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Autore Discussione: Federico FUBINI.  (Letto 38364 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Settembre 08, 2015, 04:55:10 pm »

Fisco
Tasi, i conti sull’abolizione
Favoriti i redditi più alti e chi ha più di 54 anni.
Senza il gettito Imu e Tasi sugli immobili i comuni resteranno privi di circa 3,5 miliardi di euro di risorse da dover compensare

Di Federico Fubini

Ogni volta che un governo cancella una tassa, crea dei vincenti e qualche volta dei perdenti. Non sempre con questo gesto esprime la sua visione della società, specie quando il gettito in gioco non è enorme, ma di certo contribuisce a spostarne in modo sottile gli equilibri. C’è chi beneficia in pieno dell’abolizione, perché il prelievo pesava molto su di lei o lui, e chi meno. C’è poi anche chi ci perde, se prima non era soggetto a quel prelievo ma ora viene chiamato (indirettamente) a compensare con la fiscalità generale la quota di spesa pubblica che quella tassa defunta copriva.

A prima vista con la Tasi e con l’Imu non andrà così. Il governo ha spiegato che l’addio alla «tassa annuale sui servizi indivisibili» sulle prime case e all’«imposta municipale unica» sulle residenze principali «di pregio» riguarda tutti o quasi: l’81% degli italiani, o per la precisione delle famiglie che abitano nel Paese. È presto per capire come funzionerà questa misura, ma in realtà la platea dei beneficiari - comunque enorme - sarà probabilmente un po’ più piccola di così: secondo l’ultima indagine sui bilanci delle famiglie della Banca d’Italia, nel 2012 viveva nella casa di proprietà il 67,2% delle famiglie; per il più recente censimento dell’Istat, nel 2013 siamo al 72,1%. Dunque poco meno di un terzo dei residenti in Italia resterà fuori dall’operazione Tasi e Imu, perché non le pagava, però dovrà coprire con le proprie tasse 3,5 miliardi di «compensazioni» spedite dal governo ai Comuni rimasti senza il loro gettito dagli immobili.

Per capire come la detassazione agisce sul tessuto del Paese, bisogna dunque vedere dove passa il suo confine. Chi è dentro e chi fuori, chi ci risparmia e chi dovrà coprire i risparmi degli altri. L’indagine della Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie italiane, pubblicata l’anno scorso su dati del 2012, aiuta a farsi un’idea. Negli ultimi tre anni infatti è cambiato pochissimo. L’indagine dice per esempio che il 76% delle famiglie con capofamiglia dai 55 anni in avanti vive in casa di proprietà: dunque beneficerà dello sgravio, mentre solo il 24% dei più anziani resta fuori. La situazione invece è rovesciata nelle famiglie con capofamiglia fino ai 34 anni di età: nei giovani solo il 44,7% è soggetto a Tasi o Imu, tutti gli altri invece no e dovranno compensare con le loro tasse l’ammanco dei comuni.

Uno squilibrio simile si replica se si guarda ai livelli di istruzione o allo status professionale. Paga Imu o Tasi il 76,6% dei capifamiglia laureati, ma solo il 58,5% dei diplomati delle scuole medie. Versa la tassa sugli immobili l’85,3% dei dirigenti, ma solo il 47,5% degli operai. Più in generale, sono proprietari della casa in cui vivono e dunque candidati allo sgravio ben nove italiani su dieci nel club composto dal 20% della popolazione che guadagna di più: il top 20%. Se si guarda invece al 20% della popolazione che guadagna meno, fra loro solo il 34% vive in casa di proprietà ed è candidato allo sgravio; gli altri due terzi fra i meno abbienti sono solo candidati a pagare per quello sgravio con il loro contributo alla fiscalità generale. L’effetto è anche accentuato dal fatto che le case dei più benestanti in media sono più grandi (137 metri quadri) e pagavano più Imu o Tasi. Stesso meccanismo se si guarda agli immigrati: solo il 21% fra loro vive in case di proprietà, contro il 71% degli italiani.

Nei termini più crudi l’abolizione di Tasi e Imu è dunque un trasferimento di risorse dai giovani agli anziani, dai meno istruiti ai più istruiti, da chi guadagna di meno a chi guadagna di più e dagli immigrati agli italiani. Naturalmente il fisco non agisce mai solo in modo così meccanico. Abolire quelle tasse può sostenere il prezzo delle case, dunque favorire i consumi o le banche che hanno quelle case in garanzia, e ora potrebbero dare più credito. Del resto il governo ha già aiutato parte dei ceti deboli con altre misure, né è chiaro che sia il fisco lo strumento migliore per offrire a tutti un’opportunità di riscatto. Ma un arbitro neutrale, di certo, le tasse non lo saranno mai.

8 settembre 2015 (modifica il 8 settembre 2015 | 10:45)
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_settembre_08/tasi-conti-sull-abolizione-05820d22-55e9-11e5-b0d4-d84dfde2e290.shtml
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« Risposta #46 inserito:: Settembre 08, 2015, 04:57:11 pm »

La crescita
Disoccupazione in netto calo
Ma aumentano gli inattivi
Secondo l’Istat, l’Italia cresce, oltre le previsioni. Istruzione, sorpasso delle donne

di Federico Fubini
 
Ormai le statistiche sono la colonnina di mercurio della politica. Negli ultimi anni la potenza dei software per raccogliere e elaborare dati ne ha fatto esplodere la produzione. La vita di qualunque governo ne è scandita ogni settimana e trattare una cifra passeggera di crescita o disoccupazione come un voto al premier di turno è una tentazione a cui non resiste più nessuno.

Ovviamente, è giusto così. I governi giocano sempre un ruolo: sia quando l’occupazione va male, com’è successo finora, sia quando inizia a crescere e diventa stabile un po’ più spesso come sembra che stia accadendo ultimamente. Il solo problema è che l’ossessione per gli spostamenti da zero virgola di ogni mese, a uso e consumo della politica, rimuove dalla visuale il quadro che migliaia di dati stanno componendo sul Paese di questi anni e su quello che sarà. Se solo si mettessero insieme quei punti, si vedrebbe che per certi aspetti i blocchi di partenza dell’Italia nel 2015 sono molto più indietro rispetto alle altre economie alle quali il Paese si paragona. Nel frattempo però nel mondo del lavoro sono in corso slittamenti sotterranei negli equilibri di potere fra uomini e donne, e fra occupati di alta e bassa qualità. Presto queste faglie sotterranee si apriranno alla luce del sole e solo in parte - solo per le donne - saranno buone notizie. In prospettiva la figura più vulnerabile d’Italia è quella oggi quella prevalente: maschio, bianco (non straniero), di mezza età, di un livello di istruzione non eccelso. Per la verità non lo si inizia ancora a vedere nei dati dell’Istat di ieri, che non fanno favori né dispetti a nessuno. L’istituto statistico rileva che in luglio si registrano 44 mila occupati in più, al netto degli effetti della stagione turistica, ma anche che gli «inattivi» nel Paese crescono di 99 mila unità: questi ultimi spesso sono i demotivati, gli scoraggiati, coloro che magari inizierebbero a lavorare fra due settimane se solo sperassero di trovare un posto, ma non lo cercano neanche più. Gran parte dell’aumento degli «inattivi» si concentra fra le donne e i giovani. E la somma dei due fattori - occupati più «inattivi» supplementari di luglio - dà nel complesso 143 mila disoccupati in meno.

La lezione dell’ultima infornata dell’Istat è dunque che, specie per l’Italia, ha più senso misurare gli occupati che la percentuale di disoccupazione. Questa infatti non cattura il numero, senza paragoni in tutto l’Occidente, di persone sarebbero in età da lavoro ma non cercano, o sono già in pensione benché pieni di energie, oppure sono giovani che non studiano più. È qui che gli smottamenti si stanno verificando. Ed è qui che le donne, per ora in terribili difficoltà (in Italia meno di una su due è occupata, al Sud meno di una su tre), possono trovarsi in posizione di forza sugli uomini: se non subito, sicuramente fra qualche anno. Quanto a questo i dati dell’Ocse, il club delle democrazie avanzate, sono espliciti nel mostrare come l’Italia sia indietro. Sulla carta ha un tasso di disoccupazione quasi della metà rispetto alla Spagna. In concreto però la quota di occupati in Italia è più bassa che in Spagna ed è fra le peggiori fra i 36 Paesi censiti dall’Ocse. Poco più indietro ci sono solo Grecia, Turchia e Sudafrica. Se si guarda poi alla partecipazione alla forza lavoro, cioè alla somma di occupati più disoccupati, l’Italia è ultima nell’Ocse: appena il 49% della popolazione in età da lavoro.

Il problema del Paese va dunque al di là della disoccupazione, perché pochi sono inclusi nel sistema produttivo. Fanno eccezione i laureati: anche qui l’Italia è agli ultimi posti dell’Ocse, ma per chi ha un’istruzione superiore il tasso di occupazione è pur sempre elevato al 78%. Spiega dunque qualcosa che l’Italia abbia la quota di laureati più bassa dell’Unione europea. L’istruzione formale non sarà tutto, ma aiuta. È qui però che è in corso una crisi, sorda e drammatica: questo Paese è un caso unico in Europa nel quale le iscrizioni all’università calano invece di aumentare, perché solo le donne cercano di studiare sempre di più. L’Istat segnala che dal 2008 in poi le immatricolazioni all’università sono scese ogni anno e nel 2012 ce ne sono state 30 mila in meno rispetto a prima della crisi. Nel frattempo le ragazze hanno superato i ragazzi: dieci anni fa i laureati e le laureate erano più o meno in numero uguale, ma ormai circa il 60% dei nuovi diplomi va alle ragazze e già oggi in Italia le donne con un’istruzione superiore sono 700 mila più degli uomini. L’uomo è una categoria in pericolo, ma ancora non se n’è accorto.

