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Autore Discussione: Gian Antonio STELLA -  (Letto 184806 volte)
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« Risposta #165 inserito:: Febbraio 10, 2012, 05:05:33 pm »

L'ateneo di Roma in bassa classifica

Il declino della Sapienza all'ombra di Parentopoli: è al 430°posto nel mondo

Nell'Università dopo moglie e figlia, anche il figlio del rettore

«Parentopoli? Ma perché non parlate di "Ignorantopoli"? Questo è il vero problema dell'università italiana. Voi giornalisti fate solo folklore!», sibilò il rettore della Sapienza Luigi Frati al nostro Nino Luca.

Ma la Procura non è d'accordo: papà, mamma, figlia e figlio docenti nella stessa facoltà sono troppi, come coincidenze.


E sull'arrivo dell'ultimo Frati a Medicina ha aperto un fascicolo. Tanto più che «Parentopoli» e «Ignorantopoli», dicono le classifiche internazionali, possono coincidere.

Il rettore di quello che sul Web si vanta di essere il più grande ateneo italiano (nel senso di più affollato: 143 mila studenti, pari all'intera popolazione di Salerno o quelle di due capoluoghi come L'Aquila e Potenza insieme) era da tempo nel mirino di chi denuncia certi vizi del nostro sistema universitario.
Senese, un passato da sindacalista, uomo dalla capacità funambolica di fluttuare tra destra e sinistra, preside per un'eternità di Medicina dal lontano 1990 in cui Gava era ministro degli Interni e Chiesa si occupava amorevolmente dei vecchi ospiti del Pio Albergo Trivulzio e «altro», quello che i suoi studenti più perfidi hanno soprannominato «BaronFrati», è da sempre un uomo tutto casa e facoltà.
Al punto che non solo nella «sua» Medicina si sono via via accasate la moglie Luciana Rita Angeletti in Frati (laureata in Lettere: storia della Medicina) e la figlia Paola (laureata in Giurisprudenza: Medicina Legale) ma perfino il brindisi per le nozze della ragazza fu fatto lì. Indimenticabile il biglietto: «Il prof. Luigi Frati e il prof. Mario Piccoli, in occasione del matrimonio dei loro figli Paola Frati con Andrea Marziale e Federico Piccoli con Barbara Mafera, saranno lieti di festeggiarli con voi il giorno 25 maggio alle ore 13.00 presso l'aula Grande di Patologia Generale».

Arrivò una perfida e deliziosa «sposina» delle Iene , quella volta, a guastare un po' la giornata. Ma fu comunque un trionfo. Quasi pari, diciamo, alla passerella offerta dal nostro, anni dopo, a Muammar Gheddafi, salutato come uno statista e invitato nell'aula magna, sul palcoscenico più prestigioso, perché tenesse agli studenti una «lectio magistralis» su un tema davvero adatto al tiranno: la democrazia. Tema svolto tra risate sbigottite («demos è una parola araba che vuol dire popolo come "crazi" che vuol dire sedia: democrazia è il popolo che si siede sulle sedie!») mentre lui, il rettore, si lasciava andare in lodi per le prosperose amazzoni di scorta: «Le abbiamo apprezzate molto! Purtroppo c'è qui mia moglie...».
Adorato da chi ama il suo senso del potere e il linguaggio ruspante (resta immortale un video dove spiega agli studenti: «Nun date retta ai professori perché i professori si fanno i cazzi loro. I professori fanno i cazzi loro, lasciateli perdere!»), il giorno in cui si insediò come rettore liquidò le polemiche sul nepotismo così: «È stato fuori luogo tirare in ballo mia moglie, la professoressa Angeletti, perché lei è quella che è, io sono quello che sono. Non è lei che è "la moglie di", sono io che sono "il marito di"».

Il guaio è che oltre a essere «il marito di» Luciana Rita e «il padre di» Paola, è anche «il padre di» Giacomo. Che per fatalità è lui pure entrato nella facoltà di Medicina di papà: ricercatore a 28 anni, professore associato a 31. Come vinse il concorso lo rivelò una strepitosa puntata di Report : discusse «una prova orale sui trapianti cardiaci» davanti a una commissione composta da due professori di igiene e tre odontoiatri. E nessun cardiochirurgo.
«Ma lei si farebbe operare da uno che è stato giudicato da una commissione di Odontostomatologi?», chiese Sabrina Giannini, l'inviata della trasmissione di Milena Gabanelli a uno dei commissari, Vito Antonio Malagnino. Farfugliò: «Io... Non parliamo di cuore o di fegato, però...». «Secondo lei tre dentisti e due specialisti d'igiene potevano adeguatamente...». «Forse no però questo non è un problema mio...».
Vinta la selezione, il giovane professore viene più avanti chiamato come associato a Latina, dependance del Policlinico universitario di cui è rettore papà. Giusto un attimo prima, coincidenza, dell'entrata in vigore della riforma Gelmini contro il nepotismo. Quella che vieta di assumere come docenti nella stessa università i parenti dei rettori, dei direttori generali e dei membri del consiglio di amministrazione.

Ma queste, compreso un ricorso al Tar, erano solo le prime puntate della «Dinasty» fratiana. Il meglio, come hanno ricostruito Federica Angeli e Fabio Tonacci sulla cronaca romana di Repubblica , sarebbe arrivato nelle puntate successive. Occhio alle date: il 28 gennaio 2011 il rettore Luigi Frati sceglie come commissario straordinario del Policlinico Antonio Capparelli. Qualche settimana dopo, il 22 marzo, lo nomina direttore generale. Passa meno di un mese e il 19 aprile Capparelli, togliendo un po' di posti letto a un altro reparto a costo di scatenare le ire di quanti si sentono «impoveriti», firma una delibera creando «l'Unità Programmatica Tecnologie cellulari-molecolari applicate alle malattie cardiovascolari» nell'ambito del dipartimento Cuore e grossi vasi e chiama da Latina, per ricoprire un ruolo paragonabile a quello di primario, Giacomo Frati. Cioè il rampollo dell'uomo che lo aveva appena promosso.
Ora, a pensar male si fa peccato e, in attesa del responso dell'inchiesta giudiziaria, noi vogliamo immaginare che la famiglia Frati sia composta di quattro geni: un genio lui, un genio la moglie, un genio la figlia, un genio il figlio. Ma la moglie di Cesare, si sa (vale anche per la figlia di Elsa Fornero, si capisce) deve essere al di sopra anche di ogni sospetto. Che giudizi possono farsi, gli stranieri, davanti a coincidenze come queste?

Sarà un caso se la reputazione dei nostri atenei nelle classifiche mondiali è così bassa? Dice l'ultimo Academic Ranking of World Universities elaborato dall'Institute of Higher Education della Jiao Tong University di Shanghai che, sulla base di sei parametri, la Sapienza si colloca nel gruppone tra il 100° il 150° posto. La Scuola Normale di Pisa, però, rielaborando i sei parametri utilizzati (numero di studenti vincitori di Premi Nobel e Medaglie Fields; numero di Premi Nobel in Fisica, Chimica, Medicina ed Economia e di medaglie Fields presenti nello staff; numero delle ricerche altamente citate di docenti, ricercatori, studenti; numero di articoli pubblicati su Nature e Science nel quinquennio precedente la classifica; numero di articoli indicizzati nel Science Citation Index e nel Social Science Citation Index; rapporto tra allievi/docenti/ricercatori e il punteggio complessivo relativo ai precedenti parametri) è arrivata a conclusioni diverse.

Se il calcolo viene fatto tenendo conto della dimensione di ogni università, sul pro capite, tutto cambia. E se la piccola ed elitaria Scuola Normale si inerpica al 10° posto dopo rivali inarrivabili come Harvard, Stanford, Mit di Boston o Berkeley, ecco che le altre italiane seguono a distanza: 113ª Milano Bicocca, 247ª la Statale milanese, 248ª Padova, 266ª Pisa e giù giù fino a ritrovare la Sapienza. Che stracarica di studenti ma anche al centro di perplessità come quelle segnalate, è addirittura al 430° posto. E torniamo alla domanda di Frati: qual è il problema, «Parentopoli», «Ignorantopoli» o forse forse tutte e due?

Gian Antonio Stella

10 febbraio 2012 | 9:13© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://roma.corriere.it/roma/notizie/cronaca/12_febbraio_10/parentopoli-declino-sapienza-stella-1903219662600.shtml
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« Risposta #166 inserito:: Marzo 02, 2012, 11:45:04 pm »

Il caso DI VICENZA

Quando sono i «penultimi» a vietare l'ingresso agli ultimi

Il cartello di un'immigrata marocchina contro i nomadi


«E intritt für Italiener verboten!». Quel famosissimo cartello appiccicato all'entrata d'un ristorante di Saarbrücken, tradotto e rafforzato nella nostra lingua («Proibito "rigorosamente" l'ingresso agli italiani!») perché tutti capissero, è una ferita che sanguina ancora tra i nostri emigrati in Germania. Non sappiamo chi fosse il razzista padrone di quella trattoria. Forse, chissà, era un immigrato danese, russo o polacco arrivato qualche anno prima. Nessuno stupore. Così come non può stupire che il cartello piazzato in una vetrina di Vicenza con scritto «Vietato entrare ai zingari» sia stato messo lì da Fatima Mechal, un'immigrata marocchina. È andata quasi sempre così, nella storia delle emigrazioni: quelli che stavano all'ultimo gradino della scala sociale, appena riescono a salire sul penultimo si voltano e sputano su chi ha preso il loro posto.

Da anni quanti hanno letto un po' di libri sull'emigrazione tentano di spiegare agli xenofobi, che scatenano campagne furenti contro il diritto di voto agli immigrati nella convinzione che sarebbero tutti «voti comunisti», che non è affatto vero che quei voti andrebbero automaticamente alle «sinistre». Anzi, con ogni probabilità le preferenze di chi si è già inserito premierebbero in buona parte chi vuole la chiusura delle frontiere all'ingresso di nuovi immigrati, visti come concorrenti disposti a mettersi sul mercato del lavoro a prezzi stracciati. Niente da fare. Eppure, la stessa storia dei nostri emigrati è piena di testimonianze in questo senso. Ne ricordiamo due. Particolarmente dolorose.

La prima è quella dei sentimenti di calloso razzismo manifestati nei confronti dei nostri nonni, a cavallo fra Ottocento e Novecento, dagli irlandesi che in Australia e negli Stati Uniti ci avevano preceduto nella malinconica casella delle etnie più combattute, odiate, disprezzate dagli abitanti che si ritenevano gli unici padroni «autoctoni» delle terre occupate dai bisnonni. Dice tutto l'ostilità contro ogni manifestazione di cattolicesimo popolare (le processioni con le statue dei santi, le invocazioni urlate, i fuochi artificiali...) visto come primitivo, bigotto, «pagano». C'è una frase di un prete irlandese, Bernard Lynch, che sintetizza un mondo intero di sentimenti. Ridendo di come i nostri emigranti si accatastavano nei «block» newyorkesi di Mulberry Street o Bayard Street (dove il fotografo Jakob Riis contò 1324 italiani ammucchiati in 132 stanze), quel prete arrivò a dire in un rapporto al vescovo: «Gli italiani riescono a stare in uno spazio minore di qualsiasi altro popolo, se si eccettuano, forse, i cinesi». Di più: «Dove l'uomo non potrebbe vivere, secondo le teorie scientifiche, l'italiano si ingrassa.»

Ancora più straziante, e indicativo del rapporto malato fra i penultimi e gli ultimi, è il ricordo di quanto accadde nel 1891 a New Orleans. Dove il sindaco Joseph A. Shakespeare, convinto che gli immigrati italiani e soprattutto siciliani fossero il peggio del peggio («Sono sudici nella persona e nelle abitazioni e le epidemie, qui da noi, scoppiano quasi sempre nei loro quartieri. Sono codardi, privi di qualsiasi senso dell'onore, di sincerità, di orgoglio, di religione e di qualsiasi altra dote atta a fare di un individuo un buon cittadino...») scaricò contro la nostra comunità l'accusa di avere organizzato l'omicidio del capo della polizia, David C. Hennessy.

L'ondata di arresti che seguì alla campagna anti-italiana («La polizia li trascinò in carcere sottoponendoli a un trattamento abbastanza pesante, ma la principale accusa che si poteva muover loro era quella di non saper parlare in inglese», ammise il New York Times che pure era molto duro con i nostri) non riuscì tuttavia a placare l'odio razziale del sindaco e dei razzisti da cui si era circondato.

