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Autore Discussione: Gian Antonio STELLA -  (Letto 184855 volte)
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« Risposta #135 inserito:: Febbraio 19, 2011, 04:41:10 pm »


SENTIRSI PIÙ ITALIANI

Sotto l'elmo di Benigni

Era ora che venisse restituito l'onore a Goffredo Mameli. Quel ragazzo morto a vent'anni nel 1849 nell'eroica difesa della Villa del Vascello a Roma e svillaneggiato da troppo tempo per quelle parole gonfie d'amore per l'Italia che strappano sorrisetti insulsi a chi è incapace di leggere la storia. Ed è davvero un segno dei tempi che a rendergli l'onore sia stato quel geniale istrione di Roberto Benigni. L'unico che poteva fare il miracolo: fermare il fiato a milioni di italiani in mezzo alle canzonette facendo loro intuire, forse per la prima volta, qual è il senso di quelle parole. Il senso di questa nostra storia.

E certo non poteva scegliere giorno peggiore, ieri, il governo, per spaccarsi sulla decisione di consacrare il prossimo 17 marzo, una tantum, in occasione del Centocinquantenario, all'Unità d'Italia. «Solo una differenza di opinioni», ha detto Ignazio La Russa. Ve l'immaginate se un ministro francese o tedesco, argentino o coreano, osasse liquidare così una frattura sulla celebrazione della più solenne festa nazionale? Verrebbe fatto a pezzi.

Cosa c'è di più importante per una comunità del riconoscersi insieme in una epopea? Non c'è Stato al mondo che ignori il proprio atto di nascita. Solo noi. Rosario Romeo, davanti all'indecoroso tormentone di questi mesi, sarebbe basito: «Il Risorgimento rimane il processo politico più importante e positivo che il nostro Paese abbia conosciuto nei mille anni di vita della nazione italiana». Fu segnato anche da errori come le fucilazioni di Bronte o il massacro di Pontelandolfo? Certo. E come ha scritto Giuseppe Galasso «non era neppure terminato che già si iniziò a processarlo». Anche la Rivoluzione francese e il colonialismo inglese ebbero pagine nere: francesi e inglesi non buttano via, però, tutta la loro storia. Anche la bandiera americana è macchiata dalla tratta degli schiavi, dal genocidio dei pellirosse, dalla guerra civile: ma il 4 luglio gli americani la sventolano tutti, dall'Oregon all'Alabama. E se per caso la festa cade di domenica chiudono anche il lunedì. Perdono un po' di ore di lavoro? Amen: l'orgoglio vale di più.

Dice Roberto Calderoli che in un Paese in crisi come il nostro «che ha il primo debito pubblico europeo e il terzo a livello mondiale» celebrare l'Unità «è pura follia». Si sarà confuso col «progetto di federalismo municipale», ironizza lavoce.info. Stando ai dati Eurydice la nostra scuola, che Mariastella Gelmini avrebbe voluto tenere aperta, fa più giorni di lezione di tutti tranne il Lussemburgo: non per questo svetta. Secondo l'Eiro in Olanda, Germania e Danimarca i contratti riconoscono più ferie che da noi: nella classifica della competitività del Wef però loro sono davanti e noi al 48° posto. Il rapporto Mercer certifica che i meno assenteisti d'Europa sono i turchi (4,6 giorni di malattia l'anno) ma ciò non li colloca ai vertici della produttività. Non bastasse, in un anno senza «ponti» come questo, potrebbe venirne addirittura ossigeno al turismo.

A farla corta: se sono questi i motivi per scartare la festa del Centocinquantenario, sono un po' pelosi. Un Paese scivolato al 70° posto nel mondo dietro la Giamaica per velocità media in Internet e sempre più tagliato fuori dalle rotte delle immense porta-container perché da anni non si occupa di porti, ha davanti sfide più serie. Che può affrontare solo se crede di più in se stesso. E da dove potrebbe mai ripartire, se non da uno scatto di orgoglio patriottico?

Gian Antonio Stella
19 febbraio 2011

da - corriere.it/editoriali
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« Risposta #136 inserito:: Febbraio 22, 2011, 04:07:17 pm »


Le visite nel nostro paese del leader libico

Hostess, regali e baci: l’Italia del Muammar show

Gli undici incontri di Berlusconi con Gheddafi tra il 2008 e il 2010: cammelli in dono e caroselli di cavalli berberi


«Per dirla alla beduina: sparita la tenda, sparito il problema» . Sono passati solo sei mesi da quando Luca Zaia rise delle polemiche scandalizzate contro il «Muammar Show» concesso a Gheddafi sul suolo italiano.

Sei mesi. E già si agita l’incubo che quell’eccesso di salamelecchi riservati al dittatore libico possa esserci rinfacciato. Un problema che non riguarderebbe solo il governo, ma il Paese intero. Per undici volte il Cavaliere, ricevendone in cambio l’agognato accordo sul blocco del traffico di clandestini e qualche regalo come un paio di cammelli (dei quali non si conosce il destino) aveva incontrato il leader della Jamahiriya dal ritorno a Palazzo Chigi nella primavera del 2008 fino agli sgoccioli del 2010. Undici. Gli aveva baciato la mano in segno di ossequio. Donato vetri di Murano. Concesso ciò che i libici chiedevano da anni e cioè il riconoscimento, giusto, degli errori e dei crimini commessi dagli italiani durante l’occupazione giolittiana e più ancora mussoliniana. Già che c’era, si era allargato. Promettendo nel marzo 2009 che si sarebbe ripresentato qualche mese dopo a Tripoli per un’occasione speciale: «Tornerò per festeggiare il 40 ° anniversario della vostra grande rivoluzione».

Quel golpe militare che dalla sera alla mattina buttò fuori dalla Libia, impossessandosi di tutti i loro beni per circa 3 miliardi di euro attuali, ventimila italiani. Che erano nella stragrande maggioranza del tutto estranei ai crimini fascisti. E che da allora, ignorati se non guardati con fastidio dagli insofferenti teorici della realpolitik, invocano che venga riconosciuta dignità al loro dramma. Non bastasse, in cambio dell’impegno a frenare l’immigrazione in Italia (contrattato col pagamento di 5 miliardi di euro su cui il raìs arabo aveva rilanciato più volte con richieste sempre più esose all’Europa, come fanno tutti i ricattatori del mondo), il Cavaliere aveva concesso all’amico Muammar, appunto, show indimenticabili. Come il carosello con 30 cavalli berberi diretta tivù alla caserma «Salvo D’Acquisto» . O la possibilità di piantare un tendone beduino nel giardino della palazzina Algardi di villa Doria Pamphili, che proprio per l’amico libico era stata sottoposta a restauri per 994.923 euro. Parecchi, per un ospite che poi dorme in tenda. O ancora la «lectio magistralis» alla Sapienza, dove il despota tripolino al potere da decenni senza la scomodità di elezioni, scodellò tra gli inchini del rettore Luigi Frati indimenticabili sciocchezze che strapazzavano l’etimologia greca: «La democrazia è una parola araba che è stata letta in latino. Democrazia: demos vuol dire popolo. Crazi in arabo vuol dire sedia. Cioè il popolo si vuole sedere sulle sedie. (...) Se noi ci troviamo in questa sala siamo il popolo, seduti su delle sedie, questa andrebbe chiamata democrazia, cioè il popolo si siede su delle sedie. Invece se noi prendessimo questo popolo e lo facessimo uscire fuori, se avessimo invece preso dieci persone e le avessimo fatte sedere qua, scelte dalla gente che stava fuori, e loro invece sono seduti qua, quei dieci, questa non sarebbe da chiamarsi democrazia. Questa si chiamerebbe diecicrazia. Cioè dieci su delle sedie. Non è il popolo a sedersi sulle sedie, questa non è la democrazia. Finché tutto il popolo non avrà la possibilità di sedersi tutto quanto sulle sedie, non ci sarà ancora democrazia» .

Quindi perché mai i libici, che hanno già tante sedie senza l’ingombro della libertà, dovrebbero «regredire» al sistema occidentale?
Per non dire del surreale battibecco con uno studente sul tema dei diritti umani degli immigrati respinti sui barconi, incarcerati o abbandonati nel deserto. «Come vengono rispettati, in Libia, i loro diritti?» . L’interprete: «Quali diritti?» . «I loro diritti».
«Quali diritti?» . «I diritti!» , gridavano in sala: «I diritti politici» . L’interprete si chinò sul raìs, che si scosse: «Quali diritti?».
 
E si avvitò a spiegare che, per carità, la domanda faceva onore a chi l’aveva posta ma «gli africani sono degli affamati, non dei politici, gente che cerca cibo» . E i dittatori? «Non ci sono dittatori, in Africa... La dittatura c’è quando una classe sta sopra un’altra.
Se sono tutti poveri...» E sibilò: «Volete un milione di rifugiati? Ne volete venti? Cinquanta?» Non bastasse, il satrapo spiegò in Campidoglio, con quel che significa quel luogo non solo per i romani ma per l’Occidente, che «il partitismo è un aborto della democrazia.
Se me lo chiedesse il popolo italiano gli darei il potere. Annullerei i partiti, affinché il popolo possa prendere il loro posto.
Non ci sarebbero più elezioni e si verificherebbe l’unità di tutti gli italiani. Basta destra e sinistra. Il popolo italiano eserciterebbe il potere direttamente, senza rappresentanti» . Non bastasse ancora, approfittò del palcoscenico straordinario di Roma per rastrellare centinaia di ragazze prese a nolo per 80 euro l’una perché ascoltassero un suo sermone maomettano («Sapete che al posto di Gesù crocifissero un suo sosia?» ), si facessero fotografare con in mano il Corano e magari rivelassero all’uscita di essersi convertite all’Islam.
Sembra passata un’eternità, da allora. E un’eternità da quando, solo quattro settimane fa, Franco Frattini citò come risposta all’incendio nei Paesi arabi «l’esempio di Gheddafi. Ha realizzato una riforma che chiama "dei Congressi provinciali del popolo": distretto per distretto si riuniscono assemblee di tribù e potentati locali, discutono e avanzano richieste al governo e al leader. Cercando una via tra un sistema parlamentare, che non è quello che abbiamo in testa noi, e uno in cui lo sfogatoio della base popolare non esisteva, come in Tunisia.
Ogni settimana Gheddafi va lì e ascolta...» A cosa siano servite tutte queste aperture ha risposto nel suo minaccioso proclama alla nazione il figlio del Colonnello, Saif al Islam: «Continueremo a combattere fino all’ultimo uomo, persino all’ultima donna... Non lasceremo la Libia agli italiani o ai turchi...»

