo dinamico e amabile, pronto a chiudersi in tristezze e malinconie. La disoccupazione resta la più alta d’Europa. Il premier stasera assicura che «la priorità è mettere i nostri giovani al lavoro». La base madrilena, quasi tutta in quiescenza, applaude.

Lui pure ha 17 anni più di Sanchez, 23 più di Iglesias col codone da «tanguero», 24 più di Rivera, 30 più di Garzon di Izquierda Unida. «Dove sono i ragazzi? Sapete che servono i ragazzi!» si affanna il servizio d’ordine, per organizzare la foto da mandare ai siti. I commensali sciamano sazi e ottimisti. A Plaza Mayor, in centro, tra le giostre e le luminarie, i senzatetto vanno a dormire sotto i portici, e non solo per stare un po’ al caldo. L’ex sindaco Ana Botella, la moglie di Aznar, aveva tentato di mandarli via. Loro si sono rifiutati: vogliono restare lì, nel cuore del Paese, per ricordare a tutti quanto sia ancora duro oggi essere spagnoli.

19 dicembre 2015 (modifica il 19 dicembre 2015 | 12:32)
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_dicembre_19/voto-spagna-carezza-pugno-rajoy-leader-grigio-8116ba50-a63e-11e5-b2d7-31f6f60f17ae.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Rajoy resta in testa e attacca i «prodotti da marketing»
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 26, 2015, 11:28:13 pm
Il reportage
Elezioni Spagna, Podemos e Ciudadanos tentano l’assalto al potere ma l’ultima parola è del re Pablo Iglesias ha vinto tutti i duelli televisivi e il premier conservatore ha evitato di affrontarlo.
Rajoy resta in testa e attacca i «prodotti da marketing»

Di Aldo Cazzullo

È il primo voto democratico senza re Juan Carlos e con quattro grandi partiti. Stasera arriverà primo con un buon margine Rajoy, il presidente in carica, che potrebbe formare un governo di minoranza magari in vista di altre elezioni; ma questa domenica resterà nella storia grazie a tre volti nuovi. Albert Rivera di Ciudadanos, 36 anni, in declino rispetto ai trionfali sondaggi di venti giorni fa, che però occupando il centro sarà decisivo per far nascere qualsiasi esecutivo. Il re al battesimo del fuoco, Felipe VI, 47 anni, che finora non ha sbagliato una mossa. E Pablo Iglesias detto «El Coleta», il Codino, che con una campagna da istrione carismatico ha portato Podemos dal 14% al 20 e punta a superare i socialisti.

«Remontada! Remontada!» gridava alla fine di ogni comizio. Iglesias è tecnicamente un mitomane. Dice frasi tipo «sarò il primo leader spagnolo che parla inglese», «sono Davide contro Golia», «se avessimo fatto un dibattito a quattro prenderei la maggioranza assoluta». In effetti ha vinto tutti i duelli a cui ha preso parte, e Rajoy ha evitato con cura di affrontarlo. I suoi lo adorano. Le ragazze impazziscono. «I suoi meeting hanno una forte carica romantica, quasi religiosa - ha notato John Carlin su El País, giornale certo non ostile -; e la figura di Iglesias coincide con quella di Gesù Cristo». Non a caso lui parla di «poveri in spirito», «sale della terra» e «potenti da confondere».

L’altra sera a Valencia l’ex braccio destro Monedero, accusato di aver preso i soldi da Chávez, l’ha baciato sulla bocca. Lui canta, si batte il pugno sul cuore, piange abbracciando la mamma. Orecchino, decine di braccialetti, barbetta incolta. Molto simpatico. Di una spregiudicatezza intellettuale impressionante: è passato dal Venezuela alla Svezia, dall’anarchia alla socialdemocrazia, dall’uscita dalla Nato all’ossequio al re. Continua però a detestare Felipe González, «personaggio moralmente decrepito», ogni volta che lo nomina la platea esplode in un «buuu» carico di disprezzo. L’ha molto aiutato Ada Colau, sindaco di Barcellona, e lui ha promesso ai catalani un referendum per l’indipendenza. Padrone dei social media, su cui i fan caricano video di Iglesias che combatte il male con la spada laser di Star Wars, Iglesias che si allena con la tuta di Rocky, Iglesias guerriero medievale che fa strage di nemici; lui del resto è convinto di vivere in una puntata di Game of Thrones. Il vecchio Lula l’ha incoronato: «In Pablo rivedo qualcosa di me stesso da giovane». Una mano gliel’ha data anche il candidato socialista Pedro Sánchez, apparso modesto, sempre bisognoso di alzare la voce per farsi sentire. Per spaventare i moderati Rajoy evoca la minaccia di un governo Podemos-Psoe, con Iglesias presidente, e aggiunge: «Noi sì che siamo un partito serio. Non siamo nati in un talk-show. Non siamo un prodotto di marketing».

Il «prodotto di marketing» sarebbe Rivera. In effetti, quando Podemos era primo partito, l’establishment spagnolo ha cercato un anti-Iglesias e l’ha trovato nel giovane catalano. Nato a Barceloneta, antico quartiere marinaro e popolare, Rivera è però un rivoluzionario borghese. Il maggior peso politico di Rajoy l’ha ridimensionato, riportandolo sotto il 20%. Nei dibattiti è parso nervoso, irritabile. Resta un personaggio interessante. Nell’ultimo comizio, venerdì sera a Madrid, in Plaza Santa Ana, la piazza dei teatri e dei caffè, ha tenuto una lezione di storia a tremila ragazzi ignari, evocando i grandi momenti di unità nazionale: la rivolta del 1808 contro i francesi invasori, la transizione postfranchista guidata da Adolfo Suárez, suo leader di riferimento, che quasi nessuno dei presenti ricordava. Il messaggio in realtà era chiaro: Rivera si presenta come l’unico in grado di dare una prospettiva al Paese; «in Parlamento ci asterremo per far governare chi arriva primo». Stasera cominceranno le trattative. L’articolo 56 della Costituzione stabilisce che il monarca «arbitra e modera il funzionamento regolare delle istituzioni». Juan Carlos non aveva mai avuto problemi a indicare il capo del governo; le urne indicavano sempre un vincitore, e se mancava la maggioranza assoluta i catalanisti erano pronti a dare una mano in cambio di prebende. Stavolta i capi partito dovranno trovare un accordo per non mettere in difficoltà il re; un po’ come accadde in Inghilterra nel 2010, quando si ruppe il bipartitismo e Cameron riuscì a governare grazie al liberaldemocratico Clegg; qui in Spagna il ruolo di Clegg tocca a Rivera, che spera di non fare la stessa fine.

Re Felipe peraltro se la sta cavando bene, anche sulla questione catalana. Sia Rivera sia Iglesias sono repubblicani, ma non intendono mettere davvero in discussione la monarchia. Si parla anzi di cambiare la Costituzione, per consentire alla primogenita Leonor di regnare: il padre non le ha dato il titolo di Infanta ma di principessa delle Asturie, che spetta all’erede al trono. Gli spagnoli non rimpiangono Juan Carlos ma l’hanno perdonato, dopo che nell’ora più nera della crisi era partito per la caccia all’elefante. Indimenticabile il suo messaggio tv di quattro secondi: «Lo siento mucho, me he equivocado, no volverá a ocurrir»; ho sbagliato, mi spiace, non succederà più. L’anziano re ha abdicato al momento giusto. Si è anche riavvicinato alla regina Sofia: non convivono ma compaiono insieme in pubblico. Lui ormai somiglia in modo impressionante ai ritratti un po’ grotteschi che Goya fece al suo antenato Carlo IV. Fuori dal Prado, i mendicanti presidiano gli incroci. Molti sono ex borghesi che hanno perso la casa. Il meccanismo è stato feroce: con i salari bloccati, per mantenere alti i consumi si sono moltiplicati i debiti, garantiti da case sopravvalutate o mai costruite; quando la catena si è spezzata, le banche sono state salvate, i titolari dei mutui no. Altri questuanti sono musicisti, giocolieri, artisti di strada. Un giovane su due è disoccupato, nei primi sei mesi dell’anno in 50 mila sono andati all’estero: il film che ha segnato l’epoca è la storia di un gruppo di ingegneri spagnoli che vanno a Berlino a lavorare come lavapiatti nel ristorante di un turco. Per la prima volta dal 1944, l’anno della carestia quando si pativa davvero la fame, i morti sono più numerosi dei neonati. È proprio la rabbia dei giovani a spingere Iglesias e Rivera. È il rifiuto del P.p. e del Psoe, entrambi corrottissimi, che continuano a essere i più votati dagli anziani e in provincia. A Barcellona il movimento dei senzatetto ha fracassato le vetrine delle sedi di tutti i partiti, tranne quelle di Podemos. Stasera Rajoy uscirà in testa dalle urne; ma nulla sarà più come prima. La Merkel è preoccupatissima.

20 dicembre 2015 (modifica il 20 dicembre 2015 | 12:08)
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_dicembre_20/elezioni-spagna-podemos-ciudadanos-tentano-l-assalto-potere-ma-l-ultima-parola-re-841f084a-a6f4-11e5-9876-dad24a906df5.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Cucchi, il carabiniere e le vie dell’ingiustizia
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 09, 2016, 05:35:51 pm
Cucchi, il carabiniere e le vie dell’ingiustizia

Di Aldo Cazzullo

È una strada già percorsa indicare «responsabili» di un «omicidio di Stato». Una strada che non conduce alla giustizia, ma a nuove ingiustizie. Una strada che non ripara a un lutto, ma ne prepara altri. La storia non si ripete mai allo stesso modo; e in particolare i richiami agli anni Settanta sono sin troppo frequenti. Ma i post con le foto dei «colpevoli» sembrano davvero la versione digitale di gogne che negli anni di piombo, in un contesto ovviamente diverso, venivano costruite con le montagne di carta degli appelli, delle vignette, dei volantini.

Non si assomigliano le vicende, si assomigliano i fenomeni, che crescono in modo esponenziale: non a caso, il giorno dopo che Ilaria Cucchi ha additato all’odio del web un carabiniere indagato per la morte del fratello, la sorella di un’altra vittima, Lucia Uva, ha fatto lo stesso con un poliziotto. Ed è un fenomeno da fermare. Per le stesse ragioni che ci hanno indotti e ci inducono ad appoggiare la battaglia di giustizia che Ilaria Cucchi ha portato avanti in questi anni. Il rispetto del corpo dell’arrestato è il fondamento dello Stato di diritto. Qualsiasi violazione va perseguita con rigore. Il caso Cucchi era stato liquidato con leggerezza. Solo la tenacia di una sorella e di una famiglia l’ha tenuto vivo. Ma la strada passa dai processi, non dai social network. Ilaria stessa l’ha scritto su Facebook: «Volevo farmi del male, volevo vedere le facce di coloro che si sono vantati di aver pestato mio fratello...».

È davvero così: in questo modo ci si fa del male. E si rischia di farne involontariamente ad altri. È una tentazione, quella di vendicare o rivendicare in rete, cui anche uomini dello Stato hanno ceduto. E hanno sbagliato. Alcuni sono stati sanzionati, altri dovrebbero esserlo. Ma gli errori altrui, talora i crimini, non consentono il ricorso a una giustizia rapida ma sommaria come quella digitale. Resistere è difficile, in un Paese dove troppo spesso il male resta impunito. Ma resistere è sempre necessario.

5 gennaio 2016 (modifica il 5 gennaio 2016 | 07:36)
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Da - http://www.corriere.it/cronache/16_gennaio_05/cucchi-carabiniere-vie-dell-ingiustizia-8cfd0644-b372-11e5-9fa2-487e9759599e.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. D’Alema: «All’estero non siamo più protagonisti. Arabia e ...
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 14, 2016, 06:41:51 pm
D’Alema: «All’estero non siamo più protagonisti. Arabia e Israele da alleati a problemi»
L’ex premier: «Non siamo mai andati in Europa con il cappello in mano. A picchiare i pugni sul tavolo provarono Tremonti e Berlusconi. Non li seguirei. Libia? Renzi ha rivendicato il ruolo guida, purtroppo l’Onu ha scelto un ambasciatore tedesco»


Di Aldo Cazzullo

Massimo D’Alema, rispetto a quando lei era premier e poi ministro degli Esteri, le alleanze in Medio Oriente sembrano essersi capovolte. I nemici di ieri sono diventati nostri alleati. A cominciare dall’Iran.
«Era sbagliato l’ostracismo verso l’Iran. Ed è divenuto insostenibilmente sbagliato con il passaggio dal conservatore Ahmadinejad al riformista Rohani. L’ostracismo era dettato non dagli interessi dell’Occidente, ma da quelli dei due alleati dell’Occidente: Arabia Saudita e Israele. I quali, più che alleati, si sono rivelati due problemi».

Come spiega la sfida dell’Arabia Saudita all’Iran?
«È un conflitto di potenze che tende a degenerare in un conflitto religioso; e i conflitti nazionali ammettono risoluzioni, quelli religiosi no. Eppure sciiti e sunniti hanno convissuto per secoli. La vera questione è l’egemonia nell’area. L’Arabia Saudita teme l’ascesa dell’Iran. E con un atto deliberato, privo di senso, ha messo a morte un chierico che non era un estremista, Nimr Al Nimr, per provocare la reazione dell’ala conservatrice del regime iraniano».

Nimr Al Nimr aveva avuto espressioni poco cortesi nei confronti del defunto re saudita…
«Il defunto re saudita auspicava che fosse “schiacciata la testa del serpente”, vale a dire che venisse distrutto l’Iran sciita con le bombe atomiche. Diciamo che è stato uno scambio di espressioni poco cortesi… Il punto è che l’apertura all’Iran non è contestata solo in Occidente. Ha nemici anche tra gli estremisti di Teheran. L’Arabia Saudita tenta di farla saltare nella speranza di restare partner privilegiato degli americani. La nuova leadership ha attitudini belliciste preoccupanti; si pensi all’avventura militare in Yemen. Io conoscevo bene il principe Faysal, figlio dello storico re Faysal, che è stato ministro degli Esteri per 39 anni — questa è stabilità, altro che l’Italicum —: era uomo di grande saggezza, non avrebbe mai fatto azzardi muscolari».

Nell’ultimo numero della rivista di Italianieuropei un approfondimento sulla crisi Arabia Saudita-Iran
Nell’ultimo numero della rivista di Italianieuropei un approfondimento sulla crisi Arabia Saudita-Iran

Chi sconfiggerà l’Isis?
«Fino a quando resterà questa tensione tra Arabia Saudita e Iran, l’Isis non sarà sconfitto. Purtroppo gli Usa hanno commesso errori gravissimi nella regione, dalla guerra in Iraq alla scelta del governatore Bremer — il quale non passerà alla storia come un genio — di liquidare, con Saddam, anche lo Stato e l’esercito iracheno. Oggi alcuni capi dell’Isis sono ex ufficiali di Saddam».

Quali sono i rapporti tra Riad e l’Isis?
«L’estremismo dell’Isis ha una radice culturale nell’islamismo più retrogrado, che ha il suo epicentro proprio nel Golfo. Questo non vuol dire che sia un’emanazione del regime saudita; ma non dimentichiamo che gran parte degli attentatori delle Twin Towers provenivano dalla migliore élite saudita».

E di Netanyahu cosa pensa?
«Il governo della destra israeliana sta giocando un ruolo negativo nella regione. Con l’espansione delle colonie, la prospettiva di uno Stato palestinese è di fatto scomparsa. La coltiva ancora la leadership politica, che vive di aiuti internazionali; ma la società civile no. Gli intellettuali credono ormai allo scenario che chiamano sudafricano».