Dopo l'abolizione della schiavitù, in realtà, spiega nel libro «Vendetta» Richard Gambino, «la manodopera italiana parve un dono di Dio, la soluzione che avrebbe consentito di sostituire tanto i neri quanto i muli. I siciliani lavoravano accontentandosi di bassi salari e, in contrasto con lo scontento dei neri, dimostravano di essere più che soddisfatti dei quattro soldi che riuscivano a raggranellare. E quel che più contava, sottolineavano i piantatori, erano di gran lunga più efficienti come lavoratori e meno turbolenti come individui». Anzi, adattandosi a condizioni di vita bestiali, riconobbe la «Federal Commission for Immigration» (smentendo implicitamente l'accusa che fossero «tutti mafiosi e fannulloni») i nostri nonni erano arrivati a produrre pro capite il 40% di zucchero e di cotone in più.

Fatto sta che il processo, nonostante sembrasse destinato ad annientare gli otto siciliani accusati dell'omicidio, finì con un'assoluzione generale: non c'erano prove. A quel punto, prima che gli accusati fossero rimessi in libertà, il giornale «New Delta» pubblicò un appello: «Tutti i buoni cittadini sono invitati a partecipare a un raduno di massa, sabato 14 marzo alle dieci del mattino, alla Clay Statue, per compiere i passi necessari atti a porre rimedio all'errore giudiziario nel caso Hennessy. Venite e tenetevi pronti ad agire». E ventimila persone (immaginate quanto odio ci vuole per muovere una folla così) diedero l'assalto al carcere della contea per tirar fuori gli italiani assolti e linciarli. Tra i «giustizieri», che trovarono pace secondo Gambino solo dopo l'allineamento dei cadaveri sul marciapiede dove in tanti sfilarono per sputare sui corpi, c'erano diversi neri. Poveracci vittime quotidiane del razzismo che videro in quel linciaggio l'occasione per dimostrare, come dicevamo, di essere «più americani» loro degli ultimi arrivati. Che li avevano sostituiti nei campi di cotone e di canna da zucchero.

Gian Antonio Stella

23 febbraio 2012 | 7:49© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/cronache/12_febbraio_23/stella-penultimi-ultimi-vicenza_ec46db6c-5de4-11e1-ab06-25238cfc8ce3.shtml
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« Risposta #167 inserito:: Marzo 03, 2012, 11:16:58 pm »

Il paesino citato dal «New York Times » come simbolo delle cattiva politica

Tutti gli anziani in crociera

Il conto lo paga il Comune

«Pronti 35 mila euro». L'idea del sindaco di Comitini (Agrigento)

Se qualche lettore di buon cuore passasse per Comitini, avverta quel paesino siciliano che il governo Monti ha varato una manovra da lacrime e sangue, le imprese chiudono, siamo in piena recessione e abbiamo sfiorato il crac: non lo sanno. O almeno non lo sa il sindaco, che in questi mesi di vacche magrissime regala a vecchi e piccini, alla vigilia delle elezioni, una settimana di crociera.

Comitini non è un paese qualunque. Dopo essere stato «lanciato» dal Corriere della Sera e fatto poi conoscere ai telespettatori da Michele Santoro, qualche mese fa è finito in prima pagina sul New York Times come contrada simbolo della cattiva politica e del sistema clientelare italiano: pur essendo stato svuotato dall'emigrazione e ormai ridotto 960 anime, infatti, ha 65 dipendenti comunali. Uno ogni 14 abitanti.

A colpire Rachel Donadio, all'arrivo sulla piazza del paesino a pochi chilometri da Agrigento, fu la prima immagine: due dei nove (nove!) vigili urbani che, anziché smistare il traffico, inesistente, se ne stavano seduti al bar a bere un aperitivo. Stando lì, le spiegarono, lavoravano: «Lavori come questi mantengono viva la città - si giustifica Caterina Valenti, uno degli ausiliari al traffico che guadagna circa 800 euro al mese per un lavoro di 20 ore alla settimana -. «Vedi, stiamo seduti qui al bar e aiutiamo l'economia locale». Prosit.

In chiesa stavano celebrando un matrimonio e l'inviata del giornale americano fece notare ai due che, mentre sorseggiavano l'analcolico, c'erano delle auto parcheggiate dove era vietato. Le risposero distrattamente facendo spallucce: «Evitiamo di multarli. Qui ci conosciamo un po' tutti, è una città così piccola...». Avrebbe raccontato la giornalista: «A New York non ci volevano credere».

Il sindaco di Comitini, Nino ContinoIl sindaco di Comitini, Nino Contino
Letto l'articolo, Massimo Giletti invitò il sindaco, Nino Contino, all'«Arena» di «Domenica in». Dove spiegò: «So bene che 65 lavoratori comunali in una città di poco meno di mille abitanti sono molti. Ma se non gli avessimo offerto un lavoro, queste persone sarebbero emigrate, magari in America. Avremmo sessanta persone e sessanta famiglie che cercano un'occupazione altrove». E poi, che gli importa della spesa? «La città non li paga: sono lo Stato e la Regione che lo fanno. I dipendenti sono pagati solo per il 10% dal Comune». Peggio il rattoppo del buco.

Fatti i conti, se tutti i comuni italiani seguissero la strategia economica «rooseveltian-girgentina» di Nino Contino (che già aveva riassunto il suo pensiero ad «AnnoZero» dicendo che se avesse potuto di assunzioni ne avrebbe fatte altre ancora perché «zucchero non guasta bevanda») avremmo 4 milioni e 285 mila dipendenti comunali. E da chi li faremmo mantenere: dai tedeschi e dai finlandesi? Ma l'industrioso sindaco di Comitini eletto alla testa di una lista di centrodestra, come dicevamo, si è inventato ora un altro modo per mungere alle generose mammelle della Regione e dello Stato. E poiché tra poche settimane ci sono le elezioni amministrative, ha avuto una bella pensata. Sistemare i tombini? Controllare i lampioni? Tappare qualche buco sulle strade?

No: mandare in crociera un po' di anziani compaesani e i ragazzi della III media. Vi chiederete: a parte l'assurdità con questi chiari di luna di spendere soldi non per il pane ma per i circenses, non sarà un momento sbagliato per donare proprio una crociera? Ma lui tira diritto. Dice di essere riuscito a recuperare 35.000 euro dall'assessorato autonomie locali e funzione pubblica della Regione e a quella somma aggiungerà un 20 percento di fondi comunali. Così da offrire a una trentina di vecchi, grazie a un mega sconto, la possibilità di passare otto giorni serviti e riveriti su una nave Msc, lungo un itinerario mediterraneo che partendo dall'Italia toccherà la Tunisia, la Spagna, la Francia.

«Si tratta della prima tappa», ha spiegato ai giornali locali, «di un progetto portato avanti in favore degli anziani. Un progetto lungo un anno che prevede oltre alla crociera anche delle altre escursioni in luoghi della Sicilia, momenti di animazione e intrattenimento e un ciclo di incontri tematici importantissimi perché focalizzati sulle patologie della senilità come infarto, diabete, tumore alla mammella».

E i picciliddri? Niente per i picciliddri? Tranquilli: il buon sindaco ha pensato anche a loro. Decidendo di regalare la crociera anche ai 14 scolaretti (e a un loro insegnante accompagnatore, si capisce) della terza media: «È un modo per festeggiare il loro primo traguardo e non potevamo che farlo approfittando di questa opportunità economica legata alla crociera».

L'importante, si capisce, è che non se ne accorgano Mario Monti e Vittorio Grilli e il ragioniere generale dello Stato e la Corte dei Conti e tutti i tirchi che in questi mesi stanno cercando di rosicchiare euro sull'euro per contenere gli sprechi. E che non se ne accorgano, soprattutto, i cittadini italiani. I quali potrebbero chiedersi: quando se ne accorgeranno, al governo, che la prima cosa da fare è chiudere le migliaia di rubinetti della politica clientelare da cui, goccia dopo goccia, viene disperso un mare di denaro?

Gian Antonio Stella

3 marzo 2012 | 7:45© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/cronache/12_marzo_03/anziani-in-crociera-paga-il-comune-stella_8ae3e732-64f8-11e1-8a59-8bc3a463cee3.shtml
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« Risposta #168 inserito:: Marzo 04, 2012, 11:09:21 am »

INVESTIRE IN CULTURA PER LA CRESCITA

La dittatura dell'incuria

«La bellezza è un valore morale».

Era un tormentone quello dell'allora vescovo di Locri Giancarlo Bregantini. Non perdeva occasione per raccomandare di intonacare le case, sistemare le strade, curare i giardini, perché «in un posto brutto è facile che i ragazzi crescano brutti». Insomma, insiste nel libro Non possiamo tacere , l'estetica è etica: «i paesi più brutti e trascurati sono quelli segnati dalla mafia».

«Niente cultura, niente sviluppo», ha titolato Il Sole 24 Ore lanciando un appello per fare ripartire il Paese puntando su una «costituente» che «riattivi il circolo virtuoso tra conoscenza, ricerca, arte, tutela e occupazione». I confronti su 125 nazioni, stando ai dati dell'Università di Costanza, non lasciano dubbi: dove c'è più cultura c'è più innovazione, più sviluppo, più ricchezza e meno corruzione.

Rovesciamo: dove c'è meno cultura c'è meno innovazione, meno sviluppo, meno ricchezza, più corruzione.
Nel 2001 investivamo sul nostro tesoro d'arte e paesaggi solo lo 0,39% del Pil, siamo precipitati a un miserabile 0,19%: è stato saggio? Colpa della crisi, dicono. Ma investendo nel «Guggenheim», spiega uno studio di Kea European Affairs per la Ue, Bilbao ha recuperato in 7 anni i soldi spesi «moltiplicati per 18», con la parallela creazione di migliaia di posti di lavoro. Al punto d'esser presa a modello dalla Francia, che per rianimare l'agonizzante area di Lens ha deciso di fare lì, tra le fabbriche dismesse, un nuovo «Louvre» col calcolo che, per ogni euro investito, ne torneranno «come minimo sette».

Dice uno spot girato da Berlusconi che l'Italia ha «il 50% dei beni artistici tutelati dall'Unesco».
Magari! Ma è vero che su 911 ne abbiamo più di tutti nel pianeta: 45. Molti più di Francia o Stati Uniti che ci staccano nelle classifiche turistiche. Il guaio è che questo patrimonio, accusa un dossier PwC, lo usiamo male, ricavandone la metà rispetto a Gran Bretagna, Germania e Francia e un terzo rispetto alla Cina.

Ci vorrebbe più testa, per usarlo. E una classe politica più interessata, curiosa, colta.
Alla Costituente, pur avendo la guerra ostacolato i percorsi universitari, era laureato il 92% dei parlamentari: oggi la quota si è inabissata al 64%. Ma è il Paese tutto ad arrancare: dai sindaci ai governatori, dagli assessori ai consiglieri regionali. E giù giù ai cittadini che, sempre più indifferenti al bello e al brutto, arrivano a costruire pattume cementizio abusivo sul promontorio di capo Vaticano o sul basolato della via Domiziana accanto alla tomba di Scipione l'Africano.

Da dove ripartire, per fermare la dittatura dell'incuria? Dalla scuola: da lì occorre ricominciare.
Se è vero che la nostra stessa identità è definita dai nostri tesori artistici e paesaggistici al punto che noi italiani per gli altri «siamo» la torre di Pisa e Rialto e Pompei, la storia dell'arte via via più maltrattata («sarà possibile diplomarsi in Moda, Grafica e Turismo senza sapere chi sono Giotto, Leonardo o Michelangelo», si indigna Tomaso Montanari sull'ultimo bollettino di Italia Nostra) deve essere materia di interesse nazionale. E permeare i nostri figli fin dalle elementari. Investiamo sulla bellezza e sulle teste: è un affare.

Gian Antonio Stella

4 marzo 2012 | 8:56© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_marzo_04/la-dittatura-dell-incuria-stella_fdbf73d4-65ca-11e1-be51-f4b5d3e60e3d.shtml
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« Risposta #169 inserito:: Marzo 07, 2012, 05:12:29 pm »

INVESTIRE IN CULTURA PER LA CRESCITA

La dittatura dell'incuria

«La bellezza è un valore morale». Era un tormentone quello dell'allora vescovo di Locri Giancarlo Bregantini. Non perdeva occasione per raccomandare di intonacare le case, sistemare le strade, curare i giardini, perché «in un posto brutto è facile che i ragazzi crescano brutti». Insomma, insiste nel libro Non possiamo tacere , l'estetica è etica: «i paesi più brutti e trascurati sono quelli segnati dalla mafia».

«Niente cultura, niente sviluppo», ha titolato Il Sole 24 Ore lanciando un appello per fare ripartire il Paese puntando su una «costituente» che «riattivi il circolo virtuoso tra conoscenza, ricerca, arte, tutela e occupazione». I confronti su 125 nazioni, stando ai dati dell'Università di Costanza, non lasciano dubbi: dove c'è più cultura c'è più innovazione, più sviluppo, più ricchezza e meno corruzione.