2 settembre 2015 (modifica il 2 settembre 2015 | 07:45)
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_settembre_02/disoccupazione-netto-calo-ma-aumentano-inattivi-9be44cfe-5133-11e5-addb-96266eadb506.shtml

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« Risposta #47 inserito:: Settembre 14, 2015, 06:51:22 pm »

La Fed e il dollaro
Tassi & rialzi nel secolo cinese
Dietro le quinte della decisione


Di Federico Fubini

«Un cicchetto di whisky», per una Wall Street già su di giri. Così il presidente della Federal Reserve, Benjamin Strong, descrisse il taglio dei tassi del 1927. L’America non ne aveva bisogno, serviva solo a scoraggiare la fuga di capitali da Londra verso New York e a difendere la sterlina nel Gold Standard. Fu l’ultima volta in cui la Fed ammise pressioni dall’estero su di sé. L’ultima volta fino a mercoledì prossimo, perché oggi viviamo nel «secolo cinese». Fra due giorni si riunisce il Fomc, il Federal Open Market Committee che ha il potere di fissare le scelte della banca centrale americana. Il giorno dopo la presidente Janet Yellen dovrà comunicare la decisione più attesa da anni: un possibile aumento dei tassi d’interesse ai quali la Fed presta dollari alle banche in America. Sarebbe il primo rialzo dal 2006, dopo molti anni in cui il costo del denaro è rimasto attorno a zero: denaro quasi gratis in prestito a breve termine per aiutare il sistema finanziario e l’economia a superare la grande crisi e i suoi postumi. Ora però la disoccupazione negli Stati Uniti è calata al 5,1%, nel secondo trimestre 2015 la crescita è arrivata al 3,7% e quasi tutti ormai prevedono un aumento dei tassi subito oppure, al più tardi, a dicembre.

La Fed è alla vigilia della sua grande manovra per tornare alla normalità, ma potrebbe dover accettare l’idea che questa sarà un’operazione a sovranità (parzialmente) limitata. Come Strong, neanche Yellen può più ignorare le conseguenze sul resto del mondo della scelta più adatta all’economia americana. Nel ‘27 la Fed tenne i tassi più bassi del necessario per aiutare l’Europa a evitare una fuga di capitali. Quasi un secolo più tardi, la banca centrale americana rischia di riscoprire vincoli simili, ma stavolta legati alla Cina. Di fronte ai tremori dello yuan, e al potere della banca centrale di Pechino sul debito americano, la mano di Janet Yellen potrebbe rivelarsi meno libera di come la Fed l’ha sempre voluta. A matita leggera, da tempo Yellen aveva annotato settembre per l’avvio della sua stretta. Gli eventi dell’estate però sono arrivati a confondere i suoi piani: l’11 agosto la Banca del Popolo della Cina ha tentato una piccola svalutazione dello yuan, di cui ha subito perso il controllo di fronte all’enorme pressione degli investitori cinesi per portare i propri fondi fuori dal Paese. Gli indici di Shanghai sono crollati a ripetizione, la fuga di capitali e i crolli valutari si sono trasmessi a tutti i mercati emergenti e le autorità di Pechino sono dovute ricorrere alla repressione finanziaria più esplicita per riprendere in mano un tasso di cambio artificialmente tenuto troppo alto.

In un mese la banca centrale cinese ha speso fino a 200 miliardi di riserve per vendere dollari, comprare yuan e sostenerne così il valore. Sono dieci miliardi al giorno, solo per difendere un sistema che fino a poco fa funzionava gratis: tentare una piccola svalutazione in agosto è stato come annunciare in un teatro gremito che c’è un piccolo incendio. Tutti vogliono uscire. Per questo ora Pechino ha sbarrato le porte, impartendo alle banche indicazioni precise per impedire di esportare capitali.

Da settimane, la prospettiva di un aumento dei tassi della Fed e dunque dei rendimenti in dollari non fa che alzare la pressione. Ed è senz’altro sgradita a Pechino, come lo fu per Londra nel 1927. La banca centrale di Washington ha sempre precisato che agisce solo in base alle esigenze dell’economia americana, eppure il dollaro non è solo la moneta degli Stati Uniti. Il sistema globale del debito ne fa la moneta del mondo: fuori dagli Stati Uniti esistono oggi novemila miliardi di debiti denominati in dollari (escluse le banche) e i loro oneri verranno aggravati se la Fed alza i tassi. In questo fragile equilibrio la Cina ha un ruolo speciale, perché dispone di strumenti di pressione sulla Fed e implicitamente li sta già attivando.

La banca centrale di Pechino ha riserve per 1.270 miliardi di dollari in titoli del Tesoro americani e quasi altrettanto in titoli di agenzie pubbliche di Washington. Se ne vendesse in misura massiccia, potrebbe far perdere a Yellen il controllo degli effetti della sua politica monetaria e causare un forte rialzo dei tassi americani. Uno studio della Fed del 2012 stima che vendite per cento miliardi di dollari di titoli del Tesoro Usa da parte della banca centrale cinese, nell’immediato, farebbero balzare i tassi americani a cinque anni fino allo 0,60%: abbastanza da arrestare la ripresa negli Stati Uniti. Non sono solo teorie del complotto: un rapporto di Ing, una banca, nota che Pechino ha scelto di tenere depositati titoli americani per circa 200 miliardi a Euroclear, la piattaforma di Bruxelles da cui passa buona parte del trading in Europa. Naturalmente questa della Cina è una sorta di deterrenza nucleare: funziona solo finché il bottone rosso non viene davvero premuto. Dopo, sancirebbe anche l’autodistruzione di chi la pratica. Eppure ce n’è abbastanza da consigliare alla Fed il compromesso. Non è un caso se subito dopo i problemi in Cina in agosto, Bill Dudley della Fed di New York ha detto che l’idea di rialzo dei tassi a settembre era già «meno convincente».

Così Janet Yellen si trova a vivere in una sovranità monetaria potenzialmente limitata, come i suoi predecessori dell’anteguerra. Potrà riflettere che, allora, gli effetti non tardarono ad arrivare: un «cicchetto di whisky» nel ‘27, poi Grande Crash del ‘29.

14 settembre 2015 (modifica il 14 settembre 2015 | 11:20)
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_settembre_14/tassi-rialzi-secolo-cinese-dietro-quinte-decisione-0b14f228-5ac0-11e5-8668-49f4f9e155ef.shtml
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« Risposta #48 inserito:: Settembre 15, 2015, 06:05:51 pm »

Emergenza profughi
Il dramma dei migranti
E ora corridoi umanitari?
L’Unione Europea potrebbe farsi carico di istituire un sistema legale per aiutare i profughi: andarli a prendere là dove ne hanno più bisogno

Di Federico Fubini

Questa è un’epoca in cui una sola foto può cambiare le scelte degli Stati più ricchi e civili. L’immagine di Aylan Al-Kurdi, il bambino siriano di tre anni annegato davanti alla spiaggia turca di Bodrum mentre cercava di arrivare con la famiglia fino all’isola greca di Kos, non ha solo commosso centinaia di milioni di europei: li ha messi di fronte alle loro contraddizioni. Era così potente soprattutto perché le ha fatte esplodere. Quell’immagine ha fatto capire che non è più possibile ispirare la convivenza in Europa alla difesa dei diritti umani, e allo stesso tempo sbarrare le porte a chi fugge da una guerra. L’accoglienza della Germania di Angela Merkel a decine di migliaia di profughi siriani deve qualcosa anche a Aylan Al-Kurdi. Purtroppo però le sue foto non saranno le ultime di quel genere. È passata poco più di una settimana, e domenica un’altra imbarcazione di fortuna è affondata davanti alle isole greche dell’Asia Minore. Altri 34 profughi a bordo sono morti, metà dei quali bambini piccoli o piccolissimi.

Quando si verificano eventi simili è difficile resistere alla commozione, ma ormai le risposte emotive non bastano più e rischiano di diventare un alibi per non dover vedere il resto. Nel Mediterraneo, gli incidenti si stanno ripetendo così spesso e da così tanto tempo da poterne misurare la logica perversa. Eccola: secondo l’Organizzazione Internazionale per le migrazioni, dall’inizio dell’anno sono sbarcati 121 mila migranti e rifugiati in Italia e 309 mila in Grecia. Alle stime più prudenti, i trafficanti di persone hanno venduto ciascun posto su una pericolosa imbarcazione di fortuna in media per 1.200 dollari dalla Grecia alla Turchia e per 2.500 dalla Libia all’Italia. Questo significa che solo nel 2015 le organizzazioni dei trafficanti hanno lucrato almeno 370 milioni di dollari dai disperati che cercano di raggiungere le isole greche, tre quarti dei quali in fuga dalla guerra civile in Siria o dal Califfato. Quanto alla rotta verso Lampedusa, i ricavi delle bande criminali per quest’anno sono già sicuramente superiori ai 300 milioni di dollari. Probabilmente molto di più.

C’è di peggio. Fra la Libia e la Sicilia da gennaio fino a ieri sono morte 2.620 persone, una ogni 49 che hanno tentato la traversata. Fra la Turchia e la Grecia hanno perso la vita in circa 140, più o meno una ogni duemila. Numeri inaccettabili, che stanno portando molti a chiedersi cosa si possa fare per evitare che crescano ancora settimana dopo settimana.

Nel caso dei rifugiati che cercano il passaggio dalla Turchia sul braccio di mare di pochi chilometri fino a Lesbo, Samos, Kos o Rodi, una risposta probabilmente esiste: andarli a prendere. Se l’Europa riconosce il diritto all’asilo di chi fugge da una guerra, oggi potrebbe chiedersi se esso debba includere anche il diritto a un passaggio sicuro fino alle proprie frontiere. I corridoi umanitari non sono un fenomeno nuovo. Alla fine della Grande guerra l’esercito italiano favorì l’evacuazione dell’esercito serbo. Alla fine della Seconda guerra mondiale le popolazioni di lingua tedesca migrarono dalla Russia e dall’Europa dell’Est fino alla Germania. E il conflitto nell’ex Jugoslavia vide molte fughe di popolazione civile sotto tutela internazionale.

Quella sui profughi siriani non sarebbe una missione impossibile, sicuramente meno complessa dell’attuale sorveglianza marittima e dei continui interventi di salvataggio davanti alla costa turca. L’Unione Europea potrebbe gestire una propria base in Turchia, da cui chi a un primo esame risulta in condizioni di chiedere asilo possa viaggiare su un’imbarcazione sicura (e legale) fino alla Grecia. L’Europa può chiedersi se ha senso permettere ai trafficanti di decidere per lei chi arriva ai propri confini, a quali costi e con quali pericoli. Ed è probabile che lo stesso governo dell’Ankara accetterebbe, anche per bloccare l’attività dei criminali.