Vale a dire?
«Un unico Stato, in cui i palestinesi dovranno battersi per i propri diritti. È nata così la nuova Intifada. Ma Israele, negando uno Stato palestinese, mette in pericolo la propria stessa idea di Stato ebraico. E la comunità internazionale accetta il doppio standard: Israele non rispetta gli impegni sottoscritti, viola le risoluzioni dell’Onu. Questo alimenta nel mondo arabo l’odio verso l’Occidente. Usa e Europa dovrebbero smetterla di avere nella regione alleati privilegiati, ai cui interessi finiscono per essere sacrificati gli interessi della stabilità e della pace. Noi abbiamo bisogno di un equilibrio fra i diversi Stati e di una convivenza basata sul rispetto dei diritti umani e dei principi del diritto internazionale».

Lei nel 2006 fu molto criticato per la sua passeggiata a Beirut sottobraccio a un deputato di Hezbollah.
«Spesso in Italia prevale l’ignoranza di trogloditi che non sanno di cosa si parli. Hezbollah rappresenta una parte significativa della società libanese. All’epoca faceva parte della coalizione di governo: il ministro degli Esteri era un accademico islamico espressione di Hezbollah. Siccome io lavoravo per la pace tra Israele e Libano, era inevitabile che incontrassi anche le forze che governavano il Libano».

Come andò?
«Arrivai a Beirut il mattino del 14 agosto, un’ora dopo la fine dei bombardamenti di Israele, che aveva colpito sino a un secondo prima del cessate il fuoco deliberato dall’Onu. Il ministro degli Esteri mi disse che c’erano molte vittime nei quartieri popolari, e avrebbe apprezzato che avessi fatto loro visita. Non era una manifestazione estremista; era lo scenario di un dramma, con civili che cercavano i loro congiunti sotto le macerie. Il mio fu un gesto di solidarietà umana giusto e apprezzato, che contribuì a garantire la sicurezza dei nostri militari poi schierati sul confine. Come i gesti che compii dall’altra parte, visitando i familiari di soldati israeliani rapiti. E incontrando all’aeroporto di Tel Aviv lo scrittore David Grossman, che in quella guerra aveva perso il figlio. Citai una felice espressione di Andreotti: l’equivicinanza. In Italia mi presero in giro».

Ora i guerriglieri sciiti sono nostri alleati?
«Alleati no; ma combattono il nostro stesso nemico. E in Siria noi dobbiamo costruire un fronte anti-Isis tra il governo, i suoi sostenitori interni tra cui la minoranza cristiana, i suoi sostenitori esterni che sono la Russia e l’Iran, e i gruppi sunniti appoggiati dall’Occidente».

In Libia cosa si può fare?
«Dopo il disastroso intervento di Francia e Gran Bretagna, in Libia c’è stata una gestione debolissima della crisi da parte dell’Onu. Né si è capito perché l’Europa l’abbia accettata. Ci si è impantanati in un’estenuante mediazione tra il governo di Tobruk e quello di Tripoli, anziché individuare una forte personalità politica, un alto rappresentasse delle Nazioni Unite, in grado di coinvolgere i diversi Paesi arabi che su un fronte e sull’altro hanno fomentato il conflitto».

Si era parlato di Prodi.
«Prodi avrebbe potuto essere una soluzione adeguata. Nel frattempo invece l’Isis si è insediato sulla sponda meridionale del Mediterraneo».

Qual è oggi il ruolo dell’Italia?
«Non siamo tra i protagonisti. Questo ci ha evitato se non altro di commettere errori. Non siamo tra coloro che hanno destabilizzato, ma neppure tra coloro che cercano di rimettere insieme i pezzi».

In Libia siamo stati una potenza coloniale.
«Ma in Libia non c’è affatto un sentimento anti-italiano, come mi hanno confermato i sindaci delle principali città. Anzi, tutti sperano che assumiamo un ruolo. Purtroppo il giorno dopo che Renzi ha rivendicato un ruolo-guida in Libia, l’Onu ha nominato l’ambasciatore tedesco».

L’Italia è passata dalla fase in cui «si andava in Europa con il cappello in mano» a quella in cui «si picchiano i pugni sul tavolo». Ma qual è la strategia giusta?
«Non siamo mai andati in Europa con il cappello in mano. Il centrosinistra vi andò con l’autorevolezza di governi che ridussero il debito pubblico dal 132 al 102% del Pil, portando l’Italia nell’euro e ottenendo per Prodi la presidenza della Commissione. Quando Ciampi prendeva la parola a Ecofin, non era considerato un questuante. A picchiare i pugni sul tavolo provarono Berlusconi e Tremonti, senza grandi fortune. Non seguirei quella strada. Renzi, anziché baccagliare con la Merkel, dovrebbe farsi promotore con gli altri leader del socialismo europeo di una nuova politica. Che fine ha fatto il piano di investimenti Juncker?».

I socialisti europei a Bruxelles e a Berlino fanno i vice dei conservatori.
«In tempo di rivolta contro l’establishment, i socialisti rischiano di rinchiudersi nel fortilizio con i loro antichi avversari, per giunta in una posizione subordinata. Invece devono dialogare con i nuovi movimenti. Che possono essere deviati a destra, in nome dell’antipolitica. Ma possono anche essere declinati a sinistra. Sono segnali interessanti sia il nuovo governo portoghese sia la scelta del socialisti spagnoli, che respingono le pressioni per una grande coalizione con i popolari e dialogano con Podemos».

11 gennaio 2016 (modifica il 11 gennaio 2016 | 09:40)
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Da - http://www.corriere.it/politica/16_gennaio_10/d-alema-all-estero-non-siamo-piu-protagonisti-arabia-israele-alleati-problemi-da1da5d4-b7df-11e5-8210-122afbd965bb.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Veltroni: «Renzi deve aver cura della storia della sinistra»
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 27, 2016, 06:46:09 pm
L’INTERVISTA
Veltroni: «Renzi deve aver cura della storia della sinistra»
L’ex leader: sul Senato dirò sì, ma al Parlamento più poteri di controllo
Non amo il dibattito sul partito della Nazione, il contrario della vocazione maggioritaria

Di Aldo Cazzullo

«Ci sta succedendo quel che di più pericoloso possa accadere a una comunità umana: stiamo perdendo la coscienza della storia».

Walter Veltroni, dice questo proprio nel Giorno della memoria?
«La memoria non è solo quella del computer, senza la quale siamo come gattini ciechi. La memoria è essenziale per la costruzione del futuro e la lettura del presente. La mia generazione è abituata a pensare la democrazia come unica forma di governo possibile; ma si sbaglia. Certo è la migliore; ma non è l’unica. Non è irreversibile. Ed è una creatura giovane. Per una parte dell’Occidente la pienezza della vita democratica, il suffragio universale, il voto alle donne sono giunti solo dopo che si erano conosciuti i campi di sterminio; in Grecia, Spagna, Portogallo verso la metà degli anni 70; nei Paesi del blocco comunista dopo l’89. Se non si capisce che ora bisogna curare la democrazia malata si fa un grande errore».

Sta dicendo che la democrazia è in pericolo?
«Le forme di governo non sono altra cosa dal contesto storico, economico, geopolitico e persino antropologico del tempo in cui si vive. Noi siamo in un momento di crisi delle democrazie. Ha senso dirlo oggi, perché è dalla tragedia dei lager che nasce la più bella delle nostre conquiste. La Germania di Weimar ci insegna che quando gli istituti della democrazia non funzionano nascono bisogni nuovi; e se si saldano a determinate condizioni storiche possono portare all’autoritarismo».

Dove sono i segni della crisi della democrazia?
«Dappertutto. Negli Stati Uniti emergono i due candidati delle ali radicali degli opposti schieramenti; Bloomberg, che ebbi modo di apprezzare quand’era sindaco di New York, potrebbe essere il primo presidente eletto fuori dai partiti che hanno fatto la storia d’America. In Inghilterra la sinistra è schizzata dal New Labour a una radicalizzazione estrema. In Spagna non si riesce a fare un governo. In Francia il primo partito è quello di Marine Le Pen. L’Europa rischia di saltare sui valori, a cominciare dalla libera circolazione delle persone stabilita a Schengen. Nel Nord culla della socialdemocrazia prevale una destra dura. A Est, crollato il comunismo, si ricostruiscono i muri, stavolta contro i migranti».

Perché accade questo?
«Perché ovunque i meccanismi della decisione sono messi a repentaglio dalla recessione più lunga e dalla rivoluzione scientifico-tecnologica più grande della storia. Talmente grande che lo spirito del tempo fatica a interpretarne i mutamenti. La pensiamo come un gigantesco luna park pieno di colori, suoni, meraviglie; senza capire che il luna park sta cambiando il nostro modo di essere. I cittadini ne escono diversi. Cambia la concezione del tempo, del rapporto tra le persone, del rapporto tra sé e gli altri. Cambia la condivisione di esperienze collettive. Anche questo spiega il successo di Trump e Le Pen in Paesi di antiche tradizioni democratiche».

Di solito la rivoluzione tecnologica viene letta come una grande opportunità.
«In parte è vero. Paradossalmente viviamo il tempo migliore della storia. Il tempo più lungo senza guerre in Occidente; e il tempo di vita più lungo che gli uomini abbiano mai avuto. Migliorano le condizioni delle zone più povere; non è mai stato tanto facile viaggiare e comunicare. Dovremmo essere più felici della generazione che è andata due volte in guerra. Eppure c’è un senso di rabbia e di paura, che ci imprigiona in una spirale dove l’odio e la timore per la perdita della nostra condizione generano risposte irrazionali».

La politica cosa può fare?
«Se sta dentro il luna park, contribuisce a rendere tutto questo più un incubo che una possibilità. Il cittadino moderno applica la stessa velocità delle tecnologie alla democrazia. Che ha i suoi tempi, ma deve accelerare i processi di decisione rafforzando i processi di controllo. Più velocità, più trasparenza: solo così ci si salva dal baratro. E la politica deve ritrovare la grandezza che ha perduto, il senso di una missione storica, il sentimento di una grande impresa collettiva. Oggi la politica viaggia rasoterra. Si è persa nei rivoli del presentismo, un altro guaio dei nostro tempo: tutto si consuma in 24 ore; si anticipa pure il Capodanno. Dobbiamo ritrovare il respiro, la forza di un senso collettivo, la vocazione a migliorare la vita di ciascuno».

La riforma costituzionale approvata dal Senato rappresenta un passo in avanti?
«Sì, perché va nella direzione del rafforzamento dell’esecutivo; non so se va anche verso il rafforzamento del controllo. Tutti gli organismi dovrebbero avere maggior potere di decisione: pure i presidenti delle federazioni sportive farebbero bene a pensare più ai risultati che a farsi rieleggere. Ma il Parlamento, anziché uno strumento di cogestione com’è ora, dovrebbe diventare l’organo di controllo di un governo investito di un consenso popolare determinato dal suo programma e dalle sue decisioni».

Il governo Renzi non è passato dalle urne.
«Sto parlando di modelli. Credo proprio che Renzi si proponga questo. Altrimenti la democrazia si squilibra, come in Turchia e in Russia».

Quindi lei voterà sì al referendum costituzionale?
«Sì, anche se avrei preferito un Senato più rappresentativo delle assemblee locali. C’è un’altra questione fondamentale: dobbiamo attivare un grande circuito di democrazia dal basso. Il cittadino non può partecipare solo dicendo su Twitter che tutto fa schifo; dev’essere chiamato in prima persona a decidere il destino del suo quartiere, della scuola di suo figlio. Deve diventare parte di una gigantesca rete di partecipazione democratica».

L’attuale Pd ha queste caratteristiche? Non basta dire che non deve entrarci Verdini, le pare?
«Certo che non basta. Il Pd è il più forte partito europeo. Questa forza conferma le ragioni della sua nascita: è possibile per la sinistra italiana avere una cultura maggioritaria. Non amo il dibattito sul partito della Nazione, il contrario della vocazione maggioritaria, perché riproduce l’errore di mettere insieme tutti pur di governare; come ai tempi dell’Unione, quando erano ministri Mastella e Ferrero. Il governo per noi è un mezzo per trasformare il Paese; non può essere un fine».

Ma Renzi è di sinistra?
«Renzi è segretario di un partito di centrosinistra. Sinistra non è una parolaccia. Il sentimento della sinistra esiste. Non parlo di quella conservatrice, ma di quella della legalità, del cambiamento sociale, dei valori. Non è un armamentario del passato; è l’anima del Pd. Della storia bisogna avere cura, altrimenti comincia una lenta diaspora, una perdita di consenso con conseguenze anche elettorali. Il Pd esprima un pensiero politico proprio, quello della cultura democratica; non diventi un pendolo che quando si sposta al centro perde voti a sinistra, e quando si sposta a sinistra perde al centro».

Unioni civili: avanti con le adozioni? O meglio fermarsi?
«La società è andata molto più avanti su questi temi di quanto la politica sia in grado di rappresentare. Le relazioni umane non possono essere compresse dalle norme. Papa Francesco ha fatto grandissimi passi avanti».

Ma ha ribadito che non si può confondere la famiglia tradizionale con le altre.
«Questo lo capisco. Ma non saranno codicilli a impedire il libero dispiegarsi delle varie forme d’amore. Alzare barriere in questi campi vuol dire erigere cavalli di frisia destinati a essere travolti».

Renzi dovrebbe esprimersi più chiaramente al riguardo?
«No. Mi pare abbia espresso in modo chiaro una volontà su cui sarà difficile tornare indietro».

Neanche dopo il Family Day?
«Ci si indigna se De Rossi o Sarri dicono una cosa sbagliata, e non si tollerano opinioni diverse dalla propria. È normale, anzi è bello che una piazza esprima la propria sensibilità, diversa dalla nostra. Non va delegittimata o demonizzata per questo. Non è che loro sono i conservatori e gli altri i rivoluzionari. L’importante è garantire la possibilità di esprimere le forme dell’amore nella molteplicità che oggi obiettivamente esiste».

27 gennaio 2016 (modifica il 27 gennaio 2016 | 09:52)
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Da - http://www.corriere.it/politica/16_gennaio_27/democrazie-pericolo-renzi-deve-aver-cura-storia-sinistra-8808f8b4-c466-11e5-8e0c-7baf441d5d56.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. D’Alema: «Il partito della Nazione già c’è ma perderà.
Inserito da: Arlecchino - Marzo 12, 2016, 09:39:56 am
D’Alema: «Il partito della Nazione già c’è ma perderà. Il malessere può creare una nuova forza»
L’ex premier: Renzi distrugge le radici del Pd. Fondatori ignorati, devo andare in ginocchio da Guerini?

Di Aldo Cazzullo

Massimo D’Alema, allora ci siamo? Bray candidato a Roma, Bassolino a Napoli, tutti contro Renzi, con lei regista?
«Sono sbarcato all’alba a Fiumicino dall’Iran, dove Vodafone non prende. Non avevo né telefono né Internet. Non so nulla di quello che è successo in questi giorni. So solo che il Pd versa in una condizione gravissima, e la classe dirigente reagisce insultando e calunniando con metodi staliniani».

Lei a Roma sostiene Bray, sì o no?
«Massimo Bray è un mio carissimo amico, ma è un uomo libero e indipendente. È anche una delle persone più testarde che ho conosciuto in vita mia. Non sente nessuno; decide, e va rispettato nella sua decisione. E non è neppure iscritto al Pd. Basta consultare la Rete per vedere quanti cittadini e associazioni si stanno rivolgendo a lui; anche se io non figuro, non faccio parte di questa comunità».

Quindi lei vota Giachetti?
«Non so ancora chi siano i candidati. Li valuterò liberamente da cittadino romano. Non so cosa farà Bray. Certo non ho il minimo dubbio che la sua candidatura sarebbe quella di maggior prestigio per la Capitale; mentre qui pare tutto un giochino interno al Pd. Sono molto attaccato a questa città, che dopo le vicende drammatiche che ha vissuto merita un sindaco di alto livello, a prescindere dall’appartenenza di partito».

Giachetti non lo è?
«Giachetti si è fotografato su Internet mentre traina un risciò su cui è seduto Renzi. Ma questa non può essere l’immagine del sindaco di Roma, neanche per scherzo. Il quadro è estremamente preoccupante. C’è una crisi della democrazia. Una caduta di partecipazione e tensione politica, di fronte alla quale i partiti, compreso il Pd, non riescono a schierare personalità all’altezza».