Rovesciamo: dove c'è meno cultura c'è meno innovazione, meno sviluppo, meno ricchezza, più corruzione. Nel 2001 investivamo sul nostro tesoro d'arte e paesaggi solo lo 0,39% del Pil, siamo precipitati a un miserabile 0,19%: è stato saggio? Colpa della crisi, dicono. Ma investendo nel «Guggenheim», spiega uno studio di Kea European Affairs per la Ue, Bilbao ha recuperato in 7 anni i soldi spesi «moltiplicati per 18», con la parallela creazione di migliaia di posti di lavoro. Al punto d'esser presa a modello dalla Francia, che per rianimare l'agonizzante area di Lens ha deciso di fare lì, tra le fabbriche dismesse, un nuovo «Louvre» col calcolo che, per ogni euro investito, ne torneranno «come minimo sette».

Dice uno spot girato da Berlusconi che l'Italia ha «il 50% dei beni artistici tutelati dall'Unesco». Magari! Ma è vero che su 911 ne abbiamo più di tutti nel pianeta: 45. Molti più di Francia o Stati Uniti che ci staccano nelle classifiche turistiche. Il guaio è che questo patrimonio, accusa un dossier PwC, lo usiamo male, ricavandone la metà rispetto a Gran Bretagna, Germania e Francia e un terzo rispetto alla Cina.

Ci vorrebbe più testa, per usarlo. E una classe politica più interessata, curiosa, colta. Alla Costituente, pur avendo la guerra ostacolato i percorsi universitari, era laureato il 92% dei parlamentari: oggi la quota si è inabissata al 64%. Ma è il Paese tutto ad arrancare: dai sindaci ai governatori, dagli assessori ai consiglieri regionali. E giù giù ai cittadini che, sempre più indifferenti al bello e al brutto, arrivano a costruire pattume cementizio abusivo sul promontorio di capo Vaticano o sul basolato della via Domiziana accanto alla tomba di Scipione l'Africano.

Da dove ripartire, per fermare la dittatura dell'incuria? Dalla scuola: da lì occorre ricominciare. Se è vero che la nostra stessa identità è definita dai nostri tesori artistici e paesaggistici al punto che noi italiani per gli altri «siamo» la torre di Pisa e Rialto e Pompei, la storia dell'arte via via più maltrattata («sarà possibile diplomarsi in Moda, Grafica e Turismo senza sapere chi sono Giotto, Leonardo o Michelangelo», si indigna Tomaso Montanari sull'ultimo bollettino di Italia Nostra) deve essere materia di interesse nazionale. E permeare i nostri figli fin dalle elementari. Investiamo sulla bellezza e sulle teste: è un affare.

Gian Antonio Stella

4 marzo 2012 | 8:56© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_marzo_04/la-dittatura-dell-incuria-stella_fdbf73d4-65ca-11e1-be51-f4b5d3e60e3d.shtml
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« Risposta #170 inserito:: Marzo 23, 2012, 11:14:31 pm »

Voleva proteggere i minorenni di Verbania

Il Tar multa il sindaco anti slot-machine

Aveva ordinato che fossero spente al mattino

I giudici: ordinanza illegittima, sanzione da 1,3 milioni

di  GIAN ANTONIO STELLA


I ragazzini bigiano la scuola per giocare alle slot-machine fino a diventare schiavi della droga del gioco? Non è un problema sanitario ma di ordine pubblico. Quindi il sindaco stia alla larga e non danneggi le società-casinò. Lo dice una sentenza del Tar contro il Comune di Verbania. Chiamato a pagare quasi un milione e mezzo di euro sulla base di una legge vecchia come il cucco del 1931.


Sono passati ottantuno anni, da quando Mussolini fece il «suo» Codice penale firmato da Alfredo Rocco. Era l'anno in cui il Canada diventò uno Stato sovrano, la Spagna cacciò il Re e si fece Repubblica e Guglielmo Marconi schiacciò un bottone a Pisa per illuminare il Cristo Redentore a Rio. Insomma: era tantissimo tempo fa. Quando i manuali di polizia dicevano che «la moglie non può essere commerciante senza il consenso espresso o tacito del marito». O che «è indiscutibile come il danno che dall'adulterio della donna ricade sul marito sia infinitamente più grave del danno che dall'adulterio del marito ricade sulla moglie: una moglie tradita, dice il Moggione, può essere compianta, un uomo ingannato è ridicolo se ignora, disonorato se sopporta, vituperevole se accetta cinicamente il suo stato».

Da oltre sessant'anni Fëdor Dostoevskij aveva raccontato ne «Il giocatore» come la febbre del gioco possa essere una malattia rovinosa. Ma certo mancava del tutto, a quei tempi, la consapevolezza attuale della gravità esplosiva del problema. Anche perché negli ultimi anni, ricordiamolo, la situazione è precipitata. A causa della scelta oscena dello «Stato biscazziere», dal 2000 a oggi siamo passati infatti da 4 a 76 miliardi di euro giocati legalmente, più almeno un'altra decina nel circuito illegale. Una catastrofe per decine di migliaia di famiglie. Con una spesa annuale, dalle slot machine ai casinò online sui quali lo Stato pilucca vergognosamente lo 0,14%, di 1.260 euro pro capite.

Davanti alla deflagrazione del problema, il 30 maggio 2005, quando i soldi buttati nel gioco erano quintuplicati rispetto ai cinque anni prima, la giunta comunale di Verbania, allora di centrosinistra e guidata da Claudio Zanotti, giustamente convinto di avere la responsabilità della salute dei cittadini, decise dunque di mettere un argine sugli orari. Così da scoraggiare almeno la tentazione di tanti scolari di bigiare la scuola per andare a giocare alle macchinette. E fece un'ordinanza stabilendo che queste potessero essere in funzione soltanto dalle 3 del pomeriggio alle 10 di sera. Una scelta condivisa anche dall'opposizione che governa oggi la città con il sindaco Marco Zacchera: «Verbania ha 31.500 abitanti e la sola società Euromatic (poi ci sono le ditte concorrenti!) gestiva all'instaurarsi della causa (oggi sono perfino di più) ben 402 apparecchi. Non so se mi spiego: uno ogni 78 abitanti. Altro che Las Vegas!».

Quale sia il risultato di 15 sale gioco più centinaia di macchinette sparse per i bar lo racconta Aurora Martini, responsabile dei servizi sociali del Comune: «Il problema è enorme. Donne della piccolissima borghesia che col gratta e vinci si sono rovinate arrivando a rubare i soldi al marito e ai figli. Pensionati che si fanno fuori la pensione e i risparmi. Vecchi assediati dall'usura che non escono più di casa e muoiono in modo "strano" dopo avere mostrato un tale terrore da non aprire la porta neppure ai ragazzi del centro sociale che portavano loro il pasto caldo. Gente che smette di pagare l'affitto e non viene buttata in strada solo perché abita in case pubbliche e gli enti, sbagliando, fanno finta di non vedere».

Ma che importa, a chi su quelle macchinette fa business? Ed ecco che la società Euromatic e un bar a essa collegato hanno fatto ricorso al Tar di Torino. Il quale, senza neppure porsi il problema che il Codice Rocco sia incartapecorito rispetto ai tempi d'oggi, alle emergenze sopravvenute, alla decisione dell'Oms di considerare quella del gioco una patologia individuale e sociale, invece di sollevare il tema davanti alla Corte costituzionale, ha preso la legge di ottant'anni fa che vedeva la questione delle bische e del gioco come un problema esclusivamente di ordine pubblico, e l'ha applicata così com'è. Una scelta paragonabile a quella di entrare in Facebook con penna d'oca e calamaio.

Ed ecco il verdetto: «Mediante la previsione di un orario di "disattivazione" degli apparecchi da gioco il Comune si è arrogato una potestà normativa che non trova sostegno in alcuna disposizione legislativa...». Infatti, stando anche alla sentenza 237 della Suprema corte del 2006, «i profili relativi all'installazione degli apparecchi e congegni automatici da trattenimento o da gioco presso esercizi aperti al pubblico, sale giochi e circoli privati» disciplinati dal regio decreto del 1931 «afferiscono alla materia "ordine pubblico e sicurezza"» di «competenza esclusiva dello Stato».

Del tutto indifferente ai drammi delle patologie, la sentenza prosegue ribadendo quindi che «si tratta di una materia che si riferisce alla prevenzione dei reati e al mantenimento dell'ordine pubblico». Di conseguenza, con quella ordinanza fatta senza alcuna «copertura» legislativa, il Comune ha inciso «negativamente su situazioni soggettive dei privati connesse alla libertà di iniziativa economica». E non si permettesse di rivendicare il diritto di fissare gli orari degli esercizi pubblici perché può farlo «unicamente "al fine di armonizzare l'espletamento dei servizi con le esigenze complessive e generali degli utenti" e non anche per finalità inerenti alla sicurezza pubblica».

Una posizione, sia chiaro, formalmente ineccepibile. Tanto che gli avvocati del Comune hanno consigliato a Zacchera di non fare neppure ricorso al Consiglio di Stato: sarebbero soldi buttati. La legge è platealmente inadeguata ma finché non viene scaraventata nel cestino è legge. A quel punto la Euromatic, passata in giudicato la sentenza, ha chiesto «il risarcimento di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali derivanti dall'attuazione di tale regolamento per via delle illegittime, quanto gravose, limitazioni dal medesimo recate all'orario di attivazione degli apparecchi da gioco».

Quanto? «Le perdite subite dalla società Euromatic srl in conseguenza della colpevole attività posta in essere dall'ente locale sono state prudenzialmente stimate in circa 1.350.000 euro». Non basta: «A ciò dovranno aggiungersi i pregiudizi da perdita di chance indotti dallo sviamento di clientela verso Comuni limitrofi o prodotti di gioco congeneri e/o diversi dagli apparecchi...». «Per la miseria!», è sbottato il sindaco davanti all'enormità della cifra, «E quanto guadagnano queste società? L'Agenzia delle Entrate è al corrente di questi affaroni?»

Il tocco finale è così peloso da essere irresistibile: «La società comunica che una parte dei proventi che saranno liquidati in suo favore all'esito del giudizio instaurato dinanzi al Tar saranno devoluti a un'associazione locale contro il gioco patologico e problematico».

Troppa grazia, signori biscazzieri... Troppa grazia...

23 marzo 2012 | 8:12

da - http://www.corriere.it/cronache/12_marzo_23/stella-il-sindaco-anti-slot-machine_c5b92a22-74af-11e1-9cbf-6c08e5424a86.shtml
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« Risposta #171 inserito:: Aprile 04, 2012, 05:16:55 pm »

Il personaggio


La Lega e il cassiere «taroccatore»

Dai fondi in Tanzania al falso diploma

Lega Belsito, l'ex autista diventato sottosegretario. Nel curriculum anche due lauree annullate


Ma come diavolo li scelgono, i tesorieri dei partiti? Le cose emerse via via intorno al leghista Francesco Belsito, dal diploma taroccato a Napoli alle lauree fantasma, dal giro di assegni «strani» all'investimento in Tanzania, ripropongono dopo lo scandalo del margheritino Luigi Lusi e la rissa sul «patrimonio sparito» di An, una domanda fastidiosa: che fine fanno i rimborsi elettorali?


«Nessuno può permettersi di sindacare dove e come la Lega impiega i suoi soldi», ha detto al Corriere del Veneto il senatore Piergiorgio Stiffoni, che con Roberto Castelli affianca, in seconda fila, Belsito. Una tesi indigesta non solo a tanti leghisti che hanno tempestato di proteste Radio Padania e i siti simpatizzanti ma anche a Roberto Maroni ed esponenti di spicco come Bepi Covre, che sul «Mattino di Padova» ha risposto che no, non sono soldi della Lega, ma dei cittadini italiani. Anche di quelli che leghisti non sono e devono pagare l'obolo dei rimborsi elettorali per una legge che ha aggirato la solenne bocciatura del finanziamento decisa nel referendum.
Soldi che dovrebbero essere spesi in modo limpido ma spesso (solo il Pd fa fare una certificazione esterna) non lo sono. Tanto che Bersani e Casini, nel pieno delle polemiche sui soldi «evaporati» della Margherita, si impegnarono a presentare subito una legge per obbligare i partiti a rendere trasparenti bilanci e patrimoni. Di più, basta soldi ai partiti già morti: quelli già destinati devono tornare allo Stato. Cioè ai cittadini. Gli unici «proprietari», appunto, di quei denari.


E lì si torna: come vengono scelti, i tesorieri? Ne abbiamo visti di ogni colore, negli anni. Dai tesorieri «perbene» come Severino Citaristi che finì per la Dc in 74 filoni d'inchiesta senza che alcuno osasse immaginare che si fosse messo in tasca un soldo («Se tornassi indietro, non rifarei nulla di ciò che ho fatto», avrebbe poi confidato a Stefano Lorenzetto) fino appunto a Luigi Lusi, che sui denari della Margherita ha detto: «Mi servivano, li ho presi». Per non dire degli «uomini della cassa», come Alessandro Duce, Romano Baccarini o Nicodemo Oliviero sotto il cui naso sparì l'immenso patrimonio immobiliare democristiano, finito attraverso il faccendiere Angiolino Zandomeneghi a società fantasma con sede in una baracca diroccata della campagna istriana e intestate a un croato che scaricava cassette a Trieste.


