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Autore Discussione: Federico FUBINI.  (Letto 37882 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Gennaio 01, 2015, 11:49:34 am »

Per salvare la moneta unica la Bce e Berlino sono pronti a rivedere il Trattato europeo
La vigilanza bancaria potrebbe essere affidata a un'autorità indipendente e non più all'Eurotower

Di FEDERICO FUBINI
30 dicembre 2014
   
IN PRIVATO, Jean-Claude Juncker va dicendo che quella che lui presiede è la Commissione europea "dell'ultima chance". Al suo piano di investimenti il lussemburghese ha dato un orizzonte di tre anni, perché è convinto che questo sia lo spazio rimasto all'euro per dimostrare di poter resistere alla prossima recessione. Non pensa di avere molto tempo di più: neanche ora che i governi più influenti e la stessa Bce, con discrezione, si preparano a rimettere mano al Trattato europeo nel 2015 per raddrizzare l'edificio della moneta unica.

Gli interventi dovrebbero toccare alcune delle innovazioni che i governi europei lanciarono due anni fa per fermare l'implosione del sistema, a partire dall'unione bancaria. La vigilanza sulle banche fu affidata alla Bce, ma ora rischia di entrare in conflitto con le scelte dell'Eurotower sui tassi d'interesse o la liquidità da offrire agli istituti stessi. Di qui l’idea -  presente anche a Berlino -  di creare un'autorità europea indipendente votata a sorvegliare gli istituti di credito. Come sempre però, quando i governi riaprono il Trattato che li lega, è facile capire da dove partiranno. Meno chiaro è fino a dove si spingeranno poi nel conferire a Bruxelles nuovi poteri sui bilanci pubblici, sul mercato del lavoro, le liberalizzazioni, la modernizzazione delle burocrazie o i sistemi di welfare.

Il 2015 promette di essere decisivo per capire se l'area euro può rafforzarsi andando avanti e avere un futuro, ma l'anno inizia da un nuovo terremoto con epicentro ad Atene. Syriza si sta avvicinando al potere in Grecia grazie alla promessa di ripudiare buona parte del debito verso gli altri Paesi europei. Non sarà una passeggiata. Nel 2015 Atene deve rimborsare agli investitori privati titoli per 16 miliardi di euro: se voltasse le spalle all'Europa e i creditori le tagliassero i rifornimenti, il prossimo governo greco non avrebbe altra scelta che tornare a stampare moneta propria per continuare ad esistere. Sarebbe un segnale per tutti, Italia inclusa, che l'euro non è per sempre e il solo sospetto che la porta d'uscita si è aperta può bastare a far salire i tassi d'interesse verso livelli pericolosi.

Per questo il calendario del prossimo mese ricorda il percorso in un campo minato. Fra nove giorni il consiglio direttivo della Bce si riunisce per discutere se e cosa decidere all'incontro seguente, fissato tre giorni prima delle elezioni greche del 25 gennaio. Le ipotesi sul tavolo sono note: fra i 24 banchieri centrali al vertice dell'Eurotower c'è un'ampia maggioranza per iniettare nuova liquidità nell'economia lanciando un piano di acquisti di titoli di Stato da almeno 500 miliardi di euro. Senza interventi di questa taglia -  probabilmente da raddoppiare o triplicare nei prossimi anni -  l'Europa non può emergere dalla deflazione che ora sta aumentando in modo insostenibile il peso dei debiti pubblici e privati in tutta l'area. Jens Weidmann, il presidente della Bundesbank, è contrario: per lui mettere sul bilancio della Bce titoli di Stato di Roma, Madrid o Lisbona significa esporre la Germania a perdite se quei Paesi facessero default, perché la Bundesbank è azionista dell'Eurotower per circa il 30% del capitale. Di qui i dilemmi di Draghi e il percorso di guerra che gli si presenta nelle prossime quattro settimane. La pressione per varare gli interventi sui titoli di Stato prima delle elezioni greche è massima, perché l'euro ha bisogno di una nuova rete di sicurezza prima che da Atene arrivino nuove scosse. La banca centrale può sempre decidere di escludere la carta greca dagli acquisti, fino a quando il nuovo governo non deciderà se continuare o meno il programma di assistenza europea.

Anche così, per Draghi resta tutt'altro che facile mettere in minoranza la Bundesbank e obbligare la Germania -  contro la sua volontà -  a farsi carico tramite la Bce del rischio su centinaia di miliardi di debito italiano, portoghese o spagnolo. Ancora meno lo è mentre un governo del Sud Europa annuncia il suo rifiuto a ripagare i prestiti ricevuti.

Weidmann ha suggerito che può accettare un compromesso, anticipato su Repubblica il 4 dicembre: ciascuna banca centrale nazionale terrebbe su di sé tutto il rischio di insolvenza sui titoli del proprio Stato. Il rischio sui Btp del Tesoro di Roma comprati dalla Bce sarebbe concentrato tutto sulla Banca d'Italia, quello sui Bonos alla Banca di Spagna, e così via. Anche questa ipotesi però ha controindicazioni, perché può segnare un cambio profondo nella natura delle istituzioni europee. Oggi il 34% del debito italiano (circa 620 miliardi) è in mano a investitori esteri, ma questi ultimi finirebbero per vendere rapidamente alla Bce i loro titoli del Tesoro, la quale a sua volta li trasferirebbe alla sola Banca d'Italia. In poco tempo il rischio del debito italiano finirebbe concentrato tutto entro i confini del Paese, l'Italia sarebbe finanziariamente separata dal resto d'Europa più di 20 anni fa e l'unione monetaria somiglierebbe sempre di più a un gruppo di Paesi con cambi fissi, ma in attesa di andare ciascuno per la sua strada. Con o senza insolvenza pilotata sul debito, a carico unicamente dei risparmiatori e contribuenti nazionali. Non il modo migliore di iniziare l'anno che, finalmente, dovrebbe dare all'euro un futuro migliore.


© Riproduzione riservata 30 dicembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/economia/2014/12/30/news/per_salvare_la_moneta_unica_la_bce_e_berlino_sono_pronti_a_rivedere_il_trattato_europeo-103983364/?ref=HREC1-2
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« Risposta #31 inserito:: Gennaio 05, 2015, 05:10:35 pm »

Ecco le Uber dei prestiti: dall’americana Lending ai gruppi inglesi e cinesi, il web sfida le banche

Come l’azienda che ha destabilizzato il mondo dei taxi, le società che prestano soldi via Internet con il sistema “peer to peer” provano a rivoluzionare il settore bancario

Di FEDERICO FUBINI
31 dicembre 2014
   
IERI sera una società chiamata Lending Club stava salendo del 3% alla Borsa di New York, mentre il listino dell’S&P500 continuava a perdere colpi. È un’impresa piccola e giovane, che l’anno scorso ha chiuso il suo primo bilancio in utile (7 milioni di dollari), eppure a colpo d’occhio rivela alcuni aspetti singolari. Il primo: ha una valutazione completamente fuori scala rispetto alla sue capacità attuali di generare reddito, perché scambia in Borsa da appena due settimane ma capitalizza già più di nove miliardi di dollari.
I nomi che presenta in consiglio di amministrazione - seconda stranezza - sembrano più adatti una banca dell’antica aristocrazia del denaro di Wall Street: non a una start-up di San Francisco fondata nel 2010. Fra loro c’è l’ex segretario al Tesoro e consigliere economico di Barack Obama, Larry Summers, e John Mack, l’uomo che guidò Morgan Stanley nella tempesta finanziaria del 2008. Entrambi sono azionisti, stanno moltiplicando la loro ricchezza dopo un balzo in Borsa del 60% nel primo giorno di quotazione a Wall Street e la loro presenza segnala che qualcosa sta per accadere.

I molti sostenitori ritengono di sapere cosa sia: Lending Club e i suoi molti concorrenti come Prosper negli Stati Uniti o Funding Circle in Gran Bretagna diventeranno per le banche ciò che Uber è per i taxi, Bookings. Com, Edreams o Airbnb è per le agenzie di viaggio, eBay per i mercatini delle pulci, iTunes per i negozi di dischi, Amazon per le librerie o YouTube per la televisione. I destabilizzatori dei vecchi modelli industriali. È Internet che ancora una volta irrompe in un settore tradizionale, questa volta il credito, e sfida i protagonisti tradizionali con le armi della velocità e della convenienza: questa volta le banche.

Dagli Stati Uniti, alla Gran Bretagna, alla Germania, fino alla Cina, esistono una trentina di questi prestatori basati sul web. Estendono soprattutto prestiti al consumo e alle piccolissime imprese, per alcune decine di miliardi di dollari l’anno. Ne esistono anche in Italia - fra questi Smarika - ma non hanno piena autorizzazione ad operare da parte dei regolatori. I prestiti di Lending Club o dei suoi concorrenti sono strutturalmente diversi da quelli delle banche: funzionano su base "peer to peer" (da pari a pari) o "marketplace lending". In altri termini, questi società sul web gestiscono algoritmi capaci di analizzare miliardi di dati sui debitori, formulare una stima statistica del rischio che essi rappresentano, fissare un tasso d’interesse e smistare loro i prestiti che arrivano dagli investitori. Nella formula di base, è un modello simile a eBay. L’azienda non presta i propri fondi come farebbe una banca, ma intermedia fra investitori nel credito e famiglie o piccole imprese che cercano di finanziarsi. Spesso il debitore ha bisogno di denaro per pagare bollette o rimborsi sulla carta di credito e il prestatore cerca rendimenti superiori a quelli dei titoli di Stato. L’azienda guadagna chiedendo una commissione ai prestatori (di solito l’1% dell’operazione) e ai debitori (di solito fra i 2% e il 5%), secondo la boutique di Lugano Compass.

Nelle forme più sviluppate di "marketplace lending", come quella praticata da Lending Club, questi sistemi agiscono come una Borsa valori. Il New York Stock Exchange o Borsa italiana sono un luogo di incontro elettronico fra le imprese quotate e milioni di compratori o venditori delle loro azioni, che non si incroceranno mai fisicamente ma trattano tramite la società di borsa. Allo stesso modo, i software dei siti di prestiti lavorano su quantità colossali di dati non solo finanziari (ubicazione geografica, età, interessi, navigazione su web, acquisti online, social network) per valutare chi chiede un prestito e farlo incontrare con chi offre credito. Privi di filiali, con personale ridotto ma specializzato, queste imprese attraggono interesse perché hanno costi di gestione del 60% più bassi di quelli di una banca, dunque riescono a fare credito a tassi inferiori e a offrire rendimenti superiori a chi investe. In Gran Bretagna all’inizio del mese una società online di nome Zopa praticava prestiti personali al 4,9%, mentre il tasso medio delle banche era al 6,3%. Negli Stati Uniti i rendimenti offerti da Lending Club attraggono tanto denaro da fondi speculativi e investitori istituzionali che l’azienda ha dovuto rallentare i sistemi di software per lasciar spazio anche al credito offerto dai piccoli risparmiatori.

