LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. => Discussione aperta da: Admin - Maggio 06, 2010, 11:59:51 pm



Titolo: Federico FUBINI.
Inserito da: Admin - Maggio 06, 2010, 11:59:51 pm
Il commento

A chi sono utili le agenzie di rating?

L'analisi di Moody's a mercati aperti

Quando la vicenda greca sarà più sotto controllo, arriverà forse il momento di porsi qualche domanda. Due soprattutto: come funziona oggi la fabbrica di quel bene essenziale di un’economia che si chiama fiducia? E chi è stato autorizzato a entrarci o chi si è auto-proclamato capo-reparto in quella fabbrica? A giudicare dalla cronaca di queste ore, il luogo di produzione della fiducia oggi è un impianto sovraffollato, caotico, obsoleto, pieno di soggetti inadeguati, da cui esce un prodotto guasto. Prendiamo per esempio l’agenzia di rating Moody’s: con una certa responsabilità, a differenza della concorrente Standard & Poor’s, si era astenuta dal dare commenti negativi sulla situazione della Grecia prima di vedere il piano d’austerità. Contribuire a capire i fatti è sempre utile, alimentare il panico molto meno. Oggi però, dopo due giorni di sbandamenti dei mercati, nelle ore delicatissime in cui il parlamento di Atene si prepara a votare le misure e il governo di Madrid si affaccia sul mercato, Moody’s cambia linea. Fa uscire un rapporto in cui sottolinea «il rischio di un contagio della crisi greca per il sistema bancario europeo» e in particolare per «Portogallo, Spagna, Irlanda, Italia e Gran Bretagna». Poco importa che le banche più esposte sulla Grecia siano francesi e tedesche, o che quelle più esposte sulla Spagna siano soprattutto tedesche. Gli analisti di Moody’s avranno le loro ragioni e hanno sempre diritto di parola, ovviamente: anche quando escono a mercati aperti e, come ieri, affondano le Borse nel momento più difficile. Ci ha poi pensato la Banca d’Italia a ricordare la solidità che il sistema bancario da lei vigilato sta dimostrando in questa lunga crisi. Ma la domanda di partenza resta: a quali soggetti il sistema ha delegato la sua fabbrica della fiducia?

Federico Fubini
06 maggio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA

http://www.corriere.it/economia/10_maggio_06/moodys-banche-fubini_83ac5470-590d-11df-ace4-00144f02aabe.shtml


Titolo: Federico FUBINI Distrazione italiana
Inserito da: Admin - Luglio 31, 2011, 11:22:15 am
Distrazione italiana

Un altro giorno, un'altra scossa. Anche ieri il premio di rischio che i titoli di Stato italiani devono pagare per trovare dei compratori sul mercato è salito e ormai viaggia ai livelli più alti da ben prima che partisse l'euro. Più che i record, colpisce la dinamica dello smottamento: dall'inizio di luglio il differenziale (o spread) con la Germania è quasi raddoppiato e il costo del debito per il Tesoro è salito rapidamente. In giugno la Repubblica italiana poteva indebitarsi a dieci anni pagando interessi del 4,7%, ieri invece lo stesso margine sfiorava il 6%.

È stato un luglio orribile, che per certi versi ricorda quello nel '92 da cui speravamo di esserci vaccinati per sempre. Come allora, si rincorrono le voci e le accuse alle banche straniere, a quei tempi Goldman Sachs, oggi Deutsche Bank. Come allora, l'Italia è finita al centro di una «tempesta di opinione» internazionale in cui la difficoltà del governo e la sfiducia degli investitori si alimentano a vicenda.

Eppure le analogie finiscono qua. Diversamente dal '92 l'Italia non può svalutare per dare subito ossigeno all'export e all'occupazione. Non può farlo, anche se ormai è chiaro che occorre evitare a tutti i costi un altro mese orribile come questo. In agosto il Tesoro ha cancellato le aste dei Btp, ma a settembre dovrà tornare a raccogliere i prestiti che servono al Paese per funzionare ogni giorno: per allora servono condizioni sostenibili. Sperare che la situazione si calmi da sé, che arrivi l'Europa a toglierci dai guai oppure prendersela con la speculazione non serve più a molto.

Ai mercati è difficile che l'Italia possa dettare le condizioni avendo costantemente bisogno di prestiti per 1.900 miliardi. Quanto all'Europa, il nuovo fondo salvataggi non sarà operativo prima di fine settembre (a essere ottimisti) e la Bce non intende aiutare l'Italia se prima l'Italia non si aiuta da sé. Perché il punto è esattamente questo: andare in vacanza con l'idea che nel frattempo la crisi si fermi e ci aspetti sarebbe peggio di un'ingenuità. Sarebbe la riprova che in Italia latita la consapevolezza dei rischi che corriamo e ciò non farebbe che alimentare il problema di credibilità internazionale del Paese. È una spirale da evitare: minore è la credibilità, più vulnerabili si diventa sui mercati. Perché mai un investitore dovrebbe puntare su un Paese il cui governo, mentre il contagio divampa, dibatte su qualche stanzone a Monza?

In realtà neanche la manovra è bastata a rassicurare i mercati e per molti aspetti la situazione sta diventando simile a quella della Spagna di qualche mese fa. Anche lì le parti sociali hanno messo sotto pressione il governo, come da noi questa settimana. Alla fine Zapatero ha affrontato le vacche sacre delle riforme che servono alla Spagna: lo ha fatto per coraggio o perché non aveva scelta, ma così si è tolto dalla scia dei Paesi più in difficoltà e oggi il premio di rischio spagnolo aumenta meno di quello italiano. Anche da noi serve lo stesso coraggio, per lo meno nelle dosi minime necessarie perché il governo convochi subito, non a settembre, l'incontro sulla crisi con le parti sociali. Meglio farlo ora. Domani, purtroppo, di coraggio potrebbe volercene di più.

Federico Fubini

30 luglio 2011 08:21© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_luglio_30/fubini_distrazione_italiana_b0a036dc-ba6d-11e0-9ed5-57850404ec1a.shtml


Titolo: Federico FUBINI. - Il questionario di Davos
Inserito da: Admin - Gennaio 28, 2012, 06:28:33 pm
Il questionario di Davos

Lo spread dei Btp sui Bund, il termometro della febbre, è più basso di quando Standard & Poor’s declassò l’Italia due settimane fa. Ieri era a quota 404 punti, allora era a 487. L’agenzia di rating quel giorno spiegò la sua decisione dicendo che il mercato di fatto l’aveva già presa, ma forse è proprio perché S&P si è limitata a seguire gli investitori che questi ora rifiutano di seguire lei: in quella scelta non c’era molta analisi dei dati di fondo del Paese, dalla riforma pensioni al taglio del deficit verso quota zero. Era solo la presa d’atto che un debitore può finire in difficoltà se i suoi creditori pensano che lo sia, lesinandogli dunque i prestiti.

Simili osservazioni si potrebbero muovere da ieri sera sul conto di Fitch. Anche la terza delle grandi società di valutazione ieri ha tagliato di due gradini il giudizio sull’affidabilità finanziaria dell’Italia, benché il suo rating resti sopra a quello delle concorrenti S&P e Moody’s. Ma le motivazioni suonano decisamente familiari. Fitch parla dell’assenza di quello che chiama un vero «muro taglia fuoco», un fondo salvataggi credibile in Europa. Evoca il rischio che una crisi si auto-avveri solo perché i mercati la pensano plausibile e finiscono quindi preda del panico, acuendo così la crisi stessa. Ricorda la recessione nella quale gran parte dell’area euro sta scivolando. Per la verità, l’agenzia cita anche fattori specifici sull’Italia, soprattutto il rischio che la caduta dell’economia vanifichi quanto fatto sinora per mettere i conti in ordine. È una tela di Penelope, l’austerità tessuta di giorno rischia di disfarsi con il calo del fatturato che può provocare. E anche qui i contro argomenti non mancherebbero: se un anno fa l’Italia meritava un rating due gradini sopra, perché tagliarlo ora che ha fatto manovre per il 5,5% del Pil e ha risolto il problema delle pensioni prima e meglio della Germania o dell’Olanda?

È una discussione che può andare avanti all’infinito, ma non sposta di un centimetro una realtà di fondo che ieri Fitch stessa ha ricordato: da questa crisi si esce solo con una ripresa vera e diffusa, cioè non subito. Noi italiani siamo i campioni del mondo dei colpi di reni, degli scatti improvvisi per balzare fuori da situazioni che sembravano disperate. Ma con tutte le incoerenze del caso, le agenzie di rating e i tanti investitori in questi giorni riuniti a Davos non si preoccupano di questo. Ci parlano di ordini temporali diversi. Il malessere dell’Italia viene da lontano e neppure il più efficiente dei governi lo risolverà mai in un anno solo.

Ripensare un Paese non può essere un esercizio una tantum. In questi dodici anni di euro, l’Italia ha perso trenta punti percentuali di competitività rispetto alla Germania e non li recupererà più con nessuna svalutazione: né esterna della moneta, né interna deprimendo all’infinito il potere d’acquisto dei salari. La sola via possibile per gli italiani è accettare che dopo un brillante scatto sui cento metri, guidato da questo governo, la corsa continuerà. La domanda di fondo di Fitch, di S&P e degli investitori è che Paese sarà questo fra cinque anni. Non vogliono sapere solo se riuscirà a finanziarsi nei prossimi dodici mesi. La tenuta anche nel breve periodo dipende in buona parte dalla consapevolezza che la metamorfosi che viviamo ha radici lontane e una dimensione nella lunga durata. Ma su questo la risposta devono darla gli italiani, non Mario Monti.

Federico Fubini

28 gennaio 2012 | 7:43© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_gennaio_28/fubini-questionario-di-davos_3f27bf5e-4977-11e1-a339-d42b0f14f392.shtml


Titolo: Federico Fubini. Mossa per evitare il contagio con l'ipotesi di intervento-bis
Inserito da: Admin - Giugno 11, 2012, 05:54:34 pm
IL SOCCORSO ALLA SPAGNA

Mossa per evitare il contagio con l'ipotesi di intervento-bis

C'è chi calcola fino a 300 miliardi per Madrid. I riflettori sulla situazione italiana e la Paura della prossima Onda


È da più di una settimana che la questione non era più se la Spagna avrebbe chiesto o no un sostegno per le sue banche. Da tempo questa svolta era inevitabile, ciò che conta per il futuro dell'euro adesso è cosa accadrà dopo che gli altri governi si sono detti pronti ad aiutare.

Più di ogni altro aspetto, i mercati in questi giorni stanno cercando di capire quali saranno le conseguenze per la stessa Spagna e per un altro Paese decisivo per gli equilibri europei: l'Italia.

Non che l'esborso per Madrid sia davvero dietro l'angolo. Il solo Paese ad essere mai stato aiutato per il crollo delle sue banche, l'Irlanda, ha dovuto attraversare molte settimane di stallo fra la resa e la salvezza. Il percorso è sempre lo stesso: prima c'è sempre un governo che nega di avere un problema, quindi garantisce di poterlo gestire da solo e infine - allora Dublino, oggi Madrid - alza bandiera bianca. La richiesta d'aiuto all'Irlanda fu accolta dall'Eurogruppo nel novembre 2010, il primo esborso arrivò solo nella seconda metà di gennaio.

Anche per la Spagna il percorso sulla carta appare lineare, ma è disseminato di trappole. Gli aiuti che si inizieranno a versare il mese prossimo verranno dal nuovo fondo salvataggi permanente in vigore da luglio, l'Esm. Ma l'Esm, come il Fondo monetario, è legalmente un creditore privilegiato: ciò significa che ha diritto a essere rimborsato dei suoi prestiti prima degli altri creditori, i quali dunque da ora in poi corrono un maggiore pericolo di non riavere più il loro capitale investito. È per questo che i privati potrebbero diventare sempre più riluttanti a finanziare il governo di Madrid. Inoltre, un prestito dell'Esm alla Spagna in queste condizioni può contribuire a far salire il debito pubblico del Paese al 100% del Pil nei prossimi cinque anni, spaventando ancora di più gli investitori privati. Non c'è banca internazionale che non abbia già fatto proiezioni del genere. È questo insieme di circostanze che spinge molti, nei governi e nel mercato, a sospettare che l'intervento per le banche sia solo il primo dei salvataggi necessari per Madrid. Se tutto fosse stato fatto prima, forse sarebbe stato diverso. Ma ora Janet Henry, capo-economista di Hsbc per l'Europa, pensa che sterilizzare il contagio spagnolo intervenendo solo sulle banche non sia scontato: «La domanda chiave - osserva l'economista inglese - è capire se un pacchetto di sostegno per il settore finanziario sia la fine o solo l'inizio dell'assistenza alla Spagna». Dopo gli istituti, anche il governo potrebbe aver bisogno di un prestito internazionale tra non molto. La differenza fra le due opzioni è fra un pacchetto di circa cento o di 300 miliardi di euro. E per nessuno altro governo essa conta come per quello italiano, ma non solo perché la mediazione di Vittorio Grilli, Enzo Moavero Milanesi e Mario Monti, è stata preziosa per l'accordo di ieri su Madrid.

C'è anche un altro motivo che tutti hanno presente in questi giorni: l'Italia è ormai il solo Paese in difficoltà a non aver dovuto chiedere un salvataggio. Può continuare a restare tale. Se i tassi iberici si stabilizzeranno dopo la concessione del pacchetto per le banche, anche quelli pagati da Roma possono scendere; nel frattempo, un accordo europeo sul sistema bancario può calmare la situazione. In caso contrario però l'incertezza è altissima e gli occhi sull'Italia si fanno sempre più attenti. Ieri l'agenzia di rating Moody's ha sottolineato i rischi di contagio in arrivo dalla Spagna e Citigroup ha prodotto un rapporto sferzante. «Con gli attuali tassi d'interesse di mercato la posizione di bilancio dell'Italia è probabilmente su un percorso di lungo termine insostenibile», si legge nello "Euro Economics Weekly" di Citigroup. A causa della crescita cronicamente assente, «il rapporto fra debito e Pil tende a salire per un periodo prolungato». Come nell'emergenza di novembre scorso, il premier Monti ha bisogno di spingere al massimo per misure credibili in Europa e in Italia. Lui per primo sa che la prossima ondata dei mercati va anticipata prima che arrivi. Solo i partiti, i sindacati, la pubblica amministrazione e le imprese sussidiate, uniti solo nel frenare, sembrano pensare che la Spagna si bagni in qualche mare lontano da qui.

Federico Fubini

10 giugno 2012 | 10:34© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/12_giugno_10/Soccorso-Spagna-mossa-evitare-contagio-italia-paura-prossima-onda_d07e680a-b2c6-11e1-8b75-00f6d7ee22cc.shtml


Titolo: Federico FUBINI
Inserito da: Admin - Giugno 20, 2012, 11:17:25 pm
IL PIANO DAL SUMMIT

I duri commenti sul debito italiano e le mosse taglia tassi del premier

I colloqui di Monti a Los Cabos e la strategia delle cessioni

E Gurria parla di misure straordinarie sui titoli di Stato


C'è un argomento che Mario Monti ha ripetuto spesso in questi giorni con gli altri leader al G20 di Los Cabos, Messico. Ma per una volta la logica del premier non era «tecnica», non faceva appello a progetti europei né a dettagli dei sistemi di finanziamento. Era politica. Una logica da navigatore giunto al termine di un corso di sopravvivenza di sette mesi nei corridoi romani.

Ad alcuni dei leader che l'hanno visto, Monti ha spiegato che in nome della stabilità del suo governo a lui serve decisamente un risultato fuori dall'Italia. Dal vertice europeo del 28 e 29 giugno, l'esecutivo dei tecnici di Roma deve ottenere decisioni tangibili e non solo perché servono a calmare le tensioni di mercato: ci sono da sedare anche quelle dei partiti, in particolare quelle del Pdl.

Ad alcuni colleghi europei e del G20, Monti ha spiegato di aver ricevuto segnali neppure troppo velati dal principale partito di maggioranza. Un esito deludente dell'ultimo giro di negoziati in Europa metterebbe in dubbio la stabilità del governo a Roma, perché molti nel Pdl troverebbero seri argomenti per giustificare il loro malumore verso la linea dei tecnici. Se l'Europa non serve a far calare gli interessi sul debito, a che serve un governo «ben visto» in Europa? Se niente funziona a Bruxelles, un Pdl che scende nei sondaggi ogni settimana di più può essere tentato di tagliare le perdite troncando la legislatura. Il messaggio a Monti è stato recapitato dagli esponenti del centrodestra prima della sua partenza per il Messico e lì il premier l'ha spiegato ai suoi interlocutori.

Uno di coloro ai quali l'ha detto lunedì a Los Cabos è Angel Gurria, segretario generale dell'Ocse. Con lui l'incontro era delicato non tanto perché Gurria sia un uomo molto influente, non lo è, ma perché poco prima aveva parlato di qualcosa che sembrerebbe impensabile per un Paese del G7. In una conversazione di tre giorni fa con Ian Talley e Chris Emsden del gruppo «Dow Jones», Gurria ha discusso l'ipotesi che il governo decida di rinviare le scadenze di rimborso del debito pubblico. «L'Italia può allungare unilateralmente le scadenze sui suoi titoli di Stato già emessi», ha detto Gurria secondo Talley e Emsden. «Perché qualcuno potrebbe voler iniziare a parlare di questo?», si sarebbe chiesto Gurria. «Perché questa soluzione non comporterebbe perdite sui prezzi di mercato dei bond per chi li detiene per un lungo periodo e potrebbe persino spingerne i prezzi al rialzo». Talley e Emsden del «Wall Street Journal» notano che è la prima volta che un dirigente internazionale di questo livello parla di una possibilità del genere riguardo all'Italia.

Non è chiaro se Gurria lo abbia fatto anche nel suo incontro di persona con Monti, lunedì a Los Cabos. Alcune fonti dicono di sì, altre lo negano nettamente. Il portavoce dell'Ocse, Anthony Gooch, sottolinea che l'ipotesi di cui Gurria ha parlato al «Wall Street Journal» non è in discussione. «È solo uno scenario estremo, che non abbiamo mai proposto: Gurria l'ha menzionata solo reagendo a una richiesta di commenti in proposito».

Come che sia, Monti ha osservato nei suoi colloqui con Gurria e altri a margine del G20 che ci sono altre due strade che il suo governo ha davanti a sé per gestire il debito: cercare di andare avanti anche con tassi alti, o applicarsi nel programma già varato di cessione di beni pubblici. L'operazione è partita e, com'è noto, Mediobanca stima che nel medio periodo l'Italia possa mirare a cessioni per circa 90 miliardi su un patrimonio demaniale che ne vale in tutto 425.

Monti e i suoi più stretti collaboratori sanno perfettamente che i mercati stanno scrutando a ogni passo la dinamica del debito italiano. L'ultimo Documento di economia e finanza mette in conto un debito che si stabilizza al 123,4% del Pil quest'anno, con un'economia che decresce dell'1,2%, tassi d'interesse sui Bot a tre mesi all'1% e sui Btp a dieci anni al 5,4%. Invece la decrescita dei primi sei mesi fa temere una caduta del Pil su tutto il 2012 di ben oltre l'1,2% per quest'anno. E gli interessi sui titoli di Stato per ora viaggiano più alti di quanto previsto dal Tesoro. In queste condizioni non è scontato che il livello di avanzo primario messo in cantiere, cioè il surplus di bilancio prima di pagare gli interessi, basti a stabilizzare la dinamica del debito.

Per riuscire in questo - non solo per placare la fronda anti governo nel Pdl - l'Italia ha bisogno anche di un accordo europeo entro giugno. A questo proposito il negoziato si è sviluppato freneticamente in questi giorni, fra Los Cabos e Bruxelles, su due fronti separati. Per il medio termine si sta parlando di una «roadmap», un tracciato verso la cosiddetta unione politica, di bilancio e anche bancaria in Europa: sullo sfondo di quest'ultima c'è anche l'ipotesi di garanzie sui depositi dei risparmiatori e di una vigilanza finanziaria comune. Ma su questi temi dal vertice di fine mese uscirà poco più dello scheletro sui piani di lavoro per il seguito.

Intanto però serve qualcosa di immediato, che blocchi la deriva dei tassi d'interesse e quella di parte della maggioranza a Roma. Che fermi l'emorragia di fiducia prima che sia tardi. In effetti anche di misure più immediate si è parlato fra le delegazioni dei principali Paesi in questi di giorni al G20 in Messico. Così sembra funzionare una delle ipotesi discusse: per i Paesi che rispettano certi vincoli di politica economica ma sono sotto attacco sui mercati, potrebbe esserci la possibilità di contare su interventi dei fondi salvataggi europei (Efsf e Esm) sui propri bond, quando superano certi rendimenti. Secondo una delle proposte l'Esm, il meccanismo europeo di sostegno permanente, dovrebbe potersi finanziare presso la Banca centrale europea come fosse una banca commerciale e poi aiutare gli Stati in difficoltà. Saremmo così più vicini agli acquisti massicci di titoli di Stato come vengono fatti in Gran Bretagna o negli Stati Uniti.

Un'opzione del genere fu discussa appena nove mesi fa dagli stessi «sherpa» e da molti degli stessi leader di oggi. E fu bocciata. Allora il livello di stress nel mercato e nella politica italiana era altissimo. Oggi è tale che, se si sceglie il rinvio, la prossima volta i leader del G20 rischiano di parlarne con qualcuno di cui, per ora, non si sa niente.

Federico Fubini

20 giugno 2012 | 7:41© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/12_giugno_20/monti-debito-italiano-Fubini_c0e58d18-ba98-11e1-9945-4e6ccb7afcb5.shtml


Titolo: Federico FUBINI Chi investe e non vede
Inserito da: Admin - Luglio 01, 2012, 03:36:09 pm
LE TERAPIE DEI PAESI A RISCHIO

Chi investe e non vede

La festa non è durata neanche due ore. Ieri mattina l’euro aveva ripreso quota e la febbre sui tassi dei titoli di Stato stava iniziando a scendere. Sembrava l’inizio di un giorno di sollievo per l’esito del voto greco, invece alle dieci e mezza è già finito tutto. Ciascuno è ridisceso nella propria trincea. Il solo listino che si è tenuto nettamente in positivo è rimasto quello di Atene, mentre le Borse di Milano e Madrid sprofondavano e il resto d’Europa restava attorno a quota zero. Gli spread della Spagna e dell’Italia hanno ripreso a crescere come in un’inerzia infernale.

Il messaggio non poteva essere più chiaro. Fino a venerdì la classe media di Atene accaparrava cibo e medicine di scorta, l’esercito teneva in preallarme i riservisti, i neonazisti improvvisavano ronde di sicurezza nelle periferie abbandonate dalla polizia. Ma l’aver scongiurato la catastrofe di una vittoria degli estremisti in Grecia non significa che i problemi siano risolti. Restano tutti come prima. Con la loro festa troncata a metà, gli investitori ieri hanno detto ai governi che ormai stanno guardando oltre Atene, verso la Spagna e l’Italia. E lo spettacolo non li convince. Nella penisola iberica vedono il crollo immobiliare senza fine e l’aiuto europeo congegnato come un ponte che non regge: invece di versare capitale direttamente nelle banche, vero tallone d’Achille iberico, si prestano soldi al governo di Madrid aumentandone così il debito e il legame perverso con le banche stesse. E invece di rassicurare gli investitori esteri, li si mette in fuga dicendo loro che saranno rimborsati solo dopo il fondo salvataggi europeo Esm. Di questo passo la Spagna finirà presto per aver bisogno di un intervento di aiuto molto più pesante, banche e Stato insieme.

Ma ai mercati non piace neanche ciò che vedono in Italia. La decrescita dei primi sei mesi del 2012 è stata tale da mettere in dubbio le stime fatte fin qui. Senza un’inversione di tendenza, c’è il rischio che il debito continui a crescere. Gli investitori per ora non vedono una decisione europea che blocchi l’ingranaggio, dunque nell’incertezza si tengono alla larga. Certo non aiuta l’intero Paese — partiti, sindacati, imprese — l’abitudine di allentare la coesione e gli sforzi non appena gli «spread» calano e poi di nuovo accelerare solo quando si torna sotto schiaffo. In questo modo si dà alla Germania un segnale masochista: che questa tensione da infarto all’Italia in fondo fa bene, ed è meglio lasciarci in questo stato.

Niente di tutto questo è inevitabile. In Europa ci sono Paesi colpiti duro dalla crisi che si sono rimboccati le maniche, lavorando di più, e ora mostrano chiari progressi. L’export del Portogallo è salito del 13% in un anno e del 76% solo verso la Cina. Anche Dublino ha ricevuto un salvataggio europeo ma da ieri paga uno spread più basso di Madrid, il suo export vola e l’economia è tornata a crescere. Forse perché è una nazione piccola e coesa, l’Irlanda non vive nel rifiuto di ogni gruppo sociale di accettare le rinunce nel timore che il prossimo se ne avvantaggi. Fuori dal calcio, magari, qualcosa da insegnare all’Italia ce l’ha.

Federico Fubini

19 giugno 2012 | 7:49© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_giugno_19/fubini-chi-investe-non-vede_1becb9c8-b9ce-11e1-88e3-74eab70f59c2.shtml


Titolo: Federico FUBINI La crisi dell'euro. L'arma nascosta
Inserito da: Admin - Luglio 25, 2012, 04:50:31 pm
La crisi dell'euro

L'arma nascosta

L'11 marzo 1990 la Lituania dichiarò l'indipendenza dall'Unione Sovietica, innescando la frammentazione di una superpotenza. Il 25 giugno 1991, la Slovenia e la Croazia fecero sapere che da quel giorno non avrebbero più fatto parte della Jugoslavia. Il resto della storia è noto. Sistemi politici che sembravano irrevocabili, basati sul principio stesso della permanenza, iniziarono ad andare in frantumi perché i loro territori più forti a un certo punto rifiutarono di mantenere rapporti con quelli più deboli.

Se ieri la Spagna, l'Italia ma anche le banche francesi e tedesche hanno vissuto momenti di vera e propria capitolazione sui mercati, è anche perché la storia resta incisa nel codice genetico degli investitori. Per loro non si tratta più tanto di capire se la Grecia resterà nell'euro, ma se la moneta unica sopravviverà. La Bundesbank tedesca ammonisce severamente Atene. In Finlandia o in Olanda, così piccole e così apparentemente impeccabili, l'ipotesi di tornare alla moneta nazionale fa ormai parte delle conversazioni quotidiane sempre più condizionate dai populisti.

Ciascuno di noi ha i suoi problemi e ciascuno, almeno in parte, si merita ciò che i suoi creditori pensano di lui. Ma le convulsioni della zona euro, un nome che non ha mai conquistato la maiuscola, sono entrate in queste settimane in una fase che coglie gli europei psicologicamente impreparati. Forti e deboli, virtuosi e imperfetti, fino a poche estati fa tutti si illudevano di navigare un mare in bonaccia. I tedeschi credevano di poter condividere la moneta senza condividere il destino, e gli errori, degli altri. Gli spagnoli erano impegnati a diventare consumatori moderni, a godere dei loro nuovi diritti economici e prepararsi a conquistarne sempre di nuovi. Noi italiani vedevamo bene i nostri problemi, ma in fondo eravamo convinti che non fossero tutta colpa nostra e soprattutto credevamo di conservare una sorta di diritto naturale al lieto fine.

Ciò che accade in questi giorni ci dice che non è così. I mercati sono passati dalla sfiducia nei confronti della Spagna, o dell'Italia, a quella verso il sistema di cui tutti facciamo parte. Il primo passo per spezzare la spirale è che le istituzioni vitali dell'euro dimostrino di avere ancora forza da spendere e molto coraggio. La Banca centrale europea sarà determinante nelle prossime settimane, in un senso o nell'altro. Il suo presidente, Mario Draghi, ha detto che la Bce è disposta ad agire «senza tabù» e probabilmente è il segnale che potrebbe impegnarsi in una campagna di creazione di moneta e acquisti massicci di titoli di Stato. È la via non convenzionale che la Federal Reserve, la Banca d'Inghilterra e la Banca del Giappone conoscono bene. Ma quelle sono le banche centrali di nazioni coese. La sequenza di eventi in Europa dimostra invece che senza sufficiente capitale di fiducia fra le parti nessuna misura alla lunga basterà. Se gli europei non sapranno ricostruire questo capitale, anche il grattacielo della Bce finirà per apparire una cattedrale nel deserto.

Federico Fubini

24 luglio 2012 | 7:37© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_luglio_24/arma-nascosta-fubini_21c63054-d54e-11e1-8344-73c80d6dcb3d.shtml


Titolo: Federico FUBINI. Rajoy , il ruolo di Monti e il domino di Draghi
Inserito da: Admin - Luglio 30, 2012, 09:41:07 am
L'analisi

Rajoy , il ruolo di Monti e il domino di Draghi

Perché non è scontato che giovedì arrivino le misure decisive

Non è scontato che la decisione in grado di rovesciare il fronte della crisi arrivi questo giovedì. Quel giorno il consiglio direttivo della Banca centrale europea concluderà la sua prossima riunione e tutti sui mercati finanziari aspettano che per allora Mario Draghi, il presidente, comunichi nuove misure dell'Eurotower per sostenere i Paesi sull'orlo del baratro. «Nei limiti del nostro mandato, faremo ciò che serve per salvaguardare l'euro: e credetemi, sarà abbastanza», ha detto Draghi giovedì scorso a una conferenza di Londra.

Sarà probabilmente abbastanza, ma non è altrettanto chiaro che sarà quando i mercati finanziari se lo aspettano. Nella sua conferenza stampa di giovedì Draghi potrebbe limitarsi a annunciare alcune misure meno controverse, però non ancora l'avvio di un nuovo programma di acquisti di bond sovrani spagnoli. A questo la Bce sta ormai lavorando a pieno regime, dopo aver interrotto gli interventi l'inverno scorso.

Ma sono molti i pezzi ancora fuori posto, nel domino che Draghi ha innescato da Londra tre giorni fa. Non è certo che tutto sarà pronto per giovedì e, in caso di una delusione quel giorno, la reazione dei mercati potrebbe anche essere violenta.
La tessera determinante del mosaico riguarda proprio la Spagna. C'è un piano di acquisti di titoli che prevede interventi alle aste da parte dell'Efsf, il fondo salvataggi provvisorio, mentre la Bce fa altrettanto con i bond già sul mercato.

In contropartita, la Germania chiede però che il governo di Mariano Rajoy sottoscriva un «Memorandum d'intesa» destinato ad azzerare il poco che resta della sovranità della Spagna sulla propria politica economica. Il protocollo non imporrebbe nuove misure, oltre a quelle del bilancio 2013-2014 che Rajoy varerà già domani. Il governo iberico però dovrebbe sottoporsi alle visite di controllo periodiche (lo chiamano «monitoraggio») dei tecnici di Bruxelles e della Bce, su un calendario che lo vincolerebbe per anni.

È un prezzo molto alto per Rajoy. Firmare quella lettera significa per lui abdicare di fatto a un potere che ha inseguito per otto anni, in due elezioni perse (2004 e 2008) e nella terza finalmente vinta solo nove mesi fa. Non è un passo facile per il premier di un Regno che per secoli ha gestito un impero globale. Rajoy sa bene che non ha molta scelta, perché il costo dell'indebitamento spagnolo era ormai fuori controllo prima che Draghi parlasse tre giorni fa.

Ma mentre il percorso è definito, è sui tempi che ancora manca la chiarezza. Luis de Guindos, ministro delle Finanze ed ex capo di Lehman Brothers in Spagna, pensa che per firmare la resa debba almeno tenersi un Eurogruppo. Per ora però nessun incontro dei ministri finanziari dell'euro è in agenda, mentre si avvicina il giorno in cui Draghi dovrà dire ciò che la Bce intende fare. Il presidente della Bce ne sta parlando in questi giorni con Jens Weidmann, il suo pari grado della Bundesbank. Lo fa perché la Banca centrale tedesca non intende fare sconti: a costo di violare i vincoli di riservatezza imposti dall'Eurotower, la Bundesbank ha già ribadito che resta del tutto contraria agli acquisti di bond sovrani.

È per sbloccare questo impasse che molti in Europa adesso si stanno voltando verso Mario Monti. A Bruxelles e a Francoforte, a Berlino e a Parigi, si spera ancora che il premier italiano convinca il suo collega spagnolo ad accelerare i tempi e piegarsi. Magari anche prima del vertice italo-spagnolo di Madrid proprio il prossimo giovedì. Monti può mediare, ma è improbabile che lo faccia di buon grado: non se per caso iniziasse a sospettare che il postino dei memorandum, la seconda volta, suonerà all'uscio di Palazzo Chigi.

Federico Fubini

29 luglio 2012 | 16:37© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/12_luglio_29/manca-il-tassello-spagnolo-fubini_21f8d8d2-d987-11e1-baf7-133d6e5f95b5.shtml


Titolo: Federico Fubini. Vincoli alleggeriti ma duri impegni
Inserito da: Admin - Settembre 01, 2012, 11:13:51 am
La trattativa con la Ue

Vincoli alleggeriti ma duri impegni

Scudo anti-spread La sua attivazione non richiederebbe un commissariamento ma un documento d’intesa

Forse è solo l’ultimo dei paradossi del labirinto nel quale è andata a cacciarsi l’élite politica europea. A giugno l’Italia e la Spagna avevano lottato a Bruxelles perché il fondo salvataggi potesse acquistare titoli di Stato. Ora non hanno fretta di usarlo.

A luglio poi la Germania ha fatto capire che avrebbe accettato gli interventi della Banca centrale europea solo se Madrid e Roma avessero sottoscritto una lettera d’impegni. Ma anche stavolta le parti si sono invertite. I più recenti segnali di fumo che il governo di Berlino sta dirigendo verso Madrid indicano agli spagnoli che neanche la Germania ha fretta. Non vuole che il governo di Mariano Rajoy chieda aiuto subito. Il Bundestag ha appena votato il pacchetto per le banche iberiche e adesso la cancelliera Angela Merkel non intende rimettere sotto pressione l’intera struttura politica interna troppo presto: troppe lacerazioni nella sua stessa maggioranza di centrodestra, troppe tensioni istituzionali con la Bundesbank, sul fondo dello smarrimento nell’opinione pubblica. Per parte propria, prima di muovere un solo passo Rajoy invece vuole capire esattamente quale tipo di interventi sul mercato la Bce sia disposta ad affrontare. Senza vedere più da vicino il premio, il governo di Madrid non si sottoporrà all’impegno di un memorandum che prescrive all’intero Paese un preciso calendario di riforme.

