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Autore Discussione: ALDO CAZZULLO.  (Letto 144325 volte)
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« Risposta #105 inserito:: Giugno 22, 2011, 12:21:14 pm »

Dimenticare Pontida

Se davvero il vento è cambiato, nel Palazzo non ne è entrato un solo refolo. Né poteva essere altrimenti. Berlusconi ha innovato appena il look (senza doppiopetto). Per il resto, si è mimetizzato dietro Tremonti e Napolitano. Ha fatto propria la linea del ministro sui conti pubblici - subito la manovra da 40 miliardi, poi la riforma fiscale con tre aliquote - e il richiamo del Quirinale su Libia e missioni all'estero. Alla Lega ha concesso pochino. Non una parola sulla penosa vicenda dei ministeri al Nord, che rischiava di diventare un cuneo nella maggioranza; un accenno al passo indietro - «non voglio mica restare a Palazzo Chigi a vita» - evocato da Bossi a Pontida.

Berlusconi è in difficoltà e lega il destino di Tremonti al proprio. Non a caso il ministro, apparso fugacemente nel dibattito al Senato, appariva innervosito. Ma i più imbarazzati erano i leghisti. La richiesta velleitaria dei dicasteri a Monza e del ritiro del sostegno alla Nato in Libia e all'Onu in Libano non ha retto più di due giorni; e non sarà certo Pontida a cambiare la dura realtà del debito pubblico, più che mai nel mirino dei mercati internazionali ora che le agenzie di rating puntano anche le grandi aziende dell'energia controllate dallo Stato. Berlusconi ne se è fatto scudo, indicando la speculazione, l'allarme per i tassi dei Bot, la responsabilità nazionale come buone ragioni per evitare una crisi di governo; e in questo passaggio è apparso più convincente di quando ha intonato la litania della riforma istituzionale e del piano per il Sud, la cui citazione suscita ormai rabbia e ilarità.

Il Parlamento è stato generoso di quei voti che il Paese invece ha negato al centrodestra. Il lavorio di Verdini ha dato i suoi frutti: la maggioranza è oggi all'apparenza più solida di quella del 14 dicembre, contro cui si infranse il tentativo di Fini e delle opposizioni che ieri non hanno toccato palla. Ma il Berlusconi reduce dai referendum e dalle sconfitte di Milano e Napoli non appare più capace di quel cambio di passo che darebbe un senso agli ultimi due anni di legislatura. Altri governi all'orizzonte non se ne vedono. Nessun leader è divorato dall'ansia di andare al voto; figurarsi i peones. Bersani appare innervosito dalla crescente rivalità con Vendola e ha il problema di definire una politica economica credibile. Casini incassa l'apertura di Berlusconi a un'alleanza per le prossime elezioni incentrata sul partito popolare europeo, ma non può certo aprire una trattativa con il Cavaliere ancora a Palazzo Chigi. Il premier non cadrà per un rituale di Palazzo o per una votazione annunciata; è dagli ostacoli improvvisi che deve guardarsi. Oggi alla Camera tenterà un ulteriore esercizio di equilibrio. Ma potrebbe non bastargli, quando il refolo arriverà pure nell'asfittica politica romana, e anche i parlamentari - di cui tutti chiedono il dimezzamento senza che nessuno vi metta mano - se ne renderanno conto.

Aldo Cazzullo

22 giugno 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_giugno_22/cazzullo-pontida_7d65a1ee-9c90-11e0-ad47-baea6e4ae360.shtml
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« Risposta #106 inserito:: Luglio 21, 2011, 11:35:40 am »

Il racconto

La giornata nelle due Aule

Nel Pdl panico e rabbia

«Adesso in galera ci finiranno tutti»

Anatema di Paniz: chi si rallegra se ne pentirà


ROMA - Arriva il sì all'arresto, Berlusconi, che ha ascoltato con le mani sugli occhi tutto l'intervento di Alfonso Papa - «l'altra notte ho dovuto dire ai miei due bambini, dieci e dodici anni, che questo week end forse il papà non tornerà a casa» -, schizza via e si chiude nella stanza riservata al premier, Papa si aggrappa a Renatone Farina - «portami lontano di qui» -, e le deputate del Pdl sono percorse da un'onda di panico. Come ai funerali in cui ognuno piange la propria morte, anche qui si presagisce una fine.

«È finita!» dice infatti Viviana Beccalossi. Mai vista la Santanché così scossa. Maria Rosaria Rossi, l'organizzatrice delle feste romane dell'estate scorsa, piange con le lacrime, le mettono occhiali scuri. Anna La Rosa, che è qui come giornalista: «Sono terrorizzata, mi sento come nel '93, stanno rifacendo quello che hanno fatto a Bettino!». Anna Maria Bernini barcolla: «È andata male, molto male». Quando poi Gabriella Carlucci annuncia la notizia del Senato - «Tedesco del Pd è stato salvato dall'arresto con i nostri voti!» -, la paura si muta in rabbia. «Adesso finiranno in galera tutti!» dice Osvaldo Napoli, vicinissimo al premier. Tutti, anche Milanese? «Anche Milanese!». E Stracquadanio: «Berlusconi ringrazi Feltri e Belpietro. Sono loro che hanno agitato la polemica sulla casta, hanno spaventato i leghisti, hanno messo i nostri elettori contro di noi». A quel punto tutti si ricordano della Lega. «Sono stati i leghisti!». «No, sono stati i maroniani!». «Maroni ha già l'accordo con D'Alema per il governo tecnico». «È la fine anche per Bossi, i suoi hanno votato in difesa di Papa, avete visto invece Maroni?». Il ministro dell'Interno in effetti ha votato platealmente con il solo dito indice della mano sinistra, come tutto il Pd, per mostrare a fotografi e telecamere che lui poteva pigiare solo il tasto del sì all'arresto. Dice un altro berlusconiano di aver visto leghisti fotografarsi con il telefonino mentre votavano contro Papa, e poi mandare l'immagine ai sostenitori, come a dire: «Io con la casta non c'entro nulla».

L'immagine della casta ha aleggiato su Montecitorio per tutta la giornata. Paniz, dopo aver sostenuto che Berlusconi poteva davvero pensare che Ruby fosse la nipote di Mubarak, ieri ha superato se stesso. «Chi vuole Papa in carcere non vuole che la legge sia uguale per tutti; vuole che i parlamentari siano meno uguali degli altri». Paniz rivendica di aver letto tutte le 14.932 pagine mandate alla Camera dall'odiato Woodcock e invoca «il rispetto delle regole, anche quelle sgradite alla piazza. Non è forse lo stesso Woodcock che voleva in galera Salvatore Margiotta del Pd, poi assolto, e arrestò il principe Vittorio Emanuele, felicemente prosciolto?». Buu e fischi dai banchi dei democratici, che al Senato annunciano di voler votare per l'arresto del loro collega Tedesco. Riparte Paniz: «Rimanere indifferenti di fronte agli indici di un evidente fumus persecutionis è impossibile».

Poi parla Mannino, racconta la sua sofferenza personale, condanna l'abuso del carcere preventivo, «secondo solo alla tortura». A Palazzo Madama, Tedesco chiede di essere arrestato; sa però che la maggioranza compatta voterà per lasciarlo libero. A Montecitorio ora interviene Papa, annunciato da un grido in romanesco: «Daje, a Pa'!». «Io sono innocente davanti alla mia coscienza, a Dio, agli uomini. La verità non ha bisogno di difensori; la verità si manifesta per il suo stesso essere». Poi il passaggio sui figli e sulla moglie, «unico mio bene da quando ventiquattro anni fa l'ho conosciuta». Altro grido, stavolta in napoletano, un omaggio a Merola: «Je songo carcerato, e mamma muore!». Ancora Papa, biblico: «La pianta della verità cresce nel campo della vita come la zizzania della menzogna». Berlusconi ascolta sinceramente angosciato, alla fine applaude, Cicchitto furibondo fa una tirata contro il giacobinismo «che tante vittime ha mietuto nel secolo scorso», con il Pdl in piedi che lo acclama freneticamente. Tutto quel che riesce a dire Di Pietro è che Papa non dovrebbe votare su se stesso.

Nessuno, a destra come a sinistra, ha il coraggio di riflettere in pubblico su un fatto: se un magistrato, magari a torto, decide di arrestare un piccolo imprenditore che lascia a casa decine di operai, una madre con i figli piccoli, un marito con la moglie malata, nessuno potrà impedirglielo; i parlamentari invece sono protetti da un filtro di solito efficacissimo, oggi spezzato dallo scontro interno alla Lega che vede prevalere Maroni su Bossi, i critici di Berlusconi sui suoi sostenitori. D'Anna del Pdl viene quasi alle mani in Transatlantico con Cera dell'Udc, i commessi incerti non sanno se intervenire, ci pensa Casini che placca il suo deputato con inaspettata mossa da rugbista e lo trascina via. D'Alema fa notare che nessuno a sinistra ha applaudito: «Non ci si rallegra per un arresto. Comunque, è ufficiale: la maggioranza non esiste più, e non da oggi». Paniz lancia una maledizione tipo fra' Cristoforo: «Verrà un giorno in cui tanti di coloro che stasera si rallegrano proveranno l'amaro sapore del rimorso».

Aldo Cazzullo

21 luglio 2011 10:02© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/politica/11_luglio_21/cazzullo_pdl-panico-paura_6f334b16-b366-11e0-a9a1-2447d845620b.shtml
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« Risposta #107 inserito:: Settembre 14, 2011, 08:56:59 am »

IL PAPA E LA CORTE DELL'AIA

L'ingiustizia di un'accusa

L'idea di Benedetto XVI, un uomo la cui mitezza è riconosciuta anche dai critici, trascinato davanti alla Corte penale internazionale per crimini contro l'umanità, come il generale Mladic, è uno scenario che sembrerebbe astruso pure ai militanti dell'anticlericalismo. Eppure potrebbe rivelarsi un rischio concreto, se sarà accolto il ricorso depositato ieri all'Aia da due associazioni americane di vittime dei preti pedofili.

Tocca al procuratore generale della Corte, Luis Moreno Ocampo, decidere nei prossimi mesi se accogliere o respingere il ricorso. Ma tocca a noi, fin da ora, interrogarci su come i nuovi strumenti del diritto internazionale possano creare imbarazzi politici, mostruosità giuridiche e profonde ingiustizie umane.

La pedofilia è il più odioso dei crimini. Lo dice anche il Cristo del Vangelo secondo Matteo, in un passo evocato più volte proprio da Benedetto XVI: «Piuttosto di scandalizzare un innocente, meglio sarebbe legarsi una macina di mulino al collo e gettarsi nel mare profondo». La richiesta di giustizia, che sale dalle famiglie delle vittime dei preti pedofili in America e non solo, deve trovare una risposta. E la Chiesa stessa in passato non ha fatto tutto il possibile per punire e prevenire, preferendo talora sopire e troncare. Ma, se c'è un Papa che non si è nascosto nel silenzio e nell'imbarazzo, ma ha denunciato con forza i crimini e l'omertà, quello è papa Ratzinger. La sua «Lettera ai cattolici d'Irlanda» è il documento più coraggioso che il Vaticano abbia prodotto al riguardo nella sua storia. Benedetto XVI non merita proprio di vedersi piombare addosso l'assurda accusa di crimini contro l'umanità.

Al centro della questione, però, non ci sono soltanto la pedofilia e lo status giuridico del Pontefice, unico capo religioso a essere anche capo di Stato. È il nuovo diritto internazionale a finire in discussione. Il mondo globale ha bisogno anche di codici e tribunali globali. Il diritto di ingerenza è stato rivendicato sia dalle Nazioni Unite sia dalle amministrazioni americane, democratiche e repubblicane. Fu in nome di quel diritto che Bush padre decise l'intervento in Somalia, poi precipitosamente chiuso da Clinton. All'istituzione della Corte dell'Aia si è opposto Bush figlio; che però ha posto la globalizzazione della democrazia alla base delle guerre in Afghanistan e in Iraq. La questione è aperta, il confine tra tutela dei diritti umani e rispetto della sovranità nazionale è ancora da tracciare. Saranno la storia e gli equilibri geopolitici a farlo. Ma l'idea che il Papa possa essere chiamato in causa per i crimini, per quanto odiosi, dei sacerdoti cattolici e per il silenzio delle gerarchie spalanca scenari che sarebbero rifiutati da qualsiasi governo. In teoria, ogni capo di Stato, anche il Nobel per la pace Obama, potrebbe essere processato all'Aia. Nell'antica Roma si era intuito che il massimo del diritto coincide con il massimo dell'ingiustizia. Oggi il formalismo e l'ideologismo possono creare formidabili danni alla causa della giustizia globale, forgiare argomenti a beneficio dei suoi avversari, e consentire ai veri criminali di agire indisturbati.

Aldo Cazzullo

14 settembre 2011 07:22© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_settembre_14/l-ingiustizia-di-un-accusa-aldo-cazzullo_c5a4e7c0-de90-11e0-ab94-411420a89985.shtml
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« Risposta #108 inserito:: Settembre 22, 2011, 05:00:48 pm »

Dagli inizi con il Cavaliere al dispiacere per Santoro

«Inutile attaccare Silvio. Si è fatto da sé e deciderà lui come lasciare la scena»

Ricci: le ragazze? Pagate per ascoltare le sue barzellette


«Ero il preside dell'istituto per periti agrari di Coronata, sulle colline di Genova. Una mattina venne l'ispettore del ministero e mi chiese perché avessi la macchina targata Savona: "Lei arriva tutte le mattine da Albenga? Ma come fa?". In realtà, io arrivavo tutte le notti dal Derby di Milano. Cabaret. C'erano Andreasi, Cochi e Renato, Funari. Abatantuono curava le luci. Era il figlio della guardarobiera. Gli feci credere che "buliccio" in ligure volesse dire bullo, tosto. Lui si pavoneggiava: "Sono un buliccio...". Poi un giorno mi cercò Beppe Grillo. Era il 1977. L'avevano preso in Rai, gli serviva un autore...».
Antonio Ricci è nel suo piccolo ufficio a Milano2. Alle spalle, una foto di Berlusconi truccato da Stalin. Tutto è pronto per la ventiquattresima edizione di Striscia .

Ricci, ora il suo amico Grillo fa il capo partito. Lo voterà?
«A questo giro mi sono astenuto. Ma mi interessa la sua parte provocatoria. Mi fido più di un comico che di un politico di professione. Come mi fido più di un poeta che di un economista».