Siamo alla scissione che lei paventò un anno fa sul «Corriere»?
«Sta crescendo un enorme malessere alla sinistra del Pd che si traduce in astensionismo, disaffezione, nuove liste, nuovi gruppi. Si tratta di un problema politico e non di un complotto di D’Alema, che è impegnato in altre attività di carattere culturale e internazionale».

Lei è uno dei fondatori del Pd. Ci sarà o no la scissione?
«Anche Prodi lo è, e anche lui mi pare sempre più distaccato. Il Pd è finito in mano a un gruppetto di persone arroganti e autoreferenziali. Dei fondatori non sanno che farsene. Ai capi del Pd non è passato per l’anticamera del cervello di consultarci una volta, in un momento così difficile. Io cosa dovrei fare? Cospargermi il capo di cenere e presentarmi al Nazareno in ginocchio a chiedere udienza a Guerini?».

A Napoli bisogna annullare le primarie?
«I dati sono impressionanti. Nelle aree di voto d’opinione, Bassolino è nettamente avanti. In altre zone è sotto di tremila voti: a proposito di capibastone e di truppe cammellate, come le chiamano i nostri cosiddetti leader. Bassolino denuncia un mercimonio. Produce video che lo provano. E il presidente del partito, con il vicesegretario, rispondono che il ricorso è respinto perché in ritardo? Ma qui siamo oltre l’arroganza. Siamo alla stupidità».

Il presidente del partito, Matteo Orfini, è una sua creatura.
«Nella vita si può evolvere in tanti sensi. Del resto, loro dicono che sono bollito; anch’io avrò avuto una mia evoluzione. Ma come non capire che una risposta così sconcertante getta discredito sul partito, sulla politica?».

Basta primarie allora?
«Non ho detto questo. Ma così hanno perso ogni credibilità. Sono manipolate da gruppetti di potere. Sono diventate un gioco per falsificare e gonfiare dati. Bisogna scrivere nuove regole. E intanto rispettare quelle che già ci sono».

A Milano la sinistra Pd aveva pensato a Gherardo Colombo.
«Nessuno potrebbe sospettarmi di essere l’ispiratore di Gherardo Colombo: l’ultima volta che ci siamo incrociati, scrisse che con la Bicamerale volevo realizzare il programma della P2. Il punto vero è che il Pd non ce la fa più a tenere insieme il campo di forze del centrosinistra. E dubito che riuscirà a compensare le masse di voti perse a sinistra alleandosi con il mondo berlusconiano: non solo Alfano, Verdini, Bondi, ma anche Mediaset e uomini di Cl. A destra viene riconosciuto a Renzi il merito di aver distrutto quel che restava della cultura comunista e del cattolicesimo democratico. Ma così ha reciso una parte fondamentale delle radici del Pd. Ha soffocato lo spirito dell’Ulivo: del resto Renzi non ha mai nascosto il suo disprezzo per l’esperienza di governo del centrosinistra, che anzi è bersaglio costante della sua polemica».

Il premier replica che mai lei e Bersani avete avuto una parola in sostegno del governo.
«Non è vero. Potrei elencare una serie di mie dichiarazioni a favore del governo, a cominciare dagli 80 euro».

Allora Renzi non governa così male.
«L’Italia cresce dello 0,7%. Questo dato modesto viene presentato come frutto di grandi riforme. In realtà, la ripresa sia pur faticosa investe tutta l’Europa; e la ripresa italiana è metà di quella europea, forse un po’ meno. La Germania cresce dell’1,7, con la disoccupazione al 6. Altro che “siamo più forti dei tedeschi, l’Italia ha ripreso a correre, non ce n’è più per nessuno”. Sarebbe carino evitare la propaganda e dire la verità al Paese. Il nostro gap viene da lontano, non è certo colpa di Renzi. Ma lo si affronta con un vero progetto riformista di innovazione. Non vedo questo né nel Jobs act né nella cancellazione dell’Imu».

Sta dicendo che Renzi somiglia più a Berlusconi che all’Ulivo?
«Oggettivamente è così. La cultura di questo nuovo Pd è totalmente estranea a quella originaria. Anche la sua riforma elettorale si ispira a quella di Berlusconi, non alla riforma uninominale maggioritaria voluta dalle forze dell’Ulivo. È una legge plebiscitaria: non si elegge il Parlamento; si vota il capo».

Nascerà un partito alla sinistra del Pd?
«Molti elettori ci stanno abbandonando. Compresi quelli che ci avevano votato alle Europee, nella speranza che Renzi avrebbe rinnovato la vecchia politica: ora vedono un gruppo di persone che ha preso il controllo del Paese, alleandosi con la vecchia classe politica della destra. Non so quanto resteranno in stato di abbandono. Nessuno può escludere che, alla fine, qualcuno riesca a trasformare questo malessere in un nuovo partito».

Perché invece non combattere una battaglia interna al partito?
«L’attuale gruppo dirigente considera il partito un peso. Gli iscritti sono poco più di 300 mila; il Pds ne aveva 670 mila. Si tende a trasformare il Pd nel partito del capo. Tutti quelli che non si allineano vengono brutalmente spinti fuori. Guardo con simpatia alla battaglia della minoranza, ma non mi pare che, purtroppo, riesca a incidere sulle decisioni fondamentali».

Renzi obietta che è stato il segretario a convocare più direzioni.
«La direzione è una cassa di risonanza. È un luogo dove lui fa dei discorsi e viene applaudito. Poi si vota a maggioranza cose che dovrebbero vincolare tutti. Ma la politica è ascolto, scambio, mediazione».

Separare l’incarico di segretario da quello di premier aiuterebbe a tenere tutti insieme?
«Ma loro non vogliono tenere insieme il centrosinistra. Vogliono sbarazzarsene. Mi fanno ridere quelli che lanciano l’allarme sul partito della Nazione; il partito della Nazione è già fatto, è già accaduto. Lo schema mi pare evidente: approfittare della crisi di Berlusconi per prenderne il posto. Ma è un’illusione. Il problema non è Verdini, che è uomo intelligente e molto meno estremista di alcuni suoi partner del Pd. Verdini ha capito che se Renzi rompe con la sinistra va dritto verso la sconfitta, magari in un ballottaggio con i Cinque Stelle. Per questo, capendo di politica, è preoccupato».

Sta dicendo che Renzi sarà sconfitto?
«Secondo me, una volta lacerato il centrosinistra, non viene il partito della Nazione; viene il populista Grillo. O viene la destra. Perché il ceto politico berlusconiano che oggi si riunisce attorno a Renzi non gli porterà i voti di Berlusconi. La destra è confusa, ma esiste, e una volta riorganizzata voterà per i suoi candidati. Renzi sposterà voti marginali, non paragonabili a quelli che perde. Di questo bisogna discutere, anziché insultare la gente. La vera sfida è come si ricostruisce il centrosinistra. Ed è, oggi, una battaglia che non si conduce più, oramai, soltanto all’interno del Pd».

Lei come voterà al referendum di ottobre?
«Al momento opportuno presenterò in modo motivato le mie opinioni. Non mi sento vincolato se non dalla mia coscienza: si vota sulla Costituzione della Repubblica. La rivista Italianieuropei sta preparando un numero sui 70 anni della Costituzione. Ho appena ricevuto il contributo di Giorgio Napolitano. Si intitola: “Elogio di una classe dirigente”. Ma si riferisce a quella del 1946; non a questa».

10 marzo 2016 (modifica il 11 marzo 2016 | 14:13)
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Da - http://www.corriere.it/politica/16_marzo_11/d-alema-il-partito-nazione-gia-c-ma-perdera-malessere-puo-creare-nuova-forza-2805f89a-e6fd-11e5-877d-6f0788106330.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. «Sei un cristiano, tu vattene in chiesa». L’imam: segnalate...
Inserito da: Arlecchino - Marzo 28, 2016, 07:23:26 pm
«Sei un cristiano, tu vattene in chiesa». L’imam: segnalate i violenti
Tra gli islamici alla moschea di piazza Mercato in preghiera guidati da Abdullah (che in realtà si chiama Cozzolino ed è un ex frate francescano)

Di Aldo Cazzullo, inviato a Napoli

L’accoglienza è calorosa, all’insegna della fratellanza tra i popoli: «Che noia! Il venerdì dopo ogni attentato ci ritroviamo i giornalisti in moschea!». Si avvicina un altro barbuto: «Sei cristiano? Sì? E allora vai in chiesa». Ma nelle chiese italiane i musulmani possono entrare. «Se non sai l’arabo, qui non puoi pregare». Si avvicinano altri fautori del dialogo interreligioso: «Giornalisti vaffanculo! Italiani vaffanculo!». Segue una sfilza di parole in arabo, certo formule augurali di prosperità e buona salute. Un marocchino alto dice con aria complice: «Io la penso come Massimo Fini». Lo conosce? «Io ascolto sempre la Zanzara su Radio24: mi fa ridere e mi fa capire l’Italia. Massimo Fini ha detto che in Iraq gli americani hanno fatto 700 mila morti, tra cui 200 mila bambini. E i nostri bambini non sono meno bambini dei vostri. Questo Massimo Fini deve essere un uomo molto saggio. Io voglio andare alla Feltrinelli a comprare tutti i libri di Massimo Fini». Comprerà pure quelli di Oriana Fallaci? Il marocchino mi guarda come si guarda una mosca su un cuscino di broccato bianco.

Qui non siamo nella grande moschea di Roma, l’architettura di Portoghesi ai Parioli, che non ha un quartiere islamico attorno. Non siamo neppure in un’enclave musulmana come Molenbeek: è difficile creare un’isola di illegalità tra i bassi di Napoli, dove la legalità è sospesa da secoli. Siamo davanti alla moschea di piazza Mercato, il ventre della città. Qui hanno girato un film — Napolislam, storie di italiani convertiti — che sarebbe dovuto uscire nelle sale all’indomani delle stragi di Parigi. Non c’è scontro di civiltà ma burbera convivenza, si compra e si vende di tutto trattando sul prezzo, gli immigrati parlano dialetto, «Salam aleikum Rashid, tenite ‘e sigarette?». Statua di padre Pio. Altare con l’effigie della Madonna e le foto dei morti di camorra. L’immagine della Pietra nera della Mecca segnala l’ingresso della moschea, un antico convento di suore.

«Non è delazione; è difesa della comunità»
L’imam si chiama Abdullah, Servo di Dio. Assicura che questo è un luogo di integrazione: «Ogni venerdì vengono a pregare 600 persone da decine di Paesi diversi. Certo, non posso garantire per tutti. Non posso conoscere i sentimenti di ognuno». Fino al 2004 questa era la «moschea degli algerini», coinvolta in tutte le indagini sul terrorismo internazionale. Poi sono arrivati l’imam Yasin e appunto l’imam Abdullah. «Abbiamo lavorato molto. Abbiamo invitato qui sacerdoti, rabbini, poliziotti, scolaresche. Abbiamo detto a tutti i fratelli che quando incontrano un radicale, o anche solo uno che fa strani discorsi, devono segnalarlo. Non è delazione; è difesa della comunità. A Napoli e dintorni vivono 15 mila musulmani, e l’Isis purtroppo è un elemento di richiamo, inutile negarlo. Una tentazione. Ci sono giovani che non sanno chi sono e non sanno cosa fare, la pressione psicologica di Internet è fortissima, il fondamentalismo promette loro un’identità».

Cauta condanna e profondo fastidio
Cominciano ad arrivare i fedeli per la preghiera del venerdì. Il tono medio non è certo di approvazione dei terroristi. È di cauta condanna e profondo fastidio, per gli assassini e per chi vuole portare il discorso sugli assassini. Molti spiegano che già la vita non è facile, che già la polizia li prende di mira, e gli attentati rendono tutto più complicato. Ma tra i giovani esiste anche l’atteggiamento che il 14 novembre prevaleva tra i musulmani delle banlieue di Parigi: né con lo Stato Islamico, né con lo Stato francese, in questo caso italiano; che pure a noi spesso appare distante se non nemico, figuriamoci a loro.

Le donne non si vedono
La moschea ora è piena all’inverosimile. Le donne non si vedono, sono chiuse nella loro stanza. C’è anche l’artista siriano che ha intagliato il mihrab, verso cui tutti si inginocchiano, e il minbar, da dove l’imam Abdullah tiene la predica, in italiano inframmezzato da parole arabe: «Fratelli noi dobbiamo condannare senza alcun dubbio, senza alcun se, senza alcun ma, gli attentati compiuti non lontano dal nostro Paese. E la condanna non basta. Ricordatevi che Allah ci guarda. Allah ci osserva in ogni momento della nostra vita, quando siamo in moschea e quando siamo a casa. Allah sa tutto quello che accade nella terra, nei cieli e nel segreto dei nostri cuori». Un ragazzo ghanese in jeans, felpa Adidas e capelli rasta, legge un’antica copia del Corano; un vecchio algerino con la barba lunga, la kefiah e la veste bianca sino ai piedi segue le preghiere sull’i-Pad. Prosegue l’imam: «Allah sa quando il nostro sguardo tradisce qualcosa, Allah sa quando abbiamo qualcosa da nascondere. Noi saremo giudicati anche per le nostre intenzioni, ma non dobbiamo avere paura perché Allah è misericordioso, ci aiuta a vincere la tentazione del male. Però se qualcuno di noi pensa di discostarsi dal sentiero segnato da Allah, allora sappia che gli angeli saranno testimoni e scriveranno quello che non si palesa, annoteranno il male nascosto». Ci sono pachistani, senegalesi, bosniaci, uzbechi, albanesi, ceceni, tagichi, bengalesi, ivoriani, somali. «Rivolgiamo i nostri cuori a tutte le vittime del terrorismo, in qualunque Paese: facciamo in modo che questo male, che colpisce soprattutto noi musulmani, si muti in azione positiva. Noi musulmani dobbiamo avere un ruolo in questo». Poi tutti si inginocchiano, in quella selva di schiene piegate al ritmo di «Allahu akbar» che all’unico infedele presente fa sempre una certa impressione.

I notabili della comunità
All’uscita molti si fermano ad abbracciare e baciare l’imam, e a stringere la mano all’ospite. Sono i notabili della comunità, quelli che hanno studiato: Ibrahim è un ingegnere etiope, un altro Ibrahim è un economista fuggito dalla guerra civile in Yemen; ci sono due commercianti kirghizi, ci sono i tre figli di Khaled, siriano: Mustafà fa economia a Salerno, Suraya architettura a Napoli, Sarah lingue all’Orientale. Assicurano che fino a quando Assad non sarà cacciato gli attacchi dei terroristi continueranno.

Qui sorgerà la Casa di Abramo

All’uscita qualcuno va a spedire i soldi a casa, qualcuno va a scommettere nel negozio tra la vecchia sede del Pdl con le bandiere a mezz’asta e i fuochi d’artificio «Polvere di stelle». Piazza Mercato in realtà è uno dei centri della civiltà europea, 200 metri a destra ci sono le Sette opere di misericordia di Caravaggio, 200 metri a sinistra c’è San Gennaro esce vivo dalla fornace di Ribera, due tra le opere più belle mai dipinte da un uomo; dice l’imam che qui sorgerà la Casa di Abramo, un centro per le tre religioni monoteiste, «nello spirito del pensiero meridiano di Franco Cassano, della Napoli multicolore di Pino Daniele».

L’imam Abdullah si chiama Massimo Cozzolino
Queste cose le conosce perché l’imam Abdullah si chiama in realtà Massimo Cozzolino. Ex Federazione giovanile comunista, ex frate francescano, due lauree in filosofia e scienze politiche, master in peacekeeping; convertito a 36 anni, nel 1997, ha studiato l’arabo e il Corano a Londra. L’imam Yasin si chiama in realtà Agostino Gentile. Sono mille i napoletani convertiti come loro all’Islam. Chiedono una grande moschea e nell’attesa almeno un cimitero: oggi i musulmani che muoiono qui vengono sepolti a Roma o rimpatriati nei Paesi d’origine; tra i compiti dell’imam c’è lavare i corpi dei maghrebini e degli africani ammazzati dalla camorra; questa anche da morti resta per loro una terra straniera.