È proprio per rimuovere questo ostacolo che il 6 settembre Mario Draghi preciserà meglio in che modo la sua banca potrà acquistare titoli di Stato dei Paesi in difficoltà. Quel giorno il presidente della Bce sarà ascoltato con grande attenzione in Italia, non solo in Spagna. Anche a Roma l’opzione di un ricorso al sostegno dell’Eurotower e dell’Esm, lo European stability mechanism, è tutt’altro che tramontata. Non si tratta di attivare questo o quello scudo, non subito. È del tutto improbabile che il governo italiano azioni un ingranaggio del genere prima della Spagna. Ma a pesare sulle valutazioni del governo può contribuire senz’altro il fatto che quel passo ormai non si presenta affatto come una messa sotto tutela di sapore coloniale. Il «Memorandum d’intesa» da firmare (e poi rispettare) per ottenere il sostegno di Bruxelles non è il manuale per l’uso di un commissariamento. Sarebbe piuttosto un documento, che gli addetti ai lavori definiscono «leggero», in continuità con ciò che l’Italia e la Spagna si sono già impegnate a fare. Mario Draghi e Mario Monti sostengono da tempo che un’unione monetaria implica una messa in comune delle decisioni, soprattutto nei momenti delicati. Questi, negli ultimi tempi, non sono mai mancati. E il premier lo sa.

Federico Fubini

30 agosto 2012 | 7:41© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/12_agosto_30/vincoli-alleggeriti-duri-impegni-fubini_6fd2eb2e-f264-11e1-9efb-e78611c7bd41.shtml


Titolo: FEDERICO FUBINI. Monti: «Non ho una forza politica mia, ma ho più consenso ...
Inserito da: Admin - Novembre 11, 2012, 04:01:34 pm
ESCLUSIVA

Monti: «Non ho una forza politica mia, ma ho più consenso dei partiti che mi sostengono»

Intervista-prefazione al libro del presidente del Consiglio

«È vero, sono pedagogico: devo convincere tutti»


Intervista di  FEDERICO FUBINI


Non è che lei si sente un po’ solo in queste bellissime stanze di Palazzo Chigi?
«Solo? Non mi sento solo, e non unicamente perché ho ministri molto leali e bravissimi, così come i collaboratori. Che intende dire? Che le sembro preoccupato?».

Solo da un punto di vista istituzionale. I partiti che dovrebbero sostenerla lo fanno con ambiguità. Scalpitano, recalcitrano.
«Un altro modo di vederla è che non è chiaro perché dovrebbero sostenerci. Ma perché mai dovrebbero sostenere questo governo? Il nostro lavoro produce per loro costi politici rilevanti di breve periodo. Che alla fine la responsabilità di certe decisioni sia nostra, mi pare ovvio. Ma in passato chi sedeva in queste stanze a Palazzo Chigi aveva dietro di sé una forza politica, grande o piccola che fosse, alleata o meno con altre. Coloro che sono stati presidenti del Consiglio prima di me non dovevano guadagnarsi tutti i giorni il consenso. Io invece non ho un retroterra politico mio, eppure devo prendere decisioni che hanno una probabilità di trovare consenso più bassa rispetto a tante decisioni che prendevano coloro che pure erano più corazzati di me in termini di retroterra politico. Però perché le sembro solo?».

Questa assenza di una sua forza politica propria alle spalle non le pare una ragione sufficiente?
«No. Non credo possa considerarsi solo uno che — per quello che possono valere i sondaggi — sembra avere un consenso superiore a quello di cui godono i partiti che lo sostengono in Parlamento. E quando incontro persone per la strada, mi sento dire quasi sempre: "Vada avanti!". Qualcuno, ma è raro, è più esplicito sui sacrifici: "Vada avanti, ma ci tassate troppo!". Altri hanno un tocco di comprensione sulla difficoltà del compito. Ricordo un tale che una volta, a Milano, mi ha apostrofato: "Eh! Aveva proprio ragione la sua mamma…". Qualche mese prima, in televisione avevo detto che mia mamma usava dire spesso, quando ero ragazzo: "Alla larga dalla politica!". Quel signore, che non avevo mai visto, se n’era ricordato, all’uscita da una messa affollata, nella totale incomprensione degli astanti. Io gli ho risposto: "Sì, sì. Aveva proprio ragione la mia mamma". E lui: "Sempre dare ascolto alle mamme!". (Ride) (...)

Un operaio che ha già subìto gli effetti del crollo dei subprime, di Lehman, poi la sfiducia degli investitori sul debito italiano capisce bene gli eccessi del mercato. Come fa a convincerlo che la via d’uscita dalla crisi sia ancora più mercato?
«È una critica comprensibile, anche perché fatta sotto l’impatto di un grosso disagio personale. Ma la mia lettura è in parte diversa. La crisi non è dovuta agli eccessi del mercato, ma a un mercato dove la presenza della regolazione e della vigilanza è stata insufficiente. Per questo credo in un’economia di mercato con pubblici poteri forti (...). Ciò permette di avere un’economia sociale di mercato, che riesca a contemperare la competitività e appunto la dimensione sociale. È un tema su cui ho lavorato a lungo come commissario europeo a Bruxelles. (...) Quella per un’economia sociale di mercato è una lotta difficile per l’Europa nel mondo e ancor più lo è per un singolo Paese. Ma secondo me è la formula giusta alla quale mira l’Europa, spesso senza riuscire a realizzarla. Il Trattato di Lisbona parla di "un’economia sociale di mercato altamente competitiva": nessuna di queste parole può venir meno. Però sappiamo anche da Luigi Einaudi che se il sociale e il mercato sono mischiati malamente, si fa quello che lui chiamava il pasticcio di lepre. In Italia lo si è fatto per decenni, con i prezzi politici e tante altre distorsioni. La mia linea di riformatore, prima come politico tra quattro virgolette a Bruxelles, ora tra due virgolette a Roma, è sempre stata la stessa: agire con gli strumenti istituzionali e legali a disposizione, e con la persuasione. Non possiamo darci come solo obiettivo quello di realizzare gli otto passi avanti che si vorrebbero, ma che non sarebbero fattibili o preluderebbero a dei crolli. Meglio allora assicurare due o tre passi avanti che consentano dei miglioramenti». (...)

La accusano anche di essere troppo pedagogico, come se lei ritenesse che si tratti di istruire gli italiani e non di governare.
«La pedagogia è naturale in un professore, è l’unica arma che ho. E ho un obbligo di spiegare maggiore di altri. In questo contano le ragioni soggettive: nessuno mi ha scelto, ma devo dire agli italiani che se sono qui è per far fare loro cose che non volevano fare e che tutti quelli che sono venuti prima hanno sostenuto si potessero evitare. In più sono questioni complicate, quindi cerco di spiegarle. Fa parte della mia natura, malgrado qualche recente erosione, di parlare in modo calmo di cose brutte e magari anche drammatiche. Uno degli aspetti che mi sono imposto di cambiare — in parte riuscendoci — è che io ero abituato a parlare davanti a un pubblico più limitato e spesso anglosassone, dove la battuta e l’ironia sono elementi essenziali. Ma è molto rischioso: perché è vero che il posto fisso è monotono, però sicuramente dirlo in quel modo è stato per me un bell’infortunio. Quindi adesso cerco di non fare più battute, che pure all’inizio mi avevano aiutato a comunicare». (...)

Nell’articolo «Una guerra di liberazione» del 2 gennaio 1999, scritto all’avvio dell’euro, lei disse che noi italiani correvamo il rischio di diventare il Mezzogiorno d’Europa. Lei definì quella sfida la prossima guerra di liberazione: l’abbiamo persa?
«In parte sì, abbiamo perso quella guerra di liberazione. Quando, con le decisioni europee del maggio 1997, fu conseguito l’obiettivo dell’entrata nell’euro, è venuta meno la tensione unificante e la maggioranza di Prodi si è dissolta. Là dove c’era un obiettivo visibile, un criterio numerico, una sanzione, ci sono state focalizzazione e unità d’intenti. Ma conseguito quell’obiettivo, ci siamo scordati dell’esigenza di essere competitivi in una moneta unica. Anche perché poi l’impulso europeo che è venuto è stato quello della strategia di Lisbona del 2000, molto più debole di Maastricht. (...) Visto che l’Europa non ci dava un vincolo cogente come per la finanza pubblica, dovevamo farci noi un piano delle riforme strutturali. Che poi è quello che dieci anni dopo l’Europa ha impostato con i piani nazionali delle riforme».

Vuole dire che abbiamo perso la guerra con noi stessi?
«Esatto, abbiamo perso la guerra con noi stessi. Abbiamo avuto un’erosione di competitività non tanto e non solo per la dinamica del costo del lavoro, ma per l’andamento insufficiente della produttività totale dei fattori, legata alla qualità delle infrastrutture, alla funzionalità del mercato dei prodotti e dei servizi, a un’adeguata dimensione media d’impresa e molto altro. Non c’era più la valvola delle svalutazioni competitive ed è mancata la politica economica reale. C’è stato un vuoto sotto questo aspetto. Io speravo (...) che il governo Berlusconi, uscito dalle elezioni del 2008 con una maggioranza così forte, con un orizzonte di cinque anni e quel successo d’immagine al G8 dell’Aquila, avrebbe veramente potuto fare un piano delle riforme strutturali, invece di negare che l’Italia avesse un problema di crescita». (...)

Lei ha trovato molto gratificante il mestiere di commissario europeo. Per questo attuale mestiere è lo stesso? O teme che a volte la facciano sentire un po’ un corpo estraneo o un ospite appena sopportato in questa macchina amministrativa che, dice il suo ministro Fabrizio Barca, è da registrare?
«A Bruxelles per un periodo iniziale abbastanza lungo mi sentivo frustrato, anche perché avevo la responsabilità per uno degli aspetti più difficili a causa dell’esiguità e della lentezza dei poteri della Commissione sul mercato interno. Ma soprattutto non ero rodato io per un’esperienza del genere, anche se avevo molta conoscenza teorica sull’Europa. Dopo no, dopo non ho più trovato frustrante quell’esperienza, anzi. Ora qui sarei un corpo estraneo? È strano, perché sono un corpo estraneo; però questa situazione sta dando a questo corpo estraneo una qualche centralità».

Dunque trova questo mestiere piuttosto gratificante che frustrante, grazie alla capacità di influire e di agire?
«Quella non si può negare che ci sia, poi si può agire bene o male, con più o meno risultati. Ma non è che gli strumenti non ci siano. Dunque no, non trovo questo mestiere frustrante. Ovviamente c’è un’oscillazione, soprattutto nei primi tempi era così; poi uno impara a diventare più insensibile e soprattutto a mostrare meno se è sensibile. Comunque gli alti e bassi sono orari, quotidiani. Ci sono cose che danno grande soddisfazione, altre che danno grande frustrazione e bisogna imparare a incassare e ripartire. Ma frustrante nel senso dell’impotenza, no. Alcuni risultati sono molto più lenti a manifestarsi di quanto pensassi, questo è certo. Però se ne è fatta tutti insieme un’analisi, si è cercato di farla validare in Europa e di apprestare gli strumenti conseguenti. E vorrei aggiungere una cosa che non significa niente per il mio futuro, ma è oggettivamente vera: se i problemi che l’Italia manifestava in modo acuto nel novembre 2011 sono il risultato non tanto di particolari governi recenti, quanto del non aver affrontato certi nodi strutturali per anni o decenni, questa non può che essere un’operazione lunga anni o decenni. Ma non ho la frustrazione che deriva dal sapere che non sarò io a vederne il compimento. Sarò già molto contento se saranno stati messi alcuni semi; speriamo diano delle pianticelle presto e che persuadano ad andare avanti con tutte le correzioni del caso».

11 novembre 2012 | 9:05

da - http://www.corriere.it/politica/12_novembre_11/intervista-monti-fubini_ad830a82-2bce-11e2-a3f0-bca5bc7cc62d.shtml


Titolo: FEDERICO FUBINI. - Un errore anche parlarne
Inserito da: Admin - Novembre 13, 2012, 07:37:54 pm
Un errore anche parlarne

Negli ultimi quindici anni il debito delle famiglie in Italia è salito dal 23 al 50 per cento del reddito. Anche dopo la grande bolla dell'ultimo decennio, si tratta di uno dei livelli più bassi dell'Occidente: appena la metà o anche meno rispetto alla Spagna, agli Stati Uniti e persino all'Olanda, che pure non rinuncia alle lezioni di austerità. Il risparmio degli italiani, a dire il vero, già dal 2008 è sceso al di sotto della media europea eppure continua a rappresentare una risorsa che viene da lontano e fa da fondamenta al Paese. Non si vede, se ne parla poco, ma tiene in piedi l'intero edificio.

In questa Repubblica affetta da una strana circolarità della sua storia, per certi aspetti siamo già passati di qui. Il debito delle famiglie era ancora più basso e il risparmio più alto quando in una notte di luglio del '92, senza preavviso, il governo di Giuliano Amato prelevò il sei per mille sui conti correnti. Anche allora l'Italia era una grande barca sbilanciata dal suo debito pubblico e dall'erosione della competitività. In quei giorni concitati una persona confessò (in privato) i suoi dubbi sul prelievo in banca: era un giovane direttore del Tesoro, il suo nome era Mario Draghi, e temeva che tassare i patrimoni a freddo avrebbe portato a una fuga del risparmio all'estero e quindi reso più fragili le banche italiane.

Passano vent'anni e rieccoci: con un po' meno di risparmio privato, un po' più di debito pubblico e lo stesso dilemma su come rendere liquide e utilizzabili le risorse degli italiani. Oggi come allora, chi governa e chi è governato ha bisogno di sapere di poter tamponare le falle se dovessero aprirsi. È in un'Italia con un passato e un presente di questo tipo che ieri Mario Monti ha fatto sapere che, in linea di principio, non è contro una patrimoniale. Il premier ha confermato di averci riflettuto un anno fa, ma l'operazione era irrealizzabile: mancavano i tempi e i dati per un intervento «adatto» e su base ordinaria, anziché punitivo e una tantum . Non che poi non si sia fatto nulla. Oggi abbiamo una tassa sugli immobili che aumenta per le seconde case, una sugli aerei privati, un'altra (elusa) sugli yacht e le auto di lusso, oltre all'imposta di bollo sui conti. Negli anni la somma di queste misure finirà per pesare come un prelievo di prima categoria sul risparmio e i patrimoni.

Palazzo Chigi poi ha precisato che il premier non pensa affatto a un'altra tassa sulla ricchezza, ma il tema in realtà non riguarda più tanto Monti. Prima o dopo le elezioni se ne riparlerà e allora vale forse la pena di ripensare a quei timori di Draghi del '92. Oggi i depositi bancari nel Paese (tolti quelli delle banche stesse) valgono circa 1.400 miliardi di euro, il 70% del debito pubblico. Se questo o soprattutto un prossimo governo andasse a caccia di quei risparmi e li spingesse alla fuga, le banche perderebbero l'unica base con cui oggi finanziano i loro già scarsi prestiti a famiglie e imprese. L'Italia scivolerebbe in una strozzatura del credito più dura, l'economia si contrarrebbe e il debito salirebbe invece di scendere. Forse è meglio rassegnarsi all'idea che non ci sono armi segrete per vincere questa guerra del debito. C'è solo la disponibilità a camminare tutti, passo dopo passo, nello stesso senso: quello della crescita e della competitività.

FEDERICO FUBINI

13 novembre 2012 | 7:28© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_novembre_13/un-errore-anche-parlarne-fubini_a123bb00-2d5a-11e2-9fd6-1d698914d372.shtml


Titolo: Federico FUBINI -
Inserito da: Admin - Gennaio 19, 2013, 12:10:05 am
EXPORT

Il passo indietro della competitività

Taglio dei costi, Madrid batte Roma

Dopo il crac del 2008, la «svalutazione interna». Che ora aiuta


Sono passati oltre cinque anni dall'inizio del terremoto. Di questi tempi un lustro fa, Bear Stearns stava per diventare la prima grande banca di Wall Street a cedere come un castello di carte. L'Italia sarebbe entrata in recessione mesi dopo. Se quel crollo di Bear fosse l'equivalente del Grande Crash del '29, oggi dovremmo essere già in pieno New Deal di Franklin Delano Roosevelt. I Paesi occidentali si starebbero già tutti riorganizzando. Ma è così?

Per capire se davvero l'Italia ha imboccato il suo New Deal verso il ritorno alla crescita, serve un passo indietro. Prima della crisi, per anni Jean-Claude Trichet, allora presidente della Bce, ha presentato ai ministri europei un grafico che riassumeva le cause di ciò che stava per accadere. Trichet faceva notare che i vari Paesi dell'euro ballavano fuori tempi. Alcuni diventavano sempre più produttivi e capaci di presidiare i mercati esteri imponendovi le loro condizioni di prezzo; altri perdevano sempre più quote di mercato o le difendevano solo a colpi di sconti sui loro prodotti, mantenendo salari deboli e dal potere d'acquisto declinante.

È il caso dell'Italia o della Spagna. Dall'inizio dell'unione monetaria, entrambe stavano perdendo qualcosa come il 30% di competitività sulla Germania e il 20% sulla Francia o la media europea. La produttività a Sud e a Nord viaggiava a velocità diverse; il Sud (con l'aggiunta dell'Irlanda) era in deficit negli scambi con il resto del mondo e teneva il passo della crescita solo indebitandosi e riciclando così il risparmio prodotto dai surplus commerciali del Nord. Ma dato che Spagna o Italia non potevano più recuperare (provvisoriamente) competitività svalutando, prima o poi questa musica doveva fermarsi. Lo ha fatto nel 2008, quindi sempre di più dal 2011 quando l'Italia è tornata nella recessione nella quale si trova ancora. Senza competitività, l'accesso al credito si è fatto sempre più in salita.

I grafici di Trichet partivano dal '99, avvio dell'unione monetaria. Ora invece la stessa immagine presa a partire da un momento diverso, l'inizio della crisi, mostra come molto nel frattempo sia cambiato. Per qualcuno, non per tutti: l'Irlanda, la Spagna e persino la Grecia hanno iniziato a recuperare competitività sulla Germania e sulla Francia; il Portogallo ha smesso di restare indietro; solo l'Italia continua a perdere terreno rispetto a entrambe le classi di Paesi, sia quelli colpiti che quelli risparmiati dalla crisi.

Il grafico in alto in questa pagina, elaborato da Fabio Fois di Barclays, fotografa quello che gli addetti ai lavori chiamano il «tasso di cambio effettivo» dei vari Paesi, corretto in base al costo unitario del lavoro: è una misura-chiave della produttività e della competitività, ossia quanto di fatto i vari Paesi hanno svalutato (o meno) pur restando nell'euro. Quando la linea di un andamento scende significa che un'economia ha svalutato, ma quando sale è la spia di una perdita di terreno. Come si vede l'Italia è rimasta sola nel continuare a perdere competitività dopo l'esplodere della crisi. Sull'Irlanda ha perso circa il 50%, sulla Spagna il 20%, sulla Germania un altro 10% dopo il 30% accumulato nel primo decennio dell'euro. Significa che in teoria l'Italia dovrebbe svalutare di altrettanto se volesse recuperare di colpo la competitività persa dall'inizio della crisi.

Gli effetti si vedono. Peugeot, Ford e Renault aumentano già la loro produzione di auto in Spagna per l'export, mentre l'Italia a gran fatica spera di mantenere quella della Fiat. Dirk Schumacher di Goldman Sachs stima che dal duemila l'export dell'Italia verso la Cina è raddoppiato, mentre quello della Germania è cresciuto di nove volte e quello della Spagna di otto: una conferma che la struttura delle piccole imprese italiane, incoraggiate dalla legge che rende i contratti più flessibili solo sotto i 15 dipendenti, è inadatta ai mercati contemporanei.

A questo punto esistono solo un'opzione virtuosa, e una dolorosa. Schumacher ritiene che il Paese debba ultimare la revisione iniziata sulle regole lavoro, della giustizia civile o dei settori chiusi dell'economia. L'alternativa è che l'inevitabile «svalutazione interna» - la riduzione dei costi - sia imposta di fatto dall'aumento costante della disoccupazione, che porta i lavoratori a accettare salari molto bassi pur di mantenere il posto. Per Fabio Fois di Barclays è il bivio fra una «svalutazione guidata» e una dettata dagli ingranaggi inesorabili di un'economia poco competitiva. Sarà la scelta del dopo-voto, prima che la musica si fermi di nuovo.

Federico Fubini

18 gennaio 2013 | 8:21© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/13_gennaio_18/il-passo-indietro-della-competitivita-taglio-dei-costi-madrid-batte-roma-federico-fubini_4711ed80-613a-11e2-8866-a141a9ff9638.shtml


Titolo: Federico FUBINI - Mps, si profila il falso in bilancio
Inserito da: Admin - Gennaio 30, 2013, 07:38:29 pm
LA PERDITA SUI DERIVATI

Mps, si profila il falso in bilancio

Un'ipotesi di questo tipo innescherebbe un'inchiesta penale

Dal nostro inviato FEDERICO FUBINI


DAVOS (Svizzera) -Alla saga del Monte dei Paschi si aggiunge un nuovo tassello delicato. La perdita sui derivati potrebbe innescare un’inchiesta di natura penale per un'eventuale ipotesi di falso in bilancio, in parallelo alle indagini dell’autorità di vigilanza sulla dinamica finanziaria dello scandalo. Il caso Siena in queste ore è inevitabilmente rimbalzato anche al World Economic Forum di Davos, dove oggi sono presenti il governatore della Banca d’Italia Visco, il ministro dell’Economia Vittorio Grilli e il presidente della Bce (e ex governatore italiano) Mario Draghi.

VIGILANZA - Proprio Visco ha osservato che Bankitalia ha svolto fino in fondo il suo compito di vigilanza su Mps, anche se l’istituto di via nazionale «non è la polizia delle banche». “La Banca d’Italia ha svolto ispezioni al Monte dei Paschi negli anni scorsi”, quando l’istituto senese era presieduto da Giuseppe Mussari. A quell’epoca, ha detto oggi Visco a Davos, «abbiamo rilevato problemi in termini di liquidità». La sostituzione della primissima linea del management con Alessandro Profumo alla presidenza e Fabrizio Viola come amministratore delegato nasce anche da qui: «Siamo stati noi a fare pressione per la sostituzione del management», ha detto questa mattina Visco.

«MASSIMA STIMA» - Sia il governatore che il ministro Grilli hanno cercato di superare qualunque polemica su un’eventuale irritazione del Tesoro per l’attività di vigilanza di Via Nazionale. Grilli ha ribadito «massima stima per il lavoro della Banca d’Italia di ieri e di oggi».
E Visco ha ricordato che il governo e Via Nazionale sono in stretto contatto in questi giorni e «hanno coordinato la comunicazione».

25 gennaio 2013 | 15:41

da - http://www.corriere.it/cronache/13_gennaio_25/mps-ipotesi-falso-in-bilancio_d9a8f726-66f6-11e2-95de-416ea2b54ab7.shtml


Titolo: Federico FUBINI - Pendolari low cost, sussidi solo a chi lavora
Inserito da: Admin - Marzo 02, 2013, 11:03:18 pm
IL LAVORO DEGLI ALTRI

Pendolari low cost, sussidi solo a chi lavora

Ecco le strategie per evitare i licenziamenti in Europa.

A Lisbona c'è chi fa la spola con l'ex colonia, l'Angola


Quando nel 2009 la GlaxoSmithKline annunciò che avrebbe chiuso il suo impianto a Sligo, in Irlanda nord-occidentale, i dipendenti rimasero per un po' sotto choc. Erano increduli, mai avrebbero pensato che sarebbe toccato a loro. Fu un trauma simile a migliaia di altri che in questi anni si sono propagati fra i Paesi colpiti dalla crisi del debito.

Quello stabilimento farmaceutico esisteva dal 1975, quando fu aperto dal gruppo tedesco Stiefel, e niente di tutto quello che stava accadendo in Irlanda sembrava doverlo interessare così da vicino. I 180 operai e tecnici vedevano bene che l'economia nazionale si stava piegando sotto il peso della bolla immobiliare e bancaria, ma Sligo credeva di vivere in un altro pianeta. In fabbrica dominava l'idea che quel posto fosse troppo importante per essere toccato: un impianto tradizionale, una struttura paternalistica e con poche opportunità, ma se non altro un posto per la vita. Fino all'annuncio dei nuovi azionisti di Glaxo.

Passano tre anni e ora la casa madre fa sapere che ha cambiato idea: Sligo non chiude, ma verrà riconvertita alla cosmetica. Nei tre anni fra i due annunci - dalla chiusura al rilancio - i dipendenti hanno affrontato una trasformazione emblematica di una certa Europa in recessione almeno quanto lo fu l'incapacità iniziale di capire cosa stava accadendo. La crisi poteva investire professionisti specializzati, non solo i manovali della porta accanto. A Sligo, i manager e gli addetti hanno deciso di non cedere facilmente. Si sono impegnati a incontrarsi ogni mese per fare il punto e discutere gli intoppi di produzione, per migliorare insieme. In poco più di due anni la quota di lotti difettosi è scesa dal 5% all'1,5%, l'assenteismo dal 4% al 2%, i casi di perdita di tempo in fabbrica dal 6 all'1%. La produttività è salita del 40%, ha riconosciuto la Glaxo. Prima ancora che l'Irlanda uscisse dalla recessione, tutti i posti erano salvi.

Quella di Sligo è una storia a lieto fine di un'Europa in viaggio dal mondo di prima, quando il debito copriva ogni inefficienza, a un sistema per molti versi più duro: capace però di creare lavoro, competenze, tenuta delle imprese su basi più sane. Non tutte le vicende hanno lo stesso lieto fine, ma alcune contengono semi esportabili anche in altri Paesi colpiti dal contagio. Sempre in Irlanda, nel settore dell'ottica alcune imprese hanno ridotto l'orario e la paga fino al 40%. Per anni si è lavorato solo tre giorni la settimana, ma tutti. Nessun posto è andato perso e il ritorno della domanda dall'estero ha riportato gli addetti verso salario completo e a tempo pieno. Anche il governo di Dublino ha offerto un'idea che a molti in Italia parrebbe lunare: i disoccupati vengono mandati in fabbrica o negli uffici a fare «tirocinio» - a lavorare - finanziati dall'assegno di mobilità del governo più un indennizzo di 50 euro al mese. Chi ha perso il lavoro non perde contatto con il mondo produttivo, mentre le imprese integrano manodopera gratis e aumentano così la competitività.

Non che in Italia non esista qualcosa di simile, ma si consuma nell'illegalità e nella corruzione. Nel Mezzogiorno non è raro che certi sindacalisti chiedano all'imprenditore il 10-15% del costo dell'ultima busta paga di un cassaintegrato, che resta in azienda a produrre, in cambio della garanzia che non ci sarà ispezione dell'ufficio del lavoro.

Più lineari i meccanismi di riduzione dei costi di produzione che stanno emergendo in Spagna. Il gruppo iberico di consulenza e servizi Indra Engineering nel 2012 ha aumentato il suo fatturato del 9% a 2,9 miliardi anche grazie ai suoi consigli sulla localizzazione delle aziende spagnole in crisi. A molte suggerisce di spostare l'ubicazione degli impianti dalla regione di Madrid, dove i costi sono più alti, verso le aree più arretrate in Andalusia e Extremadura. Anche qui nessuno viene licenziato, almeno formalmente. Ai dipendenti viene offerto un nuovo contratto a un costo lordo del 10-20% più basso, in modo da riflettere il minore costo della vita nella nuova area di produzione dell'impresa: un processo che gli addetti ai lavori chiamano « near shoring », delocalizzazione non all'estero ma in aree dai costi più bassi di uno stesso Paese.

Neanche in Spagna questi aggiustamenti sono privi di una buona dose di brutalità. Dall'inizio dell'euro la Spagna ha perso circa il 20% di competitività sulla media dell'area euro, anche a causa della bolla immobiliare che ha eliminato ogni incentivo all'investimento tecnologico e all'istruzione di alto livello: l'impatto dell'edilizia è stato così pervasivo che chi studiava meno, finiva per guadagnare di più dei laureati e degli specializzati. Questo ha fatto crollare la produttività ma ora anche gli iberici, pur di lavorare, corrono ai ripari. Fra gli esempi più drastici c'è la navetta aerea (ovviamente low cost) che i tecnici della Santander Banesto affrontano ogni settimana per operare in Germania in una controllata tedesca del gruppo bancario spagnolo.

In Portogallo c'è chi affronta la crisi con ancora più coraggio. Decine di migliaia di migranti vanno a lavorare nell'indotto dell'industria petrolifera in Angola, un'ex colonia portoghese fino a due anni fa in pieno boom, mentre centinaia di professionisti passano la settimana a Luanda e il weekend a Lisbona da pendolari della crisi. In questi anni le rimesse degli emigranti dall'Angola al Portogallo sono esplose da 5 a 147 milioni di euro, superando quelle dalla Germania, dalla Svizzera e dalla Gran Bretagna. E in Italia? Dall'avvio dell'euro nel '99 la produttività è calata del 3,9% - la performance peggiore d'Europa - mentre saliva dell'8,3% dell'area euro. E forse anche sindacati e imprese in questo Paese, prima o poi, supereranno la stessa incredulità che paralizzò anni fa una fabbrica a Sligo di fronte alla crisi. Lì oggi tutti lavorano: hanno capito, forse, che non è mai così buio come prima dell'alba.

Federico Fubini

2 marzo 2013 | 7:29© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/13_marzo_02/pendolari-low-cost-fubini_f582345a-8300-11e2-839d-17a05d1096bb.shtml


Titolo: Federico FUBINI - Ritroviamo fiducia nelle banche Ue: si dimetta il capo ...
Inserito da: Admin - Marzo 29, 2013, 10:56:58 pm
il caso

Ritroviamo fiducia nelle banche Ue: si dimetta il capo dell'Eurogruppo

L'Eurogruppo dovrebbe valutare l'ipotesi che il suo neopresidente, Jeroen Dijsselbloem, si dimetta


Non è mai successo prima che i ministri economici dell'area euro fossero anche solo sfiorati da un'idea del genere e lo stesso vale per il Consiglio europeo, che riunisce i capi di Stato e di governo. Il solo precedente di rilievo sono le dimissioni nel 1999 della Commissione europea allora guidata da Jacques Santer.

All'epoca Santer lasciò per anticipare il voto di sfiducia dell'Europarlamento, vista la sua gestione maldestra dello scandalo personale attorno a uno dei suoi commissari. Anche questa volta la questione va affrontata prima che si trasformi da personale in istituzionale e sistemica. Se Jeroen Dijsselbloem dovrebbe dimettersi da presidente dell'Eurogruppo, non è tanto per la gestione pasticciata del piano per Cipro: questa ha molti responsabili, in una situazione oggettivamente complessa. Il problema non è neppure la tendenza del presidente dell'Eurogruppo a lanciarsi in affermazioni per le quali non ha mandato: oltre a quella secondo cui il piano per Cipro sarebbe «un modello» per altri futuri interventi, anche la pretesa - di fronte al parlamento olandese - che l'Europa avrà diritto a incassare i proventi eventuali dei giacimenti di gas dell'isola. Paradossalmente, il motivo per cui sarebbe giusto che Dijsselbloem lasciasse non è neppure il fatto che quasi tutti lo hanno contraddetto. Il presidente francese, il premier spagnolo, vari esponenti di vertice della Bce e il governo tedesco hanno tutti spiegato che Cipro, con il prelievo forzoso sui depositi e i controlli sui capitali, non è un «modello», ma un caso unico (solo l'Italia per ora è rimasta in silenzio).

Il motivo perché l'Eurogruppo si trovi un altro presidente è diverso: le dimissioni di Dijsselbloem sono il modo migliore, forse il solo, per dimostrare che ciò che lui ha detto sulle banche non è vero. Sono il modo per riportare fiducia, oggi incrinata dalle sue parole, nelle banche di quella che Dijsselbloem definisce la «periferia» dell'area euro. In questa «periferia» decine di milioni di famiglie affrontano sacrifici dolorosi per stabilizzare i propri Paesi. Rischiare di vanificarli con una frase rivolta ai propri elettori nazionali è del tutto fuori luogo.

Federico Fubini

29 marzo 2013 | 10:59© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/13_marzo_29/cipro-ue-dimissioni-capo-eurogruppo_4a115e1c-983a-11e2-948e-f420e2a76e37.shtml


Titolo: Federico FUBINI - L'illusione di avere tempo
Inserito da: Admin - Aprile 11, 2013, 05:23:20 pm
SEGNALI DI TENUTA DEI CONTI MA NON BASTA

L'illusione di avere tempo


Nel 1992, oberata dai debiti, l'Italia fu costretta a uscire dall'accordo di cambio europeo e svalutare la lira del 30%. Gli investitori esteri, che avevano comprato i Btp sulla base dell'impegno del Paese a restare nel sistema monetario, si ritrovarono con una perdita effettiva di un terzo del capitale. Fra loro c'è stato senz'altro chi si sarà sentito tradito, ma gli italiani non ebbero mai la percezione di non aver mantenuto i propri impegni. Al contrario, con i loro sforzi e grazie alla scelta politica del resto d'Europa, sei anni dopo erano già nell'euro: mai un Paese è passato così in fretta dalle stalle alle stelle dell'affidabilità finanziaria, da tassi argentini a tassi tedeschi.

Questa manna non può tornare, ma devono essere stati episodi così ad aver convinto qualcuno che lo stellone ci assisterà sempre. Anche questi giorni stanno consegnando agli italiani due racconti diversi sul loro Paese. Lo spread , la detestata spia del costo del debito, continua a sgonfiarsi fino a sotto i livelli di prima delle elezioni dall'esito più surreale nella storia repubblicana. La Borsa nel frattempo sta registrando segnali di ottimismo. Nell'ultimo anno, mentre il lavoro e le imprese vivevano la più grande devastazione registrata in tempo di pace, il principale listino di Milano è positivo: chi avesse investito un anno fa, oggi starebbe guadagnando un invidiabile 6,7%.

Anche i conti pubblici sembrano dare segni di tenuta, a leggere il Documento di economia e finanza presentato ieri dal governo.
L'Italia spera di tenere il suo deficit sotto il 3% del Pil, la soglia oggetto di vent'anni di idolatria a Bruxelles che non ha impedito a certi Paesi a lungo in regola - Spagna, Irlanda - di sprofondare. Soprattutto, il saldo attivo dei conti prima di pagare gli interessi risulta fra i migliori d'Europa. In base a questo il Tesoro stima che il debito pubblico dovrebbe scendere dall'anno prossimo, benché simili annunci negli ultimi anni non abbiano mai portato bene.