È una palla di neve che ha appena iniziato a rotolare: i prestiti personali di Lending Club sono appena 4 miliardi l’anno, un millesimo di quelli delle banche. E come sempre, non mancano i problemi: l’euforia speculativa a Wall Street, in prospettiva la distruzione di posti di lavoro nei vecchi sportelli di banca, e i conflitti d’interesse. Un’azienda così può essere tentata di presentare all’investitore un prestito come più sicuro di come sia in realtà, pur di concludere l’operazione. Nel frattempo la palla di neve rotola ancora: l’Italia ha la scelta se affrontarla e gestirla adesso, oppure fra qualche anno esserne semplicemente investita.

© Riproduzione riservata 31 dicembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/economia/2014/12/31/news/ecco_le_uber_dei_prestiti_dallamericana_lending_ai_gruppi_inglesi_e_cinesi_il_web_sfida_le_banche-104052204/?ref=HRER2-1
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« Risposta #32 inserito:: Gennaio 19, 2015, 07:09:11 am »

La crisi raddoppia il patrimonio alle dieci famiglie più ricche di 20 milioni di italiani
A partire dal 2008 drastico allargamento delle distanze sociali.
Tra gli abbienti sale il ceto produttivo, giù quello delle rendite

di FEDERICO FUBINI
19 gennaio 2015
   
ROMA - Mentre crollava Lehman Brothers, falliva la Grecia, l'America eleggeva il primo presidente nero, l'ultimo governo di Silvio Berlusconi scivolava via, mentre la Cina cresceva del 60% e Apple diventava la società di maggior valore al mondo, in Italia si consumava un evento storico. In sordina, però. Magari tutti erano troppo presi a seguire gli altri eventi, quelli che hanno segnato le prime pagine dal 2008 in poi, per accorgersene. Eppure non era invisibile, perché è stato uno spettacolare doppiaggio a grande velocità.

E' andata così. Nel 2008 la ricchezza netta accumulata del 30% più povero degli italiani, poco più di 18 milioni di persone, era pari al doppio del patrimonio complessivo delle dieci famiglie più ricche del Paese. I 18,1 milioni di italiani più poveri in termini patrimoniali avevano, messi insieme, 114 miliardi di euro fra immobili, denaro liquido e risparmi investiti. Le dieci famiglie più ricche invece arrivavano a un totale di 58 miliardi di euro. In altri termini persone come Leonardo Del Vecchio, i Ferrero, i Berlusconi, Giorgio Armani o Francesco Gaetano Caltagirone, anche coalizzandosi, arrivavano a valere più o meno la metà di un gruppo di 18 milioni di persone che, in media, potevano contare su un patrimonio di 6.300 euro ciascuno.

Cinque anni dopo, e siamo nel 2013, sorpasso e doppiaggio sono già consumati: le dieci famiglie con i maggiori patrimoni ora sono diventate più ricche di quanto lo sia nel complesso il 30% degli italiani (e residenti stranieri) più poveri. Quelle grandi famiglie a questo punto detengono nel complesso 98 miliardi di euro. Per loro un balzo in avanti patrimoniale di quasi il 70%, compiuto mentre l'economia italiana balzava all'indietro di circa il 12%. I 18 milioni di italiani al fondo delle classifiche della ricchezza sono scesi invece a 96 miliardi: una scivolata in termini reali (cioè tenuto conto dell'erosione del potere d'acquisto dovuta all'inflazione) di poco superiore al 20%. Quanto poi a quelli che in base ai patrimoni sono gli ultimi dodici milioni di abitanti, il 20% più povero della popolazione del Paese, lo squilibrio è ancora più marcato: nel 2013 le 10 famiglie più ricche d'Italia hanno risorse patrimoniali sei volte superiori alle loro.

Sono questi i risultati più sorprendenti di un approfondimento che Repubblica ha svolto sui patrimoni degli italiani durante gli anni della crisi. L'analisi si basa sui dati pubblicati dalla Banca d'Italia relativi alla ricchezza netta nel Paese e la sua suddivisione fra strati sociali. Per le famiglie con i dieci maggiori patrimoni, una lista che negli anni è cambiata, le informazioni sono tratte dalla classifica annuale dei più ricchi stilata dalla rivista Forbes. Inevitabilmente né l'una né l'altra serie di dati è perfetta, molte informazioni sui patrimoni non sono pubbliche e restano soggette a stime più o meno accurate. Ma le tendenze emergono con prepotenza e raccontano due storie di segno diverso. La prima non è a lieto fine: dal 2008 l'Italia ha subito un colossale abbattimento di ricchezza che si è scaricato con forza verso la parte bassa della scala sociale, mentre al vertice tutto si svolgeva in modo opposto. Lassù il ritmo dell'accumulazione di patrimoni personali accelerava come forse mai negli ultimi decenni. La seconda storia invece fa intravedere un po' di luce in fondo al tunnel, perché la lista dei super-ricchi è cambiata in modo tale da alimentare qualche speranza sulle capacità del Paese di produrre in futuro più innovazione, lavoro e reddito e meno rendite più o meno parassitarie.

Sicuramente il punto di partenza di questi anni non è incoraggiante. Calcolata in euro del 2013, la ricchezza netta totale degli italiani crolla di 814 miliardi negli ultimi cinque anni (quelli per i quali sono disponibili i dati, fino appunto al 2013). Sparisce nella voragine della recessione quasi un decimo di patrimonio netto delle persone che vivono in questo Paese. Circa due terzi di questa erosione si spiega con il calo del valore delle case, mentre il resto è dovuto a perdite finanziarie o al ricorso di certe famiglie ai risparmi per sostenere le spese quotidiane. Per la parte della ricchezza in mano ai ceti meno ricchi, Repubblica assume che la loro quota nel 2013 sul totale del patrimonio degli italiani sia rimasta invariata rispetto al 2010: è ad allora che risalgono gli ultimi dati disponibili. In realtà questa è una stima ottimistica, perché la tendenza alla diminuzione della quota di patrimonio dei più poveri è evidente dagli anni precedenti. Nel 2000 per esempio il 40% più povero della popolazione residente in Italia, 24 milioni di persone, aveva patrimoni pari al 4,8% della ricchezza netta totale del Paese. Dieci anni dopo quella quota era già scesa al 4,2%.

Anche così, il calo dei patrimoni della "seconda" metà d'Italia, l'Italia meno ricca, è superiore alla media del Paese. Chi è già povero si impoverisce più in fretta. Nel 2013 quei 30 milioni di italiani avevano nel complesso 829 miliardi (mentre gli altri 30 controllavano gli altri 8500). Nel 2008 però quegli stessi 30 milioni di persone avevano (in euro 2013) per l'esattezza 935 miliardi. Dunque la "seconda" metà del Paese durante la Grande Recessione è andata giù dell'11,3% in termini patrimoniali. La prima metà invece, i 30 milioni di italiani più ricchi, è scesa dell'8,2%. Gli uni non solo erano molto più poveri degli altri prima della crisi: si sono impoveriti di più durante. Tutt'altro Paese invece per le prime dieci famiglie. La loro ricchezza netta sale di oltre il 60% in termini reali fra il 2008 e il 2013 e la loro quota sul patrimonio totale degli italiani aumenta. Cambia però anche un altro dettaglio: la loro composizione. I più ricchi del 2013 non sono gli stessi del 2008 o del 2004 e per certi aspetti formano una lista più interessante. Ora nel gruppo si trovano famiglie meno dedite alle rendite di posizione, alla speculazione pura o al rapporto con la politica per fare affari. Adesso dominano i primi posti imprenditori più impegnati nella creazione di valore, lavoro e manufatti innovativi che interessano al resto del mondo.

Negli anni, escono dalla graduatoria di Forbes o scivolano in basso i capitalisti italiani che basano i loro affari su concessioni pubbliche o investimenti immobiliari e finanziari. Emblematica - non isolata - la vicenda dei Berlusconi, che negli ultimi cinque anni perdono 3,2 miliardi di patrimonio e scivolano dal primo posto del 2004, al terzo del 2008, al sesto del 2013. Sale in fretta invece il patrimonio di produttori industriali dediti all'export. Succede nell'alimentare (i Ferrero o i Perfetti), nella moda e lusso (Del Vecchio di Luxottica, Giorgio Armani, Miuccia Prada e Patrizio Bertelli, Renzo Rosso), nella farmaceutica e nell'industria ad alto contenuto tecnologico (Stefano Pessina o i Rocca di Techint). Escono dalla top ten invece investitori finanziari-immobiliari come Caltagirone o chi in passato ha puntato troppo sulle banche. Questa diversa qualità del capitale vincente è un passo avanti di un'Italia sempre più piena di squilibri. È un Paese che forse però si sta liberando, nel dolore, di alcuni dei peggiori vizi del suo capitalismo. Meglio, quanto a questo, della Gran Bretagna, dove Oxfam ha condotto un'inchiesta di cui questa di Repubblica è la replica per l'Italia. Lì i più ricchi, sempre più ricchi, restano gli eredi della vecchia nobiltà proprietaria di decine di ettari di palazzi a Londra come il duca di Westminster o i Cardogan, o imprenditori indiani come gli Hinduja o i Reuben. Se risolverà il problema della povertà, e uscirà dalla crisi, forse è l'Italia fra le due a potersi ritrovare con una marcia in più.

© Riproduzione riservata 19 gennaio 2015

Da - http://www.repubblica.it/economia/2015/01/19/news/la_crisi_raddoppia_il_patrimonio_alle_dieci_famiglie_dei_paperoni_ora_pi_ricche_di_20_milioni_di_italiani-105248084/?ref=HRER1-1
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« Risposta #33 inserito:: Gennaio 22, 2015, 05:27:15 pm »

"Quantitative easing", più moneta in circolazione: la rete dell'Eurotower contro la caduta dei prezzi
Che cos'è, come funziona e a che serve l'allentamento quantitativo delle condizioni monetarie nell'area euro: I tassi dovrebbero scendere e l'export crescere

Di FEDERICO FUBINI
22 gennaio 2015

MARIO Draghi, 67 anni, è probabilmente arrivato al giorno più importante da quando, dall'inizio di novembre del 2011, riveste il ruolo di presidente della Banca centrale europea. Salvo destabilizzanti sorprese, oggi alle 14,30 annuncerà da Francoforte ciò che i mercati in tutto il mondo aspettano: il "quantitative easing " (QE), l'allentamento "quantitativo" delle condizioni monetarie nei 19 Paesi dell'area euro.

1. Che cos'è il quantitative easing?
Questo termine è entrato con forza nella discussione pubblica nel 2009, quando la Federal Reserve varò il primo programma di acquisto di titoli del Tesoro e di titoli immobiliari americani dopo il fallimento di Lehman Brothers nel settembre del 2008. QE significa esattamente questo: creazione da parte di una banca centrale di moneta il cui valore è basato sulla fiducia nell'assetto istituzionale e nei fondamentali economici alle sue spalle; questa moneta viene creata con il QE per comprare sul mercato titoli pubblici o privati, immettendo così liquidità nell'economia.