Gian Antonio Stella

22 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #137 inserito:: Febbraio 25, 2011, 11:07:57 pm »

Egoismi e Paure

Ma se si chiamassero Pedro o José e fossero bombardati da un golpista sudamericano? Se si chiamassero Pak o Koo e fossero mitragliati da un carnefice nordcoreano? Se si chiamassero Oja o Boris e fossero sgozzati da un nuovo macellaio cetniko? È il dubbio che rode a vedere come tanti politici italiani guardano al massacro dei libici facendosi una sola domanda: e noi? Certo, è ovvio che ci poniamo il problema di cosa succederà a casa nostra. Di più: è sacrosanto. Quanti disperati si rovescerebbero con i barconi sulle nostre coste se andasse tutto nel peggiore dei modi? Come potremmo gestire un'ondata migratoria mai vista? Riusciremmo a essere insieme vigili guardiani di un filtro indispensabile e buoni samaritani al soccorso di una umanità sofferente? Cosa farebbero gli altri europei? Accorrerebbero a darci una mano o guarderebbero altrove lasciandoci nelle peste?

Sono domande doverose. Imposte da questa specie di esplosione nucleare dagli esiti imprevedibili deflagrata a poche decine di chilometri dai nostri confini. Lo studioso Khaled Fouad Allam si è spinto a scrivere sul Sole 24 Ore che la Libia potrebbe diventare, per la sua storia, per i suoi conflitti secolari, «l'Afghanistan del Mediterraneo». Come potremmo non stare in guardia? Come potremmo non essere preoccupati? Eppure questa non può essere la sola, unica, esclusiva nostra preoccupazione. Non può ruotare tutto ossessivamente intorno a noi. Perché laggiù in Libia, sotto i nostri occhi, a pochi minuti di volo dall'Italia, stiamo assistendo a un bagno di sangue che ci fermerebbe il fiato e ci strapperebbe grida di raccapriccio se solo le vittime di tanta ferocia repressiva non fossero arabi, berberi, islamici. Impastati tutti insieme, integralisti e laici, cammellieri e architetti, beduini sahariani e ragazzi cresciuti col Web che sognano solo la stessa libertà che hanno i ragazzi olandesi o americani.

Abbiamo tra l'altro due responsabilità in più. La prima è che quello che Ronald Reagan chiamava «il cane di Tripoli» e oggi sta azzannando rabbioso i suoi stessi cittadini, è stato fino a pochi giorni fa riverito e adulato, con minori o maggiori gradazioni di piaggeria, da un po' tutti i governi italiani. Convinti che «i vicini non si possono scegliere» e in fondo in fondo per noi fosse meglio che l'Africa più vicina fosse schiacciata sotto il tallone di un po' di duci muscolosi piuttosto che esposta ai brividi pericolosi della democrazia. La seconda è riassunta in un motivetto sull'invasione della Libia del 1911 il cui prologo risuona spavaldo: «Sbalorditi i musulmani stavan tutti a naso ritto / ma d'un tratto a capofitto bombe e fuoco gli arrivò / Assediato e bombardato sia di sopra che di sotto / il vil popolo corrotto all'Italia s'inchinò». Ecco, un secolo esatto dopo la brutale conquista di quello «scatolone di sabbia», dopo decenni di disprezzo per quelle genti «inavvezze al lavoro», dopo le foto dei nostri plotoni d'esecuzione che fucilavano anche i ragazzini, dopo i campi di concentramento nel deserto della Sirte dove Angelo Del Boca ha dimostrato che morirono decine di migliaia di donne, vecchi e bambini, abbiamo verso quei libici scesi nelle piazze per liberarsi di un dittatore capriccioso e feroce dei doveri in più. È giusto che ci preoccupiamo «anche» per noi. Ma non ci siamo solo noi.

Gian Antonio Stella

24 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #138 inserito:: Marzo 03, 2011, 03:16:36 pm »


Il fantoccio bruciato -

Negli anni Trenta Mussolini impose il raduno annuale a Pontida

Garibaldi bruciato a Vicenza Il (tiepido) imbarazzo leghista

Il rogo «simbolico» davanti a una discoteca

«Fate scrivere la biografia di Garibaldi al suo peggior nemico e vi apparirà come il più sincero, il più disinteressato e il meno dubbioso degli uomini...», scrisse il Times dopo la morte sfidando a mettere in dubbio la statura morale del condottiero. Sottovalutava il fanatismo dei talebani venetisti. Che l'altra sera, davanti a una discoteca vicentina, hanno bruciato una sagoma barbuta in camicia rossa (nella foto) che portava appeso al collo il cartello: «L'eroe degli immondi».

Il governatore Luca Zaia si è smarcato: «Mi ritengo venetista ma bruciare una sagoma è un segnale a cui stare attenti. Dietro a una figura "c'è una persona", non bisogna minimizzare e trasmettere messaggi sbagliati ai giovani». Pochino, dirà qualcuno.
Molto, risponderà lui, che cerca di barcamenarsi tra i doveri istituzionali e i mal di pancia dei duri e puri del suo partito e dintorni.

Come quelli del sedicente "Presidente Movimento Veneti" che, in una lettera al quotidiano locale ha spiegato esultante che il rogo «è solo una scintilla, dal 17 marzo aspettiamoci i fuochi d'artificio». Firmato: Riondato Patrik. Con la "k". "Very polenton", per un difensore della cultura veneta. Come "very polentons" erano i nomi che portavano i figli di due del commando dei Serenissimi che anni fa assaltarono il campanile di San Marco: Buson Desirée (très révolutionnaire), Contìn Christian & Contìn Genny. Wow!

Una goliardata folcloristica? Scrive il Giornale di Vicenza che a far la festa al feticcio dell'eroe di Caprera c'erano 200 persone tra cui «numerosi consiglieri comunali, provinciali e regionali della Lega Nord ma anche della Liga Veneta per l'autonomia e di altri partiti» con l'aggiunta di sindaci del padovano e del veronese.

Di più, il giorno dopo il deputato regionale Roberto Ciambetti sdrammatizzava: «Sono arrivato più tardi e il rogo non l'ho visto. Però non vorrei si strumentalizzasse la cosa. È un gesto scaramantico, che vuole esorcizzare non la figura del generale che fu, per primo, bandito dagli stessi Savoia, quanto chi continua a negare dignità alle storie regionali». Ma come: chiama a supporto, lui, proprio i Savoia? Pexo el tacòn del buso.

Da non perdere le discettazioni di Giorgio "Xorxi" Roncolato, informatico alla Asl, consigliere comunale leghista di Arzignano e membro di "Raixe Venete" (radici venete) l'associazione che aveva acceso il falò: «Gli storici seri hanno dimostrato che Garibaldi era un bandito vissuto di espedienti e ladrocini in Sud America. E che anche i famosi Mille erano una accozzaglia di sbandati e predoni».

E chi sarebbero questi "storici seri"?

Non Denis Mack Smith, che scrive: «Garibaldi era la persona vivente più conosciuta e amata del mondo».

Non Christopher Duggan, secondo il quale «il suo stile di vita anti-convenzionalmente modesto, la semplicità dei modi e l'immenso coraggio personale, e infine l'apparente invulnerabilità sul campo di battaglia (...) concorrevano a fare di Garibaldi un personaggio venerato, con una capacità d'attrazione senza precedenti».

Non Max Gallo, Rosario Romeo, Giovanni Spadolini... Perfino Indro Montanelli, che pure non perdeva occasione per punzecchiare qua e là i protagonisti del Risorgimento, nel libro scritto con Marco Nozza chiuse il discorso: «Nel disperato bisogno che l'Italia dell'Ottocento aveva di eroi, è giusto che il posto di proscenio e il piedistallo più alto siano toccati a lui».

Macché, Bortolino Sartore, proprietario della discoteca Hollywood teatro del rogo e consigliere provinciale della Liga autonomista, mica si fa incantare da chi ha letto libri e studiato documenti: «Garibaldi era un mercenario che non amava i veneti, questo è un dato storico». Fine. Avrà ben diritto di dire ciò che vuole? In realtà, spiega ne "La storia negata" Mario Isnenghi, sempre lì si finisce: nell'idea sventurata che, con o senza documenti a supporto, un'opinione vale un'altra e ognuno ha il diritto di pensare quel che gli pare: «La coscienza che tutto passi attraverso un punto di vista e un'interpretazione, e finisca in uso pubblico e strumentalizzazione politica, invece che più lucidi, ci rende solo più fatui. E una versione sbracata e facilona di "relativismo" o storia "fai da te" finiscono per imperare. Nulla è vero, tutto è vero». E invece, scrive, «nossignori, gli avvenimenti storici si sono svolti in una certa maniera e non in un'altra». Possono essere messi sullo stesso piano i lavori, ad esempio, di Rosario Romeo e le ricostruzioni allucinate e apocalittiche su "Civiltà cattolica" del gesuita Antonio Bresciani, uno che dedicò la vita a gonfiare l'odio contro Garibaldi per conto del Vaticano? Mah...

Che sia grande la confusione sotto il cielo italiano alla vigilia del Centocinquantenario, del resto, è confermato dalle delibere adottate dai due consigli comunali veneti leghisti, S. Giovanni Lupatoto e Bussolengo, che autorizzano i commercianti il 17 marzo a tener aperti i negozi. Come a Verona, sia pure solo nel centro storico: è una città turistica. E cosa spunta, nel frattempo? La voglia di una festa padana, il 29 maggio. Giorno della battaglia di Legnano.

Un'idea buttata lì in odio all'Unità d'Italia. Anche se, chissà, tanti leghisti non lo sanno ma potrebbe piacere a Benito Mussolini. Fu lui, infatti, molto prima del Senatur, a imporre negli anni 30 un grande raduno annuale a Pontida. Rileggiamo l'Eco di Bergamo dell'8 aprile 1940: «Una Pontida imbandierata, in una festante cornice di sole e di pubblico (...) ha rivissuto ieri mattina (...) la gloriosa data del giuramento della Lega Lombarda. Mai tanto flusso di folla ha invaso le vie del paese pavesato in ogni dove di tricolore...».

Gian Antonio Stella

03 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #139 inserito:: Marzo 27, 2011, 12:05:57 pm »

Scambiato per un uomo di Bossi.

A Reggio un terzo dei visitatori dello zoo di Pistoia

Il ministro e la battuta sui Bronzi

La Calabria contro il «leghista» Galan

«Devono per forza restare lì?». Scopelliti: non si muoveranno


«Giù le mani dai bronzi di Riace!». È bastato che buttasse lì il dubbio se sia sempre opportuno lasciare lì sul posto i tesori ritrovati, scegliendo come esempio (ahi...) le statue elleniche, e il neoministro alla Cultura Giancarlo Galan è stato investito da un fitto lancio di missili terra-aria calabresi. L'accusa più infida: leghista! A lui, che coi leghisti ci litiga da sempre.