Poi però si può svolgere anche il secondo racconto sull'Italia. I mercati sembrano sospinti dalla liquidità sprigionata dalle grandi banche centrali, da Tokyo a Washington, più che da un calcolo razionale. Il deficit dovrà fare i conti con la recessione e con tante voci poco discusse, dal finanziamento della cassa integrazione in deroga, alle missioni all'estero, a 150 mila statali precari e in scadenza. E il debito sta superando il 130% del Pil: ieri la Commissione europea ha confermato che l'Italia e le sue banche restano fragili, al punto da rappresentare un rischio di contagio per il resto d'Europa. E non è solo questione di tassi, di spread o della Germania che amiamo tanto descrivere come avara perché non si accolla i nostri debiti. Persino l'export, il meglio dell'economia, mostra segni di fatica. Sono questi gli indici di competitività declinante che le agenzie di rating stanno guardando da vicino. Moody's e Standard & Poor's saranno discutibili, ma ora aspettano di vedere se il prossimo governo capisce e affronta l'incapacità del Paese di crescere: se scettiche, potrebbero declassarci (molto presto) a un soffio dal livello «spazzatura».

L'idea che ci sia ancora tempo e qualcosa o qualcuno che alla fine ci salverà forse aveva un senso nel '92, quando Maastricht era il futuro. Vent'anni dopo la sola Maastricht che può salvarci è qui, in Italia, nella sua capacità di cambiare le proprie istituzioni economiche per prosperare. Bersani e Berlusconi ne staranno urgentemente parlando. O no?

FEDERICO FUBINI

11 aprile 2013 | 9:34© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_aprile_11/illusione-di-avere-tempo_580232c2-a261-11e2-b92e-cf915efd17c3.shtml


Titolo: Federico FUBINI. Solo una tregua con la Germania renderà possibile la crescita
Inserito da: Admin - Maggio 07, 2013, 11:17:23 pm
Solo una tregua con la Germania renderà possibile la crescita


Adottiamo una finzione: nell'area euro si svolge una corsa agli armamenti o, secondo le fasi, un negoziato per il disarmo. Vederla così è parziale e scorretto, non c'è dubbio, eppure può offrire delle indicazioni alle classi politiche in Italia (e non solo) che discutono sulla dose «giusta» di austerità da perseguire.

Come accade fra veri nemici, anche dentro Eurolandia i momenti di distensione e disarmo si alternano a ritorsioni più o meno esplicite. Disarmo per esempio fu la scelta di Angela Merkel di non opporsi quando nel 2012 la Bce decise che avrebbe potuto comprare senza limiti titoli di Stato dei Paesi in crisi. Per la cancelliera fu un investimento costoso, perché in Germania la scelta della Bce era e resta impopolare. Ma Merkel decise di «disarmare» perché anche l'altra parte lo stava facendo. L'Italia di Mario Monti prometteva di comportarsi in un modo che, visto da Berlino, era cooperativo: ammissione dei propri problemi, risanamento, promessa di riforme. Quell'equilibrio ha permesso oggi allo spread Bund-Btp di essere dov'è e non a 500 punti, dov'era.

Ma per Merkel le elezioni italiane hanno segnato una sconfitta, la prova che - secondo alcuni a Berlino - dell'Italia non bisogna fidarsi. Una maggioranza degli italiani ha votato contro il «disarmo». Ne è seguita una fase di ritorsioni: la Germania frena sull'unione bancaria e su nuovi interventi della Bce per il credito alle imprese, una Corte portoghese dichiara illegale l'austerità, fra i socialisti di una Francia ormai alle corde monta la retorica anti Merkel, in Italia si parla di ridurre le tasse ma non le spese.

Per quanto può continuare? Con l'economia nel suo stato attuale, l'Italia per stabilizzare il debito avrebbe bisogno di tassi a livelli tedeschi. E i canali del credito sono paralizzati, quindi lo è anche la ripresa. Come un anno fa il Paese ha bisogno del «disarmo» tedesco (per esempio, sulle mosse della Bce per i prestiti alle imprese) ma arriverà solo se noi italiani sceglieremo di cooperare. Le riforme per crescere sarebbero nel nostro interesse. Ma anche se non ci crediamo, paradossalmente sono l'unica tattica che può permetterci di allentare l'austerità, tornare a una fase di distensione, ed evitare che il futuro sia un'incognita.

Federico Fubini
@federicofubini

7 maggio 2013 | 16:07© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/economia/13_maggio_07/tregua-germania-possibile-crescita_92763746-b6cf-11e2-8651-352f50bc2572.shtml


Titolo: Federico FUBINI. Fmi: "Italia periferia d'Europa"
Inserito da: Admin - Agosto 02, 2013, 11:16:11 am
Fmi: "Italia periferia d'Europa"

Protesta Ue ma il Fondo non si corregge

Tracciata una netta divisione tra nazioni "core" (Germania, Austria, Olanda, Belgio e Francia) e "periphery", parola usata più volte (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna, i piigs). Dossier bloccato per 48 ore

di FEDERICO FUBINI


ROMA - Se con la crisi finanziaria un'altra cortina è calata sull'Europa e la divide in due, centro e periferia, allora l'Italia da che parte sta? Abituati a lavorare sui dati di bilancio o del Pil, è probabile che i tecnocrati del Fondo monetario internazionale non avessero messo in conto questioni del genere. Vanno dunque scusati se, curiosamente, una settimana fa sono rimasti a lungo in silenzio.

In teoria non avrebbero dovuto: il 23 luglio il consiglio dell'Fmi aveva approvato il rapporto annuale dello staff sull'area euro, che sembrava pronto per la pubblicazione; eppure, a causa di un passaggio a vuoto del tutto irrituale, il mondo non ha potuto leggere quel testo per altri due giorni. Stavolta però le lungaggini della burocrazia non c'entrano. Secondo vari osservatori, dentro il palazzo del Fmi in quelle 48 ore si è consumata una disputa di sapore inedito attorno a una domanda più politica che tecnica: è corretto definire certi paesi "periferia", magari inserendo nel novero l'Italia e la Spagna, con tutta la loro storia e il loro peso in Europa e per l'economia globale?

A leggerlo così com'è uscito, il rapporto sull'area euro conclude che sì, è giusto. L'Italia, la Spagna e gli altri sono in effetti "periphery".
Il documento non lesina l'uso di quel termine un po' sprezzante (secondo alcuni) quando parla delle economie europee più colpite dalla recessione.
In certi passaggi l'Fmi formalizza persino la sua definizione, precisando i nuovi confini d'Europa nelle didascalie di qualche grafico. Secondo il rapporto del Fondo, per esempio a pagina 5, "periferia" sono Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna. Invece "core", cioè centro o nucleo duro dell'area euro, sono Austria, Francia, Germania, Olanda e Belgio.

Non tutti hanno apprezzato. Al contrario: la settimana scorsa nel palazzo all'angolo fra Pennsylvania Avenue e la 19esima strada, sede dell'Fmi a Washington, la partita diplomatica su chi e cosa ha senso derubricare al rango di "periferia" è durata vari giorni e ha creato più di un'irritazione nella diplomazia finanziaria. Tutto è iniziato questo mese con la riunione dei direttori esecutivi del Fmi che rappresentano le "circoscrizioni", ossia i paesi, dell'Unione europea. L'Italia per esempio parla (e vota) nel consiglio dell'Fmi per se stessa e anche in nome di altri Stati fra cui la Grecia, il Portogallo e Malta. Proprio nel coordinamento fra europei alla vigilia della pubblicazione del rapporto che li riguardava, vari direttori esecutivi hanno sollevato il problema geopolitico: non esiste un'Europa di seconda classe, è stato detto; e non sono chiare le basi economiche, storiche o culturali per decretare che certi paesi sono "periferia" mentre altri sono il "centro". A maggior ragione non sarebbe corretto farlo per quanto riguarda l'Italia, paese fondatore della Comunità europea e tuttora parte del G7 delle grandi economie industriali.

Non che classificazioni del genere siano del tutto inedite. Prima ancora che partisse l'euro, nel 1997, la stampa e buona parte della classe politica in Germania avevano già iniziato a definire "Club Med" tutto il Sud Europa, l'area che molti tedeschi avrebbero preferito escludere dalla moneta unica.
A conferma che qui la geografia conta poco, all'epoca ne faceva parte anche una nazione affacciata sull'Atlantico come il Portogallo. Poi le formule si sono fatte più sprezzanti. Nel 2008 la crisi dell'euro fu anticipata da quel nomignolo "Pigs" che nella lingua di Shakespeare significa ovviamente "maiali" ma, secondo i giornali di Londra, era la sigla di un gruppo di paesi deboli: Portogallo, Italia, Grecia, Spagna.

Stavolta però al Fondo monetario la questione è diventata più seria. In gioco non erano più solo dei nomignoli informali: era il più importante organismo finanziario internazionale che formalizzava ancora una volta quella linea di faglia. Come se l'Europa fosse divisa davvero da una nuova cortina di ferro, questa volta misurata dai tassi d'interesse. Andrea Montanino, il direttore inviato dal Tesoro, ha insistito su questo punto e altrettanto hanno fatto sia il direttore francese Hervé Jodon de Villeroche e il suo collega tedesco Hubert Temmeyer. Alla fine tutti insieme hanno dato mandato all'olandese Menno Snel di presentare le rimostranze di tutta la Ue al consiglio d'amministrazione dell'Fmi.

L'Europa conta per più del 30% nel board del Fondo e all'inizio sembrava prevalesse. Il direttore generale, la francese Christine Lagarde, era d'accordo. Il brasiliano Paulo Nogueira Batista si è persino spinto a dire che l'Italia non può essere periferica, "perché in Italia abita il Papa".
Il board dunque ha suggerito allo staff tecnico dell'Fmi, il responsabile indipendente del rapporto, di evitare la separazione dei paesi in ranghi diversi. Detto fatto: "Il costo dei prestiti alle imprese resta alto nella periferia", si legge nel comunicato curato dai due responsabili del dipartimento europeo a Washington: l'iraniano Reza Moghadam e l'indiano Mahmood Prahan.

(30 luglio 2013) © Riproduzione riservata
   
   
DA - http://www.repubblica.it/economia/2013/07/30/news/fmi_italia_periferia-63962258/?ref=HREC1-8


Titolo: Federico FUBINI. Italia all'esame del Fondo monetario.
Inserito da: Admin - Settembre 22, 2013, 10:59:45 pm
Italia all'esame del Fondo monetario.

Test sulle banche e allarme deficit

Domani al board i report sullo stato dell’economia e sul credito. I tecnici della Lagarde prevedono una ripresa più debole rispetto alle stime del governo.

Gli economisti di Washington non tengono contro della service tax: mancano i dettagli.
E al setaccio ci sono le stime sulle perdite del settore bancario basate sulle rilevazioni della Banca d'Italia

di FEDERICO FUBINI


ROMA - Domani all'Fmi, Christine Lagarde presiederà una discussione che rischia rivelarsi tra le più spinose degli ultimi tempi. Il consiglio del Fondo parla di una grande economia del pianeta, l'Italia. E sul tavolo dei 24 direttori esecutivi, ciascuno in rappresentanza di uno o di un gruppo di paesi, saranno squadernati due documenti pronti per essere pubblicati. Il primo, il cosiddetto "article 4 report", si concentra sullo stato generale dell'economia italiana. Ma sarà probabilmente il secondo ad impegnare di più quel piccolo parlamento della economia globale che è il consiglio dell'Fmi, perché sarà dedicato alle banche: è il "Financial sector assessment program", un quadro d'insieme della tenuta del settore finanziario nel paese.

Sono entrambi rapporti tecnici dello staff, sui quali i rappresentanti dei governi in teoria non possono nulla. Ma ancora prima che la discussione inizi, nessuno è in dubbio sulla posta in gioco. Si parlerà del maggiore paese europeo colpito dalla crisi, il terzo più grande debitore al mondo, il solo governo di rilievo ad attraversare anni di choc sui mercati senza chiedere aiuti vincolati a un piano di riforme. L'Italia è il solo paese in profonda recessione ad aver tenuto le mani libere, dunque anche una dose di imprevedibilità sulle prossime mosse. Facile capire perché quei rapporti dell'Fmi stiano diventando un termometro della fiducia che il paese riscuote nel mondo.

Finora non è emerso quasi niente dei contenuti, se non una certa atmosfera di diffidenza. Prima ancora che uscissero le ultime stime del governo, l'Fmi aveva già scritto nelle bozze dell'"article 4" che il deficit avrebbe superato il 3% del Pil. Secondo il Fondo quest'anno il disavanzo sta salendo fra il 3,1% e il 3,2%, più o meno come riconosciuto anche dal Tesoro. Già per l'anno prossimo invece si registra la prima divergenza, perché l'Fmi è più pessimista. Il rapporto dello staff di Washington, redatto dall'americano Kenneth Kang, indica che anche nel 2014 il deficit dell'Italia dovrebbe superare il limite europeo del 3% del Pil; il governo invece mette in programma un indebitamento al 2,5%.

Non è difficile capire perché Washington e Roma vedano la dinamica dei conti pubblici in modo diverso. In primo luogo, l'Fmi conta su un andamento del Pil nel 2013 e 2014 un po' peggiore di quello previsto dal governo. Dunque meno entrate e più spesa pubblica. L'altra incomprensione riguarda poi l'Imu, o meglio il prelievo sulla prima casa abolito a inizio mese. Il governo ha fatto sapere che sarà sostituito nel 2014 da una "service tax", un'imposta comunale sui servizi, ma l'Fmi non ne tiene conto: per gli economisti di Washington, non esiste alcuna nuova entrata almeno finché non ci saranno dettagli precisi e misurabili sulla futura tassa.
Non è dunque in un clima di comprensione reciproca che arriva l'altro rapporto, quello sulla stabilità finanziaria. Il capo missione su questo fronte è Dimitri Demekas, un economista greco dotato di sito web personale, formatosi a New York ma capace di parlare un buon italiano. Demekas aveva il compito più difficile, perché spettava a lui valutare i danni che un crollo del Pil dall'8,9% dal 2008 ad oggi ha lasciato nei bilanci delle banche. Il suo punto di partenza è stato l'ultimo bollettino statistico della Banca d'Italia; secondo quel documento a marzo di quest'anno gli istituti avevano in bilancio 248 miliardi di euro di crediti deteriorati. A questo valore si arriva sommando quelle che Bankitalia definisce le varie "categorie di default": sofferenze, incagli, esposizioni ristrutturate e scadute o sconfinanti.

È difficile prevedere le perdite effettive nei bilanci delle banche che Demekas stima sulla base di quei 248 miliardi, un valore che da marzo a oggi è senz'altro salito. Dipenderà molto dai (robusti) accantonamenti già fatti dalle grandi banche su spinta di Bankitalia, dalla loro capacità di vendere gli immobili pignorati ora che il mercato del mattone è in calo; ma soprattutto, dipenderà dalla fiducia di fondo dell'Fmi verso l'Italia, le sue istituzioni e la sua capacità di agganciare la ripresa.

Quel rapporto e il Global Financial Stability Report di ottobre diventano così la misura di quanto l'Fmi crede davvero alla tenuta del paese. Sei mesi fa le banche ricevettero dal Fondo un disco verde, non senza sfumature di giallo. Ora se l'Fmi indicasse (a torto o a ragione) che il buco nelle banche è molto ampio, qualcuno penserebbe alla Spagna. Per anni Madrid raccontò che i suoi istituti erano solidi, fino a quando chiese un prestito europeo per ricapitalizzarli. In contropartita, la Spagna si impegnò a cambiare le regole del mondo del lavoro, ha messo mano alla pubblica amministrazione e ora sta recuperando capacità di competere nel mondo. Proprio ciò che, a credere all'Fmi, l'Italia non riesce a fare.

(22 settembre 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/economia/2013/09/22/news/italia_all_esame_del_fondo_monetario_test_sulle_banche_e_allarme_deficit-67005462/?ref=HREC2-3


Titolo: Federico FUBINI. La "sindrome giapponese" può costare 15 miliardi all'Italia
Inserito da: Admin - Aprile 02, 2014, 10:28:16 pm
La "sindrome giapponese" può costare 15 miliardi all'Italia

L'ANALISI.

Nonostante il taglio dei tassi bancari il peso reale per chi ha debiti da pagare è aumentato. L'effetto combinato di crollo dei prezzi e fiscal compact rischia di far saltare i conti pubblici

di FEDERICO FUBINI

Non si era mai vista in Europa una banca centrale che porta i tassi d'interesse quasi a zero, annunciando che non li alzerà per un pezzo. Sotto la guida di Mario Draghi, la Bce nell'ultimo anno l'ha fatto. Eppure sul fronte monetario le buone notizie e la voglia di esplorare soluzioni nuove finiscono qua: invece di scendere, il costo reale del denaro per chi ha un debito è salito. E mentre l'Eurotower richiama di continuo i governi a ridurre il debito, essa stessa rischia di complicare loro il compito: se non verrà contrastata in fretta la minaccia di una caduta dei prezzi, alle condizioni di oggi l'Italia sarà presto costretta a trovare dieci-quindici miliardi l'anno di tasse o tagli di spesa in più (su base permanente) per rispettare il Fiscal Compact europeo.

Se suona paradossale, forse è perché non corrono tempi ordinari. Ad accezione dei mesi seguiti alla caduta di Lehman Brothers, non era mai successo nell'Europa del dopoguerra che l'indice generali dei prezzi cadesse a questa velocità. All'inizio del 2013 l'inflazione della zona euro era attorno al 2%, praticamente in linea con l'obiettivo di stabilità dei prezzi che la Bce è stata creata per assicurare. Ancora un anno fa l'inflazione dell'area viaggiava all'1,7%, mentre l'Italia era appena al di sotto.

Avanti veloce di dodici mesi e il panorama diventa irriconoscibile: a marzo il valore è crollato allo 0,5% in Eurolandia e allo 0,4% in Italia. Cinque Paesi su diciotto - Slovacchia, Portogallo, Grecia, Cipro e adesso anche
la Spagna - sono già scivolati in deflazione: invece di salire i prezzi scendono, rallentando consumi e investimenti perché le famiglie e le imprese rinviano ogni spesa nell'idea che domani costerà di meno. Sull'Europa sembra scendere la stessa cappa che per tanti anni ha cloroformizzato l'economia giapponese.

Durante questo ultimo anno, per la verità, la Bce non è rimasta con le mani in mano. Ha tagliato i tassi di 0,25% a maggio scorso, poi ha replicato in novembre. A luglio nel frattempo aveva anche promesso che il costo del denaro non sarebbe più salito per molto tempo a venire, senza precisare per quanto. Oggi il tasso principale al quale le banche commerciali europee prendono in prestito il denaro presso gli sportelli dell'Eurotower è allo 0,25%, un minimo che né la Bundesbank, né la Banca d'Italia avevano mai esplorato.

Purtroppo però l'inflazione si è mossa più in fretta della Bce, nella direzione sbagliata. La caduta del costo del denaro è stata di 0,5% in dodici mesi, ma quella dell'indice dei prezzi è stata dell'1,2%. Con le sue ultime stime dello staff, l'Eurotower ha informato che fallirà al ribasso il suo obiettivo di stabilità dei prezzi (aumento del costo della vita vicino ma sotto al 2%) per quattro anni di seguito. Ammesso che sia possibile vedere così lontano, Francoforte dice che forse solo alla fine del 2016 l'indice dei prezzi tornerà dove dovrebbe già stare. Come nella depressione degli anni '30, queste sono ottime notizie per chi vive di rendita, perché l'inflazione non erode un capitale investito. Ma sono terribili notizie per chi ha un debito: i tassi d'interesse tendono a farlo aumentare di continuo, mentre il carovita controbilancia erodendone il valore reale e rendendo più facile ripagarlo in euro un po' inflazionati.

Il caso del debito pubblico italiano è probabilmente quello più rilevante. Ogni anno il Tesoro emette oltre 450 miliardi di nuovi bond per finanziarsi, pagando in media un interesse vicino a quello di un Btp a cinque anni. Il rendimento di quel titolo è sceso, dal 2,8% di un anno fa all'1,9% di ieri sera. Nel frattempo però l'inflazione è scesa di più, dunque il costo di ogni euro di nuovo debito pubblico dell'Italia sale in termini reali anche quando lo spread fra Bund tedeschi e Btp scende. Per ogni euro degli oltre duemila miliardi di vecchio debito pubblico l'onere da bassa inflazione poi è ancora più forte, perché i tassi d'interesse sui vecchi titoli sono più alti. In queste condizioni il debito pubblico non scenderà mai. Proiettando l'inflazione, la crescita, le cedole su Bot o Btp e il surplus di bilancio di oggi fra vent'anni, la situazione diverrebbe insostenibile: il debito pubblico sarebbe al 148% e in aumento. Invece con un'inflazione anche com'era un anno fa, il debito sarebbe di quasi 30 punti più basso e in calo.

E' per questo che il crollo del carovita e l'apparente rinuncia della Bce a difendere il suo stesso obiettivo di stabilità dei prezzi appaiono sempre più in conflitto con un'altra regola europea: il Fiscal Compact. Rispettare quell'impegno a ridurre ogni anno il rapporto fra debito e Pil di più del 3% è quasi impossibile se nel frattempo l'Europa ignora la sua stessa regola d'inflazione. Per farcela, l'Italia dovrebbe aumentare stabilmente il suo surplus primario di 15 miliardi, con nuovi tagli e tasse. Ce n'è abbastanza perché il tessuto sociale e la vita politica italiani non reggano allo sforzo. Ma non è affatto scritto che le cose andranno così. Giovedì c'è il consiglio dei governatori della Bce. La palla è (anche) nel campo di Draghi.

(01 aprile 2014) © Riproduzione riservata

Da - http://www.repubblica.it/economia/2014/04/01/news/crollo_prezzi_fiscal_compact-82429657/?ref=HRER2-1


Titolo: Federico FUBINI.La Corte dei Conti brucia 313 milioni...
Inserito da: Admin - Giugno 22, 2014, 05:50:36 pm
La Corte dei Conti brucia 313 milioni. È la sentinella più cara d’Europa
Il bilancio dei magistrati contabili, pubblicato ieri in gazzetta ufficiale.
L'equivalente inglese ha garantito risparmi alla collettività per un miliardo.
Da noi invece le cose vanno diversamente


Di FEDERICO FUBINI

C’È un passaggio nel bilancio della Corte dei conti uscito in Gazzetta Ufficiale in queste ore che rivela più di un’intera relazione: "Lo stanziamento dei fondi da parte del ministero dell’Economia si presentava adeguato alle esigenze manifestate, in più occasioni, dai vertici della Amministrazione". Tradotto, i magistrati contabili hanno bussato a soldi e hanno avuto piena soddisfazione. Al punto che non esiste in Europa un organismo simile che costi altrettanto. Di solito la magistratura contabile fa parlare di sé per i suoi richiami sugli sprechi, rivolti a tutti gli organi dello Stato. L’espressione “monito della Corte dei conti” su Google produce 363 mila risultati: un pilastro della lingua italiana. La relazione annuale di quell’organismo è un vademecum essenziale per capire il bilancio pubblico e ciò che là dentro non va. Sarebbe interessante capire se il prossimo rapporto della Corte dei conti conterrà anche solo un capoverso sulle sue stesse spese.

Il consuntivo uscito ieri in Gazzetta Ufficiale lascia pochi dubbi: la magistratura contabile costa cara ai contribuenti. In termini di cassa, nel 2013 ha avuto uscite (“titoli di pagamento emessi”) per 313 milioni. Il Tesoro le ha trasferito 280 milioni, quindi la Corte ha messo al lavoro il suo cospicuo bilancio che aveva un “avanzo di amministrazione” di 65 milioni.

Che 313 milioni di spese siano pochi o molti è per definizione discutibile. Un fatto certo è però che siano molto più di quanto spendono simili istituzioni in giro per l’Europa. Qualche esempio? In Gran Bretagna, un Paese con un bilancio pubblico e un prodotto lordo simili a quelli dell’Italia, il National Audit Office l’anno scorso ha ricevuto dal Parlamento 66 milioni di sterline (circa 80 milioni di euro), inclusi 4 per spese una tantum. E il lavoro dei revisori pubblici di Londra ha prodotto per il contribuente risparmi provati di spesa per oltre un miliardo. Ma i magistrati italiani, con il quadruplo delle risorse, non hanno mai dimostrato dati alla mano risultati del genere. In Francia invece la Cour des Comptes nel 2013 è costata 206 milioni, un terzo meno che in Italia, e i portavoce di Parigi sembrano persino scusarsi per l’enormità della cifra. Essa include, si spiega, venti organi decentrati che controllano la spesa delle Regioni: come in Italia. La Corte dei conti europea a Lussemburgo l’anno scorso ha speso invece 142 milioni, benché controlli bilanci in ognuno dei 28 Paesi dell’Unione. E il Bundesrechnungshof costa 127 milioni: non sono inclusi gli impegni di 16 organi regionali, ma anche con quelli l’onere totale resterebbe molto inferiore all’Italia.

Sarebbe dunque utile capire dal suo prossimo rapporto, sempre pieno di “moniti”, come mai la Corte dei conti di Roma deve costare più di tutte le pari grado in Europa. E perché fatichi tanto a indovinare i suoi stessi conti: dall’ufficio di presidenza al segretariato generale, dagli uffici regionali alle risorse umane, il consuntivo presenta una lunga serie di sforamenti sulle spese previste. In tutto 13 milioni in più, circa il 4% di sfondamento sul preventivo. Un’enormità per un organo le cui condizioni di lavoro non sono cambiate durante l’anno. Con un dubbio in più: si sta formando in questi giorni l’Ufficio parlamentare di bilancio, previsto dal Fiscal Compact europeo. Per non sprecare altri soldi nell’ennesimo doppione istituzionale, non sarebbe ora di spostare lì almeno qualche (costoso) esperto della Corte dei conti? Giusto, per una volta, per farli tornare.

(22 giugno 2014) © Riproduzione riservata

Da - http://www.repubblica.it/economia/2014/06/22/news/la_corte_dei_conti_brucia_313_milioni_la_sentinella_pi_cara_deuropa-89682962/?ref=HREC1-1


Titolo: Federico FUBINI. Troppi sprechi negli acquisti, ecco gli enti sotto accusa: ...
Inserito da: Admin - Agosto 06, 2014, 11:50:21 am
Troppi sprechi negli acquisti, ecco gli enti sotto accusa: dal Viminale alle università. Lettera di Cottarelli e Cantone
Richieste di chiarimenti alle prime 200 amministrazioni pubbliche. Elettricità, gas, telefonia: si sarebbe dovuto passare attraverso una centrale unica e invece ognuno ha proceduto per conto proprio. Perugia, record di spese. Aeronautica militare, un contratto al mese

Di FEDERICO FUBINI

C'è un colpevole seriale di malagestione come il comune di Roma, insieme a giunte del Centro e del Nord come Perugia, Pesaro e Urbino, Verona, Udine, Sondrio, Trieste o Bolzano. Spunta anche la Statale di Milano, con l'università di Genova. Ci sono aziende sanitarie dalle procedure d'appalto singolari, in Sardegna o Campania. E non mancano neanche coloro che dovrebbero tenere al rispetto della legge più di ogni altro ramo dello Stato: i carabinieri, la polizia, il ministero della Difesa. Tutti destinatari delle lettere di Raffaele Cantone e Carlo Cottarelli alle amministrazioni che - è il sospetto - hanno violato le norme sugli appalti da tenere solo ai prezzi più convenienti per il contribuente. Cottarelli e Cantone sono, rispettivamente, commissario straordinario alla revisione della spesa e presidente dell'Autorità anti-corruzione. Già solo i loro ruoli rendono la lettera partita a giugno un atto pieno di significato.

E, potenzialmente, pieno di conseguenze per chi non sta alle regole. Non solo perché i due minacciano sanzioni ai funzionari che esitano a rispondere (25 mila euro) e a quelli che "forniscono dati non veritieri" (51 mila). Quell'intervento di Cottarelli e Cantone è soprattutto il segnale di una svolta che può arrivare se solo si rispettassero le leggi esistenti. Una serie di decreti approvati fra il 2006 e il 2012 obbliga infatti gli uffici dello Stato e le società "in house", controllate al 100%, a non sprecare un centesimo quando comprano sette categorie
di beni e servizi essenziali: elettricità, gas, carburanti, combustibili da riscaldamento e contratti di telefonia fissa, cellulare o per traffico dati. Per ordinare da questo menu, tutti dovrebbero servirsi della centrale nazionale degli acquisti Consip o delle centrali regionali. Facile capire perché: i grandi acquirenti hanno le competenze e sono in grado di spuntare i prezzi migliori. La legge tollera eccezioni, cioè amministrazioni che fanno shopping da sole, solo se un ufficio compra a meno dei prezzi garantiti da Consip....

Prima cento, poi cresciuti a duecento, i sospetti.... E si ipotizza che l'elenco possa estendersi fino a tremila amministrazioni....

C'è il ministero dell'Interno.... per il pingue contratto di telefonia mobile da 4,4 milioni di euro della Polizia di Stato.... per i cellulari dei Carabinieri (3,1 milioni) e per il traffico dati dell'Arma (2,2)....

C'è l'Aeronautica militare, cioè il ministero della Difesa, per l'energia elettrica per illuminare l'aeroporto di Pratica di Mare: dal gennaio del 2012 a quello del 2013 conclude la bellezza di 12 contratti d'appalto, uno al mese. Nel complesso finisce per spendere circa 2,5 milioni di euro....

Il record nella lista dei primi cento sospetti spetta però tutto al comune di Perugia: la bellezza di 10,5 milioni di euro pagati per dare luce alla città, con gara scaduta a luglio 2013....

E c'è l'Università degli Studi di Milano che, a quanto pare disinteressandosi della legge, ha concluso di propria iniziativa un contratto da 7,5 milioni per le forniture elettriche dell'anno conclusosi a giugno scorso....

L'articolo integrale su Repubblica in edicola e su Repubblica+

(06 agosto 2014) © Riproduzione riservata

Da - http://www.repubblica.it/economia/2014/08/06/news/spending_review_sprechi_enti_sotto_accusa-93215052/?ref=HREA-1


Titolo: Federico FUBINI. - Euro debole, ultima carta di super-Mario. Aiuta l'export e...
Inserito da: Admin - Settembre 06, 2014, 05:50:55 pm
Euro debole, ultima carta di super-Mario. Aiuta l'export e blocca la deflazione
La Bce cerca di riempire le falle di Eurolandia e il vuoto politico dei governi. I mercati hanno preso posizione su un possibile, imminente taglio dei tassi d'interesse

Di FEDERICO FUBINI

La visita di Matteo Renzi in elicottero alla sua casa delle vacanze in Umbria in pieno agosto. Le telefonate con Angela Merkel, sicuramente frequenti e solo in questo caso rese pubbliche. Poi ieri la visita all'Eliseo dal capo dello Stato francese François Hollande. Piuttosto che quella di un normale banchiere centrale, l'agenda di Mario Draghi ricorda sempre di più quella di un operatore delle istituzioni che ha davanti a sé un grande vuoto politico da colmare. Anche i discorsi pubblici iniziano a rivelare sfumature del genere.

Come quando il 22 agosto a Jackson Hole il presidente della Bce ha proposto un compromesso ai principali governi europei. Ma se ieri Hollande all'Eliseo ha detto in privato ciò che spesso ripete in pubblico, Draghi sarà tornato subito nei panni, da lui preferiti, di banchiere centrale. Il capo dello Stato francese pensa che l'euro - a 1,3133 sul dollaro ieri sera - resti di gran lunga troppo forte. Dalla tarda primavera, è vero la moneta unica ha iniziato a dirigersi verso sud nei grafici. Ma alla Francia e agli esportatori italiani non può bastare il calo del 5,3% dai picchi di 1,39 di inizio maggio.

Come Hollande, Draghi sa benissimo che un altro, robusto tratto sulla strada del deprezzamento risolverebbe vari problemi senza troppi costi politici. Gli esportatori in Francia, Italia, ma anche in Germania, avrebbero un'arma di più per contrastare la frenata degli ordini dall'estero legata anche alla guerra in Ucraina. E beni e servizi all'import costerebbero un po' di più, aiutando la Bce a alzare il tasso d'inflazione.

Di sicuro questo tema peserà sul tavolo del consiglio direttivo della Bce che, giovedì a Francoforte, discuterà se e cosa decidere. Ma anche nella gestione del tasso di cambio Draghi e gli altri 22 membri del consiglio hanno sempre lo stesso problema: le falle politiche di Eurolandia, che la Bce cerca di riempire supplendo il vuoto politico dei governi. Il livello dell'euro rispetto alle altri grandi valute sarebbe una competenza condivisa fra la Bce e i leader dei Paesi dell'area, ma questi ultimi sembrano incapaci di esprimere un orientamento: hanno posizioni troppo diverse fra loro. Allo stesso tempo, la Bce ha difficoltà a condurre la campagna che sarebbe senz'altro più logica ed efficace: vendite dirette di euro in cambio di dollari. La storia dell'euro, in realtà, ha già conosciuto interventi delle banche centrali per influenzare il cambio. Nel novembre del duemila l'Eurotower, la Fed ed altre banche centrali irruppero insieme sui mercati per comprare euro, caduto a 0,82 sul dollaro, e far capire che non ne avrebbero più tollerato un'ulteriore scivolata. Ora però se la Bce si muovesse da sola, senza l'assenso della Fed, verrebbe accusata di violare il patto (informale) fra banche centrali del G7 di non interferire mai con le monete degli altri.

Draghi però sa che questi interventi sarebbero esattamente ciò di cui Eurolandia ha bisogno. Non è dunque escluso che la Bce cerchi di far compiere al mercato il lavoro che lei stessa non può fare: vendere euro e comprare dollari, o altre valute. È per questo che in questi giorni il mercato ha preso posizione sullo scenario di un imminente taglio dei tassi della Bce. Quello principale scenderebbe da 0,15% a 0,05% e per il tasso di cambio farebbe una differenza importante.

Poiché i prestiti sono così a buon mercato, molte grandi private sarebbero spinte a finanziarsi in Bce e poi a vendere euro per investire a rendimenti più alti in dollari, in sterline, in real brasiliani o in rand sudafricani. È quello che i tecnici chiamano "carry trade": indebitarsi in una valuta che richiede bassi tassi d'interesse e investire in titoli a reddito fisso in un'altra valute che offre più interessi più alti. Puntualmente, l'effetto netto del "carry trade" è che la valuta di finanziamento perde valore perché viene venduta in modo sistematico. In passato è toccato allo yen e al dollaro: questa volta potrebbe toccare all'euro.