2. Perché la Bce vuole lanciare questo programma?
Il compito primario della Bce è garantire la stabilità dei prezzi: né troppa inflazione né una caduta nel fenomeno opposto, la deflazione. È ben noto infatti che con la deflazione cadono i consumi e gli investimenti, l'economia ristagna e il peso del debito aumenta. L'obiettivo statutario della Bce è un carovita nella zona euro "vicino ma sotto al 2%", ma oggi lo sta mancando. Il tasso d'inflazione nell'area è in frenata dall'inizio del 2012 e dall'ottobre del 2013 ha improvvisamente rallentato sotto l'1%. Da allora è calato ancora di più, fino a diventare negativo in dicembre (-0,2%), segnalando una contrazione dei prezzi. La Bce deve riportarlo all'obiettivo, ma non può più farlo con la tecnica convenzionale di ridurre i tassi d'interesse richiesti sui prestiti che pratica alle banche. Dopo vari tagli, quei tassi sono infatti già a zero. Non resta che la via "quantitativa", cioè la creazione di moneta: il QE.

3. Come funziona il QE?
Nella sua visione più semplice, il QE può contribuire a risollevare la dinamica dei prezzi verso livelli normali proprio per effetto della quantità di moneta. Una quantità maggiore di euro in circolazione (3.000 miliardi invece di 2.000, secondo l'obiettivo espresso dalla Bce), a parità di prodotti in vendita, dovrebbe alzare il costo in euro di beni e servizi. L'esperienza della Fed, che con il QE dal 2008 a oggi ha espanso il suo bilancio da circa 600 miliardi a quasi 4.500 miliardi di dollari, dimostra le cinghie di trasmissione dalla banca centrale alla vita delle imprese e dei cittadini sono in realtà più articolate. Il QE della Fed ha ridotto i tassi a lungo termine in America, cioè il costo sostenuto da un imprenditore o da una famiglia per indebitarsi. In parte i tassi dei titoli a lungo termine scendono proprio perché dalla banca centrale arriva un'onda di liquidità per comprare quei bond. In parte lo fanno perché chi vende quei bond alla banca centrale, reinveste poi i proventi comprandone altri titoli sul mercato, dunque l'effetto di riduzione dei tassi si trasmette a cerchi concentrici in molte parti dell'economia. A loro volta tassi più bassi favoriscono gli investimenti, l'occupazione e la ripresa dell'attività e dei prezzi al consumo. L'altro effetto del QE, conseguenza diretta della enorme quantità di denaro creata, una svalutazione la moneta e dunque un aiuto all'export.

4. in Europa il QE può funzionare bene come negli Stati Uniti?
Alcuni indizi fanno sospettare di no. Un motivo di fondo è che le imprese in Europa e soprattutto in Italia attingono al credito in modo diverso rispetto a come avviene in America. Negli Stati Uniti le imprese si finanziano presso le banche per circa il 27% del credito che ottengono, e per il resto lo fanno emettendo titoli di debito (bond) sui mercati. Per loro l'aiuto della Fed, che riduce i tassi sui bond a sette o dieci anni, è dunque prezioso. In Europa invece circa metà del credito alle imprese passa dalle banche e in Italia la quota è ancora più alta. Per quanto riguarda poi le piccole e medie imprese, quelle dove si trova la gran parte dell'occupazione, il credito in bond in Europa rappresenta una frazione inferiore al 5% dei finanziamenti totali. Per funzionare in pieno in Europa, il QE dovrebbe essere accompagnato da un forte taglio delle tasse. Ma questo è reso più difficile dai vincoli europei al bilancio. Sta già funzionando in Europa l'altra cinghia di trasmissione del QE, la svalutazione della moneta che aiuta l'export. Da maggio scorso l'euro è già caduto del 15% sul dollaro e del 9% sul paniere delle valute dei Paesi con i quali gli europei commerciano di più.

5. Perché la Bundesbank è contraria al QE?
La Banca centrale tedesca teme che il QE, riducendo gli spread e i tassi sul debito pubblico, tolga la pressione al risanamento e alle riforme dai governi dei Paesi più fragili. Inoltre, ritiene scorretto che la Bce comprando quei titoli, assuma su di sé il rischio di subire perdite se quei Paesi facessero default. Quelle perdite infatti potrebbero essere suddivise pro-quota sulle banche centrali nazionali azioniste della Bce. Bundesbank inclusa.

© Riproduzione riservata 22 gennaio 2015

Da - http://www.repubblica.it/economia/2015/01/22/news/quantitative_easing_pi_moneta_in_circolazione_la_rete_dell_eurotower_contro_la_caduta_dei_prezzi-105484474/?ref=HREA-1
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« Risposta #34 inserito:: Maggio 01, 2015, 11:34:03 am »

Perché tutti vogliono le aziende di Berlusconi
L'analisi/ Da quando l'ex Cavaliere si è allontanato dal potere, qualcosa è cambiato nelle sue finanze

Di FEDERICO FUBINI

POCHE circostanze sembrano giovare alle fortune finanziarie di Silvio Berlusconi come il suo allontanamento dal potere. Da quando l'ex presidente del Consiglio è diventato tale, un primo ministro del passato, il valore della sua partecipazione in Mediaset è cresciuto di 1,2 miliardi di euro e quello della quota in Mediolanum, il gruppo di servizi finanziari, di un miliardo e mezzo.
Ne scrive Ettore Livini oggi sul nostro giornale. Sarebbe frettoloso e inesatto affermare che Berlusconi è più ricco da quando non è più premier semplicemente perché non lo è più. Nel frattempo, è accaduto qualcosa di più grande di lui e delle sue aziende. Passo dopo passo, l'Italia ha coperto il lungo viaggio di ritorno dai momenti più cupi del terremoto dell'euro del 2011 e 2012. Da allora si sono succeduti gli impegni e gli interventi della Banca centrale europea, prima a parole e poi a colpi di centinaia di miliardi di euro, che hanno finito per riportare nel Paese enormi quantità di capitali. Si può però essere perdonati se resta vivo un sospetto: l'aver lasciato il posto di Palazzo Chigi a uomini più competenti di lui, ha permesso a Berlusconi di risollevarsi almeno nel portafoglio. In modi diversi, i governi di Mario Monti, Enrico Letta e Matteo Renzi hanno facilitato i progressi in Europa e sui mercati che l'ex Cavaliere proprio non riusciva ad ispirare.
Non è un caso se oggi le imprese di Berlusconi siano corteggiate dai grandi protagonisti del settore globale dei media: Rupert Murdoch, padre padrone di NewsCorp e della sua controllata italiana Sky; e Vincent Bolloré, socio di Berlusconi stesso in Mediobanca (al 5% il primo, al 2% il secondo), dal prossimo giugno primo azionista di Telecom Italia con l'8,3% dei diritti di voto e già ora detentore di fatto del controllo del colosso francese dei media Vivendi.
In questo, Berlusconi finisce per far parte di una tendenza che non riguarda solo lui. Dopo molti anni l'Italia sta risalendo verso la vetta delle classifiche globali delle acquisizioni dall'estero. Capitalisti stranieri pubblici e privati sono interessati alle imprese italiane come non accadeva da tempo. L'accordo di ChinaChem su Pirelli è solo il caso più vistoso, ma l'indice di fiducia degli investitori esteri redatto dal gruppo di consulenza A. T. Kearney quest'anno mette l'Italia (in risalita) al 12esimo posto al mondo: affiancata all'India, e davanti a Olanda, Svizzera o Singapore. Non è detto che fuori dai confini si creda davvero che questo Paese stia entrando in una fase crescita sostenuta, ma questo interesse ha solide ragioni: qui la ripresa sta arrivando in ritardo rispetto al resto d'Europa, i prezzi delle imprese sono ancora relativamente bassi e la prospettiva di strappare dei buoni affari fa gola a molti fuori dai confini.
Entra così in scena il bretone Bolloré, grande conoscitore dell'Italia. Ha appena investito pesantemente per il controllo di fatto di Vivendi, un gruppo secondo solo a Google  -  nel settore dei media  -  per la cassa da spendere in acquisizioni. Pochi mesi Bolloré ha dichiarato che vuole far di Vivendi una "Bertelsmann a' la française ". Bertelsmann è un colosso tedesco che controlla testate televisive, società editrici di libri, di giornali e di dischi in vari Paesi: se questo è il modello, Bolloré ha bisogno obiettivi abbordabili e sufficientemente corposi da contare qualcosa per un gruppo come il suo. E Mediaset ha alcune di queste caratteristiche: se prendesse una robusta partecipazione di minoranza come socio industriale di Berlusconi, il finanziere francese potrebbe partecipare alla produzione di contenuti televisivi e sperare di entrare in Italia anche con Canal+. A quel punto la pay-tv di Vivendi porterebbe una sfida diretta a Sky.
Murdoch deve aver fiutato la minaccia. L'altro giorno il magnate australiano era ad Arcore a discutere anche lui con l'ex Cavaliere di possibili aggregazioni e di come difendere il territorio conquistato da Sky nella pay-tv. È una partita alle prime battute, nella quale i protagonisti studiano le opzioni possibili senza ancora puntare a chiudere in tempi rapidi. C'è però già un punto fermo: Bolloré in Italia è già oggi potenzialmente più influente di qualunque capitalista italiano. Non si limita a essere secondo azionista di Mediobanca e a far sentire il suo peso nel consiglio delle Generali. È anche primo azionista di Telecom Italia, il gruppo che in un futuro non troppo lontano trasporterà sui suoi cavi in fibra ottica gran parte dell'offerta televisiva nel Paese. Se dunque Vivendi avesse una posizione dominante nella società che distribuisce i contenuti tv nelle case italiane e nel frattempo concorresse con altre società nel vendere (anche) i propri contenuti, magari in tandem con Berlusconi, scatterebbe un obbligo: il governo e le autorità di controllo devono garantire che non si creino abusi. I conflitti d'interesse vanno sciolti o tenuti sotto controllo.
Gli investitori trasparenti dal resto d'Europa e del mondo sono benvenuti e necessari in Italia: portano lavoro, tecnologie, stabilità. Purché non replichino le stesse distorsioni di mercato di quando Berlusconi era premier e tycoon. Quelle, si sa, portano sfortuna anche a chi le crea.

© Riproduzione riservata
30 aprile 2015

Da - http://www.repubblica.it/economia/2015/04/30/news/perche_tutti_vogliono_le_aziende_di_berlusconi-113190188/?ref=HRER1-1
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« Risposta #35 inserito:: Agosto 02, 2015, 04:27:25 pm »

Da eversore a pragmatico: la parabola di un leader dopo referendum e voto
In venti giorni Tsipras si è trasformato da una versione europea di Hugo Chávez in una di Ignacio Lula da Silva

Di Federico Fubini

ATENE Sono passati venti giorni, ma ad Alexis Tsipras devono essere parsi più lunghi di tutto il resto della sua vita politica: una di quelle traversate così intense che si entra rivestiti di una certa identità, ma si esce irriconoscibili a se stessi. «Soffriamo ancora tutti di un disturbo da stress post-traumatico», ha riassunto l’altra sera il premier greco in diretta alla televisione nazionale, chiamando in causa la sindrome che tormenta certi militari rientrati vivi dall’Iraq.
Tsipras è tornato solo da una serie di vertici a Bruxelles. In che misura sia ancora vivo per la politica ellenica ed europea, lo potranno dire solo i prossimi mesi. Ma la domanda alla quale fin da subito vorrebbero poter rispondere in molti attorno a lui è ancora più spiazzante: a soli 40 anni, un leader è abbastanza duttile per potersi trasformare in 20 giorni da una versione europea di Hugo Chávez in una di Ignacio Lula da Silva? L’ex presidente brasiliano è il modello del leader arrivato al potere dalle periferie della sinistra, un uomo che rigettava l’ordine esistente ma poi riesce a lavorarci dentro senza perdere in coerenza. L’ex caudillo venezuelano è invece il suo opposto: un leader vanesio che rifiuta ed è rifiutato, votato allo status di paria internazionale e a nient’altro.