Il rischio evidente è che le domande d’ingresso crescano. Certo il diritto al passaggio sicuro non potrà mai valere per tutti, solo per chi ha titolo a chiedere asilo politico. Di recente le organizzazioni umanitarie iniziano a proporlo per le persone in partenza dalla Turchia, ma non dalla Libia: oggi non sarebbe gestibile in un Paese nel caos. Ma questa sembra un’ipotesi destinata a confronto sempre più serrato in Europa. Secondo alcuni l’alternativa, al prossimo naufragio, sarebbe perdere anche il diritto alla commozione.

15 settembre 2015 (modifica il 15 settembre 2015 | 07:48)
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« Risposta #49 inserito:: Settembre 27, 2015, 11:36:18 am »

George Soros: «Se il premier porta a termine le riforme l’Italia crescerà più del resto d’Europa»
Il finanziere di origini ungheresi domani incontrerà Renzi a New York: «Il futuro dell’Ue si decide sui migranti: investire nell’accoglienza può dare grandi frutti»


Di Federico Fubini

Dopo la fine della crisi finanziaria in Occidente, a 85 anni George Soros ha smesso di vivere ogni giorno sui mercati. Alla gestione diretta di Quantum, il suo fondo da circa 22 miliardi di dollari, adesso preferisce l’impegno nelle sue fondazioni che aiutano i rifugiati e i migranti in Italia, in Grecia, lungo tutte le rotte dei Balcani e in Ungheria. Si è convinto che le prospettive dell’Europa - inclusa la ripresa dell’economia - si decidano sulle sue capacità di assorbire i nuovi stranieri. Domani lo dirà a Matteo Renzi, quando lo incontrerà a New York.
Dopo gli choc di questi anni, lei crede davvero che l’area euro stia tornando a una crescita solida?
«L’economia europea in effetti sta migliorando, se la ripresa non verrà danneggiata da nuovi episodi di instabilità finanziaria come quelli delle ultime settimane. La mia impressione - dice Soros - è che alla politica monetaria delle banche centrali venga chiesto troppo, più di quanto possa dare. Ci sarebbe bisogno di una politica di bilancio che incoraggi la crescita, eppure questo è esattamente quello che manca».
Vuole dire che i governi dell’area euro dovrebbero gestire i conti con un approccio più espansivo?
«Sì, serve una politica di bilancio espansiva, che sostenga la ripresa. Del resto la soluzione alla crisi migratoria, e persino la soluzione alla crisi ucraina e alla minaccia rappresentata dalla Russia, richiedono che l’Europa faccia degli investimenti seri. Darebbero grandi frutti: accogliere i migranti e i rifugiati e impegnarsi nel garantire loro una sistemazione produrrebbe un effetto molto positivo per l’economia europea. Ma tutto questo implica uno stimolo di bilancio».
Crede che anche l’Italia questa volta riuscirà a partecipare alla ripresa dell’area euro?
«Sinceramente, per le prospettive dell’Italia ho buone speranze. Matteo Renzi è riuscito a introdurre dei cambiamenti importanti nel mercato del lavoro. Adesso sta affrontando il problema dei crediti incagliati e delle sofferenze nei bilanci delle banche, e dopo questo passaggio l’economia italiana potrebbe in realtà crescere più in fretta del resto d’Europa».
Perché dà tanta importanza alla crisi migratoria per la crescita economica?
«In negativo, perché la crisi migratoria minaccia di distruggere l’Unione Europea. Non dimentichiamo che la Ue sta vivendo varie crisi allo stesso tempo e questa è solo una di esse. La Grecia, la guerra in Ucraina, il rischio di uscita della Gran Bretagna dall’Unione e la stessa crisi dell’area euro sono le altre. Angela Merkel ha dimostrato di essere una vera statista, perché ha capito quanto sia critica la questione migratoria. Senza una politica realmente europea su questo fronte, il fatto che ogni Paese si muove per proprio conto potrebbe distruggere l’Unione. Di certo ha già distrutto Schengen, l’accordo sulla libertà di movimento delle persone. E il mercato unico sulla libertà delle merci attraverso le frontiere europee può essere la prossima vittima».
Crede che la soluzione sia un sistema vincolante di quote che distribuisca migranti e rifugiati nei vari Paesi?
«Dobbiamo arrivare a creare una organizzazione europea che cooperi con i vari Stati disposti ad accettare i rifugiati. I dettagli dipenderanno dalla volontà e dalla capacità dei singoli Paesi di assorbire nuovi arrivi. È evidente che quella della Germania è superiore a quelle di Grecia o Ungheria. Ma questa capacità di assorbimento bisogna anche svilupparla. Oggi l’agitarsi più vuoto e inutile mi pare sia in Francia e in Gran Bretagna: per entrambe la capacità di accogliere risulta molto sotto a quanto dovrebbe essere. Anche solo per ragioni demografiche, l’Europa ha bisogno di un milione di nuovi arrivi ogni anno. E i Paesi che ne accoglieranno di più, sono quelli che cresceranno di più in futuro».
Vede una concorrenza fra Paesi europei, quali riescono ad attrarre gli stranieri più qualificati?
«Certamente sì. I siriani che arrivano in Europa tendono a essere istruiti e rappresentano una fonte molto qualificata di lavoro per il futuro. Il perché è ovvio, se ci si riflette: per affrontare il viaggio fino alla Germania questi rifugiati hanno bisogno di un bel po’ di denaro. Ciò significa che è la crema della società siriana che attualmente sta affluendo in Germania. E la Germania è interessatissima ad accoglierli».
Intanto la Grecia è travolta dagli sbarchi. Ritiene almeno che il suo futuro nell’euro sia assicurato?
«Purtroppo il problema greco non è risolto, perché quel Paese ha dovuto accettare condizioni che gli sono state imposte. Non le ha scelte. C’è un atteggiamento ostile in Grecia di fronte all’idea di realizzare davvero quei piani, dunque questa è una ferita che continuerà a infettarsi e a assorbire un sacco di risorse. Molte più di quanto sarebbe giusto».
Cosa intende dire, che la Grecia non va più finanziata?
«Dico solo che l’ammontare speso per la Grecia è almeno dieci volte più vasto di quello speso per l’Ucraina, un Paese che non chiede altro che di avanzare nelle riforme. È un paradosso. C’è un Paese che vuole essere un alleato dell’Europa, ma viene trascurato. E c’è un altro Paese che è un suddito riluttante dell’Europa e riceve francamente, decisamente, troppo».
Suggerisce di spostare risorse e attenzione all’Ucraina?
«Purtroppo gli europei sono stati molto miopi. La nuova Ucraina nata con la rivoluzione di piazza Maidan sarebbe una grande risorsa per l’Europa, investirvi varrebbe veramente la pena. Ma ciò non viene capito e questa totale incomprensione sta mettendo a rischio la sopravvivenza stessa dell’Ucraina, il migliore alleato dell’Europa di fronte alla pressione della Russia putiniana».

26 settembre 2015 (modifica il 26 settembre 2015 | 08:36)
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_settembre_26/george-soros-se-premier-porta-termine-riforme-l-italia-crescera-piu-resto-d-europa-0d6deb1e-6417-11e5-a4ea-e1b331475bf0.shtml
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« Risposta #50 inserito:: Ottobre 08, 2015, 11:42:59 am »

Deflazione e conti Il dilemma dei prezzi
L’economia mondiale del ventunesimo secolo somiglia a un solo grande mercato, da Ho Chi Minh City a Boston, con al suo interno diseguaglianze enormi

Di Federico Fubini

Vent’anni fa, prima di diventare un blogger di successo, Paul Krugman ha avuto un’intuizione brillante. Ha colto quello che sarebbe diventato un tratto dell’epoca, i prezzi freddi.

L’economia mondiale del ventunesimo secolo somiglia a un solo grande mercato, da Ho Chi Minh City a Boston, con al suo interno diseguaglianze enormi. Un operaio cambogiano lavora a una frazione del costo di uno tedesco, e così via. Questa concorrenza fra sette miliardi di persone tiene strutturalmente sotto pressione al ribasso la dinamica dei prezzi nell’emisfero Nord del mondo. Non è un caso se le banche centrali dei Paesi ricchi hanno già stampato qualcosa come settemila miliardi di dollari (quattro volte e mezzo il reddito dell’Italia) nel tentativo di scongiurare la deflazione. Questa è una parola che inquieta, perché ne conosciamo le conseguenze. Le famiglie rinviano gli acquisti aspettando che fra qualche mese un’auto o una vacanza costino meno. Le imprese sospendono gli investimenti perché temono di dover vendere in futuro un manufatto a un prezzo troppo basso rispetto al costo di produzione attuale. Tutti aspettano, i prezzi scendono ancora di più, e la spirale fa un altro giro.

Se ci sono cause secolari di queste minacce (non ancora realtà), ce ne sono altre più vicine. La Cina è in una brusca frenata. In Brasile è ormai aperta quella che chiamano la «Caipirinha Crisis». L’America cresce, ma meno di quanto si sperasse un anno fa, e persino Germania e Spagna danno segnali di affanno.

Questo non è un replay del 2009, perché l’espansione continua. Ma il paradosso per l’Italia è che vive una ripresa più vivace proprio mentre quasi ovunque nel mondo accade il contrario. L’insidia della deflazione prende spunto proprio da qui: meno crescita, dunque meno domanda di petrolio, che ne fa crollare i corsi e spinge verso l’Europa una seconda ondata di freddo sui prezzi.

Per l’Italia possono esserci anche conseguenze positive: la Banca centrale europea reagisce ai rischi creando moneta e iniettandola nell’economia tramite l’acquisto di titoli pubblici, e forse in futuro lo farà ancora di più. Così il governo gode di tassi più bassi. Nessuno beneficia dell’azione della Bce come uno Stato debitore da 2.200 miliardi, che di solito pagherebbe interessi più pesanti degli altri: non è un caso se proprio ora l’Italia migliora, in controtempo sul resto del mondo.