Resta da vedere se basterà a bloccare la scivolata verso la deflazione. Draghi non persegue un obiettivo nel tasso di cambio, perché non è nello statuto della Bce. Senz'altro però anche nell'Eurotower saranno stati fatti i conti: basta un ulteriore 7% o 8% di svalutazione dell'euro sul dollaro, verso quota 1,20, per dare un po' di fiato all'export e contenere le spinte alla caduta dei prezzi al consumo. E né Draghi, né Hollande, né una Germania in piena perdita di velocità sull'export si opporrebbero a questo scenario. 

(02 settembre 2014) © Riproduzione riservata

Da - http://www.repubblica.it/economia/2014/09/02/news/euro_debole_ultima_carta_di_super-mario_aiuta_l_export_e_blocca_la_deflazione-94846249/?ref=nl-Ultimo-minuto-ore-13_02-09-2014


Titolo: Federico FUBINI. Disoccupati nascosti e produttività a terra: così il Paese...
Inserito da: Admin - Settembre 16, 2014, 06:13:59 pm
Disoccupati nascosti e produttività a terra: così il Paese perde colpi
Le regole del mercato del lavoro in Italia sono contraddittorie e i risultati ottenuti sono scarsi.
Ecco le principali anomalie di un sistema che produce un tasso di occupazione tra i più bassi d'Europa


Di FEDERICO FUBINI

ROMA - Uno dei più bassi livelli di occupazione al mondo, dentro uno dei sistemi che protegge di più il posto di chi un impiego permanente lo ha. Una disoccupazione giovanile senza paragoni con qualunque altro Paese, in proporzione alla quota generale dei disoccupati. Un aumento di stipendi e salari più rapido che in Germania, unito a un crollo dei consumi che invece in Germania continuano ad aumentare.

Più che un mercato del lavoro, lo si potrebbe definire un suk di contraddizioni. Gli obiettivi e gli esiti delle norme che governano l'impiego sembrano procedere in direzioni opposte: all'impegno all'equità e al benessere iscritto nelle leggi corrisponde una fabbrica di esclusione, inattività e impoverimento chiamata oggi Repubblica italiana. Certo non è solo colpa delle regole, ma a sei mesi da quando il governo varò la legge delega sul lavoro uno dei suoi obiettivi è chiaro: arrivare a una situazione diversa da questa. I dati dell'Ocse sull'occupazione e quelli di Eurostat sull'andamento sulle remunerazioni fanno sospettare che dev'esserci qualcosa di profondamente sbagliato in Italia. Difficile altrimenti capire perché il quadro sia peggiore anche rispetto ad altri Paesi colpiti dalla crisi. O perché risultino false alcune delle credenze che, in questo Paese, molti considerano semplicemente ovvie.

Una di queste è che l'Italia ha una disoccupazione elevata, ma molto meno della Spagna e semmai come la Francia. Questa opinione deriva dal fatto che in Spagna la disoccupazione ufficiale è al 24,5%, in Italia al 12,6% e in Francia al 10,3%. Benché non venga mai detto, però, questi dati non sono paragonabili perché non lo sono le istituzioni alla loro base: in Spagna tutti i disoccupati godono di un sussidio e dunque hanno interesse a dichiararsi tali, mentre in Italia spetta quasi solo ai cassaintegrati, i quali però per le statistiche sono "occupati". Gli altri, il grosso dei senza lavoro, spesso non si iscrivono agli uffici per l'impiego perché lo considerano inutile.

Un quadro più realistico viene dai dati dell'Ocse sulla popolazione attiva in proporzione al totale dei residenti: Italia e Spagna sono entrambe appena al 36%, cioè lavora uno su tre e fra solo la Grecia è di poco sotto; la Francia è molto sopra, al 45%. Se poi si guarda alla popolazione attiva fra quella in età da lavoro (fra i 15 e i 64), la Spagna è al 74%, la Grecia al 67,3% e l'Italia è staccata al 63,5%. In altri termini, questi numeri dicono che i dati dell'Istat presentano un quadro della disoccupazione più roseo rispetto alla realtà. La popolazione attiva in Italia è pari o persino minore rispetto a Paesi con tassi di disoccupazione doppia o più. Il sistema produce più esclusi di quanto non raccontino i numeri ufficiali.

Disattenzione c'è spesso su un altro aspetto nel quale l'Italia spicca per il risultato peggiore al mondo: la sproporzione, a sfavore dei giovani, fra la quota totale dei senza lavoro e quelli delle nuove generazioni. In nessun altro Paese la percentuale dei disoccupati giovani (fino a 25 anni) è così alta rispetto al totale: nessun altro Paese penalizza tanto, in proporzione, le ultime generazioni. In Italia il tasso di disoccupazione giovanile è 3,4 volte più alto di quello generale, più del triplo; in qualunque altro Paese Ocse, Spagna, Grecia, Portogallo inclusi, tende invece ad essere il doppio o poco più.

Altrettanto falsa (e diffusa) del resto è la credenza che spiega il recente successo della Spagna nel creare molti più posti dell'Italia con il fatto che quelli iberici sono soprattutto precari. È vero il contrario: la Spagna ha sì un'incidenza più alta di contratti a tempo, il 23% contro il 13% dell'Italia, ma dall'anno duemila non fanno che diminuire sul totale dei contratti mentre è proprio in Italia che da allora sono sempre in aumento, anno dopo anno.

C'è poi un'ultima "verità" italiana, che i dati di Eurostat non confermano: maggiori aumenti di salari e stipendi sostengono i consumi, dunque giovano all'economia. Il confronto con la Germania sembra indicare che non è così. Nei sedici anni da quando nel 1997 furono fissate le parità di cambio in vista dell'euro, i salari nell'industria manifatturiera in Italia sono saliti del 54,5% e in Germania del 39,8%; gli statali italiani hanno avuto aumenti del 48,6% e i tedeschi del 30%. Nel frattempo però la produttività in Germania è cresciuta del 50%, mentre in Italia solo del 10%.

Il risultato è che le imprese italiane hanno reagito a questa pressione sui costi chiudendo o espellendo dipendenti, al punto che in questo Paese ormai lavora appena una persona su tre. In Germania invece lavora più di una persona su due, perché le imprese hanno assunto, e lì dal 2008 i consumi sono saliti del 6% mentre qui sono crollati del 13%. Se vuole davvero riformare il lavoro, questo governo avrà molto da fare.

(16 settembre 2014) © Riproduzione riservata

Da - http://www.repubblica.it/economia/2014/09/16/news/disoccupati_nascosti-95849776/?ref=nl-Ultimo-minuto-ore-13_16-09-2014


Titolo: Federico FUBINI. L’agenda sbagliata del premier
Inserito da: Admin - Settembre 16, 2014, 06:18:00 pm
L’agenda sbagliata del premier

14/09/2014

Luca Ricolfi

Dice il nostro premier che il suo governo va giudicato fra 1000 giorni, anziché dopo i primi 200, quanti ne sono passati dal suo insediamento a Palazzo Chigi. Ha ovviamente ragione, se si riferisce al corpo elettorale, che potrà esprimersi solo al momento del voto (a proposito: quando si voterà? La legislatura non scade fra 1000 giorni, bensì un anno più in là…). Ma non ha ragione se si riferisce all’opinione pubblica, che ha tutto il diritto di discutere e giudicare il suo governo «passo dopo passo». Un governo si promuove o si boccia con le elezioni politiche, ma si discute e si giudica giorno per giorno. 

Sette mesi non sono tanti, ma non sono neppure pochissimi per valutare l’azione di un governo. Dopotutto, la domanda che quasi tutti ci facciamo è una sola: Renzi ce la farà a «cambiare verso» all’Italia, interrompendo un regime di stagnazione e recessione che dura da troppo tempo?
E’ il caso di notare, per cominciare, che un successo di Renzi se lo augurano non solo i renziani, ma anche buona parte degli italiani che non hanno votato Pd nel 2013 (alle Politiche), o non hanno votato Renzi nel 2014 (alle Europee). Nessun governo precedente, della prima o della seconda Repubblica, ha mai goduto di aspettative così diffuse e trasversali agli schieramenti. Nessun premier ha beneficiato di un’apertura di credito così ampia e convinta. Nessun governo, tranne forse il governo di solidarietà nazionale ai tempi del terrorismo, ha mai goduto di un appoggio esterno benevolo come quello che Forza Italia sta fornendo al governo Renzi. Altroché gufi, nessun premier ha avuto mai così tanti tifosi! 

Dunque le possibilità di Renzi, sulla carta, sono decisamente buone.
Nonostante tutte queste condizioni favorevoli, nelle ultime settimane è cominciato a serpeggiare il dubbio che Renzi possa non farcela o, stando ai critici più severi, che la sua volontà di cambiare l’Italia sia più gattopardesca di quel che era sembrata all’inizio. 

Come mai?
Alcune ragioni sono evidenti: l’inflazione degli annunci (la cosiddetta «annuncite»), il mancato rispetto delle scadenze spavaldamente fissate per le varie riforme epocali (legge elettorale, lavoro, fisco, giustizia, pubblica amministrazione), la litigiosità dei parlamentari del Pd, la natura pasticciata di alcuni provvedimenti, l’incertezza in materia di tasse, compreso il tormentone del rinnovo del bonus di 80 euro, per il quale ancora oggi nessuna legge stabilisce le coperture nel 2015. 

 C’è una ragione, tuttavia, che a me pare più influente di tutte le altre. Da qualche settimana anche gli osservatori più benevoli cominciano a sospettare che Renzi abbia completamente sbagliato le priorità e, soprattutto, che ormai sia troppo tardi per recuperare. Il ragionamento, in breve, è questo: se vuoi far ripartire la crescita, come tutti i politici affermano di voler fare, devi prendere alcune decisioni impopolari in campo economico-sociale (tagli di spesa pubblica, liberalizzazione del mercato del lavoro); ma quelle decisioni le puoi prendere solo quando il tuo consenso è al massimo, ovvero durante i primi mesi di governo (la cosiddetta luna di miele); e se lasci passare quella finestra di opportunità, tutto diventa più difficile, se non impossibile.

Ora il punto è che la luna di miele pare stia già tramontando. Secondo l’ultimo sondaggio pubblicato, condotto da Demos & Pi e presentato da Ilvo Diamanti su Repubblica, fra giugno e settembre il Pd ha perso 4 punti, ma la popolarità di Renzi è scesa di ben 14 punti, ossia 10 punti di più. E’ vero che la rilevazione di giugno era drogata dal successo alle Europee, ma resta il fatto che il consenso di Renzi risulta in diminuzione anche rispetto a marzo e a maggio.

La fine della luna di miele, un fatto fisiologico dopo 200 giorni di governo, sembra dare ragione a quanti, da mesi, non si stancano di ripetere che è stato un grandissimo errore dare la precedenza, mediatica e parlamentare, al cambiamento della legge elettorale della Costituzione, e rimandare tutte le riforme economico-sociali più importanti, a partire dal Jobs Act. Il cambiamento delle regole, infatti, produrrà effetti solo fra qualche anno, e comunque non incontra alcun serio ostacolo da parte dell’opinione pubblica, che ha ben altre priorità. Alcune riforme economico-sociali, invece, possono produrre effetti molto più rapidamente, ma richiedono il massimo di consenso dell’opinione pubblica, per vincere le inevitabili resistenze delle mille lobby che temono di perdere i loro privilegi. Secondo questi critici Renzi doveva dare assoluta priorità al mercato del lavoro, ai tagli di spesa e alla riduzione del costo del lavoro per le imprese, lasciando che le riforme delle regole elettorali e istituzionali facessero tranquillamente il loro corso parlamentare, senza ritardare le assai più urgenti e vitali riforme economico-sociali.

Il fatto curioso è che questa mancanza di coraggio (ma forse sarebbe meglio dire: questa mancanza di tempismo) in campo economico-sociale si sta già ritorcendo contro il governo. Renzi ha deciso da tempo di non rispettare l’obiettivo del 2.6% di deficit che egli stesso aveva imprudentemente fissato a primavera, e si appresta a negoziare con l’Europa un’interpretazione flessibile degli impegni assunti. Ma le sue possibilità di riuscire nell’intento, e soprattutto di evitare la reazione negativa dei mercati di fronte all’ennesimo ritardo nel percorso di risanamento dei conti pubblici, sono state enormemente ridotte precisamente dalla scelta, fatta a marzo, di posticipare le riforme difficili, che sono quelle economico-sociali, e di trastullarsi con quelle facili, legge elettorale e svuotamento del Senato, il cui percorso parlamentare è garantito dall’accordo con Silvio Berlusconi. 

Si potrebbe pensare, o meglio sperare, che le «riforme strutturali», a partire da quella del mercato del lavoro (cui tuttora mancano i tre tasselli fondamentali: codice semplificato, contratto a tutele crescenti, ammortizzatori sociali universali), siano solo un’ossessione degli studiosi, i detestati «esperti» da cui il nostro suscettibile premier «non accetta lezioni». Sfortunatamente non è così. I mercati finanziari si sono già accorti della nostra lentezza, anche se i politici preferiscono non vedere il segnale che essi ci mandano. Eppure quel segnale è chiaro e forte: fra gennaio e oggi la diminuzione dello spread, che ha coinvolto un po’ tutti i Paesi dell’eurozona, è stata in Italia minore che negli altri Pigs, ossia Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna. Segno che i mercati percepiscono la differenza fra le velocità con cui i Paesi più indebitati ristrutturano le loro economie.

In concreto, tutto ciò significa che aver rimandato le riforme che contano potrebbe costarci caro. Subito, sotto forma di minore disponibilità dell’Europa a concedere sconti ai soliti inaffidabili italiani. In prospettiva, sotto forma di rischio sui mercati finanziari: se un’altra crisi dovesse scuotere l’euro, l’Italia non ne sarebbe al riparo, perché troppo poco ha fatto e sta facendo per fermare il proprio declino.

Da - http://lastampa.it/2014/09/14/cultura/opinioni/editoriali/lagenda-sbagliata-del-premier-h8mgkTgYInQqaTOzRuw1KO/pagina.html


Titolo: Federico FUBINI. - Atene riaccende l'allarme: l'Europa è più debole per poter...
Inserito da: Admin - Ottobre 19, 2014, 05:30:33 pm
Atene riaccende l'allarme: l'Europa è più debole per poter reggere a un altro terremoto
La Germania si è opposta a sostenere ancora una volta l'economia greca e ora rischia di far travolgere l'euro

di FEDERICO FUBINI
17 ottobre 2014
   
ROMA - Ognuno ha il suo subprime, la piccola zavorra dimenticata che può affondare il transatlantico, e l'Europa ha trovato il proprio in Grecia. Il Paese da cui cinque anni fa partì il contagio del debito sovrano, sta riportando un'ondata di instabilità sull'intera area monetaria. Questa volta però è diverso: economie come Cipro, il Portogallo o la stessa Italia sono più esauste e meno resistenti a un ennesimo terremoto, altre come la Francia possono trovarsi investite in pieno per la prima volta: l'evoluzione stessa del mercato dei titoli di Stato ieri ha confermato uno per uno questi timori.

L'ennesimo dramma della Grecia ha una trama politica emerso alla luce del sole e un intreccio diplomatico-finanziario rimasto troppo a lungo nell'ombra. La vicenda politica riguarda l'incapacità del governo di trovare un nome plausibile, entro gennaio prossimo, per la presidenza della Repubblica.

Alla maggioranza mancano 29 voti in parlamento per il quorum. Il premier Antonis Samaras si è ridotto a pensare alla candidatura di Vangelis Marinakis, presidente dell'Olympiakos, solo perché guida il club di calcio più popolare del Paese: quando si arriva a tanto, lo stallo è di certo a un passo e le elezioni anticipate imminenti. In quel caso, a giudicare dai sondaggi che la danno di 5 punti in vantaggio, può vincere la sinistra radicale di Syriza. La Grecia è tentata da una svolta radicale della sua politica europea.

Il leader di Syriza, Alexis Tsipras, in pubblico promette l'addio al programma della troika e una conferenza internazionale per liberare la Grecia del suo debito tramite un default definitivo. In privato invece, con altri leader europei, minaccia di portare il Paese direttamente fuori dall'euro: non è un caso se i mercati, con i crolli di questi giorni, hanno iniziato a dare un prezzo all'ipotesi che l'Italia o il Portogallo a quel punto possano trovarsi costrette a seguire a ruota. L'Europa e l'Fmi hanno investito 280 miliardi di euro in Grecia in questi anni, solo per dimostrare che non esiste una porta d'uscita dall'euro. Se Atene la smentisse, gli investitori crederebbero che altri lasceranno la moneta, dunque porterebbero i tassi sui titoli italiani alle stelle e anche Roma può essere costretta a tornare a una moneta nazionale.

Samaras, il premier di centro-destra, di fronte agli elettori non intende lasciarsi scavalcare da Tsipras. Di qui la sua richiesta attuale di liberarsi anzitempo della troika, benché la Grecia non sia in grado di stare finanziariamente in piedi da sola.



Fin qui il dramma politico alla luce del sole, ma sottotraccia lo sta alimentando l'ordito diplomatico-finanziario. Lontano dai riflettori, nel silenzio di tutti, quest'anno i governi europei hanno mancato un appuntamento che rischiano di rimpiangere: all'inizio del 2014 avevano iniziato a discutere l'ipotesi di dare altro sollievo alla Grecia sul debito.

Niente di diverso dal trattamento che la Gran Bretagna ha ricevuto dopo la Grande Guerra o la Germania dopo la caduta del nazismo: il debito pubblico verso gli altri governi - dopo i salvataggi, 173 miliardi nel caso della Grecia - viene spalmato su molti decenni a interessi quasi zero. Sarebbe una forma mascherata di default, già sperimentata da altri Paesi nel '900, e capace di disinnescare lo choc politico che ora minaccia di nuovo l'Europa. Ma quell'ipotesi su Atene si è arenata: il governo tedesco si è opposto, asserendo che una Grecia in deflazione, con un'economia crollata del 25%, una disoccupazione al 27%, potesse realmente ripagare un debito al 175% del Pil.

Come già troppe volte in questa crisi, la tattica tedesca si è dimostrata sbagliata. La Grecia oggi dà (o dava) segni di ripresa, più della stessa Italia, ma la tensione sociale e la pressione finanziaria rischiano di trasformarla in un detonatore per l'Europa. Una concessione sul debito sarebbe costata circa lo 0,7% del Pil europeo, un piccolo pezzo del mercato come lo erano in America i subprime. Negarla, può provocare una catastrofe decine di volte più devastante.

La lezione di ieri però è che non tutti sono uguali quando si alza la tempesta. La Spagna ha distanziato l'Italia per i rendimenti dei titoli di Stato, ormai più bassi di 37 punti per Madrid, perché lì la crescita è più alta e il debito più basso. E i bond sovrani francesi ieri hanno perso più terreno degli iberici, allontanandosi di 13 punti base in più dai Bund tedeschi. Ce n'è abbastanza perché il mercato decida di mettere concretamente alla prova la promessa di Mario Draghi, il presidente della Bce, di fare "qualunque cosa per preservare l'euro". Ma neanche un'onda infinita di liquidità può riempire il vuoto della politica, né quello del buon senso quando non c'è.

© Riproduzione riservata 17 ottobre 2014

Da - http://www.repubblica.it/economia/2014/10/17/news/atene_riaccende_l_allarme_l_europa_pi_debole_per_poter_reggere_a_un_altro_terremoto-98297444/?ref=HREA-1


Titolo: Federico FUBINI. - Anonimi per la vergogna
Inserito da: Admin - Ottobre 29, 2014, 06:57:31 pm
Anonimi per la vergogna
Di FEDERICO FUBINI

Se c'è qualcosa fra le molte che colpisce in modo particolare in questa bellissima e sconcertante inchiesta a più voci dai territori d'Italia, sono i nomi. Quelli dei protagonisti, i giovani in cerca di lavoro. Colpiscono perché non sono quasi mai accompagnati dai cognomi: perlopiù gli intervistati accettano che appaia solo l'iniziale del cognome, oppure neppure quella.

Di solito questo tipo di richiesta - non essere identificabili - arriva ai cronisti da giovani vittime di stupri, tossicodipendenti, persone coinvolte a qualche titolo in un crimine o in una vicenda in cui qualcuno, da qualche parte, ha qualcosa di cui si deve vergognare. Ma questa inchiesta parla di un fenomeno che colpisce milioni di giovani italiani che si affacciano al mondo del lavoro. La loro richiesta di anonimato dice molto, purtroppo, del disagio e della vergogna che si prova per una condizione di cui non si è responsabili ma riguarda una sezione intera della popolazione per molti anni. Queste persone porteranno con sé il loro stress per molti anni, anche quando l'avranno superato, ed esso sarà un fattore della vita politica italiana per molti anni a venire.

Il fatto che l'enorme gruppo sociale dei disoccupati giovani scelga di restare senza volto, senza nomi, obbliga però anche a una lettura più ampia. Da almeno 80 anni, o forse dai tempi delle corporazioni medievali delle arti e dei mestieri, l'Italia è il Paese delle lobby, dei gruppi d'interesse, degli ordini professionali organizzati che contano più di gran parte dei partiti politici. Si è cittadini non in virtù del passaporto, o della contribuzione fiscale, ma dell'appartenenza a una corporazione.

Il messaggio implicito nella scelta dell'anonimato è che quella che parla in questa inchiesta non è una lobby. Non è un gruppo organizzato. È minoritaria in un Paese di età media elevata e tende ad andare alle urne meno dei loro padri o dei loro nonni. È una sezione di italiani che la politica si è potuta permettere di ignorare senza rischiare di perdere il potere.

La speranza è che i giovani non debbano trasformarsi anche loro in una lobby vecchio stile. Non debba diventare una corporazione come quelle di cui i governi cui comprano l'amicizia generando debito pubblico, per poter finalmente mettere, senza vergogna, i cognomi accanto ai nomi.

Da - http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2014/10/27/news/il_lavoro_di_cercare_lavoro-97979059/?ref=HREC1-9#anonimi


Titolo: Federico FUBINI. Misure anti-recessione, resa dei conti per Draghi assediato...
Inserito da: Admin - Novembre 09, 2014, 11:20:57 am
Misure anti-recessione, resa dei conti per Draghi assediato nell’Eurotower
Dopo la fronda dei “falchi”. Oggi il board della banca centrale europea

Di FEDERICO FUBINI

06 novembre 2014

ROMA - All'inizio del mese è stata varcata una soglia che nessuno all'avvento dell'euro aveva immaginato. Deutsche Skatbank, un piccolo istituto della Turingia, è diventato il primo in zona euro a praticare con i propri clienti al dettaglio ciò che da tre mesi la Banca centrale europea fa con le banche commerciali: tassa i loro depositi. Chiunque abbia un conto presso Skatbank di oltre mezzo milione di euro dovrà pagare ogni anno lo 0,25% a Skatbank stessa.

Il rendimento del denaro, se tenuto inerte, sta diventando negativo in termini nominali. Non poteva esserci espressione più dura della deflazione che incombe sull'Europa e di come la Bce rischi di trovarsi in un vicolo cieco nel suo tentativo di arrestarla. Le vie ortodosse come il taglio dei tassi sono esaurite sul limite dello zero, quelle non troppo anti-convenzionali come gli interessi negativi sui depositi non sono più percorribili oltre. All'Eurotower non resta che espandere la dimensione del bilancio, cioè creare moneta e immetterla nell'economia comprando titoli sul mercato.

È su questo punto che a Francoforte si sta consumando il conflitto più violento della storia della Bce. Non che sia il primo, anzi quello in corso ne ripete in parte altri del passato recente. La svolta del 2011 che spinse Mario Draghi verso la presidenza ricorda per esempio, in parte, ciò che sta accadendo in queste ore. Ieri sera la minoranza di dissidenti nell'Eurotower, secondo Reuters , si sarebbe preparata per esprimere in consiglio direttivo il malumore per il modo poco consensuale in cui Draghi guida la banca. C'è un parallelo dal passato: quasi quattro anni fa, nel febbraio del 2011, Axel Weber fece sapere che si dimetteva dalla presidenza della Bundesbank. "Ragioni personali", disse. In realtà aveva perso un confronto aperto in Bce sugli acquisti di titoli di Stato e non intendeva restare in minoranza, mentre l'istituzione andava in direzione opposta alla sua.

I peggiori conflitti fra la maggioranza pragmatica dell'Eurotower e una minoranza di sei o sette componenti (su 24) raccolta intorno alla Bundesbank sono di questi giorni. Ma in passato sono andate in scena varie prove generali. Sei mesi dopo Weber si dimise anche Juergen Stark, il capoeconomista tedesco della Bce in rotta con la scelta di comprare titoli di Italia e Spagna. Jean-Claude Trichet, il predecessore di Draghi, aveva affrontato le obiezioni di Weber e Stark e li aveva disinnescati. Oggi però la storia si ripete con una sfumatura diversa: le presunte fughe di notizie sui media internazionali non prendono più di mira solo la linea della Bce, ma il suo presidente italiano. Non si attaccano più le scelte, ma la reputazione della persona. Su questo sfondo oggi il consiglio direttivo darà senz'altro uno spunto su cui misurare i rapporti di forza. La minoranza raccolta attorno a Jens Weidmann, presidente della Bundesbank, conta banchieri centrali con passaporto tedesco, lussemburghese, olandese, estone e lettone.


Tutti si oppongono all'idea, formulata in pubblico da Draghi, che il bilancio della Bce debba crescere dai circa duemila miliardi di euro di oggi fino ad almeno 2.700 miliardi. La minoranza sostiene che Draghi abbia indicato questo obiettivo senza concordarlo prima con nessuno. La posta in gioco è evidente: per creare circa 700 miliardi di nuova moneta, prima o poi può diventare necessario comprare titoli di Stato.

Si capirà dunque oggi se la Bce indicherà l'obiettivo di una forte espansione del bilancio nella dichiarazione scritta del presidente dopo il consiglio. Probabilmente comparirà un accenno, ma senza cifre: l'ultima cosa che Draghi vorrà fare adesso, nel suo stile di sempre, è esacerbare il conflitto mettendo la Bundesbank di nuovo in minoranza con un voto.

© Riproduzione riservata 06 novembre 2014
Da - http://www.repubblica.it/economia/2014/11/06/news/misure_anti-recessione_resa_dei_conti_per_draghi_assediato_nelleurotower-99873856/?ref=HREA-1


Titolo: Federico FUBINI. Lavoro, pronti indennizzi esentasse se licenziati non fanno...
Inserito da: Admin - Novembre 16, 2014, 05:44:37 pm
Lavoro, pronti indennizzi esentasse se licenziati non fanno causa
Palazzo Chigi prepara un secondo provvedimento per favorire i patti integrativi rispetto a quelli collettivi

di FEDERICO FUBINI
15 novembre 2014

ROMA - A questo punto, nove mesi dopo il giuramento di Matteo Renzi al Quirinale, non c'è più un solo banchiere centrale, esponente di governo europeo o investitore estero che non presenti quella domanda. Giunti al cuore di ogni incontro privato, è sempre la stessa: cosa c'è dentro la scatola della riforma del lavoro, e quando quell'oggetto salterà fuori. Più che sui decimali di deficit, è sui dettagli e la portata della revisione delle regole sul lavoro che si gioca la posizione politica dell'Italia in Europa e la sua tenuta finanziaria sui mercati nel 2015. A Palazzo Chigi questa pressione si avverte ed è anche per questo che in questi giorni si lavora per precisare gli ingranaggi del Jobs Act, e gettare le basi di quella che, nei piani, dovrebbe essere la fase due della riforma del lavoro. Il Jobs Act, con il contratto a tutele crescenti per i nuovi assunti, partirà da zero e riguarderà circa 1,5 milioni di dipendenti in più ogni anno su 23 milioni circa di occupati: è un intervento che per ora cambia solo al margine il mondo del lavoro. La seconda fase invece interessa la grande maggioranza, perché riguarda la contrattazione collettiva.

Prima di avviarla, probabilmente in gennaio, il governo deve chiudere sui nuovi contratti del Jobs Act e l'intenzione è di farlo introducendo una novità: forti incentivi economici al datore di lavoro e al dipendente a chiudere gli accordi su un licenziamento economico sulla base di un pagamento deciso entro pochi giorni fra le due parti. La misura riguarderebbe solo i contratti permanenti di nuovo tipo, quelli firmati a partire dal 2015. L'indennizzo può arrivare gradualmente fino ai 24 mesi di salario ordinario, a crescere con l'anzianità di servizio sulla base di griglie fissate per legge. Ma soprattutto, nelle intenzioni del governo, l'accordo senza giudice chiamato "conciliazione espressa " dovrebbe essere interessante per entrambe le parti. Per il datore di lavoro, lo sarebbe per due ragioni: l'indennizzo concordato entro cinque giorni con il dipendente è meno oneroso di quello che può decidere il giudice dopo un ricorso, e il lavoratore che lo accetta rinuncia al diritto di andare poi in giustizia. Anche per il dipendente licenziato ci sarebbero due motivi per accettare una transazione con l'impresa. In primo luogo, con il nuovo contratto permanente, l'indennizzo che gli viene versato sarebbe tutto o in buona parte esentasse: il governo sta studiando il modo di far sì che quella somma, fino a due anni di salario, sia intascata per intero o quasi dal lavoratore senza pesare nella denuncia dei redditi. Inoltre il lavoratore licenziato saprebbe già, dall'inizio della trattativa con l'impresa, che in caso di ricorso ha sì la possibilità di avere un indennizzo più alto, ma con l'onere delle spese legali e senza lo sgravio fiscale.

Così il governo punta a creare incentivi per alleggerire le procedure e sgravare i tribunali, lavorando sui dettagli dei decreti attuativi del Jobs Act. Le cause di licenziamento per ragioni economiche o organizzative saranno definite con fattispecie precise: si va dal cattivo andamento dell'impresa, alle difficoltà del mercato, al cambiamento organizzativo, fino al rendimento insufficiente del singolo. Anche i motivi di un licenziamento disciplinare saranno precisi nei dettagli, in modo da definire per legge i vari scenari e lasciarli il meno possibile all'interpretazione del giudice. Per le imprese fino a 15 dipendenti, l'indennizzo potrà poi arrivare a un massimo di sei mensilità e non di 24 come per le altre.

A gennaio poi il governo punta a far partire la fase due della riforma: quella che potenzialmente riguarda gran parte dei dipendenti, non solo i nuovi assunti. Per allora, Palazzo Chigi intende aver pronto e distribuito alle parti sociali un "libro bianco " di proposte per rafforzare di molto la contrattazione decentrata a livello di azienda, distretto o filiera produttiva, rendendola prevalente sui contratti nazionali uguali per tutte le imprese. L'obiettivo è chiudere su questo a giugno. Questo sistema è praticato quasi ovunque in Europa: le aziende fissano gli orari, i turni o i salari in base alle proprie necessità specifiche e alle condizioni per stare sul mercato. Molti datori di lavoro in Germania hanno salvato così l'occupazione durante la crisi del 2009. Ma in un'Italia a inflazione zero, ciò comporterebbe un'ulteriore scivolata verso la deflazione. Solo la Bce a quel punto potrebbe aprire la rete di sicurezza per evitare un'esplosione dei livelli di debito.

© Riproduzione riservata 15 novembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/economia/2014/11/15/news/lavoro_via_alla_fase_due_pronti_indennizzi_esentasse_se_licenziati_non_fanno_causa_e_largo_ai_contratti_aziendali-100600536/?ref=HREC1-14


Titolo: Federico FUBINI. Ilva, sì al supercommissario: tra un anno Stato al 49% e ...
Inserito da: Admin - Dicembre 14, 2014, 11:43:17 pm
Ilva, sì al supercommissario: tra un anno Stato al 49% e Mittal-Marcegaglia al 51%
La decisione sull’acciaieria prima di Natale I privati investirebbero 2,5-3 miliardi di euro

di FEDERICO FUBINI
13 dicembre 2014

ROMA - Mentre si avvicina la fine dell'anno e dei fondi di cassa, per l'Ilva di Taranto la domanda più urgente ormai non è più se lo Stato entrerà come azionista. È quante volte lo farà. Negli ultimi giorni è emersa una risposta nei colloqui fra azienda, governo e potenziali investitori: probabilmente lo Stato entrerà due volte. Una quasi subito e l'altra fra un anno. La prima dovrebbe avvenire sotto forma di un nuovo commissario straordinario di nomina governativa, sulla base della legge che regola i dissesti dei grandi gruppi. La seconda -  sempre che tutto vada secondo i piani di queste ore -  quando un fondo d'investimento controllato indirettamente dal ministero dell'Economia si unirà a due grandi soggetti privati, gli anglo-francesi di Arcelor-Mittal e il gruppo Marcegaglia, per riacquistare l'azienda dopo una prima fase di risanamento.

Il tempo stringe per trovare una soluzione che garantisca la continuità delle operazioni all'Ilva, il gruppo dell'acciaio che occupa 11.000 persone e mantiene un indotto almeno altrettanto vasto. Forse già il 22 dicembre, secondo un'ipotesi di lavoro a Palazzo Chigi, il consiglio dei ministri approverà il prossimo provvedimento: il passaggio allo Stato del gruppo, oggi formalmente di proprietà della famiglia Riva, attraverso l'amministrazione straordinaria prevista per le imprese in dissesto dalla Legge Marzano. Quella procedura è già stata applicata per mantenere in attività grandi aziende fallite, a partire dalla Parmalat.

Ma l'Ilva è un caso diverso. Non è formalmente insolvente, dunque la stessa legge Marzano dovrà forse essere adattata. È quattro volte più grande del maggiore gruppo italiano che sia mai finito in amministrazione straordinaria, e presenta problemi industriali quasi insolubili. Ha 350 milioni di euro di debiti verso i fornitori e 35 miliardi di richieste per danni ambientali da parte della comunità di Taranto: negli ultimi anni in città si è misurato un aumento del 30% dei tumori fra gli uomini e del 20% fra le donne. In più, Ilva deve affrontare una bonifica degli impianti da 1,8 miliardi e poi rispettare nuovi vincoli di tutela dell'ambiente così costosi che la metterebbero fuori mercato. Del caso si occupano a Palazzo Chigi due consiglieri di Matteo Renzi, l'ex amministratore delegato di Luxottica Andrea Guerra e l'economista della London School of Economics Marco Simoni. Li segue dal ministero dello Sviluppo anche la titolare, Federica Guidi, e l'attuale commissario dell'Ilva, Piero Gnudi.