La polemica anti-padana, in realtà, non tocca solo le splendide sculture quasi certamente appartenenti all'arte greca del V secolo a.C. Bastava leggere ieri mattina sul Tempo l'acido commento alle parole con cui Galan aveva sostenuto che «solo l'Italia ha due Festival del Cinema. In Francia c'è Cannes, in Germania quello di Berlino, in Svizzera soltanto Locarno. Venezia è il Festival del cinema più antico del mondo, è e sarà l'unico in Italia». Non l'avesse mai detto! «Donchischiotte che va alla guerra con lo spadone tagliateste». «Generale che fa bum col cannone ma sbaglia mira e sventra tutti». «Nerboruto». «Padanissimo». Nella foga, la paladina capitolina Lidia Lombardi è andata oltre. E citando la città serenissima come fosse Busto Arsizio o Latina (con tutto il rispetto per Busto Arsizio e Latina) ha ricordato al «padano» Galan che «in questi giorni arrivano a Roma Woody Allen e Debra Winger. Due divi che in Laguna non si sognano di salire, se non appunto quando, in qualche annata, passa un loro film, in o fuori concorso...». Testuale. Perché mai andarci, a Venezia: per vedere la basilica di San Marco, i Frari, il Canal Grande o Palazzo Ducale? Boh...

Il fronte più caldo contro l'ex governatore veneto, però, l'hanno aperto i calabresi. Per un interrogativo che il neo ministro si era posto in un'intervista al Sole 24 ore: «I Bronzi di Riace sono stati trovati nei mari della Calabria ma solo per questo devono rimanere in quella zona?». «Più o meno come dire che sarebbe il caso di pensare a una sede diversa. E forse pensare che basterebbe uno schiocco di dita per trasferire altrove, magari in Padania, i Guerrieri che il mondo ci invidia», traduce la Gazzetta del Sud. La quale tuona: «Una levata di scudi compatta infrange il sogno del ministro». E giù reazioni più o meno indignate. Il governatore Peppe Scopelliti, diplomatico: «Sono convinto che si tratti di una frase estrapolata all'interno di un contesto molto più ampio. Comunque i Bronzi da Reggio non si muoveranno». Il sindaco Giuseppe Raffa, pugnace: «I Bronzi non rappresentano un patrimonio calabrese solo per un mero ritrovamento geografico. Fanno parte di una tradizione millenaria, quella della Magna Grecia che, vorrei ricordare, affonda le sue radici proprio nell'estremo lembo dell'Italia: essi sono l'emblema visibile e maestoso di una civiltà che si è irradiata partendo proprio dai territori Meridionali. Una storia millenaria che gelosamente custodiamo sul territorio».

Destra e sinistra, tutti insieme. Il senatore Luigi Meduri, storico esponente post-fascista: «Tra i Bronzi e la città c'è un legame indissolubile. Nessuno si illuda di reciderlo». Michelangelo Tripodi, il segretario regionale dei comunisti italiani: «È un'evidente dichiarazione di guerra condita da una barbara e insultante concezione neo-colonialistica, in salsa veneta e leghista» frutto di «uno spiccato anti-meridionalismo e un disprezzo per la Calabria, i calabresi, Reggio e i reggini». Giuseppe Bova, ex presidente del Consiglio regionale: «Gratta gratta il federalismo dei leghisti è solo a senso unico: quello di marca lombardo-veneta». Uno strafalcione rilanciato dal quotidiano Il Domani, la cui cronaca inizia così: «Il neoministro della Cultura, il 55enne leghista veneto Giancarlo Galan...». Ora, se c'è un berlusconiano in rapporti pessimi da anni con la Lega Nord, della quale ha detto peste e corna (un esempio per tutti, la definizione delle ronde padane: «un mostruoso fai-da-te»), è lui, quello che per la mole corpulenta chiamano ironicamente il «Galan Grande». E può darsi che sul tema, come ha detto la soprintendente ai Beni archeologici calabresi Simonetta Bonomi, lei pure padovana, («non è informato sullo sforzo economico sostenuto per il restauro dei Bronzi e la sistemazione del Museo Nazionale») sia stato come ministro un po' spiccio.

Ogni calabrese consapevole che non è in ballo solo l'oltraggio all'onore regionale ma il modo in cui va difesa la propria terra, però, deve porsi alcune domande. La storia millenaria della Calabria è davvero «gelosamente custodita» come dice il sindaco nonostante la devastazione delle coste, compresa quella a nord di Riace dove sorge uno degli ecomostri più orrendi della penisola? È mai possibile che due tesori immensi come i Bronzi (che sarebbero il cuore dei più grandi musei del pianeta) abbiano un terzo dei visitatori paganti dello zoo di Pistoia, come ha denunciato sul Quotidiano della Calabria Antonietta Catanese? C'è chi dirà: è perché Reggio è fuori dal mondo. Può darsi, ma la Valle dei templi di Agrigento è più decentrata ancora, eppure stacca sei volte più biglietti: come la mettiamo? E non è assurdo che ci siano 60 custodi per una media inferiore a 100 di ticket a pagamento giornalieri? O che per avvertire i turisti che i Bronzi, in attesa della riapertura del museo restaurato, sono da mesi visibili al Consiglio regionale, non sia mai stato fatto un sito web in inglese e anzi la sovrintendenza sia stata costretta a pagare 25mila euro per affiggere dei cartelloni negli spazi pubblicitari comunali? E sempre lì torniamo: forse è sacrosanto che i capolavori stiano «sempre e comunque» dove sono stati trovati. Vale per i Bronzi di Riace, vale per la Venere di Morgantina appena rientrata da Los Angeles, vale per l'Atleta di Lisippo che tornerà a Fano nel cui mare fu ripescato. Confessiamo che dà il capogiro immaginare la solitudine della Nike di Samotracia se, tolta dallo scalone del Louvre, fosse riportata a Samothraki, 2.723 abitanti davanti alla costa turca di Canakkale, ma forse è giusto così. È offensivo ricordare però che quei capolavori occorre poi meritarseli e custodirli sul serio con amore?

Gian Antonio Stella

27 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/cronache/11_marzo_27/
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« Risposta #140 inserito:: Aprile 22, 2011, 05:11:42 pm »

Provocazione

«Ecco Marko Polo, esploratore croato» Se Zagabria ci scippa l'eroe del Milione

L'ex presidente va in Cina e celebra «il viaggiatore di Curzola» che ha avvicinato i due mondi


L'ex presidente croato Stjepan Mesic, scrive l'agenzia Hina, «ha inaugurato il museo dedicato a Marko Polo nella città cinese di Yangzhou». «Marko» Polo? Con la «k»? Esatto. Mesic ha anzi ricordato solennemente quel «viaggiatore del mondo nato in Croazia che ha aperto la Cina all'Europa». I cinesi, pare, hanno applaudito. Prova provata che le nostre autorità non sanno fare il loro mestiere: è mai possibile farsi scippare Marco Polo? La leggenda della «croatità» del grande commerciante e navigatore veneziano non è nuovissima. Qualcuno, secondo Alvise Zorzi che sulla città lagunare ha scritto un mucchio di libri dei quali uno proprio sull'autore de il Milione, la fa risalire a un'altra leggenda, quella che Marco fosse stato catturato dai genovesi nel 1298 in una battaglia nelle acque vicine all'isola di Curzola, in Dalmazia. Cosa che lo storico «serenissimo» esclude: «Pare piuttosto che, durante uno dei suoi viaggi, fosse finito nelle mani di corsari genovesi davanti a Laiazzo, sulla costa della Cilicia».

Ma il punto non è questo. Ammesso che possa esistere l'ipotesi che Marco fosse nato casualmente a Curzola (anche Italo Calvino, per dire, nacque casualmente a l'Avana ma a nessuno verrebbe in mente di definirlo uno «scrittore cubano»), non solo l'isola che oggi i croati chiamano Korcula era di cultura venezianissima, come testimoniano la città vecchia, le porte con il «Leon» e la cattedrale di San Marco, ma era un feudo della famiglia Zorzi. E tale sarebbe rimasta fino alla metà del quindicesimo secolo.

Attribuire natali «croati» non solo a Marco Polo ma a qualunque abitante della Curzola di allora solo perché oggi l'isola è in territorio croato, è una stravaganza storica. Con lo stesso metro, poiché l'antica Tagaste allora sede episcopale della Numidia si chiama oggi Souk Ahras ed è nell'attuale Algeria, Sant'Agostino per esser nato lì sarebbe un filosofo algerino. Settimio Severo, essendo nato nella romana Leptis Magna a due passi da Al Khums nell'attuale Tripolitania, sarebbe un imperatore tripolitano e Giustiniano nato nell'attuale Zelenikovo in Macedonia sarebbe un imperatore macedone o se volete, visto che governava nell'attuale Istanbul, turco. Per non dire di Giuseppe Garibaldi, che essendo di Nizza sarebbe un patriota francese.

Ridicolo. Non bastasse, spiega Zorzi, Marco Polo non nomina mai (mai) Curzola nel «Milione» dettato nelle prigioni di Genova a Rustichello da Pisa (un redattore di romanzi cavallereschi che si scrivevano allora in lingua d'oeil come in lingua d'oeil è il libro originariamente intitolato «Le livre de Marco Polo citoyen de Venise, dit Million, où l'on conte les merveilles du monde») né Curzola è mai nominata in tutti i documenti di famiglia conservati a Venezia.

Materiali abbondanti, dai quali è possibile risalire alla storia venezianissima di tutta la stirpe Polo (quasi certamente insediata dalle parti di San Trovaso) a partire dal X secolo: nati, morti, matrimoni, mogli, testamenti... Tutto.

Come è dunque possibile che l'ex presidente croato, se non vogliamo mettere in dubbio la cronaca dell'agenzia Hina ripresa dal quotidiano della minoranza italiana «La voce del popolo» di Fiume, sia stato invitato dalle autorità cinesi a inaugurare un museo del navigatore veneziano proprio a Yangzhou, dove Polo racconta di aver avuto incarichi amministrativi dall'imperatore Kubilai Khan e dove si sarebbe fermato anche, qualche anno dopo, il missionario Odorico da Pordenone? E com'è possibile che il nostro governo e le nostre autorità diplomatiche siano riusciti a far passare in Cina, con tutto il peso che ha per i reciproci rapporti di amicizia, gli scambi commerciali e il turismo, una figura immensamente famosa tra i cinesi quale quella dell'autore de «Il Milione»? Con tutto il rispetto per Stjepan Mesic, possiamo accettare che vada lì a ringraziare «per l'onore concessogli di essere lui a inaugurare un museo dedicato "a un viaggiatore del mondo nato in Croazia, il quale ha aperto la Cina all'Europa, e che con i suoi scritti ha anche risvegliato l'interesse dell'Europa per la Cina"»? Alla larga dal nazionalismo rancoroso e dal risentimento per l'espulsione di 350 mila italiani dall'Istria, dal Quarnero e dalla Dalmazia: abbiamo già visto, proprio nella ex Jugoslavia, cosa può succedere se si coltiva l'odio. È andata così, amen. Lo sgarbo di Yangzhou, però, è l'ultimo di una serie di «appropriazioni indebite» da parte dei nazionalisti di Zagabria di un patrimonio culturale che non è loro.