25 marzo 2016 (modifica il 26 marzo 2016 | 13:55)
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Da - http://www.corriere.it/cronache/16_marzo_26/napoli-islam-imam-segnalate-violenti-270ed55a-f2cf-11e5-a7eb-750094ab5a08.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Lo scandalo panama papers Il tradimento (fiscale) delle élites
Inserito da: Arlecchino - Aprile 08, 2016, 08:51:26 pm
Lo scandalo panama papers
Il tradimento (fiscale) delle élites
Una lista non è una sentenza ma fin da ora i Panama Papers si annunciano come lo scandalo più grave dell’era della rivoluzione digitale

Di Aldo Cazzullo

Dittatori e primi ministri di Paesi europei, il regista simbolo della sinistra libertaria spagnola e il patriarca dell’estrema destra francese, il calciatore più famoso del mondo e il pilota di Pescara, il presidente appena eletto per ripulire la Fifa e il padre del premier britannico che ha convocato un vertice contro l’elusione fiscale. È il tradimento delle élites transnazionali; compresi coloro che, come il clan Le Pen, millantano di stare dalla parte del popolo e di combatterle, le vecchie élites.

Intendiamoci: una lista non è una sentenza; e aprire un conto off-shore non è di per sé un reato (anche se spesso serve a commetterlo, e per un politico rappresenta comunque un vulnus alla fiducia del suo Paese e dei suoi elettori). Ma fin da ora i Panama Papers si annunciano come lo scandalo più grave dell’era della rivoluzione digitale, in cui è divenuto molto più difficile occultare gli arcana imperii, i segreti del potere; e per una volta la rete e i giornali hanno marciato di pari passo, i guastatori elettronici e i reporter d’inchiesta si sono completati a vicenda.

Il quadro — da verificare — che si intravede è devastante. Nel momento più nero della crisi, le punte di diamante dell’establishment globale mettevano al sicuro i loro cospicui risparmi; a volte con complesse soluzioni a prova di indagine, a volte con trucchetti da letteratura minore tipo i lingotti d’oro intestati al maggiordomo. Fino al caso più clamoroso: le grandi banche tedesche, salvate con il denaro dei contribuenti, offrivano ai clienti di riguardo la via d’uscita dei paradisi caraibici, abbandonando il ceto medio a pressioni fiscali oltre il 40%, che nessuna economia può sostenere, tanto più in periodi di magra come questo. Ed è una modesta consolazione che i primi ministri democraticamente eletti debbano dimettersi, mentre i dittatori — che restano tali anche quando confermati da un plebiscito — possono permettersi di dare la colpa alla Cia.

Non dobbiamo nasconderci che nella lista ci sono anche italiani. C’è da augurarsi sinceramente che le smentite di queste ore siano confermate dai fatti, che davvero — come annunciano giornali economici — almeno la metà degli 800 nomi avessero già chiesto di riportare i capitali in Italia; il che appiana l’aspetto giudiziario ma non cancella il giudizio morale. Resta un dato: il sistema mediatico viene spesso rappresentato come legato alla politica; e qualche conferma la tv pubblica continua a darla. Ma in realtà non c’è nulla di più facile che attaccare un politico; subito scattano gli applausi, nei talk-show e in rete. È più difficile avere un rapporto critico con il potere economico e finanziario. Non è immediato trovare una linea opportunamente mediana tra il «troncare e sopire» e la rappresentazione demagogica per cui ognuno è corrotto o corruttibile; tra le due semplificazioni per cui o sono tutti innocenti, o sono tutti colpevoli (vale a dire, anche qui, che nessuno è davvero colpevole). Distinguere, verificare, scavare è sempre più faticoso; ma è l’unica strada che abbiamo davanti. Proprio per il rispetto dovuto a quei ceti medi alle prese con la crisi, a quegli imprenditori che si giocano la partita ogni giorno in azienda accanto ai loro operai e impiegati, a quell’opinione pubblica che dalle notizie panamensi si sente danneggiata e beffata.

6 aprile 2016 (modifica il 6 aprile 2016 | 21:29)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/16_aprile_07/panama-papers-beffa-ceto-medio-ecc83d18-fc07-11e5-a926-0cdda7cf8be3.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. De Benedetti: Le élite hanno fallito L’Italicum cambi o voterò NO
Inserito da: Arlecchino - Luglio 10, 2016, 11:34:33 am
De Benedetti: «Le élite hanno fallito L’Italicum cambi o voterò No»
L’ingegnere: Renzi con questa legge elettorale rischia di diventare il Fassino d’Italia “Se ne freghi delle regole Ue: nazionalizzi le banche in difficoltà e investa sul sapere»

Di Aldo Cazzullo

«Siamo a un tornante storico. La globalizzazione di cui abbiamo cantato le lodi genera un sentimento di rigetto verso le classi dirigenti politiche ed economiche; e nel mio piccolo mi ci metto anch’io. Abbiamo consentito alla globalizzazione di espandere i suoi benefici per tutti noi: abbattere l’inflazione, rivoluzionare insieme con la tecnologia la vita quotidiana. Ma sono aumentate drammaticamente le differenze tra chi ha e chi non ha».

Chi ha cosa, ingegner De Benedetti?
«Soldi e cambiamento di prospettive di vita della propria famiglia. In America, ma non solo, si è avuta la distruzione della classe media, di quelli che oggi votano Trump».

Trump vincerà?
«Mi rifiuto di pensare che l’America possa eleggere uno come lui».

Un miliardario.
«Uno che racconta di essere miliardario, ma confonde i suoi debiti con il suo patrimonio: ha sei miliardi di debiti, al netto avrà un patrimonio attorno ai 200 milioni di dollari. Non posso pensare che i valori basici su cui è stata costruita la società americana, e che la tengono insieme nonostante esplosioni di rabbia tipo quella di Dallas, scelga Trump, che promette il totale isolazionismo. Anche se capisco la rabbia dell’operaio della General Motors che vuole votarlo».

Trump può vincere in Stati democratici e industriali come il Michigan e la Pennsylvania.
«L’operaio della General Motors 15 anni fa era classe media. Aveva una casa, il mutuo. Era uno dei propulsori dell’ascensore sociale, perché poteva mandare suo figlio all’università. Oggi il combinato disposto della tecnologia e della globalizzazione l’hanno espulso dal posto di lavoro, ridotto a cameriere da Starbucks o a fattorino per Amazon. Non è più classe media, non può più mandare i figli a un’università che costa 50 mila dollari l’anno per 5 anni. Per questo l’antica divisione tra democratici e repubblicani è del tutto scomparsa».

Lei scrive sull’Espresso che la medesima cosa è accaduta al referendum su Brexit: sono saltate le categorie conservatori-laburisti.
«Guardi, è la quarta volta in vita mia che scrivo un articolo su un giornale del gruppo. Il primo lo scrissi sulla riunificazione tedesca: previdi che la Germania l’avrebbe fatta pagare agli altri europei, con l’austerity. Il secondo alla vigilia della guerra in Iraq, presagendo il disastro. Il terzo dopo la vittoria apparente degli americani, che in realtà apriva la strada al collasso del Medio Oriente e al terrorismo».

E ora cosa prevede?
«Una nuova, drammatica crisi economica globale. Tenete d’occhio il cambio dollaro-yuan: la Cina comincia a svalutare, spia di una visione assolutamente negativa. Non so se sarà tra un mese o tra un anno; so che questa bolla finanziaria è troppo pericolosa. La Fed, la Bce, la Bank of Japan hanno riversato sul mondo tonnellate di moneta, ma non hanno contrastato la deflazione. Oggi ci sono 11 trilioni di dollari di titoli di Stato, emessi da vari Paesi, che hanno rendimento negativo. Questi soldi, stampati per entrare nell’economia, sono rimasti in una nuvola che aleggia sopra di noi e che spostandosi determina scossoni finanziari e minacce di tuoni e fulmini, senza penetrare nell’economia reale. È come se ci fosse un immenso prato che ha disperata sete di acqua, ma è coperto da un telo di plastica; la pioggia non dà ristoro, si trasforma in torrenti che sconvolgono il territorio».

Brexit c’entra?
«Brexit è una conseguenza, non una causa. La globalizzazione è diventata insostenibile perché crea troppe diseguaglianze. Nel 2002 lo 0,01% degli americani più ricchi guadagnavano a testa 700 mila dollari; oggi guadagnano 21 milioni».

La nostra Brexit è il referendum costituzionale. Lei come voterà?
«Non sono tra chi considera la Costituzione intoccabile. Io il 1946 me lo ricordo. Ero rientrato nell’agosto del ’45 da due anni di campo profughi in Svizzera. La prima preoccupazione era che non potesse tornare il fascismo. La nostra Costituzione, con due Camere che fanno lo stesso lavoro come in nessun altro Paese, è anche figlia della paura dell’errore. Oggi le condizioni sono del tutto mutate. Anche la Costituzione Usa è cambiata più volte; ma non ribaltando le garanzie dei pesi e contrappesi che costituiscono la democrazia americana chiunque sia al potere; e soprattutto non in accoppiata con la legge elettorale. Il combinato disposto della proposta di modifica costituzionale, e di una legge elettorale pensata per un sistema bipolare in un sistema tripolare, consente a una minoranza anche modesta di prendersi tutto, dalla Camera al Quirinale. È un pericolo che l’Italia non può correre».

Quindi voterà no?
«Spero di non essere costretto a votare no. La riforma ha molti aspetti positivi. Ma se l’Italicum non cambia, esprimerò la mia contrarietà. Per questo mi auguro che intervenga la Consulta. O che lo cambi prima Renzi».
Renzi lo esclude.
«Altri all’interno del Pd la pensano diversamente. Ci possono essere diverse leggi elettorali. Il Mattarellum è compatibile con le riforme costituzionali e non comporta i rischi dell’Italicum. Uno non può fare una legge elettorale in base alla situazione esistente; ma non può non tenerne conto. Altrimenti Renzi rischia di diventare il Fassino d’Italia».

Cioè di essere battuto dai 5 Stelle?
«Al ballottaggio i secondi e i terzi arrivati si alleano contro il primo. Non è politica; è aritmetica».

I 5 Stelle sono un pericolo?
«I 5 stelle sono la concretizzazione democratica della ribellione alle élite. Contestano quello che c’è ma non si sa esattamente cosa vogliano. Ora si preparano a diventare classe di governo: Grillo dice che non è contro l’Europa ma contro “questa Europa”: cosa significa, come la vorrebbe cambiare? La Raggi annuncia che vuole Roma pulita; bene, lo voglio anch’io; ma come? Di Maio vuole il reddito di cittadinanza; bene, ma chi lo paga?».

Sei mesi di governo Di Maio e arriva la trojka?
«Non lo so. Certo uno che non ha esperienza, mi propone il reddito di cittadinanza e non mi dice come lo finanzia, a me suscita una certa diffidenza».

Nel giro di pochi mesi ci attendono voti decisivi in Italia, in America, in Austria, in Francia.
«È come se lampadine di colore differente si accendessero tutte insieme in varie parti dell’Occidente, a segnalare il rischio del populismo. In Italia Grillo, in Austria e in Ungheria il paranazismo. In Inghilterra il populismo si è chiamato Brexit, negli Usa si chiama Trump, in Francia Marine Le Pen. Sono movimenti diversissimi tra loro, ma indice di uno stesso disagio».

Il populismo può ancora essere sconfitto?
«Sì, se si prende atto del fallimento delle élite. Faccio un esempio italiano. Capisco la buona fede con cui Renzi ha fatto i famosi 80 euro, nella convinzione di rimettere in moto i consumi e dare una spinta all’economia. Quella misura ci è costata 10 miliardi. Io penso che li avremmo dovuti spendere per borse di studio in facoltà scientifiche — ingegneria, fisica, biologia, medicina —, con criteri di selezione durissima, ma che evitassero la più odiosa delle ingiustizie: l’educational divide, la diseguaglianza del sapere. Io non lo vedrò, ma i miei nipoti vivranno in un mondo in cui non si sarà discriminati per i soldi o il colore della pelle, ma per l’accesso al sapere».

Lei in un’intervista al «Corriere» del novembre 2011 espresse un giudizio negativo su Renzi. Tre anni dopo ammise di aver cambiato idea. Oggi cosa pensa di lui?
«Il mio giudizio resta positivo. Renzi ha rappresentato un elemento di cambiamento cinicamente violento ma assolutamente utile al Paese. Ha aperto a una classe politica più giovane — e glielo dice uno vecchio —, meno legata alla storia, alle lobby, alla tradizione, più libera e spregiudicata nel modo di pensare. Renzi ha rotto la corda del trascinamento del passato. Ma è un formidabile storyteller di cose che vanno bene. Oggi l’economia, il lavoro, le banche non vanno bene. Non è certo colpa di Renzi; ma Renzi, come me, fa parte delle élite. E la gente se la prende con lui, dopo due anni di governo e tenuto conto dell’enorme potere che si è conquistato in modo totalmente democratico».

A dire il vero non è mai stato eletto.
«Queste sono sciocchezze. È stato eletto presidente della Provincia, sindaco di Firenze, segretario del Pd. Non è andato al governo con i carri armati ma all’interno del sistema costituzionale, come i suoi predecessori, pur essendo diversissimo da loro. E per fortuna». Anche da Prodi? «Prodi a mio avviso ha sbagliato sull’allargamento dell’Unione europea. La globalizzazione non è solo la Cina: pensi a quanti posti di lavoro ci sono costate le delocalizzazioni in Romania e Bulgaria».

Renzi perderà il referendum?
«Lo perde se non spiega bene la sua riforma. Il consenso è calato, ma non è certo colpa del Corriere, come qualcuno pensa; è colpa del fatto che hanno ridotto molto il contatto con la gente. Eppure è un calo, non un crollo come quello di Hollande. Renzi è ancora in tempo a salvarsi. A una condizione». Quale? Cosa deve fare? «Ribellarsi alle regole europee su due punti. Primo: nazionalizzare le banche che non ce la fanno da sole».

Non può, l’Europa non lo consente.
«Non sono d’accordo. Lo dice anche l’Economist, che non è un pericoloso sovversivo come me. Lei crede che la Germania non salverà la Landesbank di Brema? Cambiamo nome al Monte dei Paschi, chiamiamolo Landesbank Siena. E aiutiamolo. Lei crede che l’Europa sanzionerà Spagna e Portogallo per il deficit eccessivo? Non lo farà. Bisogna ribellarsi all’Europa delle regole, altrimenti rovesceremo il principio democratico. È la politica che fissa le regole, non le regole che fissano la politica».

E il secondo punto su cui Renzi dovrebbe disobbedire all’Europa?
«Sul vincolo del 3% per investire sul sapere. Collegare alla banda larga tutte le scuole sarebbe il vero modo di cambiare verso. Ridare la leva del sapere a chi la merita è più importante che rispettare un numerino. Se l’Europa vuole battere un colpo, cominci dalle generazioni future. Un’Europa che parla solo del passato rischia di morire, di dissolversi e — uso una parola grossa — di tornare alla stagione delle guerre».