Ma è ormai chiaro che l'acciaieria di Taranto sta diventando per Renzi ciò che la crisi dell'auto fu per Barack Obama nel 2009: il banco di prova su cui si misura la capacità del leader di salvare una parte vitale del sistema industriale, prima nazionalizzandola, poi risanando per rivenderla a prezzo di mercato. Ma il fatto che sia riuscito a Obama con Chrysler o Gm non significa che riesca a Palazzo Chigi con l'acciaio. Già il prossimo passo sarà difficile. In queste ore il governo sta cercando un commissario straordinario che sappia gestire un gruppo colossale e conosca l'industria dell'acciaio meglio di Gnudi. A questo "zar dell'acciaio" andrà affiancata in tempi brevi  -  altra incognita  -  una squadra di 50 manager di primo livello. E subito il nuovo gruppo dirigente dell'Ilva, strappata alla proprietà dei Riva e nazionalizzata nel dissesto ambientale, troverà davanti a sé un formidabile ostacolo tecnico: a marzo dovrà chiudere l'altoforno 5 di Taranto, origine di metà della produzione, e investire 320 milioni per ricostruirlo.

Nel frattempo il governo si prepara, con cautela, a gestire il problema dei vincoli ambientali. L'attuale autorizzazione a operare del ministero dell'Ambiente è così restrittiva che supera le prescrizioni dell'Unione europea e obbligherebbe a costi di manutenzione giudicati insostenibili. L'intenzione del governo è di correggere al ribasso le regole sulle emissioni, portandole in linea con i parametri europei. Sarà un'operazione delicata: Renzi non dimentica che a maggio si vota in Puglia per le regionali e per allora vuole mantenere in funzione l'Ilva nazionalizzata, senza provocare proteste a Taranto per l'inquinamento degli impianti. Ammesso che riesca, l'intero processo dovrebbe poi preparare il passaggio successivo. L'idea sulla quale si lavora nel governo prevede la vendita del gruppo fra un anno a una cordata con tre attori forse uniti in una società-veicolo ad hoc. Il 51% dell'acquirente dovrebbe essere composto da Marcegaglia e Arcelor-Mittal, il primo gruppo mondiale dell'acciaio. Il 49% spetterebbe invece al Fondo strategico italiano, di proprietà della Cassa depositi e prestiti, per l'80% controllata dal Tesoro.

Per Mittal, Ilva può diventare il primo impianto europeo, sede di un quinto della sua produzione del continente, e per questo gli indiani sarebbero disponibili a investire 2,5 o 3 miliardi in cinque anni per completare la bonifica. La presenza del fondo di Cdp servirebbe invece a rassicurare i regolatori, in modo che la magistratura tolga il sequestro ancora in vigore sull'impianto. In un secondo tempo poi Cdp uscirebbe, lasciando l'Ilva risanata ai soli azionisti privati. Fin qui il disegno del governo, sul quale gravano delle incognite. Difficilmente per esempio Arcelor-Mittal e Marcegaglia prenderanno impegni prima di aver valutato il lavoro del commissario straordinario. Per l'Italia, non solo per Renzi, è l'ultimo esame d'appello per capire se il Paese è ancora in grado di difendere la sua base industriale.

© Riproduzione riservata

Da - http://www.repubblica.it/economia/2014/12/13/news/ilva_s_al_supercommissario_tra_un_anno_stato_al_49_e_mittal-marcegaglia_al_51_-102771473/?ref=HRER2-1


Titolo: Federico FUBINI. Per salvare la moneta unica la Bce e Berlino sono pronti a...
Inserito da: Admin - Gennaio 01, 2015, 11:49:34 am
Per salvare la moneta unica la Bce e Berlino sono pronti a rivedere il Trattato europeo
La vigilanza bancaria potrebbe essere affidata a un'autorità indipendente e non più all'Eurotower

Di FEDERICO FUBINI
30 dicembre 2014
   
IN PRIVATO, Jean-Claude Juncker va dicendo che quella che lui presiede è la Commissione europea "dell'ultima chance". Al suo piano di investimenti il lussemburghese ha dato un orizzonte di tre anni, perché è convinto che questo sia lo spazio rimasto all'euro per dimostrare di poter resistere alla prossima recessione. Non pensa di avere molto tempo di più: neanche ora che i governi più influenti e la stessa Bce, con discrezione, si preparano a rimettere mano al Trattato europeo nel 2015 per raddrizzare l'edificio della moneta unica.

Gli interventi dovrebbero toccare alcune delle innovazioni che i governi europei lanciarono due anni fa per fermare l'implosione del sistema, a partire dall'unione bancaria. La vigilanza sulle banche fu affidata alla Bce, ma ora rischia di entrare in conflitto con le scelte dell'Eurotower sui tassi d'interesse o la liquidità da offrire agli istituti stessi. Di qui l’idea -  presente anche a Berlino -  di creare un'autorità europea indipendente votata a sorvegliare gli istituti di credito. Come sempre però, quando i governi riaprono il Trattato che li lega, è facile capire da dove partiranno. Meno chiaro è fino a dove si spingeranno poi nel conferire a Bruxelles nuovi poteri sui bilanci pubblici, sul mercato del lavoro, le liberalizzazioni, la modernizzazione delle burocrazie o i sistemi di welfare.

Il 2015 promette di essere decisivo per capire se l'area euro può rafforzarsi andando avanti e avere un futuro, ma l'anno inizia da un nuovo terremoto con epicentro ad Atene. Syriza si sta avvicinando al potere in Grecia grazie alla promessa di ripudiare buona parte del debito verso gli altri Paesi europei. Non sarà una passeggiata. Nel 2015 Atene deve rimborsare agli investitori privati titoli per 16 miliardi di euro: se voltasse le spalle all'Europa e i creditori le tagliassero i rifornimenti, il prossimo governo greco non avrebbe altra scelta che tornare a stampare moneta propria per continuare ad esistere. Sarebbe un segnale per tutti, Italia inclusa, che l'euro non è per sempre e il solo sospetto che la porta d'uscita si è aperta può bastare a far salire i tassi d'interesse verso livelli pericolosi.

Per questo il calendario del prossimo mese ricorda il percorso in un campo minato. Fra nove giorni il consiglio direttivo della Bce si riunisce per discutere se e cosa decidere all'incontro seguente, fissato tre giorni prima delle elezioni greche del 25 gennaio. Le ipotesi sul tavolo sono note: fra i 24 banchieri centrali al vertice dell'Eurotower c'è un'ampia maggioranza per iniettare nuova liquidità nell'economia lanciando un piano di acquisti di titoli di Stato da almeno 500 miliardi di euro. Senza interventi di questa taglia -  probabilmente da raddoppiare o triplicare nei prossimi anni -  l'Europa non può emergere dalla deflazione che ora sta aumentando in modo insostenibile il peso dei debiti pubblici e privati in tutta l'area. Jens Weidmann, il presidente della Bundesbank, è contrario: per lui mettere sul bilancio della Bce titoli di Stato di Roma, Madrid o Lisbona significa esporre la Germania a perdite se quei Paesi facessero default, perché la Bundesbank è azionista dell'Eurotower per circa il 30% del capitale. Di qui i dilemmi di Draghi e il percorso di guerra che gli si presenta nelle prossime quattro settimane. La pressione per varare gli interventi sui titoli di Stato prima delle elezioni greche è massima, perché l'euro ha bisogno di una nuova rete di sicurezza prima che da Atene arrivino nuove scosse. La banca centrale può sempre decidere di escludere la carta greca dagli acquisti, fino a quando il nuovo governo non deciderà se continuare o meno il programma di assistenza europea.

Anche così, per Draghi resta tutt'altro che facile mettere in minoranza la Bundesbank e obbligare la Germania -  contro la sua volontà -  a farsi carico tramite la Bce del rischio su centinaia di miliardi di debito italiano, portoghese o spagnolo. Ancora meno lo è mentre un governo del Sud Europa annuncia il suo rifiuto a ripagare i prestiti ricevuti.

Weidmann ha suggerito che può accettare un compromesso, anticipato su Repubblica il 4 dicembre: ciascuna banca centrale nazionale terrebbe su di sé tutto il rischio di insolvenza sui titoli del proprio Stato. Il rischio sui Btp del Tesoro di Roma comprati dalla Bce sarebbe concentrato tutto sulla Banca d'Italia, quello sui Bonos alla Banca di Spagna, e così via. Anche questa ipotesi però ha controindicazioni, perché può segnare un cambio profondo nella natura delle istituzioni europee. Oggi il 34% del debito italiano (circa 620 miliardi) è in mano a investitori esteri, ma questi ultimi finirebbero per vendere rapidamente alla Bce i loro titoli del Tesoro, la quale a sua volta li trasferirebbe alla sola Banca d'Italia. In poco tempo il rischio del debito italiano finirebbe concentrato tutto entro i confini del Paese, l'Italia sarebbe finanziariamente separata dal resto d'Europa più di 20 anni fa e l'unione monetaria somiglierebbe sempre di più a un gruppo di Paesi con cambi fissi, ma in attesa di andare ciascuno per la sua strada. Con o senza insolvenza pilotata sul debito, a carico unicamente dei risparmiatori e contribuenti nazionali. Non il modo migliore di iniziare l'anno che, finalmente, dovrebbe dare all'euro un futuro migliore.


© Riproduzione riservata 30 dicembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/economia/2014/12/30/news/per_salvare_la_moneta_unica_la_bce_e_berlino_sono_pronti_a_rivedere_il_trattato_europeo-103983364/?ref=HREC1-2


Titolo: Federico FUBINI. Ecco le Uber dei prestiti: dall’americana Lending ai gruppi...
Inserito da: Admin - Gennaio 05, 2015, 05:10:35 pm
Ecco le Uber dei prestiti: dall’americana Lending ai gruppi inglesi e cinesi, il web sfida le banche

Come l’azienda che ha destabilizzato il mondo dei taxi, le società che prestano soldi via Internet con il sistema “peer to peer” provano a rivoluzionare il settore bancario

Di FEDERICO FUBINI
31 dicembre 2014
   
IERI sera una società chiamata Lending Club stava salendo del 3% alla Borsa di New York, mentre il listino dell’S&P500 continuava a perdere colpi. È un’impresa piccola e giovane, che l’anno scorso ha chiuso il suo primo bilancio in utile (7 milioni di dollari), eppure a colpo d’occhio rivela alcuni aspetti singolari. Il primo: ha una valutazione completamente fuori scala rispetto alla sue capacità attuali di generare reddito, perché scambia in Borsa da appena due settimane ma capitalizza già più di nove miliardi di dollari.
I nomi che presenta in consiglio di amministrazione - seconda stranezza - sembrano più adatti una banca dell’antica aristocrazia del denaro di Wall Street: non a una start-up di San Francisco fondata nel 2010. Fra loro c’è l’ex segretario al Tesoro e consigliere economico di Barack Obama, Larry Summers, e John Mack, l’uomo che guidò Morgan Stanley nella tempesta finanziaria del 2008. Entrambi sono azionisti, stanno moltiplicando la loro ricchezza dopo un balzo in Borsa del 60% nel primo giorno di quotazione a Wall Street e la loro presenza segnala che qualcosa sta per accadere.

I molti sostenitori ritengono di sapere cosa sia: Lending Club e i suoi molti concorrenti come Prosper negli Stati Uniti o Funding Circle in Gran Bretagna diventeranno per le banche ciò che Uber è per i taxi, Bookings. Com, Edreams o Airbnb è per le agenzie di viaggio, eBay per i mercatini delle pulci, iTunes per i negozi di dischi, Amazon per le librerie o YouTube per la televisione. I destabilizzatori dei vecchi modelli industriali. È Internet che ancora una volta irrompe in un settore tradizionale, questa volta il credito, e sfida i protagonisti tradizionali con le armi della velocità e della convenienza: questa volta le banche.

Dagli Stati Uniti, alla Gran Bretagna, alla Germania, fino alla Cina, esistono una trentina di questi prestatori basati sul web. Estendono soprattutto prestiti al consumo e alle piccolissime imprese, per alcune decine di miliardi di dollari l’anno. Ne esistono anche in Italia - fra questi Smarika - ma non hanno piena autorizzazione ad operare da parte dei regolatori. I prestiti di Lending Club o dei suoi concorrenti sono strutturalmente diversi da quelli delle banche: funzionano su base "peer to peer" (da pari a pari) o "marketplace lending". In altri termini, questi società sul web gestiscono algoritmi capaci di analizzare miliardi di dati sui debitori, formulare una stima statistica del rischio che essi rappresentano, fissare un tasso d’interesse e smistare loro i prestiti che arrivano dagli investitori. Nella formula di base, è un modello simile a eBay. L’azienda non presta i propri fondi come farebbe una banca, ma intermedia fra investitori nel credito e famiglie o piccole imprese che cercano di finanziarsi. Spesso il debitore ha bisogno di denaro per pagare bollette o rimborsi sulla carta di credito e il prestatore cerca rendimenti superiori a quelli dei titoli di Stato. L’azienda guadagna chiedendo una commissione ai prestatori (di solito l’1% dell’operazione) e ai debitori (di solito fra i 2% e il 5%), secondo la boutique di Lugano Compass.

Nelle forme più sviluppate di "marketplace lending", come quella praticata da Lending Club, questi sistemi agiscono come una Borsa valori. Il New York Stock Exchange o Borsa italiana sono un luogo di incontro elettronico fra le imprese quotate e milioni di compratori o venditori delle loro azioni, che non si incroceranno mai fisicamente ma trattano tramite la società di borsa. Allo stesso modo, i software dei siti di prestiti lavorano su quantità colossali di dati non solo finanziari (ubicazione geografica, età, interessi, navigazione su web, acquisti online, social network) per valutare chi chiede un prestito e farlo incontrare con chi offre credito. Privi di filiali, con personale ridotto ma specializzato, queste imprese attraggono interesse perché hanno costi di gestione del 60% più bassi di quelli di una banca, dunque riescono a fare credito a tassi inferiori e a offrire rendimenti superiori a chi investe. In Gran Bretagna all’inizio del mese una società online di nome Zopa praticava prestiti personali al 4,9%, mentre il tasso medio delle banche era al 6,3%. Negli Stati Uniti i rendimenti offerti da Lending Club attraggono tanto denaro da fondi speculativi e investitori istituzionali che l’azienda ha dovuto rallentare i sistemi di software per lasciar spazio anche al credito offerto dai piccoli risparmiatori.

È una palla di neve che ha appena iniziato a rotolare: i prestiti personali di Lending Club sono appena 4 miliardi l’anno, un millesimo di quelli delle banche. E come sempre, non mancano i problemi: l’euforia speculativa a Wall Street, in prospettiva la distruzione di posti di lavoro nei vecchi sportelli di banca, e i conflitti d’interesse. Un’azienda così può essere tentata di presentare all’investitore un prestito come più sicuro di come sia in realtà, pur di concludere l’operazione. Nel frattempo la palla di neve rotola ancora: l’Italia ha la scelta se affrontarla e gestirla adesso, oppure fra qualche anno esserne semplicemente investita.

© Riproduzione riservata 31 dicembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/economia/2014/12/31/news/ecco_le_uber_dei_prestiti_dallamericana_lending_ai_gruppi_inglesi_e_cinesi_il_web_sfida_le_banche-104052204/?ref=HRER2-1


Titolo: F. FUBINI. Tra gli abbienti sale il ceto produttivo, giù quello delle rendite
Inserito da: Admin - Gennaio 19, 2015, 07:09:11 am
La crisi raddoppia il patrimonio alle dieci famiglie più ricche di 20 milioni di italiani
A partire dal 2008 drastico allargamento delle distanze sociali.
Tra gli abbienti sale il ceto produttivo, giù quello delle rendite

di FEDERICO FUBINI
19 gennaio 2015
   
ROMA - Mentre crollava Lehman Brothers, falliva la Grecia, l'America eleggeva il primo presidente nero, l'ultimo governo di Silvio Berlusconi scivolava via, mentre la Cina cresceva del 60% e Apple diventava la società di maggior valore al mondo, in Italia si consumava un evento storico. In sordina, però. Magari tutti erano troppo presi a seguire gli altri eventi, quelli che hanno segnato le prime pagine dal 2008 in poi, per accorgersene. Eppure non era invisibile, perché è stato uno spettacolare doppiaggio a grande velocità.

E' andata così. Nel 2008 la ricchezza netta accumulata del 30% più povero degli italiani, poco più di 18 milioni di persone, era pari al doppio del patrimonio complessivo delle dieci famiglie più ricche del Paese. I 18,1 milioni di italiani più poveri in termini patrimoniali avevano, messi insieme, 114 miliardi di euro fra immobili, denaro liquido e risparmi investiti. Le dieci famiglie più ricche invece arrivavano a un totale di 58 miliardi di euro. In altri termini persone come Leonardo Del Vecchio, i Ferrero, i Berlusconi, Giorgio Armani o Francesco Gaetano Caltagirone, anche coalizzandosi, arrivavano a valere più o meno la metà di un gruppo di 18 milioni di persone che, in media, potevano contare su un patrimonio di 6.300 euro ciascuno.

Cinque anni dopo, e siamo nel 2013, sorpasso e doppiaggio sono già consumati: le dieci famiglie con i maggiori patrimoni ora sono diventate più ricche di quanto lo sia nel complesso il 30% degli italiani (e residenti stranieri) più poveri. Quelle grandi famiglie a questo punto detengono nel complesso 98 miliardi di euro. Per loro un balzo in avanti patrimoniale di quasi il 70%, compiuto mentre l'economia italiana balzava all'indietro di circa il 12%. I 18 milioni di italiani al fondo delle classifiche della ricchezza sono scesi invece a 96 miliardi: una scivolata in termini reali (cioè tenuto conto dell'erosione del potere d'acquisto dovuta all'inflazione) di poco superiore al 20%. Quanto poi a quelli che in base ai patrimoni sono gli ultimi dodici milioni di abitanti, il 20% più povero della popolazione del Paese, lo squilibrio è ancora più marcato: nel 2013 le 10 famiglie più ricche d'Italia hanno risorse patrimoniali sei volte superiori alle loro.

Sono questi i risultati più sorprendenti di un approfondimento che Repubblica ha svolto sui patrimoni degli italiani durante gli anni della crisi. L'analisi si basa sui dati pubblicati dalla Banca d'Italia relativi alla ricchezza netta nel Paese e la sua suddivisione fra strati sociali. Per le famiglie con i dieci maggiori patrimoni, una lista che negli anni è cambiata, le informazioni sono tratte dalla classifica annuale dei più ricchi stilata dalla rivista Forbes. Inevitabilmente né l'una né l'altra serie di dati è perfetta, molte informazioni sui patrimoni non sono pubbliche e restano soggette a stime più o meno accurate. Ma le tendenze emergono con prepotenza e raccontano due storie di segno diverso. La prima non è a lieto fine: dal 2008 l'Italia ha subito un colossale abbattimento di ricchezza che si è scaricato con forza verso la parte bassa della scala sociale, mentre al vertice tutto si svolgeva in modo opposto. Lassù il ritmo dell'accumulazione di patrimoni personali accelerava come forse mai negli ultimi decenni. La seconda storia invece fa intravedere un po' di luce in fondo al tunnel, perché la lista dei super-ricchi è cambiata in modo tale da alimentare qualche speranza sulle capacità del Paese di produrre in futuro più innovazione, lavoro e reddito e meno rendite più o meno parassitarie.

Sicuramente il punto di partenza di questi anni non è incoraggiante. Calcolata in euro del 2013, la ricchezza netta totale degli italiani crolla di 814 miliardi negli ultimi cinque anni (quelli per i quali sono disponibili i dati, fino appunto al 2013). Sparisce nella voragine della recessione quasi un decimo di patrimonio netto delle persone che vivono in questo Paese. Circa due terzi di questa erosione si spiega con il calo del valore delle case, mentre il resto è dovuto a perdite finanziarie o al ricorso di certe famiglie ai risparmi per sostenere le spese quotidiane. Per la parte della ricchezza in mano ai ceti meno ricchi, Repubblica assume che la loro quota nel 2013 sul totale del patrimonio degli italiani sia rimasta invariata rispetto al 2010: è ad allora che risalgono gli ultimi dati disponibili. In realtà questa è una stima ottimistica, perché la tendenza alla diminuzione della quota di patrimonio dei più poveri è evidente dagli anni precedenti. Nel 2000 per esempio il 40% più povero della popolazione residente in Italia, 24 milioni di persone, aveva patrimoni pari al 4,8% della ricchezza netta totale del Paese. Dieci anni dopo quella quota era già scesa al 4,2%.

Anche così, il calo dei patrimoni della "seconda" metà d'Italia, l'Italia meno ricca, è superiore alla media del Paese. Chi è già povero si impoverisce più in fretta. Nel 2013 quei 30 milioni di italiani avevano nel complesso 829 miliardi (mentre gli altri 30 controllavano gli altri 8500). Nel 2008 però quegli stessi 30 milioni di persone avevano (in euro 2013) per l'esattezza 935 miliardi. Dunque la "seconda" metà del Paese durante la Grande Recessione è andata giù dell'11,3% in termini patrimoniali. La prima metà invece, i 30 milioni di italiani più ricchi, è scesa dell'8,2%. Gli uni non solo erano molto più poveri degli altri prima della crisi: si sono impoveriti di più durante. Tutt'altro Paese invece per le prime dieci famiglie. La loro ricchezza netta sale di oltre il 60% in termini reali fra il 2008 e il 2013 e la loro quota sul patrimonio totale degli italiani aumenta. Cambia però anche un altro dettaglio: la loro composizione. I più ricchi del 2013 non sono gli stessi del 2008 o del 2004 e per certi aspetti formano una lista più interessante. Ora nel gruppo si trovano famiglie meno dedite alle rendite di posizione, alla speculazione pura o al rapporto con la politica per fare affari. Adesso dominano i primi posti imprenditori più impegnati nella creazione di valore, lavoro e manufatti innovativi che interessano al resto del mondo.

Negli anni, escono dalla graduatoria di Forbes o scivolano in basso i capitalisti italiani che basano i loro affari su concessioni pubbliche o investimenti immobiliari e finanziari. Emblematica - non isolata - la vicenda dei Berlusconi, che negli ultimi cinque anni perdono 3,2 miliardi di patrimonio e scivolano dal primo posto del 2004, al terzo del 2008, al sesto del 2013. Sale in fretta invece il patrimonio di produttori industriali dediti all'export. Succede nell'alimentare (i Ferrero o i Perfetti), nella moda e lusso (Del Vecchio di Luxottica, Giorgio Armani, Miuccia Prada e Patrizio Bertelli, Renzo Rosso), nella farmaceutica e nell'industria ad alto contenuto tecnologico (Stefano Pessina o i Rocca di Techint). Escono dalla top ten invece investitori finanziari-immobiliari come Caltagirone o chi in passato ha puntato troppo sulle banche. Questa diversa qualità del capitale vincente è un passo avanti di un'Italia sempre più piena di squilibri. È un Paese che forse però si sta liberando, nel dolore, di alcuni dei peggiori vizi del suo capitalismo. Meglio, quanto a questo, della Gran Bretagna, dove Oxfam ha condotto un'inchiesta di cui questa di Repubblica è la replica per l'Italia. Lì i più ricchi, sempre più ricchi, restano gli eredi della vecchia nobiltà proprietaria di decine di ettari di palazzi a Londra come il duca di Westminster o i Cardogan, o imprenditori indiani come gli Hinduja o i Reuben. Se risolverà il problema della povertà, e uscirà dalla crisi, forse è l'Italia fra le due a potersi ritrovare con una marcia in più.

© Riproduzione riservata 19 gennaio 2015

Da - http://www.repubblica.it/economia/2015/01/19/news/la_crisi_raddoppia_il_patrimonio_alle_dieci_famiglie_dei_paperoni_ora_pi_ricche_di_20_milioni_di_italiani-105248084/?ref=HRER1-1


Titolo: Federico FUBINI. "Quantitative easing", più moneta in circolazione: la rete...
Inserito da: Admin - Gennaio 22, 2015, 05:27:15 pm
"Quantitative easing", più moneta in circolazione: la rete dell'Eurotower contro la caduta dei prezzi
Che cos'è, come funziona e a che serve l'allentamento quantitativo delle condizioni monetarie nell'area euro: I tassi dovrebbero scendere e l'export crescere

Di FEDERICO FUBINI
22 gennaio 2015

MARIO Draghi, 67 anni, è probabilmente arrivato al giorno più importante da quando, dall'inizio di novembre del 2011, riveste il ruolo di presidente della Banca centrale europea. Salvo destabilizzanti sorprese, oggi alle 14,30 annuncerà da Francoforte ciò che i mercati in tutto il mondo aspettano: il "quantitative easing " (QE), l'allentamento "quantitativo" delle condizioni monetarie nei 19 Paesi dell'area euro.

1. Che cos'è il quantitative easing?
Questo termine è entrato con forza nella discussione pubblica nel 2009, quando la Federal Reserve varò il primo programma di acquisto di titoli del Tesoro e di titoli immobiliari americani dopo il fallimento di Lehman Brothers nel settembre del 2008. QE significa esattamente questo: creazione da parte di una banca centrale di moneta il cui valore è basato sulla fiducia nell'assetto istituzionale e nei fondamentali economici alle sue spalle; questa moneta viene creata con il QE per comprare sul mercato titoli pubblici o privati, immettendo così liquidità nell'economia.

2. Perché la Bce vuole lanciare questo programma?
Il compito primario della Bce è garantire la stabilità dei prezzi: né troppa inflazione né una caduta nel fenomeno opposto, la deflazione. È ben noto infatti che con la deflazione cadono i consumi e gli investimenti, l'economia ristagna e il peso del debito aumenta. L'obiettivo statutario della Bce è un carovita nella zona euro "vicino ma sotto al 2%", ma oggi lo sta mancando. Il tasso d'inflazione nell'area è in frenata dall'inizio del 2012 e dall'ottobre del 2013 ha improvvisamente rallentato sotto l'1%. Da allora è calato ancora di più, fino a diventare negativo in dicembre (-0,2%), segnalando una contrazione dei prezzi. La Bce deve riportarlo all'obiettivo, ma non può più farlo con la tecnica convenzionale di ridurre i tassi d'interesse richiesti sui prestiti che pratica alle banche. Dopo vari tagli, quei tassi sono infatti già a zero. Non resta che la via "quantitativa", cioè la creazione di moneta: il QE.

3. Come funziona il QE?
Nella sua visione più semplice, il QE può contribuire a risollevare la dinamica dei prezzi verso livelli normali proprio per effetto della quantità di moneta. Una quantità maggiore di euro in circolazione (3.000 miliardi invece di 2.000, secondo l'obiettivo espresso dalla Bce), a parità di prodotti in vendita, dovrebbe alzare il costo in euro di beni e servizi. L'esperienza della Fed, che con il QE dal 2008 a oggi ha espanso il suo bilancio da circa 600 miliardi a quasi 4.500 miliardi di dollari, dimostra le cinghie di trasmissione dalla banca centrale alla vita delle imprese e dei cittadini sono in realtà più articolate. Il QE della Fed ha ridotto i tassi a lungo termine in America, cioè il costo sostenuto da un imprenditore o da una famiglia per indebitarsi. In parte i tassi dei titoli a lungo termine scendono proprio perché dalla banca centrale arriva un'onda di liquidità per comprare quei bond. In parte lo fanno perché chi vende quei bond alla banca centrale, reinveste poi i proventi comprandone altri titoli sul mercato, dunque l'effetto di riduzione dei tassi si trasmette a cerchi concentrici in molte parti dell'economia. A loro volta tassi più bassi favoriscono gli investimenti, l'occupazione e la ripresa dell'attività e dei prezzi al consumo. L'altro effetto del QE, conseguenza diretta della enorme quantità di denaro creata, una svalutazione la moneta e dunque un aiuto all'export.

4. in Europa il QE può funzionare bene come negli Stati Uniti?
Alcuni indizi fanno sospettare di no. Un motivo di fondo è che le imprese in Europa e soprattutto in Italia attingono al credito in modo diverso rispetto a come avviene in America. Negli Stati Uniti le imprese si finanziano presso le banche per circa il 27% del credito che ottengono, e per il resto lo fanno emettendo titoli di debito (bond) sui mercati. Per loro l'aiuto della Fed, che riduce i tassi sui bond a sette o dieci anni, è dunque prezioso. In Europa invece circa metà del credito alle imprese passa dalle banche e in Italia la quota è ancora più alta. Per quanto riguarda poi le piccole e medie imprese, quelle dove si trova la gran parte dell'occupazione, il credito in bond in Europa rappresenta una frazione inferiore al 5% dei finanziamenti totali. Per funzionare in pieno in Europa, il QE dovrebbe essere accompagnato da un forte taglio delle tasse. Ma questo è reso più difficile dai vincoli europei al bilancio. Sta già funzionando in Europa l'altra cinghia di trasmissione del QE, la svalutazione della moneta che aiuta l'export. Da maggio scorso l'euro è già caduto del 15% sul dollaro e del 9% sul paniere delle valute dei Paesi con i quali gli europei commerciano di più.

5. Perché la Bundesbank è contraria al QE?
La Banca centrale tedesca teme che il QE, riducendo gli spread e i tassi sul debito pubblico, tolga la pressione al risanamento e alle riforme dai governi dei Paesi più fragili. Inoltre, ritiene scorretto che la Bce comprando quei titoli, assuma su di sé il rischio di subire perdite se quei Paesi facessero default. Quelle perdite infatti potrebbero essere suddivise pro-quota sulle banche centrali nazionali azioniste della Bce. Bundesbank inclusa.

© Riproduzione riservata 22 gennaio 2015

Da - http://www.repubblica.it/economia/2015/01/22/news/quantitative_easing_pi_moneta_in_circolazione_la_rete_dell_eurotower_contro_la_caduta_dei_prezzi-105484474/?ref=HREA-1


Titolo: Federico FUBINI. Perché tutti vogliono le aziende di Berlusconi
Inserito da: Admin - Maggio 01, 2015, 11:34:03 am
Perché tutti vogliono le aziende di Berlusconi
L'analisi/ Da quando l'ex Cavaliere si è allontanato dal potere, qualcosa è cambiato nelle sue finanze

Di FEDERICO FUBINI

POCHE circostanze sembrano giovare alle fortune finanziarie di Silvio Berlusconi come il suo allontanamento dal potere. Da quando l'ex presidente del Consiglio è diventato tale, un primo ministro del passato, il valore della sua partecipazione in Mediaset è cresciuto di 1,2 miliardi di euro e quello della quota in Mediolanum, il gruppo di servizi finanziari, di un miliardo e mezzo.
Ne scrive Ettore Livini oggi sul nostro giornale. Sarebbe frettoloso e inesatto affermare che Berlusconi è più ricco da quando non è più premier semplicemente perché non lo è più. Nel frattempo, è accaduto qualcosa di più grande di lui e delle sue aziende. Passo dopo passo, l'Italia ha coperto il lungo viaggio di ritorno dai momenti più cupi del terremoto dell'euro del 2011 e 2012. Da allora si sono succeduti gli impegni e gli interventi della Banca centrale europea, prima a parole e poi a colpi di centinaia di miliardi di euro, che hanno finito per riportare nel Paese enormi quantità di capitali. Si può però essere perdonati se resta vivo un sospetto: l'aver lasciato il posto di Palazzo Chigi a uomini più competenti di lui, ha permesso a Berlusconi di risollevarsi almeno nel portafoglio. In modi diversi, i governi di Mario Monti, Enrico Letta e Matteo Renzi hanno facilitato i progressi in Europa e sui mercati che l'ex Cavaliere proprio non riusciva ad ispirare.
Non è un caso se oggi le imprese di Berlusconi siano corteggiate dai grandi protagonisti del settore globale dei media: Rupert Murdoch, padre padrone di NewsCorp e della sua controllata italiana Sky; e Vincent Bolloré, socio di Berlusconi stesso in Mediobanca (al 5% il primo, al 2% il secondo), dal prossimo giugno primo azionista di Telecom Italia con l'8,3% dei diritti di voto e già ora detentore di fatto del controllo del colosso francese dei media Vivendi.
In questo, Berlusconi finisce per far parte di una tendenza che non riguarda solo lui. Dopo molti anni l'Italia sta risalendo verso la vetta delle classifiche globali delle acquisizioni dall'estero. Capitalisti stranieri pubblici e privati sono interessati alle imprese italiane come non accadeva da tempo. L'accordo di ChinaChem su Pirelli è solo il caso più vistoso, ma l'indice di fiducia degli investitori esteri redatto dal gruppo di consulenza A. T. Kearney quest'anno mette l'Italia (in risalita) al 12esimo posto al mondo: affiancata all'India, e davanti a Olanda, Svizzera o Singapore. Non è detto che fuori dai confini si creda davvero che questo Paese stia entrando in una fase crescita sostenuta, ma questo interesse ha solide ragioni: qui la ripresa sta arrivando in ritardo rispetto al resto d'Europa, i prezzi delle imprese sono ancora relativamente bassi e la prospettiva di strappare dei buoni affari fa gola a molti fuori dai confini.
Entra così in scena il bretone Bolloré, grande conoscitore dell'Italia. Ha appena investito pesantemente per il controllo di fatto di Vivendi, un gruppo secondo solo a Google  -  nel settore dei media  -  per la cassa da spendere in acquisizioni. Pochi mesi Bolloré ha dichiarato che vuole far di Vivendi una "Bertelsmann a' la française ". Bertelsmann è un colosso tedesco che controlla testate televisive, società editrici di libri, di giornali e di dischi in vari Paesi: se questo è il modello, Bolloré ha bisogno obiettivi abbordabili e sufficientemente corposi da contare qualcosa per un gruppo come il suo. E Mediaset ha alcune di queste caratteristiche: se prendesse una robusta partecipazione di minoranza come socio industriale di Berlusconi, il finanziere francese potrebbe partecipare alla produzione di contenuti televisivi e sperare di entrare in Italia anche con Canal+. A quel punto la pay-tv di Vivendi porterebbe una sfida diretta a Sky.
Murdoch deve aver fiutato la minaccia. L'altro giorno il magnate australiano era ad Arcore a discutere anche lui con l'ex Cavaliere di possibili aggregazioni e di come difendere il territorio conquistato da Sky nella pay-tv. È una partita alle prime battute, nella quale i protagonisti studiano le opzioni possibili senza ancora puntare a chiudere in tempi rapidi. C'è però già un punto fermo: Bolloré in Italia è già oggi potenzialmente più influente di qualunque capitalista italiano. Non si limita a essere secondo azionista di Mediobanca e a far sentire il suo peso nel consiglio delle Generali. È anche primo azionista di Telecom Italia, il gruppo che in un futuro non troppo lontano trasporterà sui suoi cavi in fibra ottica gran parte dell'offerta televisiva nel Paese. Se dunque Vivendi avesse una posizione dominante nella società che distribuisce i contenuti tv nelle case italiane e nel frattempo concorresse con altre società nel vendere (anche) i propri contenuti, magari in tandem con Berlusconi, scatterebbe un obbligo: il governo e le autorità di controllo devono garantire che non si creino abusi. I conflitti d'interesse vanno sciolti o tenuti sotto controllo.
Gli investitori trasparenti dal resto d'Europa e del mondo sono benvenuti e necessari in Italia: portano lavoro, tecnologie, stabilità. Purché non replichino le stesse distorsioni di mercato di quando Berlusconi era premier e tycoon. Quelle, si sa, portano sfortuna anche a chi le crea.