Vale per quei dépliant turistici di Spalato dove i nazionalisti slavi ribattezzarono il Leone di San Marco «Leone post-illirico». Vale per il promemoria «addomesticato» fornito a Giovanni Paolo II per la sua visita in Dalmazia del 1988 che indusse il Papa a dire che «Spalato e Salona hanno un'importanza del tutto particolare nello sviluppo del cristianesimo in questa regione, a partire dall'epoca croata e poi in quella successiva romana», come se gli slavi non fossero arrivati al seguito degli Avari tra il settimo e l'ottavo secolo ma un millennio prima. Vale soprattutto per la mostra nella Biblioteca Vaticana inaugurata in occasione del Giubileo da Franjo Tudjman, uno che nello sforzo di annientare anche il ricordo della cultura veneto-italiana si era spinto a definire Marco Polo «croato di stirpe e di nascita».

Si intitolava, quella mostra, «Arte religiosa e fede croata». Ma, a dispetto del tentativo di spacciare la Basilica veneziana di Parenzo quale «alta espressione dell'arte croata», lo stesso professor Miljenko Domijan, uno dei coordinatori, riconobbe col quotidiano «Novi List» che si trattava di una forzatura.

Effettivamente, spiegò lo studioso, l'esposizione spacciava col marchio croato tante opere figlie della cultura italiana: «Non si poteva fare altrimenti perché la produzione di esclusiva etnicità croata ha scarso valore. Non so proprio che cosa potremmo mostrare, sarebbe tutto sotto un certo livello». Furono così croatizzati il ritratto del vescovo di Spalato di Lorenzo Lotto, una Pietà del Tintoretto, un busto argenteo di Santo Stefano opera dell'oreficeria di Roma, una statua di San Giovanni da Traù del toscano Niccolò Fiorentino, l'arca di San Simone di Francesco da Milano (nel catalogo ribattezzato «Franjo iz Milana»), una tela del Carpaccio e ancora piani e documenti della cattedrale di Zara in stile pisano o di quella di Sebenico costruita da Giorgio Orsini da Zara. Croatizzato, si capisce, col nome di Juraj Dalmatinac...

Gian Antonio Stella

22 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #141 inserito:: Maggio 09, 2011, 06:25:00 pm »

15 MAGGIO, NON E' UN REFERENDUM

Risse elettorali problemi reali


«Era in ballo il sindaco di Pizzighettone», disse Silvio Berlusconi dopo le Amministrative malamente perse nel 1995. E c'è da scommettere che chiunque perderà le prossime Comunali cercherà di sdrammatizzare la sconfitta riducendone il significato a motivazioni locali esattamente come chiunque le vincerà suonerà la grancassa di un trionfo «nazionale». Fa parte del gioco.

L'impressione netta, tuttavia, è che mai come questa volta i temi della buona amministrazione delle città, dei paesi e delle contrade, dai trasporti pubblici alla gestione del verde, dalla manutenzione delle strade alla burocrazia degli sportelli, dai semafori all'urbanistica fino alla dotazione di una rete Internet da Paese moderno, siano rimasti sullo sfondo. Molto sullo sfondo.
In primo piano c'è ancora e sempre lo scontro frontale tra destra e sinistra, berlusconiani e antiberlusconiani, apocalittici contrapposti che in caso di vittoria degli avversari annunciano anni di siccità, invasioni di cavallette e carestie di latte per i bambini. Come se tutto il resto, davanti a questo conflitto epocale, fosse secondario. Quasi marginale.

Dice il Cavaliere che è colpa delle sinistre, che fanno di ogni occasione una guerra personale a lui, tanto da costringerlo ad appellarsi agli elettori: «Vincere le Comunali, soprattutto a Milano, servirà a rafforzare il governo nazionale». Dicono le opposizioni che è colpa di Berlusconi il quale, qualunque sia il tema sul tappeto, da Capo Passero a Vipiteno, trasforma tutto in un continuo referendum su di lui.

Certo è che anche un tema drammaticamente concreto, come quello delle montagne di rifiuti nelle strade di Napoli, diventa l'ennesimo spunto per tornare sempre lì: qual è il mandato dei militari che battono i quartieri partenopei? Rimuovere il pattume o disinnescare la tensione in chiave elettorale? Evitare lo scoppio di epidemie o rinfrescare l'immagine di chi il problema «lo aveva già risolto»? E non saranno stati quei rifiuti lasciati lì apposta per qualche oscuro complotto?

Il guaio è che questo tipo di scontro, oltre ad alimentare una litigiosità patologica e asfissiante non solo fra destra e sinistra ma dentro la stessa destra (vedi i mille conflitti tra Lega e Pdl in Lombardia) e la stessa sinistra (vedi il proliferare di liste di duri e puri a Torino e Napoli e non solo), sta producendo due danni collaterali gravissimi. Il primo è che i problemi reali e tangibili delle città, anche quando potrebbero essere affrontati e risolti con soluzioni condivise da tutti, diventano ulteriori motivi di risse ideologiche. Il secondo e conseguente è che, selezionati sempre più sulla base della loro fedeltà, della loro ortodossia, della loro combattività, gli amministratori locali sono spinti a dare il meglio di sé sul piano dei dibattiti televisivi e della campagna elettorale piuttosto che su quello della buona, oscura, quotidiana amministrazione. Col risultato che, bisognosi come siamo di una classe dirigente preparata, saggia, concreta e sobria, rischiamo di allevare solo ruspanti galli da combattimento.

Gian Antonio Stella

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« Risposta #142 inserito:: Maggio 10, 2011, 10:31:57 pm »

Amministrative

Ventimila candidati in trenta capoluoghi L'italiano scopre la passione per il seggio

Record a Villaricca: in lista un abitante ogni 80. Scende la quota di laureati. Tanti slogan deliranti

Villaricca, tra i comuni più poveri d'Italia, porta un nome che è una beffa. Di una cosa però è ricca davvero: di candidati. Che grondano da 24 liste come i grappoli di glicine ad aprile: sono 378. Uno ogni 80 abitanti. Un primato planetario. Ma dentro una patologia che riguarda tutta l'Italia. Cala il tessile, boccheggia il chimico, arranca il metalmeccanico e fatica l'automobilistico ma il settore della politica non conosce cali di produzione. Lo conferma un'inchiesta del Sole 24 Ore.

L'inchiesta spiega: «Soltanto nei 30 capoluoghi di provincia pronti al rinnovo dei consigli municipali, se si mettono in fila tutti i nomi che compaiono sui manifesti elettorali si arriva alla cifra di 20 mila candidature».

Un delirio. A Torino, come ha scritto Marco Imarisio sul Corriere, hanno impiegato due settimane per concentrare in una sola scheda i nomi dei 12 aspiranti sindaci e delle 37 liste che li sostengono e raccolgono complessivamente 1.500 candidati al consiglio comunale.
Per non dire degli altri 4.500 in corsa per le dieci circoscrizioni cittadine. Misura della scheda: 64 centimetri. Se sotto la Mole pensano d'aver fatto il record, però, si rassegnino: quello resta nelle mani di Messina. Dove alle comunali del dicembre 2005 si candidarono sotto 41 simboli la bellezza di 1.755 cittadini, tra cui 111 medici e il popolarissimo barista del «caffè 'ddu pappajaddu» Pippo Famulari più un'affamata orda di aspiranti consiglieri circoscrizionali. Il che costrinse la tipografia a stampare un lenzuolo elettorale mai visto nella storia: 97,5 centimetri di larghezza, 48,3 centimetri di altezza.

Dice tuttavia l'inchiesta del Sole che, nonostante il taglio dei seggi in palio nelle 11 province (264 invece di 328: 64 in meno) e nei comuni capoluogo in cui si vota (1.032 scranni invece di 1226: 194 in meno) il numero delle liste è aumentato, rispetto a cinque anni fa, del 13%. Arrivando a una quota mostruosa: 629 simboli. Tra i quali alcuni strabilianti. Come quello che troveranno sulla scheda gli elettori di Oria, provincia di Brindisi: il simbolo delle Persone Indipendenti Libere Unite.
In sintesi: Pilu.

Se quel genio di Antonio Albanese deciderà di dar battaglia in tribunale per difendere (come provocazione, si capisce) il copyright del «suo» partito, si vedrà. Certo è che il candidato sindaco di Oria impadronitosi della stralunata creatura di Cetto Laqualunque, cioè il poliziotto in pensione Francesco Arpa (memorabile il suo messaggio: «Arpa sindaco: tutta un'altra musica») è andato oltre.
E ha proposto slogan d'inarrivabile demenza. Un esempio: «Ti piace il P.I.L.U.? Dimostralo: vota Arpa sindaco!». Un altro? «Lista Pilu, che figata!». Parole che resteranno scolpite a ricordare come la lotta politica in Italia, dopo gli scontri epocali del passato tra democristiani e comunisti, abbia preso davvero una brutta china.

Il guaio è che sono rarissimi i Maradona nel calcio, rarissimi i Carreras nella lirica, rarissimi i Fellini nel cinema. Più ancora, rarissimi gli statisti. E più allarghi il numero dei calciatori, dei cantanti d'opera o dei cineasti più, fatalmente, abbassi il loro livello. Con una differenza: i mediocri negli altri settori vengono spietatamente eliminati, in politica no. Anzi, il mediocre fedele, obbediente, disposto a tutto pur di avere un seggio, una poltrona, uno strapuntino, viene sempre più preferito a chi palesa un briciolo di spirito critico.

Spiega lo studio Il mercato del lavoro dei politici di Antonio Merlo della University of Pennsylvania, Vincenzo Galasso della Bocconi, Massimiliano Landi della Singapore Management University e Andrea Mattozzi del California Institute of Technology, studio elaborato sui dati di tutti i parlamentari italiani dal 1948 al 2007, che «la percentuale dei nuovi eletti in possesso di una laurea è significativamente diminuita nel corso del tempo: dal 91,4% nella prima Legislatura, al 64,6% all'inizio della quindicesima. Un crollo di 27 punti». In America, per fare un paragone, i laureati in Parlamento sono invece saliti al 94%. Trenta punti sopra di noi.