Da quando vi conoscete?
«Da una vita. Facevamo le serate insieme. E scherzi feroci. Tipo l'arrivo di Woody Allen al Derby: una truffa. Una volta mi presentò a Emilio Fede come manager della Bic, e gli propose di dirigere un tg nelle discoteche, a patto che mostrasse la nostra biro. "E che problema c'è?" rispose. Bisognerebbe anche ballare, aggiunsi io. Si sottopose al provino di ballo lì, al ristorante, davanti a tutti».

È vero che con Grillo abitavate a casa di Pippo Baudo?
«Sì. Fu un inverno gelido, il riscaldamento nel residence era rotto, Beppe tentava di scongelarsi mettendo a bollire pentole piene d'acqua. Così Baudo ci invitò da lui a Morlupo. Lo facemmo impazzire. Gli aprivamo l'armadio, indossavamo i suoi parrucchini. Lui era triste: Maria Grazia Grassini l'aveva lasciato, dopo una lite perché lei aveva recitato a seno nudo con Carmelo Bene. Pippo soffriva, si lamentava. Prendeva gli oggetti che avevano comprato insieme e diceva: "Questo l'ha toccato Maria Grazia, e io lo bacio!"».

Quando ha incontrato Berlusconi?
«In Rai era dura. Attaccammo la Dc e ci salvò Pertini, che conoscevo fin da bambino, quando il nonno mi portava ai suoi comizi ad Albenga (i comizi di Pertini erano cabaret puro). Poi Beppe attaccò il Psi e il viaggio in Cina di Craxi: "Ma se qui sono tutti socialisti, a chi rubano?". Mi chiamarono a Milano2 per Hello Goggi. Feci venire Leo Ferré: un mito, anarchico come il nonno, almeno pensavo. Sua moglie arrivò carica di pacchi comprati in via Montenapoleone. Lui prima di andare in scena si mise davanti allo specchio e si spettinò. C'erano anche Franco e Ciccio e io, stupido e snob, dicevo: spero di non incontrarli mai. Erano invece due grandi personaggi. Ciccio lo trovavi alle quattro di notte che fissava i cigni del laghetto. Oggi li rivedo in Ficarra e Picone».

Sì, ma Berlusconi?
«Gli proposi Drive In . Un programma dissacrante, che prendesse in giro gli Anni '80. Lui rimase interdetto. La tv che aveva in mente era tutt'altra: Johnny Dorelli, Mike Bongiorno, la Goggi appunto; nulla di trasgressivo, una super-Rai per attirare gli sponsor. Mi disse: "Lei è proprio sicuro di fare questa cosa? Sì? Allora facciamola. E diamoci del tu"».

Drive In è considerato l'inizio della degenerazione televisiva.
«Tanti ci hanno confuso con Colpo grosso . Drive In era satira. Il bocconiano. La modella di Armani che smoccolava in barese. Il paninaro che inventò dal nulla un linguaggio. E le ragazze fast-food: la caricatura del ritorno della maggiorata. Scoprii solo dopo che usavano un marchingegno per alzare il seno. Staino, Pietrangeli, Disegni e Caviglia, Gino e Michele: gli autori di sinistra lavoravano tutti lì».

Poi vennero le veline di Striscia. Lerner, con cui polemizzate ogni anno, dice che lei è stato finalmente costretto a dar loro la parola.
«Lerner è strumentale. Marketing. Lo fa per trarne giovamento, per apparire. Come Giovanardi quando attacca i gay e attizza la sua antagonista, la Concia. O come Masi, quando telefona a Santoro in diretta. In realtà, le veline hanno sempre parlato. La parte più importante, la telepromozione, è loro».

La parte più importante?
«La tv non è una finestra sul mondo. È una finestra sul mercato. Comunque Striscia sta dalla parte dei consumatori, delle associazioni. Fa, in tv, un po' quello che fa Grillo in politica».

Le spiace non rivedere Santoro?
«Sì. Michele è un maestro. Ha rifatto il Processo di Biscardi. Santoro è il puparo. Travaglio è il moviolista, che fa il punto della situazione; anche se il pubblico in studio, come le curve, fa il tifo e rimane della propria idea. Sceneggiata napoletana. C'è sempre un malamente : Ghedini, Belpietro, la Santanché. Seguirà brillante farsa, come dalle suore: ed ecco il finale con Vauro e le sue mossette».

Mai votato Berlusconi? Neanche una volta?
«Mai. Per motivi religiosi non posso non essere di sinistra. Un po' come Marco Rizzo: neo-vetero. Cinque anni fa ho anche fondato il Movimento SSSS: Si può essere di Sinistra Senza essere Stronzi. Ho avuto molte adesioni nella base. Tra i Vip però non ho sfondato».

Quella che secondo lei è satira, per Berlusconi è diventato stile di vita. Può continuare a guidare il governo?
«Lo san tutti che le ragazze in realtà venivano pagate solo per ascoltare le sue terribili barzellette. La difesa riuscirebbe facilmente a dimostrarlo e nessun giudice lo condannerebbe. Ma lui non vorrà. Secondo me ci gode che si conoscano le intercettazioni».

Sia serio.
«Lo sono. Come tutti gli uomini che si sono fatti da sé, Berlusconi si disfarrà da sé. Tentare di farlo fuori in modo forzoso è un esercizio di stile. Deciderà lui come uscire di scena, con un guizzo da comédien ».

Berlusconi si è mai lamentato di Striscia?
«Molte volte. Fin da quando Greggio fingeva una telefonata con Moana per poi scoprire che in realtà era Berlusconi nudo. A un Telegatto lui prese da parte i miei autori e disse: "Per cortesia, fatela finita. Le mie zie suore ci soffrono. E non ditelo a Ricci". Ovviamente me lo riferirono un minuto dopo. La volta successiva Greggio descrisse Moana-Berlusconi coperto di cinture Gibaud. Non la prese bene. Come quando andammo a intervistare Cuccia».

Cosa le disse quella volta?
«Era il momento in cui Mediaset doveva essere quotata in Borsa. Berlusconi usò un'altra delle sue tattiche: "Non sei stato tu, vero? Tu non avresti mai mancato di rispetto a una persona anziana, giusto?". Gli risposi: certo che sono stato io. So per certo che non ha gradito neppure rivedersi nella saga di Benny Hill».

Mandaste in onda anche il filmato della Tulliani con Gaucci. Fini se la prese con Berlusconi.
«Era già passato sui siti dei quotidiani. A segnalarmelo non fu il Cavaliere ma Edmondo Berselli, che non era un estimatore di Fini. Poi, certo, Striscia ha il suo peso».

Perché, secondo lei?
«Perché, anche se non siamo giornalisti ma cialtroni, noi andiamo in giro a cercarci grane, abbiamo 250 cause aperte, siamo noiosi e fastidiosi come le mosche. E ci attaccano. Dall'altra parte, la tv pubblica dà milioni di euro con i giochini. E nessuno ha nulla da obiettare».

Aldo Cazzullo

21 settembre 2011 07:34© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/politica/11_settembre_21/ricci-berlusconi-intrvista-addio-cazzullo_bb48fa0c-e410-11e0-bb93-5ac6432a1883.shtml
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« Risposta #109 inserito:: Settembre 26, 2011, 09:24:13 am »

«Giulio non FACCIA da solo. Primarie, ok Alfano ma siano previste per legge»

«Tremonti resti ma basta antibiotici

Ci vogliono le vitamine delle riforme»

Brunetta: Silvio è il medico, decide lui la cura. No alla patrimoniale dei poteri forti


Ministro Brunetta, è arrivato il momento delle dimissioni di Tremonti?
«No. L'errore che abbiamo fatto, ed è stato un errore collettivo, è pensare che Tremonti potesse sempre risolvere tutto. C'è stato un eccesso di delega. Tremonti sinora è stato un eccellente ministro dell'Economia, ma non può rappresentare da solo la collegialità del governo. Lui non lo può più pretendere; Berlusconi non glielo deve più consentire. Dal 2008 fino al 2014 abbiamo deciso provvedimenti di manovre cumulate per oltre 265 miliardi di euro: cioè abbiamo somministrato al corpo del Paese 265 miliardi di antibiotici. Adesso è l'ora delle vitamine. Vitamine strutturali: le riforme».

Lei è stato il primo a porre la questione Tremonti, quando tutti lo difendevano. Adesso è lei a difenderlo?
«Io dico che le dimissioni sono un trauma; e il Paese non ha bisogno di traumi, ma di risposte. Il governo è in grado di darle. In un momento come questo, calma e gesso. Teniamo la testa fredda».

Come valuta l'assenza di Tremonti nel voto su Milanese?
«Io ho votato in modo responsabile. A ciascuno la sua responsabilità. Guardiamo avanti. Ora il valore aggiunto è la collegialità; e questo vale per tutti. Il coordinamento dell'azione di governo spetta al premier. È lui il medico che deve decidere la cura».

Berlusconi è ancora in grado di farlo?
«Certo. Anzi, più fa il medico, meglio risponde agli attacchi forsennati, ingiusti, illegali alla sua persona. Sento dire: è talmente sotto tiro che sarebbe meglio si facesse da parte. Ma lo attaccano proprio perché non faccia il premier, per distoglierlo dalla sua carica rivoluzionaria. Come quando tentano di fermare il goleador ricorrendo al fallo sistematico».

Più che sulle riforme, il premier pare concentrato sulle «cene eleganti» e sugli interessi privati.
«Vedo un mare di ipocrisia in giro per il mondo. Chi è senza peccato scagli la prima pietra. Cosa si troverebbe intercettando magistrati, banchieri, giornalisti? Il mio consiglio a Berlusconi è questo: più lui fa il premier, più lui cambia l'Italia, più ridicolizza i suoi persecutori».

Le riforme passano anche attraverso una patrimoniale?
«No. Concordo con Franco Debenedetti: sarebbe il de profundis per le riforme. E con Alesina e Giavazzi: la patrimoniale è una foglia di fico voluta dai poteri forti per nascondere le rendite di posizione».

Che cosa intende per poteri forti?
«Tutte le rendite di posizione del nostro Paese: finanza, public utilities , patrimonio pubblico, cattivi sindacati. Una mano morta sull'Italia. Siccome questo governo ha cominciato a smantellare cattiva burocrazia, cattivo sindacato, aree di rendita nella scuola e nell'università, questo governo è diventato insopportabile per i poteri forti. Che reagiscono demonizzando il premier e lanciando l'idea salvifica della patrimoniale: in realtà, un modo per gettare la polvere sotto il tappeto».

Come ripianare i conti pubblici allora?
«Il paradosso è che siamo il Paese con la finanza pubblica più solida. Dal punto di vista del deficit, siamo i più virtuosi d'Europa: il nostro avanzo primario è il migliore. Ci penalizza il servizio del debito: quel che dobbiamo pagare per tenere su la montagna del debito. I mercati vogliono più rendimento per poter comprare i titoli italiani. Ma i fondamentali della nostra economia sono forti. Il sistema bancario tiene. Il tasso di disoccupazione è due punti sotto quello dell'area euro».

L'Europa, le agenzie di rating, le istituzioni internazionali sono molto più severe.
«Non è così. La vera specificità dell'Italia è il masochismo. Noi non guardiamo il bicchiere mezzo pieno ma quello mezzo vuoto, e ci facciamo del male, ci spariamo sui piedi. E questo nervosismo si trasmette ai mercati speculativi in cerca di opportunità».

Lei cosa farebbe per rilanciare l'economia?
«Noi abbiamo un'enorme quantità di capitale pubblico morto. Va trasformato in capitale vivo privato. C'è un capitale immobiliare che non fa economia, efficienza, produttività. Penso alla proprietà degli enti locali sul 99 per cento delle public utilities : luce, acqua, gas, trasporti, spazzatura. Alle case di Regioni, Province, Comuni, enti, Stato: due milioni di affitti irrisori; gli inquilini vorrebbero riscattarle, ma la politica non vuole. Siamo come una famiglia che fatica a pagare le rate del mutuo e ha tantissimo capitale che non rende niente».

Chi impedisce di privatizzare?
«Le forze della conservazione, quelle che io chiamo poteri forti, che si trasformano in giornali, partiti, voti. Elites conservatrici. Non parlo di destra e sinistra: la compagnia è molto mixata. Per fortuna, l'Italia è fragile ma anche resiliente».

Resiliente?
«C'è una bella raccolta di saggi, curata da Tommaso Padoa-Schioppa, cui collaborai anch'io, sulla resilienza dell'Italia: la proprietà per cui un materiale viene modificato, stressato, ma poi ritorna allo stato di prima o meglio di prima. Ercolino sempre in piedi: prende botte, ma si rialza. L'Italia alla fine ce la fa».

Ma si possono privatizzare Eni ed Enel, a questi prezzi di Borsa?
«Vendere i gioielli di famiglia a freddo sarebbe sbagliato. Bisogna farlo dentro un'onda di cambiamento. Dire con chiarezza che è finita l'Unione Sovietica in Italia, negli enti locali, nei ministeri, nel demanio, spiagge comprese. Cominciare una rivoluzione culturale, che stiamo tentando anche sotto l'aspetto costituzionale, con la riforma dell'articolo 41. Dentro questa ondata, si può diminuire il peso dello Stato in Eni, Enel, Finmeccanica. Non si tratta solo di vendere caserme, ma di fare una rivoluzione. La vogliono i mercati. La vuole l'Italia migliore. È anche il modo giusto di lottare contro l'evasione fiscale e il sommerso, che è il frutto del grande e perverso patto sociale tra lo Stato e i vari percettori di rendita. Altro che patrimoniale».

È d'accordo con Alfano, quando chiede primarie per tutte le cariche?
«Sì. Evitando le forme estemporanee, tipo primarie del Pd a Napoli. Giusto prevederle per legge. Magari anche in Costituzione».

Aldo Cazzullo
26 settembre 2011 08:14© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/11_settembre_26/tremonti-resti-ma-basta-antibiotici-ci-vogliono-le-vitamine-delle-riforme-aldo-cazzullo_7e7d1be8-e803-11e0-9000-0da152a6f157.shtml
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« Risposta #110 inserito:: Settembre 29, 2011, 04:52:32 pm »

Il Paese guarda, attonito

Il partito che per quindici anni si è chiamato Forza Italia e ora si chiama Pdl nasce non solo come contenitore dei voti cattolici e socialisti. Si è proposto, sin dalla vera fondazione - il discorso della «discesa in campo» di Berlusconi -, come una forza di opposizione alla prospettiva di un Paese trasformato «in una piazza urlante, che grida, che inveisce, che condanna». Il centrodestra nasce cioè come difesa della politica dall'ingerenza della magistratura. Un obiettivo condivisibile, se non fosse stato sin dall'inizio viziato anch'esso dal conflitto tra il bene pubblico e gli interessi privati del leader, e di uomini che hanno guardato al suo partito come a un ombrello dai guai giudiziari. Garantismo e impunità sono separati da un confine ben preciso. Le vicende parlamentari di queste settimane l'hanno ampiamente oltrepassato. E il Popolo della libertà non appare più come un argine contro il dilagare delle Procure (cui in effetti accade di uscire dall'alveo), ma come il manto della Madonna della misericordia degli affreschi medievali, sotto cui corrono a ripararsi anche sedicenti perseguitati e autentici malandrini.