Ci sono però anche dei rischi. Quando l’inflazione è sottozero il reddito nazionale, contato in euro, sale meno di quanto non si sperasse. Soprattutto sale meno del debito, perché questo cresce per inerzia a causa dei tassi d’interesse. Meno euro del previsto in entrate, stessi euro di interessi da pagare. Il risultato può essere un debito pubblico più alto.

Proprio in una fase così il governo sta perseguendo una forte detassazione del mondo produttivo, giusta e coraggiosa. Basta che non dimentichi la profezia di Krugman, se per caso esita di fronte ai tagli di spesa corrispondenti.

2 ottobre 2015 (modifica il 2 ottobre 2015 | 07:10)
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Da - http://www.corriere.it/
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« Risposta #51 inserito:: Ottobre 12, 2015, 11:22:54 am »

UNIONE EUROPEA
Legge di stabilità: il precedente spagnolo e i dubbi di Berlino
Fiscal compact in crisi. La procedura contro Madrid è stata stoppata. Ma in Germania crescono le perplessità sulla manovra di Roma

Di Federico Fubini

A metterli insieme, i regolamenti, le direttive e le pagine dei trattati europei su come si risana un bilancio fanno un volume spesso come un romanzo giallo del secolo scorso.

Non meno di centocinquanta pagine, anche se in questo caso l’epilogo è molto meno scontato. Nel fiscal compact sul controllo dei conti pubblici, i presunti colpevoli di solito la fanno franca e i detective si rivelano tutt’altro che infallibili. Se ne è avuta conferma martedì scorso sul quadrilatero fra Madrid, Strasburgo, Lussemburgo e Berlino. Ciò che è successo quel giorno fra le quattro capitali, con la legge di Stabilità della Spagna in gioco, è diventato un precedente al quale l’Italia probabilmente si appellerà quando la sua manovra sarà sul tavolo a Bruxelles. In seduta a Strasburgo, la Commissione europea si preparava a respingere la bozza di manovra di Madrid: grazie al fiscal compact ne ha il potere e voleva usarlo, perché non trova realistico il piano spagnolo di riduzione del deficit per quest’anno o per il prossimo. Poi nel giro di poche ore è cambiato tutto. Dalla Spagna sono partite telefonate verso Bruxelles e la Germania. Da Lussemburgo, dove si trovava per l’Eurogruppo, il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble ha avuto parole di elogio per il lavoro del suo collega iberico Luis de Guindos. A un quarto d’ora dall’inizio della riunione della Commissione a Strasburgo, la procedura si è bloccata. In Spagna si vota per le politiche tra due mesi e il premier Mariano Rajoy, del Partido popular, è un prezioso alleato in Europa per la cancelliera tedesca Angela Merkel.

Niente di tutto questo garantisce che la stessa trama si replicherà tra poche settimane, quando verrà il turno della legge di Stabilità italiana. Qualunque sia l’atteggiamento della Commissione europea — dove le perplessità sono diffuse — a Berlino si è radicata una convinzione: il fiscal compact sta funzionando male, va superato, ma questa non è una ragione per concedere all’Italia un giro di pista fra gli applausi. È difficile prevedere l’esito finale del percorso della legge di Stabilità italiana in Europa, ma a Berlino si vuole evitare che sia comodo. Si ritiene che già solo un bel po’ di attrito politico, se non proprio una formale procedura europea, aprirà su questo caso una vera discussione in Italia e nell’area euro.

Prima ancora che la manovra del governo di Matteo Renzi venga varata questa settimana, fra la Commissione europea e la capitale tedesca sono già circolate le prime stime sul suo impatto. Rispetto ai piani preesistenti, secondo Bruxelles c’è un aumento dell’1% del deficit «strutturale»: quello stimato (chissà con quanta precisione) al netto delle fluttuazioni temporanee dell’economia. Soprattutto, restano dubbi evidenti riguardo ai piani per i prossimi anni. Gli addetti ai lavori in Germania si sono convinti che l’Italia non abbia davvero l’intenzione, dichiarata nei documenti ufficiali, di andare verso il pareggio di bilancio nel 2018 come prevede il fiscal compact. Si sospetta che il governo miri piuttosto a continuare con un deficit fra il 2% e il 3% del reddito nazionale (Pil) per vari anni. In Italia si pensa che ciò basti a far scendere il debito pubblico, passo dopo passo. In Germania si teme che il risultato sia diverso: un debito pubblico di Roma che può salire verso il 150% del Pil, se prosegue la traiettoria degli ultimi vent’anni di un’economia cronicamente debole.

Qualunque sia il parere della Commissione in proposito, non è difficile prevedere il seguito: la richiesta di nuova «flessibilità» da parte di Roma produrrà tensioni fra i ministri finanziari europei. Schäuble ammira molto Pier Carlo Padoan, trova che il collega italiano sia una delle menti economiche più brillanti nell’Eurogruppo. Ma il ministro tedesco inizia a sospettare che il bilancio si faccia più a Palazzo Chigi che nell’ufficio del responsabile dell’Economia.

Non che il fiscal compact, la cornice di regole fissata nel 2012 in risposta alla crisi dell’euro, sia in crisi solo in Italia o in Spagna. La Francia viaggia da sette anni con un deficit sopra al 3% del Pil, eppure non è mai stata sanzionata, e ai suoi piani ufficiali di rientro nel 2017 non crede nessuno: quell’anno si elegge il prossimo presidente della Repubblica, il momento peggiore per una stretta di bilancio. Il risultato è che Francia, Italia e Spagna, cioè metà dell’economia dell’area euro, di fatto stanno aggirando o ignorando le regole. Il fiscal compact, la cornice che deve tenere 19 Paesi in una sola moneta, è nato morto. In Germania lo si vorrebbe superare con nuove proposte. Un’idea è di mettere i fondi strutturali europei al servizio delle riforme di cui ciascun Paese ha più bisogno, in base alle raccomandazioni di Bruxelles. E certo rimane la pressione a ridurre il deficit, per poter resistere a eventuali choc.

Ma c’è profonda disillusione a Berlino sul fatto che nuove regole, o nuove sanzioni, possano funzionare dove per 15 anni di unione monetaria hanno fallito. L’idea di fondo è dunque di proteggersi dai rischi di un’altra possibile crisi di debito in Europa del Sud in modo diverso: prevedendo sistemi legali per imporre perdite sui titoli di Stato agli investitori privati. Così le obbligazioni pubbliche potrebbero contenere per legge clausole automatiche di riduzione del valore dei titoli, in caso di stress finanziario. Si potrebbero creare vere procedure fallimentari per gli Stati dell’area euro. E i governi che chiedono aiuto al fondo salvataggi (Esm), dovrebbero smettere di rimborsare i loro titoli di debito, per esempio, per tre anni.

Visto da Berlino, è un modo di tagliare un cordone ombelicale e contenere le richieste di «solidarietà» dai Paesi che non riescono più a gestire il debito. Visto dall’Italia, dati i rischi per gli investitori, sarebbe solo un modo di alzare gli interessi sul debito stesso. Il fiscal compact, al confronto, sembra una passeggiata.

12 ottobre 2015 (modifica il 12 ottobre 2015 | 07:41)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_ottobre_12/legge-stabilita-precedente-spagnolo-dubbi-berlino-fe7ac70a-709e-11e5-a92c-8007bcdc6c35.shtml
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« Risposta #52 inserito:: Ottobre 28, 2015, 05:55:59 pm »

LEGGE DI STABILITA’
Manovra e conti, ecco perché Renzi adesso cerca lo scontro l’Europa
Non è la prima sfuriata di un premier italiano contro i tecnici dell’Ue.
Ma adesso dietro quel “non siete maestri” c’è anche un calcolo politico, ad uso interno


Di Federico Fubini

Non è la prima volta che Matteo Renzi ripete parole del genere in vista dell’esame a Bruxelles della Legge di stabilità dell’Italia e l’attitudine del premier segna un cambio di stagione. Non è la prima volta che un presidente del Consiglio va su tutte le furie se dalla Commissione europea arrivano critiche ai suoi piani di bilancio. Resta difficile da dimenticare la sfuriata di Romano Prodi nel 1996, quando l’allora commissario europeo Mario Monti disse che con la manovra di allora non l’Italia non sarebbe mai entrata nell’euro dall’inizio. Prodi ebbe parole sprezzanti e fra i due uomini - entrambi “tecnici”, entrambi europeisti – ci furono momenti di tensione. Poi la Legge di bilancio cambiò, venne fuori l’«eurotassa» del 1997 e l’Italia agganciò il treno dell’euro. Stavolta però qualcosa è cambiato. A differenza di Prodi, di Silvio Berlusconi, di Monti stesso nella sua incarnazione da premier, o del suo successore Enrico Letta, l’equilibrio che cerca Renzi è diverso. In passato quando la Commissione Ue criticava un bilancio dell’Italia, per il presidente del Consiglio del momento questo era sempre un evento da iscrivere alla colonna dei costi politici. Adesso Renzi iscrive lo stesso tipo di evento nella colonna delle opportunità: l’occasione di accrescere la propria credibilità politica di fronte a larghe fasce dei propri elettori. Prodi, Berlusconi, Monti o Letta temevano non solo una stroncatura, ma persino un appunto da Bruxelles. Renzi dà quasi l’impressione di accoglierlo con impazienza, per poter ripetere: «Non accettiamo lezioni, non siete i nostri maestri». In mezzo fra gli atteggiamenti di quei premier del passato e di questo, naturalmente, è passata la crisi finanziaria. Sono passati gli anni dell’austerità di bilancio, gli errori in Italia ma anche in Europa, il reddito per abitante crollato del 10% dal 2008 al 2014. Un antico equilibrio si è spostato. In passato l’Europa poteva erogare capitale politico a chi governava in Italia tramite un suo segno di assenso e poteva altrettanto facilmente togliere capitale politico con il suo dissenso (chiedere a Berlusconi, in caso di dubbio).