Va da sé che quando gli inviati de Le Iene vanno a mettere il microfono sotto il naso dei nostri deputati e dei nostri senatori raccolgono le risposte che conosciamo e che hanno fatto ridere l'Italia: «Che cos'è Al Jazeera?» «Lei cosa pensa che sia... È un movimento dell'estremo... arabo... di carattere islamico, della Jihad... Così mi ricordo, almeno». «Che cos'è il Darfur?». «Sono cose fatte in fretta. Sono cose velocissime...». Per non dire degli strafalcioni su Garibaldi, l'incontro di Teano, Porta Pia... C'è poi da stupirsi se, visto il livello bassissimo di alcuni dei nostri rappresentanti incredibilmente finiti a Montecitorio o a palazzo Madama, una gran massa di persone cerca di uscire dalla propria condizione plebea per dare la scalata alla politica? Non è desiderio di partecipazione democratica: è una febbre di scalata sociale. «Se ce l'ha fatta lui: perché non noi?». Se non ci fossero, in questa turbolenta calca di assatanati, 1300 candidati nella sola Campania sotto osservazione da parte della polizia e dei carabinieri per gli ambigui rapporti con la criminalità organizzata (un candidato su cinque, circa) ci sarebbe da sorridere. Se non ci fossero personaggi come Ciro Caravà, che dopo essere stato candidato alle ultime Regionali nella lista di Anna Finocchiaro, cerca di essere rieletto sindaco di Campobello di Mazara spiegando agli elettori (lo ha scritto su Marsala.it Giacomo di Girolamo) di aver trovato un codicillo del 1971 che gli consentirà di non abbattere mille case abusive destinate alla demolizione, ci sarebbe davvero da sorridere.

I manifesti affissi sui muri sono spesso irresistibili. Alberto Astolfi, in canottiera marinara, declama a Rimini: «Ho sempre remato per la mia città». Paolo Farina si presenta come «un casertano con il verde in testa» e dalla crapa pelata nello spot gli spuntano foglie. Maria Grazia Bafaro spara grande grande una scarpa rossa col tacco a spillo che diventa una penna: «Donna pensante di sinistra». Antonio Gallina, candidato alle Comunali di Terrasini, schiera tre uova: «Gallina sindaco: schiudi il tuo domani». E insomma si buttano tutti in messaggi così strambi, eccessivi o deliranti che alla fine quasi non ti accorgi che sui muri di Bologna ci sono i manifesti anche di un gorilla con la cazzuola: «Un sindaco muratore per ricostruire la giungla banana su banana».
Tranquilli, è una provocazione: non è candidato. Almeno lui, no.

Gian Antonio Stella

10 maggio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #143 inserito:: Giugno 07, 2011, 02:07:44 pm »

I QUATTRO REFERENDUM

Meglio votare: fa bene a tutti

Dice il ministro della Salute Ferruccio Fazio che per lui votare ai referendum sarà «un bel problema» perché è residente a Pantelleria: «Spero di farcela, ma se non vado a votare non sarà per motivi ideologici». I suoi colleghi Maurizio Sacconi, Altero Matteoli, Giorgia Meloni e Claudio Scajola spiegano invece che no, loro non ci andranno alle urne proprio per far fallire le consultazioni.
Sulla stessa posizione sta Roberto Formigoni. Che a chi gli rinfacciava che «è grave che chi riveste un ruolo istituzionale dichiari di non voler partecipare a un istituto democratico che permette a tutti i cittadini di dire la propria», ha ricordato piccatissimo che «ai sensi delle leggi vigenti non vi è alcun obbligo per i cittadini di andare a votare». Compreso, ovvio, «il cittadino Formigoni». Il quale, dieci anni fa, quando il governo di sinistra fece esattamente come stavolta quello di destra e cioè rifiutò di abbinare le elezioni e il referendum sulla devolution lombarda fortissimamente voluto dal governatore e dalla Lega per non favorire il superamento del quorum, era furente: «Un killeraggio».

In realtà, come ricordava un giorno Filippo Ceccarelli, «chi è senza astensionismo scagli la prima pietra». Pier Ferdinando Casini, per dire, oggi si batte perché tutti vadano a votare ma sulla procreazione assistita era favorevole all'astensione pur avendo sostenuto nel 1997, quando l'invito ad «andare al mare» aveva mandato a monte, scusate il pasticcio, 7 quesiti, che «è sempre un giorno triste, quando le urne vengono disertate». E Piero Fassino, che a quell'appuntamento del 2005 era impegnatissimo a superare il quorum sulla procreazione, aveva due anni prima spiegato, a proposito dell'estensione dell'articolo 18 alle piccole imprese: «La strategia passa attraverso la richiesta ai cittadini di non partecipare». Perfino i radicali, che più coerentemente hanno sostenuto il valore democratico del voto referendario, hanno qualcosa da farsi perdonare. Fu Marco Pannella, infatti, a ventilare per primo l'ipotesi dell'astensione per far fallire lo scontro sulla scala mobile nel 1985. E da allora è sempre andata così. Da una parte quelli che vogliono vincere «pulito» con il quorum, dall'altra quelli che non vogliono rischiare di perdere e puntano a sommare il loro astensionismo a quello fisiologico. Indifferenti all'accusa, volta per volta ribaltata, di essere dei «furbetti».

Prima delle parole dette in questi giorni da Giorgio Napolitano, un altro presidente si era speso per la partecipazione. Carlo Azeglio Ciampi: «È ovvio che l'astensione è legittima, ma io ho votato per la prima volta a 26 anni, perché prima in Italia non era dato, e da allora l'ho sempre fatto perché considero il voto una conquista e un diritto da esercitare». Ecco, per costruire una democrazia compiuta, quali che siano i referendum sul tavolo, i valori in gioco, gli schieramenti politici, si potrebbe partire da qui. Dalla necessità di salvaguardare uno strumento di partecipazione che, dopo 24 fallimenti consecutivi a partire dal 1995, non possiamo più permetterci di mandare a vuoto. Certi cattolici come Mario Segni, controcorrente rispetto alle stesse scelte della Chiesa, decisero ad esempio di andare a votare anche sulla fecondazione assistita. Votarono da cattolici, non da atei, laicisti, anti-clericali. Ma votarono. Convinti che, se avessero vinto nelle urne, sarebbe stata una vittoria più bella che non quella ottenuta col trucco.

Gian Antonio Stella

07 giugno 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #144 inserito:: Luglio 07, 2011, 09:49:34 am »

LE VOGLIONO ABOLIRE, PERÒ...

Le province degli ipocriti

Sibari, che chiede di diventare capoluogo vantandosi di produrre «l'agrume migliore del mondo, le clementine», può tornare a sperare. E così Breno, 5.014 abitanti, capitale dei Camuni e della Valcamonica. E con loro Cassino e Guidonia, Busto Arsizio e Nola, Pinerolo e Melfi e tutte le altre aspiranti metropoli che sognano di avere finalmente lo status: cos'hanno meno di Tortolì e Lanusei, che capoluoghi già sono?


La bocciatura alla Camera della proposta di legge costituzionale per sopprimere le Province è il via libera ai cattivi pensieri e alle piccole megalomanie coltivate dai notabili locali. E a un nuovo incremento di quegli enti che già un secolo fa l'allora sindaco di Milano Emilio Caldara bollava come «buoni solo per i manicomi e per le strade», ma che da 59 che erano nel 1861 (il criterio era semplice: ciascuna doveva poter essere attraversata in una giornata di cavallo) sono via via saliti a 110. Garantendo oggi 40 poltrone presidenziali al Pd, 36 al Pdl, 13 alla Lega, 5 all'Udc, 2 a Mpa e Margherita e così via.


Dicono oggi quanti hanno votato contro la proposta dipietrista (leghisti e pidiellini, con molte dissociazioni) o l'hanno affossata astenendosi (i democratici, nonostante i «malpancisti») che non si possono affrontare questi temi con l'accetta, che occorre riflettere sui vuoti che si creerebbero, che è necessario stare alla larga dalle «tirate demagogiche» e così via... Insomma: pazienza. Tutti argomenti seri se questi pensosi statisti non li avessero già svuotati in decennali bla-bla.
Soppresse già alla Costituente dalla Commissione dei 75, ma resuscitate dall'Assemblea in attesa delle Regioni, le Province avevano quella data di scadenza: il 1970. Ma quando le Regioni arrivarono, Ugo La Malfa invocò inutilmente la soppressione dei «doppioni»: il Parlamento decise di aspettare il consolidamento dei nuovi enti. Campa cavallo... Quarant'anni dopo, non c'è occasione in cui il problema non sia affrontato con il rinvio a un «ridisegno complessivo», a una «riscrittura delle competenze», a una «grande riforma» che tenga dentro tutto.


Basti rileggere quanto decise la Camera il 12 ottobre 2009 quando finalmente, per la cocciutaggine di Massimo Donadi e dell'Italia dei Valori, l'abolizione delle Province, sventolata in campagna elettorale da Silvio Berlusconi e, sia pure con accenti diversi, da Walter Veltroni, arrivò finalmente in Aula. La delibera di Montecitorio diceva che la riforma degli enti locali era «urgente e necessaria al fine di rimuovere la giungla amministrativa e di ridurre i costi della politica», denunciava la «proliferazione di innumerevoli enti» e «un intreccio inestricabile di funzioni che genera inefficienza e rende difficile la decisione amministrativa» e rinviava tutto al sorgere del mitico sole dell'avvenire berlusconian-federalista. E cioè alla «imminente presentazione di un disegno di legge recante la Carta delle autonomie locali».


Da allora sono passati, inutilmente, altri due lunghi anni e mentre la crisi azzannava i cittadini, gli artigiani, le piccole e grandi imprese causando crolli apocalittici, disperazione e suicidi, i palazzi del potere davano qui una sforbiciatina del tre per cento, lì del tre per mille. E quelle epocali riforme che dovevano ridisegnare tutto per restituire al Paese la forza, l'efficienza, la stima in un classe dirigente credibile, tutte cose necessarie per affrontare questi tempi bui, dove sono? Sempre lì torniamo: taglia taglia, hanno tagliato i tagli.

Gian Antonio Stella

06 luglio 2011 08:04© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #145 inserito:: Luglio 16, 2011, 04:53:28 pm »

La lettera

Lodo Mondadori e tutela di chi paga

Ma a me Mannino non ridà i soldi


Caro direttore,
«e se poi De Benedetti perdesse in Cassazione e non desse i soldi indietro al Cavaliere?». Per giorni, prima che Mediaset facesse sapere che avrebbe pagato, i parlamentari berlusconiani hanno posto questo pensoso interrogativo. E c'è stato chi ha teorizzato la necessità di una leggina, già tentata nella manovra, per evitare che un cittadino condannato debba versare un centesimo prima della conferma in Cassazione. A me è successa una cosa curiosa: un parlamentare al quale avevo disciplinatamente dato 15.752 euro dopo aver perso una causa civile in primo grado, da oltre due anni non mi restituisce quei soldi, come gli imporrebbe la legge, dopo avere perso lui l'Appello, che ha riconosciuto che avevo ragione io. Coerenze...

Il galantuomo in questione è Calogero Mannino, che nel libro Lo spreco edito nel 1998 da Baldini & Castoldi, citavo come uno degli sponsor, in quanto patriarca politico dell'area, del progetto di fare di Sciacca la «Marienbad del Mediterraneo». Un progetto così megalomane da aver lasciato in eredità, tra l'altro, un galoppatoio dove mai ha corso un cavallo, un orribile teatro perennemente incompiuto, una piscina con una vasca non di 25 o 50 metri regolamentari ma 33 (!) poi prolungata con un nuovo appalto, un corso professionale per 290 sguatteri, portieri e banconisti così spropositato che ogni cameriere addestrato venne a costare 53 milioni dell'epoca (circa 150 mila euro d'oggi) manco dovesse pilotare un elicottero e così via... Per non dire dell'acquisto di due orche marine tenute a pensione per anni in Islanda, in attesa di costruire il parco acquatico poi mai fatto, al modico prezzo di 121 mila euro attuali al mese di vitto e alloggio.