Da Chávez a Lula la strada può essere lunga, ma Tsipras si è messo a percorrerla dalla fine dello scorso mese in poi. Era un altro uomo, blindato dentro altre idee e illusioni, quando a metà dell’ultima settimana di giugno è volato a Bruxelles per chiudere un accordo sui prestiti che dovevano permettere alla Grecia di superare l’estate. Era in realtà ancora di più diverso appena quando cinque mesi si era accomodato per la prima volta al Maximou, la residenza dei primi ministri di Grecia. Allora Tsipras parlava poche parole di inglese, oggi è in grado di condurre un negoziato vitale senza interpreti.

Ma giovedì 25 giugno a Bruxelles, racconta uno dei suoi amici di lunga data, il premier era ancora nella versione originale di se stesso. Convinto di poter piegare con i propri argomenti persino il governo tedesco. Incoraggiato dal suo ministro delle Finanze di allora Yanis Varoufakis, Tsipras pensava soprattutto di avere un’arma in più dalla sua: la minaccia di uscire dall’euro. Varoufakis ci lavorava davvero, come lui stesso poi ha ammesso due giorni fa. Riferiscono varie persone che hanno vissuto in diretta quei giorni, che il premier si era convinto di poter far breccia sul resto d’Europa grazie al fantasma della Grexit. Il suo ministro gli aveva spiegato che gli altri governi ne avrebbero avuto talmente paura, che allo scadere del piano di aiuti il 30 giugno avrebbero ceduto per non rischiare una tempesta finanziaria.

Con nervosismo, Tsipras e Varoufakis avevano registrato la persistente tregua sui mercati all’avvicinarsi della scadenza. Quindi il premier si era accorto che non solo la Grexit non impressionava: il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble la voleva persino. A quel punto Tsipras era in gabbia, cinque mesi di strategia negoziale finiti in pezzi a poche ore dalla fine del piano di aiuti. Per questo il premier si è disperatamente rifugiato nel referendum, sperando alla cieca che una vittoria potesse magari salvargli la faccia. Ed è per questo che di recente ha detto sul conto di Varoufakis, mandando quest’ultimo su tutte le furie: «Non basta essere un eccellente economista per diventare un buon politico».

Tsipras venti giorni dopo è un uomo diverso, più addentro ai rapporti di forza in Europa. Lo era già la sera del trionfo del «no» da lui sostenuto nel referendum: il suo ex amico Varoufakis ha raccontato di averlo trovato mesto nel suo ufficio, mentre poco lontano da lì la folla celebrava in piazza Syntagma. L’altra sera in diretta tivù il premier ha mostrato questa sua metamorfosi forgiata nell’esperienza estenuante di questi giorni. Ha riconosciuto che l’accordo di Bruxelles non gli piace, ma si era reso conto che l’uscita dall’euro sarebbe stata una disfatta per i più poveri. «Si sarebbero trovati nelle mani dracme svalutate - ha detto - con cui si può comprare poco». Tsipras ha aggiunto che ne avrebbero approfittato solo i ricchi, quelli che hanno già messo al sicuro i loro euro all’estero.
I greci sembrano averlo capito. Lo hanno seguito in massa nel «no» dieci giorni fa, ma ora lo fanno anche nel compromesso: secondo l’istituto Kapa, il 72% vuole l’accordo con l’Europa e il 68% vuole Tsipras come premier anche se il governo cambiasse. Lui ha commesso errori disastrosi e forse non è il leader adatto, ma è il solo che la Grecia oggi ha. Se sarà in grado di trasformarsi in un Lula dell’area euro, lo decideranno i prossimi mesi. E l’ossigeno che gli lasceranno i suoi creditori.

16 luglio 2015 (modifica il 16 luglio 2015 | 16:32)
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_luglio_16/da-eversore-pragmatico-parabola-un-leader-referendum-voto-fe693b86-2b91-11e5-a01d-bba7d75a97f7.shtml
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« Risposta #36 inserito:: Agosto 06, 2015, 11:40:10 am »

Spending review Palazzo Chigi
Sgravi da 161 miliardi: ecco il piano dei tagli
Interventi su sanità, trasporto pubblico e servizi pubblici locali, ma il vero test saranno la partita sulle agevolazioni e quella sulle società partecipate

di Federico Fubini

La si potrebbe chiamare, se solo fosse così semplice, la soluzione all’uno per cento. Trovate quell’uno per cento nella matassa da 161 miliardi di sgravi fiscali e la spending review, l’operazione che mai nessun governo è riuscito a realizzare in modo stabile e intelligente, forse sembrerebbe più facile. In Italia la montagna delle agevolazioni e esenzioni fiscali per settori, gruppi d’interesse o cittadini in condizioni particolari oggi vale per l’esattezza 161,14 miliardi di euro l’anno (contro 442 miliardi di entrate tributarie). Molti di questi sgravi sono logici, altri meno, altri ancora sembrano solo ciò che sono: indifendibili regali. Eppure forse basterebbe trovare appena un centesimo di risparmi dentro questa enorme riserva di misure ad hoc per far quadrare a settembre i conti della più delicata operazione di taglio alla spesa degli ultimi anni.

La manovra d’autunno
Palazzo Chigi ne ha decisamente bisogno. Dopo l’annuncio di Matteo Renzi che nel 2016 sarà tagliata la Tasi, l’imposta comunale sulla casa, sta maturando nel governo la convinzione che servirà una manovra da 23 miliardi di euro. Ma essa potrebbe implicare meno sacrifici, e magari più deficit, di quanto non suggerisca una cifra del genere. I conti sono presto fatti. Sedici miliardi vanno trovati per non far scattare gli aumenti dell’Iva già innescati per legge, ma di questi (sulla carta) due dovrebbero venire dalla minore spesa per interessi sul debito e quattro dalla maggiore crescita dell’economia. Dieci miliardi di risparmi toccano poi alla “spending review”. Quanto ai sette che restano per arrivare a 23, essi dovrebbero servire per cancellare la Tasi, per un’iniziativa contro la povertà o per far partire un altro treno di decontribuzioni sui nuovi assunti con contratti permanenti. Ma queste misure hanno già l’aria di quelle da finanziare all’antica, in disavanzo.
È dunque inevitabile che una solida revisione della spesa da 10 miliardi diventi il muro portante della tenuta dei conti, e della credibilità dell’Italia in Europa o sui mercati. Il commissario alla “spending review” Yoram Gutgeld e Roberto Perotti, consigliere di Palazzo Chigi, presenteranno al governo un menù di misure di quella portata. Poi le scelte e le responsabilità saranno solo della politica.
Per ora lista delle voci candidate ai tagli è un dosatissimo cocktail di misure potenzialmente popolari, unite ad altre indigeste: c’è “mancato aumento” della spesa sanitaria, un intervento in nome dell’efficienza sul trasporto pubblico e sui servizi pubblici locali, un altro sugli acquisti di beni e servizi, una stretta sui ministeri e sui compensi dei dirigenti a tutti i livelli, un lavoro su Anas e Ferrovie dello Stato, e poi le pensioni di invalidità.
Ma la partita sulle agevolazioni e quella sulle società partecipate saranno il vero test. Anche e soprattutto delle resistenze che si preparano.

Lo sgravio fiscale ai partiti
L’enorme impatto delle agevolazioni fiscali, come emerge dal bilancio di previsione dello Stato per il 2015, può dare l’impressione che sia facile trovare dove tagliare. Certe voci aspettano solo la ghigliottina: prima fra tutte, una leggina del ‘72 che permette ai partiti di non pagare “concessioni governative” quando siglano atti costitutivi o statuti. Vista la proliferazione delle sigle politiche, si direbbe che lì c’è del grasso da tagliare. Ma un governo che ha bisogno di miliardi, non solo di milioni, deve partire dai settori destinatari degli sgravi più pesanti. In cima ci sono le assicurazioni, che grazie a una legge del 1961 godono di tre tipi diversi di esenzioni sulle polizze, specie del ramo vita, per un totale da 2,3 miliardi. Ma qui intervenire è quasi impossibile, perché significherebbe colpire milioni di clienti assicurati e non solo le compagnie. Considerazioni simili valgono per le banche, che dal 1973 lavorano i mutui casa sulla base di un’«imposta sostitutiva». Quello sgravio costa due miliardi l’anno, ma eliminarlo colpirebbe in primo luogo chi compra casa.

Le 13 esenzioni all’agricoltura
Spazio per generare risparmi sembra invece esserci in agricoltura, che gode di 13 diversi tipi di esenzioni per un totale di 2,3 miliardi. Margine di manovra anche nell’autotrasporto: qui una legge del 2007 garantisce riduzioni da 1,14 miliardi l’anno sulle accise per il carburante e ora, con il barile ai minimi, forse anche quello sconto può essere sforbiciato. Resta da vedere se il governo in autunno oserà affrontare categorie che in tutt’Europa, a più riprese, si sono dimostrate capacissime di protestare bloccando le città e le autostrade a forza di mezzi pesanti. Resta poi un punto interrogativo sulle cooperative: grazie a una legge del ‘73, per quelle agricole c’è uno sgravio che vale 88,5 milioni l’anno ma per tutte le altre sono centinaia di milioni (il bilancio dello Stato specifica). Anche questo è un settore dove intervenire ha senso, ma creerebbe nuove tensioni nel partito di Renzi.
Gli editori hanno sgravi per 173 milioni, i tassisti per 30, i benzinai per 110, i gestori di cinema per 26, e le famiglie benestanti - in nome di una certa idea di giustizia sociale all’italiana - hanno deduzioni da 133 milioni sui contributi versati per la tata e la badante. Poi ci sono aree in cui tutto ciò che accade in Italia è solo una reazione all’Europa: gli armatori hanno crediti d’imposta per 180 milioni solo perché anche la Grecia detassa i suoi (ma non vanno ritirati ora che Atene cambia strada?). Le compagnie aeree hanno sconti da 1,5 miliardi sul carburante, perché così fanno Francia e Germania. E il trasporto marittimo, pesca d’altura inclusa, ottiene sgravi da 600 milioni per reggere la concorrenza europea.
Insomma, per trovare anche solo 900 milioni di risparmi sulle agevolazioni il governo dovrà dimostrare molto coraggio. Ovunque spuntano interessi e vecchie abitudini: inclusi i lavoratori di organismi della Santa Sede, come gli addetti dell’Ospedale Bambin Gesù di Roma, che dal 1973 sono esentati dal pagare l’Irpef.