Le sentenze spettano solo alla magistratura. Non ai giornali. Ma neppure al Parlamento. Il Parlamento è chiamato a escludere che un eletto di cui si chiede l'arresto sia vittima di una persecuzione; o a dare una valutazione politica sull'opportunità che un ministro di un dicastero importante resti al suo posto, nonostante sia indagato per mafia. Il paragone con gli anni tra il '92 e il '94 non regge. I casi di Papa, di Milanese, di Romano non sono storie di ingranaggi della macchina del finanziamento illecito ai partiti: una macchina perversa, che però implicava una responsabilità collettiva, di sistema. Qui siamo di fronte a parlamentari accusati di ricevere regali costosi, auto di lusso, yacht in cambio di informazioni su inchieste giudiziarie o posti nei consigli d'amministrazione di aziende pubbliche; e a un ministro su cui incombono accuse che potrebbero rivelarsi anche più gravi di quelle che hanno condotto in carcere il suo ex compagno di partito Totò Cuffaro. Il garantismo impone di considerarli innocenti sino alla sentenza definitiva; l'opportunità politica e il principio di uguaglianza di fronte alla legge consigliano invece un passo indietro, sollecitato in passato dallo stesso presidente della Repubblica, nel caso infelice di Brancher, ministro per poche ore. Qui invece siamo al paradosso per cui Tremonti finisce imputato nel suo stesso partito non per avere mal riposto la fiducia nell'ex braccio destro, ma per non aver contribuito a «salvarlo».

L'opposizione ha la credibilità morale per condurre questa battaglia in nome dell'intero Paese? La risposta è no. Il caso Penati è gravissimo, e finora non sono venute risposte convincenti né dall'interessato né dai vertici del Partito democratico. E, quando fu chiesto l'arresto del senatore Pd Tedesco, nel voto segreto prevalsero le ragioni dell'impunità. È l'opinione pubblica, è l'intera classe politica che deve porsi la questione. Costruire un sistema giudiziario equo ed efficiente, che non punisca con la carcerazione preventiva - tutti i cittadini, non solo i parlamentari - ma accerti le responsabilità, è un'urgenza cui nessuno può sottrarsi. A maggior ragione i moderati e i liberali cui tocca ora chiudere al più presto questa stagione, e ricostruire su basi più solide quell'area della legalità e del merito che mai come oggi manca al Paese.

Aldo Cazzullo

29 settembre 2011 07:52© RIPRODUZIONE RISERVATA
da http://www.corriere.it/editoriali/11_settembre_29/cazzullo_paese_attonito_c82c5370-ea57-11e0-ae06-4da866778017.shtml
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« Risposta #111 inserito:: Novembre 05, 2011, 11:24:56 am »

INVESTIRE NELL’ORGOGLIO NAZIONALE

Abbiamo fiducia nei nostri titoli


Ieri il signor Giuliano Melani è stato sommerso per tutto il giorno da mail e telefonate. Erano le risposte al suo appello, lanciato a pagina 24 del Corriere. Un cittadino sconosciuto, che assicura di non avere alcuna ambizione politica, ha invitato i suoi compatrioti a comprare titoli di Stato. Ma soprattutto ha sollecitato l’orgoglio nazionale. Noi crediamo che entrambi gli stimoli siano condivisibili.

L’Italia non è la Grecia, e non lo sarà mai. Ripeterlo è ovvio ma non inutile. Non c’è alcun pericolo che i titoli emessi dallo Stato italiano non siano onorati. I risparmiatori che in queste stesse ore hanno annunciato l’intenzione di spostare i loro investimenti dal nostro ad altri Paesi esprimono preoccupazioni comprensibili, ma sbagliate. L’Italia è la nazione descritta ieri a Cannes dal presidente Obama, che non ha le inclinazioni politiche del nostro governo e neppure una particolare simpatia per il nostro premier, ma ha voluto ricordare al mondo che l’Italia è un grande Paese, «con un’enorme base industriale e con asset straordinari». Una considerazione oggettiva, che per primi noi italiani dovremmo tenere sempre a mente.

Comprare Buoni del Tesoro, come il signor Melani e si spera altri milioni di risparmiatori potranno fare in piena libertà nei prossimi giorni, non è un azzardo. Se lo fa e lo ha fatto la Banca centrale europea perché non dovremmo farlo noi? Non si tratta di chiedere slanci patriottici, come quelli sollecitati in altri tempi, che non hanno portato fortuna. Si tratta di essere consapevoli di noi stessi, degli interessi comuni che ci legano, del rapporto che ci unisce a una patria unificata proprio 150 anni fa e a uno Stato a volte sentito come distante e nemico (e che a volte si comporta in modo tale da confermare questo pregiudizio), ma in realtà non è «altro» rispetto a noi.

Ognuno è tenuto a fare la propria parte. La politica deve trovare una soluzione che metta in sicurezza i conti pubblici, introduca subito le misure necessarie a tranquillizzare l’Europa e a far ripartire la crescita, e dia al Paese un governo stabile e un’ampia maggioranza parlamentare, se necessario anche attraverso elezioni. I cittadini sono chiamati a offrire una prova di orgoglio e insieme una dimostrazione di razionalità, evitando catastrofismi e fughe di capitali che sarebbero controproducenti due volte, per i rendimenti privati e per il bilancio pubblico. Ma neppure le banche possono chiamarsi fuori. Se a tutti è chiesto un segno di responsabilità, anche le banche possono dare il loro. Il modo è semplice, anche se inedito: rinunciare, per un giorno, alla commissione sulla vendita dei titoli pubblici. Si tratta di un sacrificio non indifferente, in un momento delicato per l’intermediazione finanziaria (per quanto le banche italiane siano messe meglio di quelle di altri Paesi, a cominciare dalla Francia). Ma il sacrificio degli istituti di credito darebbe un ulteriore vantaggio ai risparmiatori e un notevole sollievo allo Stato.

Non si tratta di fare un favore a politici che non lo meritano.

È il nostro stesso futuro a essere in gioco; è su noi stessi che stiamo investendo.

Aldo Cazzullo

05 novembre 2011 07:15© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_novembre_05/cazzullo-abbiamo-fiducia-nei-nostri-titoli_a0d591ee-076f-11e1-8b90-2b9023f4624f.shtml
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« Risposta #112 inserito:: Novembre 16, 2011, 12:04:25 pm »

Le contestazioni

Una gazzarra senza coraggio


La folla assiepata nella notte romana sotto il Quirinale e Palazzo Grazioli - più quella che ha puntato su Palazzo Chigi deserto - a urlare insulti, invocare le manette e gettare monetine al passaggio del premier dimissionario rappresenta uno spettacolo preoccupante.

Preoccupante anche per chi del premier non ha mai condiviso un'idea o una parola. Nell'ora delicatissima in cui tra mille difficoltà potrebbe nascere un governo di solidarietà nazionale, in un momento drammatico in cui il Paese è chiamato al massimo sforzo di unità, nessuno può chiamarsi fuori, ognuno è tenuto a rinunciare alle asprezze polemiche, a cercare un minimo comune denominatore con l'avversario, per percorrere insieme un tratto di strada prima di tornare a dividersi nella competizione elettorale.

È un sentiero stretto, quello su cui sta tentando di incamminarsi la politica italiana. Sarebbe stato impensabile, ancora poco tempo fa.
Ma è un sentiero reso obbligato dalla crisi e dall'attacco della speculazione internazionale contro il nostro Paese. Inscenare una gazzarra come quella di ieri sera, con le forze dell'ordine costrette a intervenire per l'ennesima volta nel cuore della capitale, è il contrario di ciò che il mondo si aspetta dall'Italia. Soprattutto, è il contrario di ciò di cui l'Italia ha bisogno. È vero che i fischi al leader perdente - non un assedio con il centro di Roma bloccato e momenti di tensione, come quella di ieri - sono una consuetudine delle democrazie. Un gigante come François Mitterrand trovò ad attenderlo all'uscita dall'Eliseo dopo quattordici anni una folla non proprio amichevole, e non se ne adontò. Occorre però ricordare che Berlusconi non è stato battuto da un voto elettorale.

Il governo cade a causa della crisi internazionale, e alla propria inadeguatezza a farvi fronte. Ma non va dimenticato che in questi diciassette anni Berlusconi ha sempre avuto un consenso vasto nel Paese, che oggi si è ridotto ma non è certo scomparso. Nel 1996 perse perché non aveva con sé Bossi. Dieci anni dopo per sconfiggerlo si dovette riunire in un'unica coalizione Dini e Cossutta, Mastella e il no global Caruso, la Binetti col cilicio e Luxuria vestito da donna: un'alleanza a malapena capace di vincere le elezioni, ma del tutto incapace di governare. La premessa di una nuova stagione non può prescindere dal rispetto per i sentimenti e le opinioni di chi in Berlusconi ha creduto. Prendersi vendette o rivincite alla fine di un ciclo lascia sempre un retrogusto amaro. Farlo ora, a metà del guado, è un esercizio imprudente oltre che improvvido. Non occorre grande coraggio per andare a urlare sotto casa di Berlusconi, o davanti alla sedi istituzionali. Ne occorre di più per unire le forze nell'emergenza anche con chi ha un sentire diverso dal proprio, nel nome di un interesse e di una responsabilità che mai come oggi sono comuni.

Aldo Cazzullo

13 novembre 2011 17:03© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/11_novembre_13/cazzullo-colle-gazzarra_c524a87a-0e02-11e1-a3df-26025bf830b6.shtml
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« Risposta #113 inserito:: Novembre 20, 2011, 11:21:49 am »

l'INTERVISTA

Berlusconi: governo fino al 2013

Sì a un'imposta simile all'Ici

Parla l'ex premier: «No alla patrimoniale E Monti ha garantito che non si candiderà»



Presidente Berlusconi, che cosa ha provato nel vedere un altro uomo a Palazzo Chigi?
«Che da adesso in avanti quando piove il ladro non sarò più io».

Qual è il suo giudizio su Monti e sul nuovo governo?
«È composto da tecnici di elevata competenza. Questo non significa che avranno carta bianca su tutto: saremo attenti su ogni provvedimento che arriverà alle Camere. Abbiamo chiesto l'impegno del governo a farsi promotore in Europa della trasformazione della Bce in garante di ultima istanza dell'euro, come lo sono le banche centrali nei confronti del dollaro, della sterlina e dello yen. Senza questa decisione non solo l'euro è a rischio, ma tutti i Paesi europei prima o poi sperimenteranno sulla propria pelle gli effetti della speculazione. Abbiamo chiesto anche l'impegno a rivedere le norme Eba che soffocano le banche italiane. Diremo no a eventuali proposte di misure recessive, e appoggeremo tutte le iniziative per promuovere lo sviluppo».

Monti è destinato a restare in carica per il tempo necessario a completare le riforme chieste dall'Europa, o fino al termine della legislatura?
«Non amo fare previsioni, ma non pongo limiti temporali all'attività del nuovo governo. La sinistra reclama una discontinuità con il nostro. Noi difenderemo invece tutti gli elementi di continuità, a cominciare dalle riforme che abbiamo concordato con l'Europa. Monti non potrà non ascoltarci. Il Pdl è il primo partito in Parlamento e sarà anche un punto di riferimento insostituibile per questo governo».

Questo significa che Monti può arrivare al 2013?
«Monti deve arrivare al 2013. I provvedimenti che deve portare in aula non sono pochi, e con i tempi e le regole vigenti richiedono un periodo non brevissimo. Così si completano i cinque anni e poi ci si rivolge agli elettori. Certo, se Monti prenderà misure in contrasto con la linea dei partiti che lo sostengono, come per noi la patrimoniale, non potrà andare avanti; anche se, come gli ho detto, io non ho mai usato l'espressione "staccare la spina". Del resto, lei crederà mica che Passera abbia lasciato Banca Intesa, o l'avvocato Severino abbia rinunciato al suo studio, per restare in carica cinque mesi?».

Allora perché i giornali della sua famiglia o a lei vicini attaccano Monti ogni giorno?
«Non so come dirlo: non sono io a dettare la linea. Del resto, lei crede che in questi anni Il Giornale e Libero mi abbiano giovato o danneggiato?».

Non votereste la patrimoniale neppure se Monti lo considerasse necessario? E la reintroduzione dell'Ici sulla prima casa?
«Siamo contrari alla patrimoniale. Monti ha fatto intendere che porterà la tassazione degli immobili in linea con la media europea, mentre ora è al di sotto. È possibile che questo comporti l'introduzione di un'imposta simile all'Ici, da noi già prevista con il federalismo, ma completamente diversa rispetto alla precedente impostazione già nella nostra riforma. Dunque una continuità di linea con il nostro governo, con un probabile anticipo dei tempi rispetto al 2014 che noi avevamo previsto».

Silvio Berlusconi fra i banchi di Montecitorio (Eidon/Frustaci)Silvio Berlusconi fra i banchi di Montecitorio (Eidon/Frustaci)
La legge elettorale va modificata? Il referendum va evitato o va tenuto regolarmente?
«Questa materia è di competenza del Parlamento e non rientra nel programma di governo. Sulla legge elettorale c'è molta ipocrisia. Chi critica il Parlamento dei nominati finge di non sapere che se si tornasse ai collegi uninominali i candidati sarebbero indicati sempre dai partiti. In difesa della legge esistente, ricordo che la fine delle preferenze ha ridotto la corruzione. In ogni caso, non accetteremmo mai una legge elettorale che non garantisca il bipolarismo e la possibilità per l'elettore di scegliere la coalizione vincente, il premier e il programma. La mia entrata in politica ha cambiato la storia d'Italia, consegnandole una riforma fondamentale per garantire la governabilità: il bipolarismo e l'alternanza di governo. Non è un caso se i nostri governi sono stati tra i più longevi della storia d'Italia. Ora c'è chi vorrebbe tornare indietro; ma noi lo impediremo».

Il Pdl manterrà la sua coesione senza lei a Palazzo Chigi? Non teme una diaspora?
«Assolutamente no. Io lavorerò sia in Parlamento, per assicurare la governabilità e le buone leggi, sia nel partito, per prepararlo alle prossime elezioni e vincerle».