Dichiarandosi diffamato, Calogero Mannino chiese un miliardo e 650 milioni di risarcimento. Il giudice Domenico Bonaretti, della I sezione del Tribunale civile di Milano, gli diede parzialmente ragione. E mi condannò a pagare al parlamentare oggi passato ai «Responsabili», come risarcimento e spese di giudizio varie, 15.752 euro e 50 centesimi. Gli avvocati Laura Cavallari, che tutelava la casa editrice, e Caterina Malavenda, che tutelava me, nella convinzione che la condanna potesse essere ribaltata in Appello, chiesero la «sospensiva». La stessa concessa, per una cifra immensamente più alta, al Cavaliere nei confronti di De Benedetti. Risposta: no. Rispettoso della legge, nonostante ritenessi quella condanna ingiusta, pagai senza tirarla lunga. E così fece per la sua metà la Baldini & Castoldi.

Quattro anni di lunga attesa e finalmente, il 29 aprile 2009, arrivò la sentenza della II sezione civile della Corte d'appello di Milano. Che, sulla base di tutti i documenti che avevamo presentato, ribaltò il verdetto di primo grado e riconobbe che «effettivamente sullo sfondo della vicenda Sitas vi era anche Mannino, che aveva il duplice interesse di favorire lo sviluppo della sua città e, nel contempo, stante la coincidenza con il suo collegio elettorale, di beneficiare politicamente, come sostenitore dell'iniziativa, dell'effetto di ritorno della stessa». Oltretutto «ben poteva esprimere il proprio appoggio politico anche interessandosi ai possibili finanziamenti pubblici - che in effetti poi risultano essere stati erogati - tanto più in considerazione dello specifico ruolo di assessore regionale alle finanze all'epoca rivestito». Il parlamentare fu quindi condannato a pagare le spese processuali. A quel punto avrebbe dovuto ovviamente restituire quel che gli era stato versato per un totale di 65.609 euro. A me verrebbero, e ci dovrei pagare l'avvocato, 31.872,66 euro.


Da quel momento ogni sollecitazione telefonica, ogni lettera ufficiale, ogni richiamo alla legge che prevede sì la sospensiva (a me, ripeto, non concessa) per chi deve pagare, ma non per chi deve restituire, se perde, quanto ha già incassato (anche se fa ricorso in Cassazione, come lui) sono stati totalmente inutili. Cosa dovevo fare: avventurarmi nella richiesta di sequestro di qualche suo bene? Troppo dispendioso, vista l'aria che tira. Tanto più che lo stipendio da parlamentare, poco meno di 15 mila euro netti al mese con l'accumulo di indennità e rimborsi vari, non è pignorabile. Piccolo e ulteriore privilegio della casta. Dimmi tu, caro direttore: con quale spirito leggeresti al posto mio certi interventi di questi giorni intorno ai destini di quell'altra lite giudiziaria, interventi gonfi di una insopportabile ipocrisia? Io, dopo la prima (e a mio avviso ingiusta) sentenza, pagai senza fiatare. Lo diceva la legge: fine. Il signor Mannino, che come parlamentare della Repubblica le leggi è chiamato a farle, pensa di esserne esentato?

Gian Antonio Stella

16 luglio 2011 09:49© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #146 inserito:: Agosto 08, 2011, 10:08:05 am »

L'agenda Province, vitalizi, trasparenza: gli interventi possibili. E doverosi

Costi della politica: tutti i tagli che si possono fare subito

Riduzione dei parlamentari: l'intesa è solo a parole


Vogliono la fiducia dei cittadini in questo momento nero? Se la guadagnino. Il governo, la maggioranza e la stessa opposizione non possono chiedere un centesimo agli italiani senza parallelamente (anzi: prima) tagliare qualcosa di loro. Conosciamo l'obiezione: non sarà un taglio di 1000 euro dallo stipendio reale (l'indennità è solo una parte) di deputati e senatori a risolvere il problema. Perfino se tutti fossero condannati a lavorare gratis risolveremmo un settemillesimo della manovra. Vero. Ma stavolta non hanno scelta: è in gioco la loro credibilità.
Per partire devono aver chiaro un punto: il perfetto è nemico del bene. In attesa di una ridefinizione generale dello Stato (campa cavallo) certe cose si possono fare subito. Alcune simboliche, altre di sostanza.


Sono stati presentati nove progetti di legge, dall'inizio della legislatura, per ridurre o addirittura dimezzare il numero dei parlamentari. Da destra, da sinistra... Dove sono finiti? Boh... Sono tutti d'accordo, a parole? Lo facciano, quel taglio. Senza allegarci niente. Sennò finisce come sempre finisce: la sinistra ci aggancia una cosa inaccettabile dalla destra, la destra ci aggancia una cosa inaccettabile dalla sinistra. E tutto resta come prima. Esattamente il giochino della riforma bocciata al referendum del 2006, che vedeva sì una modesta riduzione da 630 a 518 deputati, da 315 a 252 senatori (non il dimezzamento sbandierato: quella è una frottola) ma anche uno svuotamento dei poteri del Quirinale e un aumento dei poteri del premier. Dettagli che garantivano la bocciatura: la sinistra non l'avrebbe votato mai. Vogliono ridurre davvero? Trovino un accordo e lo votino tutti insieme: non servirà neanche il referendum confermativo. Sennò i cittadini sono autorizzati a pensare che sia solo propaganda. Come propaganda appare per ora la mega-maxi-super-riforma votata dal Consiglio dei ministri il 22 luglio. Se era così urgente perché non risulta ancora depositata e non se ne trova traccia neanche nel sito di Palazzo Chigi? Era sufficiente l'annuncio stampa? Forse erano più urgenti le vacanze.


Non si possono abolire subito le province senza ripartire parallelamente le competenze e i dipendenti? Comincino a toglierle dal tabù della Costituzione e a sopprimere quelle che hanno come capoluogo la capitale regionale destinata a diventare area metropolitana o non arrivano a un numero minimo di abitanti.


Vogliono inserire il pareggio di bilancio nella Costituzione? Inizino col riconoscere, concretamente, che la cosa oggi più lontana dal pareggio sono le pensioni dei parlamentari: alla Regione Lazio i contributi versati sono un decimo di quanto esce per i vitalizi. Alla Camera e al Senato un undicesimo. Al netto dei reciproci versamenti addirittura un tredicesimo. Immaginiamo la rivolta: non si toccano i diritti acquisiti! Sarà, ma quelli dei cittadini sono già stati toccati più volte.
Deve partire una stagione di liberalizzazione? Partano introducendo una regoletta esistente nei Paesi più seri: un deputato pagato per fare il deputato può far solo il deputato. Un caso come quello di Antonio Gaglione, il parlamentare pugliese espulso dal Pd per avere bucato il 93% delle sedute e così assenteista («preferisco fare il medico»), da bigiare addirittura il passaggio chiave del 14 dicembre scorso che vide Berlusconi salvarsi per pochissimi voti dalla mozione di sfiducia, in America è impensabile. E così quelli dei tanti avvocati (uno su sette alla Camera, uno su sette al Senato) e professionisti di ogni genere che pretendono di fare l'una e l'altra cosa. Dice uno studio de «lavoce.info» che un professionista che continua a fare il suo lavoro anche dopo l'elezione «bigia» in media il 37% in più degli altri parlamentari. Basta.


Negano di intascare i soldi destinati ai collaboratori non messi in regola e pagati in nero? La riforma è già pronta e depositata: il deputato o il senatore fornisce al Parlamento il nome del collaboratore di fiducia e questi viene pagato direttamente dal Parlamento. Ed ecco che l'«equivoco infamante» su certe furbizie sarebbe all'istante risolto.


Il vero cambiamento, però, quella rivoluzionario, sarebbe la decisione di spalancare finalmente le porte alla legittima curiosità dei cittadini. Massima trasparenza: quella sarebbe la svolta epocale. Se un americano vuole vedere se «quel» deputato che si batte per la ricerca farmaceutica ha avuto finanziamenti, commesse, incarichi professionali da un'azienda di prodotti farmaceutici va su Internet e trova tutto. Se un tedesco vuol sapere se «quel» deputato ha guadagnato dei soldi fuori dal Parlamento e in che modo, va su Internet e trova tutto. Se un inglese vuole conoscere i nomi di chi quel giorno ha viaggiato su quel volo blu dal 1997 ad oggi o quanto spendono a Buckingham Palace per le bottiglie di vino va su Internet e trova tutto.


Da noi per avere le sole dichiarazioni dei redditi dei parlamentari un cittadino di Vipiteno o di Capo Passero deve andare a Roma, presentarsi in un certo ufficio della Camera o del Senato, dimostrare di essere iscritto alle liste elettorali e poi accontentarsi di sfogliare un volume senza manco la possibilità di fare fotocopie. Per non dire del Quirinale dove ogni presidente, per quanto galantuomo sia, pur di non smentire la cautela del predecessore, mantiene riservato il bilancio del Colle limitandosi a dare delle linee generali. Che magari sono sempre meno oscure ma certo sono lontanissime dalla trasparenza britannica.


Cosa risparmieremmo? Moltissimo. Un solo esempio: sapere che il passaggio dato su un volo di Stato a una ballerina di flamenco finirebbe all'istante sui giornali, spingerebbe automaticamente a ridurre se non a eliminare del tutto certi «piacerini». Lo stesso vale per certi voli elettorali vietati, come ricorda una dura polemica sui giornali, anche in Turchia. Il governo, la maggioranza e l'opposizione (per quanto possa incidere) ritengono di avere, sui costi della politica, la coscienza a posto? Pensano di avere tagliato il massimo del massimo e che non si possa tagliare di più? Mettano tutto online. Con un linguaggio non inespugnabile. Ma soprattutto, vale per la destra e per la sinistra, la smettano una volta per tutte di gettare fumo fingendo di fare confusione (confusione voluta, ipocrita, pelosa) tra il qualunquismo, la demagogia e il diritto di sapere dei cittadini. Che sudditi non sono.