Penalità sulle partecipate
Gli enti locali azionisti delle società partecipate hanno una caratteristica: spesso non si adeguano alla legge. Una norma del 2007 (la 244) imponeva loro di uscire dalle attività estranee alle loro “finalità istituzionali”. Ma la Corte dei conti mostra che oggi due terzi delle partecipate operano ancora in settori come agenzie di viaggio o pesca, che niente hanno a che fare con i compiti del governo territoriale. E la finanziaria 2015 imponeva loro “piani di razionalizzazione” entro marzo, ma circa la metà degli enti ha ignorato la richiesta. Ora a fine mese un decreto applicativo della riforma della pubblica amministrazione potrebbe di nuovo imporre alle giunte l’uscita dai settori dove deve operare solo il mercato. Questa volta però con una novità in “spending review”: sanzioni per chi ignora la legge, sia esso azionista o manager. E chissà che qualche resistenza alla fine non inizi a cadere.

6 agosto 2015 (modifica il 6 agosto 2015 | 09:09)
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_agosto_06/sgravi-161-miliardi-ecco-piano-tagli-0ae38c40-3bfa-11e5-923b-31d1f7def042.shtml
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« Risposta #37 inserito:: Agosto 06, 2015, 12:08:35 pm »

Grecia in salita, lo scoglio del Pil
La riapertura della Borsa di Atene è una delle più surreali della storia del capitalismo. Il listino torna a funzionare, ma lo farà entro una sorta di campana di vetro

Di Federico Fubini

Molti prevedono crolli nelle prime ore di scambi, seguiti magari da rimbalzi indotti da qualche cacciatore di titoli a prezzi di saldo. E tutti studieranno al microscopio le oscillazioni delle banche, anello debole fra i deboli della Borsa di Atene che oggi riparte dopo cinque settimane di «vacanza». Comunque vada, sarà una delle riaperture più surreali che la storia del capitalismo ricordi.

Lo sarà in primo luogo per le sue circostanze e le procedure. La Borsa venne chiusa per decreto del governo dal 29 giugno, con la Grecia sull’orlo della secessione dall’euro e i cittadini decisi in ogni modo a sfilare i propri risparmi dal sistema finanziario prima del crollo. Oggi finalmente il listino torna a funzionare, ma lo farà entro una sorta di campana di vetro. I greci potranno comprare e vendere azioni di società quotate ad Atene, ma non trasferire fondi dai propri conti bancari ellenici per acquistare titoli sulla Borsa del loro Paese. Solo a chi opera dall’estero sarà permesso di muoversi liberamente, per tutti gli altri investitori vale invece un vincolo più serrato di quello in vigore sul resto dell’economia: persino ora, in pieno regime di controlli di capitale, i greci possono comunque pagare un prodotto nazionale, una prestazione di lavoro o le tasse tramite un bonifico via Internet. Le azioni quotate sulla Borsa di Atene invece no.

Un coprifuoco così persistente ha un obiettivo preciso: ostacolare le triangolazioni che lascino fuggire fondi verso l’estero. Da stamattina il rischio è che chiunque si accordi con un operatore a Londra o a Zurigo per fargli fare un’operazione che sposti i proventi fuori dal Paese. In poche settimane, la Grecia si troverebbe svuotata della poca liquidità che resta nei suoi confini. La Borsa di Atene si risveglia dunque dentro una sorta di ingessatura che aiuta il sistema a tenersi in piedi malgrado se stesso, e non potrebbe esserci metafora più appropriata dello stato generale del Paese.

Esso oggi è più precario di quanto appare anche dopo la fragile tregua di luglio. Nelle prossime due settimane il governo di Alexis Tsipras e quelli dei creditori europei dovrebbero mettersi d’accordo su un pacchetto di aiuti da 86 miliardi di euro fino al 2018. Ma un’occhiata da vicino alla realtà dietro questo ennesimo «salvataggio» mostra che, se e quando l’accordo sarà raggiunto, potrebbe essere tardi. Nel frattempo sarà già stata superato dalla realtà e dunque insufficiente a stabilizzare il Paese. Una nuova tornata di tensioni e dilemmi impossibili si intravede già all’orizzonte.

Prima ancora della politica, lo segnalano i numeri: già oggi l’economia greca tradisce tutti i segni di un tracollo più rapido di quanto risulti dalle stime ufficiali. Nella sua «valutazione» della richiesta di Atene di nuovi aiuti, stilata il 10 luglio, la Commissione Ue prevede che la Grecia quest’anno registri una caduta del Pil fra il 2 e il 4%. È probabile però che la recessione alla fine sarà più profonda di così. L’Ufficio parlamentare di bilancio di Atene per esempio ha iniziato a guardare agli effetti degli limiti imposti al ritiro di contanti, perché da fine giugno i greci hanno quasi smesso di comprare prodotti che non siano alimenti, medicine o altri beni assolutamente essenziali.

L’effetto sull’economia è stato enorme. Secondo l’ufficio di bilancio di Atene, una caduta dei consumi dell’80% comporta una contrazione del Pil dell’1,5% ogni settimana (o dell’1% se invece la caduta dei consumi è «solo» del 50%). La Grecia era già rientrata in recessione nei primi sei mesi di quest’anno, ma da allora l’avvitamento non ha fatto che accelerare. Da qualche settimana si aggiungono a frenare i consumi anche l’aumento a tappeto dell’Iva e quello dei prelievi su tutte le pensioni, imposto dai governi creditori. L’effetto a questo punto è inevitabile: quest’anno la Grecia è diretta verso una caduta del Pil del 7% o dell’8%, il doppio di quanto ufficialmente previsto, quindi anche le stime sugli equilibri di bilancio o il peso del debito sono fatalmente destinati ad essere rivisti in peggio.

Lo scenario di agosto ha tutta l’aria di un dejà vu , in questa interminabile saga ellenica: si firmerà un accordo per un nuovo pacchetto di prestiti, ma non molto tempo dopo debitori e creditori dovranno accettare l’evidenza e ammettere che non basta. La Grecia avrà bisogno di ancora nuove risorse per stare in piedi, ammesso che riesca sopportare gli ulteriori sacrifici che a quel punto la Germania vorrà imporre in contropartita. La caduta del Pil si aggraverà, innescando un altro giro della stessa spirale. E fino a quando possa continuare, oggi né ad Atene né a Berlino si trova più qualcuno in grado di dirlo.

3 agosto 2015 (modifica il 3 agosto 2015 | 07:28)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_agosto_03/i-segni-tracollo-della-economia-greca-bbbb64d8-399e-11e5-b49b-ae37d5ff3efe.shtml
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« Risposta #38 inserito:: Agosto 06, 2015, 12:09:51 pm »


Berlino e gli altri
La guerra culturale europea
I dubbi che il Fmi sta esplicitando sono solo ciò che tutti gli altri pensano ma non dicono: la questione greca è davvero risolta?
La Grexit è veramente scongiurata?

Di Federico Fubini

Da Berlino ad Atene, passando per Roma o Parigi, si fatica a trovare qualcuno disposto a credere che l’uscita della Grecia dall’euro sia davvero scongiurata per sempre. Nuove settimane terribili torneranno. Se non subito, quando ci si renderà conto che l’economia ellenica è di nuovo in disgregazione o quando gli ostacoli politici si ripresenteranno nel Parlamento e nelle piazze di Atene o dei Paesi creditori. I dubbi che il Fmi sta esplicitando sono solo ciò che tutti gli altri pensano ma non dicono.

C’è un punto però sul quale questa saga greca inizia a fornire qualche responso. Se non sul futuro di quel Paese, su quello che gli altri vogliono e come si immaginano la coesistenza nell’unione monetaria. Non era andata così in passato. Nella fase puramente finanziaria del contagio europeo (2010-2013) i vari protagonisti, anche con idee diverse, erano tutti concentrati su un obiettivo comune: calmare le acque. Ora è diverso. L’intensità delle ultime settimane, e le crepe nel governo dell’euro che hanno esposto, obbligano i principali Paesi a dire una volta per tutte come pensano che questa moneta possa darsi un assetto che ne garantisca il futuro.

È qui che le differenze fondamentali finalmente stanno venendo a galla. Francia e Italia, come nell’intervento dei rispettivi responsabili per gli Affari europei che riportiamo, parlano di un’area euro più politica: un Parlamento dell’unione monetaria, un bilancio comune. A Berlino invece le sensibilità sono diverse. P er la prima volta la Germania sembra voler andare avanti senza curarsi del consenso di Roma e soprattutto di Parigi. Del progetto di Wolfgang Schäuble di assegnare la vigilanza sui bilanci dei governi a un organo «indipendente», togliendola alla Commissione, colpisce la motivazione: il presidente dell’esecutivo comunitario Jean-Claude Juncker era il candidato del Partito popolare alle Europee, dunque ha una legittimità politica e non può svolgere un compito tecnico come il controllo delle regole su deficit o debito. Berlino cerca di rimuovere la discrezionalità della politica dal funzionamento dell’unione monetaria. Vede le norme dell’euro come condizioni tecniche da rispettare, anche se riguardano il modo in cui i governi tassano e spendono.

La legge in Germania è una cosa seria, ma c’è anche altro: il timore che la violazione delle regole da parte di qualcuno obblighi i tedeschi a pagare per salvarli. Le cose finora non sono andate proprio così, nella misura in cui (anche) i contribuenti italiani hanno contribuito perché le banche tedesche uscissero indenni dai loro investimenti in Grecia. Eppure questo timore brucia talmente alla Germania da spingerla a mettere sul tavolo l’arma dell’espulsione dall’euro per chi non sta ai patti. Il messaggio è stato recapitato alla Grecia, ma perché tutti prendessero nota.

Schäuble ha ragione quando fa capire che Italia e Francia non possono chiedere la tutela di un bilancio europeo senza cedere sovranità. Il taglio delle tasse di Matteo Renzi, annunciato prima di parlarne a Bruxelles o spiegare le coperture, in questo disegno stride. E così la battuta di Manuel Valls, il premier di Parigi, sul fatto che la Francia si fa il suo bilancio da sé «perché è un grande Paese». Ma è difficile spiegare a Renzi o a Valls che la politica deve stare fuori dalle loro scelte, quando entrambi hanno il fiato sul collo delle forze anti-sistema decise a rompere con l’euro. La Grecia ha esposto queste visioni differenti, il punto ora è capire se sono compatibili. E come tutto nell’unione monetaria, non è affatto scontato.

31 luglio 2015 (modifica il 31 luglio 2015 | 07:19)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_luglio_31/guerra-culturale-europea-b28af360-3741-11e5-88ac-a32ff5fc69d6.shtml
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« Risposta #39 inserito:: Agosto 16, 2015, 04:54:34 pm »

I Paesi emergenti presi nella morsa della nuova guerra delle valute
La Cina svaluta lo yuan per ridare fiato all’export. A luglio l’export cinese è caduto dell’8,3% e nell’ultimo trimestre gli acquisti di auto sono scesi del 22%

Di Federico Fubini

Dei due grandi eventi finanziari di ieri il primo riguarda un Paese che vale lo 0,2% dell’economia globale, l’altro un secondo Paese che da solo pesa per il 15%. La Grecia ha concluso un accordo a suo modo storico per l’ennesimo pacchetto di aiuti. La Cina si è limitata a svalutare sul dollaro la propria moneta, lo yuan, dieci volte di meno quanto l’euro o lo yen giapponese abbiano già fatto nell’ultimo anno. I mercati non hanno avuto dubbi su quale sia stato il fenomeno che passerà alla storia.