È sicuro di non ricandidarsi nel 2013? In tal caso, il successore verrà eletto attraverso primarie? Lei chi voterebbe?
«Confermo che il nostro candidato sarà scelto attraverso le primarie tra i nostri iscritti, che sono già un milione e 200 mila. Quanto al pronostico, ho la ragionevole convinzione che a vincere le primarie sarà Angelino Alfano, che ha tutte le qualità per essere un ottimo presidente del Consiglio».

Quali sono i suoi rapporti con Fini? È possibile una riconciliazione?
«Nell'ultimo anno ho avuto solo rapporti istituzionali, secondo le procedure, compresa la telefonata dopo le mie dimissioni. Il resto sono fantasie della stampa, che ogni giorno alimenta un teatrino lontano dalla realtà. La verità è che il deterioramento della nostra maggioranza è iniziato con il peccato originale di Fini: la sua fuoriuscita dal Pdl è stata una decisione che resterà scolpita in negativo nella storia politica dell'Italia. E che gli elettori moderati non dimenticheranno mai».

Ma Fini è stato cacciato.
«Fini non è stato cacciato. Con i suoi tre moschettieri gettava discredito sul governo, con effetti negativi rilevati da tutti i sondaggi. Ricordo una vignetta del vostro Giannelli. Fini con le braccia incrociate diceva: "Oggi Berlusconi non ha parlato, come faccio a contraddirlo?". Abbiamo cercato un chiarimento, definendo il suo modo di agire incompatibile, ma ai probiviri abbiamo deferito Bocchino, Granata e Briguglio, non lui. Sono loro ad aver deciso di andarsene».

Fini non sarà d'accordo. Non crede poi sia stata un errore la rottura del 2008 con Casini? Si potrà ricostruire un'alleanza di centrodestra alle prossime elezioni?
«La rottura non è stata determinata da noi. A Casini abbiamo offerto infinite volte di recuperare un rapporto con il centrodestra, in nome dei valori comuni e della comune appartenenza al Partito popolare europeo. Penso che in un clima politico meno avvelenato sia possibile ritrovare lo spazio per un dialogo che serva a riportare tutti i moderati sotto lo stesso tetto».

Casini chiederebbe un prezzo alto. Potreste arrivare a offrirgli la candidatura a Palazzo Chigi?
«Queste non sono certo cose che decido io. Siamo il partito che discute di più al mondo: ufficio di presidenza, direzione nazionale... Entro l'anno faremo i congressi comunali e provinciali, entro marzo il congresso nazionale. Detto questo, ci sono leader che si occupano dell'interesse generale, e ci sono politici di professione che badano alla loro carriera».

È vero che avete chiesto a Monti di rinunciare fin da ora a guidare uno schieramento elettorale?
«È vero. Abbiamo chiesto a lui e a tutti i suoi ministri di impegnarsi pubblicamente a non presentarsi come candidati alle prossime elezioni».

E loro cosa vi hanno risposto?
«Di sì. Non ho parlato con i singoli ministri. Ma Monti mi ha detto che, se il governo andrà avanti, è logico che lui non approfitterà della situazione per candidarsi. Un impegno assunto alla presenza del capo dello Stato».

Cos'è successo tra lei e Tremonti? Come sono oggi i vostri rapporti?
«Buoni, sul piano personale. Sul piano della politica economica abbiamo due visioni diverse. Tremonti è per il rigore. Io sono per il rigore coniugato con lo sviluppo».

Buoni i rapporti tra lei e Tremonti?
«Non ci ha visti venerdì alla Camera? Lui si è seduto sotto di me, abbiamo parlato e scherzato in continuazione. Tremonti è così, infila una battuta dopo l'altra. Poi ci mandiamo al diavolo quando esprimiamo due linee diverse».

Con la Lega è possibile una ricucitura? Bossi è ancora il leader o comunque l'interlocutore?
«Sono sicuro che manterremo il rapporto stretto che c'è sempre stato tra noi e la Lega. La Lega è un alleato solido e leale. E il Pdl è l'unico vero alleato su cui la Lega potrà contare anche in futuro».

Che impressione le fa stare in una maggioranza in cui ci sono anche i postcomunisti del Pd e Di Pietro? La base del Pdl capirà?
«Questa non è una maggioranza politica. È una maggioranza parlamentare imposta dall'emergenza. Non ci sarà alcuna confusione di identità tra noi e la sinistra, nessuna alleanza consociativa tra il Pdl e il Pd. Come il presidente della Repubblica ha auspicato dando l'incarico a Monti, "il confronto a tutto campo tra i diversi schieramenti riprenderà appena la parola tornerà ai cittadini per l'elezione di un nuovo Parlamento"».

Un governo composto da ministri che non sono passati attraverso il vaglio degli elettori rappresenta una sospensione della sovranità popolare?
«Mi sembra evidente. Sospendere non significa porre fine: è un'emergenza temporanea, che richiede un'assunzione di responsabilità generale nell'interesse dell'Italia. Per questo tutti i partiti dei due schieramenti, tranne la Lega, hanno fatto un passo indietro e affidato ai tecnici un compito non facile, nel tentativo di rispondere ai mercati. Eppure in questi giorni tutti hanno potuto constatare che lo spread è rimasto elevato anche dopo le mie dimissioni: evidentemente il nostro governo non aveva alcuna colpa. Questa è una crisi dell'euro, che dietro di sé non ha un prestatore-garante di ultima istanza, quali le banche centrali delle altre monete forti, come il dollaro e la sterlina; così come non ha una politica economica unica per l'eurozona. Dotarsi di questi strumenti è il compito dell'Europa: una battaglia che l'Italia dovrà intestarsi. Ma ci vorrà tempo. Intanto noi dobbiamo salvare il nostro Paese, operando tutti insieme».

Lei si è lamentato per i fischi della settimana scorsa. Ma in passato lei ha alimentato lo scontro, apostrofando duramente gli elettori del centrosinistra.
«Mi sono dimesso per un atto di responsabilità e di amore verso il mio Paese, senza che il nostro governo sia mai stato sfiduciato. Ma questo non è bastato a chi per anni ha fatto politica demonizzando l'avversario. Noi abbiamo uno stile opposto. Da liberali veri, preferiamo costruire invece che distruggere, confrontarci sui contenuti per il bene del Paese piuttosto che delegittimare chi la pensa diversamente da noi, amare invece che invidiare e odiare».

Presidente, lei è arrivato a chiamare gli elettori di sinistra «coglioni».
«Non è andata così. Quell'espressione non fu usata per ingiuriare chi non vota per me, ma in una riunione a porte chiuse con i commercianti, per dire che un benestante non avrebbe certo potuto votare per chi aumenta le tasse e governa contro i suoi interessi. Io ho avuto un'educazione religiosa, e mi hanno insegnato a non ingiuriare il prossimo».

Non crede di aver commesso errori in questi ultimi tempi? Ci sono cose che non rifarebbe?
«Chi fa, sbaglia. Solo chi non fa nulla non sbaglia mai. E certi errori, anche se fatti in buona fede, li scopri solo con il tempo. Un ottimista vede un'opportunità anche nelle difficoltà. E io resto sempre un ottimista. Il governo Monti può essere un'opportunità per realizzare quelle riforme liberali che erano nel nostro programma, e non siamo riusciti a portare a termine per le resistenze che abbiamo incontrato da parte di tutti gli schieramenti».

Non è stato un errore il suo stile di vita?
«Ma quelle sono falsità, in cui sono caduti i giornali stranieri. Qui ora sembra che noi in tre anni e mezzo non abbiamo fatto nulla. Non è affatto così, a cominciare dalla politica estera. Mi hanno rovinato l'immagine con cose assolutamente non vere».

Come «assolutamente non vere»? Non è stato forse un errore dare confidenza a personaggi come Tarantini e Lavitola?
«Io non ho fatto niente di male. Tarantini veniva a cena da me. Abbiamo fatto diciassette cene in tutto. Lui aveva con sé belle ragazze, ma io non sapevo che venissero pagate, credevo che lui fosse un playboy, arrivava con la Arcuri... Lavitola era il direttore di un giornale storico come l'Avanti. Si proponeva come candidato alle elezioni. Non sapevo si inventasse un sacco di cose. Quando ho visto quei telefonini panamensi mi sono rifiutato di usarli, ho detto che queste cose le fa la malavita organizzata. E non ho più preso le sue telefonate. L'ultima volta, alle 11 e mezza di sera, il mio maggiordomo mi ha chiesto per cortesia di parlargli, visto che aveva chiamato venti volte. Ma nelle mie telefonate mantengo sempre la compostezza».

Non sempre. Una volta ha definito l'Italia «Paese di merda».
«Perché, lei al telefono non usa mai un po' di slang? Io amo profondamente l'Italia. Ma certo non stiamo attraversando un momento felice. Sa qual è il modo più facile per strappare l'applauso nei comizi? Chiedere alla gente se si sente tranquilla a parlare liberamente al telefono. Ogni volta è standing ovation».

Con il senno di poi, era proprio indispensabile lasciare? Si è sentito costretto dall'Europa, dai mercati?
«Le mie dimissioni non sono state affatto chieste dall'Europa. La crisi che stiamo vivendo è la più grave dal '29. L'unica strada per scongiurare questo scenario da incubo era mettere insieme maggioranza e opposizione. A causa della crisi, oggi non c'è un solo capo di governo in Europa che abbia la maggioranza dei consensi. Ricostruire la fiducia del popolo nei propri eletti e creare una nuova stagione di responsabilità è la grande sfida che nei prossimi anni impegnerà i leader politici in tutto il mondo, non solo in Italia».

Aldo Cazzullo

20 novembre 2011 | 9:35© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/11_novembre_20/berlusconi-governo-fino-2013-cazzullo-ici_4ff6a3a6-134c-11e1-8f9c-85bd5d41d537.shtml
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« Risposta #114 inserito:: Dicembre 16, 2011, 04:49:49 pm »

IL GOVERNO E L'INSOFFERENZA DEI PARTITI

Unità nazionale (all'opposizione)

Non si aveva idea di quante lobby, anche minuscole, fossero all'opera in Parlamento. Si sapeva della buona rappresentanza di avvocati.
Ma anche farmacisti e tassisti devono avere buoni contatti: infatti resteremo il Paese europeo in cui è più difficile trovare medicinali di largo consumo fuori dalle farmacie; mentre Milano e - più ancora - Roma rimarranno le uniche metropoli al mondo dove, anziché code di taxi in attesa di clienti, si formano code di clienti in attesa dei taxi. L'unica lobby che non si è manifestata è quella dell'interesse nazionale.

Neppure la gravità della crisi finanziaria e la prospettiva di mesi di recessione hanno incrinato il muro corporativo.
I 150 anni dell'unificazione hanno risvegliato l'orgoglio patriottico, ma fino ad adesso non hanno scalfito il vero male italiano: la prevalenza dell'interesse di parte su quello comune, del particolare sul generale. Uno scatto è ancora possibile, oltre che necessario. Purché ci si renda conto con chiarezza della situazione.

Mario Monti non guida il governo con la più ampia maggioranza parlamentare della storia. Guida il governo con la più ampia opposizione mai vista. Quella palese, anzi sguaiata, della Lega. Quella ormai dichiarata dell'Italia dei valori. E quella sottotraccia dei democratici che manifestano contro la manovra poi sostenuta in Parlamento, e di Berlusconi che fa ormai ogni giorno professione di «perplessità».

A questo punto Monti e i suoi ministri hanno due strade. Adeguare il proprio passo alla debolezza del sostegno parlamentare, avanzando con cautela e ritraendosi quando il malumore si fa manifesto, come nel caso delle liberalizzazioni mancate. Oppure procedere con decisione sulla via delle riforme, compresa quella del mercato del lavoro. Il governo ha anche qualche punto di forza. È composto da persone competenti e perbene. È considerato credibile in Europa. Ha mantenuto buoni indici di appoggio popolare, nonostante il salasso della manovra. Il disimpegno dei partiti paradossalmente può diventare un vantaggio, uno sprone a osare, uno stimolo ad andare avanti.

Certo le critiche aumenterebbero di tono, ma nessun partito si prenderebbe oggi la responsabilità di far cadere il governo: non il Pdl, che consegnerebbe così Monti all'altro schieramento; non il Pd, che sull'esecutivo di transizione si è giocato tutto, e finirebbe per ritrovarsi succube di Vendola e Di Pietro.

Questo governo rappresenta ancora l'occasione di introdurre una vera discontinuità, di dimostrare che è possibile operare per l'interesse comune anziché per quello delle categorie e delle corporazioni. Se invece il governo dovesse esitare e fermarsi un'altra volta, si garantirebbe forse una navigazione parlamentare più tranquilla, ma perderebbe il proprio autentico fondamento: la consapevolezza popolare che i sacrifici e i cambiamenti sono necessari e a lungo andare salutari; purché riguardino tutti, comprese le lobby piccole o grandi.

Aldo Cazzullo

16 dicembre 2011 | 8:17© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_dicembre_16/unita-nazionale-all-opposizione-aldo-cazzullo_4797a5fc-27b0-11e1-a7fa-64ae577a90ab.shtml
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« Risposta #115 inserito:: Dicembre 24, 2011, 07:21:28 pm »

IL REGALO CHE TUTTI DOVREMMO FARCI

Più fiducia in noi stessi

È il Natale più difficile, forse più amaro degli ultimi anni. Per chi ha perso l'azienda o il lavoro. Per chi deve rinunciare ad abitudini consolidate o ad aspettative legittime. Per rendersene conto basta camminare nelle strade di qualsiasi città italiana, seguire le traversie di chi non riesce a trovare regali a misura delle proprie tasche. Eppure c'è un regalo che tutti quanti noi possiamo farci, c'è un tesoro nascosto nel fondo della crisi italiana. Non lo si trova nelle vetrine, non lo si può impacchettare, ma questo non diminuisce il suo valore, anzi. È la fiducia in noi stessi, nell'immenso potenziale di cultura, lavoro e sviluppo del nostro Paese. Che, com'è sempre accaduto, nei momenti difficili se non drammatici riesce a dare il meglio di sé.

Il 25 dicembre 2011 saranno passati - ce l'ha fatto notare un lettore, Giovanni Tagliabue - due terzi di secolo dal 25 aprile 1945: un lungo periodo di pace; bene che non è acquisito per sempre. Ma la Milano preoccupata di questi giorni è in realtà un giardino dell'eden rispetto a quella semidistrutta dei Natali di guerra e del dopoguerra. Eppure la città ferita dall'occupazione nazista e dalle bombe era percorsa da un'attività febbrile, da un fremito di energia, Strehler e Grassi ripulivano i muri delle camere di tortura per farne un teatro, migliaia di piccoli imprenditori e di operai si impegnavano nella ricostruzione. L'Italia della Resistenza ha vissuto momenti più difficili di quelli di oggi senza perdere la serenità e la fiducia, sentendo che proprio nell'ora più cupa si gettavano le fondamenta di un'era nuova, in cui si sarebbero aperti spazi di libertà, democrazia, crescita.