La stessa Lega Nord, sulla carta, avrebbe dovuto essere stata ammonita dall'esperienza col precedente tesoriere, Maurizio Balocchi, che oltre a finire in prima pagina per l'incredibile «scambio di coppie» con il collega Edouard Ballaman (ognuno assunse la compagna dell'altro per aggirare i divieti contro il familismo) fu tra i protagonisti dell'«affaire Credieuronord». La «banca della Lega» salvata dalla catastrofe grazie al faccendiere Gianpiero Fiorani dopo avere sperperato il capitale in pochi prestiti «senza preventiva individuazione di fonti e tempi di rimborso» (parole di Bankitalia) come quello alla società (fallita) «Bingo.net» che aveva tra i soci Enrico Cavaliere (già presidente leghista del consiglio del Veneto) e appunto il tesoriere Balocchi, sottosegretario e addirittura membro (da non credersi...) del cda della banca.
Bene, pochi anni dopo quel pasticcio, digerito malissimo da tanti leghisti (a partire da quanti avevano messo tutti i loro risparmi nella banca collassata) chi si ritrova il Carroccio come tesoriere? A leggere la micidiale inchiesta in tre puntate di Matteo Indice e Giovanni Mari pubblicata dal Secolo XIX di Genova, città di Belsito, c'è da restare basiti.
Vi si racconta di «assegni spariti o falsificati. Fallimenti a catena e amicizie pericolose. Un «tesoro» ottenuto da un (ex) amico ammanicato alla peggiore Prima Repubblica, che oggi lo accusa di averlo ridotto sul lastrico. E una serie di acrobazie finanziarie sul filo di due inchieste archiviate per un pelo che ne raccontano un passato finora ignoto, in cui parrebbe aver messo da parte non si sa come almeno due miliardi delle vecchie lire».
Una carriera spettacolare e spregiudicata, sbocciata nella promozione ad amministratore dei rimborsi elettorali del Carroccio (oltre 22 milioni di euro nel solo 2010), nella sbalorditiva collocazione nel cda di Fincantieri e nell'ascesa a sottosegretario di Calderoli nell'ultimo governo Berlusconi. Il tutto partendo dal ruolo di autista dell'ex ministro Alfredo Biondi.


Le accuse del quotidiano genovese, che alle minacce di querela ha risposto dicendo d'avere i documenti e facendo spallucce, sono pesanti. C'è di tutto. Una condanna per guida senza patente. Il coinvolgimento in vecchie inchieste dalle quali uscì peraltro senza danni. Il fallimento «della Cost Service, impresa dall'oscura mission, a sua volta intermediaria di un altro gruppo fallito di cui sempre Belsito faceva parte: la Cost Liguria, specializzata (si fa per dire) in operazioni immobiliari». Per non dire dell'abitudine di parcheggiare la lussuosa Porsche Cayenne nei parcheggi dei poliziotti o del contorno di personaggi dai profili oscuri.
Non ci vogliamo neppure entrare. Sui reati, eventuali, deciderà la magistratura. Roberto Calderoli spiega d'avere avuto assicurazione che è tutto a posto anche se «un'operazione come quella in Tanzania era da matti, che non si doveva fare»? Buon per lui. Roberto Maroni, che da tempo si lamenta (giustamente) perché il consiglio federale non approva né il bilancio preventivo né quello consuntivo ma delega tutto alla sovranità di Bossi, non è d'accordo. E non fa mistero di considerare la situazione «a dir poco imbarazzante».


Ma certo, nel resto dell'Europa, dove un ministro tedesco si dimette per avere copiato la tesi, la sola storia delle lauree vantate farebbe saltare, al di là dei soldi in Tanzania o a Cipro, qualunque tesoriere che maneggia pubblico denaro. Sostiene dunque Belsito di avere una laurea in Scienze della comunicazione presa a Malta e una (lo scrisse perfino nel sito del governo quando era sottosegretario) in Scienze politiche guadagnata a Londra. L'unica cosa certa, scrive il Secolo XIX , è che l'Università di Genova non solo gli annullò ogni percorso accademico ma, sentendo puzza di bruciato, smistò il diploma alla magistratura.
Risultato? Stando al fascicolo, il «titolo» di «perito» preso nel '93 all'Istituto privato napoletano «Pianma Fejevi», a Frattamaggiore, sarebbe taroccato. Rapporto della Finanza: «Il nome di Belsito non risulta nell'elenco esaminandi». Di più: «La firma del preside non corrisponde». E se vogliamo possiamo aggiungere un dettaglio: la scuola non esiste più dopo esser stata travolta da un'inchiesta con 160 imputati su una montagna di diplomi venduti. Lui, il tesoriere, marcato dai cronisti, sbuffò: «Ancora la storia della mia laurea? Ho altro cui pensare, chiedetemi di cose serie». Provi a dare una risposta così in un Paese serio...

Gian Antonio Stella

26 febbraio 2012 | 17:54© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_febbraio_26/lega-cassiere-taroccatore-diploma-stella_f309c70a-6048-11e1-aa87-12427cb0d5f0.shtml
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« Risposta #172 inserito:: Aprile 10, 2012, 12:01:49 pm »

Rivelazioni

L'autista-Bancomat e i segreti del Trota

L'ex bodyguard rivela a «Oggi»: «Così gli passavo i soldi Lo dissi a Belsito, ma lui non mi rispose»


MILANO - «L'autista del Trota confessa: "Lo pasturavo io"», ammicca un twitterista nel gergo dei pescatori. Sintesi feroce, ma ci sta.
Manco il tempo che l'ormai ex aspirante «delfino» di Umberto Bossi, sotto la tempesta, annunciasse l'addio al seggio regionale e gli cascavano addosso altre tegole. Le testimonianze imbarazzanti di due ex autisti.

Uno di questi racconta a Oggi (corredando le rivelazioni con dei video) che forniva a Renzo, per le spese personali, soldi della Lega.
Cioè, visti i rimborsi elettorali, dei cittadini italiani: «Praticamente ero il suo Bancomat». Sarà dura, adesso, per il figlio prediletto dell'anziano e ammaccato leader leghista. In questi anni, par di capire, si era abituato bene. Prendeva, come consigliere della Regione Lombardia dove era stato eletto due anni fa nella scia di una campagna elettorale in cui il cognome che portava era un marchio che voleva dire fiducia («se lo candida il papà...») 150.660 euro netti l'anno. Vale a dire quanto il governatore del Maine Paul LePage (52.801 lordi), quello del Colorado John Hickenlooper (67.888 lordi) e quello dell'Arkansas Mike Beebe (65.890 lordi) messi insieme. Il triplo abbondante di quanto guadagna (66.000 lordi) un deputato all'assemblea della California, Stato che se fosse indipendente avrebbe il settimo Pil mondiale.

Sarà dura senza quella spettacolare prebenda e senza tutto il contorno al quale il principino della Real Casa Senaturia era stato abituato. Pranzi, cene, inviti, ragazze vistose, auto blu, chauffeur. Lo si capisce guardando la naturalezza con cui, nei video girati con il telefonino da quello che è stato per alcuni mesi il suo autista, Alessandro Marmello, video messi online da Oggi che martedì mattina pubblica l'intervista esclusiva, afferra le banconote da 50 euro come fossero il resto di un caffè alla cassa di un bar.

Il racconto dell'autista, anticipato dal settimanale, getta sale sulle ferite sanguinanti di tanti leghisti duri e puri che in questi anni avevano digerito di tutto. La prima mazzetta da 200 milioni di Carlo Sama al tesoriere-idraulico Alessandro Patelli, imbarazzante per chi come il Senatur aveva invitato Antonio Di Pietro e il pool Mani Pulite ad andare «avanti a tutta manetta». Poi le storiacce dell'investimento in un villaggio turistico croato. Poi il crac della «banca padana», quella Credieuronord sulla quale gli ispettori della Banca d'Italia stilarono un rapporto durissimo («incoerenze nella politica creditizia nonché labilità dei crediti»; «ridotta cultura dei controlli»; «scarsa cura prestata alle evidenze sui grandi rischi»; «ripetuti sconfinamenti autorizzati dal Capo dell'esecutivo» e «acriticamente ratificati dall'organo collegiale») ricordando che buona parte del capitale era evaporato per finanziare la società (fallita) Bingo.Net che aveva tra i soci leghisti di primo piano come Enrico Cavaliere (già presidente del consiglio del Veneto) e Maurizio Balocchi, il tesoriere del Carroccio, sottosegretario e addirittura (incredibile, ma vero) membro del consiglio di amministrazione della banca. Poi i ministri che prendevano come consulenti per le carceri dei grossisti di pesce congelato. Poi la notizia di tanti leghisti capaci di accumulare poltrone su poltrone, di assumere reciprocamente l'uno la moglie dell'altro, di usare l'auto blu con tanta strafottenza da finire sotto inchiesta...

Tutto, avevano digerito i militanti legati al sogno della Padania, del prato di Pontida (dove una mano ignota ha cambiato in questi giorni la scritta «padroni in casa nostra» con «ladroni in casa nostra») del mito celtico, del sole delle Alpi, del rito dell'ampolla.
Sempre convinti che certo, nessuno è perfetto, ma Bossi! D'accordo, aveva fatto assumere da Francesco Speroni e Matteo Salvini, come portaborse all'Europarlamento, suo fratello Franco e suo figlio Riccardo, fatti rientrare solo dopo la denuncia del Corriere , ma come si poteva mettere in discussione Bossi? Ed ecco quel sale sulle ferite gettato oggi dall'autista: «Non voglio continuare a passare soldi al figlio di Umberto Bossi in questo modo: è denaro contante che ritiro dalle casse della Lega a mio nome, sotto la mia responsabilità. Lui incassa e non fa una piega, se lo mette in tasca come fosse la cosa più naturale del mondo».

Tutto filmato col cellulare: «Poteva essere la farmacia, ristoranti, la benzina per la sua auto, spese varie, cose così. Insomma, quando avevo finito la scorta di denaro andavo in cassa, firmavo e ritiravo. Mi è capitato anche di dover fare il pieno di benzina pure per la sua auto privata. Il pieno in quei casi dovevo farlo con i soldi che prelevavo in cassa per le spese della vettura di servizio. La situazione stava diventando preoccupante e ho cominciato a chiedermi se davvero potevo usare il denaro della Lega per le spese personali di Renzo Bossi».

«L'ho fatto presente a Belsito, spiegandogli che avevo pensato addirittura di dimettermi», continua Marmello, «Lui non mi ha dato nessuna spiegazione chiara. Io stavo prelevando soldi che ufficialmente erano destinati alle spese per l'auto di servizio ed eventualmente per le mie esigenze di autista e invece mi trovavo a passarne una parte a lui, per fare fronte anche ai suoi bisogni personali. Erano spese testimoniate da scontrini che spesso non riguardavano il mio lavoro. Non so se lui avesse diritto a quei soldi: tanti o pochi che fossero, perché dovevo ritirarli io? Ho cominciato ad avere paura di poter essere coinvolto in conti e in faccende che non mi riguardavano, addirittura di sperpero di denaro pubblico, dal momento che i soldi che prelevavo erano quelli che ritengo fossero ufficialmente destinati al partito per fare politica. Soldi pubblici».

Poco prima che il web fosse allagato dai commenti più salaci, Renzo aveva annunciato le dimissioni da consigliere regionale. Capiamoci, non aveva altra scelta se non quella di togliersi di dosso quanto più possibile i riflettori. Per allentare le pressioni su di sé, sul padre, sulla madre, sui fratelli con i quali, nei giorni del delirio d'amore leghista, aveva condiviso perfino lo stupefacente trionfo nella «classifica dei campioni dello sport più amati» pubblicata dall'adorante Padania dove alle spalle di Alex del Piero, Roberto Baggio o Fausto Coppi c'erano loro: «Bossi Sirio Eridanio voti 591; Bossi Renzo voti 588; Bossi Roberto Libertà voti 583». Davanti a mostri sacri come il libero del Milan Franco Baresi (553), il re delle volate Mario Cipollini (492) e addirittura Primo Carnera (437) Gustavo Thoeni, staccato a 433 miserabili punti.