Per loro oggi un gesto relativamente piccolo da parte della banca centrale di Pechino, compiuto nel giro pochi minuti, conta più del coronamento di un negoziato greco durato sette mesi. Il senso di quel gesto della Banca del Popolo è che un’economia colossale, ma in crescenti difficoltà, inizia a riprendersi dal resto del mondo parte della crescita che gli aveva prestato. Se la riprende con una svalutazione che dovrebbe ridare fiato all’export, perché la Cina non può più permettersi il ruolo che ha segnato la sua ascesa dal 2008 in poi: da allora è stata l’àncora dell’economia globale. Era stata capace di sostenere ritmi di sviluppo (quasi) a doppia cifra anche quando l’occidente era in recessione, o quando il debito estero in dollari del Brasile, della Turchia, o della Russia, rivelavano tutta a fragilità dei Paesi emergenti. Ora proprio questi ultimi, i più dinamici negli anni della grande recessione euro-americana, di colpo diventano i più esposti al cambio di clima nel più potente fra loro.

La svalutazione
La svalutazione di martedì dello yuan sul dollaro è stata di appena l’1,9%, ma la svolta è innegabile. La Cina era sempre apparsa stabile, anche dopo che il crash di Lehman ha messo alla prova gli equilibri globali. In un sistema in cui a turno il dollaro, il rublo russo, il real brasiliano, la rupia indiana, lo yen, il won coreano, e alla fine anche l’euro si sono inseguiti nella corsa al deprezzamento, Pechino si era sempre tenuta fuori. Non ha mai preso parte alla guerra delle valute, permettendo alla sua moneta di diventare la più forte (e meno competitiva) fra le 32 principali del pianeta. La Cina aveva continuato a crescere e a sostenere l’export degli altri: un’economia da 11 mila miliardi di dollari è diventata il compratore di ultima istanza delle auto di lusso e dei beni di investimento tedeschi, dei prodotti agricoli del Brasile, dei minerali australiani. Sotto la superficie però da tempo hanno iniziato ad accumularsi le scorie che ora minacciano di contaminare il resto del mondo emergente. Dal 2008 il debito pubblico e privato cinese è cresciuto dal 140 a oltre il 230%, senza contare quello delle banche. Un’accumulazione più veloce che in qualunque altro Paese, volta a sostenere una crescita sempre più artificiale con investimenti sempre meno produttivi: acciaierie senza mercati di sbocco, città fantasma, autostrade che nessuno percorre.

L’export
Ora la festa è finita. A luglio l’export cinese è caduto dell’8,3% e nell’ultimo trimestre gli acquisti di auto sono scesi del 22% in ritmo annuale. Gli analisti Citigroup, la banca americana, pensano che la crescita del 7% prevista per quest’anno sia in realtà da sforbiciare di almeno due punti. Molti analisti, per ora anonimi, sospettano che nei prossimi anni anche Pechino farà i conti con una vera recessione.

Del resto anche la lista dei grandi gruppi che ieri sono scivolati di più sui listini indica quali equilibri si stiano incrinando. Hanno perso terreno grandi case dell’auto come la tedesca Bmw, del lusso come la francese Lvmh, o dell’estrazione mineraria come Rio Tinto. Soprattutto, sono ancora una volta le valute dei Paesi emergenti ad aver subito un contraccolpo. Le nuove scivolate da record del real, del rublo, dei dollari di Taiwan e Singapore, del won, del ringgit malese o del baht thailandese fanno ripensare agli choc degli anni 90. Ricordano che un gorilla ferito è salito sul ring della guerra valutaria, in un gioco nel quale prima o poi qualcuno deve perdere. E fanno pensare che Paesi emergenti come la Russia, il Brasile o il Sudafrica, già esaltati per il loro dinamismo, ora sono in una morsa: la Cina non può essere più lo stesso magnete di prima per le loro produzioni. E l’aumento dei tassi d’interesse all’orizzonte America renderà i loro debiti in dollari sempre più pesanti.

Di colpo, l’area euro non sembra più così male.

12 agosto 2015 (modifica il 12 agosto 2015 | 08:03)
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_agosto_12/gli-paesi-emergenti-presi-morsa-nuova-guerra-valute-a457da60-40b0-11e5-a6d2-d8f2ee303642.shtml
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« Risposta #40 inserito:: Agosto 16, 2015, 04:55:44 pm »

L’analisi
L’Europa e la ripresa anemica
Le maggiori economie Ue resistono perché le esportazioni le mandano avanti
Ma la voglia di investire non è mai stata così scarsa

Di Federico Fubini

Enrico Diddi ha una sua idea sul perché gli economisti adesso dicono che questa è una ripresa anemica: si era dato appuntamento a dieci anni dopo ma ora, quando è venuto il suo momento, ha passato la mano. L’azienda che controlla si chiama Nobilia. Da Prato nel 2005 Diddi l’aveva spostata a Suzhou, non lontano da Shanghai: in fabbrica entrano fili di lino o di cotone ed escono tessuti pronti per l’ago. Diddi, che ora ha 54 anni, si era impegnato a rimpatriare più o meno in questo periodo il suo investimento da 25 milioni di euro e 250 addetti. Poi al dunque ha capito che doveva scegliere cosa lasciar cadere: la sua promessa o le commesse di Banana Republic e di Gap, i grandi marchi americani della moda di massa: «Se torno in Italia - ammette - costerei troppo per loro». I nuovi contratti di lavoro flessibili del Jobs Act, gli sgravi alle assunzioni stabili, la limatura dell’imposta sulle attività produttive, il dimezzamento del costo del petrolio, i tassi bassi imposti dalla Banca centrale europea con i suoi interventi e persino l’euro debole, per Diddi, non contano tanto quanto i calcoli che ha fatto da tempo. Non riequilibrano neanche lontanamente. Per l’Italia e gran parte dell’area euro, questa si sta dimostrando una ripresa lenta, povera di occupazione eppure in qualche modo effettiva. Non appena Diddi ha capito che trattando gli scarti del cachemire lavorato in Cina poteva surrogare la piuma d’oca, ha lanciato una nuova azienda di piumini a Prato: investimento recente, mercati in tutto il mondo, dieci addetti.

Il paradosso è proprio in questa strana inversione dei fattori. Se oggi Paesi come l’Italia, la Germania, la Francia o la Spagna crescono, in gran parte è perché le esportazioni le spingono in avanti. Eppure il propellente dell’export e dei posti di lavoro del futuro, l’istinto di investire, non è mai stato così scarso. In Germania gli investimenti pesano appena per il 20% dell’economia, sotto i livelli del 2007 e molto sotto le medie dei Paesi avanzati, benché l’export contribuisca al 45% del prodotto lordo (Pil). In Italia gli investimenti sono crollati di 75 miliardi dal 2007 al 2014 e oggi sono al punto più basso, in proporzione al Pil, fra tutte le principali economie europee. Anche in Francia e in Spagna gli investimenti pesano meno di otto anni fa e non stanno certo crescendo. Non è solo Diddi di Prato: anche Volkswagen continua a versare decine di miliardi per nuovi impianti, ma lo fa in Slovacchia o in Cina.

Le migrazioni produttive verso i territori a basso costo non iniziano certo oggi, solo che questo non è un momento come gli altri: a differenza degli Stati Uniti, l’economia dell’area euro resta tuttora più piccola di com’era nel 2008, prima che Lehman portasse i libri in tribunale. È vero che Germania e Francia ormai hanno superato i livelli pre-crisi e veleggiano su un reddito nazionale mai raggiunto prima; ma la Spagna del 2015, anche in netta ripresa, rimane economicamente più piccola di quella del 2007. E l’Italia, in ripresa timida, non ha ancora neanche rivisto i livelli di reddito nazionale dell’anno duemila.

In questo proprio l’Italia, secondo Eurostat, è il sistema più anomalo. È il secondo produttore di beni industriali d’Europa e, comprensibilmente, si considera una potenza esportatrice. Pochi però sembrano essersi accorti che fra i quattro grandi Paesi di Eurolandia è quello che dipende di più dai consumi delle famiglie (60% del Pil) e, insieme alla Francia, presenta il minor peso dell’export sul totale dell’economia (29%). In questi anni invece la Spagna ha compiuto un silenzioso sorpasso, aumentando di molto la sua quota di export sul Pil (al 32%). L’economia italiana dipende ancora dalla spesa delle famiglie, le quali però tengono il portafogli chiuso perché nel Paese appena un terzo degli abitanti lavora: non ci sono abbastanza buste paga. Forse questo spiega perché neanche l’euro debole, gli sgravi sui nuovi contratti, la forte domanda di made in Italy dall’America, i tassi bassi e il petrolio ai minimi riescano a rendere questa ripresa più tangibile. Il punto è capire quanto saliranno il deficit e il debito pubblico quando questo allineamento di fattori benigni verrà meno. Quando magari l’economia italiana dovesse rallentare. Lorenzo Codogno, fino a febbraio scorso capo-economista del Tesoro, non è preoccupato: «Anche se a ritmi non esaltanti, la ripresa continua - osserva -. Nella seconda parte dell’anno si rafforzerà e nel 2016 potrebbe sorprendere». Codogno però ha un consiglio per il governo: «L’annuncio di un forte taglio delle tasse sul lavoro e le imprese è stato giusto e coraggioso, ma non possiamo permetterci di far salire il deficit. Serve una sforbiciata alla spesa, magari di 20 miliardi già il prossimo anno».

Anche Diddi, l’imprenditore di Prato, ha una sua ricetta: «Qualcuno dovrebbe investire», propone. Ma è inutile chiedergli se sarà lui: «Non sarei più competitivo».

15 agosto 2015 (modifica il 15 agosto 2015 | 09:28)
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DA - http://www.corriere.it/economia/15_agosto_15/europa-ripresa-economica-anemica-e5dc15b8-431d-11e5-a5fb-660d73bd7f47.shtml
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« Risposta #41 inserito:: Agosto 22, 2015, 05:13:57 pm »

L’analisi
Debito, tassi, tutti i perché di un tracollo
La nuova crisi del debito nei Paesi emergenti.
Quel filo che porta al crac Lehman Brothers

Di Federico Fubini

C’è un pensiero che fa rimpiangere la nebbia e il freddo, in questa coda d’agosto: nelle ultime nove estati, solo due sono trascorse senza terremoti sui mercati finanziari. Era passata in una calma irreale quella del 2009, dopo la catastrofe dell’anno prima a Wall Street. E anche l’agosto scorso era scivolato via nella speranza che la crisi finanziaria occidentale, quella partita in America nel 2008 e proseguita nell’area euro dal 2010 in poi, fosse finalmente negli archivi della storia. Il resto delle vacanze dal 2007 ad oggi è stato segnato da fasi di panico e scosse: sui mutui subprime , sulle banche americane, sul debito degli Stati europei e alla fine anche sui cosiddetti emergenti, nel 2013 e poi di nuovo adesso.