L'anno che si chiude sarà forse ricordato come l'avvio di una nuova ricostruzione. Un anno difficile, segnato da cinque manovre, che ha imposto sacrifici a chi aveva già dato molto. Ma anche un anno in cui il Paese si è ritrovato unito, oltre le contrapposizioni pregiudiziali. L'anniversario dei 150 anni è stato un successo. Ci si è resi conto che davvero - come ci hanno insegnato Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano - siamo più legati all'Italia di quanto amiamo riconoscere. Vicissitudini politiche che avremmo preferito non dover raccontare hanno portato a un assetto nuovo, in cui i principali partiti - bene o male - collaborano per uscire dall'emergenza. Ma non saranno un partito o un governo, da soli, a trarci dai guai. È dentro di noi che dobbiamo ritrovare la serenità e la fiducia di cui i nostri padri furono capaci. Proviamo a pensare alle volte in cui, all'estero, abbiamo detto che siamo italiani, e ci hanno sorriso.

Pensiamo alla grande domanda di Italia che c'è non soltanto nel resto d'Europa o in America ma anche nel mondo di domani; a quanti cinesi, indiani, brasiliani vorrebbero vestirsi come noi, comprare i nostri prodotti, adottare il nostro stile di vita. Questo mondo globale, che ci impaurisce e ci impoverisce, è anche una grande opportunità per l'Italia; perché un mondo che diventa sempre più uniforme, sempre più uguale a se stesso, guarda con ammirazione al Paese simbolo della creatività, del design, della fantasia, dell'arte, dell'estro, del gusto per il bello. Ricordiamoci chi siamo, e quanto possiamo fare. In tempo di crisi, non c'è regalo migliore. Ed è alla portata di tutti.

Aldo Cazzullo

24 dicembre 2011 | 11:44

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_dicembre_24/piu-fiducia-in-noi-stessi-aldo-cazzullo_7225c632-2dff-11e1-8940-3e9727959452.shtml
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« Risposta #116 inserito:: Gennaio 19, 2012, 04:57:30 pm »

Viaggio nel capoluogo siciliano

Palermo, «capitale» senza speranza

Ora impugna i forconi

La caccia ai politici e la cronaca di un fallimento


PALERMO — Palermo è fallita. E non per i debiti. Per la mancanza di prospettive, di speranze. Restano rabbia e dolore, cui un capopopolo scaltro e disperato ha dato un simbolo: i forconi.

Prendiamo il sindaco, Diego Cammarata, che si è dimesso lunedì scorso. Ha governato per dieci anni la quinta città italiana, la capitale di un’isola-nazione conosciuta nel mondo intero, e nessuno se n’è accorto. Sui quotidiani nazionali finì solo quando Striscia intervistò il dipendente pagato dal Comune per tenergli la barca.

Una città un Paese - Palermo, «capitale» senza speranza Una città un Paese - Palermo, «capitale» senza speranza    Una città un Paese - Palermo, «capitale» senza speranza    Una città un Paese - Palermo, «capitale» senza speranza    Una città un Paese - Palermo, «capitale» senza speranza    Una città un Paese - Palermo, «capitale» senza speranza

«Il peggior sindaco di tutti i tempi» ha sentenziato il presidente della Regione, Lombardo. Ma no, Cammarata non è stato neppure il peggiore. Semplicemente, non è stato. Fu eletto in quanto famiglio di Micciché, famiglio di Dell’Utri, famiglio di Berlusconi. «Nuddu ammiscatu cu’ nenti» lo definisce un ambulante al mercato del Capo: il Nulla. Poi ride spalancando la bocca sdentata.

La prima azienda è la Regione: 28 mila dipendenti, precari compresi. La seconda è il Comune: 19 mila. Un apparato produttivo da Nord Africa, costi burocratici da Nord Europa. La Palermo del 2012 ha angoli di bellezza struggente e altri da Terzo Mondo. Impossibile restituire con le parole l’incanto dei mosaici della Cappella Palatina appena restaurati; poi esci, entri nei vicoli, e a duecento metri dalla sede del Parlamento più antico e più pagato al mondo ti inoltri tra le macerie dei bombardamenti del ‘43, entri in una stalla con abbeveratoio, biada e tutto, cammini su selciati da asfaltare, avanzi a zigzag per evitare l’immondizia. Oggi la città è strozzata da una nuova emergenza: la jacquerie, la rivolta spontanea, senza partiti né sindacati, che ha preso il nome immaginifico di «Movimento dei forconi» e firma comunicati come questo, scritto tutto maiuscolo:

«È INIZIATA LA RIVOLUZIONE IN SICILIA! STANOTTE TUTTI I TIR AI PRESIDI! GRIDIAMO FORTE L’INDIGNAZIONE CONTRO UNA CLASSE POLITICA DI NEPOTISTI E LADRONI! ».

Sono camionisti, contadini, pescatori. Bloccano i rifornimenti alla città: vuoti e quindi chiusi i distributori di benzina, nei supermercati cominciano a mancare frutta e verdura. Ce l’hanno con tutti, da Lombardo a Sarkozy, da Cammarata alla Merkel, con Roma e con Bruxelles. I camionisti, molti con il ritratto di Padre Pio sul cruscotto, chiedono aiuti per il gasolio. I contadini vogliono più controlli sui prodotti stranieri e più sussidi per i propri: «Vendiamo il grano a 23 centesimi il chilo, paghiamo il pane a 3 euro e 50». I pescatori hanno occupato l’ingresso del porto per denunciare che le norme europee impediscono il lavoro, il pescespada è specie protetta, il novellame neanche a parlarne, «intanto i giapponesi che avrebbero due oceani a disposizione vengono qui a pescarci sotto gli occhi il tonno migliore». Il capopopolo che si è inventato il logo si chiama Martino Morsello, ha 57 anni, gira con un forcone di legno in pugno e firma mail come questa:
«IL SISTEMA ISTITUZIONALE È AL COLLASSO! I POLITICI RUBANO A DOPPIE MANI, E LO STESSO FANNO I BUROCRATI. LA RIVOLTA DEI SICILIANI È NECESSARIA E URGENTE. A MORTE QUESTA CLASSE POLITICA COME SI È FATTO CONTRO I FRANCESI CON IL VESPRO!».

Anche se su Facebook lancia proclami sanguinosi, nella realtà Morsello è un ex assessore socialista di Marsala, fondatore di un allevamento di orate finito male. Vive in camper con la moglie. Tre figli, tutti disoccupati. Esposti al prefetto e processi in corso contro le banche e la Serit, versione isolana di Equitalia. Una passione per la storia siciliana, in particolare per le rivolte che, sostiene, scoppiano quasi sempre tra gennaio e marzo: i Vespri appunto, ma anche i Fasci siciliani. «Nel 1893 qui vicino, a Caltavuturo, cinquecento contadini che avevano occupato le terre furono attaccati dai carabinieri. Tredici morti. Esplose una rivolta nazionale. E sa che giorno era? Il 20 gennaio! Oggi in Sicilia, domani in Italia!». Boato dei camionisti del presidio. I carabinieri li guardano con aria interrogativa. Sul camper c’è anche Rossella Accardo, vedova del capocantiere Antonio Maiorana, madre di Stefano, entrambi scomparsi, forse uccisi dalla mafia. L’altro figlio, Marco, è caduto dal settimo piano, non si sa come. Ecco l’ultimo proclama:
«NELLE PROSSIME ORE I MANIFESTANTI AGIRANNO CON MANIERE FORTI PER CHIEDERE AL GOVERNO REGIONALE I PROVVEDIMENTI ADEGUATI. IL 70% DEL COSTO DEL CARBURANTE È TASSA CHE ALIMENTA GLI STIPENDI DI POLITICI CORROTTI E MAFIOSI. LA RIVOLTA DIVENTERA’ NAZIONALE».

Ai blocchi sono partite le prime coltellate, un venditore ambulante di carciofi ha sfregiato un camionista. Più che i forconi, la Palermo borghese teme però gli ex carcerati della Gesip, la società che riunisce le cooperative sociali: duemila dipendenti, molti reduci dall’Ucciardone, che finora campavano di lavori socialmente utili. I soldi finiscono a marzo, loro minacciano di «mettere la città a ferro e a fuoco». L’espressione in questi giorni si spreca, ma loro hanno già mostrato di intenderla alla lettera, incendiando i cassonetti dei rifiuti che l’Amia fatica a smaltire: dopo i fasti delle consulenze d’oro e dei funzionari in vacanza a Dubai, la municipalizzata è inmano a tre commissari e sull’orlo del fallimento. L’Amat, l’azienda dei trasporti, attende 140 milioni dal Comune e da tempo non garantisce la revisione dei bus, come segnala la velenosa nuvola nera che si alza a ogni fermata come dalla coda di uno scorpione. La linea di pullman per l’aeroporto ha gasolio per una sola settimana. I tassisti non lavorano. Pure il museo di arte contemporanea, nuovo di zecca, è già a rischio chiusura.

A quanto ammontino i debiti del Comune non lo sa nessuno, neppure il sindaco dimissionario, che annuncia una ricognizione definitiva. Fino a qualche mese fa, una pezza la metteva il governo Berlusconi. A ogni Finanziaria qualche decina di milioni arrivava, magari per intercessione di Schifani che, come già i Borboni, ogni Natale distribuisce ai poveri il pane con la milza della focacceria San Francesco, marchio esportato in tutta Italia. Ora i soldi sono finiti, la manovra di agosto ha tagliato i contratti, migliaia di precari perderanno anche quei 500 euro al mese che non garantivano futuro, crescita, dignità, ma almeno sopravvivenza. E Morsello col forcone ha buon gioco a dettare alle agenzie:
«IL MOVIMENTO CHIAMA A RACCOLTA TUTTI I SICILIANI PER LIBERARE LA SICILIA DALLA SCHIAVITU’ DI QUESTA CLASSE POLITICA!».

Un’occasione ci sarebbe già a maggio: Palermo elegge il nuovo sindaco. Ma la confusione è massima. Per dire, l’emergente Gaetano Armao, assessore regionale all’Economia, è dato ora come candidato di Pd e Lombardo, ora di Pdl e Udc. In realtà, il centrodestra punta sul rettore dell’università, Roberto Lagalla. Ci proverebbe volentieri pure Ciccio Musotto, ex presidente della Provincia incarcerato per mafia e assolto, figlio di un grande personaggio della Palermo borghese, la pittrice Rosanna, discendente di garibaldini («il Generale è per me persona di famiglia, ho ancora il suo portaocchiali, quando scendeva Craxi a Palermo dovevamo nascondergli i cimeli»). Il Pd, che qui non tocca palla da quindici anni — «la sinistra siciliana è più debole che ai tempi del fascismo» ama dire Calogero Mannino —, si divide tra chi vorrebbe un candidato centrista, appoggiato da Lombardo e Terzo polo, e chi vorrebbe risolvere la questione con le primarie del prossimo 26 febbraio: Rita Borsellino contro il trentenne Davide Faraone, allievo di Matteo Renzi. Poi ci sarebbe Giuseppe Lumia, ex presidente dell’Antimafia. Ma di mafia a Palermo nessuno parla volentieri. Al più, ci si scherza. Come l’albergatrice che racconta: «I clienti stranieri mi chiedono sempre se nel quartiere c’è la mafia. All’inizio rispondevo di no, per tranquillizzarli. Loro però ci restavano malissimo, e uscivano delusi. Ora ho imparato a dire che sì, certo che c’è la mafia. Così escono con l’aria circospetta, strisciando lungo i muri, e si sentono davvero in un altrove».

Un altrove resta Palermo, di cui è giusto denunciare ogni guaio ma anche ricordare la commovente bellezza, gli stucchi del Serpotta più elaborati di quelli di Versailles, i fregi liberty del Basile degni dell’art nouveau parigina. Una terra da sempre produttrice di miti, oggi inaridita. Ci sarebbe Camilleri, che però ha quasi novant’anni e da sessanta vive a Roma; qui non tutti lo amano, se Lombardo lo voleva assessore Micciché lo definì «grandissimo nemico, prezzolato ideologico, assassino del Polo». Più che da miti, Palermo sembra abitata da fantasmi. La grande editrice Elvira Sellerio. I grandi preti: il cardinale Pappalardo, che si ritirò a contemplare la città dall’alto dell’eremo, e padre Pintacuda, che salì sulla montagna di fronte, nel Castello Utveggio, a dirigere per conto di Forza Italia il centro studi della Regione. Anime morte, come don Turturro, cugino dell’attore americano, il parroco antimafia che faceva innamorare popolane devote e giornaliste straniere: condannato per pedofilia.

Dal carcere sono usciti i killer del dodicenne Di Matteo sciolto nell’acido, ed è entrato—lontano, a Roma—Totò Cuffaro, cui non è bastato collezionare crocefissi, santi, ritratti di don Bosco e immagini della Bedda Madri (dell’Atto di affidamento della Sicilia al Cuore Immacolato di Maria stampò un milione di copie, «e le assicuro che l’Atto funziona, lo sa che abbiamo avuto due terremoti senza un solo morto?»). Dal carcere è uscito Mannino — «al terzo mese cominciai a pisciare sangue» —, dopo anni di processi per stabilire se il suo soprannome fosse Lillo, come lo chiamano i parenti, o Caliddu, come dicevano i pentiti. Leoluca Orlando, che vorrebbe candidarsi a sindaco per l’ennesima volta, colleziona invece nella sua villa liberty statuette di elefanti e ceramiche Florio («il massimo sarebbe un elefante in ceramica Florio. Lo cerco da sempre. Mai trovato»). Sotto la camicia, porta una mano di Fatima e la piastrina che lo certifica come affetto dalla sindrome di Kartagener, «siamo in quattro in tutto il mondo, stampati al contrario, il cuore a destra il fegato a sinistra». Ma in tutto il mondo non si trova una città come questa, nel bene e nel male.

Palermo (pan-ormos: tutto porto) è città madre, tonda, avvolgente, che accoglie ogni cosa come in un abbraccio, e ogni cosa racchiude: i mosaici come a Bisanzio, i suq come a Fes; il Trionfo della Morte di Palazzo Abatellis è più bello di qualsiasi danza macabra germanica; nella chiesa della Catena, gotico catalano, sembra di essere a Barcellona; San Domenico, barocco coloniale spagnolo, pare Cuzco. All’apparenza basta a se stessa, i calabresi disprezzati, i napoletani ignorati, i padani compatiti. In realtà, è figura dell’intero Paese.