L'annuncio: «In questo momento di difficoltà, senza che nessuno me l'abbia chiesto faccio un passo indietro e mi dimetto da consigliere regionale». Oddio, non è che fosse proprio vero se i leghisti di Brescia avevano fatto sapere già la loro intenzione di chiedere l'espulsione. Ma gli va dato atto che altri, al suo posto, non dovendo limitare i danni di papà, si sarebbero imbullonati al seggio per almeno altri sei mesi, così da maturare il diritto, fra una quarantina d'anni, al vitalizio: «Sono sereno, so cosa ho fatto e soprattutto cosa non ho fatto. In consiglio regionale ci sono stati avvenimenti che hanno visto indagate alcune persone. Io non sono indagato, ma credo sia giusto e opportuno fare un passo indietro per il movimento».

Parole studiate una per una, come il giorno in cui diede la sua prima intervista «importante» alle «Invasioni barbariche» di Daria Bignardi e si preparò per bene con l'autista-consigliere Oscar Enea Morando: «Davanti al pc studia qualche frase saggia qua e là per poterla far sua in caso di necessità, vediamo insieme una serie di puntate precedenti per capire la strategia della conduttrice, cerchiamo di capire quali sono le domande di routine per poter preparare qualche risposta da catapultare negli schemi degli italiani, prepariamo un bigliettino con i tempi della scuola prima di un'importante interrogazione...». «Tre valori in cui credi», gli chiese la Bignardi. E lui: «Beh, l'onestà sicuramente... Poi... No, perché l'onestà credo sia uno dei valori più importanti». «Poi?». «Non saprei...». «Sono valori tuoi...». «L'onestà prima di tutto, essere onesti, oggi, in questo mondo...». Si sentiva così sicuro, in quei giorni, il giovane erede del Capo, da spiegare che no, non gli pesava il soprannome di Trota: «Mi sono fatto anche le magliette».

Alla giornalista di Vanity Fair , per la sua prima vera intervista, diede appuntamento sul lago d'Iseo, dove arrivò con un'ora di ritardo al volante di una fiammante Audi A3. Spiegò che aveva un solo mito, suo padre: «È sempre stato il mio modello. Quando lo vedevi passare a Gemonio, dietro c'ero sempre io, con le mani in tasca come lui. A dieci anni ero già sotto il palco dei suoi comizi ad ascoltarlo». Quando gli fu chiesto se avesse mai provato delle droghe, rispose: «Nella vita penso si debba provare tutto tranne due cose: i culattoni e la droga». Spiegò quindi che il Mezzogiorno doveva puntare sul turismo anche se «sullo stato degli alberghi, giù, c'è tanto da fare». «Lei c'è mai stato?». «Mai sceso a sud di Roma».

Bocciato a ripetizione agli esami di maturità, disse che si abbeverava alla cultura paterna: «Amo la storia, come mio padre. Quando giriamo a Roma chiede continuamente: "Quella che chiesa è?". Sa sempre tutto, impressionante». Lo prendevano tutti in giro, per quelle bocciature. Perfino il Giornale del Cavaliere, amico di papà, si spingeva a pubblicare le battute più carogna del Web: «Il Trota non usa la posta elettronica perché ha paura di prendere la scossa». «Il Trota quando ha visto un quadro elettrico ha chiesto: chi è il pittore?». Ma lui, tranquillo. Sentiva dalla sua l'alone di quel «cerchio magico» familiare che oggi il «vero» sindaco di Treviso Giancarlo Gentilini dice che «va distrutto in tutti i suoi elementi» con «una pulizia etnica, radicale, perché lì c'era un muro costruito attorno a loro che non permetteva a nessuno di mettere il naso dentro per vedere ciò che combinavano».

Un alone di amicizia, solidarietà, piaggeria. Che toccò vette ineguagliabili il giorno in cui sembrò che il «Caro Leader» avesse deciso di passare il testimone a lui, il Trota. «Io e Maroni siamo vecchi, siamo della Lega della prima ora. Noi dobbiamo lavorare per l'oggi e poi affidare il movimento a qualcuno che si sta formando», si inchinò Roberto Calderoli spiegando che quel qualcuno poteva essere proprio Renzo: «È la fotocopia del papà. Se lo facciamo crescere, avremo un ottimo cavallo da corsa». Roberto Castelli, deciso a non essere meno flessuoso nell'inchino, sviolinò: «La Lega prima che un partito è un modo di essere, quindi è naturale che un padre voglia trasmettere i propri valori ai figli. Conosco bene i figli di Bossi, quello più grande è un ragazzo eccezionale...». Il titolo di Libero fu da collezione: «I fedelissimi incoronano il principe: giusto così, buon sangue non mente».

Il guaio è che la Real Casa Senaturia, a quel principino adorato dai cultori delle gaffes (svetta sul web un video in cui si felicita per la scelta australiana di aprire un «training center» nel Varesotto per ospitare gli atleti impegnati in Europa: «Ci sarà un boom di collegamenti quindi sarà possibile trovare tanti canadesi in giro per Varese») ha riservato via via attenzioni crescenti. Fino al punto di prendere degli autisti-body guard apposta per lui. Come il già citato Marmello o Oscar Enea Morando, assunto il 5 agosto 2010 dal tesoriere Francesco Belsito con un contratto di 3.859 euro lorde al mese per 14 mensilità e il benefit di una casa arredata e presa in affitto dalla Lega (altri 9.600 euro l'anno: «Ma che casa! Un appartamento in una villa fantastica chiamata villa Paradiso... Il nome dice tutto!») nei dintorni di Gemonio.

L'uomo, dopo aver iniziato come autista del Senatur, racconta in un memoriale traboccante di punti esclamativi del quale ha già in mente la copertina (titolo: «Il giocattolo del Trota») di essere stato dirottato sul rampollo per una scelta diretta di Rosi Mauro e della moglie del Senatur Manuela Marrone. Indimenticabile il saluto al neoassunto dell'ardente vicepresidentessa del Senato al centro di mille polemiche in questi giorni per le spesucce messe a carico del partito e di Palazzo Madama in favore del suo diletto e impomatato cantante-segretario-boy-friend. Disse: «Benvenuto nel nostro mondo».

Gian Antonio Stella

10 aprile 2012 | 8:38© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_aprile_10/autista-bancomat-segreti-trota-gian-antonio-stella_d7cae964-82cc-11e1-b660-48593c628107.shtml
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« Risposta #173 inserito:: Aprile 11, 2012, 07:00:39 pm »

La dinastia - Fenomenologia dei «monelli» cresciuti nel cerchio magico

Politica, soldi e auto blu: la vita sognata dai figli e quella vissuta dal Senatur

Se lui mentì su laurea e impiego, perché sgobbare?


Troppo comodo, scaricare sui figli. Sia chiaro, i viziatissimi «bravi ragazzi» di Umberto Bossi, con quella passione per le auto di lusso, i telefonini ultimo modello, le pollastrelle di coscia lunga, i soldi facili, se li meritano tutti i moccoli lanciati su di loro dagli italiani che faticano ad arrivare a fine mese e più ancora dai militanti leghisti che si tassano per comprare i gazebo e sono messi in croce in questi giorni dalle battutine feroci dei compaesani.

Deve essere insopportabile, per tanti volontari che vanno gratis ad arrostire polenta e salsicce (o addirittura il toro allo spiedo: maschio sapore celtico) alle sagre padane, vedere nei video dell'ex-autista la sfrontata naturalezza con cui il Trota afferra e si mette in tasca quelle banconote da cinquanta euro che a loro costano ore di lavoro in fabbrica o sui campi. O sapere che i soldi dei rimborsi elettorali al partito, soldi dei leghisti e di tutti i cittadini italiani, sono stati usati per affittare le Porsche di Renzo, tappare i debiti seminati da Riccardo o rifare un naso nuovo a Sirio Eridano.

La manifestazione dell'«orgoglio leghista» a Bergamo La manifestazione dell'«orgoglio leghista» a Bergamo    La manifestazione dell'«orgoglio leghista» a Bergamo    La manifestazione dell'«orgoglio leghista» a Bergamo    La manifestazione dell'«orgoglio leghista» a Bergamo    La manifestazione dell'«orgoglio leghista» a Bergamo

Ma sarebbe davvero troppo comodo, per chi vuole fare sul serio pulizia dentro il partito, scaricare tutto addosso a quei «monelli». Alla larga dai tormentoni sociologici, per carità, ma mettetevi al posto loro. Tirati su dentro un «cerchio magico», sono cresciuti come rampolli di una strana dinastia vedendo che la «Pravdania» pubblicava sei paginate d'untuoso omaggio per il genetliaco di papà («Sono più di venti anni che in questo giorno porgo i miei auguri al nostro amato Segretario...», scriveva con nord-coreano trasporto Giuseppe Leoni) e ne dedicava una intera al compleanno di Roberto Libertà: «Che fortuna avere 12 anni e festeggiarli in cima al Monte Paterno!». Per non dire di quell'altra che celebrava mesi fa una gara automobilistica del figlio di primo letto sul circuito del Mugello: «Weekend a tutto gas per Riccardo Bossi».

L'auto che Bossi Jr ha lasciato nel parcheggio della Regione Lombardia (Fotogramma)L'auto che Bossi Jr ha lasciato nel parcheggio della Regione Lombardia (Fotogramma)
Di qua assistevano alle sfuriate paterne (arricchite da corna, sventolio del dito medio, rutti e pernacchie) contro i lavativi e i «magna magna» e tutti quelli che vivevano «alle spalle dello Stato coi soldi del Nord» e di là vedevano mamma Manuela, pensionata baby dal 1996 quando aveva appena 42 anni, incassare per l'istituto «privato» Bosina («Scuola Libera dei Popoli Padani») contributi di soldi pubblici e leghisti (cioè ancora pubblici dati i rimborsi elettorali) così sostanziosi che Nadia Dagrada, la segretaria del Senatur, detterà a verbale: «Ho appreso da Belsito che nel 2010-2011 gli era stato chiesto da Manuela Marrone di accantonare, per cassa, una cifra di sostegno per la Bosina pari a circa 900 mila o un milione di euro».

Di qua sentivano il papà declamare che lui sta «dalla parte del popolo che si alza per andare a lavorare alle quattro di mattina», di là lo vedevano a quell'ora semmai andare a letto. E leggevano nella sua stessa autobiografia «Vento del Nord» scritta con Daniele Vimercati («L'ho letta tre o quattro volte... È un libro che mi piace rileggere spesso», raccontò Riccardo al Corriere ) che di fatto, tranne 10 mesi all'Aci, lui non aveva lavorato mai.

Di qua ascoltavano lo statista di famiglia tuonare in tivù contro «Roma ladrona» e «i politici di professione», di là gli vedevano accumulare legislature su legislature al Senato, alla Camera, all'Europarlamento. Di qua si bevevano le sue battute da intellettuale da osteria («È una battaglia tra espressionisti e impressionisti: noi siamo Picasso e gli altri dei muratorelli ignoranti»), di là apprendevano dai ritratti giornalistici e dalle interviste della prima «signora Bossi» Gigliola Guidali o della zia Angela («Ha detto che sono buona solo a far bistecche! Lui! Ah, se le ricorda bene le mie bistecche, lui! Perché per anni solo quelle ha mangiato, quel mantegnù . Che se non mangiava le mie bistecche, caro il mio Umberto... Ooh! Stiamo parlando di uno che ha organizzato tre feste di laurea senza essersi mai laureato») che il padre era stato uno studente discolo quanto Lucignolo, che aveva lasciato per noia l'istituto tecnico per periti chimici a 15 anni per diplomarsi («La prima tappa della mia marcia di avvicinamento alla cultura fu la scuola Radio Elettra di Torino, un corso per corrispondenza») quando era già sulla trentina.

Cosa potevano capire quei figli dell'importanza della scuola, della cultura, della laurea, scoprendo che il padre si era fatto la prima tessera di partito alla sezione del Pci di Verghera di Samarate scrivendo alla voce professione «medico»? Che si era candidato alle sue prime elezioni facendosi presentare dal settimanale il Mondo come «Umberto Bossi, un dentista di quarantadue anni di Varese»? Che si era definito nella sua stessa autobiografia un «esperto di elettronica applicata in sala operatoria»?

Se ce l'aveva fatta lui, dopo avere imbrogliato la prima moglie spacciandosi a lungo per medico (testimonianza della donna: «Dovetti chiedere di essere ricevuta dal rettore. E lì, in quella stanza austera, un tabulato mi rivelò quello che sospettavo: mio marito non si era mai laureato, alla sua fantomatica laurea mancavano ben undici esami») perché mai non potevano sognare anche loro, i figli, di vedersi spalancare davanti una strada di auto blu, folle in delirio, richieste di autografi, stipendi extralusso, segretarie premurose, titoloni nei tiggì, salamelecchi parlamentari, collaboratori e sodali in adorazione perenne? Perché mai studiare e cercare una propria strada nella vita e magari sgobbare duro per farsi una laurea in architettura o in biologia se era tutto lì, tutto facile, tutto a portata di mano grazie alla politica?