Dei dieci episodi di massima volatilità finanziaria registrati dagli indici, otto sono di questi anni. Un’intensità e una frequenza del genere non hanno avuto precedenti neanche nella Grande depressione, dunque vorranno pur dire qualcosa: i crolli di Borsa e le svalutazioni monetarie di questi giorni in Cina, Malesia, Brasile o Turchia, in Sudafrica e in Indonesia e Colombia, sembrano sempre di più l’altra faccia della medaglia degli eventi di New York, Londra o Milano di cinque o sei anni fa. Gli uni sono eredità degli altri e varie cinghie di trasmissione li legano fra loro. Dai terremoti di ieri a quelli di oggi un filo rosso per esempio è stato steso dalle grandi banche centrali. La Federal Reserve, la Bank of England, la Banca del Giappone e la Banca centrale europea hanno risposto dal 2009 in poi nel solo modo adeguato per tamponare le ferite: creando moneta e riversandola sui mercati. Lo hanno fatto su una scala senza precedenti. Dalla fine del 2009 ad oggi i bilanci delle banche centrali di Washington, Londra, Francoforte e Tokyo nel complesso si sono espansi di 7.300 miliardi di dollari. È una cifra pari al 10% del prodotto interno lordo della Terra, che negli ultimi otto anni si è rovesciata sull’economia mondiale.

L’obiettivo dei banchieri centrali - centrato in gran parte - era placare il panico, ridurre i tassi d’interesse, evitare una corrosiva deflazione dei prezzi. Ma pochi all’inizio si sono chiesti esattamente dove sarebbero finiti quei soldi, una volta in circolazione. Ora che siamo più vicini al primo aumento dei tassi d’interesse della Fed in dieci anni, lo sappiamo. Lo si vede nei tremori dei Paesi emergenti, dove si teme la fine dei finanziamenti esteri a basso costo che per anni hanno sostenuto intere economie. È in Messico, Colombia, Brasile, Turchia, Indonesia, Malesia, Russia o Kazakistan, che i grandi investitori hanno prestato gran parte di quell’ondata di liquidità, in modo da ottenere rendimenti più alti. Secondo la Banca dei regolamenti internazionali, negli ultimi cinque anni il debito dei Paesi emergenti è raddoppiato: un balzo di 4.500 miliardi di dollari, non molto inferiore alle somme generate dalle grandi banche centrali dei Paesi ricchi.

Alberto Gallo di Rbs mostra come sia successo: grandi gruppi dell’energia come la russa Gazprom, la cinese Cnooc o la brasiliana Petrobras, o colossi dei minerali come la brasiliana Vale, oppure per un enorme conglomerato come l’indiana Tata, hanno più di metà del debito in dollari. Da ora in poi ogni aumento dei tassi della Fed rischia di schiacciarli, ogni svalutazione delle rispettive monete nazionali minaccia di rendere il loro debito più pesante.

Quella coltre protettrice di denaro però ha permesso al Brasile, o al Messico, o all’Indonesia di rinviare la resa dei conti con i problemi di casa: infrastrutture inadeguate, corruzione dilagante, Stato di diritto inaffidabile. Del resto la crescita era garantita, perché le derrate sudamericane, il rame cileno, i minerali del Sudafrica o gli elettrodomestici della Turchia avevano un compratore di ultima istanza: la Cina. Da lì sono venuti in questi anni gli ordini per metà delle materie prime del mondo, e per molto altro.

Da lì viene però anche il secondo filo rosso che lega la crisi di Wall Street a questi giorni. Nel novembre 2008, il premier di Pechino Wen Jiabao reagì al crash di Lehman Brothers con un maxi-pacchetto di stimolo per evitare che la Cina finisse aspirata nella recessione americana. Varò un piano da 470 miliardi di dollari per costruire nuove città, raddoppiare la capacità produttiva di pannelli solari, auto o acciaio. È stata una stagione di ulteriori eccessi negli investimenti improduttivi: città fantasma, aeroporti vuoti, stock di prodotti accatastati ad arrugginire nei porti della costa. In pochi anni il debito totale della Cina (banche escluse) è salito dal 140% al 248% del Pil. Ormai la seconda economia del mondo è costretta a frenare, e con essa anche la domanda globale di petrolio, rame, grano o legumi, i cui prezzi infatti stanno crollando.

Così l’ingranaggio in questi anni, costruito in reazione al crash di Lehman, ha smesso di spingere il mondo in avanti. Quanto lo tiri indietro, lo diranno i prossimi mesi.

22 agosto 2015 (modifica il 22 agosto 2015 | 13:00)
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_agosto_22/debito-tassi-tutti-perche-un-tracollo-07f0c60e-4895-11e5-adbb-a52649bc660c.shtml
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« Risposta #42 inserito:: Agosto 26, 2015, 11:46:29 am »

Lo strano balzo del Pil greco
Tornano i dubbi sui conti di Atene
Un +0,8 nel terzo trimestre, due volte meglio della Germania e quattro rispetto all’Italia

Di Federico Fubini

Quando in luglio Alexis Tsipras ha accettato il nuovo piano di salvataggio, i creditori europei della Grecia hanno chiesto al premier di dimostrare il suo impegno approvando subito alcune misure. Fra le più urgenti, la blindatura dell’ufficio statistico da ogni pressione politica. È un provvedimento che non arriva certo troppo presto. Nella Grecia piombata in crisi quando emerse che i bilanci erano falsi, questo è un tema sensibile da sempre. E tale resta: persino l’ultimo dato di crescita del Paese, quello sul secondo trimestre del 2015, continua a sollevare interrogativi tutt’altro che facili da risolvere. Tra aprile e giugno l’economia greca ufficialmente si è espansa dello 0,8%, un ritmo di circa il 3,2% in proiezione annuale. È una velocità doppia rispetto alla Germania e quadrupla rispetto all’Italia, registrata mentre Tsipras entrava nella fase più dura del confronto con il resto d’Europa. Ma anche agli esperti resta difficile capire come si sia arrivati a quel dato, o se esso sarà ribadito nelle stime definitive fra qualche giorno.

È possibile che la conferma arrivi, anche se la crescita in Grecia fra aprile e giugno ha sorpreso un po’ tutti. Del resto questa è una fase di transizione per l’Elstat, l’ufficio statistico incaricato di elaborare e pubblicare i dati più sensibili. Il 2 agosto si è dimesso il suo presidente Andreas Georgiou, che era arrivato dal Fondo monetario internazionale nel 2010 per far luce sul vero stato dei conti. Il suo mandato è scaduto ma Georgiou, forse anche per ragioni di salute, non ha atteso neanche per un giorno la nomina di un successore. Per lui questi cinque anni sono stati durissimi: prima alcuni dei suoi più stretti collaboratori all’Elstat hanno cercato di mandarlo a processo per alto tradimento, poiché aveva osato rivedere al rialzo i dati di deficit della Grecia (l’inchiesta è durata cinque anni, prima dell’archiviazione); da gennaio, poi, malgrado le continue minacce anonime, il governo Tsipras ha tolto a Georgiou qualunque forma di protezione, ignorando le sue ripetute richieste.

Il dato a sorpresa sul Pil, uscito l’8 agosto, è il primo che l’Elstat pubblica da quando Georgiou ha lasciato (l’interim è affidato al direttore generale Athanasia Xenaki). Nessuno aveva previsto una crescita così forte, perché quasi tutti gli indicatori puntavano al ribasso. L’indice Pmi, che misura fattori come gli ordinativi delle imprese, la produzione o l’occupazione sulla base di interviste a centinaia di manager, è sceso nettamente rispetto al periodo gennaio-marzo ed ha viaggiato regolarmente ben sotto quota 50, la soglia fra espansione e contrazione dell’economia (a giugno risulta a 46,90). La produzione industriale, dopo lievi aumenti in gennaio e febbraio, è caduta in ciascuno dei tre mesi fra aprile e giugno (-1,7%, seguito da -4,6% e -0,2%). Anche l’indicatore del «sentiment» economico fotografato dalla Commissione europea mostra sulla Grecia un peggioramento progressivo in aprile, maggio e giugno in ogni sua componente. Né può aver aiutato il blocco totale degli investimenti pubblici e dei pagamenti dello Stato alle imprese, al punto che la fiducia di queste ultime scende sempre di più nel secondo trimestre e con essa l’utilizzazione degli impianti. La stessa Elstat mostra che l’attività nell’edilizia sia più bassa ad aprile e a maggio rispetto ai livelli di marzo. E tanto le importazioni che le esportazioni calano nel primo semestre rispetto al precedente.

Tutto puntava verso la recessione, prima che l’Elstat dichiarasse una crescita fra le più dinamiche d’Europa. Certo il settore del credito non può aver aiutato: fra depositi e prestiti da altri istituti, nel secondo trimestre le banche greche hanno subito un’emorragia da 15,4 miliardi. Potrebbe aver dato una mano il turismo. Ha aiutato anche il fatto che i greci, fra aprile e giugno, si sono precipitati a investire in auto in un tentativo di mettere al sicuro i propri risparmi comprando un bene di valore. E in un’economia in deflazione, la stima del Pil può risultare distorta.

Certo l’enigma sulla credibilità resta, anche per gli addetti ai lavori. George Papakonstantinou, l’ex ministro delle Finanze che per primo denunciò i falsi nelle statistiche greche, non crede a nuove frodi: «Nel quadro attuale sarebbe difficile provare nuovi trucchi», dice. Eppure il viaggio della Grecia verso istituzioni più affidabili, a quanto sembra, deve ancora iniziare.

25 agosto 2015 (modifica il 25 agosto 2015 | 10:14)
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_agosto_25/grecia-strano-balzo-pil-greco-tornano-dubbi-conti-atene-b9feeaca-4ae7-11e5-9f12-8a25e5d314d3.shtml
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« Risposta #43 inserito:: Agosto 28, 2015, 11:32:25 pm »

Le strategie del governo
Superconsulenti a Palazzo Chigi: un’unità di crisi stile Casa Bianca
Il premier ne ha sette per le riforme economiche.
Dopo le uscite di Guerra e (forse) Nannicini , Renzi punta a una task force su lavoro e ripresa

Di Federico Fubini

Il corridoio del primo piano di Palazzo Chigi, quello dal lato di Piazza Colonna che porta all’ufficio del primo ministro, con il tempo è cambiato. Durante governi ormai distanti, si potevano sentire i fattorini discutere a lungo fra loro di ferie e turni, in livrea e scarpe da tennis. All’inizio dell’esecutivo di Matteo Renzi molte stanze erano vuote, e si respirava la disorganizzazione che arriva con l’inesperienza e la voglia di fare.

Ora è diverso. C’è ordine nell’attitudine dei fattorini, e le stanze lungo il corridoio non sono più vuote. Renzi si è dato una struttura di consiglieri economici che con i mesi è cresciuta fino a diventare la più robusta mai vista a Palazzo Chigi. Massimo D’Alema aveva il primato, perché quando divenne premier nel 1998 chiamò Pier Carlo Padoan, Marcello Messori, Nicola Rossi, Massimo De Vincenti e, per la politica estera, Marta Dassù. Ma deciso a guidare direttamente dai suoi uffici tutto il programma di governo, Renzi è andato oltre. Ha sette consiglieri per le riforme economiche, e al rientro a settembre il premier cercherà di capire se è il caso di reclutarne altri ancora o addirittura riorganizzare il loro lavoro.