Oggi invece Renzi fiuta che l’equazione forse si è invertita: una critica dall’Europa, e una risposta stizzita, anche per un premier moderato possono diventare l’occasione di costruire capitale politico nel proprio Paese. Anche così si crea consenso fra gli elettori. Dunque Renzi non si lascia sfuggire l’occasione. Questa è la componente politica della questione, ovviamente. Quella puramente finanziaria è invece un po’ diversa. Con questo deficit programmato, la matematica dice che per ottenere una discesa anche solo dello 0,1% nel rapporto fra debito e reddito nazionale (Pil) nel 2016, occorre un’inflazione almeno dello 0,8% con una crescita economica dell’1,6%. Ma ammesso che la crescita economica arrivi davvero all’1,6% - è la previsione del governo, più rosea di quella di quasi tutti gli analisti – oggi l’inflazione procede a zero o addirittura è negativa. È dunque verosimile che il debito continuerà a salire anche adesso che c’è la ripresa. Ma la politica dei rapporti di nuova generazione con Bruxelles è un’altra storia. E Renzi, come al solito, mostra di averla capita in pieno.

16 ottobre 2015 (modifica il 16 ottobre 2015 | 10:42)
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_ottobre_16/manovra-conti-ecco-perche-renzi-adesso-cerca-scontro-l-europa-3743c47e-73dd-11e5-846d-a354bc1c3c5e.shtml
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« Risposta #53 inserito:: Dicembre 04, 2015, 07:09:24 pm »

GLI STIMOLI ALL’ECONOMIA DELLA BCE

Non facciamoci illusioni
Ecco i veri freni dell’Italia
L’urgenza di risanare non è passata.
La Banca centrale di Draghi ci ha salvati e continua a farlo.
Ma illudersi che basti a risolvere i nostri problemi, significa volerla imprigionare per anni o decenni in questo ruolo di manager della nostra tenda a ossigeno


Di Federico Fubini

C’è un episodio che si collega con la più grande espansione monetaria che l’Europa ricordi, rafforzata ieri da Mario Draghi. Ma non riguarda i tassi d’interesse. Riguarda Gragnano.

In quel comune in provincia di Napoli un imprenditore della pasta, Ciro Moccia, è stato attaccato davanti a casa cinque giorni fa: nove colpi, uno dei quali lo ha ferito a una gamba. Non tutto è chiaro di quel fatto di cronaca, qualcosa però sì: fa più per scoraggiare investimenti, chiudere imprese, creare disoccupazione e deflazione in Italia quell’unico proiettile nel polpaccio di un imprenditore, di quanto non spinga in direzione opposta la Banca centrale europea creando 1.500 miliardi di euro per comprare titoli di Stato od obbligazioni private.

Quell’agguato si colloca su un punto estremo di una scala di disincentivi più o meno pesanti, più o meno legali. Il Nord non è come il Sud e il Sud non è tutto così. Ma dal più aberrante al più sottile, troppi fattori ovunque nel Paese militano verso lo stesso risultato: ogni euro aggiunto nel tessuto dell’economia dalla Bce porta a un aumento di produttività vicino allo zero. Per la precisione, sempre più vicino allo zero.

Non è colpa della Banca centrale. Non significa che essa non dovrebbe agire come fa, inoltrandosi più o meno decisa in acque inesplorate. Basta chiedersi cosa accadrebbe se la Bce facesse il contrario, se negasse liquidità perché viene usata male in un sistema pieno di disfunzioni. Ogni euro tolto dall’economia per questo, porterebbe stress e crolli di produttività; strapperebbe la maschera alla fragilità finanziaria del Paese. Quello che fa la Bce è necessario, dobbiamo solo toglierci dalla testa che sia sufficiente.

In questo l’Italia è solo un caso particolarmente evidente. Un po’ ovunque nell’area euro l’espansione monetaria non si sta traducendo automaticamente in un aumento del credito alle imprese. Nel terzo trimestre, mentre il sistema Bce comprava 24 miliardi di debito italiano, gli investimenti nel Paese sono scesi dello 0,4% (dello 0,9% sui macchinari). Malgrado il successo di Draghi nell’indebolire l’euro, rendendo i prodotti europei più competitivi nel mondo, fra luglio e settembre il contributo dell’export alla crescita italiana è stato di meno 0,4%.

Quanto al credito, anche qui il molto che fa la Bce non basta. Lo stock di prestiti delle banche alle imprese non finanziarie in Italia valeva venti miliardi di euro di più un anno fa; valeva sette miliardi più all’inizio di questa campagna monetaria che oggi. Nell’insieme dell’area euro i risultati sono simili, benché meno accentuati: a ottobre lo stock di credito delle banche alle imprese valeva 16 miliardi meno che a marzo.

Dunque tutto inutile? No, e non solo perché l’assenza di interventi sarebbe molto peggio. Gli ultimissimi mesi mostrano una timida ripresa dei prestiti, anche in Italia. Ma la Bce non può creare le condizioni di sicurezza che contrastino il dimezzarsi degli investimenti nel Sud Italia, per esempio. Né può trasformare la struttura dei rapporti fra finanza e impresa in Europa, che rende il suo bazooka meno efficace di quello della Federal Reserve negli Stati Uniti. Nell’area euro i prestiti bancari alle imprese rappresentano il 102% del Pil, in America solo il 47%. La ragione è che dall’altra parte dell’Atlantico gli imprenditori con una buona idea si finanziano più direttamente sui mercati: la quota di capitale azionario è pari al 117% del Pil in America, al 67% in area euro (ancora meno in Italia). Quando calano i tassi grazie al quantitative easing, la ripresa dei finanziamenti negli Stati Uniti è immediata, in area euro è mediata dalle banche e dunque dipende dalle loro condizioni.

In Italia, non è ottima. Dopo la recessione il sistema resta oberato da 350 miliardi di crediti deteriorati. Bisognerebbe ripulire i bilanci, anche grazie a una garanzia pubblica come accade sempre quando si creano dei fallimenti nel funzionamento del mercato. Qui un’opposizione un po’ bigotta dalla Commissione europea e dalla Germania sta bloccando tutto: in caso di intervento pubblico vanno colpiti i risparmiatori privati, si dice. Sulla scala di un intero Paese? L’Italia ha strumenti per dimostrare l’impraticabilità di una richiesta simile: il suo direttore del Tesoro presiede a Bruxelles il comitato di stabilità finanziaria, dove si possono discutere e rovesciare le idee sbagliate. Ma non ha mai messo il problema all’ordine del giorno.

C’è poi l’impatto sui conti pubblici. Grazie alla Bce, per fortuna i tassi sui titoli di Stato ormai sono bassissimi. Oggi chi investe 100 mila euro in Btp a 10 anni, anche dopo il balzo dei rendimenti di ieri, sa che alla fine del 2025 avrà guadagnato appena 1.435 euro netti. Nel frattempo però rischia di vincolare i propri soldi per dieci anni e registrare forti perdite teoriche ogni volta che il prezzo dei suoi titoli scende a causa del peso di un debito enorme. Investire così è razionale solo se un risparmiatore pensa che con un rendimento di 1.435 euro comprerà in futuro più cose di oggi; in altri termini i titoli di Stato italiani rischiano di diventare attraenti solo se si scommette sulla continua caduta dei prezzi, cioè sul fatto che il Paese non ripartirà. Altrimenti nessun privato comprerebbe più, e resta solo la Bce a sostenere il debito.

È un paradosso, ma mostra che l’urgenza di risanare non è passata. La Banca centrale di Draghi ci ha salvati e continua a farlo. Ma illudersi che basti a risolvere i nostri problemi, significa volerla imprigionare per anni o decenni in questo ruolo di manager della nostra tenda a ossigeno. Il quantitative easing è stato eroico come risposta all’emergenza. Preoccupiamoci quando, per colpe non sue, diventa l’unico possibile modello di sviluppo.

4 dicembre 2015 (modifica il 4 dicembre 2015 | 10:35)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_dicembre_04/non-facciamoci-illusioni-ecco-veri-freni-dell-italia-bce-draghi-7799bc48-9a4f-11e5-99f9-ca90c88b87df.shtml
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« Risposta #54 inserito:: Dicembre 26, 2015, 11:29:33 pm »

L’analisi
Banche, le ragioni di un dissidio (destinato a durare)
I contrasti fra Roma e la Commissione Europea, la lettera sui quattro istituti di credito coinvolti dal «salvabanche».
La posizione di Bankitalia: «Ingiusto bruciare obbligazioni». La posta in gioco: il ruolo dell’Italia nell’area euro da qui in poi

Di Federico Fubini

Non si ricorda nei decenni di storia comunitaria una disfida del genere, a colpi di carte e controdeduzioni su un evento già consumato. Chiuso, deciso. Con vincenti e perdenti, ma comunque tale da non poter essere più cambiato. Non lo si ricorda sicuramente fra l’Italia e la Commissione Ue, eppure l’intensità degli scambi è tale da far sospettare che questo non sia tanto uno scontro sul passato. La politica entra in fibrillazione solo quando la posta in gioco è il futuro. La vicenda dei quattro istituti «risolti» riparte da qui: da ciò che rivela sul ruolo delle banche e sul posto dell’Italia nell’area euro da oggi in poi.

La prima evidenza è che l’unione bancaria è entrata subito in tensione: per far fronte ai dissesti esistono solo risorse nazionali, ma versate sulla base un punitivo sistema di regole comuni fatte rispettare dall’esterno. Per quanto discutibili siano le norme europee appena entrate in vigore, molti protagonisti nel Paese vi sono arrivati impreparati. Non erano mancate le messe in guardia: il 23 ottobre del 2013 la Banca centrale europea aveva reso nota una lettera in cui concordava in principio con l’idea di far assorbire certe perdite delle banche ai creditori più esposti; ma notava che è saggio non applicare le norme in modo impropriamente restrittivo. La stessa Banca d’Italia nel novembre del 2013 aveva avvertito dei problemi nelle nuove norme; aveva ricordato il rischio che, bruciando obbligazioni emesse prima sulla base ai altre leggi, si violassero i diritti di proprietà dei trattati europei. In Italia non se n’è accorto nessuno. La politica non ne ha parlato, benché a fine febbraio 2014 abbia votato praticamente in blocco per la nuova direttiva bancaria, sia nell’europarlamento che nel Consiglio dei ministri Ue.