Certo, non tenevano conto che quel padre capace di dire tutto e il contrario di tutto (memorabili le retromarce non solo sul Berlusconi «mafioso» ma sulla Lega baluardo della cristianità dopo aver mandato a dire al Papa: «Oè, Vaticano: la Padania non ha interesse a cambiar religione, ma l'indipendenza non è in vendita. T'è capi'?») aveva anche uno straordinario fiuto politico e una capacità formidabile di parlare con il «suo» popolo. Ma come potevano capirlo, loro?

Gian Antonio Stella

11 aprile 2012 | 8:36© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_aprile_11/lega-politica-soldi-autoblu-figli-senatur-stella_11062fb4-8399-11e1-8bd9-25a08dbe0046.shtml
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« Risposta #174 inserito:: Aprile 18, 2012, 04:03:22 pm »

Napoli,

I libri spariti della biblioteca di Vico

Appello di duemila intellettuali contro il direttore sedicente principe e senza laurea


Affidereste una delle biblioteche più ricche d'Italia cioè del mondo, piena di tesori inestimabili, a un sedicente principe dottore che non è principe e non è laureato? È successo: il «nobiluomo» ha in mano, col benestare ministeriale, la biblioteca napoletana dei Girolamini.
Quella di Giovan Battista Vico. E il giorno stesso in cui usciva sui giornali l'allarme di centinaia di studiosi si è precipitato a denunciare il furto di un sacco di libri.


Tutto è cominciato un paio di settimane fa quando Tomaso Montanari, fiorentino, docente di Storia dell'arte moderna alla «Federico II» di Napoli, autore del saggio «A che serve Michelangelo?» (zeppo di pesantissimi dubbi sul crocifisso attribuito al Buonarroti e acquistato dal governo Berlusconi per più di tre milioni di euro) ha denunciato su «Il Fatto» di avere visitato la Biblioteca dei Girolamini, che contiene oltre 150 mila manoscritti e volumi antichi, e di averla trovata in condizioni penose: disordine, polvere, pile di libri preziosi accatastate per terra, lattine vuote di Coca-cola abbandonate sugli antichi banconi... «La biblioteca oggi è chiusa - scriveva Montanari - perché dev'essere riordinata, dice padre Sandro Marsano, il giovane sacerdote oratoriano, che ti accoglie, gentilissimo ed entusiasta, nel meraviglioso complesso secentesco. Perché accadono cose strane, dice invece la gente che abita intorno al convento: che ti parla di auto che escono cariche, nottetempo, dai cortili della biblioteca».


Una denuncia clamorosa. Anche perché elencava una serie di perplessità sul nuovo direttore, il «professore» Marino Massimo De Caro: «Comunque stiano le cose è incredibile che a dirigere uno dei santuari della cultura italiana sia uno degli esemplari più pregiati della fauna del "sottobosco" esplorato da Ferruccio Sansa e Claudio Gatti nel libro (appena) uscito. Lì De Caro è il mediatore nell'affare del petrolio venezuelano, "uno dei casi più clamorosi di alleanza tra berlusconiani e dalemiani"».
Console onorario del Congo, già assistente del senatore Carlo Corbinelli, già Responsabile pubbliche relazioni dell'Inpdap nel Nord-Est, già vicepresidente esecutivo dal 2007 al 2010 di Avelar energia (parchi eolici e solari) del gruppo Renova appartenente all'oligarca russo Victor Vekselberg, già titolare di una libreria antiquaria a Verona, già socio nella libreria antiquaria Buenos Aires (la «Imago Mundi») di Daniel Guido Pastore, coinvolto in Spagna in una inchiesta su una serie di furti alla Biblioteca Nazionale di Madrid e alla Biblioteca di Saragozza, è finito nel «giro» ministeriale con Giancarlo Galan.

Lo si legge in una nota del ministero stesso: «Il Dott. Marino Massimo De Caro è stato chiamato a collaborare con il Ministero dal Ministro Giancarlo Galan in data 15 aprile 2011 in qualità di consulente esperto per l'approfondimento delle tematiche relative alle relazioni con il sistema impresa nei settori della cultura, dell'editoria nonché delle tematiche connesse all'attuazione della normativa concernente l'autorizzazione alla costruzione e all'esercizio di impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili e al loro corretto inserimento nel paesaggio. Il Ministro Lorenzo Ornaghi in data 15 dicembre 2011 ha confermato l'incarico al Dott. Marino Massimo De Caro, come ha fatto con altri consiglieri del Ministro Galan, in qualità di consulente esperto per l'approfondimento delle tematiche relative alle relazioni con il sistema impresa nei settori della cultura e dell'editoria».


Riprendiamo un passaggio del libro «Il sottobosco» di
Gatti e Sansa a proposito di una intercettazione: «Il 27 dicembre 2007 De Caro si lamenta di un capitano dei carabinieri del Nucleo del patrimonio artistico di Monza che lo sta "scocciando" per un libro acquistato in un'asta pubblica in Svizzera. È indagato per ricettazione, spiega, e la cosa ha bloccato la sua nomina a console onorario del Congo perché il ministero degli Esteri non sta concedendo il nullaosta. (...) Il 17 luglio 2009 De Caro potrà finalmente rilassarsi perché il sostituto procuratore di Milano Maria Letizia Mannella, "rilevato che l'incunabolo non è stato rinvenuto fisicamente, malgrado le numerose ricerche", chiede il non luogo a procedere. In altre parole, visto che l'oggetto della presunta ricettazione è scomparso e che le tre persone coinvolte si accusano a vicenda, la pm finisce con l'archiviare il tutto». Ripetiamo: tutto archiviato. Ma tra tante possibili scelte non c'erano altri dal profilo assolutamente cristallino cui affidare una biblioteca di libri preziosi già molto saccheggiata nei decenni?


Offeso dai sospetti, il giorno dopo la denuncia il direttore spiega al Corriere del Mezzogiorno di avere tutte le carte in regola: «Mi sono laureato a Siena, ho insegnato Storia e tecnica dell'editoria nei master di specializzazione dell'Università di Verona». Di più: «Sono stato consulente del cardinale Mejia, bibliotecario del Vaticano, ho pubblicato un libro su Galilei, sono stato direttore della Biblioteca del Duomo di Orvieto...» Di più ancora, spiega al Mattino : «Il padrino di battesimo di mio nonno è stato Benedetto Croce. La mia famiglia, che tramandava il titolo di Principi di Lampedusa, si è unita con quella del famoso Tomasi ed è in quel momento che è diventato di Lampedusa, anche di questo andiamo fieri».


«Perdindirindina!», esclamerebbe Totò che si vantava di essere Sua Altezza Imperiale Antonio Porfirogenito della stirpe Costantiniana dei Focas Angelo Flavio Ducas Commeno di Bisanzio, principe di Cilicia, di Macedonia, di Dardania, di Tessaglia, del Ponto, di Moldava, di Illiria, del Peloponneso, Duca di Cipro e di Epiro, Conte e Duca di Drivasto e di Durazzo. «Falso», gli risponde il giorno dopo, sempre sul quotidiano partenopeo, il vero principe Gioacchino Lanza Tomasi: «Le affermazioni del bibliotecario sulla discendenza dai principi di Lampedusa sono un'impostura. Il titolo di principe di Lampedusa è stato concesso da Carlo II di Spagna a Ferdinando Tomasi nel 1667. I Caro quindi con il titolo di principe di Lampedusa non hanno nulla a che vedere. ... Il nostro eminente bibliotecario queste cose dovrebbe averle sulla punta delle dita. E consiglierei al priore dei Girolamini di vigilare su un archivista che invece di appoggiarsi alla documentazione si avvale di casi di omonimia».


Vabbé, sempre «professore» resta. Lo dice un comunicato stampa dell'Associazione nazionale «Il Buongoverno», costituita a Milano e «presieduta dal Sen. Riccardo Villari, con Marcello Dell'Utri presidente nazionale onorario. Il segretario è il senatore Salvatore Piscitelli. (...) Segretario organizzativo nazionale è il professor Marino Massimo De Caro». Perdindirindina bis!
Peccato che, a dispetto delle dichiarazioni e dei comunicati ufficiali del ministero che lo chiama ripetutamente «dottore», il nostro De Caro all'Università di Siena, dove si iscrisse a Giurisprudenza nel 1992/1993 restando iscritto fino al 2002, non si sia mai laureato. E che lo stesso cervellone centrale dell'Università di Verona non conservi traccia, manco di striscio, del passaggio da quelle parti dell'illustre «docente».
Il dettaglio più divertente, tuttavia, è l'ultimo. Prima ancora che uscissero tutti questi ritocchi all'auto-agiografia, centinaia e centinaia di intellettuali avevano iniziato a firmare un appello per chiedere che il ministro Lorenzo Ornaghi come fosse possibile che una biblioteca importante come quella dei Girolamini fosse stata affidata a «un uomo che non ha i benché minimi titoli scientifici e la benché minima competenza professionale per onorare quel ruolo». Parole durissime, sottoscritte fino a ieri sera da poco meno di duemila personalità, tra le quali Marcello De Cecco, Ennio Di Nolfo, Dario Fo e Franca Rame, Carlo Ginzburg, Salvatore Settis, Tullio Gregory, Gustavo Zagrebelsky, Gioacchino Lanza Tomasi, Adriano La Regina, Gian Giacomo Migone, Alessandra Mottola Molfino (presidente di Italia Nostra), Lamberto Maffei (presidente dell'Accademia dei Lincei), Dacia Maraini, Stefano Parise (presidente dell'Associazione Italiana Biblioteche), Stefano Rodotà, Rosario Villari...


Bene: la mattina stessa in cui esce la notizia dei dubbi di quegli intellettuali, il «Dottor», «Principe», «Professor» Marino Massimo De Caro si presenta alla Procura della Repubblica. Vuol fare una denuncia: si è accorto che nella sua biblioteca sono spariti millecinquecento libri...

Gian Antonio Stella

17 aprile 2012 | 9:22© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/cronache/12_aprile_17/biblioteca-vico-libri-spariti-stella_6d77d1ca-8854-11e1-989c-fd70877d52ac.shtml
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« Risposta #175 inserito:: Aprile 21, 2012, 03:50:43 pm »

Troppo facile sparare sul Trota, figlio di un finto medico…

di Gian Antonio Stella, dal Corriere della Sera

Troppo comodo, scaricare sui figli. Sia chiaro, i viziatissimi «bravi ragazzi» di Umberto Bossi, con quella passione per le auto di lusso, i telefonini ultimo modello, le pollastrelle di coscia lunga, i soldi facili, se li meritano tutti i moccoli lanciati su di loro dagli italiani che faticano ad arrivare a fine mese e più ancora dai militanti leghisti che si tassano per comprare i gazebo e sono messi in croce in questi giorni dalle battutine feroci dei compaesani.

Deve essere insopportabile, per tanti volontari che vanno gratis ad arrostire polenta e salsicce (o addirittura il toro allo spiedo: maschio sapore celtico) alle sagre padane, vedere nei video dell'ex-autista la sfrontata naturalezza con cui il Trota afferra e si mette in tasca quelle banconote da cinquanta euro che a loro costano ore di lavoro in fabbrica o sui campi. O sapere che i soldi dei rimborsi elettorali al partito, soldi dei leghisti e di tutti i cittadini italiani, sono stati usati per affittare le Porsche di Renzo, tappare i debiti seminati da Riccardo o rifare un naso nuovo a Sirio Eridano.

Ma sarebbe davvero troppo comodo, per chi vuole fare sul serio pulizia dentro il partito, scaricare tutto addosso a quei «monelli». Alla larga dai tormentoni sociologici, per carità, ma mettetevi al posto loro. Tirati su dentro un «cerchio magico», sono cresciuti come rampolli di una strana dinastia vedendo che la «Pravdania» pubblicava sei paginate d'untuoso omaggio per il genetliaco di papà («Sono più di venti anni che in questo giorno porgo i miei auguri al nostro amato Segretario...», scriveva con nord-coreano trasporto Giuseppe Leoni) e ne dedicava una intera al compleanno di Roberto Libertà: «Che fortuna avere 12 anni e festeggiarli in cima al Monte Paterno!». Per non dire di quell'altra che celebrava mesi fa una gara automobilistica del figlio di primo letto sul circuito del Mugello: «Weekend a tutto gas per Riccardo Bossi».

Di qua assistevano alle sfuriate paterne (arricchite da corna, sventolio del dito medio, rutti e pernacchie) contro i lavativi e i «magna magna» e tutti quelli che vivevano «alle spalle dello Stato coi soldi del Nord» e di là vedevano mamma Manuela, pensionata baby dal 1996 quando aveva appena 42 anni, incassare per l'istituto «privato» Bosina («Scuola Libera dei Popoli Padani») contributi di soldi pubblici e leghisti (cioè ancora pubblici dati i rimborsi elettorali) così sostanziosi che Nadia Dagrada, la segretaria del Senatur, detterà a verbale: «Ho appreso da Belsito che nel 2010-2011 gli era stato chiesto da Manuela Marrone di accantonare, per cassa, una cifra di sostegno per la Bosina pari a circa 900 mila o un milione di euro».