Sergio Rizzo
Gian Antonio Stella

08 agosto 2011 08:56© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/politica/11_agosto_08/rizzo-stella-costi-politica_b01dca7c-c17e-11e0-9d6c-129de315fa51.shtml
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« Risposta #147 inserito:: Agosto 10, 2011, 11:41:34 am »

Il caso

Ponti e vacanze, i record degli onorevoli

«Quello che stupisce è lo stupore di quanti proprio non si aspettavano il sussulto di indignazione dei cittadini»


MILANO - Uffa, la crisi planetaria! Travolti da un'ondata di proteste, letteracce, ironie, commenti, moccoli e invettive, i «furbetti del pellegrino» hanno dovuto fare retromarcia: invece di cinque settimane e mezzo di vacanza ne faranno «solo» quattro e mezzo. Decisione saggia. Meglio tardi che mai. Quello che stupisce è lo stupore di quanti proprio non si aspettavano il sussulto di indignazione dei cittadini. A loro parziale attenuante va detto che per decenni i deputati, nazionali e regionali, sono stati abituati a pigliarsela comoda. Basti ricordare la sosta invernale più lunga della storia, decisa agli sgoccioli del 2001 dall'Ars, l'assemblea regionale siciliana. Che dopo essere arrivata stremata al 21 dicembre, avendo lavorato con febbrile solerzia quasi due ore la settimana (senza manco riuscire a varare il bilancio) aveva deciso di aprire la strada al ponte di Messina con uno spettacolare «ponte» virtuale.

IL PONTE - Un «ponte» a sette campate settimanali che congiungeva il Natale a Capodanno, il Capodanno alla Befana, la Befana alla Settimana bianca e la Settimana bianca al Carnevale. Dandosi appuntamento per il 12 febbraio successivo. Totale di 52 giorni. E se quello resta il record, va detto che c'è chi ha tentato di insidiarlo. Come il parlamentino regionale dell'Abruzzo che l'anno scorso, dopo essersi riunito un'ultima volta il 9 marzo decise di fissare la riunione successiva il 20 aprile per un totale di 42 giorni. Pasqua, Pasquetta più qualche settimana prima e qualche settimana dopo. Lo stesso Parlamento romano non ha storicamente dato prova, sul versante vacanziero, di stakanovismo. È verissimo che l'attività a Montecitorio e a Palazzo Madama, da anni, riprendeva nella seconda settimana di settembre. A volte con qualche slittamento in avanti.

L'ESEMPIO - Un esempio? Rileggiamo l'Ansa del 29 luglio 2007: «L'Aula della Camera chiude i battenti domani per la pausa estiva: i lavori dell'Assemblea dopo le vacanze riprenderanno il 14 settembre, mentre il 7 settembre torneranno a riunirsi le commissioni parlamentari. È quanto ha stabilito la conferenza dei capigruppo di Montecitorio». Totale: 46 giorni. Alla faccia di tutte le polemiche che infuriavano intorno ai costi della politica. Anche quella volta, per inciso, c'era di mezzo un pellegrinaggio. Al Monte Athos, in Grecia. Da dove gli onorevoli viandanti, guidati da monsignor Rino Fisichella, cappellano di Montecitorio, tornarono addirittura il 17. Settimana più, settimana meno... Conosciamo l'obiezione: le sedute d'aula sono solo una parte del lavoro parlamentare, è più corretto calcolare le commissioni. Giusto.

LO STUDIO - Riprendiamo dunque uno studio del Sole24Ore di tre anni fa: «Poco più di un'ora: tanto è durata in media una seduta delle commissioni del Senato nella passata legislatura. Alla Camera ci si è fermati a 42 minuti. Poca roba contro le oltre cinque ore che Montecitorio ha dedicato alle sedute d'aula, due in più di quelle dell'assemblea di Palazzo Madama».

LE COMMISSIONI - Veniamo alla legislatura d'oggi? Mediamente ognuna delle 14 commissioni permanenti della Camera ha lavorato nel 2010 per 8.645 minuti: 2 ore e 46 minuti la settimana. Ancora meno hanno lavorato quelle speciali, bicamerali e d'inchiesta. Un paio di casi: nel luglio 2011 la Commissione per l'infanzia e l'adolescenza presieduta da Alessandra Mussolini si è riunita due volte per un totale di due ore e 15 minuti: 34 minuti a settimana. Sempre a luglio la commissione per il controllo sugli enti previdenziali presieduta da Giorgio Jannone si è riunita tre volte per un totale di un'ora e 50 minuti: 27 minuti a settimana. Da stramazzare per lo sforzo. Non bastasse, il dipietrista Carlo Monai racconta all'Espresso che nella sua commissione «su una quarantina di membri, se ce ne sono una decina presenti è grasso che cola». Quanto all'aula, nel 2010 l'assemblea di Montecitorio si è riunita per 760 ore e 16 minuti: 14 ore e 27 minuti a settimana. Più di un quarto del tempo (quasi 219 ore) è stato però dedicato alle interrogazioni e ai question time , dove non c'è quasi mai nessuno. Altre 82 ore se ne sono andate in discussioni che riguardavano il destino di questo o quel parlamentare, per decisioni della giunta per le autorizzazioni a procedere o della giunta per le elezioni. Per la «mission» vera e propria, l'attività legislativa, sono rimasti 459 ore e 54 minuti: 8 ore e 50 minuti la settimana. Lavorassero davvero dal lunedì al venerdì come invocava Gianfranco Fini, sarebbero impegnati sulle leggi un'ora e 46 minuti al giorno. Applausi.

LA DECISIONE - È in questo contesto che va inquadrata la decisione presa martedì dalla conferenza dei capigruppo di riaprire i battenti solo il 12 settembre. Una decisione sbalorditiva: ma come, nel giorno della nuova caduta della borsa, del nuovo record di 384 punti base dello spread Btp/Bund, dello smottamento della Fiat nella scia dell'annuncio che le immatricolazioni di auto sono crollate ai livelli del 1983, dell'attacco della speculazione internazionale all'Italia? Come potevano pensare che un scelta così passasse liscia? Per questo mai retromarcia è stata benedetta («se si commette un errore è sempre meglio tornare sui propri passi che perseverare», ha spiegato Fini) quanto quella presa ieri in una nuova riunione dei capigruppo pretesa da Pd, Fli e dall'Italia dei valori, che da subito avevano contestato la vacanza lunghissima.

LE REAZIONI - Resta lo sbalordimento per certe reazioni di fastidio per l'irritazione dei cittadini. Come quella di Paola Binetti: «Se questo deve diventare l'ennesimo attacco alla classe politica, è chiaro che la ripresa dei lavori della Camera deve avere la priorità». Traduzione: se i qualunquisti non rompessero le scatole... Ancora più curiosa la resistenza del leghista Marco Reguzzoni. L'ultimo a difendere la vacanza lunga: «Non è possibile che il Parlamento calpesti la propria dignità cedendo alle pressioni dei giornali!». Chissà cosa avrebbero detto, a sentirlo, i leghisti duri e puri di qualche anno fa...

Gian Antonio Stella

04 agosto 2011 20:32© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/politica/11_agosto_04/stella-ponti-onorevoli_4a5ecee2-be5a-11e0-aa43-16a8e9a1d0c7.shtml
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« Risposta #148 inserito:: Settembre 05, 2011, 10:48:38 am »

L'iniziativa risale a quattro anni fa

Grillo, le sue 350 mila firme e la dimenticanza del Senato

Depositate a corredo di 3 ddl, non sono mai state esaminate


Non gliene importa niente? Aboliscano l'articolo 71 della Costituzione. Almeno i cittadini verranno ufficialmente informati: al Parlamento, dei disegni di legge di iniziativa popolare previsti dalla Carta, non interessa un fico secco.

La prova: da quattro anni il Senato evita accuratamente di esaminare le proposte presentate da Beppe Grillo e firmate da oltre 350.000 italiani. Sette volte di più di quelle necessarie.

Riassumiamo? A metà dicembre del 2007, nella scia delle polemiche intorno ai costi della politica e «V-Day», il comico-capopopolo genovese si presenta a Palazzo Madama, pedalando su un risciò (anche lo show vuole la sua parte...) per consegnare una catasta di sottoscrizioni raccolte in un solo giorno su tre disegni di legge. Sintesi: 1) Nessun cittadino può candidarsi in Parlamento se condannato in via definitiva o in primo e secondo grado in attesa di giudizio finale. 2) Nessuno può essere eletto alle Camere per più di due legislature (10 anni). 3) Basta con i deputati e i senatori «nominati» dai capi partito e via alla riforma elettorale perché possano essere votati dai cittadini con la preferenza diretta. Giusto? Sbagliato? Libero ciascuno di pensare che si tratti di proposte ottime o pessime, utili o inutili, virtuose o demagogiche. C'è reato e reato, dirà qualcuno, e un conto è avere nella fedina penale una condanna per tangenti su un reparto di leucemia e un altro per aver violato, facendone una battaglia politica (e non violenta, ovvio) una legge considerata ingiusta e da cambiare. E c'è chi sottolineerà come escludendo automaticamente tutti dopo due legislature ci saremmo risparmiati tantissimi somari ma avremmo perso anche un pò di purosangue. Per non dire dei dissensi sulla legge elettorale... Ma qui sta il nocciolo della questione: i senatori hanno il diritto di prendere uno per uno questi disegni di legge, valutarli, decidere che si tratta di sciocchezze e buttare tutto nel cestino. È nelle loro incontestabili facoltà. Quello che non possono fare è di infischiarsene di quelle proposte facendo finta che non siano mai arrivate. Lo ammise un anno fa, dopo una fiammata di polemiche, lo stesso Renato Schifani: «Sono favorevole affinché i ddl di iniziativa popolare, a prescindere dai loro contenuti, abbiano una risposta da parte del Parlamento. È un diritto e un dovere del Parlamento. Si deve riconoscere ai cittadini che hanno presentato una proposta popolare il diritto assoluto di avere una risposta».

Lo dice la Costituzione all'articolo 71: "L'iniziativa delle leggi appartiene al governo, a ciascun membro delle Camere ed agli organi ed enti ai quali sia conferita da legge costituzionale. Il popolo esercita l'iniziativa delle leggi, mediante la proposta, da parte di almeno cinquantamila elettori, di un progetto redatto in articoli". E gli articoli 48 e 49 della Legge 25 maggio 1970, n. 352 precisano tutti i dettagli perché questo strumento di democrazia possa avere piena dignità.
Il guaio è che i nostri padri costituenti non avevano tenuto conto di una sventurata ipotesi. Quella che in Parlamento si affermassero maggioranze prepotenti decise a svuotare questo istituto. Sia chiaro: di destra o sinistra non importa. E lo dimostra il destino dei progetti "grillini", ignorati sia in questa sia nell'altra legislatura. Fatto sta che, come spiega Michele Ainis, la facoltà solennemente riconosciuta dalla Carta Costituzionale alla volontà popolare di proporre delle leggi si è ridotta di più e né meno che al ruolo che avevano un tempo le suppliche al sovrano. Con il Parlamento che si arroga il diritto di occuparsene o meno così, a capriccio. Come quei monarchi annoiati che, mollemente adagiati sul trono, decidevano il destino di questo o quel poveretto condotto al loro cospetto sollevando o abbassando il mignolo inanellato.