Il resto della posta in gioco però è anche più complesso, perché riguarda il ruolo dell’Italia nell’area euro. Ed è qui che i dissensi fra Roma e Bruxelles sui bilanci bancari diventano importanti. L’operazione sulla Cassa di Teramo, con contributi volontari e fiscalmente deducibili da parte delle altre banche, dimostra che il Paese sa ancora trovare soluzioni efficienti. Ma è sul «salvataggio» di Banca Etruria e Marche e delle Casse di Ferrara e Chieti che gli scogli europei sono venuti fuori. Nel suo rapporto di ieri il Tesoro fa capire che l’intervento del Fondo interbancario era stato disegnato dal governo e della Banca d’Italia in modo rigoroso, ma non traumatico. Le perdite sui crediti inesigibili dei quattro istituti sarebbero state quelle già registrate dalla gestione straordinaria dei commissari. Il capitale sarebbe stato abbattuto, non cancellato o portato i n negativo. Azzerati o quasi i soci, per ricostituire il patrimonio sarebbe bastato convertire in azioni le obbligazioni subordinate. Ci sarebbero state perdite, non un disastro. E dal Fondo interbancario di tutela dei depositi sarebbe stata sufficiente un contributo da 2,2 miliardi.

È qui che la Commissione Ue ha frenato. Per lei le banche andavano «risolte» in base alla nuova normativa europea, cioè liquidate salvandone le parti buone. Gli obbligazionisti subordinati e gli azionisti dovevano perdere tutto per sempre. Costo dell’operazione (finanziato dal Fondo di risoluzione, sempre pagato dalle altre banche italiane), 3,7 miliardi. La chiave è in quella differenza di un miliardo e mezzo fra 2,2 e 3,7. Sappiamo infatti che la soluzione impostasi, quella gradita a Bruxelles, svaluta i crediti in default delle quattro banche fino ad appena al 17,6% del valore originario. Si può dunque immaginare che l’operazione da 2,2 miliardi proposta dall’Italia trattasse quegli stessi crediti al valore di bilancio intorno al 40%: un miliardo e mezzo di perdite in meno. Quel prezzo al 17,6% che piace a Bruxelles è da liquidazione, da vendita al più presto domattina. Il 40% che prevale nei bilanci delle banche in Italia per i crediti in difficoltà invece è un valore di lungo periodo: a volte dietro ci sono anche ville a garanzia, o aziende in crisi che ripartono. E questa forbice fra le due letture è esattamente ciò che oggi blocca un intervento di sistema in Italia per rimuovere dalle banche italiane ben 200 miliardi di prestiti in default.

Questa misura complessiva del governo resta urgente. Serve a rimettere a posto il sistema del credito nel Paese e far ripartire gli investimenti. Ma applicare a tappeto ai prestiti in default gli sconti da liquidazione stimati da Bruxelles, equivale a far emergere un brutale, sproporzionato buco nei bilanci delle banche italiane. Per questo si è arrivati allo stallo. E stare fermi, quando serve una ripresa, è davvero scomodo.
24 dicembre 2015 (modifica il 24 dicembre 2015 | 08:53)
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_dicembre_24/banche-ragioni-un-dissidio-destinato-durare-e21a68a4-aa0f-11e5-85c0-9f00ee6a341c.shtml
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« Risposta #55 inserito:: Gennaio 03, 2016, 06:39:33 pm »

Sostegni alla crescita
Le riforme e il passo smarrito

Di Federico Fubini

G li elettori italiani e i leader europei si stanno abituando a vedere Matteo Renzi in un ruolo per lui nuovo: quello\ del co-pilota. Non è il posto naturale del premier, che da quando ha preso controllo del Partito democratico e poi del governo è sempre stato il primo e spesso unico pilota della politica. Per due anni era stato lui a dettare il ritmo e i contenuti dell’agenda delle cose da fare. Una strategia del tutto legittima, soprattutto per un motivo: da Renzi prende origine il programma di riforme di una nazione che vacilla ancora per i postumi di una pesante recessione. Per un certo periodo, il premier ha obbligato tutti a smetterla con le lamentele di parte e a confrontarsi su precise proposte di innovazione: il Jobs act, la riforma della Pubblica amministrazione, l’ingresso delle banche popolari nel XXI secolo.

Non più. A volte si ha l’impressione che la cabina di pilotaggio, non del governo ma dell’agenda delle cose da fare, sia meno presidiata di prima. E che il premier si trovi a volte nelle vesti di uno di quei co-piloti del sedile accanto che cercano di intervenire all’ultimo sul volante per aggiustare la rotta o evitare sbandate. In qualunque Paese è fisiologico che alcune riforme - vedi alla voce spending review - finiscano diluite. Ma da qualche tempo Renzi sembra non riuscire più a dettare l’agenda come prima. Si muove distratto da un’emergenza all’altra a cui risponde in affanno: dalla tempesta per il «salvataggio» di 4 piccole banche, alla freddezza con alcune capitali europee, alle polemiche per l’inquinamento nelle città.
Per certi aspetti è comprensibile. Nessun leader riesce a dominare per intero la politica del suo Paese. Il rischio è però di trovarsi alla lunga meno protetti di fronte ai propri avversari nazionali ed europei. Renzi ha imposto il rispetto dell’Italia in Europa finché ha continuato, anche bruscamente, a innovare. È la dimostrazione della massima secondo cui la migliore difesa è l’attacco. Come il Jobs act, emblema di questo sortilegio virtuoso: il premier lo ha messo sul tavolo, ha definito se stesso attraverso la sua proposta e sia favorevoli che contrari hanno dovuto misurarsi su di essa.

Di recente il sortilegio gli riesce meno bene. La spinta verso ulteriori innovazioni sembra ridotta: la tentazione di non estendere agli statali il contratto a tutele crescenti è evidente e si è smesso di parlare della riforma della Pubblica amministrazione. Nell’ultimo Consiglio dei ministri prima della sosta dovevano passare i provvedimenti per portare finalmente un po’ di realismo e responsabilità nelle municipalizzate, sui servizi pubblici locali, nelle concessioni pubbliche e sulla semplificazione della burocrazia. Ancora una volta però è tutto rinviato.

Qualunque riforma produce scontenti, specie nelle stagioni elettorali. Ma lo stato del Paese è tale che qualunque riforma efficace produce anche molti più italiani felici che qualcosa si sia fatto. L’innovazione a sostegno della ripresa è la sola ragione che può alimentare la legittimità di Renzi in Italia e in Europa. Serve per ragioni di fondo, visto lo stato dell’economia; ma serve anche sul piano tattico, se il premier vuole tornare sul sedile di guida. Renzi nel 2016 non ha molta scelta: deve continuare sulla strada che lui stesso ha indicato. L’alternativa è diventare un bersaglio immobile, troppo facile da inquadrare nel mirino per cecchini di qualunque risma appostati in Italia o a Bruxelles.

3 gennaio 2016 (modifica il 3 gennaio 2016 | 10:30)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/16_gennaio_03/riforme-passo-smarrito-d17bbc9a-b1ea-11e5-829a-a9602458fc1c.shtml
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« Risposta #56 inserito:: Gennaio 20, 2016, 04:09:20 pm »

Il sistema del credito
Sofferenze e fragilità

Di Federico Fubini

Se c’è una lezione che lasciano questi anni, essa riguarda in primo luogo le dinamiche dell’instabilità. Quella di questi giorni sulle banche è una frazione infinitesima dell’esperienza vissuta dall’area euro nel 2011 o nel 2012.

Ma i suoi ingranaggi hanno almeno un punto in comune con allora: il contagio finanziario attacca dove percepisce che gli anticorpi della politica sono diventati più deboli. Quando è così, basta un grido d’allarme per innescare una grande fuga verso la porta d’uscita del mercato italiano. Poco importa che alla base ci sia il rischio di un equivoco, reso ancora più intrattabile dalla difficoltà di chi investe a capire cosa stia accadendo fra Roma e Bruxelles e esattamente su quale rotta sia fissato il timone.

Ieri l’allarme è scattato quando si è diffusa una notizia che probabilmente in altri momenti non avrebbe quasi prodotto sussulti. I mercati hanno registrato la notizia, segnalata dal «Sole 24 Ore», che la Banca centrale europea ha inviato un questionario sui crediti inesigibili agli istituti di credito. Molti vi hanno letto l’intenzione dell’autorità di vigilanza di Francoforte di preparare una stretta e obbligare le banche a nuove svalutazioni nei propri bilanci. Questo del resto è esattamente il nervo scoperto nel confronto sulle banche fra il governo italiano e la Commissione europea di Bruxelles.

È uno dei grandi problemi dell’economia italiana, rimasto sotto i radar finché le norme europee lo hanno reso bruciante perché i risparmiatori ora perderebbero denaro in ogni salvataggio pubblico di una banca. In Italia i crediti inesigibili degli istituti superano di poco i 200 miliardi di euro di valore teorico (più altri 150 miliardi circa di crediti «deteriorati», ma non ancora ufficialmente in insolvenza). Poiché le perdite eventuali su questi prestiti sono coperte in media con accantonamenti di risorse per circa il 57%, le banche italiane valutano di poter recuperare circa 86 miliardi su 200 prestati. È su questa base che stimano il loro bilancio e il loro capitale. La stessa Bce ha validato questi numeri negli esami dei principali istituti conclusi appena due mesi fa.

La Commissione europea ha una posizione diversa: sospetta un aiuto di Stato e dunque impone di colpire i risparmiatori se una banca cede un credito deteriorato a un prezzo sopra quello di mercato di stamattina, che è a meno della metà dei valori di bilancio; lo sospetta, ovviamente, se da qualche parte c’è una garanzia pubblica come rete di sicurezza per il compratore. La via suggerita dalla Commissione europea porterebbe dritta a un colossale, ingestibile buco di oltre 40 miliardi nei bilanci delle banche, se queste volessero liberarsi in fretta dei prestiti in default che le zavorrano e le logorano. Su questo punto Bruxelles si è dimostrata inamovibile. Ma il governo di Roma in compenso non è mai riuscito a spiegare le ragioni (che ha) in modo convincente, ed è entrato in una spirale di ritorsioni verbali che reso la Commissione ancora più diffidente. Ogni scambio di battute al vetriolo di Matteo Renzi a Roma e Jean-Claude Juncker a Bruxelles non fa che alimentare la paralisi.