8 luglio 2016 (modifica il 9 luglio 2016 | 07:18)
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Da - http://www.corriere.it/politica/16_luglio_08/de-benedetti-le-elite-hanno-fallito-l-italicum-cambi-o-votero-no-e711131e-4544-11e6-888b-7573a5147368.shtml


Titolo: CAZZULLO. Bottura: Io, salvato da mio figlio. Referendum, se vince il No avrei..
Inserito da: Arlecchino - Novembre 21, 2016, 11:35:54 am
LO CHEF
Bottura: «Io, salvato da mio figlio Referendum, se vince il No avrei voglia di andarmene»
Lo chef: «È un ragazzo colpito da una rara sindrome genetica, mi insegna i veri valori. La dote degli italiani è saper maneggiare l’irrazionalità»


Di Aldo Cazzullo, inviato a Modena

«A volte non riconosco più il mio Paese. Persone che si azzuffano per un parcheggio. Risse al bar per il cappuccino. Una tensione pronta a esplodere in ogni momento. Giovani che non hanno fiducia in se stessi e nel futuro», dice lo chef Massimo Bottura. «Poi incontro gli allevatori, i contadini, i pescatori: gli eroi del nostro tempo. Mi rendo conto di essere seduto su secoli di tradizione, su un territorio unico al mondo; e posso fare come Ai Wei-Wei, che manda in pezzi un vaso di duemila anni, per poi ricostruirlo. Mi considerano un avanguardista; in realtà faccio la cucina più tradizionale che ci sia». Qualche dato oggettivo: quest’anno Massimo Bottura è stato designato il più grande cuoco del mondo. La rivista del New York Times, sotto il titolo «The Greats», annuncia le interviste a Michelle Obama, Lady Gaga, e a lui. In copertina c’è lui.
Gli inizi
«Mio padre commerciava petrolio. Una vita d’inferno. Ore a discutere per guadagnare una lira su un carico di cherosene. Sono l’ultimo di cinque figli: ingegneri, commercialisti. Io dovevo fare l’avvocato. Con papà fu una rottura insanabile. Mia madre capì che dovevo seguire le mie passioni: la musica, l’arte. La cucina. La prima trattoria l’ho comprata da un ex elettrauto, in campagna; mamma veniva a preparare le tagliatelle e le torte. Poi mi sono preso una pausa e sono andato a New York». «Un giorno entro a Soho al “Caffè di nonna”, un locale aperto da un italoamericano, Roy Costantini, un ex parrucchiere. Vedo che manca personale e mi offro: “Si comincia domani” è la risposta. Il giorno dopo, l’8 aprile 1993, al bancone trovo un’altra neoassunta, un’attrice dai capelli rossi che deve arrotondare i magri introiti del teatro: Lara. Ora è mia moglie. Abbiamo due figli, Alexa, che studia a Washington, e Charlie, che mi ha salvato». «È Charlie che mi aiuta a stare con i piedi per terra. Nostro figlio ha una sindrome genetica rarissima. Non sappiamo cosa sia. Disformismi, difficoltà di apprendimento. Passo dopo passo sta crescendo, sta imparando tante cose. Anche a fare i tortellini a mano, in un’associazione di Modena che si chiama appunto il Tortellante, dove le nonne insegnano ai ragazzini. Per anni ho sognato che al telefono mi dicesse: “Ciao papà, come stai?”. Ha fatto molto di più. Quando mi hanno proclamato il migliore al mondo, al telefono mi ha detto: “Papà, sarai anche il numero uno, ma per me sei sempre un gran babi”, il mio fessacchiotto. È Charlie che mi insegna ogni giorno i veri valori della vita».
La politica e l’Expo
«Il referendum è una questione culturale prima che politica. Se vince il No, mi viene voglia di mollare tutto e andare all’estero: ringrazio il mio Paese che mi ha dato moltissimo, chiudo e riapro a New York. Il punto non è Renzi, o Grillo. È la logica per cui “in Italia non si può fare”. Se passa questa logica, è finita. Purtroppo molti giovani si arrendono prima di combattere. Abbiamo detto no alle Olimpiadi, rinunciando a due miliardi di dollari del Cio. Se è per questo, volevamo dire no pure all’Expo». «Io all’Expo sono andato, a recuperare gli scarti e cucinarli. Un’esperienza bellissima. Ho voluto ripeterla a Rio, durante i Giochi. Sono venuti sia Alexa sia Charlie, che la sera girava a offrire hamburger ai bambini di strada. Abbiamo aperto un gigantesco ristorante per i poveri di Lapa, un quartiere dove i ragazzi girano con la pistola alla cintola. Volevamo fare cultura, non carità. Non regalare gli avanzi, ma insegnare ai giovani volontari brasiliani a recuperarli. Ho dovuto trovare la forza di violentarmi e mettermi a loro disposizione, non il contrario. Il giorno dell’inaugurazione non avevamo né acqua né luce né gas. Sono scappato e sono andato a farmi un tatuaggio sulla spalla destra. Eccolo qui: “No more excuses”; basta scuse. Al mio ritorno abbiamo trovato l’acqua tastando il muro con lo stetoscopio, è arrivato un camion con il generatore di corrente, abbiamo acceso i fornelli con le bombole a gas».
Il metodo
«Dovevo fare una carbonara per duemila persone, ma avevo bacon per due porzioni. L’ho tagliato a fettine sottilissime e le ho stese sulla teglia. Poi ho preso delle bucce di banana. Le ho sbollentate, grigliate, tostate in forno. Alla fine erano affumicate, croccanti. Le ho fatte a cubetti, ricoperte di un altro strato di bacon e rimesse in forno: il bacon si è sciolto; le bucce di banana parevano guanciale». Diranno che lei rifila ai poveri le bucce. «Applico la stessa idea qui nel mio ristorante: uno strato sottilissimo di porcini, e poi tuberi, radici, zucca, castagne: il ceviche d’autunno. E le lenticchie possono avere lo stesso sapore del caviale, anzi migliore, se cotte nel brodo d’anguilla». Il metodo Bottura è sintetizzato dall’opera di Joseph Beuys all’ingresso del ristorante: un limone, una spina, una lampadina. «Natura, tecnologia, poesia. La materia prima, la tecnica, la creatività. Come diceva Beuys: la rivoluzione siamo noi. Musica, arte, letteratura, filtrate da un cervello contemporaneo. I quadri possono diventare piatti, anche le combustioni di Burri, che traduco in cucina bruciando l’acqua di mare disidratata». La ricetta che la rappresenta meglio? «Forse le cinque consistenze di parmigiano. Un paesaggio masticabile. All’inizio le consistenze erano solo tre. Le ho inventate per Umberto Panini, il re delle figurine che aveva aperto una fattoria biologica, ora in mano ai figli. Mi disse: “Il piatto è ottimo, ma stai pensando a te stesso, non al parmigiano”. Così l’ho rifatto. Aveva ragione: la tecnica deve essere al servizio della materia prima, non del cuoco. Ora le consistenze sono cinque. Il parmigiano di 24 mesi diventa un demi-soufflé, quello di 30 una spuma, quello di 36 una salsa, quello di 40 una galletta croccante, quello di 50 una nebbia. È un piatto che restituisce il lento scorrere del tempo in Emilia. Come l’aceto balsamico, che abbiamo messo da parte nel 1981, e ora ha vinto la medaglia d’oro».
I cuochi in tv
«Il dolce che preferisco si chiama “Ops! Mi è caduta la crostata al limone”. Una crostata rotta è diventata un’icona della cucina internazionale. La ricostruzione perfetta dell’imperfezione. Come il nostro Sud: che è l’imperfezione assoluta, eppure è il posto più bello del mondo; perché un posto bello come la Valle dei Templi o come Capri non esiste in nessun altro Paese. Anche se tendiamo a dimenticarcelo». MasterChef? Hell’s Kitchen? «Non mi piacciono i talent. La cucina è un atto d’amore, è un lavoro intellettuale; non è una gara. In tv non vado volentieri. Troppo superficiale. Al limite la tv viene da me. Così Cracco ha portato i suoi concorrenti all’Ambrosiana di Milano, dove abbiamo un altro progetto sociale. Sono molto amico di Carlo». Anche se ha fatto la pubblicità alle patatine nei pacchetti? «Ha capito di aver sbagliato. Del resto, così ha salvato il ristorante. Non è facile per noi far quadrare i conti. Qui alla Francescana ho 45 dipendenti per 28 coperti. Ma non è un’azienda. È un laboratorio di idee, che genera conoscenza, quindi coscienza, quindi senso di responsabilità». Bottura, lo sa cosa dicono di lei, vero? «Certo. Dicono che sono pazzo». E lei cosa risponde? «Che saper maneggiare l’irrazionalità è la più grande dote di noi italiani».

19 novembre 2016 (modifica il 20 novembre 2016 | 14:42)
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Da - http://www.corriere.it/cronache/16_novembre_19/io-salvato-mio-figlio-bottura-bbfe5722-ae94-11e6-a019-c9633cc39a91.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Renzi, la solitudine del segretario E Franceschini si muove da...
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 10, 2016, 11:34:31 pm
Il racconto
Renzi, la solitudine del segretario
E Franceschini si muove da padrone
È caduto il più longevo governo di centrosinistra della Seconda Repubblica. Nel Pd nessuno vuole ora le urne. E per molti eletti c’è in ballo il vitalizio

Di Aldo Cazzullo

«So’ quattro giorni che se dimette…». Dalle ultime file la voce dal marcato accento centromeridionale toglie ogni solennità all’addio di Renzi. Il Pd lo abbandona: le elezioni anticipate non le vuole nessuno. Cade il più longevo governo di centrosinistra della Seconda Repubblica, ma i deputati e senatori qui convenuti hanno una sola preoccupazione: salvare la legislatura, quindi le poltrone, e il vitalizio. Il 62% sono di prima nomina; deve passare almeno l’estate; prima viene la legge elettorale, poi il congresso, quindi le primarie; resistere resistere resistere. Una senatrice della corrente dei «turchi», quella del ministro Orlando, dà la linea: «Matteuccio nostro ci ha fatto perdere prima le amministrative, poi il referendum; stavolta a sbattere ci va da solo».

I «turchi» schierati
Ormai parlano di lui con sufficienza. «Mo’ vediamo che cce dice» si fa largo tra la folla il mitico Stumpo, l’aria del latifondista che si riprende le terre. «Calmi, calmi…è un assedio!» grida delicatamente il biondo Cuperlo. C’è qualche militante venuto a sostenere Renzi; non ci sono le proteste annunciate contro i sostenitori del No. D’Alema è a Bruxelles, Bersani passa dal retro e si apparta con Speranza; tutti i fischi se li prende il povero Boccia in De Girolamo, lettiano; Franceschini si siede al suo fianco per confortarlo. Ormai si sente il padrone del partito, e un po’ lo è. Il rapporto con Mattarella è antico. Rosato e Zanda, i due capigruppo che saliranno al Quirinale con Guerini e Orfini (Renzi torna a casa a festeggiare gli 86 anni della nonna più giovane e giocare alla playstation con i figli) sono uomini suoi. Quando scoppia la ressa — 400 persone per 100 sedie in un caldo africano —, è Franceschini a far defluire: «Quand’ero segretario abbiamo fatto i lavori di ristrutturazione, ma più di tanti non ci stanno; qualcuno esca se no crolla tutto». A Renzi ha assicurato che lavora per lui: non ha ambizioni personali, ma la legislatura è meglio portarla avanti; Matteo ha tempo per preparare la rivincita; nel frattempo a Palazzo Chigi potrebbe andare un altro uomo del Pd, magari un ferrarese con la barba autore di romanzi tra cui gli immortali Nelle vene quell’acqua d’argento e L’improvvisa follia di Ignazio Rando. I «turchi» sono già d’accordo con Franceschini. L’ultimo a cedere è stato Orfini, che ora chiama l’applauso all’arrivo di Renzi.

«Coraggio di don Abbondio»
Il segretario simula serenità — «non si fa politica con il broncio, passerò la campanella al mio successore con il sorriso più largo e più grato» —, ma ai sostenitori del No caverebbe volentieri gli occhi tipo imperatore bizantino della decadenza per poi succhiarli con un po’ di limone come ostriche: «Alcuni tra noi hanno festeggiato in modo prorompente e non elegantissimo la mia caduta; ma lo stile è come il coraggio di don Abbondio», chi non ce l’ha non se lo può dare; «non giudico e non biasimo, alzo anch’io il calice alla fortuna del Paese più bello del mondo». Stumpo, nella cui casa si sono svolti i festeggiamenti, sorride come Franti. Renzi dice in sostanza che il «governo di responsabilità nazionale» si può fare solo se ci stanno tutti, o almeno Berlusconi; altrimenti si va a votare. E siccome nessun partito avrà la maggioranza in entrambe le Camere, comincerà una nuova stagione di larghe intese contro Grillo; e non è affatto detto che «l’animale ferito» Renzi, come lo definisce un bersaniano, sia l’uomo adatto per guidarle.

«Massima discontinuità»
Matteo Richetti e Simona Bonafé, renziani antemarcia che nei giorni difficili sono tornati al suo fianco, gli hanno consigliato di dar retta a «San Mattarella», come lo chiamano senza ironia: votare subito converrebbe; ma non si può. Fassino ha tentato di placarlo suggerendogli un Renzi bis, almeno sino al 24 gennaio: se la sentenza della Consulta sarà autoapplicativa, si potrà andare subito alle urne; altrimenti ci si prende un altro mese per fare la legge elettorale. In tal caso i ministri potrebbero restare, tranne quelli che si sono più esposti: la Boschi sul referendum, la Madia sulla riforma bocciata dalla Corte, la Giannini non molto amata dagli insegnanti. Ma il segretario vorrebbe segnare la massima discontinuità: fuori tutti, tranne Padoan. «Si parla, si vota, si decide qui dentro, in direzione» quasi grida Renzi, che sa di non poter più contare sui gruppi parlamentari. Il dibattito è rinviato ma Walter Tocci del No vuole parlare lo stesso, Paola Concia gli urla di smettere: «Anche io volevo intervenire, sono venuta apposta da Francoforte, ma Matteo ha detto che non è il momento!». Il parlamentare europeo Daniele Viotti, anche lui gay dichiarato, si schiera in difesa di Tocci, la senatrice ex civatiana Lucrezia Ricchiuti la appoggia, la Concia renzianissima si avventa; per tenerla ferma deve muoversi la Boschi, aiutata dal galante Pino Catizone, per vent’anni sindaco di Nichelino. Renzi è già al Quirinale: dimissioni, ma congelate. Quinto giorno.

7 dicembre 2016 (modifica il 8 dicembre 2016 | 14:58)
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Da - http://www.corriere.it/la-crisi-di-governo/notizie/crisi-governo-solitudine-segretario-franceschini-si-muove-padrone-aadf4942-bcc7-11e6-9c31-8744dbc4ec0a.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Salvini, De Magistris e la Lega Sud che verrà
Inserito da: Admin - Marzo 14, 2017, 06:15:58 pm
MARTEDÌ 14 MARZO 2017
Salvini, De Magistris e la Lega Sud che verrà

Risponde Aldo Cazzullo

Caro Aldo,
quello che è successo a Napoli poteva essere evitato, se il sindaco non avesse sostenuto i gruppi che volevano impedire a Salvini di parlare ai napoletani desiderosi di ascoltarlo. Abbiamo il nuovo Masaniello? Io condivido la decisione del ministro dell’Interno di far svolgere il comizio al leghista. Altrimenti sarebbe una resa e la fine della nostra libertà.
Annibale Antonelli annibaleantonelli@virgilio.it
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Caro Annibale,
La prima volta che un leader leghista si affacciò a Napoli era il 2001. Bossi partecipò al congresso di An, con cui si era alleato. Il giorno prima lo intervistai al telefono; lui assicurò di amare Napoli e di sapere anche tutte le canzoni napoletane a memoria. Un grande inviato teorizzò che in fondo Bossi era un mediterraneo nell’animo e quindi la capitale del Sud l’avrebbe accolto come uno dei suoi.
«Scurnacchiate!», «tornatene in Padania!» gli urlarono nei vicoli i contestatori, che lo misero in fuga. Ma si trattava di una protesta spontanea, non organizzata come quella contro Salvini. De Magistris ha fatto come la Raggi con i tassisti: prima ha dichiarato di essere al fianco dei centri sociali; poi, dopo le violenze, ne ha preso le distanze. Troppo tardi.
La verità è che prima o poi nascerà una Lega Sud. Troppo grande è il risentimento verso il Nord, troppo grave il disagio vissuto in molte aree (non tutte) del Mezzogiorno. Ma la Lega Sud non può essere il sottoprodotto di un partito del Nord. Non può essere Salvini a fondarla, e neanche un uomo di Berlusconi (in passato ci provò Micciché). Non può che essere un populista napoletano. De Magistris ci proverà. Magari in coppia con Emiliano. (Ovviamente si tratta di una previsione, non di un auspicio). Resta il fatto che Salvini ha cambiato strategia. Bossi voleva staccare il Nord dal resto d’Italia per restare nell’euro. Salvini vuole ricompattare lo Stato nazionale portandolo fuori dall’euro. E se necessario è disposto a fare un tratto di strada con i grillini, dopo il voto. Salvini, Berlusconi e Meloni faranno un’alleanza elettorale per ottenere il massimo numero possibile di seggi; poi se la giocheranno ognuno per sé. E i sovranisti potranno avere in Parlamento più forza dell’alleanza annunciata tra Berlusconi e Renzi.