Dicono: ma Beppe Grillo è stato uno screanzato. E ricordano che, convocato a Palazzo Madama (audizione obbligatoria: mica una gentile concessione), il comico genovese fondatore del Movimento 5 stelle, ne disse di cotte e di crude contro «questo Parlamento di nominati in cui sono stati scelti amici, avvocati e qualche zoccola». Affermazione che, buttata lì prima dei fuochi d'artificio sul «ciarpame senza pudore» accesi dalle accuse di Veronica Lario, sollevò un'ondata di proteste.

Verissimo: la scelta di Grillo di usare un linguaggio spiccio e ricco di parolacce è una cosa che gli viene rinfacciata anche dagli amici e suona insopportabile alle orecchie di chi in Parlamento dice cose spesso oscene però sventolando educatamente il ventaglio. Ma può bastare per ignorare le proposte di 350 mila cittadini? Vogliamo ricordare, almeno, che per legge i promotori dei Ddl di iniziativa popolare dovrebbero esser convocati entro un mese e il comico «indignato» ebbe l'opportunità di dire la sua dopo un anno e mezzo e solo dopo aver avvertito il presidente della commissione affari costituzionali Carlo Vizzini che gli avrebbe appiccicato addosso migliaia di «pittime», quei petulanti personaggi seicenteschi vestiti di rosso che si attaccavano per mesi ai debitori senza sfiorarli con un dito ma ricordando loro ossessivamente il debito da pagare? Disse quel giorno Grillo ai commissari: «Datemi una data di quando sarà discussa l'iniziativa popolare per l'elezione dei parlamentari, per lasciare fuori i condannati e scegliersi il parlamentare anziché trovarselo nominato, e mi manderete via contento». Macché: vuoto pneumatico. Al punto che se domani mattina la legislatura subisse un infarto, quelle proposte evaporerebbero nel nulla.

C'è poi da stupirsi se il 10 settembre, quattro anni dopo la raccolta delle firme, il comico si presenterà a Roma per chiedere che gli siano restituite quelle carte sottoscritte da 350.000 cittadini perché è ormai chiaro che il Senato non ritiene quelle proposte neppure degne di essere esaminate e cestinate? Una cosa è certa: che Beppe Grillo abbia ragione o torto nel merito dei disegni di legge (e a questo punto la cosa è del tutto indifferente), i senatori hanno perso un'altra occasione per riaprire dalla loro torre d'avorio un dialogo coi cittadini.

E con il loro assordante silenzio spingono a ripetere quella domanda fastidiosa: l'articolo 71 è ancora in vigore o è stato abolito?

Gian Antonio Stella

05 settembre 2011 08:06© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/politica/11_settembre_05/grillo-firme-stella_e40b6fca-d77b-11e0-af53-ed2d7e3d9e5d.shtml
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« Risposta #149 inserito:: Settembre 13, 2011, 03:35:21 pm »

La stampa straniera: cerca di mantenere UN ASPETTO GIOVANILE CON ZELO COMICO

L'estetica di Berlusconi

La rivendicazione dei «ritocchi»: si diventa più belli, stimo chi lo fa


«Esiste un nesso indissolubile tra il corpo fisico e il corpo politico di Silvio Berlusconi», diceva il suo «cappellano» Gianni Baget Bozzo. Anzi, aggiungeva: «Il suo messaggio fa corpo con la sua persona». Se è così, il Cavaliere visto alla festa di Atreju non ha reso un buon servizio a sé e al suo governo. Spalmando se stesso e la manovra con una dose così esagerata di cerone e di ottimismo da creare un nesso funesto. Nocivo alla credibilità sia della sua baldanza giovanile sia della manovra.

È umano il tentativo di Sua Emittenza di rallentare il più possibile lo scorrere del tempo. Lo scriveva già, angosciato, Francesco Petrarca: «La vita fugge, et non s'arresta una hora, / et la morte vien dietro a gran giornate...». E certo lui dirà di non essere il solo ad avere certe debolezze, come quella chioma artificiale che sembra una calotta dai bagliori fluorescenti bollata da Beppe Grillo col nomignolo di «testa d'asfalto». Anche Romano Prodi fu accusato di essere un po' troppo nero-crinito. E la cosa gli seccò al punto che mandò una lettera di suo pugno per lamentarsi di un articolo dove si accennava «senza se e senza ma, alla "tintura dei capelli" di Prodi». Falso, giurò: «Mai ho trattato i miei capelli con alcuna tintura, brillantina, prodotto di qualsiasi genere, naturale o sintetico».

Il Cavaliere, anzi, è addirittura convinto del valore morale del ritocco. E anche se davanti alle ironie su una aggiustatina disse «io il lifting non lo volevo fare, è stata Veronica a spingermi» (immediata smentita dell'allora consorte: «No: idea sua»), ha spiegato cosa pensa della chirurgia estetica: «Io stimo le donne che si sottopongono a queste operazioni. Sono ancora più belle, perché la loro bellezza se la sono meritata». Di più, ha teorizzato una sorta di training autogeno: «Ogni mattina davanti allo specchio io mi guardo e mi ripeto: "Mi piaccio, mi piaccio, mi piaccio". Ricordatevi: se uno piace a se stesso, piacerà anche agli altri!». E tanto ha insistito su questo punto da concedere compiaciuto ai suoi collaboratori di rivelare qualche piccolo segreto. Come quelli raccontati al Times da Massimiliano Lucci, il truccatore che secondo il quotidiano londinese gli aveva tolto «un po' di colorito arancione». Dichiarò dunque il visagista che il premier «ha una bella pelle, per lui uso una crema idratante ultraleggera Chanel e dei fondi francesi, tutto qui. Niente agli occhi: né rimmel, né quel kajal bianco, quella matita bianca dentro gli occhi che ho visto utilizzata anche per alcuni leader politici. Sul viso del presidente bastano soltanto un buon fondotinta, qualche ombra e una cipria dorata». Fondotinta che lui stesso, come rivelò una foto galeotta scattata da Alessandra Tarantino, ripassa con frequenza e mano esperta anche durante le cerimonie ufficiali fingendo di asciugarsi il viso con un fazzoletto che nasconde il tampone.

Non c'è nulla, spiegò un giorno Filippo Ceccarelli, che lui faccia per caso: «Via la cravatta (discorso del predellino), maglione sotto la giacca (operativo in Abruzzo), maglione e maniche rimboccate (operativissimo)». Va da sé che in mezzo ai giovani di Atreju della Giovane Italia si è presentato in camicia blu-nera, gajarda e sbottonata. Giovane tra i giovani. Anzi, giovanissimo tra i giovanissimi. L'aveva già fatto, tra quei ragazzi che sente «suoi», nel 2008: «Mi fa piacere stare qui tra coetanei». E poi nel 2009. E ancora nel 2010. È un gioco che adora: «Su di me dicono molte falsità, persino che sono un vecchietto e che non mi sento bene. Ma io mi sento giovanissimo e sto benissimo». «Quando mi guardo allo specchio mi piace sentirmi giovane. Mi sento di avere 40-42 anni e faccio ancora i cento metri in un ottimo tempo». «Il mio cuore è bradicardico, perché in gioventù ho fatto un sacco di sport. Ora mi sento forte, giovane e prestante e sono pronto a innamorarmi». «In realtà di anni ne ho 35: sentite che muscoli!».

Il fatto è che i suoi, davanti a questo gioco, sorridono bonari. O si concedono al massimo una battuta, come quella che gli dedicò il Foglio di Ferrara per la penna birbante di Mattia Feltri: «Che bello il Cav. con il lifting. Non gli si darebbe più di quarant'anni. Con le attenuanti generiche, anche trentacinque». Gli altri, però, sono meno benevoli. E troppo spesso capita di trovare sui giornali stranieri vignette o giudizi come quelli del francese Le Monde : «Berlusconi è un uomo vanitoso, che cerca di mantenere un aspetto giovanile, a volte con uno zelo quasi comico».
Chi gli è vicino e gli vuole bene glielo dovrebbe dire: basta, lasci perdere il modello della Zia Marina, che «a ottant'anni siccome nessuno le diceva che era bella un giorno si è messa davanti allo specchio con un vestito a fiori e si diceva: "Marina, cume te se bela!"». Perché in fondo a quel percorso c'è solo la maschera di Wanda Osiris che a 89 anni mi ricevette assisa su una specie di trono, i capelli avvolti in un turbante rosso, le labbra rosse, le unghie rosse, le ciglia lunghissime, la pelle tirata e impiastricciata da non so quanti strati di unguenti e pomate e pareva una vecchissima bambola di cera che ormai muoveva solo la boccuccia cinguettando: «Un giorno scesi dalle scalinate con l'intera orchestra sotto la gonna del mio vestito di 36 metri di diametro! Trentasei! Oh, caro! Quanto mi amavano!». Ne vale la pena? La storia dice che i giovani possono essere incantati da certi vecchi. Si pensi a Giovanni Paolo II o Nelson Mandela, Mario Monicelli o Sandro Pertini. Tutta gente che, alla sola ipotesi di tirarsi la pelle o tingersi i capelli, l'avrebbe buttata sul ridere citando magari il medievale «Bestiario di Cambridge» dove si legge che «lo sterco di coccodrillo è usato come unguento dalle vecchie e rugose prostitute che se ne coprono il viso, ottenendo così un temporaneo rimbellimento, che dura finché il sudore non asporta la maschera».

Lo stesso Giorgio Napolitano gode d'una popolarità stratosferica, rispetto al resto del mondo politico. E tutti questi vecchi hanno avuto o hanno un immenso ascendente sui giovani «anche» perché erano e sono vecchi. Coi loro acciacchi. I loro pallori, le loro calvizie e le loro macchie bluastre. E quella loro emotività che a volte gli fa perdere il filo facendoli cedere a un singulto di commozione. Funzionano per quello: perché sono veri. Non nascondono, non mimetizzano, non abbelliscono niente. E proprio questa accettazione della propria età, dei propri limiti, delle proprie caducità di vecchi appare come testimonianza e prova di trasparenza, rigore, saggezza, credibilità: non mento su me stesso, come potrei mentirvi sul resto?
Questo è il nodo: non vorremmo che la maschera giovanilista e sempre più irreale del Cavaliere che rifiuta lo scorrere del tempo fosse letta davvero, alla Baget Bozzo, come metafora di una politica che tende a rinviare la resa dei conti. Che dopo avere nascosto per anni la crisi sotto sorrisi di smagliante ottimismo e cercato poi di posticipare i sacrifici più duri agli anni a venire, tenta di spacciare oggi per «un miracolo» una manovra che perfino osservatori non ostili, prima ancora dei mercati, hanno bollato come insufficiente. Il cerone può pure funzionare, in senso cosmetico e figurato, finché non fa troppo caldo. Ma se l'aria si fa rovente...

Gian Antonio Stella

13 settembre 2011 11:22© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/11_settembre_13/stella-berlusconi_561cc2f6-ddcd-11e0-aa0f-d391be7b57bb.shtml
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