La decisione più importante da prendere, quanto a questo, è se applicare il metodo americano: la Casa Bianca ha il Council of Economic Advisors, con procedure, lavoro di squadra, ruoli ben definiti e un capo che coordina l’attività e i rapporti con il presidente. L’ipotesi è già stata discussa. La decisione non c’è. Di certo qualcosa cambierà: come previsto dall’inizio, alcuni dei consiglieri rientreranno nelle loro carriere di prima. Andrea Guerra, l’ex amministratore delegato di Luxottica che ha gestito per il premier le partite sulla banda larga, la Cassa depositi e l’Ilva, in ottobre (salvo sorprese) diventerà presidente di Eataly. Tommaso Nannicini, l’economista di 41 anni che ha tenuto la regia del Jobs act e della delega fiscale, dovrebbe tornare alla Bocconi: se non lo facesse perderebbe un grosso finanziamento europeo di ricerca. Ci sono poi voci insistenti, ma non confermate, che anche la responsabile per le banche Carlotta De Franceschi potrebbe lasciare. Alla fine Nannicini resterebbe, se solo riuscisse a congelare il suo finanziamento europeo; e anche su De Franceschi non ci sono decisioni. Eppure questa è una squadra che rischia di perdere tre pezzi su sette in poche settimane, mentre persino al completo è già travolta di lavoro: legge di Stabilità, spending review, rapporti con le imprese, quel che resta da attuare nel Jobs act, rapporti con gli enti locali, le riforme bancarie, e tra pochissimo l’attuazione di deleghe delicatissime e molto complesse su giustizia e pubblica amministrazione.

Visto dai piani alti dei ministeri di settore, secondo alcuni è in corso un tentativo di accentrare nell’ufficio del premier l’esecuzione di tutto il programma di governo. Visto da Palazzo Chigi, il problema è diverso. I consiglieri di Renzi sanno che devono lavorare con le burocrazie ministeriali per attuare le riforme, semmai in questi mesi è mancato loro qualcos’altro: non si sono mai seduti tutti insieme con il premier, documenti sul tavolo o grafici proiettati sugli schermi, per discutere dei problemi del Paese e delle strategie per risolverli. Renzi è riuscito ad attrarre alcuni dei migliori economisti e dei massimi specialisti d’Italia, spesso sotto o attorno ai 40 anni, tutti scelti anche per la loro duttilità. Ma non ne ha mai fatto una squadra. Ciascuno dei consiglieri parla con il premier da solo e a sua volta ciascuno di loro si dota di un gruppo di persone, spesso informale. Per esempio, il giurista della Bocconi Maurizio Del Conte ha lasciato per mesi l’università e il suo studio di avvocato per scrivere i testi dei decreti del Jobs act in cambio di un rimborso spese: treno da Milano, taxi da Termini a Piazza Colonna e hotel, secondo regolamento non oltre le tre stelle. In vista del confronto con Bruxelles sulla legge di stabilità e operazioni defatiganti e capillari come le riforme della giustizia e dell’amministrazione, a Palazzo Chigi si sta discutendo di un salto di qualità al giro di boa delle riforme.

Servono nuovi innesti e, secondo alcuni, una struttura chiara con una persona di riferimento e più lavoro di squadra. Il realtà il metodo Renzi finora si è dimostrato utile: incontrando i suoi consiglieri uno ad uno, tenendo le sue carte coperte, il premier è riuscito a muovere di sorpresa ed evitare che il fuoco di fila contro le riforme partisse troppo presto. Ma il punto di forza del Council of Economic Advisor della Casa Bianca è proprio di far leva sulle competenze per metterle a fattor comune e moltiplicarle, con forte un impatto a valle sulla burocrazia.

Su questa ipotesi, ancora volta Renzi tiene le carte coperte. Lo stesso Andrea Guerra per mesi ha lavorato per formare un secondo gruppo (esterno) di poche personalità su cui il premier potesse contare. Non è chiaro che Guerra sia riuscito, anche perché è difficile convincere professionisti affermati ad abbandonare le proprie attività. Ma quale che sia l’esito di questo dibattito in corso, anche la disciplina dei fattorini in corridoio nasconde sempre qualche indizio sulla natura di una leadership.

28 agosto 2015 (modifica il 28 agosto 2015 | 08:11)
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_agosto_28/superconsulenti-palazzo-chigi-unita-crisi-stile-casa-bianca-03b5fdda-4d44-11e5-816c-ead72dc4bf5c.shtml
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« Risposta #44 inserito:: Settembre 02, 2015, 04:43:42 pm »

Il piano di Renzi: freddezza dell’Europa su deficit e flessibilità
Bruxelles frena sull’aumento dei margini per l’Italia, sulle tasse le raccomandazioni di luglio

Di Federico Fubini

BRUXELLES - Se c’è un’area dell’economia europea che in questi anni ha ricevuto uno stimolo keynesiano - crescita grazie ai lavori pubblici - essa è vicina al cuore delle decisioni. La più vicina: il quartiere di Bruxelles che ospita le istituzioni europee continua a essere un cantiere aperto di grandi opere. Il nuovo palazzo del Consiglio europeo. Una stazione ferroviaria collegata all’aeroporto. Il cortile del Berlaymont, sede della Commissione. Il rumore di fondo dei martelli pneumatici è ovunque e, con la sua eco dissonante, rischia di rivelarsi una colonna sonora stranamente appropriata per certi colloqui che aspettano il governo italiano qui.

Sulla Legge di stabilità dell’Italia non c’è ancora nessuna valutazione a Bruxelles, per un motivo fondamentale: non è stata presentata. Non ci sono i numeri dell’intervento, né i dettagli sulle misure. Dagli uffici della Commissione europea e del Consiglio però le indiscrezioni e le dichiarazioni dall’Italia, a partire da quelle di Matteo Renzi, vengono registrate non senza una certa perplessità. Sia sulla sostanza, che sul metodo.

Da Bruxelles non arriveranno commenti ufficiali prima che in ottobre il Consiglio dei ministri a Roma vari la manovra. Tutti però nella Commissione europea hanno notato i punti che, a prima vista, sembrano in contraddizione con le raccomandazioni che l’Ecofin ha appena rivolto all’Italia. Il più delicato riguarda la tassazione degli immobili, quella che Renzi vuole cancellare dal 2016 per quanto riguarda le prime case: abolizione della Tasi e dell’Imu, le tasse che colpiscono le abitazioni ordinarie e quelle di valore.

Non è la direzione che la Commissione e l’Ecofin avevano raccomandato. Piuttosto, le istituzioni comunitarie propongono il contrario: le tasse sulla casa, si ritiene a Bruxelles, sono meno inique e non danneggiano gli investimenti e l’attività economica come quelle sull’occupazione. In un documento formale, i ministri economico-finanziari dell’Unione sostengono che in Italia una delle grandi priorità rimane «alleggerire l’onere fiscale sul lavoro». Per questo viene indicata proprio una di quelle riforme grazie alle quali il governo ha già ottenuto più flessibilità nel giudizio sui suoi conti: per Bruxelles la strada è lo «spostamento del carico fiscale», in particolare dal lavoro agli immobili. Meno tasse sulle buste paga o a carico delle imprese che assumono; e in contropartita una revisione dei valori catastali che oggi, secondo Bruxelles, sono «obsoleti». Il messaggio di fondo è che una riforma del catasto produrrebbe gettito e permetterebbe di varare nuovi sgravi all’occupazione, dopo quelli già decisi quest’anno. La crescita e la creazione di posti ne avrebbero un beneficio, secondo la Commissione e l’Ecofin.

Questa raccomandazione all’Italia è parte di una procedura a cui sono soggetti tutti i Paesi, ed è uscita in Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea il 14 luglio. Discussa, votata e firmata anche dal governo italiano, come parte contraente nell’Ecofin (Pier Carlo Padoan) e del Consiglio europeo (Renzi). Quattro giorni dopo e «con l’inchiostro ancora fresco sul documento», si nota a Bruxelles, Renzi annuncia invece che cancellerà le tasse sulle prima casa: l’opposto di quanto emerso in sei mesi di analisi e confronti a Bruxelles. Per la verità il premier si è impegnato a varare fin da subito anche un ulteriore taglio delle tasse sulle imprese, in vigore dal 2017, e una riduzione del prelievo sulle persone dal 2018. Costo complessivo dell’operazione, 35 miliardi di euro. Visto da Bruxelles, non è l’alleggerimento del carico fiscale che solleva dubbi; è la scelta di rischiare un aumento del deficit proprio adesso che l’economia va meglio e ha meno bisogno di sostegno pubblico. Per i prossimi anni infatti i tagli di spesa annunciati (ma non ancora eseguiti) sono solo di 10 miliardi, meno di un terzo dei tagli delle tasse previsti dal premier. È plausibile dunque che il disavanzo possa aumentare, anche se entro i limiti del 3% del Pil.

Di solito queste operazioni in deficit vengono lanciate nelle fasi di frenata, si osserva a Bruxelles, quando c’è bisogno di uno stimolo da parte del governo. Adesso però l’Italia è in ripresa e dovrebbe approfittare di una fase del genere proprio per andare avanti nel risanamento, non per frenare o tornare indietro. Il rischio è che si trovi con deficit e debito molto più alti, oltre i livelli di sicurezza, la prossima volta che l’economia rallenterà.

È l’ormai celebre discussione sui saldi di bilancio «strutturali», ossia valutati in base allo stato di salute dell’economia in ogni dato momento. Grazie alle riforme avviate nel 2015 il governo ha strappato la possibilità di ridurre il suo deficit «strutturale» di nel 2016 solo dello 0,1% del Pil e non dello 0,5%. Quella concessione è stata una vittoria personale di Matteo Renzi all’inizio di quest’anno: il premier aveva scommesso che l’avrebbe ottenuta direttamente nel confronto con gli altri leader europei, ignorando la lettura rigida delle regole preferita dai funzionari di Bruxelles. Nel 2015 Renzi ha avuto ragione, nell’incredulità di molti. Adesso però strappare una nuova dose di «flessibilità» significa azzerare il risanamento «strutturale» o addirittura innescare la marcia indietro. Il premier sembra di nuovo deciso a cercare una soluzione politica al suo problema, al massimo livello in Europa: ne parlerà lui stesso con il presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, e con la cancelliera tedesca Angela Merkel. L’occasione potrebbe arrivare subito dopo il varo della Legge di stabilità, al vertice europeo di metà ottobre a Bruxelles. La musica sullo sfondo, probabilmente, sarà lo stridore dei martelli pneumatici.

2 settembre 2015 (modifica il 2 settembre 2015 | 10:58)
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_settembre_02/piano-renzi-freddezza-dell-europa-deficit-flessibilita-0336b976-514f-11e5-addb-96266eadb506.shtml
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