Da - http://www.corriere.it/lodicoalcorriere/index/14-03-2017/index.shtml


Titolo: Perché il made in Italy parla straniero Risponde Aldo Cazzullo
Inserito da: Arlecchino - Aprile 05, 2017, 04:50:01 pm
MERCOLEDÌ 5 APRILE 2017

Perché il made in Italy parla straniero

  Risponde Aldo Cazzullo

Caro Aldo,
tutta la stampa ci parla dei dazi che colpiranno anche il «made in Italy». Ma la Piaggio non è più italiana, la Vespa è nelle mani degli arabi, la San Pellegrino ha capitale svizzero e questo per tacere dell’Alitalia che qualcuno voleva solo italiana. Non le pare che i politici si sarebbero dovuti svegliare prima? Oppure tutto ciò fa parte di una strategia?
Marcello Sassoli, Esperia (Fr)

Caro Marcello,
La Piaggio è controllata da una holding italiana quotata alla Borsa di Milano. Le lettere sono tutte gradite, anche quando tradiscono una vena di pessimismo cosmico; ma talora vengono elaborate analisi complesse sulla base di dati che non corrispondono alla realtà. L’altro giorno un lettore negava che la denatalità fosse un problema, perché «i francesi sono meno della metà di noi»; invece i francesi sono più di noi, perché fanno più figli.
Lei però, caro Marcello, centra un punto importante. L’Italia è considerata nel mondo globale la terra delle cose buone e delle cose belle; ma, impegnati come siamo a lamentarci, non cogliamo questa enorme opportunità. Il risultato è che la domanda di Italia è soddisfatta nel peggiore dei casi da prodotti che suonano italiani ma non lo sono, nel migliore da stranieri che comprano marchi italiani e li valorizzano. La San Pellegrino si trova in tutti i bar e ristoranti del mondo; ma proprio in quanto è della Nestlé.
Questo accade perché non sappiamo fare sistema. Per una serie di motivi. Le aziende devono avere dietro una burocrazia efficiente, un fisco non punitivo, istituzioni finanziarie non asfittiche, una giustizia rapida, una rete diplomatica al servizio del made in Italy. E del sistema-Paese fa parte anche la cultura che un Paese esprime. Il tessuto produttivo italiano è ancora basato sulle famiglie; ma le famiglie a ogni passaggio di generazione tendono a dividersi e a litigare, spesso a profitto dello straniero. Cosa sarà dell’Esselunga e dell’eredità Caprotti? Luxottica resterà davvero un’azienda italiana? Per restare al paragone con la Francia, che pure si considera la grande malata d’Europa, Oltralpe esistono due grandi gruppi del lusso — fanno capo a Pinault e Arnault — che fanno incetta di storici brand italiani, e nessuno pensa di criminalizzarli, anzi. In Italia il successo è guardato con sospetto e ostacolato in ogni modo. Siamo più comprensivi con chi evade che con chi crea lavoro.

Da - http://www.corriere.it/lodicoalcorriere/index/05-04-2017/index.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. POPULISMI E IDENTITÀ Non possiamo perdere l’Olanda
Inserito da: Arlecchino - Maggio 09, 2017, 05:53:57 pm
POPULISMI E IDENTITÀ
Non possiamo perdere l’Olanda

  Di Aldo Cazzullo

Cosa succede se l’Europa perde l’Olanda? La patria di Erasmo e di Spinoza, la terra della tolleranza e della libertà? Nel Rinascimento e nell’età barocca, gli ebrei e i perseguitati trovavano nelle Province unite, nella borghesia mercantile e nella casa degli Oranje un porto sicuro. Chi non poteva stampare i suoi libri o manifestare le sue idee in casa, metteva vela verso Rotterdam o partiva per Amsterdam. Ancora oggi il Giorno del Re, che da quando è salito al trono Guglielmo cade il 27 aprile, è una straordinaria prova d’integrazione: vecchi e nuovi immigrati, indonesiani e comunitari, i discendenti dell’antico impero coloniale e gli espulsi dalla crisi del Sud Europa si mescolano uniformati dalla maglietta arancione (quest’anno si annuncia una festa speciale: il sovrano compie cinquant’anni). Amsterdam, del resto, è con Londra la metropoli più internazionale d’Europa (Parigi è una città francese e maghrebina con forti comunità da altre parti del mondo più o meno integrate, Madrid è soprattutto una capitale spagnola e latinoamericana). Eppure l’Olanda è stata anche il primo Paese europeo a conoscere l’intolleranza della modernità. A vivere le tragedie e i pericoli che il mondo globale porta con sé, insieme con le occasioni. Il 2 novembre 2004, alle 8 del mattino, Theo van Gogh — nome caro a chiunque ami le arti e la libertà: discendente del fratello del pittore e di un altro Theo van Gogh caduto nella Resistenza al nazismo —, il regista di Sottomissione, un film critico verso l’Islam, veniva assassinato con otto colpi di pistola da un integralista dalla doppia cittadinanza, marocchina e olandese, che gli ha poi tagliato la gola.
Le sue ultime parole furono: «Ma non ne possiamo parlare?». Theo van Gogh era stato amico di Pim Fortuyn, il fondatore dell’estrema destra olandese, come i media la definiscono per comodità. Ma Fortuyn non era un parruccone reazionario. Era un gay orgoglioso sino all’esibizione, oltre che un dandy celebre per la sua eccentricità. Insegnava Sociologia all’università di Groeningen. Era molto duro verso l’immigrazione islamica perché, diceva, «in quanto omosessuale non sopporto essere considerato un cane rognoso». Il 6 maggio 2002, nove giorni prima delle elezioni, venne assassinato da un estremista, non islamico ma «verde» (Fortuyn adorava le pellicce e aveva promesso di abolire la legge che vieta di allevare ermellini e visoni). Il suo corpo fu esposto in frac e papillon nella cattedrale cattolica di una Rotterdam annichilita dallo sgomento. «Verbijstering» titolarono i giornali: stupore. Il Feyenoord vinse la Coppa Uefa e la dedicò alla sua memoria, il suo partito prese un milione e 600 mila voti e 26 deputati (su 150). Pim Fortuyn è sepolto in un Paese che amava: l’Italia, a Provesano, in Friuli, dove aveva casa. Sulla sua tomba è scritto: «Loquendi libertatem custodiamus», difendiamo la libertà di parola.
Questo forse aiuta a capire perché nei sondaggi il partito antisistema di Geert Wilders — che non è Fortuyn — è in testa o tallona i liberali del premier Mark Rutte (si vota mercoledì). Le sue idee sono discutibili. I suoi tweet spesso odiosi. La sua proposta di mettere al bando il Corano e chiudere le moschee contraddice l’essenza dell’anima olandese. Gli altri partiti sono divisi su tutto, tranne che su un punto: mai un’alleanza con lui. Eppure non va sottovalutata l’ascesa della destra antieuropea e antislamica appunto nel Paese più tollerante d’Europa. Non lo si capirebbe se non si considerasse che nel suo successo, accanto alla componente xenofoba, c’è anche un aspetto identitario che, essendo in Olanda, assume pure un carattere libertario, sia pure espresso con parole distorte: il diritto degli omosessuali di vivere la loro vita alla luce del sole; il diritto delle donne di uscire con chi vogliono e vestite come vogliono. Il fatto stesso che Wilders preferisca i social ai comizi, anche per salvaguardare la propria sicurezza, indica che c’è un problema reale; e ovviamente lui è pronto a sfruttarlo. Non era stato detto che ci si deve battere per consentire agli avversari di esprimere le proprie idee in pubblico, a maggior ragione se non le si condivide?
Wilders è isolato e non riuscirà a fare un governo. Questa è una buona notizia. Il 2017 che si annunciava come l’anno dei populismi, dopo le grandi vittorie di Brexit e di Trump, potrebbe rivelarsi l’anno della loro sconfitta, dall’Olanda alla Francia dove Macron si rafforza ogni giorno. E se dovessero essere confermati i sondaggi che danno in crescita i socialdemocratici di Schulz — ma è un esito tutto da dimostrare —, potrebbe uscire ridimensionata anche l’austerity della Merkel, che ha avuto nel governo dell’Aia l’alleato più intransigente. Eppure sarebbe sbagliato negare la rilevanza di un Gert Wilders. Se persino gli olandesi perdono lo spirito d’apertura e di convivenza, il resto d’Europa deve tenere gli occhi vigili e la mente sgombra dai pregiudizi ideologici, aperta alla libera discussione delle idee; anche a quelle che non ci piacciono.

11 marzo 2017 (modifica il 11 marzo 2017 | 20:52)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/17_marzo_12/non-possiamo-perdere-l-olanda-77828ada-0693-11e7-8fe9-ed973c8b5d6a.shtml?intcmp=exit_page


Titolo: ALDO CAZZULLO. Walter Veltroni, si torna alla Prima Repubblica.
Inserito da: Arlecchino - Giugno 05, 2017, 12:12:36 pm
L’INTERVISTA

«Il proporzionale ritorno agli anni 80 Mi piaceva il Renzi dell’alternanza»
Walter Veltroni, ex segretario dem, critica il suo successore: ««La prospettiva di un governo Pd-FI è un errore gravissimo, rischia di alimentare la protesta»

Di Aldo Cazzullo

Walter Veltroni, si torna alla Prima Repubblica.
«È un momento molto importante nella storia del nostro Paese. Ne parlo con spirito di amicizia e collaborazione, non per criticare. Io, diversamente da altri, spero tutto il bene possibile per il Pd e la sua leadership. Una delle ragioni per cui la prima fase di Renzi mi aveva interessato è perché vedevo una sintonia su un tema di fondo: la costruzione di una democrazia dell’alternanza; i governi decisi dai cittadini; la sfida riformista».

Ora il Pd di Renzi si prepara a votare il proporzionale.
«Quando sono andato all’assemblea del Pd, cosa che non facevo da anni, ho detto: se si torna al proporzionale e ai governi fatti dai partiti, e magari si rifanno Ds e Margherita, non chiamatelo futuro; chiamatelo passato. Sono rimasto di questa idea. E sono molto preoccupato dal fatto che il mio Paese torni agli anni 80. È una svolta radicale, che rischia di accentuare drammaticamente l’impossibilità per l’Italia di conoscere il riformismo».

Si sente tradito da Renzi?
«Tradito no, non è un sentimento che coltivo. Sono stupito. L’ispirazione su cui il Pd è nato in questi anni è costruire un sistema politico civile e moderno. Qui si passa dalla demonizzazione dell’avversario all’accordo di governo con lui».

Anche lei trattò con Berlusconi la riforma elettorale.
«È vero. Le regole del gioco si fanno insieme; ma per la democrazia dell’alternanza, contro gli accordi fatti dopo il voto anziché prima del voto. Noi invece stiamo precipitando lì. Questo sistema senza nessun premio di governabilità rappresenta un paradosso; mi pare una conclusione tragicomica per una legislatura che ha avuto tre governi diversi. Ricordo quando Renzi diceva che la sera delle elezioni si deve sapere chi governerà. Ora faccio fatica a immaginare un Paese guidato da una delle due coalizioni che si possono formare».
Quali?
«Lega e 5 Stelle: se Grillo avrà più voti del Pd, il primo incarico di governo spetterebbe a lui. Oppure Pd e Forza Italia: un’alleanza di governo innaturale».

Un’alleanza nata già dopo il voto del 2013.
«Appunto: un’anomalia. Il segno di una fibrillazione iniziata con il declino di Berlusconi. Ma poi Renzi ha governato con una maggioranza in cui si vedeva molto forte la linea e il ruolo del Pd. Il proporzionale aggrava l’instabilità e i rischi di un attacco della speculazione finanziaria, che solo un governo stabile e riformista ci può consentire di evitare».

Non sarebbe la prima volta neppure per un patto Renzi-Berlusconi: c’è già stato il Nazareno.
«Io ho sempre difeso l’approccio con cui Renzi si era mosso anche incontrando Berlusconi: si dialoga sulle regole del gioco; ma poi quella sana distinzione tra innovazione e conservazione che fa la differenza tra sinistra e destra moderne si deve stagliare. Invece la prospettiva cui ci siamo avvicinando è un governo Pd-Forza Italia. Un errore gravissimo: perché non riesco a immaginare un riformismo possibile; e perché rischia di alimentare gli elettorati di protesta, offuscando quell’immagine di innovazione che il Pd ha sempre avuto».

C’è stato il referendum. Renzi riconosce che il suo sogno è morto il 4 dicembre.
«Ma così il Pd si alleerebbe con la forza che con maggiore determinazione ha condotto la campagna per il No. Io ho votato Sì, convinto che il Paese avesse bisogno di velocizzare e mettere in trasparenza i processi decisionali. Penso che la vittoria del No sia stata un errore, perché ha bloccato un processo di innovazione istituzionale di cui l’Italia ha grande bisogno. Sono da tempo angosciato per la crisi della democrazia. Il ritorno al proporzionale, con i governi di coalizione larga in cui ogni componente può chiedere potere in cambio del voto di fiducia, la aggraverebbe».

È pur sempre il sistema tedesco.
«Non è il sistema tedesco. Non c’è la sfiducia costruttiva. Ci sono 5 anni di fibrillazione e lacerazioni interne ai partiti, che con il proporzionale si sentiranno liberi di fare tutto quel che vogliono. C’è il trionfo del trasformismo. Già in questa legislatura ci sono stati 491 cambi di casacca; si figuri nella prossima. Stavolta lo dico io: voglio un Paese in cui la sera delle elezioni si sappia chi ha vinto. E lo dicono anche Romano Prodi e Arturo Parisi. Per il Pd la costruzione di due schieramenti tra loro alternativi è la condizione della sua esistenza».

Teme che il proporzionale causi la definitiva implosione del Partito democratico?
«Il proporzionalismo di per sé aumenta la frammentazione, al di là della soglia di sbarramento (e voglio vedere alla fine dove la metteranno), e induce a fare campagna contro le forze che sono più vicine. Lo sbarramento agevolerà la costruzione di un soggetto politico alla nostra sinistra, e l’accordo con Berlusconi le regalerà una formidabile arma di campagna elettorale: gli scissionisti la faranno tutta contro il “connubio”, presentandosi come l’unica voce della sinistra. Sarà lo stesso argomento di Grillo e Salvini. Un bel paradosso: rischiamo di finire in un governo con Berlusconi per non aver voluto una legge con premio di coalizione, che ci avrebbe fatto trovare un equilibrio con forze che fino a pochi mesi erano nel Pd. O con Pisapia».

Ma è difficile fare una legge che produca il bipolarismo, se i poli sono tre.
«A me non sarebbe dispiaciuta una coalizione di centrosinistra con un ticket Renzi-Pisapia. Giuliano ha votato Sì al referendum. Si potevano fare primarie di coalizione. Un’alleanza corta tra il Pd e Pisapia potrebbe avvicinare il 38-40%, una soglia a cui sarebbe ragionevole fissare un premio di maggioranza».