È in questo labirinto che sono piombate ieri le voci sull’iniziativa della Bce. Se davvero la Banca centrale imponesse nuove svalutazioni di quei crediti in default, avvicinandole ai prezzi di mercato, molti istituti registrerebbero perdite importanti e sarebbero costretti a raccogliere nuovo capitale per poter andare avanti. Non è un caso se ieri in Piazza Affari sono caduti di più i titoli di banche con più crediti in default, Montepaschi o Banco Popolare. Fin qui la lettura del mercato. Questa volta però gli investitori rischiano di essersi spinti troppo avanti. A Francoforte si sottolinea che il Consiglio di vigilanza della Bce non ha mai discusso una stretta sul valore dei crediti in default delle banche. A quanto risulta, il questionario mira soprattutto a capire come le banche stiano gestendo i debitori insolventi e a spingerle ad adottare le migliori soluzioni tecniche. Certo, precisa un portavoce della Bce, all’Eurotower è stata creata una task force su questo problema perché «i prestiti deteriorati sono un’area su cui ci concentreremo nel 2016». Non c’è altro. Se non una lezione sempre attuale: nessun investitore si butta dall’auto in movimento dell’economia italiana, se pensa che sia guidata in modo da scansare gli scontri più evitabili.

19 gennaio 2016 (modifica il 19 gennaio 2016 | 07:23)
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Da - http://www.corriere.it/economia/16_gennaio_19/sofferenze-fragilita-5686ce94-be74-11e5-8000-980215fcd4e6.shtml
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« Risposta #57 inserito:: Gennaio 25, 2016, 11:37:45 pm »

Intervista
Italia-Ue, parla Gutgeld: «L’Europa ci tratti come gli altri. Avanti con la spending, le riforme marciano»
Il commissario alla revisione della spesa e consigliere economico di Palazzo Chigi:
«Con l’Unione non è un problema di comunicazione, ma politico»

Di Federico Fubini

Yoram Gutgeld non si lascia distrarre dalle fibrillazioni sulle banche italiane. Da mesi porta avanti la sua opera di commissario alla revisione della spesa con tutta la concretezza di cui è capace: oggi stesso riunisce gli assessori e i direttori generali alla Sanità di tutte le regioni italiane per far entrare nel vivo il nuovo sistema centralizzato degli acquisti. Ma come consigliere economico di Palazzo Chigi, vede bene il contesto: «È nell’interesse della Commissione europea avere un’Italia forte - dice - ed è interesse dell’Italia avere una Commissione forte».

Intanto però a molti la «spending review» sembra ferma. Impressione errata?
«Sì, e lo dimostro. Proprio in questi giorni sta partendo operativamente il nuovo sistema degli acquisti di beni e servizi dell’amministrazione. Passiamo da 33 mila stazioni appaltanti a 35. Ovviamente il processo avverrà in modo graduale, ma iniziamo in questi giorni facendo entrare una quota importante degli acquisti della sanità nel nuovo sistema. Parliamo di circa 15 miliardi di spesa. E entro tre anni potremo raggiungere almeno 50 miliardi».

Avete un’idea dei risparmi possibili da quest’anno?
«I risparmi arriveranno quando faremo le gare nuove d’appalto. E le gare diventeranno effettive in modo graduale, in parte quest’anno, in parte il prossimo e via di seguito. A regime, penso che sia realistico ipotizzare un risparmio attorno medio al 10%».

Lavorate anche su altri fronti della spesa sanitaria?
«Intanto il progetto sugli acquisti non riguarda solo la sanità, ma anche ministeri, comuni e tutte le altre amministrazioni. Ma sulla sanità c’è anche un altro intervento, previsto dalla legge di Stabilità: gli ospedali che non registrano né risultati economici né un’adeguata performance clinica dovranno avviare un percorso di rientro su entrambi i fronti. Vale l’approccio che cerco di dare a tutta la spending review: non si tratta solo di mettere a dieta lo Stato, ma di fargli cambiare stile di vita perché poi non servano sempre nuove diete. L’utilizzo dei costi standard dei Comuni sono un altro esempio».

Tutto avviene su uno sfondo di tensione crescente fra il governo italiano e la Commissione Ue. Come si spiega?
«Ciò che l’Italia sta chiedendo, anche sui conti pubblici, è nelle regole. Non chiediamo niente che non sia previsto. C’è la percezione che su qualche dossier l’approccio della Commissione verso l’Italia sia stato, forse, più rigido rispetto a quello verso altri Paesi. L’Italia chiede solo il rispetto e la considerazione dovuti a un Paese che negli ultimi due anni ha fatto riforme importantissime, come forse pochi altri in Europa. Non a caso stiamo ottenendo risultati apprezzabili di crescita e riduzione della disoccupazione».

Eppure polemiche così accese fra Bruxelles e altri governi si vedono di rado. Un problema di comunicazione?
«Può darsi che in passato la debolezza dell’Italia, dovuta alla mancanza di riforme e a una performance economica nettamente inferiore a quella degli altri, non abbia consentito di chiedere con più forza dei riconoscimenti».

Ma ora perché non cercate di farvi capire meglio in Europa?
«Non credo sia un problema di comunicazione. La questione è politica. Il punto è ottenere a Bruxelles risultati che forse nel passato non siamo stati in grado di raggiungere a causa della nostra debolezza. Lo sottolineo: è un dibattito politico. Temo che discutere di comunicazione sia un pretesto».

Per esempio, state discutendo da più di un anno con Bruxelles sulla «bad bank» per liberare le banche dai crediti in default. Davvero è così importante?
«Sicuramente quello è uno strumento molto utile, soprattutto per le banche piccole, per consentire loro di gestire meglio la questione dei crediti in difficoltà che rendono i loro bilanci più problematici. Quindi sì, è importante».

E non c’è. L’Italia entra nel sistema europeo che fa pagare i risparmiatori in caso di salvataggio pubblico delle banche senza avere risolto il problema.
«Spero che questo negoziato sia agli sgoccioli. Mi auguro sia risolto in tempi brevissimi».

Alcuni dicono che la tempesta sulle banche in Borsa è frutto della tensione fra Roma e Bruxelles. Che ne pensa?
«Abbiamo un sistema bancario solido, fatto per due terzi di banche internazionali, a partire da Unicredit e Intesa Sanpaolo. Per un terzo invece è fatto da banche più piccole, che hanno bisogno di aggregarsi per diventare più forti e di ricapitalizzarsi per gestire il tema dei crediti in difficoltà. Il governo ha affrontato le riforme strutturali che servono a rendere questo pezzo meno forte del sistema bancario altrettanto forte: abbiamo fatto la riforma delle banche popolari e stiamo per fare quella delle banche di credito cooperativo. Anche per questo chiediamo alla Commissione europea più considerazione».

Però il mercato sembra non fidarsi. Perché secondo lei?
«C’è un contesto internazionale di caduta delle Borse negli ultimi giorni. Ma non è vero che i mercati non si fidano dell’Italia. Piazza Affari nel 2015 ha registrato dei progressi fra i maggiori in Europa. Paghiamo sui titoli di Stato interessi più bassi della Spagna, e prima non succedeva. Nell’ultimo anno la fiducia degli investitori nell’Italia è aumentata notevolmente. Ora c’è un fenomeno congiunturale che riguarda certe banche, per i motivi che ci siamo detti».

Senza «bad bank» il problema è gestibile?
«Credo che la cosa fondamentale siano le riforme strutturali. Questo sì. La bad bank sicuramente sarebbe utile, e credo che ci siano tutte le premesse per farla partire. Ma il punto fondamentale è l’insieme di interventi che abbiamo già lanciato per far crescere l’economia».

20 gennaio 2016 (modifica il 20 gennaio 2016 | 09:23)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/economia/16_gennaio_20/italia-ue-parla-gutgeldl-europa-ci-tratti-come-altri-avanti-la-spending-riforme-marciano-226cb460-bf47-11e5-b186-10a49a435f1d.shtml
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« Risposta #58 inserito:: Gennaio 27, 2016, 06:48:22 pm »

LE SOFFERENZE delle banche
Bad bank, garanzie a pagamento per l’accordo con l’Europa
L'intesa fra il governo e la Commissione Ue è arrivato dopo un negoziato di un anno.
Il comunicato del Tesoro I punti deboli di una lunga trattativa, la mancanza di efficacia dei massimi vertici amministrativi del Tesoro, la rigidità dell’esecutivo Ue

Di Federico Fubini

Il meccanismo, ha avvertito lo stesso ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, è «un po’ più complicato» di una semplice garanzia statale o probabilmente anche di quanto il governo sperasse all’inizio. Ma ora c’è. L’accordo fra la Commissione europea e l’Italia su un metodo per aiutare le banche a vendere i propri crediti inesigibili è stato trovato solo martedì sera, al termine di un negoziato partito all’inizio di febbraio del 2015.

In un comunicato di mercoledì mattina il ministero dell’Economia ha chiarito i contorni dell’accordo. «Lo Stato garantirà̀ soltanto le tranche senior delle cartolarizzazioni, cioè̀ quelle più̀ sicure, che sopportano per ultime le eventuali perdite derivanti da recuperi sui crediti inferiori alle attese», si legge. In sostanza, la garanzia sarà riservata solo ai segmenti di maggiore valore e affidabilità dei pacchetti di prestiti deteriorati che le banche cercheranno di cedere agli investitori. Questi ultimi poi potrebbero rilavorarli in modo da metterli sul mercato come titoli strutturati (composti da tanti piccoli crediti), che offriranno un flusso di cassa in base ai pagamenti residui da parte dei debitori o dalla vendita dei beni che questi avevano posto a garanzia dei prestiti stessi.