© Riproduzione riservata
30 aprile 2015

Da - http://www.repubblica.it/economia/2015/04/30/news/perche_tutti_vogliono_le_aziende_di_berlusconi-113190188/?ref=HRER1-1


Titolo: Federico FUBINI. In venti giorni Tsipras si è trasformato da una versione ...
Inserito da: Admin - Agosto 02, 2015, 04:27:25 pm
Da eversore a pragmatico: la parabola di un leader dopo referendum e voto
In venti giorni Tsipras si è trasformato da una versione europea di Hugo Chávez in una di Ignacio Lula da Silva

Di Federico Fubini

ATENE Sono passati venti giorni, ma ad Alexis Tsipras devono essere parsi più lunghi di tutto il resto della sua vita politica: una di quelle traversate così intense che si entra rivestiti di una certa identità, ma si esce irriconoscibili a se stessi. «Soffriamo ancora tutti di un disturbo da stress post-traumatico», ha riassunto l’altra sera il premier greco in diretta alla televisione nazionale, chiamando in causa la sindrome che tormenta certi militari rientrati vivi dall’Iraq.
Tsipras è tornato solo da una serie di vertici a Bruxelles. In che misura sia ancora vivo per la politica ellenica ed europea, lo potranno dire solo i prossimi mesi. Ma la domanda alla quale fin da subito vorrebbero poter rispondere in molti attorno a lui è ancora più spiazzante: a soli 40 anni, un leader è abbastanza duttile per potersi trasformare in 20 giorni da una versione europea di Hugo Chávez in una di Ignacio Lula da Silva? L’ex presidente brasiliano è il modello del leader arrivato al potere dalle periferie della sinistra, un uomo che rigettava l’ordine esistente ma poi riesce a lavorarci dentro senza perdere in coerenza. L’ex caudillo venezuelano è invece il suo opposto: un leader vanesio che rifiuta ed è rifiutato, votato allo status di paria internazionale e a nient’altro.

Da Chávez a Lula la strada può essere lunga, ma Tsipras si è messo a percorrerla dalla fine dello scorso mese in poi. Era un altro uomo, blindato dentro altre idee e illusioni, quando a metà dell’ultima settimana di giugno è volato a Bruxelles per chiudere un accordo sui prestiti che dovevano permettere alla Grecia di superare l’estate. Era in realtà ancora di più diverso appena quando cinque mesi si era accomodato per la prima volta al Maximou, la residenza dei primi ministri di Grecia. Allora Tsipras parlava poche parole di inglese, oggi è in grado di condurre un negoziato vitale senza interpreti.

Ma giovedì 25 giugno a Bruxelles, racconta uno dei suoi amici di lunga data, il premier era ancora nella versione originale di se stesso. Convinto di poter piegare con i propri argomenti persino il governo tedesco. Incoraggiato dal suo ministro delle Finanze di allora Yanis Varoufakis, Tsipras pensava soprattutto di avere un’arma in più dalla sua: la minaccia di uscire dall’euro. Varoufakis ci lavorava davvero, come lui stesso poi ha ammesso due giorni fa. Riferiscono varie persone che hanno vissuto in diretta quei giorni, che il premier si era convinto di poter far breccia sul resto d’Europa grazie al fantasma della Grexit. Il suo ministro gli aveva spiegato che gli altri governi ne avrebbero avuto talmente paura, che allo scadere del piano di aiuti il 30 giugno avrebbero ceduto per non rischiare una tempesta finanziaria.

Con nervosismo, Tsipras e Varoufakis avevano registrato la persistente tregua sui mercati all’avvicinarsi della scadenza. Quindi il premier si era accorto che non solo la Grexit non impressionava: il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble la voleva persino. A quel punto Tsipras era in gabbia, cinque mesi di strategia negoziale finiti in pezzi a poche ore dalla fine del piano di aiuti. Per questo il premier si è disperatamente rifugiato nel referendum, sperando alla cieca che una vittoria potesse magari salvargli la faccia. Ed è per questo che di recente ha detto sul conto di Varoufakis, mandando quest’ultimo su tutte le furie: «Non basta essere un eccellente economista per diventare un buon politico».

Tsipras venti giorni dopo è un uomo diverso, più addentro ai rapporti di forza in Europa. Lo era già la sera del trionfo del «no» da lui sostenuto nel referendum: il suo ex amico Varoufakis ha raccontato di averlo trovato mesto nel suo ufficio, mentre poco lontano da lì la folla celebrava in piazza Syntagma. L’altra sera in diretta tivù il premier ha mostrato questa sua metamorfosi forgiata nell’esperienza estenuante di questi giorni. Ha riconosciuto che l’accordo di Bruxelles non gli piace, ma si era reso conto che l’uscita dall’euro sarebbe stata una disfatta per i più poveri. «Si sarebbero trovati nelle mani dracme svalutate - ha detto - con cui si può comprare poco». Tsipras ha aggiunto che ne avrebbero approfittato solo i ricchi, quelli che hanno già messo al sicuro i loro euro all’estero.
I greci sembrano averlo capito. Lo hanno seguito in massa nel «no» dieci giorni fa, ma ora lo fanno anche nel compromesso: secondo l’istituto Kapa, il 72% vuole l’accordo con l’Europa e il 68% vuole Tsipras come premier anche se il governo cambiasse. Lui ha commesso errori disastrosi e forse non è il leader adatto, ma è il solo che la Grecia oggi ha. Se sarà in grado di trasformarsi in un Lula dell’area euro, lo decideranno i prossimi mesi. E l’ossigeno che gli lasceranno i suoi creditori.

16 luglio 2015 (modifica il 16 luglio 2015 | 16:32)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/economia/15_luglio_16/da-eversore-pragmatico-parabola-un-leader-referendum-voto-fe693b86-2b91-11e5-a01d-bba7d75a97f7.shtml


Titolo: Federico FUBINI. Spending review Palazzo Chigi Sgravi da 161 miliardi: ecco...
Inserito da: Admin - Agosto 06, 2015, 11:40:10 am
Spending review Palazzo Chigi
Sgravi da 161 miliardi: ecco il piano dei tagli
Interventi su sanità, trasporto pubblico e servizi pubblici locali, ma il vero test saranno la partita sulle agevolazioni e quella sulle società partecipate

di Federico Fubini

La si potrebbe chiamare, se solo fosse così semplice, la soluzione all’uno per cento. Trovate quell’uno per cento nella matassa da 161 miliardi di sgravi fiscali e la spending review, l’operazione che mai nessun governo è riuscito a realizzare in modo stabile e intelligente, forse sembrerebbe più facile. In Italia la montagna delle agevolazioni e esenzioni fiscali per settori, gruppi d’interesse o cittadini in condizioni particolari oggi vale per l’esattezza 161,14 miliardi di euro l’anno (contro 442 miliardi di entrate tributarie). Molti di questi sgravi sono logici, altri meno, altri ancora sembrano solo ciò che sono: indifendibili regali. Eppure forse basterebbe trovare appena un centesimo di risparmi dentro questa enorme riserva di misure ad hoc per far quadrare a settembre i conti della più delicata operazione di taglio alla spesa degli ultimi anni.

La manovra d’autunno
Palazzo Chigi ne ha decisamente bisogno. Dopo l’annuncio di Matteo Renzi che nel 2016 sarà tagliata la Tasi, l’imposta comunale sulla casa, sta maturando nel governo la convinzione che servirà una manovra da 23 miliardi di euro. Ma essa potrebbe implicare meno sacrifici, e magari più deficit, di quanto non suggerisca una cifra del genere. I conti sono presto fatti. Sedici miliardi vanno trovati per non far scattare gli aumenti dell’Iva già innescati per legge, ma di questi (sulla carta) due dovrebbero venire dalla minore spesa per interessi sul debito e quattro dalla maggiore crescita dell’economia. Dieci miliardi di risparmi toccano poi alla “spending review”. Quanto ai sette che restano per arrivare a 23, essi dovrebbero servire per cancellare la Tasi, per un’iniziativa contro la povertà o per far partire un altro treno di decontribuzioni sui nuovi assunti con contratti permanenti. Ma queste misure hanno già l’aria di quelle da finanziare all’antica, in disavanzo.
È dunque inevitabile che una solida revisione della spesa da 10 miliardi diventi il muro portante della tenuta dei conti, e della credibilità dell’Italia in Europa o sui mercati. Il commissario alla “spending review” Yoram Gutgeld e Roberto Perotti, consigliere di Palazzo Chigi, presenteranno al governo un menù di misure di quella portata. Poi le scelte e le responsabilità saranno solo della politica.
Per ora lista delle voci candidate ai tagli è un dosatissimo cocktail di misure potenzialmente popolari, unite ad altre indigeste: c’è “mancato aumento” della spesa sanitaria, un intervento in nome dell’efficienza sul trasporto pubblico e sui servizi pubblici locali, un altro sugli acquisti di beni e servizi, una stretta sui ministeri e sui compensi dei dirigenti a tutti i livelli, un lavoro su Anas e Ferrovie dello Stato, e poi le pensioni di invalidità.
Ma la partita sulle agevolazioni e quella sulle società partecipate saranno il vero test. Anche e soprattutto delle resistenze che si preparano.

Lo sgravio fiscale ai partiti
L’enorme impatto delle agevolazioni fiscali, come emerge dal bilancio di previsione dello Stato per il 2015, può dare l’impressione che sia facile trovare dove tagliare. Certe voci aspettano solo la ghigliottina: prima fra tutte, una leggina del ‘72 che permette ai partiti di non pagare “concessioni governative” quando siglano atti costitutivi o statuti. Vista la proliferazione delle sigle politiche, si direbbe che lì c’è del grasso da tagliare. Ma un governo che ha bisogno di miliardi, non solo di milioni, deve partire dai settori destinatari degli sgravi più pesanti. In cima ci sono le assicurazioni, che grazie a una legge del 1961 godono di tre tipi diversi di esenzioni sulle polizze, specie del ramo vita, per un totale da 2,3 miliardi. Ma qui intervenire è quasi impossibile, perché significherebbe colpire milioni di clienti assicurati e non solo le compagnie. Considerazioni simili valgono per le banche, che dal 1973 lavorano i mutui casa sulla base di un’«imposta sostitutiva». Quello sgravio costa due miliardi l’anno, ma eliminarlo colpirebbe in primo luogo chi compra casa.

Le 13 esenzioni all’agricoltura
Spazio per generare risparmi sembra invece esserci in agricoltura, che gode di 13 diversi tipi di esenzioni per un totale di 2,3 miliardi. Margine di manovra anche nell’autotrasporto: qui una legge del 2007 garantisce riduzioni da 1,14 miliardi l’anno sulle accise per il carburante e ora, con il barile ai minimi, forse anche quello sconto può essere sforbiciato. Resta da vedere se il governo in autunno oserà affrontare categorie che in tutt’Europa, a più riprese, si sono dimostrate capacissime di protestare bloccando le città e le autostrade a forza di mezzi pesanti. Resta poi un punto interrogativo sulle cooperative: grazie a una legge del ‘73, per quelle agricole c’è uno sgravio che vale 88,5 milioni l’anno ma per tutte le altre sono centinaia di milioni (il bilancio dello Stato specifica). Anche questo è un settore dove intervenire ha senso, ma creerebbe nuove tensioni nel partito di Renzi.
Gli editori hanno sgravi per 173 milioni, i tassisti per 30, i benzinai per 110, i gestori di cinema per 26, e le famiglie benestanti - in nome di una certa idea di giustizia sociale all’italiana - hanno deduzioni da 133 milioni sui contributi versati per la tata e la badante. Poi ci sono aree in cui tutto ciò che accade in Italia è solo una reazione all’Europa: gli armatori hanno crediti d’imposta per 180 milioni solo perché anche la Grecia detassa i suoi (ma non vanno ritirati ora che Atene cambia strada?). Le compagnie aeree hanno sconti da 1,5 miliardi sul carburante, perché così fanno Francia e Germania. E il trasporto marittimo, pesca d’altura inclusa, ottiene sgravi da 600 milioni per reggere la concorrenza europea.
Insomma, per trovare anche solo 900 milioni di risparmi sulle agevolazioni il governo dovrà dimostrare molto coraggio. Ovunque spuntano interessi e vecchie abitudini: inclusi i lavoratori di organismi della Santa Sede, come gli addetti dell’Ospedale Bambin Gesù di Roma, che dal 1973 sono esentati dal pagare l’Irpef.

Penalità sulle partecipate
Gli enti locali azionisti delle società partecipate hanno una caratteristica: spesso non si adeguano alla legge. Una norma del 2007 (la 244) imponeva loro di uscire dalle attività estranee alle loro “finalità istituzionali”. Ma la Corte dei conti mostra che oggi due terzi delle partecipate operano ancora in settori come agenzie di viaggio o pesca, che niente hanno a che fare con i compiti del governo territoriale. E la finanziaria 2015 imponeva loro “piani di razionalizzazione” entro marzo, ma circa la metà degli enti ha ignorato la richiesta. Ora a fine mese un decreto applicativo della riforma della pubblica amministrazione potrebbe di nuovo imporre alle giunte l’uscita dai settori dove deve operare solo il mercato. Questa volta però con una novità in “spending review”: sanzioni per chi ignora la legge, sia esso azionista o manager. E chissà che qualche resistenza alla fine non inizi a cadere.

6 agosto 2015 (modifica il 6 agosto 2015 | 09:09)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/economia/15_agosto_06/sgravi-161-miliardi-ecco-piano-tagli-0ae38c40-3bfa-11e5-923b-31d1f7def042.shtml


Titolo: Federico FUBINI. Grecia in salita, lo scoglio del Pil
Inserito da: Admin - Agosto 06, 2015, 12:08:35 pm
Grecia in salita, lo scoglio del Pil
La riapertura della Borsa di Atene è una delle più surreali della storia del capitalismo. Il listino torna a funzionare, ma lo farà entro una sorta di campana di vetro

Di Federico Fubini

Molti prevedono crolli nelle prime ore di scambi, seguiti magari da rimbalzi indotti da qualche cacciatore di titoli a prezzi di saldo. E tutti studieranno al microscopio le oscillazioni delle banche, anello debole fra i deboli della Borsa di Atene che oggi riparte dopo cinque settimane di «vacanza». Comunque vada, sarà una delle riaperture più surreali che la storia del capitalismo ricordi.

Lo sarà in primo luogo per le sue circostanze e le procedure. La Borsa venne chiusa per decreto del governo dal 29 giugno, con la Grecia sull’orlo della secessione dall’euro e i cittadini decisi in ogni modo a sfilare i propri risparmi dal sistema finanziario prima del crollo. Oggi finalmente il listino torna a funzionare, ma lo farà entro una sorta di campana di vetro. I greci potranno comprare e vendere azioni di società quotate ad Atene, ma non trasferire fondi dai propri conti bancari ellenici per acquistare titoli sulla Borsa del loro Paese. Solo a chi opera dall’estero sarà permesso di muoversi liberamente, per tutti gli altri investitori vale invece un vincolo più serrato di quello in vigore sul resto dell’economia: persino ora, in pieno regime di controlli di capitale, i greci possono comunque pagare un prodotto nazionale, una prestazione di lavoro o le tasse tramite un bonifico via Internet. Le azioni quotate sulla Borsa di Atene invece no.

Un coprifuoco così persistente ha un obiettivo preciso: ostacolare le triangolazioni che lascino fuggire fondi verso l’estero. Da stamattina il rischio è che chiunque si accordi con un operatore a Londra o a Zurigo per fargli fare un’operazione che sposti i proventi fuori dal Paese. In poche settimane, la Grecia si troverebbe svuotata della poca liquidità che resta nei suoi confini. La Borsa di Atene si risveglia dunque dentro una sorta di ingessatura che aiuta il sistema a tenersi in piedi malgrado se stesso, e non potrebbe esserci metafora più appropriata dello stato generale del Paese.

Esso oggi è più precario di quanto appare anche dopo la fragile tregua di luglio. Nelle prossime due settimane il governo di Alexis Tsipras e quelli dei creditori europei dovrebbero mettersi d’accordo su un pacchetto di aiuti da 86 miliardi di euro fino al 2018. Ma un’occhiata da vicino alla realtà dietro questo ennesimo «salvataggio» mostra che, se e quando l’accordo sarà raggiunto, potrebbe essere tardi. Nel frattempo sarà già stata superato dalla realtà e dunque insufficiente a stabilizzare il Paese. Una nuova tornata di tensioni e dilemmi impossibili si intravede già all’orizzonte.

Prima ancora della politica, lo segnalano i numeri: già oggi l’economia greca tradisce tutti i segni di un tracollo più rapido di quanto risulti dalle stime ufficiali. Nella sua «valutazione» della richiesta di Atene di nuovi aiuti, stilata il 10 luglio, la Commissione Ue prevede che la Grecia quest’anno registri una caduta del Pil fra il 2 e il 4%. È probabile però che la recessione alla fine sarà più profonda di così. L’Ufficio parlamentare di bilancio di Atene per esempio ha iniziato a guardare agli effetti degli limiti imposti al ritiro di contanti, perché da fine giugno i greci hanno quasi smesso di comprare prodotti che non siano alimenti, medicine o altri beni assolutamente essenziali.

L’effetto sull’economia è stato enorme. Secondo l’ufficio di bilancio di Atene, una caduta dei consumi dell’80% comporta una contrazione del Pil dell’1,5% ogni settimana (o dell’1% se invece la caduta dei consumi è «solo» del 50%). La Grecia era già rientrata in recessione nei primi sei mesi di quest’anno, ma da allora l’avvitamento non ha fatto che accelerare. Da qualche settimana si aggiungono a frenare i consumi anche l’aumento a tappeto dell’Iva e quello dei prelievi su tutte le pensioni, imposto dai governi creditori. L’effetto a questo punto è inevitabile: quest’anno la Grecia è diretta verso una caduta del Pil del 7% o dell’8%, il doppio di quanto ufficialmente previsto, quindi anche le stime sugli equilibri di bilancio o il peso del debito sono fatalmente destinati ad essere rivisti in peggio.

Lo scenario di agosto ha tutta l’aria di un dejà vu , in questa interminabile saga ellenica: si firmerà un accordo per un nuovo pacchetto di prestiti, ma non molto tempo dopo debitori e creditori dovranno accettare l’evidenza e ammettere che non basta. La Grecia avrà bisogno di ancora nuove risorse per stare in piedi, ammesso che riesca sopportare gli ulteriori sacrifici che a quel punto la Germania vorrà imporre in contropartita. La caduta del Pil si aggraverà, innescando un altro giro della stessa spirale. E fino a quando possa continuare, oggi né ad Atene né a Berlino si trova più qualcuno in grado di dirlo.

3 agosto 2015 (modifica il 3 agosto 2015 | 07:28)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_agosto_03/i-segni-tracollo-della-economia-greca-bbbb64d8-399e-11e5-b49b-ae37d5ff3efe.shtml


Titolo: Federico FUBINI. Berlino e gli altri La guerra culturale europea
Inserito da: Admin - Agosto 06, 2015, 12:09:51 pm

Berlino e gli altri
La guerra culturale europea
I dubbi che il Fmi sta esplicitando sono solo ciò che tutti gli altri pensano ma non dicono: la questione greca è davvero risolta?
La Grexit è veramente scongiurata?

Di Federico Fubini

Da Berlino ad Atene, passando per Roma o Parigi, si fatica a trovare qualcuno disposto a credere che l’uscita della Grecia dall’euro sia davvero scongiurata per sempre. Nuove settimane terribili torneranno. Se non subito, quando ci si renderà conto che l’economia ellenica è di nuovo in disgregazione o quando gli ostacoli politici si ripresenteranno nel Parlamento e nelle piazze di Atene o dei Paesi creditori. I dubbi che il Fmi sta esplicitando sono solo ciò che tutti gli altri pensano ma non dicono.

C’è un punto però sul quale questa saga greca inizia a fornire qualche responso. Se non sul futuro di quel Paese, su quello che gli altri vogliono e come si immaginano la coesistenza nell’unione monetaria. Non era andata così in passato. Nella fase puramente finanziaria del contagio europeo (2010-2013) i vari protagonisti, anche con idee diverse, erano tutti concentrati su un obiettivo comune: calmare le acque. Ora è diverso. L’intensità delle ultime settimane, e le crepe nel governo dell’euro che hanno esposto, obbligano i principali Paesi a dire una volta per tutte come pensano che questa moneta possa darsi un assetto che ne garantisca il futuro.

È qui che le differenze fondamentali finalmente stanno venendo a galla. Francia e Italia, come nell’intervento dei rispettivi responsabili per gli Affari europei che riportiamo, parlano di un’area euro più politica: un Parlamento dell’unione monetaria, un bilancio comune. A Berlino invece le sensibilità sono diverse. P er la prima volta la Germania sembra voler andare avanti senza curarsi del consenso di Roma e soprattutto di Parigi. Del progetto di Wolfgang Schäuble di assegnare la vigilanza sui bilanci dei governi a un organo «indipendente», togliendola alla Commissione, colpisce la motivazione: il presidente dell’esecutivo comunitario Jean-Claude Juncker era il candidato del Partito popolare alle Europee, dunque ha una legittimità politica e non può svolgere un compito tecnico come il controllo delle regole su deficit o debito. Berlino cerca di rimuovere la discrezionalità della politica dal funzionamento dell’unione monetaria. Vede le norme dell’euro come condizioni tecniche da rispettare, anche se riguardano il modo in cui i governi tassano e spendono.

La legge in Germania è una cosa seria, ma c’è anche altro: il timore che la violazione delle regole da parte di qualcuno obblighi i tedeschi a pagare per salvarli. Le cose finora non sono andate proprio così, nella misura in cui (anche) i contribuenti italiani hanno contribuito perché le banche tedesche uscissero indenni dai loro investimenti in Grecia. Eppure questo timore brucia talmente alla Germania da spingerla a mettere sul tavolo l’arma dell’espulsione dall’euro per chi non sta ai patti. Il messaggio è stato recapitato alla Grecia, ma perché tutti prendessero nota.

Schäuble ha ragione quando fa capire che Italia e Francia non possono chiedere la tutela di un bilancio europeo senza cedere sovranità. Il taglio delle tasse di Matteo Renzi, annunciato prima di parlarne a Bruxelles o spiegare le coperture, in questo disegno stride. E così la battuta di Manuel Valls, il premier di Parigi, sul fatto che la Francia si fa il suo bilancio da sé «perché è un grande Paese». Ma è difficile spiegare a Renzi o a Valls che la politica deve stare fuori dalle loro scelte, quando entrambi hanno il fiato sul collo delle forze anti-sistema decise a rompere con l’euro. La Grecia ha esposto queste visioni differenti, il punto ora è capire se sono compatibili. E come tutto nell’unione monetaria, non è affatto scontato.

31 luglio 2015 (modifica il 31 luglio 2015 | 07:19)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_luglio_31/guerra-culturale-europea-b28af360-3741-11e5-88ac-a32ff5fc69d6.shtml


Titolo: Federico FUBINI. I Paesi emergenti presi nella morsa della nuova guerra delle...
Inserito da: Admin - Agosto 16, 2015, 04:54:34 pm
I Paesi emergenti presi nella morsa della nuova guerra delle valute
La Cina svaluta lo yuan per ridare fiato all’export. A luglio l’export cinese è caduto dell’8,3% e nell’ultimo trimestre gli acquisti di auto sono scesi del 22%

Di Federico Fubini

Dei due grandi eventi finanziari di ieri il primo riguarda un Paese che vale lo 0,2% dell’economia globale, l’altro un secondo Paese che da solo pesa per il 15%. La Grecia ha concluso un accordo a suo modo storico per l’ennesimo pacchetto di aiuti. La Cina si è limitata a svalutare sul dollaro la propria moneta, lo yuan, dieci volte di meno quanto l’euro o lo yen giapponese abbiano già fatto nell’ultimo anno. I mercati non hanno avuto dubbi su quale sia stato il fenomeno che passerà alla storia.

Per loro oggi un gesto relativamente piccolo da parte della banca centrale di Pechino, compiuto nel giro pochi minuti, conta più del coronamento di un negoziato greco durato sette mesi. Il senso di quel gesto della Banca del Popolo è che un’economia colossale, ma in crescenti difficoltà, inizia a riprendersi dal resto del mondo parte della crescita che gli aveva prestato. Se la riprende con una svalutazione che dovrebbe ridare fiato all’export, perché la Cina non può più permettersi il ruolo che ha segnato la sua ascesa dal 2008 in poi: da allora è stata l’àncora dell’economia globale. Era stata capace di sostenere ritmi di sviluppo (quasi) a doppia cifra anche quando l’occidente era in recessione, o quando il debito estero in dollari del Brasile, della Turchia, o della Russia, rivelavano tutta a fragilità dei Paesi emergenti. Ora proprio questi ultimi, i più dinamici negli anni della grande recessione euro-americana, di colpo diventano i più esposti al cambio di clima nel più potente fra loro.

La svalutazione
La svalutazione di martedì dello yuan sul dollaro è stata di appena l’1,9%, ma la svolta è innegabile. La Cina era sempre apparsa stabile, anche dopo che il crash di Lehman ha messo alla prova gli equilibri globali. In un sistema in cui a turno il dollaro, il rublo russo, il real brasiliano, la rupia indiana, lo yen, il won coreano, e alla fine anche l’euro si sono inseguiti nella corsa al deprezzamento, Pechino si era sempre tenuta fuori. Non ha mai preso parte alla guerra delle valute, permettendo alla sua moneta di diventare la più forte (e meno competitiva) fra le 32 principali del pianeta. La Cina aveva continuato a crescere e a sostenere l’export degli altri: un’economia da 11 mila miliardi di dollari è diventata il compratore di ultima istanza delle auto di lusso e dei beni di investimento tedeschi, dei prodotti agricoli del Brasile, dei minerali australiani. Sotto la superficie però da tempo hanno iniziato ad accumularsi le scorie che ora minacciano di contaminare il resto del mondo emergente. Dal 2008 il debito pubblico e privato cinese è cresciuto dal 140 a oltre il 230%, senza contare quello delle banche. Un’accumulazione più veloce che in qualunque altro Paese, volta a sostenere una crescita sempre più artificiale con investimenti sempre meno produttivi: acciaierie senza mercati di sbocco, città fantasma, autostrade che nessuno percorre.

L’export
Ora la festa è finita. A luglio l’export cinese è caduto dell’8,3% e nell’ultimo trimestre gli acquisti di auto sono scesi del 22% in ritmo annuale. Gli analisti Citigroup, la banca americana, pensano che la crescita del 7% prevista per quest’anno sia in realtà da sforbiciare di almeno due punti. Molti analisti, per ora anonimi, sospettano che nei prossimi anni anche Pechino farà i conti con una vera recessione.

Del resto anche la lista dei grandi gruppi che ieri sono scivolati di più sui listini indica quali equilibri si stiano incrinando. Hanno perso terreno grandi case dell’auto come la tedesca Bmw, del lusso come la francese Lvmh, o dell’estrazione mineraria come Rio Tinto. Soprattutto, sono ancora una volta le valute dei Paesi emergenti ad aver subito un contraccolpo. Le nuove scivolate da record del real, del rublo, dei dollari di Taiwan e Singapore, del won, del ringgit malese o del baht thailandese fanno ripensare agli choc degli anni 90. Ricordano che un gorilla ferito è salito sul ring della guerra valutaria, in un gioco nel quale prima o poi qualcuno deve perdere. E fanno pensare che Paesi emergenti come la Russia, il Brasile o il Sudafrica, già esaltati per il loro dinamismo, ora sono in una morsa: la Cina non può essere più lo stesso magnete di prima per le loro produzioni. E l’aumento dei tassi d’interesse all’orizzonte America renderà i loro debiti in dollari sempre più pesanti.

Di colpo, l’area euro non sembra più così male.

12 agosto 2015 (modifica il 12 agosto 2015 | 08:03)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/economia/15_agosto_12/gli-paesi-emergenti-presi-morsa-nuova-guerra-valute-a457da60-40b0-11e5-a6d2-d8f2ee303642.shtml


Titolo: Federico FUBINI. L’Europa e la ripresa anemica
Inserito da: Admin - Agosto 16, 2015, 04:55:44 pm
L’analisi
L’Europa e la ripresa anemica
Le maggiori economie Ue resistono perché le esportazioni le mandano avanti
Ma la voglia di investire non è mai stata così scarsa

Di Federico Fubini

Enrico Diddi ha una sua idea sul perché gli economisti adesso dicono che questa è una ripresa anemica: si era dato appuntamento a dieci anni dopo ma ora, quando è venuto il suo momento, ha passato la mano. L’azienda che controlla si chiama Nobilia. Da Prato nel 2005 Diddi l’aveva spostata a Suzhou, non lontano da Shanghai: in fabbrica entrano fili di lino o di cotone ed escono tessuti pronti per l’ago. Diddi, che ora ha 54 anni, si era impegnato a rimpatriare più o meno in questo periodo il suo investimento da 25 milioni di euro e 250 addetti. Poi al dunque ha capito che doveva scegliere cosa lasciar cadere: la sua promessa o le commesse di Banana Republic e di Gap, i grandi marchi americani della moda di massa: «Se torno in Italia - ammette - costerei troppo per loro». I nuovi contratti di lavoro flessibili del Jobs Act, gli sgravi alle assunzioni stabili, la limatura dell’imposta sulle attività produttive, il dimezzamento del costo del petrolio, i tassi bassi imposti dalla Banca centrale europea con i suoi interventi e persino l’euro debole, per Diddi, non contano tanto quanto i calcoli che ha fatto da tempo. Non riequilibrano neanche lontanamente. Per l’Italia e gran parte dell’area euro, questa si sta dimostrando una ripresa lenta, povera di occupazione eppure in qualche modo effettiva. Non appena Diddi ha capito che trattando gli scarti del cachemire lavorato in Cina poteva surrogare la piuma d’oca, ha lanciato una nuova azienda di piumini a Prato: investimento recente, mercati in tutto il mondo, dieci addetti.

Il paradosso è proprio in questa strana inversione dei fattori. Se oggi Paesi come l’Italia, la Germania, la Francia o la Spagna crescono, in gran parte è perché le esportazioni le spingono in avanti. Eppure il propellente dell’export e dei posti di lavoro del futuro, l’istinto di investire, non è mai stato così scarso. In Germania gli investimenti pesano appena per il 20% dell’economia, sotto i livelli del 2007 e molto sotto le medie dei Paesi avanzati, benché l’export contribuisca al 45% del prodotto lordo (Pil). In Italia gli investimenti sono crollati di 75 miliardi dal 2007 al 2014 e oggi sono al punto più basso, in proporzione al Pil, fra tutte le principali economie europee. Anche in Francia e in Spagna gli investimenti pesano meno di otto anni fa e non stanno certo crescendo. Non è solo Diddi di Prato: anche Volkswagen continua a versare decine di miliardi per nuovi impianti, ma lo fa in Slovacchia o in Cina.

Le migrazioni produttive verso i territori a basso costo non iniziano certo oggi, solo che questo non è un momento come gli altri: a differenza degli Stati Uniti, l’economia dell’area euro resta tuttora più piccola di com’era nel 2008, prima che Lehman portasse i libri in tribunale. È vero che Germania e Francia ormai hanno superato i livelli pre-crisi e veleggiano su un reddito nazionale mai raggiunto prima; ma la Spagna del 2015, anche in netta ripresa, rimane economicamente più piccola di quella del 2007. E l’Italia, in ripresa timida, non ha ancora neanche rivisto i livelli di reddito nazionale dell’anno duemila.

In questo proprio l’Italia, secondo Eurostat, è il sistema più anomalo. È il secondo produttore di beni industriali d’Europa e, comprensibilmente, si considera una potenza esportatrice. Pochi però sembrano essersi accorti che fra i quattro grandi Paesi di Eurolandia è quello che dipende di più dai consumi delle famiglie (60% del Pil) e, insieme alla Francia, presenta il minor peso dell’export sul totale dell’economia (29%). In questi anni invece la Spagna ha compiuto un silenzioso sorpasso, aumentando di molto la sua quota di export sul Pil (al 32%). L’economia italiana dipende ancora dalla spesa delle famiglie, le quali però tengono il portafogli chiuso perché nel Paese appena un terzo degli abitanti lavora: non ci sono abbastanza buste paga. Forse questo spiega perché neanche l’euro debole, gli sgravi sui nuovi contratti, la forte domanda di made in Italy dall’America, i tassi bassi e il petrolio ai minimi riescano a rendere questa ripresa più tangibile. Il punto è capire quanto saliranno il deficit e il debito pubblico quando questo allineamento di fattori benigni verrà meno. Quando magari l’economia italiana dovesse rallentare. Lorenzo Codogno, fino a febbraio scorso capo-economista del Tesoro, non è preoccupato: «Anche se a ritmi non esaltanti, la ripresa continua - osserva -. Nella seconda parte dell’anno si rafforzerà e nel 2016 potrebbe sorprendere». Codogno però ha un consiglio per il governo: «L’annuncio di un forte taglio delle tasse sul lavoro e le imprese è stato giusto e coraggioso, ma non possiamo permetterci di far salire il deficit. Serve una sforbiciata alla spesa, magari di 20 miliardi già il prossimo anno».

Anche Diddi, l’imprenditore di Prato, ha una sua ricetta: «Qualcuno dovrebbe investire», propone. Ma è inutile chiedergli se sarà lui: «Non sarei più competitivo».

15 agosto 2015 (modifica il 15 agosto 2015 | 09:28)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/economia/15_agosto_15/europa-ripresa-economica-anemica-e5dc15b8-431d-11e5-a5fb-660d73bd7f47.shtml


Titolo: Federico FUBINI. Debito, tassi, tutti i perché di un tracollo
Inserito da: Admin - Agosto 22, 2015, 05:13:57 pm
L’analisi
Debito, tassi, tutti i perché di un tracollo
La nuova crisi del debito nei Paesi emergenti.
Quel filo che porta al crac Lehman Brothers

Di Federico Fubini

C’è un pensiero che fa rimpiangere la nebbia e il freddo, in questa coda d’agosto: nelle ultime nove estati, solo due sono trascorse senza terremoti sui mercati finanziari. Era passata in una calma irreale quella del 2009, dopo la catastrofe dell’anno prima a Wall Street. E anche l’agosto scorso era scivolato via nella speranza che la crisi finanziaria occidentale, quella partita in America nel 2008 e proseguita nell’area euro dal 2010 in poi, fosse finalmente negli archivi della storia. Il resto delle vacanze dal 2007 ad oggi è stato segnato da fasi di panico e scosse: sui mutui subprime , sulle banche americane, sul debito degli Stati europei e alla fine anche sui cosiddetti emergenti, nel 2013 e poi di nuovo adesso.