Renzi le risponderebbe che non ci sono i voti in Parlamento. Se non per il proporzionale.
«Mi viene in mente una scena di Ecce Bombo: all’esame il professore chiede quanto fa 2 alla terza, e il ragazzo comincia a sparare una cifra dopo l’altra, sino a 7 milioni e 400 mila. Siamo passati dalla posizione più maggioritaria — l’Italicum — al proporzionale, attraverso il Mattarellum, il Provincellum, il Rosatellum. Ma non è la stessa cosa. Quali sono le urgenze? Stabilità, velocizzazione, e — per me — riformismo. Il proporzionale le esclude tutte e tre. E poi siamo sicuri che Pd e Forza Italia avrebbero la maggioranza? Rischiamo una instabilità totale, come ai tempi dei governi balneari. E una certa politica si nutre di instabilità, la adora; perché è una grande leva di contrattazione del potere. Se questa leva la togli ai partiti e la metti in mano ai cittadini ogni cinque anni, le cose cambiano».

Anche in Germania c’è una coalizione larga.
«Ma Berlusconi non è Angela Merkel. Forza Italia e il Pd non sono la Cdu e l’Spd, hanno altre tradizioni, altre storie. Io ho cercato di svincolare la sinistra dall’idea di un’alleanza contro qualcuno; e ora ci alleiamo con Berlusconi contro Grillo? Anche solo adombrare una simile ipotesi significa aiutarlo. Il Pd ha rotto con Berlusconi sull’elezione del presidente della Repubblica, quando su Mattarella era possibile costruire un consenso ampio come riuscii a fare attorno a Ciampi; e ora pensa di andare con Berlusconi al governo? Con quale linea sull’immigrazione? E sulle riforme istituzionali? La storia italiana ci insegna che quando si va in confusione si creano pasticci che non finiscono mai bene».

Mattarella chiede un consenso più largo possibile sulla legge elettorale.
«E ha ragione. Ma la cosa è nata da un’intervista di Berlusconi, che ha proposto uno scambio: proporzionale, che interessa a lui; e voto subito, che interessa a Renzi».

Sbaglia?
«Da persona che sta fuori dalla politica ma la guarda con passione, non voglio fare polemica con il segretario che ho votato alle primarie. Voglio dargli un consiglio, anche se Renzi non ama i consigli e non ama le persone che ragionano con la loro testa. Non si faccia prendere dalla febbre di giocare una partita di rivincita a breve. Chiuda la prospettiva del governissimo. Altrimenti i nostri avversari la useranno contro di noi, in nome proprio dell’innovazione. Ci strapperanno la nostra bandiera. E rischiamo un insuccesso elettorale che va assolutamente evitato. Perché sarebbe un disastro non tanto per noi quanto per il Paese».

Enrico Letta ha detto al Corriere che potrebbe non votare Pd. Lei?
«No, io lo voterò comunque».

E la Rai?
«La Rai rischia di perdere a favore di Mediaset i talenti che ha costruito in decenni, per una norma approvata in Parlamento in una delle ventate di demagogia. La Rai non può tornare a essere pallina da ping-pong nel tornado della politica. Invece è ancora la politica a decidere se l’amministratore delegato deve andarsene; e il criterio è il modo in cui ha gestito l’informazione. Ancora non si capisce che i grandi orientamenti di massa non sono determinati dai tg o dai talk-show, ma dal flusso culturale. Il successo di Berlusconi fu figlio di Dallas e di Dinasty, non di Emilio Fede. La Rai è un’azienda; senza autonomia, è morta».

La Rai non è mai stata autonoma dai partiti.
«Ma il partito di Agnes e Zavoli era la Rai. Oggi sento esponenti del Pd dare giudizi sprezzanti sullo speciale per Falcone: il meglio del servizio pubblico».

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1 giugno 2017 (modifica il 1 giugno 2017 | 23:09)

Da - http://www.corriere.it/politica/17_giugno_02/proporzionale-ritorno-anni-80-5a403326-46ff-11e7-b9f8-52348dc803b5.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Renzi: “Era giusto provarci, ma i Cinque Stelle sono inaffidabili
Inserito da: Arlecchino - Giugno 13, 2017, 05:29:53 pm
Renzi: “Era giusto provarci, ma i Cinque Stelle sono inaffidabili”

L’intervista al segretario del PD di Aldo Cazzullo – Corriere della Sera
Pubblicato il 10 giugno 2017 in News, Primo piano

Renzi, adesso cosa succede?
«Era doveroso provarci; ma adesso la partita è chiusa. Abbiamo un orizzonte di quasi un anno prima del voto. Lavoriamo per l’Italia. Prepariamoci con l’approccio del maratoneta, non del centometrista».

La legge elettorale non si farà più?
«Mi pare difficile, se la legge che ha in teoria il consenso dell’80% dei parlamentari va sotto al primo passaggio a scrutinio segreto. Dopo l’appello del Capo dello Stato, il Pd ha provato seriamente a scrivere insieme le regole del gioco. È evidente chi è stato a far fallire tutto».

I 5 Stelle negano: sono sempre stati a favore dell’emendamento.
«Non prendiamoci in giro. In commissione avevano votato contro. O l’accordo vale per intero, o salta».

Ci sono stati anche franchi tiratori del Pd.
«Sei o sette su 300.I grillini si sono mostrati attendibili sulla legge elettorale come lo sono sui vaccini o sulle scie chimiche. E pensare che una parte della classe dirigente li considera interlocutori affidabili…».

A chi si riferisce?
«Una parte dell’establishment di questo Paese liscia il pelo ai populisti; mentre nel resto d’Europa si fa argine contro di loro. In Inghilterra l’Ukip sparisce, in Francia Macron prende il 23% al primo turno e il 66% al secondo perché è un baluardo contro il populismo. In Italia il Pd è la diga contro i populisti: chi piccona la diga, mette a rischio il Paese».

Forza Italia sostiene che non si può fermare tutto per un dettaglio.
«Non è un dettaglio: riguarda i diritti delle minoranze linguistiche, i trattati internazionali. Ora noi dobbiamo evitare un fallo di reazione. Questo regalo a Grillo non glielo facciamo. Il fatto che Grillo abbia fatto cadere l’accordo, su un emendamento presentato da una deputata di Forza Italia, non significa che ora si possa fare una legge contro Grillo, o contro Berlusconi».

Quindi la legge elettorale non si farà.
«Se si fa, deve avere il consenso dei 5 Stelle e di Forza Italia. E poi una legge c’è: quella uscita dalla sentenza della Consulta. Tutti sanno che il modello tedesco non era il nostro; ma sarebbe stato positivo per il Paese avere regole condivise. È andata così».

Pare quasi sollevato.
«No. Però almeno ora possiamo parlare di Jobs Act, di superare l’accordo di Dublino sui migranti, di come buttare ancora giù le tasse, di come portare a Milano l’Agenzia europea dei farmaci. Andare sui contenuti».

Quando si vota?
«Nel 2018, alla scadenza della legislatura. Come ho sempre detto. Questo governo è il nostro governo. Noi lo difendiamo. Non ero io a chiedere a tutti i costi di votare».

Come no?
«Almeno due dei contraenti del patto, Grillo e Salvini, volevano le elezioni. E in effetti, approvata la legge, il tema si sarebbe posto. Ma ora che la telenovela si è chiusa, la scommessa è fare una buona legge di bilancio per consolidare la ripresa. Abbiamo poco meno di un anno di tempo: dobbiamo impiegarlo senza perdere neanche un minuto, per stare fuori dal chiacchiericcio della politica politicante e dentro ai problemi reali. La questione demografica in Italia è più importante della legge elettorale, l’occupazione dello sbarramento. Siamo a 854 mila posti di lavoro creati dal 22 febbraio 2014; possiamo arrivare al milione».

Guardi che siamo il Paese che cresce meno in Europa.
«Non è così, come dimostrano gli ultimi dati Istat. E nel 2017 le cose miglioreranno grazie alle misure che abbiamo preso durante i mille giorni, da Industria 4.o agli investimenti. Certo, abbiamo margini di crescita decisamente superiori».

I fondatori del Pd, Prodi e Veltroni, sono molto critici con lei. L’accordo con Berlusconi, dicono, sarebbe un disastro.

«Ho visto Veltroni, ho sentito Prodi. Ho molto rispetto per le loro considerazioni. Non c’è dubbio che il Pd nasca a vocazione maggioritaria. Di per sé il maggioritario non garantisce la governabilità, come vediamo ora in Inghilterra; l’unica formula è il ballottaggio, contro cui erano in prima fila molti dei commentatori che si sono scagliati contro le larghe intese del tedesco. Ma aver equiparato un patto istituzionale a un patto di governo è stato un salto logico».

 Ma se tutti dicono che lei e Berlusconi siete già d’accordo.

«Berlusconi si è speso moltissimo contro di me e contro il referendum, dopo aver contribuito a scrivere la riforma e averla votata nelle prime letture. Il governo con Berlusconi l’ha fatto Enrico Letta, non io».

Comunque si voterà con il proporzionale. E lei avrà bisogno di alleati. Pisapia?
«Alla Camera il premio al 4o% consente di tentare l`operazione maggioritaria, anche se non è facile. Con le forze alla sinistra del Pd siamo alleati in molti Comuni dove ora si vota. Pisapia ha fatto per cinque anni il sindaco di Milano con il contributo fondamentale del Pd. Noi ci siamo; vediamo che farà lui». ‘

Anche se c’è D’Alema?
«D’Alema è uscito dal Pd contro di me; non credo adesso voglia fare coalizione. Comunque non dipende dalle persone ma dai contenuti: tagli all’Irpef, periferie, lotta alla povertà, Jobs Act. Non ho niente contro i fuoriusciti. Credo però che alcuni faranno fatica anche a tornare alle feste dell’Unità; perché la nostra gente ha vissuto come una ferita il fatto che se ne siano andati non sulla base di un’idea, come nella tradizione anche nobile della sinistra, ma sulla base di un atavico odio ad personam. Da ultimo mi sono sentito fare la morale perché non sostengo Gentiloni da gente che nel 2013 non l’avrebbe neanche candidato, e ora non gli vota la fiducia».

Sarà un altro Parlamento composto da nominati.
«Non è vero, i capilista bloccati sono cento su 63o. Dobbiamo scovare, valorizzare e candidare non soltanto i soliti noti, ma espressioni solide della società italiana. Quando si tratta di prendere voti con le preferenze, con le primarie, con i collegi, il Pd la sua parte la fa. Altri nei Comuni hanno preso da 9 a 47 preferenze: vada a vedere i risultati di Toninelli a Crema, di Di Maio a Pomigliano. E questi hanno immaginato di essere i grandi strateghi degli accordi elettorali?».

Ci sarà il suo nome sul simbolo?
«No, come non c’era alle Europee. Magari porta bene».

Nel 2018 sarà lei il candidato premier?
«A decidere il candidato sono i voti, non i veti. Al momento opportuno gli italiani decideranno. Noi intanto dobbiamo occupare lo spazio politico del buon senso, della ragionevolezza, contro gli urli e i populisti. È uno spazio che forse non vale il 51%; ma esiste. Una forza tranquilla».

La tranquillità non pare la sua dote migliore.

«A volte leggo di me sui giornali e non mi riconosco. Io non sono come mi raffigurate. Non sono accecato dall`ansia della rivincita. Vivo questa stagione con uno straordinario senso di gratitudine al Paese che mi ha permesso di fare il premier per mille giorni, nonché per gli italiani che mi hanno chiesto di guidare uno dei più grandi partiti europei».

Aveva detto che avrebbe lasciato la politica.
«Mi sono dimesso da Palazzo Chigi e dalla segreteria del Pd. Ma ho capito da tanti amici che non potevo dimettermi da cittadino. Nessuno è ripartito da zero come ho fatto io. Ma se sono qui è perché mi hanno votato centinaia di migliaia di persone».

Perché ha mandato via Campo Dall’Orto dalla Rai?
«Ma dai, io non c`entro nulla. Il cda ha bocciato il suo piano per l’informazione, con l’unico voto contrario del mio amico Guelfo Guelfi. Ad Antonio ho chiesto una cosa sola: togliere la pubblicità alla tv dei ragazzi, non decidere il conduttore di Ballarò».

Allora perché i suoi uomini della comunicazione attaccavano la Rai ogni giorno?
«Se si è dimesso, ci sarà stato qualcosa che non funzionava. Sono orgoglioso degli uomini che ho scelto per aiutarmi a guidare l’Italia: Descalzi, Del Fante, Starace, Cantone, Piacentini, Costamagna, Guerra, Mazzoncini. E adesso mi lasci dire buon lavoro a Orfeo».

E suo padre?
«Questa storia ha due aspetti. Il primo è umano: dopo aver letto sui giornali di suoi incontri segreti, ho dubitato di mio padre; e questo mi ha fatto male. Non me lo perdono. Perché la notizia era falsa».

Ma suo padre non farebbe meglio a occuparsi dei nipoti?
«E quello che vorrebbero anche i nipoti. Ma in uno Stato di diritto un cittadino non può leggere quello che abbiamo letto: “Datemi un pezzo di carta perché così arresto Tiziano Renzi”. Uno, perché gli arresti li fanno i giudici, non qualche ufficiale di polizia giudiziaria. Due, perché le prove vanno trovate, non fabbricate. Qui c’è l’aspetto politico: ho letto preoccupati commenti di esponenti delle istituzioni sul fatto che i quattro principali partiti si accordavano sul proporzionale; ma non ho sentito una voce per denunciare questi fatti di gravità inaudita. Non ho sentito nessuno darmi una risposta per sapere se è vero o no che un ufficiale giudiziario ha scientemente mentito, accusandomi di aver usato i Servizi segreti per fermare un`inchiesta. Io ho grande rispetto per i carabinieri e la magistratura; ma voglio sapere se qualcuno ha fabbricato prove false per arrestare il padre dell`allora presidente del Consiglio. Su questo andrò fino in fondo, senza arretrare di un centimetro. Extra costituzionale non era il patto sulla legge elettorale: fuori dalla Costituzione c’è questa roba qua. E io da cittadino voglio la verità».

Da - http://www.partitodemocratico.it/primo-piano/renzi-giusto-provarci-cinque-stelle-inaffidabili/


Titolo: ALDO CAZZULLO. Il duro mestiere del re di Spagna Risponde Aldo Cazzullo
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 12, 2017, 06:08:04 pm

GIOVEDÌ 12 OTTOBRE 2017

Il duro mestiere del re di Spagna
Risponde Aldo Cazzullo

Caro Aldo,
ma che fa il nuovo re di Spagna? Perché è lì? Ci resterà? Vale il padre Juan Carlos?
Marco Serri, Milano

Caro Marco,
Molti spagnoli erano più juancarlisti che monarchici. Il ritorno del re fu una soluzione studiata da Franco per mantenere la Spagna in un alveo autoritario. Il Caudillo sapeva che il franchismo moriva con lui, ma non credeva affatto alla democrazia liberale. Anzi, detestava il liberalismo quanto il comunismo, perché in entrambi vedeva i germi di un pensiero blasfemo che considerava contrario al carattere eterno della Spagna. Certo, la sua visione era reazionaria più che fascista, dirigista più che totalitaria. Mise la sordina agli elementi ideologici, diffidava della retorica proletaria di un Mussolini, non amava la mobilitazione del popolo in armi; l’esercito per lui era una cosa seria, e infatti si guardò dal gettarlo nella fornace della seconda guerra mondiale; in Russia andarono solo i volontari della Divisione Azul. Franco non governò con la Falange ma con i tecnocrati dell’Opus Dei; e dopo la fame degli Anni 40 anche la Spagna visse, sia pure meno dell’Italia, il suo sviluppo economico, mentre i ribelli continuavano a finire in carcere o alla garrota. Con la morte di Franco la situazione evolse in modo imprevisto sia da lui, sia dai suoi oppositori. La Spagna è diventata una democrazia liberale, con un re come garante. Ma pure gli antifranchisti hanno dovuto cambiare idee e linguaggio. Javier Solana quand’era in clandestinità faceva campagna contro la Nato; divenne ministro degli Esteri, poi segretario generale della Nato. I repubblicani si fecero piacere Juan Carlos. E lui si fece apprezzare quando tenne duro contro il tentativo di restaurare l’autoritarismo.
Anche Juan Carlos ha vissuto il suo declino. Nel momento più nero della crisi economica andò a caccia di elefanti in Africa, per poi fare ammenda con il «discorso del re» più breve della storia: «Lo siento mucho. Me he equivocado. No volverá a ocurrir»; mi spiace molto, ho sbagliato, non succederà più. Lo scandalo dell’Infanta e del genero condannato alla galera ha fatto il resto. Juan Carlos ha abdicato finché Rajoy era saldo al potere. Ora tocca al figlio, «el niño rubio», il bambino biondo. Felipe VI è stato duro con la sorella, rimuovendola dalla linea di successione. Ha sposato una borghese, una giornalista. Sta modernizzando lo stile della monarchia. I critici dicono che il nuovo sovrano è solo bello. Altri che è solo alto (quasi due metri). I separatisti lo accusano di essere «il re del partito popolare». Ora sta a lui dimostrare che non è così.