Di una città come Palermo, di una Palermo risanata, l’Italia ha bisogno. Oggi si impugnano i forconi e si grida di rabbia; domani una soluzione si deve cercare. Perché non possiamo dire: se la cavi da sola. Se Palermo fallisce per sempre, è un fallimento nostro.

Aldo Cazzullo

19 gennaio 2012 | 9:43© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_gennaio_19/palermo-aldo-cazzullo_5c8e6534-4279-11e1-8207-8bde7a1445db.shtml
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« Risposta #117 inserito:: Febbraio 07, 2012, 11:09:01 pm »

Bologna

La città della «grande gelata»

L'arte di vivere è un ricordo vince la «comoda decadenza»

BOLOGNA - Dov'è finita Bologna?

Dove sono finite le grandi famiglie dell'industria? I Gentili hanno venduto i saponi Panigal ai tedeschi, i Sassoli de' Bianchi hanno venduto la Buton agli americani, i Goldoni hanno venduto agli inglesi, i Ferretti (barche) ai cinesi, i Gazzoni Frascara hanno venduto l'Idrolitina e le Dietorelle agli svizzeri; ma il caso più doloroso è quello dei Galletti, che hanno venduto la mortadella Alcisa ai modenesi. Ai Galletti resta però il ristorante Diana, tempio della borghesia cittadina, dove eredi delle varie casate, dopo aver investito in alloggi da affittare agli studenti, si ritrovano per il pranzo della domenica.
Dove sono finiti i cinema del centro di Bologna? I più grandi hanno chiuso: l'Arcobaleno di piazza Maggiore, il Metropolitan e l'Imperiale di via Indipendenza. Se non altro, al posto del cinema Ambasciatori c'è la libreria Coop, arrivata seconda al concorso dei negozi più belli al mondo (il vincitore è in Cina). Ma dell'Apollo hanno fatto un centro commerciale, dal Giardino, dal Marconi, dall'Adriano e dal Minerva hanno ricavato appartamenti, sempre da affittare a studenti; chiusi anche il Settebello, l'Olimpia, l'Embassy, il Fulgor; il Nosadella ha traslocato in periferia; il Fellini di viale XII giugno ora è una sala scommesse.

«Il capoluogo emiliano, la scuola, le mie radici» La testimonianza di Alessandro Bergonzoni (vedi video su corriere.it)

Dove sono finite le fabbriche di Bologna? Chiusi i cantieri Fochi, chiuse le officine Casaralta. Chiusa la Malaguti, in crisi da anni la Moto Morini, regge la Ducati, che però non è più la fabbrica di un tempo, dove lavoravano tante operaie da indurre William, leggendario macellaio dal collo taurino, ad aprire bottega ai cancelli; e ai colleghi, che gli chiedevano notizie, rispondeva: «Vedo passare settemila ragazze, vuoi che non ne abbia avute il dieci per cento?» (William non diceva esattamente «avute»).

«Non è più una città allegra» Lucio Dalla: la mia Bologna ieri e oggi (vedi video su corriere.it)

A proposito: dove sono finiti i macellai di Bologna? Erano più di 700 all'apice del boom economico, ora sono meno di cento. Decimata una categoria importante nella storia di una città sanguigna e gaudente: beccai erano i Carracci, sublimi pittori; beccai erano i Bentivoglio, che quando divennero notai e signori di Bologna conservarono la bottega, per ricordare a sé stessi da dove venivano. Simbolo di vigore e potere, la mercatura delle carni ha esercitato per secoli una primazia sulle altre, segnata anche dalle gesta erotiche; così, quando un macellaio confidò ai colleghi che la moglie lo tradiva con un fruttivendolo, venne espulso dalla categoria. Fu un sodale di William, Raffaellino, a motivare la sentenza: «Sono tre secoli che noi frequentiamo le mogli dei fruttivendoli, e finora non era mai accaduto il contrario!» (Raffaellino non disse esattamente «frequentiamo»). Quando nel '99 uno di loro si candidò a interrompere 54 anni di governo comunista, un barone universitario disse che un ex macellaio con la licenza media non poteva fare il sindaco di Bologna. Il giorno dopo, Giorgio Guazzaloca fu travolto dall'abbraccio di artigiani e operai comunisti, che come lui non avevano potuto studiare.
Dove sono finiti i cantautori, gli artisti, gli intellettuali bolognesi? Qui avevano preso casa Gianna Nannini e Renato Zero, Antonio Albanese e Diego Abatantuono, Umberto Eco e Michele Serra: se ne sono andati tutti. Neppure Francesco Guccini abita più in via Paolo Fabbri 43, nel quartiere piccoloborghese della Cirenaica, accanto al vecchio pensionato del numero 45, cui dedicò una delle sue canzoni più malinconiche; e quando lo seppero, i vicini del numero 41 andarono a bussare a Guccini all'alba, badando a non essere visti, e gli sussurrarono: «Noi preferiremmo non comparire...». È tornato a Bologna però Lucio Dalla, ha comprato casa sui tetti di san Petronio, dove da ragazzo gli capitava di uscire, "per sentire gli odori dei mangiari e i discorsi della gente", e talora di addormentarsi. In questi giorni di neve sta limando la canzone che porterà a Sanremo, cedendo alle insistenze di un compagno di giovinezza: «Con Gianni Morandi tutte le domeniche tifavamo Bologna allo stadio. Ma lo spareggio del '64 contro la Grande Inter si giocò a Roma, e non avevamo i soldi per andarci. Così accendemmo la radio davanti a una parete bianca, immaginando di proiettare la partita sul muro. Quando segnò Fogli, dalle finestre aperte arrivò il grido di 400 mila persone, il grido della città».

Dov'è finita la Bologna della politica? Questa era la capitale dell'altra Italia, del partitone comunista. Poi è diventata il laboratorio dell'Ulivo e del Partito Democratico, inventato da Nino Andreatta, costruito da Prodi e da Parisi. Ma il Pd, almeno come lo sognavano Andreatta e suo figlio Filippo, non è mai nato o perlomeno ha perso le radici bolognesi. Gli intellettuali del Mulino litigano, hanno fatto fuori il direttore della rivista Ignazi, ora devono scegliere un nuovo presidente al posto di Pedrazzi. Per il resto, a Fini di bolognese resta solo l'accento, Casini torna qui la domenica per portare al Diana la madre e il fratello Federico, identico a lui. Non si riesce neppure a trovare un sindaco bolognese: Cofferati era di Cremona, Delbono di Mantova. Incappato in un brutto scandalo - la fidanzata segretaria, le missioni-vacanza in coppia, il bancomat finanziato dall'amico imprenditore - si dimise dopo che le bolognesi sfilarono sotto il Comune con uno striscione definitivo: «Contro la crisi, bancomat per tutte». Adesso c'è Virginio Merola, da Santa Maria Capua Vetere, ma non è che abbia lasciato tracce; tanto meno quelle degli spartineve, che si sono visti poco e tardi. Un po' tutti dicono che la città è governata da Errani, presidente della Regione, e da Roversi Monaco, presidente della Fondazione Carisbo. E quindi c'è da preoccuparsi se Fabio Roversi Monaco, interrogato sulla sua Bologna, parla di «decadenza comoda».

Nato nel '38 ad Addis Abeba, figlio del governatore della regione di Sabbatà, per strada viene fermato da parroci che gli chiedono di restaurare anche la loro chiesa, come ha fatto con San Colombano e con il Compianto di Niccolò dell'Arca, lo splendido gruppo in terracotta con le Marie che piangono il Cristo. Spiega Roversi Monaco che i due veri punti di forza sono l'Università e la Fiera. Lui è stato rettore dell'Università per 15 anni e presidente della Fiera sino a sei mesi fa, e ammette che le cose non vanno benissimo: la città resta ricca, ma ancora non s'accorge del ridimensionamento. Di «grave decadenza» parla ogni 4 ottobre, san Petronio, e a ogni Te Deum del 31 dicembre anche l'arcivescovo Carlo Caffarra. Il suo predecessore Biffi definiva Bologna «sazia e disperata»; ora non è neppure così sazia. I mitici asili nido costano fino a 575 euro al mese, come collegi svizzeri; il metrò non si è fatto, e 49 bus «intelligenti» Civis, pagati e mai usati, languono nei depositi. Della Fiera si parla sui giornali per l'arte, che riguarda poche centinaia di mercanti e galleristi (quest'anno 50 in meno), e per il Motorshow, detestato dai bolognesi perché porta il turismo del sacco a pelo. I soldi si fanno con le fiere dei cosmetici - Bologna è la prima città d'Italia per consumo di profumi -, delle piastrelle (Cersaie) e dell'edilizia (Saie); ma la concorrenza di Milano si fa sentire. Giovedì scorso Pisapia è venuto qui sotto la neve, a promettere al collega Merola alleanza e non guerra. Ma a Milano (e a Torino) sono già finite le storiche banche bolognesi: la Carisbo a Intesa, il Credito Romagnolo a Unicredit.
L'Università con i suoi 83 mila iscritti regge, impoverita però dai tagli e dal meccanismo di cooptazione, che non produce più scuole come quella di economia: Caffè, Andreatta, Sylos Labini, Prodi, Quadrio Curzio. Soprattutto, Bologna ha divorziato dai suoi studenti. Lo si vide nei giorni dell'assassinio di Marco Biagi, quando i neolaureati non interruppero il rito delle corone d'alloro e del pranzo coi parenti. Lo si è visto lunedì scorso, quando i centri sociali hanno contestato la laurea a Napolitano.
Erano gli arrabbiati che occupano l'aula C di Scienze politiche, gli anarchici di Fuori Luogo, i duri del Crash, i dialoganti del teatro Tpo, e gli studenti di Bartleby, che vivono in una vecchia stazione della Croce Rossa ribattezzata come lo scrivano di Melville, quello che diceva «preferirei di no», dove custodiscono la collezione di riviste letterarie del poeta Roberto Roversi. Bartleby è in una via di fruttivendoli pachistani. Inutile chiedere indicazioni a loro: sono a Bologna soltanto a vendere frutta. Dalle vie dei pachistani di solito clochard e punkabbestia girano al largo, perché «quelli menano». I ragazzi di Bartleby raccontano ciò che si legge sugli annunci immobiliari: non si trova una stanza a meno di 400 euro, una camera a meno di 500, un monolocale a meno di 600; mangiare in mensa costa 7 euro, come a Montecitorio; e la città li guarda di malocchio, ricambiata. Da campus urbano i portici di via Zamboni e di piazza Verdi diventano luogo di spaccio, scippo, o anche solo insulti e sguardi aggrottati. Pure i musicisti di strada che tradizionalmente suonano sotto casa di Lucio Dalla, da quando lui reclutò un gruppo per un concerto, non assomigliano ai barboni romantici di «Piazza Grande». Piuttosto, a quelli disperati di «Com'è profondo il mare»: «Siamo i gatti neri, siamo pessimisti, siamo i cattivi pensieri/ e non abbiamo da mangiare».

Bologna non era solo la capitale dell'altra Italia, comunista. Rappresentava anche il sogno di una città laboriosa come Milano e calorosa come Napoli. Il crocevia d'Italia: l'Appennino che comincia subito fuori porta Saragozza, il Mediterraneo in fondo alla via Emilia. Il degrado dei rapporti umani si tocca con mano, come altrove, ma qui è più doloroso vedere il motociclista puntare il pedone passato col rosso, notare lo sguardo avido del bottegaio in attesa dietro l'insegna «compro oro».

Questo non significa che Bologna sia diventata una città qualsiasi. Anche nei giorni della grande gelata, i bolognesi li trovavi per strada, anche un po' più sorridenti del solito, qualcuno con gli sci di fondo, altri a tirarsi palle di neve sugli scalini di San Petronio. Un professore o ricercatore universitario ogni cento abitanti, i grandi collezionisti d'arte come gli Enriquez e i Golinelli, 250 comitati pro o contro qualcosa, una vita culturale e artistica che può tornare tra le più ricche d'Europa, e ogni tanto consegna alla scena nazionale uno Stefano Benni, un Freak Antoni, un Alessandro Bergonzoni. Ci sono famiglie e fabbriche che resistono, ad esempio nel settore del packaging: i Vacchi, i Marchesini, i Seragnoli, che impacchettano sigarette e finanziano il centro per i malati terminali. I Maccaferri esplorano le energie alternative, la Datalogic di Romano Volta ha il business dei codici a barre, un ramo dei Sassoli de' Bianchi si è inventato la Valsoia. Persino Bergonzoni, il grande affabulatore, ha una fabbrica, dove passa due pomeriggi la settimana: viti e ingranaggi, 50 operai, «dopo qualche anno difficile ora scoppiamo di lavoro». Passati gli azzardi di Consorte, Unipol e le Coop tentano di creare con Premafin il secondo gruppo assicurativo del Paese. E, dopo i restauri di conventi, affreschi, palazzi, Bologna assomiglia sempre più alla definizione che ne diede Pasolini, «la città più bella d'Italia», quella che ha conservato meglio l'impianto medievale, e un poco l'antica arte di vivere, che contempla anche la pietà e la speranza. Quando la moglie del macellaio Raffaellino si ammalò di Parkinson, anche lui si fece ricoverare con un sotterfugio al Giovanni XIII, e passò gli ultimi dieci anni a espiare le proprie colpe e tenerle le mani. E da qualche parte ci devono essere ancora oggi due ragazzi che ascoltano le partite del Bologna immaginando di proiettarle contro un muro bianco, e un giorno diventeranno Dalla e Morandi.

Aldo Cazzullo

6 febbraio 2012 | 14:04© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/cronache/12_febbraio_06/bologna-grande-gelata-cazzullo_5e203172-5096-11e1-aa9f-fca1e0292c07.shtml
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« Risposta #118 inserito:: Febbraio 13, 2012, 11:42:21 am »

Una città, un Paese Genova, introversa e ribelle

La città che somiglia al paradiso (ma conta sempre meno)


Genova è risorta. Si è ripresa il mare, ha restaurato i palazzi. Non si è mai vissuto così bene, non è mai stata così bella. Peccato non conti quasi più nulla. Il «quasi» è obbligatorio per tre motivi. Da Genova, nel suo palazzo tra la Cattedrale e i carrugi, il cardinale Angelo Bagnasco governa la Chiesa italiana, dividendosi con Roma. A Genova, nella sua Fondazione a picco sul mare, uno dei più importanti architetti del mondo, Renzo Piano, progetta la modernità, dividendosi con Parigi e New York. E a Genova c'è il porto. Meglio, Genova è il porto del Nord Italia, lo sbocco al mare della Lombardia, l'affaccio di Milano al Mediterraneo. E il porto, con i suoi tanti volti - i container e l'acquario, i bacini di carenaggio e le crociere, i camalli e i traghetti per il Nord Africa -, resta il motore dell'economia di Genova, il suo ancoraggio al mondo, il fattore che definisce la sua identità.