Di qua sentivano il papà declamare che lui sta «dalla parte del popolo che si alza per andare a lavorare alle quattro di mattina», di là lo vedevano a quell'ora semmai andare a letto. E leggevano nella sua stessa autobiografia «Vento del Nord» scritta con Daniele Vimercati («L'ho letta tre o quattro volte... È un libro che mi piace rileggere spesso», raccontò Riccardo al Corriere ) che di fatto, tranne 10 mesi all'Aci, lui non aveva lavorato mai.

Di qua ascoltavano lo statista di famiglia tuonare in tivù contro «Roma ladrona» e «i politici di professione», di là gli vedevano accumulare legislature su legislature al Senato, alla Camera, all'Europarlamento. Di qua si bevevano le sue battute da intellettuale da osteria («È una battaglia tra espressionisti e impressionisti: noi siamo Picasso e gli altri dei muratorelli ignoranti»), di là apprendevano dai ritratti giornalistici e dalle interviste della prima «signora Bossi» Gigliola Guidali o della zia Angela («Ha detto che sono buona solo a far bistecche! Lui! Ah, se le ricorda bene le mie bistecche, lui! Perché per anni solo quelle ha mangiato, quel mantegnù . Che se non mangiava le mie bistecche, caro il mio Umberto... Ooh! Stiamo parlando di uno che ha organizzato tre feste di laurea senza essersi mai laureato») che il padre era stato uno studente discolo quanto Lucignolo, che aveva lasciato per noia l'istituto tecnico per periti chimici a 15 anni per diplomarsi («La prima tappa della mia marcia di avvicinamento alla cultura fu la scuola Radio Elettra di Torino, un corso per corrispondenza») quando era già sulla trentina.

Cosa potevano capire quei figli dell'importanza della scuola, della cultura, della laurea, scoprendo che il padre si era fatto la prima tessera di partito alla sezione del Pci di Verghera di Samarate scrivendo alla voce professione «medico»? Che si era candidato alle sue prime elezioni facendosi presentare dal settimanale il Mondo come «Umberto Bossi, un dentista di quarantadue anni di Varese»? Che si era definito nella sua stessa autobiografia un «esperto di elettronica applicata in sala operatoria»?

Se ce l'aveva fatta lui, dopo avere imbrogliato la prima moglie spacciandosi a lungo per medico (testimonianza della donna: «Dovetti chiedere di essere ricevuta dal rettore. E lì, in quella stanza austera, un tabulato mi rivelò quello che sospettavo: mio marito non si era mai laureato, alla sua fantomatica laurea mancavano ben undici esami») perché mai non potevano sognare anche loro, i figli, di vedersi spalancare davanti una strada di auto blu, folle in delirio, richieste di autografi, stipendi extralusso, segretarie premurose, titoloni nei tiggì, salamelecchi parlamentari, collaboratori e sodali in adorazione perenne? Perché mai studiare e cercare una propria strada nella vita e magari sgobbare duro per farsi una laurea in architettura o in biologia se era tutto lì, tutto facile, tutto a portata di mano grazie alla politica?

Certo, non tenevano conto che quel padre capace di dire tutto e il contrario di tutto (memorabili le retromarce non solo sul Berlusconi «mafioso» ma sulla Lega baluardo della cristianità dopo aver mandato a dire al Papa: «Oè, Vaticano: la Padania non ha interesse a cambiar religione, ma l'indipendenza non è in vendita. T'è capi'?») aveva anche uno straordinario fiuto politico e una capacità formidabile di parlare con il «suo» popolo. Ma come potevano capirlo, loro?

(13 aprile 2012)

da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/troppo-facile-sparare-sul-trota-figlio-di-un-finto-medico/
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« Risposta #176 inserito:: Maggio 17, 2012, 05:08:59 pm »

Sanità molisana

E l'ospedale d'Isernia dimenticò l'ascensore

Sprechi, inefficienze e deficit.

La "parentopoli" del governatore che prima di essere eletto era un medico della struttura


All'ospedale di Isernia hanno in progetto i miracoli. Perfino dopo un trapianto di cuore, infatti, il paziente dovrebbe alzarsi e far le scale per raggiungere a piedi i reparti: spesi 2 milioni per le sale operatorie, hanno scordato l'ascensore. Difficile, al contrario, scordarsi chi comanda in zona: il governatore Michele Iorio. Che ha deciso di piazzare sulla poltrona di sindaco sua sorella Rosa.

L'operazione (politica) pareva facilissima. Cinque anni fa il candidato della destra aveva trionfato al primo turno col 69,1% dei voti staccando l'avversario di 50 punti. E dopo essere diventato presidente regionale la prima volta nel '98, l'azzurro Iorio governa da allora (salvo una breve parentesi) dopo essere stato rieletto tre volte consecutive. Non bastasse, la signora Rosa scelta dal fratello, occupa una poltrona pesante, «elettoralmente». Quella di direttore del distretto sanitario. Poltrona che, in attesa del trasloco nell'ufficio del sindaco, si è ben guardata dal mollare. Anzi, accusano le sinistre, mentre si avvicinava il voto, l'Asrem (l'azienda sanitaria regionale molisana) ha chiesto a chi aspira a un'assunzione di iscriversi in una «long list». Una coincidenza davvero curiosa.

Macché, quella che pareva dovesse essere una passeggiata si è rivelata in realtà più complicata del previsto. Non solo la Iorio è rimasta 25 punti sotto il record del sindaco eletto nel 2007, non solo non ce l'ha fatta al primo turno ma col suo 45,8 si è fermata 13 punti sotto i voti delle liste di destra che con il 58,7 hanno già in tasca la maggioranza in sala consiliare. Prova provata, dicono i nemici, che non è la storica roccaforte destrorsa ad avere svoltato, ma è stata la scelta della sorella Rosa a non essere digerita. Al punto che i consiglieri pidiellini, per forzare la mano, si sono spinti a lanciare un proclama ai cittadini. Dove dicono di «non essere disponibili a sostenere nessuna soluzione che non veda come sindaco il nostro candidato Rosa Iorio». Traduzione: se al ballottaggio vincesse Ugo De Vivo, sostenuto dalle sinistre, non potrebbe governare. Ipotesi estrema: dimissioni di massa e ritorno al voto.

Ed è in questo contesto inaspettatamente complicato che la città di Celestino V è stata scossa dal fastidioso reportage di un giornale online, «infiltrato.it». Dove Emiliano Marrone e Andrea Succi hanno spiegato finalmente, con tanto di video a corredo, in quale pessimo stato siano le due sale operatorie del «nuovo» monoblocco dell'ospedale.

Un reportage strabiliante, tragico e comico insieme. Macchinari nuovissimi ancora incellofanati, attrezzature allora d'avanguardia (allora: anno dopo anno invecchiano inesorabilmente) abbandonate, disordine, niente luce elettrica, piatti di plastica colmi di veleno per i topi. A dimostrazione di come, non avendo mai ospitato chirurghi e anestesisti, gli spazi siano stati occupati da altri inquilini.

Ma è la motivazione del perché quelle sale non sono mai state usate, come dicevamo, a essere sbalorditiva. Non solo gli ascensori del nuovo monoblocco sono troppo angusti per infilarci il lettino di un ricoverato («C'è un montacarichi che arriva solo al primo piano, col risultato che a volte ci è capitato di portare su la gente dal pronto soccorso ai vari reparti con la barella su per le scale», racconta il dottor Lucio Pastore) ma si sono dimenticati perfino di costruire un ascensore che porti nel sotterraneo dove stanno le sale operatorie.

«Che c'entra questa storia con Rosa?», chiedono polemici i supporter dell'aspirante sindaco. «C'entra eccome!», ribattono dall'altra parte. La sanità molisana, che stando alle tabelle della ragioneria dello Stato ha uno dei «buchi» pro capite più profondi d'Italia (42 milioni e 111 mila euro nell'ultimo biennio: 132 euro a testa) è da anni saldamente nelle mani di Michele Iorio. Il quale non solo ha il ruolo di commissario straordinario, sia pure ammaccato dal verbale del 3 aprile del tavolo tecnico ministeriale per la verifica del piano di rientro, verbale non lusinghiero («grave situazione finanziaria determinata dai ritardi nell'attuazione del Piano di rientro») nei suoi confronti. Ma ha benedetto in questi anni tutto un fiorire di figli e cugini e parenti vari.

Antonio Sorbo, direttore di «altromolise.it», ci ha scritto un libro, su questa voragine. Si intitola La banda del buco / Sanità molisana, storia di un disastro annunciato , e dopo avere ricordato che già nel 2006 uno studio del Sole 24 Ore accusava il Molise di avere «la spesa sanitaria pro capite più alta d'Italia e il record nazionale di ricoveri inappropriati (94%)», dedica largo spazio proprio alla «parentopoli ioriana» di questi anni, ruotata soprattutto nei dintorni proprio dell'ospedale di Isernia, dove lo stesso governatore lavorava come medico prima di dedicarsi alla politica.

Ed ecco il fratello Nicola primario di neurofisiopatologia. Ecco la sorella Rosa, laureata in legge e non in medicina, direttore del distretto sanitario. Ecco il cugino Vincenzo Bizzarro, direttore dello stesso distretto prima di Rosa e prima di essere cooptato nel consiglio regionale. Ecco la cugina Giovanna Bizzarro assunta nel 2006 in Regione dopo un concorso contestato. Ecco la moglie del cugino, Luciana De Cola in Bizzarro, direttrice sanitaria dell'ospedale isernino...
Per non dire dei figli. Uno, Davide, lavora in una società (la «Bain & Co.») gratificata di consulenze regionali costate in febbraio al governatore una condanna a un anno e sei mesi con interdizione dai pubblici uffici dopo una requisitoria durissima del pm Fabio Papa: «Su queste delibere Iorio non si asteneva, come prescritto e come suo dovere, in presenza di un evidentissimo interesse di un proprio strettissimo congiunto». Peggio: «Abbiamo assistito a una sequenza di testimoni mortificante. Nessuno è stato in grado di dire cosa ha fatto la "Bain" per la Regione...». Un altro figlio, Raffaele, lui pure medico, opera in una struttura sanitaria privata («Hyppocrates») in rapporti costanti, ovvio, con la regione guidata dal papà che l'ha inaugurata. Ma è il terzo figlio, Luca, quello che forse ha fatto più parlare di sé. Medico anche lui, avrebbe convinto il padre, stando a un'altra inchiesta giudiziaria, ad assumere all'ospedale di Isernia il suo maestro, il chirurgo Cristiano Huscher, «attraverso nomina diretta, non preceduta da avviso pubblico».

Un rapporto poi finito male. Perché? Lo racconta Huscher in una lettera aperta: «Il motivo scatenante del mio licenziamento sarebbe stato un acceso diverbio avuto nel 2007 con il figlio del presidente Iorio». Perché, sostiene, si stava facendo di tutto per aprire un servizio di Chirurgia vascolare e «consentire al figlio del presidente di consolidare la sua presenza a Isernia». Una scelta cui lui si oppose, dice, per la «completa inutilità di quel reparto e per le spese proibitive per crearlo». Chissà se almeno lì era previsto l'ascensore...

Gian Antonio Stella

17 maggio 2012 | 10:20© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/cronache/12_maggio_17/ospedale-isernia-malasanita-Stella_bff26196-9fe6-11e1-bef4-97346b368e73.shtml
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« Risposta #177 inserito:: Maggio 24, 2012, 10:39:27 am »

I RISCHI SISMICI SONO NOTI (E IGNORATI)

Le fatalità prevedibili


L'altra volta, quando venne giù mezza città e dappertutto era pieno di morti e perfino il duca Alfonso II d'Este e la famiglia dovettero accamparsi «come zingari» nel cortile della reggia, i ferraresi accusarono quel menagramo del gabelliere e il pittore Helden disegnò sulle rovine un drago fiammeggiante e il papa Pio V ci vide la punizione di Dio per la protezione accordata agli ebrei.

Qualche secolo dopo, però, è inaccettabile che davanti alle vittime e alle macerie del terremoto ferrarese, non potendo più incolpare draghi ed ebrei, si parli ancora di tragica e imprevedibile fatalità. Certo, i nostri avi li fecero bellissimi ma fragili, quei campanili e quelle rocche che ieri si sono sgretolati aggiungendo dolore ai lutti per le vite umane. Non avevano gli strumenti, le tecnologie, i materiali di oggi per reggere l'urto di un sisma. Ma proprio a Ferrara, dopo il devastante terremoto del 1571, ricorda centroeedis.it , l'architetto Pirro Ligorio, successore di Michelangelo alla Fabbrica di San Pietro, progettò la prima casa antisismica. E se con strazio possiamo accettare il collasso di certe residenze antiche, non possiamo rassegnarci al crollo di palazzine e capannoni ed edifici vari tirati su, nel Ferrarese come altrove, in tempi recenti.