Dei dieci episodi di massima volatilità finanziaria registrati dagli indici, otto sono di questi anni. Un’intensità e una frequenza del genere non hanno avuto precedenti neanche nella Grande depressione, dunque vorranno pur dire qualcosa: i crolli di Borsa e le svalutazioni monetarie di questi giorni in Cina, Malesia, Brasile o Turchia, in Sudafrica e in Indonesia e Colombia, sembrano sempre di più l’altra faccia della medaglia degli eventi di New York, Londra o Milano di cinque o sei anni fa. Gli uni sono eredità degli altri e varie cinghie di trasmissione li legano fra loro. Dai terremoti di ieri a quelli di oggi un filo rosso per esempio è stato steso dalle grandi banche centrali. La Federal Reserve, la Bank of England, la Banca del Giappone e la Banca centrale europea hanno risposto dal 2009 in poi nel solo modo adeguato per tamponare le ferite: creando moneta e riversandola sui mercati. Lo hanno fatto su una scala senza precedenti. Dalla fine del 2009 ad oggi i bilanci delle banche centrali di Washington, Londra, Francoforte e Tokyo nel complesso si sono espansi di 7.300 miliardi di dollari. È una cifra pari al 10% del prodotto interno lordo della Terra, che negli ultimi otto anni si è rovesciata sull’economia mondiale.

L’obiettivo dei banchieri centrali - centrato in gran parte - era placare il panico, ridurre i tassi d’interesse, evitare una corrosiva deflazione dei prezzi. Ma pochi all’inizio si sono chiesti esattamente dove sarebbero finiti quei soldi, una volta in circolazione. Ora che siamo più vicini al primo aumento dei tassi d’interesse della Fed in dieci anni, lo sappiamo. Lo si vede nei tremori dei Paesi emergenti, dove si teme la fine dei finanziamenti esteri a basso costo che per anni hanno sostenuto intere economie. È in Messico, Colombia, Brasile, Turchia, Indonesia, Malesia, Russia o Kazakistan, che i grandi investitori hanno prestato gran parte di quell’ondata di liquidità, in modo da ottenere rendimenti più alti. Secondo la Banca dei regolamenti internazionali, negli ultimi cinque anni il debito dei Paesi emergenti è raddoppiato: un balzo di 4.500 miliardi di dollari, non molto inferiore alle somme generate dalle grandi banche centrali dei Paesi ricchi.

Alberto Gallo di Rbs mostra come sia successo: grandi gruppi dell’energia come la russa Gazprom, la cinese Cnooc o la brasiliana Petrobras, o colossi dei minerali come la brasiliana Vale, oppure per un enorme conglomerato come l’indiana Tata, hanno più di metà del debito in dollari. Da ora in poi ogni aumento dei tassi della Fed rischia di schiacciarli, ogni svalutazione delle rispettive monete nazionali minaccia di rendere il loro debito più pesante.

Quella coltre protettrice di denaro però ha permesso al Brasile, o al Messico, o all’Indonesia di rinviare la resa dei conti con i problemi di casa: infrastrutture inadeguate, corruzione dilagante, Stato di diritto inaffidabile. Del resto la crescita era garantita, perché le derrate sudamericane, il rame cileno, i minerali del Sudafrica o gli elettrodomestici della Turchia avevano un compratore di ultima istanza: la Cina. Da lì sono venuti in questi anni gli ordini per metà delle materie prime del mondo, e per molto altro.

Da lì viene però anche il secondo filo rosso che lega la crisi di Wall Street a questi giorni. Nel novembre 2008, il premier di Pechino Wen Jiabao reagì al crash di Lehman Brothers con un maxi-pacchetto di stimolo per evitare che la Cina finisse aspirata nella recessione americana. Varò un piano da 470 miliardi di dollari per costruire nuove città, raddoppiare la capacità produttiva di pannelli solari, auto o acciaio. È stata una stagione di ulteriori eccessi negli investimenti improduttivi: città fantasma, aeroporti vuoti, stock di prodotti accatastati ad arrugginire nei porti della costa. In pochi anni il debito totale della Cina (banche escluse) è salito dal 140% al 248% del Pil. Ormai la seconda economia del mondo è costretta a frenare, e con essa anche la domanda globale di petrolio, rame, grano o legumi, i cui prezzi infatti stanno crollando.

Così l’ingranaggio in questi anni, costruito in reazione al crash di Lehman, ha smesso di spingere il mondo in avanti. Quanto lo tiri indietro, lo diranno i prossimi mesi.

22 agosto 2015 (modifica il 22 agosto 2015 | 13:00)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/economia/15_agosto_22/debito-tassi-tutti-perche-un-tracollo-07f0c60e-4895-11e5-adbb-a52649bc660c.shtml


Titolo: Federico FUBINI Lo strano balzo del Pil greco Tornano i dubbi sui conti di Atene
Inserito da: Admin - Agosto 26, 2015, 11:46:29 am
Lo strano balzo del Pil greco
Tornano i dubbi sui conti di Atene
Un +0,8 nel terzo trimestre, due volte meglio della Germania e quattro rispetto all’Italia

Di Federico Fubini

Quando in luglio Alexis Tsipras ha accettato il nuovo piano di salvataggio, i creditori europei della Grecia hanno chiesto al premier di dimostrare il suo impegno approvando subito alcune misure. Fra le più urgenti, la blindatura dell’ufficio statistico da ogni pressione politica. È un provvedimento che non arriva certo troppo presto. Nella Grecia piombata in crisi quando emerse che i bilanci erano falsi, questo è un tema sensibile da sempre. E tale resta: persino l’ultimo dato di crescita del Paese, quello sul secondo trimestre del 2015, continua a sollevare interrogativi tutt’altro che facili da risolvere. Tra aprile e giugno l’economia greca ufficialmente si è espansa dello 0,8%, un ritmo di circa il 3,2% in proiezione annuale. È una velocità doppia rispetto alla Germania e quadrupla rispetto all’Italia, registrata mentre Tsipras entrava nella fase più dura del confronto con il resto d’Europa. Ma anche agli esperti resta difficile capire come si sia arrivati a quel dato, o se esso sarà ribadito nelle stime definitive fra qualche giorno.

È possibile che la conferma arrivi, anche se la crescita in Grecia fra aprile e giugno ha sorpreso un po’ tutti. Del resto questa è una fase di transizione per l’Elstat, l’ufficio statistico incaricato di elaborare e pubblicare i dati più sensibili. Il 2 agosto si è dimesso il suo presidente Andreas Georgiou, che era arrivato dal Fondo monetario internazionale nel 2010 per far luce sul vero stato dei conti. Il suo mandato è scaduto ma Georgiou, forse anche per ragioni di salute, non ha atteso neanche per un giorno la nomina di un successore. Per lui questi cinque anni sono stati durissimi: prima alcuni dei suoi più stretti collaboratori all’Elstat hanno cercato di mandarlo a processo per alto tradimento, poiché aveva osato rivedere al rialzo i dati di deficit della Grecia (l’inchiesta è durata cinque anni, prima dell’archiviazione); da gennaio, poi, malgrado le continue minacce anonime, il governo Tsipras ha tolto a Georgiou qualunque forma di protezione, ignorando le sue ripetute richieste.

Il dato a sorpresa sul Pil, uscito l’8 agosto, è il primo che l’Elstat pubblica da quando Georgiou ha lasciato (l’interim è affidato al direttore generale Athanasia Xenaki). Nessuno aveva previsto una crescita così forte, perché quasi tutti gli indicatori puntavano al ribasso. L’indice Pmi, che misura fattori come gli ordinativi delle imprese, la produzione o l’occupazione sulla base di interviste a centinaia di manager, è sceso nettamente rispetto al periodo gennaio-marzo ed ha viaggiato regolarmente ben sotto quota 50, la soglia fra espansione e contrazione dell’economia (a giugno risulta a 46,90). La produzione industriale, dopo lievi aumenti in gennaio e febbraio, è caduta in ciascuno dei tre mesi fra aprile e giugno (-1,7%, seguito da -4,6% e -0,2%). Anche l’indicatore del «sentiment» economico fotografato dalla Commissione europea mostra sulla Grecia un peggioramento progressivo in aprile, maggio e giugno in ogni sua componente. Né può aver aiutato il blocco totale degli investimenti pubblici e dei pagamenti dello Stato alle imprese, al punto che la fiducia di queste ultime scende sempre di più nel secondo trimestre e con essa l’utilizzazione degli impianti. La stessa Elstat mostra che l’attività nell’edilizia sia più bassa ad aprile e a maggio rispetto ai livelli di marzo. E tanto le importazioni che le esportazioni calano nel primo semestre rispetto al precedente.

Tutto puntava verso la recessione, prima che l’Elstat dichiarasse una crescita fra le più dinamiche d’Europa. Certo il settore del credito non può aver aiutato: fra depositi e prestiti da altri istituti, nel secondo trimestre le banche greche hanno subito un’emorragia da 15,4 miliardi. Potrebbe aver dato una mano il turismo. Ha aiutato anche il fatto che i greci, fra aprile e giugno, si sono precipitati a investire in auto in un tentativo di mettere al sicuro i propri risparmi comprando un bene di valore. E in un’economia in deflazione, la stima del Pil può risultare distorta.

Certo l’enigma sulla credibilità resta, anche per gli addetti ai lavori. George Papakonstantinou, l’ex ministro delle Finanze che per primo denunciò i falsi nelle statistiche greche, non crede a nuove frodi: «Nel quadro attuale sarebbe difficile provare nuovi trucchi», dice. Eppure il viaggio della Grecia verso istituzioni più affidabili, a quanto sembra, deve ancora iniziare.

25 agosto 2015 (modifica il 25 agosto 2015 | 10:14)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/economia/15_agosto_25/grecia-strano-balzo-pil-greco-tornano-dubbi-conti-atene-b9feeaca-4ae7-11e5-9f12-8a25e5d314d3.shtml


Titolo: Federico FUBINI. Le strategie del governo
Inserito da: Admin - Agosto 28, 2015, 11:32:25 pm
Le strategie del governo
Superconsulenti a Palazzo Chigi: un’unità di crisi stile Casa Bianca
Il premier ne ha sette per le riforme economiche.
Dopo le uscite di Guerra e (forse) Nannicini , Renzi punta a una task force su lavoro e ripresa

Di Federico Fubini

Il corridoio del primo piano di Palazzo Chigi, quello dal lato di Piazza Colonna che porta all’ufficio del primo ministro, con il tempo è cambiato. Durante governi ormai distanti, si potevano sentire i fattorini discutere a lungo fra loro di ferie e turni, in livrea e scarpe da tennis. All’inizio dell’esecutivo di Matteo Renzi molte stanze erano vuote, e si respirava la disorganizzazione che arriva con l’inesperienza e la voglia di fare.

Ora è diverso. C’è ordine nell’attitudine dei fattorini, e le stanze lungo il corridoio non sono più vuote. Renzi si è dato una struttura di consiglieri economici che con i mesi è cresciuta fino a diventare la più robusta mai vista a Palazzo Chigi. Massimo D’Alema aveva il primato, perché quando divenne premier nel 1998 chiamò Pier Carlo Padoan, Marcello Messori, Nicola Rossi, Massimo De Vincenti e, per la politica estera, Marta Dassù. Ma deciso a guidare direttamente dai suoi uffici tutto il programma di governo, Renzi è andato oltre. Ha sette consiglieri per le riforme economiche, e al rientro a settembre il premier cercherà di capire se è il caso di reclutarne altri ancora o addirittura riorganizzare il loro lavoro.

La decisione più importante da prendere, quanto a questo, è se applicare il metodo americano: la Casa Bianca ha il Council of Economic Advisors, con procedure, lavoro di squadra, ruoli ben definiti e un capo che coordina l’attività e i rapporti con il presidente. L’ipotesi è già stata discussa. La decisione non c’è. Di certo qualcosa cambierà: come previsto dall’inizio, alcuni dei consiglieri rientreranno nelle loro carriere di prima. Andrea Guerra, l’ex amministratore delegato di Luxottica che ha gestito per il premier le partite sulla banda larga, la Cassa depositi e l’Ilva, in ottobre (salvo sorprese) diventerà presidente di Eataly. Tommaso Nannicini, l’economista di 41 anni che ha tenuto la regia del Jobs act e della delega fiscale, dovrebbe tornare alla Bocconi: se non lo facesse perderebbe un grosso finanziamento europeo di ricerca. Ci sono poi voci insistenti, ma non confermate, che anche la responsabile per le banche Carlotta De Franceschi potrebbe lasciare. Alla fine Nannicini resterebbe, se solo riuscisse a congelare il suo finanziamento europeo; e anche su De Franceschi non ci sono decisioni. Eppure questa è una squadra che rischia di perdere tre pezzi su sette in poche settimane, mentre persino al completo è già travolta di lavoro: legge di Stabilità, spending review, rapporti con le imprese, quel che resta da attuare nel Jobs act, rapporti con gli enti locali, le riforme bancarie, e tra pochissimo l’attuazione di deleghe delicatissime e molto complesse su giustizia e pubblica amministrazione.

Visto dai piani alti dei ministeri di settore, secondo alcuni è in corso un tentativo di accentrare nell’ufficio del premier l’esecuzione di tutto il programma di governo. Visto da Palazzo Chigi, il problema è diverso. I consiglieri di Renzi sanno che devono lavorare con le burocrazie ministeriali per attuare le riforme, semmai in questi mesi è mancato loro qualcos’altro: non si sono mai seduti tutti insieme con il premier, documenti sul tavolo o grafici proiettati sugli schermi, per discutere dei problemi del Paese e delle strategie per risolverli. Renzi è riuscito ad attrarre alcuni dei migliori economisti e dei massimi specialisti d’Italia, spesso sotto o attorno ai 40 anni, tutti scelti anche per la loro duttilità. Ma non ne ha mai fatto una squadra. Ciascuno dei consiglieri parla con il premier da solo e a sua volta ciascuno di loro si dota di un gruppo di persone, spesso informale. Per esempio, il giurista della Bocconi Maurizio Del Conte ha lasciato per mesi l’università e il suo studio di avvocato per scrivere i testi dei decreti del Jobs act in cambio di un rimborso spese: treno da Milano, taxi da Termini a Piazza Colonna e hotel, secondo regolamento non oltre le tre stelle. In vista del confronto con Bruxelles sulla legge di stabilità e operazioni defatiganti e capillari come le riforme della giustizia e dell’amministrazione, a Palazzo Chigi si sta discutendo di un salto di qualità al giro di boa delle riforme.

Servono nuovi innesti e, secondo alcuni, una struttura chiara con una persona di riferimento e più lavoro di squadra. Il realtà il metodo Renzi finora si è dimostrato utile: incontrando i suoi consiglieri uno ad uno, tenendo le sue carte coperte, il premier è riuscito a muovere di sorpresa ed evitare che il fuoco di fila contro le riforme partisse troppo presto. Ma il punto di forza del Council of Economic Advisor della Casa Bianca è proprio di far leva sulle competenze per metterle a fattor comune e moltiplicarle, con forte un impatto a valle sulla burocrazia.

Su questa ipotesi, ancora volta Renzi tiene le carte coperte. Lo stesso Andrea Guerra per mesi ha lavorato per formare un secondo gruppo (esterno) di poche personalità su cui il premier potesse contare. Non è chiaro che Guerra sia riuscito, anche perché è difficile convincere professionisti affermati ad abbandonare le proprie attività. Ma quale che sia l’esito di questo dibattito in corso, anche la disciplina dei fattorini in corridoio nasconde sempre qualche indizio sulla natura di una leadership.

28 agosto 2015 (modifica il 28 agosto 2015 | 08:11)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/politica/15_agosto_28/superconsulenti-palazzo-chigi-unita-crisi-stile-casa-bianca-03b5fdda-4d44-11e5-816c-ead72dc4bf5c.shtml


Titolo: Federico FUBINI Il piano di Renzi: freddezza dell’Europa su deficit e flessibile
Inserito da: Admin - Settembre 02, 2015, 04:43:42 pm
Il piano di Renzi: freddezza dell’Europa su deficit e flessibilità
Bruxelles frena sull’aumento dei margini per l’Italia, sulle tasse le raccomandazioni di luglio

Di Federico Fubini

BRUXELLES - Se c’è un’area dell’economia europea che in questi anni ha ricevuto uno stimolo keynesiano - crescita grazie ai lavori pubblici - essa è vicina al cuore delle decisioni. La più vicina: il quartiere di Bruxelles che ospita le istituzioni europee continua a essere un cantiere aperto di grandi opere. Il nuovo palazzo del Consiglio europeo. Una stazione ferroviaria collegata all’aeroporto. Il cortile del Berlaymont, sede della Commissione. Il rumore di fondo dei martelli pneumatici è ovunque e, con la sua eco dissonante, rischia di rivelarsi una colonna sonora stranamente appropriata per certi colloqui che aspettano il governo italiano qui.

Sulla Legge di stabilità dell’Italia non c’è ancora nessuna valutazione a Bruxelles, per un motivo fondamentale: non è stata presentata. Non ci sono i numeri dell’intervento, né i dettagli sulle misure. Dagli uffici della Commissione europea e del Consiglio però le indiscrezioni e le dichiarazioni dall’Italia, a partire da quelle di Matteo Renzi, vengono registrate non senza una certa perplessità. Sia sulla sostanza, che sul metodo.

Da Bruxelles non arriveranno commenti ufficiali prima che in ottobre il Consiglio dei ministri a Roma vari la manovra. Tutti però nella Commissione europea hanno notato i punti che, a prima vista, sembrano in contraddizione con le raccomandazioni che l’Ecofin ha appena rivolto all’Italia. Il più delicato riguarda la tassazione degli immobili, quella che Renzi vuole cancellare dal 2016 per quanto riguarda le prime case: abolizione della Tasi e dell’Imu, le tasse che colpiscono le abitazioni ordinarie e quelle di valore.

Non è la direzione che la Commissione e l’Ecofin avevano raccomandato. Piuttosto, le istituzioni comunitarie propongono il contrario: le tasse sulla casa, si ritiene a Bruxelles, sono meno inique e non danneggiano gli investimenti e l’attività economica come quelle sull’occupazione. In un documento formale, i ministri economico-finanziari dell’Unione sostengono che in Italia una delle grandi priorità rimane «alleggerire l’onere fiscale sul lavoro». Per questo viene indicata proprio una di quelle riforme grazie alle quali il governo ha già ottenuto più flessibilità nel giudizio sui suoi conti: per Bruxelles la strada è lo «spostamento del carico fiscale», in particolare dal lavoro agli immobili. Meno tasse sulle buste paga o a carico delle imprese che assumono; e in contropartita una revisione dei valori catastali che oggi, secondo Bruxelles, sono «obsoleti». Il messaggio di fondo è che una riforma del catasto produrrebbe gettito e permetterebbe di varare nuovi sgravi all’occupazione, dopo quelli già decisi quest’anno. La crescita e la creazione di posti ne avrebbero un beneficio, secondo la Commissione e l’Ecofin.

Questa raccomandazione all’Italia è parte di una procedura a cui sono soggetti tutti i Paesi, ed è uscita in Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea il 14 luglio. Discussa, votata e firmata anche dal governo italiano, come parte contraente nell’Ecofin (Pier Carlo Padoan) e del Consiglio europeo (Renzi). Quattro giorni dopo e «con l’inchiostro ancora fresco sul documento», si nota a Bruxelles, Renzi annuncia invece che cancellerà le tasse sulle prima casa: l’opposto di quanto emerso in sei mesi di analisi e confronti a Bruxelles. Per la verità il premier si è impegnato a varare fin da subito anche un ulteriore taglio delle tasse sulle imprese, in vigore dal 2017, e una riduzione del prelievo sulle persone dal 2018. Costo complessivo dell’operazione, 35 miliardi di euro. Visto da Bruxelles, non è l’alleggerimento del carico fiscale che solleva dubbi; è la scelta di rischiare un aumento del deficit proprio adesso che l’economia va meglio e ha meno bisogno di sostegno pubblico. Per i prossimi anni infatti i tagli di spesa annunciati (ma non ancora eseguiti) sono solo di 10 miliardi, meno di un terzo dei tagli delle tasse previsti dal premier. È plausibile dunque che il disavanzo possa aumentare, anche se entro i limiti del 3% del Pil.

Di solito queste operazioni in deficit vengono lanciate nelle fasi di frenata, si osserva a Bruxelles, quando c’è bisogno di uno stimolo da parte del governo. Adesso però l’Italia è in ripresa e dovrebbe approfittare di una fase del genere proprio per andare avanti nel risanamento, non per frenare o tornare indietro. Il rischio è che si trovi con deficit e debito molto più alti, oltre i livelli di sicurezza, la prossima volta che l’economia rallenterà.

È l’ormai celebre discussione sui saldi di bilancio «strutturali», ossia valutati in base allo stato di salute dell’economia in ogni dato momento. Grazie alle riforme avviate nel 2015 il governo ha strappato la possibilità di ridurre il suo deficit «strutturale» di nel 2016 solo dello 0,1% del Pil e non dello 0,5%. Quella concessione è stata una vittoria personale di Matteo Renzi all’inizio di quest’anno: il premier aveva scommesso che l’avrebbe ottenuta direttamente nel confronto con gli altri leader europei, ignorando la lettura rigida delle regole preferita dai funzionari di Bruxelles. Nel 2015 Renzi ha avuto ragione, nell’incredulità di molti. Adesso però strappare una nuova dose di «flessibilità» significa azzerare il risanamento «strutturale» o addirittura innescare la marcia indietro. Il premier sembra di nuovo deciso a cercare una soluzione politica al suo problema, al massimo livello in Europa: ne parlerà lui stesso con il presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, e con la cancelliera tedesca Angela Merkel. L’occasione potrebbe arrivare subito dopo il varo della Legge di stabilità, al vertice europeo di metà ottobre a Bruxelles. La musica sullo sfondo, probabilmente, sarà lo stridore dei martelli pneumatici.

2 settembre 2015 (modifica il 2 settembre 2015 | 10:58)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/economia/15_settembre_02/piano-renzi-freddezza-dell-europa-deficit-flessibilita-0336b976-514f-11e5-addb-96266eadb506.shtml


Titolo: Federico FUBINI. Tasi, i conti sull’abolizione
Inserito da: Arlecchino - Settembre 08, 2015, 04:55:10 pm
Fisco
Tasi, i conti sull’abolizione
Favoriti i redditi più alti e chi ha più di 54 anni.
Senza il gettito Imu e Tasi sugli immobili i comuni resteranno privi di circa 3,5 miliardi di euro di risorse da dover compensare

Di Federico Fubini

Ogni volta che un governo cancella una tassa, crea dei vincenti e qualche volta dei perdenti. Non sempre con questo gesto esprime la sua visione della società, specie quando il gettito in gioco non è enorme, ma di certo contribuisce a spostarne in modo sottile gli equilibri. C’è chi beneficia in pieno dell’abolizione, perché il prelievo pesava molto su di lei o lui, e chi meno. C’è poi anche chi ci perde, se prima non era soggetto a quel prelievo ma ora viene chiamato (indirettamente) a compensare con la fiscalità generale la quota di spesa pubblica che quella tassa defunta copriva.

A prima vista con la Tasi e con l’Imu non andrà così. Il governo ha spiegato che l’addio alla «tassa annuale sui servizi indivisibili» sulle prime case e all’«imposta municipale unica» sulle residenze principali «di pregio» riguarda tutti o quasi: l’81% degli italiani, o per la precisione delle famiglie che abitano nel Paese. È presto per capire come funzionerà questa misura, ma in realtà la platea dei beneficiari - comunque enorme - sarà probabilmente un po’ più piccola di così: secondo l’ultima indagine sui bilanci delle famiglie della Banca d’Italia, nel 2012 viveva nella casa di proprietà il 67,2% delle famiglie; per il più recente censimento dell’Istat, nel 2013 siamo al 72,1%. Dunque poco meno di un terzo dei residenti in Italia resterà fuori dall’operazione Tasi e Imu, perché non le pagava, però dovrà coprire con le proprie tasse 3,5 miliardi di «compensazioni» spedite dal governo ai Comuni rimasti senza il loro gettito dagli immobili.

Per capire come la detassazione agisce sul tessuto del Paese, bisogna dunque vedere dove passa il suo confine. Chi è dentro e chi fuori, chi ci risparmia e chi dovrà coprire i risparmi degli altri. L’indagine della Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie italiane, pubblicata l’anno scorso su dati del 2012, aiuta a farsi un’idea. Negli ultimi tre anni infatti è cambiato pochissimo. L’indagine dice per esempio che il 76% delle famiglie con capofamiglia dai 55 anni in avanti vive in casa di proprietà: dunque beneficerà dello sgravio, mentre solo il 24% dei più anziani resta fuori. La situazione invece è rovesciata nelle famiglie con capofamiglia fino ai 34 anni di età: nei giovani solo il 44,7% è soggetto a Tasi o Imu, tutti gli altri invece no e dovranno compensare con le loro tasse l’ammanco dei comuni.

Uno squilibrio simile si replica se si guarda ai livelli di istruzione o allo status professionale. Paga Imu o Tasi il 76,6% dei capifamiglia laureati, ma solo il 58,5% dei diplomati delle scuole medie. Versa la tassa sugli immobili l’85,3% dei dirigenti, ma solo il 47,5% degli operai. Più in generale, sono proprietari della casa in cui vivono e dunque candidati allo sgravio ben nove italiani su dieci nel club composto dal 20% della popolazione che guadagna di più: il top 20%. Se si guarda invece al 20% della popolazione che guadagna meno, fra loro solo il 34% vive in casa di proprietà ed è candidato allo sgravio; gli altri due terzi fra i meno abbienti sono solo candidati a pagare per quello sgravio con il loro contributo alla fiscalità generale. L’effetto è anche accentuato dal fatto che le case dei più benestanti in media sono più grandi (137 metri quadri) e pagavano più Imu o Tasi. Stesso meccanismo se si guarda agli immigrati: solo il 21% fra loro vive in case di proprietà, contro il 71% degli italiani.

Nei termini più crudi l’abolizione di Tasi e Imu è dunque un trasferimento di risorse dai giovani agli anziani, dai meno istruiti ai più istruiti, da chi guadagna di meno a chi guadagna di più e dagli immigrati agli italiani. Naturalmente il fisco non agisce mai solo in modo così meccanico. Abolire quelle tasse può sostenere il prezzo delle case, dunque favorire i consumi o le banche che hanno quelle case in garanzia, e ora potrebbero dare più credito. Del resto il governo ha già aiutato parte dei ceti deboli con altre misure, né è chiaro che sia il fisco lo strumento migliore per offrire a tutti un’opportunità di riscatto. Ma un arbitro neutrale, di certo, le tasse non lo saranno mai.

8 settembre 2015 (modifica il 8 settembre 2015 | 10:45)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/economia/15_settembre_08/tasi-conti-sull-abolizione-05820d22-55e9-11e5-b0d4-d84dfde2e290.shtml


Titolo: Federico FUBINI. Disoccupazione in netto calo Ma aumentano gli inattivi
Inserito da: Arlecchino - Settembre 08, 2015, 04:57:11 pm
La crescita
Disoccupazione in netto calo
Ma aumentano gli inattivi
Secondo l’Istat, l’Italia cresce, oltre le previsioni. Istruzione, sorpasso delle donne

di Federico Fubini
 
Ormai le statistiche sono la colonnina di mercurio della politica. Negli ultimi anni la potenza dei software per raccogliere e elaborare dati ne ha fatto esplodere la produzione. La vita di qualunque governo ne è scandita ogni settimana e trattare una cifra passeggera di crescita o disoccupazione come un voto al premier di turno è una tentazione a cui non resiste più nessuno.

Ovviamente, è giusto così. I governi giocano sempre un ruolo: sia quando l’occupazione va male, com’è successo finora, sia quando inizia a crescere e diventa stabile un po’ più spesso come sembra che stia accadendo ultimamente. Il solo problema è che l’ossessione per gli spostamenti da zero virgola di ogni mese, a uso e consumo della politica, rimuove dalla visuale il quadro che migliaia di dati stanno componendo sul Paese di questi anni e su quello che sarà. Se solo si mettessero insieme quei punti, si vedrebbe che per certi aspetti i blocchi di partenza dell’Italia nel 2015 sono molto più indietro rispetto alle altre economie alle quali il Paese si paragona. Nel frattempo però nel mondo del lavoro sono in corso slittamenti sotterranei negli equilibri di potere fra uomini e donne, e fra occupati di alta e bassa qualità. Presto queste faglie sotterranee si apriranno alla luce del sole e solo in parte - solo per le donne - saranno buone notizie. In prospettiva la figura più vulnerabile d’Italia è quella oggi quella prevalente: maschio, bianco (non straniero), di mezza età, di un livello di istruzione non eccelso. Per la verità non lo si inizia ancora a vedere nei dati dell’Istat di ieri, che non fanno favori né dispetti a nessuno. L’istituto statistico rileva che in luglio si registrano 44 mila occupati in più, al netto degli effetti della stagione turistica, ma anche che gli «inattivi» nel Paese crescono di 99 mila unità: questi ultimi spesso sono i demotivati, gli scoraggiati, coloro che magari inizierebbero a lavorare fra due settimane se solo sperassero di trovare un posto, ma non lo cercano neanche più. Gran parte dell’aumento degli «inattivi» si concentra fra le donne e i giovani. E la somma dei due fattori - occupati più «inattivi» supplementari di luglio - dà nel complesso 143 mila disoccupati in meno.

La lezione dell’ultima infornata dell’Istat è dunque che, specie per l’Italia, ha più senso misurare gli occupati che la percentuale di disoccupazione. Questa infatti non cattura il numero, senza paragoni in tutto l’Occidente, di persone sarebbero in età da lavoro ma non cercano, o sono già in pensione benché pieni di energie, oppure sono giovani che non studiano più. È qui che gli smottamenti si stanno verificando. Ed è qui che le donne, per ora in terribili difficoltà (in Italia meno di una su due è occupata, al Sud meno di una su tre), possono trovarsi in posizione di forza sugli uomini: se non subito, sicuramente fra qualche anno. Quanto a questo i dati dell’Ocse, il club delle democrazie avanzate, sono espliciti nel mostrare come l’Italia sia indietro. Sulla carta ha un tasso di disoccupazione quasi della metà rispetto alla Spagna. In concreto però la quota di occupati in Italia è più bassa che in Spagna ed è fra le peggiori fra i 36 Paesi censiti dall’Ocse. Poco più indietro ci sono solo Grecia, Turchia e Sudafrica. Se si guarda poi alla partecipazione alla forza lavoro, cioè alla somma di occupati più disoccupati, l’Italia è ultima nell’Ocse: appena il 49% della popolazione in età da lavoro.

Il problema del Paese va dunque al di là della disoccupazione, perché pochi sono inclusi nel sistema produttivo. Fanno eccezione i laureati: anche qui l’Italia è agli ultimi posti dell’Ocse, ma per chi ha un’istruzione superiore il tasso di occupazione è pur sempre elevato al 78%. Spiega dunque qualcosa che l’Italia abbia la quota di laureati più bassa dell’Unione europea. L’istruzione formale non sarà tutto, ma aiuta. È qui però che è in corso una crisi, sorda e drammatica: questo Paese è un caso unico in Europa nel quale le iscrizioni all’università calano invece di aumentare, perché solo le donne cercano di studiare sempre di più. L’Istat segnala che dal 2008 in poi le immatricolazioni all’università sono scese ogni anno e nel 2012 ce ne sono state 30 mila in meno rispetto a prima della crisi. Nel frattempo le ragazze hanno superato i ragazzi: dieci anni fa i laureati e le laureate erano più o meno in numero uguale, ma ormai circa il 60% dei nuovi diplomi va alle ragazze e già oggi in Italia le donne con un’istruzione superiore sono 700 mila più degli uomini. L’uomo è una categoria in pericolo, ma ancora non se n’è accorto.

2 settembre 2015 (modifica il 2 settembre 2015 | 07:45)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/economia/15_settembre_02/disoccupazione-netto-calo-ma-aumentano-inattivi-9be44cfe-5133-11e5-addb-96266eadb506.shtml



Titolo: Federico FUBINI. La Fed e il dollaro Tassi & rialzi nel secolo cinese ...
Inserito da: Arlecchino - Settembre 14, 2015, 06:51:22 pm
La Fed e il dollaro
Tassi & rialzi nel secolo cinese
Dietro le quinte della decisione


Di Federico Fubini

«Un cicchetto di whisky», per una Wall Street già su di giri. Così il presidente della Federal Reserve, Benjamin Strong, descrisse il taglio dei tassi del 1927. L’America non ne aveva bisogno, serviva solo a scoraggiare la fuga di capitali da Londra verso New York e a difendere la sterlina nel Gold Standard. Fu l’ultima volta in cui la Fed ammise pressioni dall’estero su di sé. L’ultima volta fino a mercoledì prossimo, perché oggi viviamo nel «secolo cinese». Fra due giorni si riunisce il Fomc, il Federal Open Market Committee che ha il potere di fissare le scelte della banca centrale americana. Il giorno dopo la presidente Janet Yellen dovrà comunicare la decisione più attesa da anni: un possibile aumento dei tassi d’interesse ai quali la Fed presta dollari alle banche in America. Sarebbe il primo rialzo dal 2006, dopo molti anni in cui il costo del denaro è rimasto attorno a zero: denaro quasi gratis in prestito a breve termine per aiutare il sistema finanziario e l’economia a superare la grande crisi e i suoi postumi. Ora però la disoccupazione negli Stati Uniti è calata al 5,1%, nel secondo trimestre 2015 la crescita è arrivata al 3,7% e quasi tutti ormai prevedono un aumento dei tassi subito oppure, al più tardi, a dicembre.