Per il resto, la città non ha più il peso demografico e industriale che aveva. Da 900 a 600 mila abitanti in trent'anni; record di centenari, riuniti dal sindaco in una festa molto affollata; pochi i giovani, e metà sono stranieri. La storia ha finito per gemellare Genova con Torino. Per secoli le due città si sono avversate, un po' come oggi Roma e Milano. Torino era Roma: la corte, la politica, la burocrazia. Genova era Milano: le banche, il lavoro, i commerci. Paolo Conte ha raccontato lo spaesamento - passati gli Appennini - del piemontese, per cui «i gamberoni rossi sono un sogno»; e «che paura ci fa quel mare scuro che si muove anche di notte e non sta fermo mai». «Genova: industria pubblica e operai scontenti» diceva l'Avvocato Agnelli. Ora l'industria ha chiuso o traslocato. Anche Genova si è imborghesita. Ha ritrovato una sua dolcezza di vivere. E ha stemperato la sua durezza caratteriale e ideologica. Da sempre, questa è la città più di sinistra d'Italia. A Bologna la sinistra è sistema, potere, denaro, coop. Qui è ribellione. Si spiega anche così la clamorosa vittoria alle primarie del marchese comunista Marco Doria, e la disfatta del Pd. Genova è stata repubblicana quando l'Italia era monarchica, antifascista o almeno scettica ai tempi del Duce, comunista nell'era della Dc; i Savoia per riprenderla nel 1849 dovettero cannoneggiarla dal mare, nel luglio '60 i portuali spezzarono l'alleanza tra la Dc e la destra, durante il G8 i genovesi si schierarono apertamente con i manifestanti. A garantire la Genova borghese e cattolica provvidero nel dopoguerra Paolo Emilio Taviani, partigiano atlantico, storico ministro dell'Interno, e il cardinale Giuseppe Siri, Papa mancato, capo dell'ala destra della Chiesa italiana.

Il porto di Genova (Ceschina) Il porto di Genova (Ceschina)
Tra i carrugi con il cardinale
Da Siri fu consacrato sacerdote - nel 1966, a ventitré anni - Angelo Bagnasco, ora arcivescovo di Genova e capo dei vescovi italiani. «In privato, Siri era un uomo dolce, attento al rapporto umano. Veniva a trovarci in seminario ogni mercoledì. Quando ho detto messa per gli operai della Fincantieri, 750 posti di lavoro a rischio, i delegati della Fiom mi hanno parlato di Siri con gratitudine. Ancora si racconta di quando salvò il porto e le fabbriche, durante e dopo la guerra».

Con Bagnasco passiamo una mattinata tra i carrugi: il quartiere dov'è cresciuto, la chiesa della prima comunione, i palazzi costruiti sulle macerie dei bombardamenti tra cui giocava a guardie e ladri, la fabbrica di dolci dove il padre lavorò fino a 78 anni - «sotto Natale e Pasqua non tornava a casa neppure la notte, turni continui per fare panettoni e colombe» -, il vicolo delle prostitute: «De André nelle sue canzoni ne ha dato una visione consolatoria, rassegnata. Invece non dobbiamo rassegnarci». Anche a Bagnasco, come a Siri, capita di essere fermato per strada dai genovesi che vogliono ringraziarlo. Sono i beneficiati dal welfare finanziato dalla Curia con i 960 mila euro dell'8 per mille e costruito dalla Caritas e da 27 gruppi di volontari. Chi mantiene il cinquantenne rimasto senza lavoro. Chi accoglie il padre separato messo fuori casa. Chi insegna agli anziani a evitare gli sciacalli che comprano appartamenti a 500 euro il metro per rivenderli al decuplo. Chi diffonde la guida stampata da Sant'Egidio: «Dove dormire, dove mangiare, dove scaldarsi». Chi, come l'oncologa Maria Vittoria Mari, apre ambulatori per i figli dei poveri, e compra all'ingrosso sacchi di frutta e verdura per le madri straniere, cui non viene il latte per la cattiva alimentazione.

Spiega il cardinale di non avere nulla in contrario alla costruzione di una moschea, su cui Genova litiga da anni. Fa notare che una piccola moschea c'è già, dietro una serranda, accanto alla meravigliosa chiesa romanica di San Donato. Aggiunge che la Chiesa non è un ente assistenziale, ma aiuta gli ultimi perché il loro volto, segnato dal bisogno e dagli errori, è il volto di Dio. I parrocchiani lo guardano adoranti. Gli studenti della facoltà di architettura, dove prosegue la visita pastorale, lo fissano attoniti. Ad accoglierlo ci sono professori e burocrati. I giovani restano nelle aule. Lui passa a salutarli, qualcuno si avvicina, qualcuno ridacchia, qualcuno sbuffa. Il cardinale dice: «Fate un lavoro importante, la bellezza delle vostre opere ci conferma l'esistenza del Signore». Gli studenti non hanno l'aria di aver capito.

Nello studio dell'Architetto
Neppure Renzo Piano ha capito se è stata Genova a fare i genovesi, o i genovesi a fare Genova. La verità, dice, sta nel mezzo. La città è sottovalutata. La si dice avara, in realtà è parsimoniosa: una virtù, nell'età del consumismo. Più che diffidente, è prudente: un pregio, in un Paese credulone. Può sembrare chiusa, forse è solo riservata. Certo, per quanto il porto antico ridisegnato appunto da Piano sia ora un moltiplicatore di turismo, Genova non è il massimo dell'accoglienza. Sulle toilette di molti bar è scritto «GUASTO»; funzionano benissimo, ma prima devi consumare, poi ti daranno le chiavi. La città invecchia e la sera va a letto presto, allo storico cinema Ariston l'ultimo spettacolo è alle 21 e 15, pure in posti chic come l'enolibreria di via san Lorenzo ti portano il conto anche se non richiesto, dopo le undici le focaccerie chiudono e si mangia solo kebab. Dice però il suo architetto che Genova non è ruvida; è timida. Introversa. La ricchezza mai esibita, la bellezza spesso nascosta, nei cortili, negli arredi. Il centro storico non è tutto uffici come altrove, la gente ci vive e soprattutto convive, i ricchi al piano alto e i poveri al mezzanino, gli spacciatori in via del Campo e i professionisti nella parallela. I genovesi assomigliano alla loro città: non sono facili. Possono essere crudeli: i pisani lasciati morire di stenti e sepolti nel campo che ne porta il nome, i mendicanti imbarcati su navi affondate al largo, i telai dei concorrenti lionesi comprati per essere bruciati; da qui il grido dei veneziani, «genovesi mangiatevi il cuore se ancora l'avete!». Però possono comporre melodie più durature del tempo, come Ivano Fossati acclamato al Carlo Felice per l'ultimo concerto, come Fabrizio De André che con Piano andava in barca, come Gino Paoli con cui Piano è stato negli scout. Tutta gente di poche parole. «Mio padre, da genovese doc, non parlava quasi mai - ricorda l'architetto -. Però ogni domenica, dopo la messa, voleva andare al porto. Uno spettacolo di pietra e di acqua. Non c'erano i container. Gli oggetti volavano. Le automobili in braccio alle gru. Un capolavoro dell'effimero: tutto vola o galleggia, nulla tocca terra; ti viene voglia di costruire per sfidare la legge di gravità. Per questo c'è un po' di Genova in tutto quello che faccio».

Al porto con i camalli
Il primo giorno di lavoro alla Compagnia Unica, nel 1974, ad Antonio Benvenuti furono forniti i guanti, una tuta normale, una tuta da ghiaccio, una cappotta per i sacchi, una zappetta per i pacchi di caffè, un gancio normale, un gancio lungo per il caucciù e le carni (e gli scontri con la Celere), la tessera della Cgil e quella del Pci. Benvenuti rifiutò solo quest'ultima: dal partitone era già uscito, in quanto antiberlingueriano e leninista. Oggi è il console dei camalli (dall'arabo hamal , portatore), erede del leggendario Paride Batini. Nella sala chiamate ci sono ancora i ritratti di Lenin, Togliatti, Di Vittorio e Guido Rossa; ma i camalli oggi vengono qui solo per sfidarsi sul ring della savate, la boxe francese. Le convocazioni arrivano via sms, 364 giorni l'anno, tutti tranne il primo maggio. Domani sera fanno il karaoke. Racconta il console che qualcuno vota Berlusconi, altri Lega.

Negli Anni 70, il porto di Genova era pubblico e aveva 5 mila dipendenti, più 10 mila camalli. Quando nel '94 la gestione fu privatizzata, lo Stato si accollò debiti per centinaia di miliardi di lire. Ora i 15 terminal privati - del carbone, del sale, dell'alluminio... - hanno meno di duemila addetti, i camalli sono poco più di mille, e i conti sono in attivo. La fine del monopolio della Compagnia Unica ha invertito il declino. Raggiunta Marsiglia, superata Barcellona, Genova sta tornando il primo porto di destinazione finale del Mediterraneo (Valencia e Algeciras guidano la classifica dei porti di transito). Racconta il presidente, Luigi Merlo, che sono iniziati i lavori per raddoppiare i volumi, da 2 a 4 milioni di container: si scava il mare e si costruiscono nuovi piazzali. Già si litiga sulla nuova diga foranea, che dovrebbe sottrarre spazio al Mediterraneo e proiettare la città ancora più al largo. E a giugno partirà il fatidico terzo valico: previsti otto anni di lavori per abbreviare il viaggio delle merci verso Nord.
Attorno al porto, c'è un mondo. L'Accademia del mare, dove i diplomati del nautico studiano da capitani. Cinque bacini per riparare le navi. Il grattacielo in costruzione della Msc, i concorrenti della Costa, che ha scelto Savona e peggio per lei. Il quotidiano L'avvisatore marittimo (è arrivato un bastimento carico carico di...). Il fenomeno dell'acquario. Eataly. Il galeone del film «Pirati» di Polanski e la nave di «Love boat». Trentamila posti di lavoro nell'indotto.

Fuori dal porto, c'è una città in crisi, come il resto del Paese. Della Finsider e dell'Ansaldo restano aziende ad alta tecnologia, talora però amministrate da fuori. L'altoforno di Cornigliano, dove il brigatista Riccardo Dura sognava di gettare vivi i capisquadra, ora è spento, in attesa della riconversione a freddo gli operai sono cassintegrati. I 750 della Fincantieri di Sestri tengono in ostaggio una nave da crociera commissionata dagli americani dell'Oceania: la consegneranno quando avranno la garanzia che lo stabilimento non chiude; altrimenti minacciano di bloccare il festival di Sanremo, «i compagni Morandi e Celentano capiranno». Racconta Sergio Cofferati di aver visto, per la prima volta in vita sua, i commercianti scioperare con gli operai: se chiude la fabbrica, è finita per tutti.

L'«ex sindaco»
«Se non cambia, questa città ha dieci anni di vita» dice il sindaco in carica, Marta Vincenzi, figlia di un operaio dell'Ansaldo. Sfidata alle primarie da un'altra donna, anche lei del Pd, la senatrice Roberta Pinotti, figlia di un operaio dell'Enel. Battute entrambe dall'outsider Marco Doria. Una sorta di suicidio collettivo del Pd. La Vincenzi è molto simpatica. Porta prodigiosamente i suoi 64 anni. Però ha in parte dilapidato un patrimonio di popolarità, pasticciando un po' su tutto, dalla moschea alla Gronda, la nuova tangenziale. Opere necessarie, ma non amate. Se poi il sindaco propone ogni volta un luogo e un percorso diversi, i nemici si moltiplicano. Ha pure litigato con il boss locale e presidente della Regione, Claudio Burlando, figlio di un camallo, che non l'ha mai amata. Il resto l'ha fatto l'alluvione. Sei vittime, tutte femmine, due bambine e quattro donne: «Le porterò per sempre sulla coscienza» disse la Vincenzi. Si vota a maggio. Doria avrà forse come avversario Enrico Musso. Chiunque vinca, avrà punti fermi cui aggrapparsi. I grandi ospedali, il Gaslini per i piccoli e il San Martino per i vecchi. Marassi, lo stadio all'inglese. La Carige, che è rimasta la banca di Genova. Palazzo Ducale, dove la mostra su Van Gogh e Gauguin è prorogata a furor di visitatori. Lo Stabile, con il teatro della Corte e il Duse. E una bellezza appartata, silenziosa, da ammirare dai colli a strapiombo su cui si sale in ascensore. «Quando mi sarò deciso d'andarci, in paradiso, ci andrò con l'ascensore di Castelletto» scriveva Giorgio Caproni. Per De Andrè, invece, il paradiso era al primo piano delle case di via del Campo. Di sicuro, per i genovesi, il paradiso è da qualche parte nella loro città.

Aldo Cazzullo

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13 febbraio 2012 | 8:21© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/cronache/12_febbraio_13/cazzullo-genova_15983bfe-560c-11e1-b61e-fac7734bea4a.shtml
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« Risposta #119 inserito:: Febbraio 27, 2012, 11:32:26 am »

UNA CITTA' UN PAESE

Napoli, tra orgoglio e rancore

Da Goethe a oggi dà identità all'Italia.

Rifiuti spariti (li mandano in Olanda).

E il welfare? Appaltato alla malavita



MILANO - Napoli si è ribellata e si è inorgoglita. Si è ribellata al Pd e al Pdl, a Bassolino e a Berlusconi, affidandosi a un magistrato fascinoso e controverso. E ha ritrovato un orgoglio che può prendere accenti rancorosi, come il risentimento verso il Nord «invasore e colonizzatore», embrione di una Lega Sud prossima ventura; ma può prendere anche direzioni costruttive. Se la colpa dei mali di Napoli è altrove, Napoli non può farci nulla. Ma a un numero crescente di napoletani la loro città, cosi com'era diventata, non va più bene. La amano molto, ma proprio per questo cominciano a cambiarla, partendo dai rifiuti, che non sono più per strada: non si potranno mandare per sempre in Olanda, ma intanto lo scandalo più nero è servito a scuotere la coscienza della città. Inorgoglita per due altri motivi: l'uomo che sta salvando l'Italia, profondamente napoletano, fin dal nome; e una squadra di calcio passata dalla serie C alla Champions, dove batte squadre di sceicchi e oligarchi.