Perché noi sappiamo esattamente quali sono le aree a rischio, già colpite in passato e fatalmente destinate a esserlo ancora. I sismologi storici del gruppo di Emanuela Guidoboni hanno contato negli ultimi cinque secoli, in Italia, 88 disastri sismici dagli effetti superiori al 9° grado della scala Mercalli, cioè più gravi di quello abruzzese. Fate i conti: uno ogni cinque anni e mezzo. Catastrofi che hanno causato complessivamente, solo dall'Unità a oggi, oltre 200 mila morti e danni pesantissimi.
Siamo un Paese ad alto rischio. Forse più di tutti per la densità abitativa e il patrimonio storico, monumentale e artistico di cui siamo (forse immeritatamente...) custodi. Altri fisserebbero norme edilizie rigidissime e farebbero regolari corsi d'addestramento per i cittadini e lezioni in classe per i bambini fin dalla materna. Noi no. Da noi gli ascensori salgono dal piano 12° al 14°, gli aerei non hanno la fila numero 13 e chi ha abusivamente costruito in zone pericolose invoca il condono e meno lacci e lacciuoli antisismici. Come se già due secoli e mezzo fa Jean-Jacques Rousseau, dopo il terremoto di Lisbona, non avesse sottolineato amaro: «Non è la natura che ha ammucchiato là ventimila case di sei-sette piani».

Sapete come si intitola un lavoro recentissimo della Guidoboni? «Terremoti a Ferrara e nel suo territorio: un rischio sottovalutato». Vi si spiega che, al contrario di quanto pensavano nel Medioevo, anche sotto la pianura più piatta possono esserci faglie capaci di dare scossoni tremendi e che l'area colpita ieri nell'ultimo millennio aveva contato già 22 «botte» più o meno gravi «eppure quanti sono i cittadini di Ferrara e della sua provincia ad avere percezione della pericolosità sismica dell'area in cui abitano?». Per mesi e mesi gli amministratori locali erano stati martellati: occorre un progetto per affrontare il tema. Risposte? Sorrisi. Ringraziamenti. Rinvii. Perché parlarne se porta iella?

Gian Antonio Stella

21 maggio 2012 | 7:21© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_maggio_21/stella-fatalita-prevedibili_b53b52dc-a304-11e1-a356-c1214eb8d3f7.shtml
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« Risposta #178 inserito:: Luglio 14, 2012, 03:55:13 pm »

REGIONE SICILIANA E FONDI EUROPEI

Il festival degli sprechi

Tra il 2000 e il 2006 la Sicilia ha ricevuto il quintuplo dei fondi assegnati a tutte le Regioni del Nord messe insieme


Fanno davvero male, di questi tempi, bastonate come quella che Bruxelles ha appena dato alla Regione Siciliana. Dove sono stati bloccati 600 milioni di fondi Ue, una boccata di ossigeno, perché l'Unione non si fida più di come vengono spesi nell'isola i soldi comunitari.

«C'è stata una difficoltà di comprensione...», ha detto un funzionario al Giornale di Sicilia. Testuale. Purché non si levino ritornelli contro la «perfida Europa» nella scia di quelli lanciati dal regime mussoliniano contro le sanzioni: «Sanzionami questo / amica rapace...». Prima che dai vertici europei, l'andazzo era già stato denunciato infatti dalla Corte dei conti.

In una dura relazione di poche settimane fa i magistrati contabili avevano scritto di «eccessiva frammentazione degli interventi programmati» (troppi soldi distribuiti a pioggia anziché investiti su pochi obiettivi-chiave), di «scarsa affidabilità» dei controlli, di «notevolissima presenza di progetti non conclusi», di «tassi d'errore molto elevati» tra «la spesa irregolare e quella controllata», di «irregolarità sistemiche relative agli appalti». Una per tutte, quella rilevata nella scandalizzata relazione che accompagna il blocco dei fondi: l'appalto dato a un signore con «procedimenti giudiziari a carico». Come poteva l'Europa non avere «difficoltà di comprensione»?

Dice Raffaele Lombardo, il quale ieri ha fatto un nuovo assessore alla Cultura destinato a restar lì un battito di ciglia fino alle dimissioni annunciate il 31 luglio, che si tratta solo di questioni «tecniche» di cui chiederà conto «ai dirigenti che se ne sono occupati». Mah...

Sono anni che la Sicilia, cui la Ue aveva inutilmente già dato un ultimatum a gennaio, è ultima nella classifica di chi riesce a spendere i fondi Ue. E la disastrosa performance , insieme con quella della Puglia e delle altre tre regioni già «diffidate» (Campania, Calabria e Sardegna) ci ha trascinato al penultimo posto, davanti solo alla Romania, nell'Europa a 27.
I numeri diffusi mesi fa dal ministro Fabrizio Barca sono raggelanti. Tra il 2000 e il 2006 l'isola ha ricevuto 16,88 miliardi di fondi europei pari a cinque volte quelli assegnati a tutte le regioni del Nord messe insieme. Eppure su 2.177 progetti finanziati quelli che un anno fa, il 30 giugno 2011, risultavano conclusi erano 186: cioè l'8,6%. La metà della media delle regioni meridionali. Uno spreco insensato negli anni discreti, inaccettabile oggi.

Dice il centro studi di Svimez che il Pil pro capite delle regioni del Sud dal 1951 al 2009, anziché crescere, ha subito rispetto al Nord un netto arretramento. Calando in valuta costante dal 65,3% al 58,8%. Quanto alle aree povere del cosiddetto «Obiettivo uno», quelle più aiutate da Bruxelles perché il Pil pro capite non arriva al 75% della media europea, la risacca è stata altrettanto vistosa.

In queste condizioni, buttare via quelle preziose risorse europee che non piovono da una magica nuvoletta ma sono accumulate con i contributi di tutti i cittadini Ue, italiani compresi, grida vendetta. Buttarle per incapacità politica, per ammiccamenti ai vecchi vizi clientelari, per cedimenti alla criminalità organizzata o per i favori fatti a questa o quella cricca di amici e amici degli amici, è una pugnalata. Non solo ai siciliani, non solo ai meridionali ma a tutti gli italiani. Quelli che giorno dopo giorno, Moody's o non Moody's, cercano di spiegare all'Europa d'avere imboccato davvero una strada diversa.

Gian Antonio Stella

14 luglio 2012 | 8:52© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_luglio_14/festival-degli-sprechi-stella_151da330-cd76-11e1-bc80-9c2657984b85.shtml
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« Risposta #179 inserito:: Luglio 18, 2012, 11:16:04 pm »

Dimettersi o no

Il caso Minetti o dei capri espiatori

Lo scrisse Indro Montanelli: «Quello di buttar addosso a un capro espiatorio è un metodo di risolvere i problemi molto italiano»


Riuscirà il sacrificio della capretta espiatoria da parte del capro espiatorio a raddrizzare le sorti del Super Capro Espiatorio? Il gioco intorno alle responsabilità a scalare di Nicole Minetti, Angelino Alfano e Silvio Berlusconi è tutto dentro la tradizione. Ma certo, per quanto la politica non sia «un gioco di signorine», ha qualcosa di indecente. Più indecente, se possibile, delle notti di bunga bunga. Il ricorso alla vittima sacrificale citato nel Levitico («Aronne poserà le mani sul capo del capro vivo, confesserà su di esso tutte le iniquità degli Israeliti, tutte le loro trasgressioni, tutti i loro peccati...») è stato usato mille volte come via d'uscita. Lo scrisse anche Indro Montanelli: «Quello di buttar tutto addosso a un capro espiatorio è un metodo di risolvere i problemi molto italiano».

Qualcuno ha vissuto l'evento con dignitoso fatalismo, come il tesoriere dc Severino Citaristi, uomo perbene coinvolto nel meccanismo perverso dei finanziamenti illegali: «No, guardi, la colpa è solo mia, gli altri non mi hanno scaricato addosso nulla. Sono io che ho trasgredito la legge». Altri hanno strillato rifiutando, a ragione o a torto, di prendersi tutte le colpe di errori o reati, casomai, collettivi.

Si pensi ai lamenti di Giovanni Leone, Achille Occhetto o Bettino Craxi che disegnava ad Hammamet vasi grondanti sangue tricolore e giù giù di decine di comprimari. Da Maurizio Gasparri quando fu depennato come ministro («Sono stato un capro espiatorio. Mi sento come Isacco, che fu scelto. Ma poi intervenne Dio in persona per salvarlo») a Sandro Bondi («Non merito la mozione di sfiducia individuale. Sono un ministro sotto accusa per il crollo di un tetto in cemento armato costruito negli anni 50 ma nessuno si ricorda dei "no" che ho detto per fermare scempi e abusi»), da Alfonso Papa a Luigi Lusi che si auto-commisera sempre così: «Un capro espiatorio».

Poche volte come negli ultimi tempi, forse a causa della crescente personalizzazione della politica, c'è stato un abuso della scelta di scaricare tutto su chi più era o pareva indifendibile. Basti ricordare il caso della Lega. Dove per salvare il più possibile Umberto Bossi sono stati scaricati via via Renzo «Trota» obbligato a dimettersi dal Consiglio regionale, Rosi Mauro spinta a dimettersi da vicepresidente del Senato e poi espulsa, Francesco Belsito prima benedetto dal Senatur come «un buon amministratore che ha scelto bene come investire i soldi» poi maledetto come un appestato infiltrato nel Carroccio dalla 'ndrangheta.

Il punto è che come c'è sempre più puro che ti epura, anche nel comparto dello scaricabarile esiste la categoria della vittima sacrificale a cascata. Un esempio? La scelta, mesi fa, di scaricare Marco Milanese, il collaboratore assai chiacchierato di Tremonti, al posto dell'allora ministro dell'Economia, a sua volta individuato dal Cavaliere e dai suoi fedelissimi come l'uomo da additare come il principale colpevole della mancata realizzazione del grande sogno berlusconiano. Una citazione per tutte, la lettera di Bondi al Foglio: «Tremonti ha minato alla radice, fin dal primo momento, la capacità del governo di affrontare la crisi secondo una visione d'insieme...».

Ricordate l'aria che tirava nell'autunno scorso? Da Fabrizio Cicchitto ad Altero Matteoli, da Margherita Boniver a Saverio Romano fino a Luca Barbareschi la destra intera era in trincea nel rifiutare che tutte le responsabilità e tutte le colpe e tutti i peccati della crisi fossero rovesciati sull'ex San Silvio da Arcore. Un'immagine che Giuliano Ferrara fotografò così: «Berlusconi è in carica ma è l'ombra di se stesso. Nei suoi occhi e nel suo sorriso immortale si legge ormai la malinconia del capro espiatorio».

È perciò paradossale che a distanza di pochi mesi, dopo aver denunciato perfino in aula alla Camera il suo rifiuto di assumere quel ruolo così fastidioso, il Cavaliere abbia poi scelto di scaricare a sua volta il tracollo del partito sul capro espiatorio Angelino Alfano. E ancora più surreale che questi abbia individuato in Nicole Minetti, che fu imposta nel listino di Roberto Formigoni, la sub-capra espiatoria da sacrificare di colpo, «entro due giorni», per dare una rinfrescata all'immagine e rilanciare il Pdl o quel che ne sarà l'erede.

È probabile che i sondaggi abbiano individuato nella disinibita deputata regionale lombarda, celeberrima per quei messaggini hot («più troie siamo più bene ci vorrà...») una zavorra fastidiosa per il decollo del nuovo aquilone berlusconiano. Lo stesso Cavaliere però, ricorda un diluvio di messaggi online, nella famosa telefonata all'«Infedele» di Gad Lerner, urlò: «La signora Nicole Minetti è una splendida persona intelligente, preparata, seria. Si è laureata con il massimo dei voti, 110 e lode, si è pagata gli studi lavorando, è di madrelingua inglese e svolge un importante e apprezzato lavoro con tutti gli ospiti internazionali della regione». Insomma, una giovine statista dal luminoso avvenir.

Delle due l'una: o era tutto falso (comprese le definizioni sulle «cene eleganti») o era tutto vero. E allora nell'uno come nell'altro caso scegliere oggi la Minetti come vittima sacrificale, per quanto l'insopportabile signorina se le sia tirate tutte, sembra una piccineria non proprio da gentiluomini...

Gian Antonio Stella

17 luglio 2012 | 14:22© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_luglio_17/caso-minetti-o-dei-capri-espiatori-gian-antonio-stella_8675790c-cfd0-11e1-85ae-0ea2d62d9e6c.shtml
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