Da - http://www.corriere.it/lodicoalcorriere/index/12-10-2017/index.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Venezia come Barcellona? Serve riforma federalista
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 28, 2017, 05:21:30 pm
MERCOLEDÌ 25 OTTOBRE 2017

Venezia come Barcellona?
Serve riforma federalista

  Risponde Aldo Cazzullo

Caro Aldo,
D’accordo per l’autonomia del Veneto, ma non dimentichiamo che è stato lo Stato a intervenire per il salvataggio delle nostre banche...
Federico Sensini, Venezia
In Veneto può finire come in Catalogna?
Franco Marchi, Torino

Cari lettori,
In effetti anche in Catalogna cominciò con l’autonomia, e si è arrivati alla secessione. In Veneto gli indipendentisti esistono, ma la maggioranza — tra cui Zaia — per ora chiede un Veneto autonomo dentro un’Italia unita. Ma cosa accadrebbe se lo Stato rispondesse no alle loro richieste? Il processo separatista in Catalogna è cominciato quando la Corte costituzionale, controllata dal Partito popolare, ha bocciato lo Statuto catalano. In Italia la situazione è diversa, paradossalmente grazie alla Lega: mentre il partito catalanista che fu di Pujol e Mas — il quale resta il leader ombra — e ora è di Puidgemont esiste solo a Barcellona e dintorni, la Lega di Salvini è ormai un partito nazionale, se non nazionalista, in chiave anti-europea e antiglobalizzazione; e sostiene di volere l’autonomia anche per le altre Regioni.
Il problema, come spesso nella vita, sono i soldi. Il vicesegretario pd Martina e il presidente pugliese Emiliano sostengono che veneti e lombardi hanno tutte le ragioni, però la Costituzione vieta loro di trattenere più tasse sul territorio. Ma lo scopo dell’autonomia è esattamente questo (con la contraddizione colta anche da Federico Sensini: privatizzare gli utili e socializzare le perdite è vizio antico). È evidente che tutto dovrebbe passare da una riforma costituzionale in senso federalista; esattamente il contrario dell’ultima riforma, che invece riportava alcune competenze allo Stato.
Non va poi dimenticato che il vero localismo italiano non è definito dalle regioni, bensì dai comuni. Un lombardo di Sondrio parla, mangia, pensa diversamente da un lombardo di Mantova. L’Oltrepò pavese è un altro mondo rispetto alla Val Camonica. La Lombardia è più ampia dei suoi confini geografici: guardano a Milano Alessandria, Novara, Novi Ligure, Lugano, Piacenza, Verona. Questo fa della Lombardia una delle regioni più attrattive d’Europa, e nel frattempo ne dilata e frammenta l’identità, arricchita da generazioni di italiani arrivati dal Sud. Il Veneto ha un’identità più definita e arroccata; non a caso è l’area del Nord dove si parla più il dialetto. La Lombardia si sente centrale, il Veneto si sente trascurato; e anche questo ha la sua importanza.

Da - http://www.corriere.it/lodicoalcorriere/index/25-10-2017/index.shtml?intcmp=exit_page


Titolo: ALDO CAZZULLO. Il coraggio di parlare di fine vita
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 28, 2017, 05:22:21 pm
GIOVEDÌ 26 OTTOBRE 2017

Il coraggio di parlare di fine vita

  Risponde Aldo Cazzullo

Caro Aldo,
il 12 ottobre ho avuto modo di seguire il programma Piazzapulita e in particolare un dibattito poco pluralista sul tema dell’eutanasia. Si è preso spunto da alcuni casi di suicidio assistito in Svizzera per sollecitare l’approvazione della legge sul testamento biologico che secondo alcuni esponenti radicali, presenti in trasmissione, dovrebbe essere il primo passo verso una legalizzazione vera e propria dell’eutanasia. L’onorevole Lupi, esponente contrario all’eutanasia, ha ribadito, da laico, la sua contrarietà alla pretesa che lo Stato si faccia esecutore delle volontà omicide dei suoi cittadini. In certi momenti si aveva l’impressione di assistere ad una commedia dove i principali attori erano i soliti integralisti radicali supportati dalle lacrime dei loro sostenitori. Non poteva mancare il solito sondaggio che confermava l’approvazione dell’eutanasia dalla maggioranza degli italiani.
Simone Hegart

Caro Simone,
Io invece trovo che Corrado Formigli, il conduttore di Piazzapulita, abbia fatto bene ad affrontare un argomento di solito rimosso, e a dare voce a pensieri diversi. L’eutanasia non è all’ordine del giorno in Italia. In Parlamento però giace (e probabilmente non sarà approvata) una legge che dovrebbe rendere più semplice porre fine non a qualsiasi vita, ma a vite mutili e dolorose, senza costringere i parenti a ricorrere alla magistratura (o appunto ad andare in Svizzera). Quando posi la questione a Umberto Veronesi, mi rispose che nessun malato terminale gli aveva mai chiesto di morire; tutti gli avevano sempre chiesto di guarire. Ma cosa accade quando una persona non è più responsabile di se stessa? Quando la scienza non è in grado di guarire, però consente di tenere in vita, senza limiti di tempo ma anche senza speranza? Certo, il tema del fine vita è divisivo. Ma questa non è una buona ragione per non parlarne e non decidere. Al contrario, è il momento di affrontare una grande discussione, aperta, libera, rispettosa delle opinioni altrui, e soprattutto non inconcludente.
Si sente obiettare che in Parlamento non c’è una maggioranza solida, né ci sarà dopo le prossime elezioni. Ma una questione così complessa deve essere disciplinata da un accordo vasto, che possa reggere alle alternanze, anziché essere disfatto o capovolto al primo cambio politico. Possiamo pure decidere di non parlarne; ma è una questione cui purtroppo non possiamo sottrarci.

Da - http://www.corriere.it/lodicoalcorriere/index/26-10-2017/index.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. La sinistra perde perché non la vota più il popolo
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 23, 2017, 08:48:08 pm
SABATO 23 DICEMBRE 2017

La sinistra perde perché non la vota più il popolo

  Risponde Aldo Cazzullo

Caro Aldo,
c’è forse un virus che colpisce preferibilmente la sinistra? Vediamo i recenti risultati del Cile, della Germania e della Francia. In Spagna i socialisti puntellano un governo di destra pur di poter dire ci sono anch’io, e la situazione di Londra è sotto gli occhi di tutti. In Italia i componenti della sinistra, quale sinistra? studia come far vincere più comodamente la destra alle prossime elezioni. Quale male endemico ha colpito le sinistre? Forse non sono capaci di evolversi rimanendo ancorati ai vecchi schemi di una società di metà ’900?
Giuliano Sassa, Milano

Caro Giuliano,
In effetti la sinistra da qualche anno perde tutte le elezioni possibili. Anche in Catalogna i due partiti più votati sono gli indipendentisti e gli unionisti di centrodestra. Il Pd si attesta tra il 20 e il 25%, vale a dire la modesta quota raggiunta dalle forze riformiste in Europa, dalla Spd in Germania al Psoe in Spagna. Le ragioni sono molte, ma la più importante è che la sinistra non raccoglie più i voti e le energie della classe popolari. Ha impiegato decenni — in alcuni Paesi meno, in altri più — a separarsi dal marxismo per abbracciare un confuso liberalismo progressista, in cui tutti avrebbero dovuto avere le stesse opportunità grazie a una scuola e a una sanità efficienti e a una leva fiscale che avrebbe diminuito le disuguaglianze; ma non si è accorta che il mondo globale rendeva inutili le politiche nazionali, consegnava il potere alla finanza senza frontiere, esportava il lavoro all’estero o lo affidava a immigrati disposti ad accettare meno salario e meno diritti.
I partiti socialisti e democratici sono diventati partiti di ceto medio intellettuale, funzionari pubblici, insegnanti (tranne quelli italiani, inferociti con Renzi). Operai, precari, disoccupati, a volte piccoli produttori votano per movimenti antisistema, che possono avere un volto di destra come Marine Le Pen e Salvini, di sinistra populista come Podemos, o trasversale come i grillini. I rimedi? A Londra, Corbyn ha spostato il Labour a sinistra, ottenendo percentuali significative — anche grazie al sistema bipolare —, ma restando all’opposizione. A Parigi, l’ex ministro socialista Macron ha svuotato dal centro sia il Ps sia la destra repubblicana, con un fortunato capolavoro il cui passo si misurerà col tempo. A Roma, la sinistra è entrata nell’area di governo nel novembre 2011. Sei anni, al tempo drammatico della crisi e frenetico di Internet, sono molti. Passare all’opposizione non sarebbe una tragedia, e forse la aiuterebbe a ripensare se stessa e la sua idea di Paese.

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Titolo: Perché degli «Imi» non si parla mai Risponde Aldo Cazzullo
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 01, 2018, 04:30:07 pm
GIOVEDÌ 1 FEBBRAIO 2018

Perché degli «Imi» non si parla mai

  Risponde Aldo Cazzullo

Caro Aldo,
le sottopongo una curiosità personale. Per quale motivo le vicende storiche che hanno riguardato il quasi milione di Imi (Internati Militari Italiani) non vengono mai ricordate fra le tragedie causate dal regime fascista durante la guerra? Io stesso ammetto di averne conosciuto i dettagli solo recentemente, anche se il mio nonno paterno è uno dei sopravvissuti a questa tragedia. Perché questa pagina non viene raccontata dai libri di storia?
Alessandro di Leo aleleo@cisco.com

Caro Alessandro,
Lei ha ragione: sulla vicenda gli internati militari in Germania è calato per decenni il silenzio. I motivi sono evidenti. I comunisti celebravano la Resistenza come cosa propria; e quelli erano militari (anche se tra loro c’era una minoranza di comunisti, come Alessandro Natta, che però dovette attendere il 1997 per pubblicare, a 79 anni, un libro che la casa editrice del partito non aveva voluto, intitolato non a caso «L’altra Resistenza»). L’esercito non aveva interesse a valorizzare una vicenda da cui gli alti gradi, visto il disastro dell’8 settembre, non uscivano certo bene. La neonata Repubblica stava ricucendo con la Germania, in nome della solidarietà atlantica, e tendeva a celare più che a riscoprire sia le stragi naziste sia le terrificanti condizioni in cui i nostri soldati e ufficiali furono tenuti nei lager. Gli Imi si ritrovarono così figli di nessuno. E molti di loro preferirono non raccontare neppure in casa le sofferenze che avevano superato.
Le cifre non si conoscono con esattezza, ogni fonte ha le sue, ma non si è lontani dal vero nello scrivere che circa 800 mila militari italiani furono fatti prigionieri dopo l’armistizio. Quasi tutti finirono nei campi nazisti. Vennero picchiati, spogliati, affamati, umiliati. Poi venne loro detto: ora vi diamo cibo e una divisa, potete tornare in Italia, ma dovete fare la guerra al nostro fianco. Oltre 600 mila, quindi la netta maggioranza, rifiutò di combattere altri italiani per conto di Hitler e Mussolini. Non tutti quelli che firmarono andarono poi davvero a Salò, qualcuno riuscì a fuggire, qualcuno combatté con i resistenti; in ogni caso, giudicarli al calduccio delle nostre casette sarebbe ingeneroso. Di sicuro fu eroica la scelta di restare nei lager, spesso a morire di fame e di stenti. Anche quella fu Resistenza; e troppo a lungo non se n’è parlato. Un grande contributo alla riscoperta degli Imi fu dato da Carlo Azeglio Ciampi, un presidente cui ora la sua città, amministrata dai 5 Stelle, rifiuta di dedicare una via.

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Da - http://www.corriere.it/lodicoalcorriere/index/01-02-2018/index.shtml


Titolo: ALDO CAZZULLO. Come riuscire a frenare la fuga dei giovani
Inserito da: Arlecchino - Marzo 09, 2018, 06:37:05 pm
VENERDÌ 9 MARZO 2018

Come riuscire a frenare la fuga dei giovani

  Risponde Aldo Cazzullo

Caro Aldo,
si denuncia l’emorragia di cervelli italiani e si auspica che i giovani facciano sì esperienza all’estero, ma poi possano/debbano avere l’opportunità anche di tornare. Ma esistono le condizioni per il loro rientro? Mio figlio per esempio, vive all’estero da 5 anni. Morgan Stanley (dove lavora, prima a Mosca e oggi a Londra) lo ha promosso da semplice analista ad associato e poi a vicepresidente: a 26 anni è il più giovane VP della Banca ed ha già concordato la road map che prevede il passaggio a Executive Director entro due anni e a Managing Director all’età di 30 anni. Ci sarebbe una prospettiva simile in Italia?
Franco Tollardo

Caro Franco,
La grande fuga dei ragazzi italiani non va drammatizzata, ma ha assunto dimensioni ormai eccessive e preoccupanti. Nessun Paese può permettersi di perdere i suoi giovani più intraprendenti. Nessun sistema alla lunga può reggere se forma con il denaro pubblico professionalità che poi si realizzano all’estero.
Non voglio cadere nel piagnisteo, nuovo sport nazionale. È evidente che alcune città del Nord Europa offrono più possibilità dell’Italia. Londra ad esempio è la capitale dell’industria culturale, vi si parla una lingua conosciuta in tutto il mondo; è inevitabile che sia più facile fare cinema, teatro, tv, giornalismo rispetto al nostro Paese. Qualche anno fa mi sono trovato in un talk-show con una giovane coppia di architetti, originaria di un piccolo centro dell’Abruzzo. Lamentavano che a casa non c’era lavoro, mentre da quando si erano trasferiti a Zurigo stavano benissimo. I politici in studio emettevano alti lai e promettevano imminenti riscosse. Non trovai il coraggio di ricordare che Zurigo è la città più ricca e meglio organizzata al mondo, ed è chiaro che una coppia di architetti vi troverà più lavoro che in un piccolo centro dell’Abruzzo.
Ma qui siamo arrivati oltre il livello di guardia. Andarsene dall’Italia è per i nostri ragazzi un riflesso condizionato. Una scelta a volte dettata dalla necessità, ma altre volte dalla sfiducia nel nostro Paese. Ci sono due soli rimedi: grandi investimenti pubblici e privati per creare lavoro, in particolare nei campi in cui dovremmo essere forti, cultura arte bellezza turismo, oltre ovviamente alla scuola; e riforme coraggiose che smontino rigidità e privilegi, a cominciare dai meccanismi scandalosi di selezione della classe dirigente, che dall’università agli ospedali manda in cattedra preferibilmente figli allievi e fidanzate.

Da - http://www.corriere.it/lodicoalcorriere/index/09-03-2018/index.shtml