ALLO STADIO SAN PAOLO - L'estate in cui Aurelio De Laurentiis comprò il Napoli, mancavano pure i palloni e le maglie per gli allenamenti: il capitano Francesco Montervino andò a comprarli in un negozio di articoli sportivi a Paestum. Era il 2004, e il Napoli giocava con il Sora e la Vis Pesaro. Martedì scorso, eliminato il Manchester City, toccava al Chelsea. I primi tifosi a entrare al San Paolo vi trovano trecento persone infreddolite avvolte nel sacco a pelo. Sono lì dalla notte prima. Lo stadio è presidiato per ordine del presidente, da quando si scoprì che un impiegato del Comune vi nascondeva una santabarbara. Lo spettacolo della curva B è impressionante, gli striscioni dei Napoli Club ricordano che questa non è una città ma, con Milano, l'unica megalopoli italiana, che va da Pozzuoli a Castellammare passando per Casoria, Pomigliano, Giugliano, Torre del Greco, Afragola, e spinge la sua influenza nel Lazio a Terracina, in Molise a Isernia, in Puglia a Foggia, in Basilicata a Potenza, in Calabria a Cosenza, in Abruzzo ad Avezzano: insomma, il vecchio Regno, Sicilia esclusa. Ai cancelli non si sente una parola in italiano, parlano tutti dialetto. Per il resto pare di essere a Wembley: erba verde, pioggia sottile, atmosfera solenne; chi si alza in piedi sui sedili viene ripreso dagli steward, « prego assettatevi », e proprio non si vedono i boss che entrerebbero mostrando non il biglietto ma la pistola. In realtà la pressione della violenza, forse anche della camorra sul calcio esiste, l'ha testimoniato l'inchiesta del pm Melillo che ha incriminato gli undici picchiatori dei «Bronx», drappello avanzato di una tifoseria in guerra con gli ultras del Nord: odiatissimi i veronesi, detestati i milanesi e ora anche i romani, amici solo genoani e catanesi.Allo stadio si vede male, la pista d'atletica allontana il campo e infatti si parla di spostarlo, per il sollievo degli abitanti di Fuorigrotta e per la preoccupazione dei tifosi della tribuna: «Se lo fanno a Ponticelli, a inizio partita nel parcheggio ci stanno ventimila macchine, alla fine ne restano diecimila». La tribuna autorità non è meno colorata della curva B. Avvocati e primari elegantissimi con vestiti di sartoria - «domani la porto dal mio sarto, ai Quartieri Spagnoli: una giacca 150 euro» - e il foulard nel taschino, ed energumeni con berrettino biancazzurro e sciarpa «Napoli-Chelsea io c'ero». Accolte da invocazioni le stelle locali: Gigi D'Alessio - « Giggi aviv'a vincere tu Sanremo! » -, Biagio Izzo l'attore che fa il napoletano nei cinepanettoni, il sindaco de Magistris che scatta foto coi tifosi; ma il più acclamato è Lapo Elkann, la cui popolarità a Napoli è impressionante. Al fischio d'inizio, per ultimo come le spose, arriva direttamente dagli spogliatoi De Laurentiis, «'o presidente», napoletano di ritorno, nato a Roma ma sudista d'elezione.La partita riesce spettacolare, nell'intervallo si ascolta «Tu vuo' fa' l'americano» in versione rock, alla fine curve e tribuna cantano insieme 'O surdato 'nnammurato - Oje vita, oje vita mia... -, l'allenatore sconfitto Villas Boas dichiara: «Avevamo contro lo spirito di una città, e contro una città non si può vincere». All'uscita tutti si protendono a toccare De Laurentiis ed Elkann: « Lapo vuje purtat bbuono, Lapo vuje avit'a turna' per i quarti 'e finale! ».

NOTTE SULLA VOLANTE -Puoi spegnere la sirena, i lampeggianti, anche i fari. Ma appena l'auto della polizia si affaccia, si sentono le grida: «Mariaaa! Mariaaa!». Non sono richiami d'amore. È la vedetta che avverte gli spacciatori. L'assistente Giuseppe Esposito, alla guida della volante Alfa05, e il commissario capo Lorenzo Gentile indicano il muro di lamiera tra le case, dietro cui la vedetta è appostata. In un attimo non c'è più nessuno. Tranne sei ragazzi. Sanno che la polizia non può far loro nulla. E sono talmente persi nel loro viaggio verso il nulla che non si muovono neppure. Uno si guarda il collo nello specchietto di un furgone, alla ricerca della vena giusta. A guardare la situazione economica e quella criminale, non è che i motivi di orgoglio siano tanti. Racconta il questore Luigi Merolla che, quand'era ragazzo, nella sua Bagnoli la criminalità non esisteva: lavoravano tutti all'Italsider. Ora della fabbrica sono rimaste mura sinistre e una spiaggia di detriti; e ci si deve arrangiare. Con un impiego pubblico: Napoli - tra Comune, Provincia, Regione - ha più dipendenti dell'Unione Europea. Con una bottega artigiana: l'antica economia dei bassi si è riprodotta a Secondigliano, ovunque laboratori che fanno abiti da sposa, cioccolato, borse, scarpe, ovunque insegne sgargianti di centri massaggi, «compro oro», negozi di uccelli esotici e centri per l'abbronzatura che si chiamano «Tropicana» e «Inferno giallo». Non mancano certo le storie di imprenditori di successo, anche se molti se ne vanno altrove: Luciano Cimmino della Yamamay a Gallarate, l'armatore Gianluigi Aponte della Msc in Svizzera. Ma, dopo la burocrazia, la prima fonte di manodopera e di welfare è la malavita. Spiega l'ex procuratore capo Giandomenico Lepore - incontrato nelle scuderie di Palazzo Sansevero mentre compra un Pulcinella dell'artista Lello Esposito - che i capi storici della camorra sono tutti morti o in galera, anche se qualcuno continua a comandare da Poggioreale. Contro il racket e l'usura si è fatto molto. «Il vero carburante delle mafie è la droga». La situazione, aggiunge il questore, in teoria è pessima; in realtà quel che c'era da perdere è già stato perso, quel che c'era da rubare, rubato. Scippi e rapine in periferia sono rari; i delinquenti colpiscono al Vomero o in centro: metà Napoli rapina l'altra metà. Merolla guida una macchina da 4.300 poliziotti. La questura di Napoli è da sempre una punta d'eccellenza, questori di Napoli sono stati l'attuale capo della polizia Manganelli e un personaggio leggendario come Arnaldo La Barbera. Anche Merolla è un personaggio: molto amato dai suoi uomini, melomane - habitué del San Carlo, il teatro con la migliore acustica al mondo -, gastronomo - il maître di Ciro a Santa Brigida gli propone a colpo sicuro il sartù appena sfornato -, spiega che i dati della criminalità sono in miglioramento. Il 1982, l'anno dei 200 omicidi, è lontano. Ancora nel 2006 ci furono 14 mila rapine. Ora sono 8 mila. Le altre si fanno altrove: «Napoli è una Tortuga che esporta rapinatori». La microcriminalità è più diffusa che a Palermo: la mafia stabilizza, la camorra destabilizza. Moltissimi i reati non denunciati, in particolare furti d'auto, che il derubato spera di riavere pagando al ladro il 10% del valore. Non è una notte di sparatorie, sono anni che i camorristi non sparano ai poliziotti, «sanno che sarebbero spazzati via» dicono loro con orgoglio. È una notte in cui però si sente il respiro e il dolore di una grande città. È morta una bambina cingalese di 4 mesi, bisogna verificare che non sia stata uccisa dai genitori, ma il loro strazio dice tutto, non ci sono segni di strangolamento, è stato un rigurgito. A una ragazza hanno strappato l iPhone di mano, in corso Umberto. In piazza Mercato tre marocchini sono sorpresi mentre caricano su un furgone nove ruote rubate, vengono interrogati e portati via. Si va sui luoghi dello spaccio. In via Tertulliano a Soccavo, dove si allenava il Napoli di Maradona. Poi alle Vele, ormai semideserte, abitate abusivamente dalle ultime famiglie. Le loro gemelle di Nizza sono condomini di lusso; queste saranno abbattute, due sono già sparite, ne resterà soltanto una, in memoria di un esperimento fallito. L'assistente Esposito è in servizio da 14 anni, Gentile è appena arrivato da Roma per amore ed è contento, dice che i napoletani sono più gentili, la moglie incinta non riesce a fare un passo senza che i vicini la riempiano di premure. I commissari sono tutti laureati, parlano come giuristi, dicono «porre in essere» e «fattispecie di reato». «La gente sostiene che non facciamo nulla contro lo spaccio, ma non è vero. Meglio di noi possono lavorare quelli della Mobile, che non portano la divisa. Ma per filmare gli spacciatori ci vuole tempo. Poi devi rivolgerti al pm, che deve avere l'autorizzazione del gip. Capita di aspettare un anno per un mandato d'arresto». Dal carcere lo spacciatore uscirà molto prima. Ci avviciniamo al ragazzo che si droga davanti allo specchietto del furgone. Avrà trent'anni, ma ha un volto da vecchina. Indossa i pantaloni della tuta e un giubbotto con il cappuccio, attorno alla gamba destra ha un ferro che sostiene una frattura mai guarita. È buio, tira vento, la prima sensazione è di paura e impotenza, poi in un attimo pensi che potrebbe essere tuo figlio o tuo fratello e ti prende una pena infinita, vorresti abbracciarlo e portarlo via; ma lui ha uno scatto, in mano ha una siringa piena di sangue, i poliziotti devono aver avuto l'ordine di evitare rischi inutili, ci portano a prendere un caffè in uno dei bar di Scampia aperti la notte; ma anche il commissario capo Gentile e l'assistente Esposito hanno cambiato umore, non sono ancora diventati cinici, si sentono impotenti, non rassegnati.

NEGLI OSPEDALI E TRA I VICOLI - Lo scandalo dei malati in barella a Napoli non ha indignato più di tanto. Al Cardarelli il «reparto barelle» esiste da tempo e resterà almeno per tre mesi. Secondo piano del padiglione C, ex reparto di oncologia. Decine di barelle, sia pure su ruote e con un materasso più spesso di quelle delle ambulanze. Altre sono nei corridoi dell'Osservazione breve intensiva e del Dea, Dipartimento emergenza accettazione. Scene consuete in molti ospedali italiani. Colpisce però l'incredibile numero di parenti, distesi sui materassini, accampati con biscotti e bottiglioni di aranciata: le guardie provano a mandare via qualcuno, ma dopo un po' tornano, accolti con sollievo dai ricoverati. A Napoli nessuno o quasi muore da solo. Chi dispone di un comodino ha portato i libri da casa. Grisham e Faletti, naturalmente. Ma anche testi di storia e filosofia. Si riflette, ci si prepara a tornare alla vita o ad affrontare l'ignoto. Vista anche una copia di Borges: «Altre inquisizioni». Pure nei Quartieri Spagnoli c'è un ospedale, la Confraternita dei Pellegrini. «Ti mando ai Pellegrini», detto nei vicoli, è una minaccia grave. «Ti faccio scolare» è una minaccia di morte, i cadaveri attendevano a lungo prima di essere inumati nella terra santa di Gerusalemme. La compenetrazione tra vita e morte è continua, mai viste tante mummie e tanti teschi come nelle chiese di Napoli. Quando c'erano i confratelli, fino a trent'anni fa, i posti letto erano 400. Ora comanda la Regione e sono 99, più qualche decina di barelle: cinque nel corridoio di cardiologia, tre in quello di chirurgia generale; è l'ora di pranzo, i malati mangiano dentro scatole di alluminio, distesi sul fianco come su un triclinio. Qualche metro più in giù, Spaccanapoli, con la casa di Benedetto Croce. Quando il filosofo morì, il 20 novembre 1952, Orio Vergani annotò in un memorabile articolo che le prime firme sul registro erano quelle incerte degli abitanti dei bassi. Quando fu sepolto Mario Merola, il 14 novembre 2006, Giuseppe D'Avanzo denunciò l'omaggio reso da Bassolino e Russo Iervolino alla «napoletaneria»: «La Napoli plebea e ormai culturalmente egemone si è come aggrappata alle spoglie di Merola per trovare ragione di se stessa, e la volontà di ripetere ancora in faccia a tutto il mondo e a tutti i napoletani spaventati: questa è Napoli e Napoli siamo noi». Oggi la città vive una fase paragonabile al '93, quando era crollato il sistema Dc dei Cirino Pomicino - tutt'ora presidente della Tangenziale - e le illusioni del bassolinismo erano intere. Anche adesso c'è un nuovo sindaco, ma i denari pubblici sono finiti, anzi il Comune fatica a trovare i soldi per gli stipendi, anche se spende per ospitare l'America's Cup. Però c'è un fervore di giovani, di volontari, di associazioni dai nomi immaginifici - Friarielli Ribelli, Fuorigrotta Moving, La Paranza - che riaprono il tunnel borbonico, gestiscono le catacombe, piantano fiori e piante. Ci sono soprattutto sempre più napoletani che non si rassegnano alla crisi, alla camorra, al degrado. Ci sono persino più motociclisti con il casco. I cantieri della metro sembrano eterni, ma ogni tanto partoriscono una stazione capolavoro dell'arte contemporanea, ieri piazza Dante, oggi piazza Borsa.

Croce amava citare un'antica definizione di Napoli: «Un paradiso abitato da diavoli». Di questa città oggi si potrebbe ripetere quel che disse Umberto Eco di Torino: «Senza l'Italia Napoli sarebbe più o meno la stessa; ma senza Napoli l'Italia non ci sarebbe». Se Torino ha fatto l'Italia a San Martino e a Mirafiori, con il Risorgimento e con l'industria, Napoli all'Italia ha dato un'identità. All'estero pensano il nostro Paese come un'immensa Napoli, il sole il mare la pizza gli spaghetti. Noi possiamo pensare a Totò, a Eduardo, a Di Giacomo, a Mimmo Paladino. Il principe di San Severo, quello del Cristo velato e degli esperimenti alchemici, ha lasciato scritto che «non è data all'umana debolezza l'esistenza di grandi virtù senza grandi vizi». A Napoli le virtù e i vizi d'Italia sono elevati a potenza. Come aveva intuito Goethe, «dov'è più forte la luce, l'ombra è più nera».

Aldo Cazzullo
http://blog.aldocazzullo.it

27 febbraio 2012 | 9:11© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/cronache/12_febbraio_27/cazzullo-napoli_158b6b38-6113-11e1-8325-a685c67602ce.shtml
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