La garanzia – spiega il Tesoro - sarà condizionata al fatto che questi pacchetti di prestiti abbiano un rating (giudizio di affidabilità) di livello accettabile. E potrà essere richiesta sia dall’operatore che compra questi pacchetti dalle banche, che dalle banche stesse se intendono rilavorare e mettere sul mercato direttamente i propri crediti in difficoltà. Nel comunicato di questa mattina, il ministero dell’Economia spiega che il prezzo della garanzia sarà calcolato sulla base del prezzo delle assicurazioni in derivati (credit default swaps) a favore di titoli obbligazionari di livello di rischio comparabile a quello di quei crediti malati. In sostanza, ci saranno riferimenti di mercato automatici che determinano il valore delle garanzie. Ma più passano gli anni, più il prezzo della garanzia salirà per ogni singolo pacchetto di crediti cartolarizzati e messi sul mercato.

L’obiettivo ultimo dell’operazione è dunque chiaro: creare pacchetti di titoli composti da crediti deteriorati, ma di buona qualità. Questi ultimi poi potranno essere comprati dalla Banca centrale europea nelle sue operazioni di “quantitative easing”, acquisto di obbligazioni con moneta appena creata. Il solo dubbio è che sia troppo ridotto il volume di titoli di questa qualità elevata nella montagna di credito malato delle banche italiane.

È dunque un accordo limitato, ma è almeno un punto dal quale ripartire.  A bocce ferme, sia il governo che la Commissione dovranno chiedersi cos’è che non ha funzionato. C’è voluto troppo tempo per arrivare a una decisione così importante per voltare pagina dopo la recessione. L’Italia paga senz’altro la lentezza con la quale ha maturato la scelta di un intervento a favore delle banche, a partire dall’ormai lontano 2011; ma paga probabilmente anche un negoziato che nell’ultimo anno non sempre è stato svolto con tutta l’efficacia necessaria da parte dei massimi vertici amministrativi del ministero dell’Economia.

 La Commissione Ue per parte propria ha rivelato, accanto a una grande attenzione alle regole che limitano gli aiuti di Stato, alcuni atteggiamenti di una intransigenza a tratti irragionevole. Di certo il quadro di regole che obbligano a colpire i risparmiatori se anche un solo euro di intervento pubblico viene concesso alle banche, si sono dimostrate per quello che era prevedibile fossero: talmente rigide da rischiare di creare l’opposto di ciò per cui sono state disegnate, il contagio finanziario e l’insicurezza del risparmiatori, anziché la stabilità necessaria alla ripresa. Ma questo è il passato, e in politica come in finanza conta soprattutto il futuro. Quando i contorni dell’accordo di martedì sera diverranno chiari nei dettagli, a partire dai prossimi giorni, ci si renderà conto probabilmente che il meccanismo emerso dal negoziato di Padoan a Bruxelles è piuttosto minimalista. Non poteva essere altrimenti, a questo punto. Ma certo non rappresenterà di per sé il grande colpo di spugna che permette alle banche italiane di liberarsi di crediti inesigibili per 200 miliardi di euro senza registrare forti perdite in bilancio.

C’è però un lato positivo da non sottovalutare: comunque sia, ora la lunga incertezza è finita. Per quanto di minima, il meccanismo di garanzie per la gestione di quella montagna di prestiti cattivi adesso c’è e presto tutti lo conosceranno e ne misureranno esattamente l’efficacia. Avanzato o meno, questo è il punto dal quale l’Italia e le sue banche da oggi in poi potranno finalmente ripartire per mettersi alle spalle i postumi di una lunghissima recessione.

Quel patto Roma-Bruxelles se non altro aiuta a stabilire con più chiarezza le forze in campo e i valori intrinseci di ciascuna banca italiana, soprattutto di quelle più cariche di crediti in sofferenza come Montepaschi di Siena o il Banco Popolare di Verona. Il mercato detesta l’incertezza e almeno questo fattore destabilizzante sarà meno pericoloso da stamattina. A partire da qui, sarà più facile per tutti accelerare nel processo che da ora in poi dovrà portare a nuove aggregazioni fra banche medie e medio grandi in Italia. Le protagoniste saranno inevitabilmente Ubi di Bergamo, la Banca popolare di Milano, fra le banche più solide, e le stesso Montepaschi, il Banco Popolare e altre fra quelle meno in grado di condurre le danze.

Quello delle aggregazioni bancarie è il nuovo capitolo che si sta aprendo nell’economia italiana. Grazie anche all’accordo di ieri sera fra Padoan e Vestager. Forse non è abbastanza, ma non è poco.

27 gennaio 2016 (modifica il 27 gennaio 2016 | 11:22)
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Da - http://www.corriere.it/economia/16_gennaio_27/quel-mini-accordo-banche-bruxelles-che-puo-segnare-svolta-97f45876-c4c1-11e5-9027-934aa0fd82d6.shtml
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« Risposta #59 inserito:: Marzo 23, 2016, 06:04:00 pm »

La sede dell’unione europea
Bruxelles: il cuore ferito della città simbolo, capitale di tutta l’Europa
La capitale del Belgio non è solo la sede della burocrazia, ma il luogo in cui si decidono i destini di milioni di persone

Di Federico Fubini

Nessuno affiderebbe la sicurezza di Washington alla polizia del Distretto di Columbia o ai servizi segreti della Virginia. Nessuno sarebbe sfiorato dall’idea di proteggere così la Casa Bianca o il Congresso Usa, eppure è esattamente quanto accade a Bruxelles. La capitale dell’Unione Europea e sede dell’Alleanza atlantica, la città al centro di un sistema da 508 milioni di abitanti e di un’economia vasta come quella degli Stati Uniti, è protetta come un vecchio insediamento di campagna. Le sue difese dicono tutto della riluttanza dell’Europa ad accettare il ruolo politico che, perversamente, persino gli islamisti gli hanno riconosciuto attraverso il sangue versato martedì.

Sei distinte polizie
A Bruxelles si decide in questi mesi il futuro di milioni di profughi siriani e quello della seconda moneta del mondo. Angela Merkel vi si gioca la cancelleria di Berlino, e il suo posto nei libri di storia. Nel frattempo la sicurezza è nelle mani delle autorità belghe e della Région Bruxelles-Capitale. Questo significa che non può neanche contare su un corpo di polizia unificato — in città operano sei distinte forze, su base rionale e clientelare — né su un servizio segreto paragonabile anche solo a quello di una media potenza occidentale. Dopo gli attacchi a Charlie Hebdo a Parigi nel gennaio 2015, il governo belga scoprì che gli mancavano 150 su 750 agenti dell’intelligence; da allora ne ha reclutati 42 ma, scrive Politico, resteranno in addestramento per almeno due anni.

Forse il problema è che Bruxelles è troppe cose in una, riunisce troppe contraddizioni in uno spazio più piccolo di Milano. La popolazione araba è iniziata ad arrivare negli anni 50 dal Marocco, dalla Tunisia e dall’Algeria assieme a quella italiana, turca o portoghese: tutti reclutati nei loro Paesi per le miniere o le acciaierie della Vallonia. Oggi sono di religione musulmana 300 mila bruxellesi, poco più di un quarto degli abitanti della capitale; dal 2013 la Valonia, la regione francofona, ha rinominato la sosta natalizia nelle scuole «vacanze d’inverno» per non urtare nessuna suscettibilità. La grande maggioranza dei musulmani coesiste in pace con le altre comunità. C’è poi una minoranza ambigua abbastanza ampia da aver garantito per mesi la copertura del terrorista Salah Abdeslam a Molenbeek, a mezz’ora di bicicletta dalla Commissione Ue. Lì accanto, al mercato degli scannatoi di Anderlecht, si fatica a riconoscere una sola persona di origine europea in una folla da stadio.

Stili diversi
A Bruxelles si cammina per pochi isolati, e può cambiare la lingua ammessa negli uffici pubblici (dal francese al fiammingo). Ancora più spesso in una passeggiata di cinque minuti cambiano gli odori e gli abiti dei passanti, dalle cravatte firmate, alle tuniche salafite, ai copricapo tribali del Congo. La Tour Madou, da dove i funzionari della Concorrenza della Commissione Ue decidono il futuro delle banche italiane, all’interno è perfettamente asettica. Pratica e disadorna in perfetto stile eurocratico. Fuori invece è avvolta dalla popolazione musulmana di Saint Josse, demograficamente debordante e sempre più spesso radicalizzata nei suoi giovani in cerca di identità. Dall’altra parte del quartiere europeo, alle spalle del nuovo e enorme Parlamento, le vie principali di Ixelles sono piene di caffè di gusto francese e di giovani laureati da ogni angolo d’Europa. Ma le piccole traverse sono disseminate di obsoleti Internet café dove figli di immigrati marocchini o bengalesi passano le notti sempre sugli stessi siti web in arabo.

Troppo complessa e simbolica
Bruxelles è troppo complessa, importante e simbolica per considerare quello di martedì un attacco solamente al Belgio. Persino i nostri nemici, tragicamente, dichiarano con un atto di guerra che questa è la capitale politica d’Europa e per i cittadini come per i governi è tempo di trattarla come tale. Bruxelles si era preparata per mesi a questa giornata. Sotto Natale il governo belga aveva persino imposto un lungo coprifuoco; eppure ieri, più di un’ora dopo la prima strage in aeroporto, nessuno si era curato di fermare le metropolitane per prevenire il secondo colpo.

Serve una forza di sicurezza europea
Lasciare la sicurezza di Bruxelles al governo belga e alle sue polizie rionali è come pretendere che il governo greco e i pescatori di Lesbo gestiscano da soli le ondate dei rifugiati. Serve una forza di sicurezza europea, lungo i confini e anche nel centro nevralgico dell’Unione. I terroristi che hanno colpito il cuore dell’Unione sembrano capire queste contraddizioni più di noi stessi europei. Facendo esplodere le bombe nell’aeroporto di Zaventem e nel metrò a due passi dalla Commissione e dal Paramento Ue trattano Bruxelles — nel loro modo orrendo — da capitale degli Stati uniti d’Europa. Si vedrà presto se la risposta sarà a questa altezza. O se dopo le lacrime prevarranno ancora le fughe illusorie dietro i muri o le piccole frontiere, dove proprio i nostri nemici vorrebbero rinchiuderci.

22 marzo 2016 (modifica il 22 marzo 2016 | 23:41)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/cronache/16_marzo_23/bruxelles-cuore-ferito-citta-simbolo-capitale-tutta-europa-ecbe4880-f077-11e5-b1a2-f236e4ccb109.shtml
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