La Fed è alla vigilia della sua grande manovra per tornare alla normalità, ma potrebbe dover accettare l’idea che questa sarà un’operazione a sovranità (parzialmente) limitata. Come Strong, neanche Yellen può più ignorare le conseguenze sul resto del mondo della scelta più adatta all’economia americana. Nel ‘27 la Fed tenne i tassi più bassi del necessario per aiutare l’Europa a evitare una fuga di capitali. Quasi un secolo più tardi, la banca centrale americana rischia di riscoprire vincoli simili, ma stavolta legati alla Cina. Di fronte ai tremori dello yuan, e al potere della banca centrale di Pechino sul debito americano, la mano di Janet Yellen potrebbe rivelarsi meno libera di come la Fed l’ha sempre voluta. A matita leggera, da tempo Yellen aveva annotato settembre per l’avvio della sua stretta. Gli eventi dell’estate però sono arrivati a confondere i suoi piani: l’11 agosto la Banca del Popolo della Cina ha tentato una piccola svalutazione dello yuan, di cui ha subito perso il controllo di fronte all’enorme pressione degli investitori cinesi per portare i propri fondi fuori dal Paese. Gli indici di Shanghai sono crollati a ripetizione, la fuga di capitali e i crolli valutari si sono trasmessi a tutti i mercati emergenti e le autorità di Pechino sono dovute ricorrere alla repressione finanziaria più esplicita per riprendere in mano un tasso di cambio artificialmente tenuto troppo alto.

In un mese la banca centrale cinese ha speso fino a 200 miliardi di riserve per vendere dollari, comprare yuan e sostenerne così il valore. Sono dieci miliardi al giorno, solo per difendere un sistema che fino a poco fa funzionava gratis: tentare una piccola svalutazione in agosto è stato come annunciare in un teatro gremito che c’è un piccolo incendio. Tutti vogliono uscire. Per questo ora Pechino ha sbarrato le porte, impartendo alle banche indicazioni precise per impedire di esportare capitali.

Da settimane, la prospettiva di un aumento dei tassi della Fed e dunque dei rendimenti in dollari non fa che alzare la pressione. Ed è senz’altro sgradita a Pechino, come lo fu per Londra nel 1927. La banca centrale di Washington ha sempre precisato che agisce solo in base alle esigenze dell’economia americana, eppure il dollaro non è solo la moneta degli Stati Uniti. Il sistema globale del debito ne fa la moneta del mondo: fuori dagli Stati Uniti esistono oggi novemila miliardi di debiti denominati in dollari (escluse le banche) e i loro oneri verranno aggravati se la Fed alza i tassi. In questo fragile equilibrio la Cina ha un ruolo speciale, perché dispone di strumenti di pressione sulla Fed e implicitamente li sta già attivando.

La banca centrale di Pechino ha riserve per 1.270 miliardi di dollari in titoli del Tesoro americani e quasi altrettanto in titoli di agenzie pubbliche di Washington. Se ne vendesse in misura massiccia, potrebbe far perdere a Yellen il controllo degli effetti della sua politica monetaria e causare un forte rialzo dei tassi americani. Uno studio della Fed del 2012 stima che vendite per cento miliardi di dollari di titoli del Tesoro Usa da parte della banca centrale cinese, nell’immediato, farebbero balzare i tassi americani a cinque anni fino allo 0,60%: abbastanza da arrestare la ripresa negli Stati Uniti. Non sono solo teorie del complotto: un rapporto di Ing, una banca, nota che Pechino ha scelto di tenere depositati titoli americani per circa 200 miliardi a Euroclear, la piattaforma di Bruxelles da cui passa buona parte del trading in Europa. Naturalmente questa della Cina è una sorta di deterrenza nucleare: funziona solo finché il bottone rosso non viene davvero premuto. Dopo, sancirebbe anche l’autodistruzione di chi la pratica. Eppure ce n’è abbastanza da consigliare alla Fed il compromesso. Non è un caso se subito dopo i problemi in Cina in agosto, Bill Dudley della Fed di New York ha detto che l’idea di rialzo dei tassi a settembre era già «meno convincente».

Così Janet Yellen si trova a vivere in una sovranità monetaria potenzialmente limitata, come i suoi predecessori dell’anteguerra. Potrà riflettere che, allora, gli effetti non tardarono ad arrivare: un «cicchetto di whisky» nel ‘27, poi Grande Crash del ‘29.

14 settembre 2015 (modifica il 14 settembre 2015 | 11:20)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/economia/15_settembre_14/tassi-rialzi-secolo-cinese-dietro-quinte-decisione-0b14f228-5ac0-11e5-8668-49f4f9e155ef.shtml


Titolo: Federico FUBINI. Emergenza profughi Il dramma dei migranti E ora corridoi ...
Inserito da: Arlecchino - Settembre 15, 2015, 06:05:51 pm
Emergenza profughi
Il dramma dei migranti
E ora corridoi umanitari?
L’Unione Europea potrebbe farsi carico di istituire un sistema legale per aiutare i profughi: andarli a prendere là dove ne hanno più bisogno

Di Federico Fubini

Questa è un’epoca in cui una sola foto può cambiare le scelte degli Stati più ricchi e civili. L’immagine di Aylan Al-Kurdi, il bambino siriano di tre anni annegato davanti alla spiaggia turca di Bodrum mentre cercava di arrivare con la famiglia fino all’isola greca di Kos, non ha solo commosso centinaia di milioni di europei: li ha messi di fronte alle loro contraddizioni. Era così potente soprattutto perché le ha fatte esplodere. Quell’immagine ha fatto capire che non è più possibile ispirare la convivenza in Europa alla difesa dei diritti umani, e allo stesso tempo sbarrare le porte a chi fugge da una guerra. L’accoglienza della Germania di Angela Merkel a decine di migliaia di profughi siriani deve qualcosa anche a Aylan Al-Kurdi. Purtroppo però le sue foto non saranno le ultime di quel genere. È passata poco più di una settimana, e domenica un’altra imbarcazione di fortuna è affondata davanti alle isole greche dell’Asia Minore. Altri 34 profughi a bordo sono morti, metà dei quali bambini piccoli o piccolissimi.

Quando si verificano eventi simili è difficile resistere alla commozione, ma ormai le risposte emotive non bastano più e rischiano di diventare un alibi per non dover vedere il resto. Nel Mediterraneo, gli incidenti si stanno ripetendo così spesso e da così tanto tempo da poterne misurare la logica perversa. Eccola: secondo l’Organizzazione Internazionale per le migrazioni, dall’inizio dell’anno sono sbarcati 121 mila migranti e rifugiati in Italia e 309 mila in Grecia. Alle stime più prudenti, i trafficanti di persone hanno venduto ciascun posto su una pericolosa imbarcazione di fortuna in media per 1.200 dollari dalla Grecia alla Turchia e per 2.500 dalla Libia all’Italia. Questo significa che solo nel 2015 le organizzazioni dei trafficanti hanno lucrato almeno 370 milioni di dollari dai disperati che cercano di raggiungere le isole greche, tre quarti dei quali in fuga dalla guerra civile in Siria o dal Califfato. Quanto alla rotta verso Lampedusa, i ricavi delle bande criminali per quest’anno sono già sicuramente superiori ai 300 milioni di dollari. Probabilmente molto di più.

C’è di peggio. Fra la Libia e la Sicilia da gennaio fino a ieri sono morte 2.620 persone, una ogni 49 che hanno tentato la traversata. Fra la Turchia e la Grecia hanno perso la vita in circa 140, più o meno una ogni duemila. Numeri inaccettabili, che stanno portando molti a chiedersi cosa si possa fare per evitare che crescano ancora settimana dopo settimana.

Nel caso dei rifugiati che cercano il passaggio dalla Turchia sul braccio di mare di pochi chilometri fino a Lesbo, Samos, Kos o Rodi, una risposta probabilmente esiste: andarli a prendere. Se l’Europa riconosce il diritto all’asilo di chi fugge da una guerra, oggi potrebbe chiedersi se esso debba includere anche il diritto a un passaggio sicuro fino alle proprie frontiere. I corridoi umanitari non sono un fenomeno nuovo. Alla fine della Grande guerra l’esercito italiano favorì l’evacuazione dell’esercito serbo. Alla fine della Seconda guerra mondiale le popolazioni di lingua tedesca migrarono dalla Russia e dall’Europa dell’Est fino alla Germania. E il conflitto nell’ex Jugoslavia vide molte fughe di popolazione civile sotto tutela internazionale.

Quella sui profughi siriani non sarebbe una missione impossibile, sicuramente meno complessa dell’attuale sorveglianza marittima e dei continui interventi di salvataggio davanti alla costa turca. L’Unione Europea potrebbe gestire una propria base in Turchia, da cui chi a un primo esame risulta in condizioni di chiedere asilo possa viaggiare su un’imbarcazione sicura (e legale) fino alla Grecia. L’Europa può chiedersi se ha senso permettere ai trafficanti di decidere per lei chi arriva ai propri confini, a quali costi e con quali pericoli. Ed è probabile che lo stesso governo dell’Ankara accetterebbe, anche per bloccare l’attività dei criminali.

Il rischio evidente è che le domande d’ingresso crescano. Certo il diritto al passaggio sicuro non potrà mai valere per tutti, solo per chi ha titolo a chiedere asilo politico. Di recente le organizzazioni umanitarie iniziano a proporlo per le persone in partenza dalla Turchia, ma non dalla Libia: oggi non sarebbe gestibile in un Paese nel caos. Ma questa sembra un’ipotesi destinata a confronto sempre più serrato in Europa. Secondo alcuni l’alternativa, al prossimo naufragio, sarebbe perdere anche il diritto alla commozione.

15 settembre 2015 (modifica il 15 settembre 2015 | 07:48)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da -


Titolo: Federico FUBINI. Soros: Se il premier porta a termine le riforme l’Italia ...
Inserito da: Arlecchino - Settembre 27, 2015, 11:36:18 am
George Soros: «Se il premier porta a termine le riforme l’Italia crescerà più del resto d’Europa»
Il finanziere di origini ungheresi domani incontrerà Renzi a New York: «Il futuro dell’Ue si decide sui migranti: investire nell’accoglienza può dare grandi frutti»


Di Federico Fubini

Dopo la fine della crisi finanziaria in Occidente, a 85 anni George Soros ha smesso di vivere ogni giorno sui mercati. Alla gestione diretta di Quantum, il suo fondo da circa 22 miliardi di dollari, adesso preferisce l’impegno nelle sue fondazioni che aiutano i rifugiati e i migranti in Italia, in Grecia, lungo tutte le rotte dei Balcani e in Ungheria. Si è convinto che le prospettive dell’Europa - inclusa la ripresa dell’economia - si decidano sulle sue capacità di assorbire i nuovi stranieri. Domani lo dirà a Matteo Renzi, quando lo incontrerà a New York.
Dopo gli choc di questi anni, lei crede davvero che l’area euro stia tornando a una crescita solida?
«L’economia europea in effetti sta migliorando, se la ripresa non verrà danneggiata da nuovi episodi di instabilità finanziaria come quelli delle ultime settimane. La mia impressione - dice Soros - è che alla politica monetaria delle banche centrali venga chiesto troppo, più di quanto possa dare. Ci sarebbe bisogno di una politica di bilancio che incoraggi la crescita, eppure questo è esattamente quello che manca».
Vuole dire che i governi dell’area euro dovrebbero gestire i conti con un approccio più espansivo?
«Sì, serve una politica di bilancio espansiva, che sostenga la ripresa. Del resto la soluzione alla crisi migratoria, e persino la soluzione alla crisi ucraina e alla minaccia rappresentata dalla Russia, richiedono che l’Europa faccia degli investimenti seri. Darebbero grandi frutti: accogliere i migranti e i rifugiati e impegnarsi nel garantire loro una sistemazione produrrebbe un effetto molto positivo per l’economia europea. Ma tutto questo implica uno stimolo di bilancio».
Crede che anche l’Italia questa volta riuscirà a partecipare alla ripresa dell’area euro?
«Sinceramente, per le prospettive dell’Italia ho buone speranze. Matteo Renzi è riuscito a introdurre dei cambiamenti importanti nel mercato del lavoro. Adesso sta affrontando il problema dei crediti incagliati e delle sofferenze nei bilanci delle banche, e dopo questo passaggio l’economia italiana potrebbe in realtà crescere più in fretta del resto d’Europa».
Perché dà tanta importanza alla crisi migratoria per la crescita economica?
«In negativo, perché la crisi migratoria minaccia di distruggere l’Unione Europea. Non dimentichiamo che la Ue sta vivendo varie crisi allo stesso tempo e questa è solo una di esse. La Grecia, la guerra in Ucraina, il rischio di uscita della Gran Bretagna dall’Unione e la stessa crisi dell’area euro sono le altre. Angela Merkel ha dimostrato di essere una vera statista, perché ha capito quanto sia critica la questione migratoria. Senza una politica realmente europea su questo fronte, il fatto che ogni Paese si muove per proprio conto potrebbe distruggere l’Unione. Di certo ha già distrutto Schengen, l’accordo sulla libertà di movimento delle persone. E il mercato unico sulla libertà delle merci attraverso le frontiere europee può essere la prossima vittima».
Crede che la soluzione sia un sistema vincolante di quote che distribuisca migranti e rifugiati nei vari Paesi?
«Dobbiamo arrivare a creare una organizzazione europea che cooperi con i vari Stati disposti ad accettare i rifugiati. I dettagli dipenderanno dalla volontà e dalla capacità dei singoli Paesi di assorbire nuovi arrivi. È evidente che quella della Germania è superiore a quelle di Grecia o Ungheria. Ma questa capacità di assorbimento bisogna anche svilupparla. Oggi l’agitarsi più vuoto e inutile mi pare sia in Francia e in Gran Bretagna: per entrambe la capacità di accogliere risulta molto sotto a quanto dovrebbe essere. Anche solo per ragioni demografiche, l’Europa ha bisogno di un milione di nuovi arrivi ogni anno. E i Paesi che ne accoglieranno di più, sono quelli che cresceranno di più in futuro».
Vede una concorrenza fra Paesi europei, quali riescono ad attrarre gli stranieri più qualificati?
«Certamente sì. I siriani che arrivano in Europa tendono a essere istruiti e rappresentano una fonte molto qualificata di lavoro per il futuro. Il perché è ovvio, se ci si riflette: per affrontare il viaggio fino alla Germania questi rifugiati hanno bisogno di un bel po’ di denaro. Ciò significa che è la crema della società siriana che attualmente sta affluendo in Germania. E la Germania è interessatissima ad accoglierli».
Intanto la Grecia è travolta dagli sbarchi. Ritiene almeno che il suo futuro nell’euro sia assicurato?
«Purtroppo il problema greco non è risolto, perché quel Paese ha dovuto accettare condizioni che gli sono state imposte. Non le ha scelte. C’è un atteggiamento ostile in Grecia di fronte all’idea di realizzare davvero quei piani, dunque questa è una ferita che continuerà a infettarsi e a assorbire un sacco di risorse. Molte più di quanto sarebbe giusto».
Cosa intende dire, che la Grecia non va più finanziata?
«Dico solo che l’ammontare speso per la Grecia è almeno dieci volte più vasto di quello speso per l’Ucraina, un Paese che non chiede altro che di avanzare nelle riforme. È un paradosso. C’è un Paese che vuole essere un alleato dell’Europa, ma viene trascurato. E c’è un altro Paese che è un suddito riluttante dell’Europa e riceve francamente, decisamente, troppo».
Suggerisce di spostare risorse e attenzione all’Ucraina?
«Purtroppo gli europei sono stati molto miopi. La nuova Ucraina nata con la rivoluzione di piazza Maidan sarebbe una grande risorsa per l’Europa, investirvi varrebbe veramente la pena. Ma ciò non viene capito e questa totale incomprensione sta mettendo a rischio la sopravvivenza stessa dell’Ucraina, il migliore alleato dell’Europa di fronte alla pressione della Russia putiniana».

26 settembre 2015 (modifica il 26 settembre 2015 | 08:36)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/esteri/15_settembre_26/george-soros-se-premier-porta-termine-riforme-l-italia-crescera-piu-resto-d-europa-0d6deb1e-6417-11e5-a4ea-e1b331475bf0.shtml


Titolo: Federico FUBINI. Deflazione e conti Il dilemma dei prezzi
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 08, 2015, 11:42:59 am
Deflazione e conti Il dilemma dei prezzi
L’economia mondiale del ventunesimo secolo somiglia a un solo grande mercato, da Ho Chi Minh City a Boston, con al suo interno diseguaglianze enormi

Di Federico Fubini

Vent’anni fa, prima di diventare un blogger di successo, Paul Krugman ha avuto un’intuizione brillante. Ha colto quello che sarebbe diventato un tratto dell’epoca, i prezzi freddi.

L’economia mondiale del ventunesimo secolo somiglia a un solo grande mercato, da Ho Chi Minh City a Boston, con al suo interno diseguaglianze enormi. Un operaio cambogiano lavora a una frazione del costo di uno tedesco, e così via. Questa concorrenza fra sette miliardi di persone tiene strutturalmente sotto pressione al ribasso la dinamica dei prezzi nell’emisfero Nord del mondo. Non è un caso se le banche centrali dei Paesi ricchi hanno già stampato qualcosa come settemila miliardi di dollari (quattro volte e mezzo il reddito dell’Italia) nel tentativo di scongiurare la deflazione. Questa è una parola che inquieta, perché ne conosciamo le conseguenze. Le famiglie rinviano gli acquisti aspettando che fra qualche mese un’auto o una vacanza costino meno. Le imprese sospendono gli investimenti perché temono di dover vendere in futuro un manufatto a un prezzo troppo basso rispetto al costo di produzione attuale. Tutti aspettano, i prezzi scendono ancora di più, e la spirale fa un altro giro.

Se ci sono cause secolari di queste minacce (non ancora realtà), ce ne sono altre più vicine. La Cina è in una brusca frenata. In Brasile è ormai aperta quella che chiamano la «Caipirinha Crisis». L’America cresce, ma meno di quanto si sperasse un anno fa, e persino Germania e Spagna danno segnali di affanno.

Questo non è un replay del 2009, perché l’espansione continua. Ma il paradosso per l’Italia è che vive una ripresa più vivace proprio mentre quasi ovunque nel mondo accade il contrario. L’insidia della deflazione prende spunto proprio da qui: meno crescita, dunque meno domanda di petrolio, che ne fa crollare i corsi e spinge verso l’Europa una seconda ondata di freddo sui prezzi.

Per l’Italia possono esserci anche conseguenze positive: la Banca centrale europea reagisce ai rischi creando moneta e iniettandola nell’economia tramite l’acquisto di titoli pubblici, e forse in futuro lo farà ancora di più. Così il governo gode di tassi più bassi. Nessuno beneficia dell’azione della Bce come uno Stato debitore da 2.200 miliardi, che di solito pagherebbe interessi più pesanti degli altri: non è un caso se proprio ora l’Italia migliora, in controtempo sul resto del mondo.

Ci sono però anche dei rischi. Quando l’inflazione è sottozero il reddito nazionale, contato in euro, sale meno di quanto non si sperasse. Soprattutto sale meno del debito, perché questo cresce per inerzia a causa dei tassi d’interesse. Meno euro del previsto in entrate, stessi euro di interessi da pagare. Il risultato può essere un debito pubblico più alto.

Proprio in una fase così il governo sta perseguendo una forte detassazione del mondo produttivo, giusta e coraggiosa. Basta che non dimentichi la profezia di Krugman, se per caso esita di fronte ai tagli di spesa corrispondenti.

2 ottobre 2015 (modifica il 2 ottobre 2015 | 07:10)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/


Titolo: Federico FUBINI. Legge di stabilità: il precedente spagnolo e i dubbi di Berlino
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 12, 2015, 11:22:54 am
UNIONE EUROPEA
Legge di stabilità: il precedente spagnolo e i dubbi di Berlino
Fiscal compact in crisi. La procedura contro Madrid è stata stoppata. Ma in Germania crescono le perplessità sulla manovra di Roma

Di Federico Fubini

A metterli insieme, i regolamenti, le direttive e le pagine dei trattati europei su come si risana un bilancio fanno un volume spesso come un romanzo giallo del secolo scorso.

Non meno di centocinquanta pagine, anche se in questo caso l’epilogo è molto meno scontato. Nel fiscal compact sul controllo dei conti pubblici, i presunti colpevoli di solito la fanno franca e i detective si rivelano tutt’altro che infallibili. Se ne è avuta conferma martedì scorso sul quadrilatero fra Madrid, Strasburgo, Lussemburgo e Berlino. Ciò che è successo quel giorno fra le quattro capitali, con la legge di Stabilità della Spagna in gioco, è diventato un precedente al quale l’Italia probabilmente si appellerà quando la sua manovra sarà sul tavolo a Bruxelles. In seduta a Strasburgo, la Commissione europea si preparava a respingere la bozza di manovra di Madrid: grazie al fiscal compact ne ha il potere e voleva usarlo, perché non trova realistico il piano spagnolo di riduzione del deficit per quest’anno o per il prossimo. Poi nel giro di poche ore è cambiato tutto. Dalla Spagna sono partite telefonate verso Bruxelles e la Germania. Da Lussemburgo, dove si trovava per l’Eurogruppo, il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble ha avuto parole di elogio per il lavoro del suo collega iberico Luis de Guindos. A un quarto d’ora dall’inizio della riunione della Commissione a Strasburgo, la procedura si è bloccata. In Spagna si vota per le politiche tra due mesi e il premier Mariano Rajoy, del Partido popular, è un prezioso alleato in Europa per la cancelliera tedesca Angela Merkel.

Niente di tutto questo garantisce che la stessa trama si replicherà tra poche settimane, quando verrà il turno della legge di Stabilità italiana. Qualunque sia l’atteggiamento della Commissione europea — dove le perplessità sono diffuse — a Berlino si è radicata una convinzione: il fiscal compact sta funzionando male, va superato, ma questa non è una ragione per concedere all’Italia un giro di pista fra gli applausi. È difficile prevedere l’esito finale del percorso della legge di Stabilità italiana in Europa, ma a Berlino si vuole evitare che sia comodo. Si ritiene che già solo un bel po’ di attrito politico, se non proprio una formale procedura europea, aprirà su questo caso una vera discussione in Italia e nell’area euro.

Prima ancora che la manovra del governo di Matteo Renzi venga varata questa settimana, fra la Commissione europea e la capitale tedesca sono già circolate le prime stime sul suo impatto. Rispetto ai piani preesistenti, secondo Bruxelles c’è un aumento dell’1% del deficit «strutturale»: quello stimato (chissà con quanta precisione) al netto delle fluttuazioni temporanee dell’economia. Soprattutto, restano dubbi evidenti riguardo ai piani per i prossimi anni. Gli addetti ai lavori in Germania si sono convinti che l’Italia non abbia davvero l’intenzione, dichiarata nei documenti ufficiali, di andare verso il pareggio di bilancio nel 2018 come prevede il fiscal compact. Si sospetta che il governo miri piuttosto a continuare con un deficit fra il 2% e il 3% del reddito nazionale (Pil) per vari anni. In Italia si pensa che ciò basti a far scendere il debito pubblico, passo dopo passo. In Germania si teme che il risultato sia diverso: un debito pubblico di Roma che può salire verso il 150% del Pil, se prosegue la traiettoria degli ultimi vent’anni di un’economia cronicamente debole.

Qualunque sia il parere della Commissione in proposito, non è difficile prevedere il seguito: la richiesta di nuova «flessibilità» da parte di Roma produrrà tensioni fra i ministri finanziari europei. Schäuble ammira molto Pier Carlo Padoan, trova che il collega italiano sia una delle menti economiche più brillanti nell’Eurogruppo. Ma il ministro tedesco inizia a sospettare che il bilancio si faccia più a Palazzo Chigi che nell’ufficio del responsabile dell’Economia.

Non che il fiscal compact, la cornice di regole fissata nel 2012 in risposta alla crisi dell’euro, sia in crisi solo in Italia o in Spagna. La Francia viaggia da sette anni con un deficit sopra al 3% del Pil, eppure non è mai stata sanzionata, e ai suoi piani ufficiali di rientro nel 2017 non crede nessuno: quell’anno si elegge il prossimo presidente della Repubblica, il momento peggiore per una stretta di bilancio. Il risultato è che Francia, Italia e Spagna, cioè metà dell’economia dell’area euro, di fatto stanno aggirando o ignorando le regole. Il fiscal compact, la cornice che deve tenere 19 Paesi in una sola moneta, è nato morto. In Germania lo si vorrebbe superare con nuove proposte. Un’idea è di mettere i fondi strutturali europei al servizio delle riforme di cui ciascun Paese ha più bisogno, in base alle raccomandazioni di Bruxelles. E certo rimane la pressione a ridurre il deficit, per poter resistere a eventuali choc.

Ma c’è profonda disillusione a Berlino sul fatto che nuove regole, o nuove sanzioni, possano funzionare dove per 15 anni di unione monetaria hanno fallito. L’idea di fondo è dunque di proteggersi dai rischi di un’altra possibile crisi di debito in Europa del Sud in modo diverso: prevedendo sistemi legali per imporre perdite sui titoli di Stato agli investitori privati. Così le obbligazioni pubbliche potrebbero contenere per legge clausole automatiche di riduzione del valore dei titoli, in caso di stress finanziario. Si potrebbero creare vere procedure fallimentari per gli Stati dell’area euro. E i governi che chiedono aiuto al fondo salvataggi (Esm), dovrebbero smettere di rimborsare i loro titoli di debito, per esempio, per tre anni.

Visto da Berlino, è un modo di tagliare un cordone ombelicale e contenere le richieste di «solidarietà» dai Paesi che non riescono più a gestire il debito. Visto dall’Italia, dati i rischi per gli investitori, sarebbe solo un modo di alzare gli interessi sul debito stesso. Il fiscal compact, al confronto, sembra una passeggiata.

12 ottobre 2015 (modifica il 12 ottobre 2015 | 07:41)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_ottobre_12/legge-stabilita-precedente-spagnolo-dubbi-berlino-fe7ac70a-709e-11e5-a92c-8007bcdc6c35.shtml


Titolo: Federico FUBINI. Manovra e conti, ecco perché Renzi adesso cerca lo scontro...
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 28, 2015, 05:55:59 pm
LEGGE DI STABILITA’
Manovra e conti, ecco perché Renzi adesso cerca lo scontro l’Europa
Non è la prima sfuriata di un premier italiano contro i tecnici dell’Ue.
Ma adesso dietro quel “non siete maestri” c’è anche un calcolo politico, ad uso interno


Di Federico Fubini

Non è la prima volta che Matteo Renzi ripete parole del genere in vista dell’esame a Bruxelles della Legge di stabilità dell’Italia e l’attitudine del premier segna un cambio di stagione. Non è la prima volta che un presidente del Consiglio va su tutte le furie se dalla Commissione europea arrivano critiche ai suoi piani di bilancio. Resta difficile da dimenticare la sfuriata di Romano Prodi nel 1996, quando l’allora commissario europeo Mario Monti disse che con la manovra di allora non l’Italia non sarebbe mai entrata nell’euro dall’inizio. Prodi ebbe parole sprezzanti e fra i due uomini - entrambi “tecnici”, entrambi europeisti – ci furono momenti di tensione. Poi la Legge di bilancio cambiò, venne fuori l’«eurotassa» del 1997 e l’Italia agganciò il treno dell’euro. Stavolta però qualcosa è cambiato. A differenza di Prodi, di Silvio Berlusconi, di Monti stesso nella sua incarnazione da premier, o del suo successore Enrico Letta, l’equilibrio che cerca Renzi è diverso. In passato quando la Commissione Ue criticava un bilancio dell’Italia, per il presidente del Consiglio del momento questo era sempre un evento da iscrivere alla colonna dei costi politici. Adesso Renzi iscrive lo stesso tipo di evento nella colonna delle opportunità: l’occasione di accrescere la propria credibilità politica di fronte a larghe fasce dei propri elettori. Prodi, Berlusconi, Monti o Letta temevano non solo una stroncatura, ma persino un appunto da Bruxelles. Renzi dà quasi l’impressione di accoglierlo con impazienza, per poter ripetere: «Non accettiamo lezioni, non siete i nostri maestri». In mezzo fra gli atteggiamenti di quei premier del passato e di questo, naturalmente, è passata la crisi finanziaria. Sono passati gli anni dell’austerità di bilancio, gli errori in Italia ma anche in Europa, il reddito per abitante crollato del 10% dal 2008 al 2014. Un antico equilibrio si è spostato. In passato l’Europa poteva erogare capitale politico a chi governava in Italia tramite un suo segno di assenso e poteva altrettanto facilmente togliere capitale politico con il suo dissenso (chiedere a Berlusconi, in caso di dubbio).

Oggi invece Renzi fiuta che l’equazione forse si è invertita: una critica dall’Europa, e una risposta stizzita, anche per un premier moderato possono diventare l’occasione di costruire capitale politico nel proprio Paese. Anche così si crea consenso fra gli elettori. Dunque Renzi non si lascia sfuggire l’occasione. Questa è la componente politica della questione, ovviamente. Quella puramente finanziaria è invece un po’ diversa. Con questo deficit programmato, la matematica dice che per ottenere una discesa anche solo dello 0,1% nel rapporto fra debito e reddito nazionale (Pil) nel 2016, occorre un’inflazione almeno dello 0,8% con una crescita economica dell’1,6%. Ma ammesso che la crescita economica arrivi davvero all’1,6% - è la previsione del governo, più rosea di quella di quasi tutti gli analisti – oggi l’inflazione procede a zero o addirittura è negativa. È dunque verosimile che il debito continuerà a salire anche adesso che c’è la ripresa. Ma la politica dei rapporti di nuova generazione con Bruxelles è un’altra storia. E Renzi, come al solito, mostra di averla capita in pieno.

16 ottobre 2015 (modifica il 16 ottobre 2015 | 10:42)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/economia/15_ottobre_16/manovra-conti-ecco-perche-renzi-adesso-cerca-scontro-l-europa-3743c47e-73dd-11e5-846d-a354bc1c3c5e.shtml


Titolo: Federico FUBINI. Non facciamoci illusioni Ecco i veri freni dell’Italia
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 04, 2015, 07:09:24 pm
GLI STIMOLI ALL’ECONOMIA DELLA BCE

Non facciamoci illusioni
Ecco i veri freni dell’Italia
L’urgenza di risanare non è passata.
La Banca centrale di Draghi ci ha salvati e continua a farlo.
Ma illudersi che basti a risolvere i nostri problemi, significa volerla imprigionare per anni o decenni in questo ruolo di manager della nostra tenda a ossigeno


Di Federico Fubini

C’è un episodio che si collega con la più grande espansione monetaria che l’Europa ricordi, rafforzata ieri da Mario Draghi. Ma non riguarda i tassi d’interesse. Riguarda Gragnano.

In quel comune in provincia di Napoli un imprenditore della pasta, Ciro Moccia, è stato attaccato davanti a casa cinque giorni fa: nove colpi, uno dei quali lo ha ferito a una gamba. Non tutto è chiaro di quel fatto di cronaca, qualcosa però sì: fa più per scoraggiare investimenti, chiudere imprese, creare disoccupazione e deflazione in Italia quell’unico proiettile nel polpaccio di un imprenditore, di quanto non spinga in direzione opposta la Banca centrale europea creando 1.500 miliardi di euro per comprare titoli di Stato od obbligazioni private.

Quell’agguato si colloca su un punto estremo di una scala di disincentivi più o meno pesanti, più o meno legali. Il Nord non è come il Sud e il Sud non è tutto così. Ma dal più aberrante al più sottile, troppi fattori ovunque nel Paese militano verso lo stesso risultato: ogni euro aggiunto nel tessuto dell’economia dalla Bce porta a un aumento di produttività vicino allo zero. Per la precisione, sempre più vicino allo zero.

Non è colpa della Banca centrale. Non significa che essa non dovrebbe agire come fa, inoltrandosi più o meno decisa in acque inesplorate. Basta chiedersi cosa accadrebbe se la Bce facesse il contrario, se negasse liquidità perché viene usata male in un sistema pieno di disfunzioni. Ogni euro tolto dall’economia per questo, porterebbe stress e crolli di produttività; strapperebbe la maschera alla fragilità finanziaria del Paese. Quello che fa la Bce è necessario, dobbiamo solo toglierci dalla testa che sia sufficiente.

In questo l’Italia è solo un caso particolarmente evidente. Un po’ ovunque nell’area euro l’espansione monetaria non si sta traducendo automaticamente in un aumento del credito alle imprese. Nel terzo trimestre, mentre il sistema Bce comprava 24 miliardi di debito italiano, gli investimenti nel Paese sono scesi dello 0,4% (dello 0,9% sui macchinari). Malgrado il successo di Draghi nell’indebolire l’euro, rendendo i prodotti europei più competitivi nel mondo, fra luglio e settembre il contributo dell’export alla crescita italiana è stato di meno 0,4%.

Quanto al credito, anche qui il molto che fa la Bce non basta. Lo stock di prestiti delle banche alle imprese non finanziarie in Italia valeva venti miliardi di euro di più un anno fa; valeva sette miliardi più all’inizio di questa campagna monetaria che oggi. Nell’insieme dell’area euro i risultati sono simili, benché meno accentuati: a ottobre lo stock di credito delle banche alle imprese valeva 16 miliardi meno che a marzo.

Dunque tutto inutile? No, e non solo perché l’assenza di interventi sarebbe molto peggio. Gli ultimissimi mesi mostrano una timida ripresa dei prestiti, anche in Italia. Ma la Bce non può creare le condizioni di sicurezza che contrastino il dimezzarsi degli investimenti nel Sud Italia, per esempio. Né può trasformare la struttura dei rapporti fra finanza e impresa in Europa, che rende il suo bazooka meno efficace di quello della Federal Reserve negli Stati Uniti. Nell’area euro i prestiti bancari alle imprese rappresentano il 102% del Pil, in America solo il 47%. La ragione è che dall’altra parte dell’Atlantico gli imprenditori con una buona idea si finanziano più direttamente sui mercati: la quota di capitale azionario è pari al 117% del Pil in America, al 67% in area euro (ancora meno in Italia). Quando calano i tassi grazie al quantitative easing, la ripresa dei finanziamenti negli Stati Uniti è immediata, in area euro è mediata dalle banche e dunque dipende dalle loro condizioni.

In Italia, non è ottima. Dopo la recessione il sistema resta oberato da 350 miliardi di crediti deteriorati. Bisognerebbe ripulire i bilanci, anche grazie a una garanzia pubblica come accade sempre quando si creano dei fallimenti nel funzionamento del mercato. Qui un’opposizione un po’ bigotta dalla Commissione europea e dalla Germania sta bloccando tutto: in caso di intervento pubblico vanno colpiti i risparmiatori privati, si dice. Sulla scala di un intero Paese? L’Italia ha strumenti per dimostrare l’impraticabilità di una richiesta simile: il suo direttore del Tesoro presiede a Bruxelles il comitato di stabilità finanziaria, dove si possono discutere e rovesciare le idee sbagliate. Ma non ha mai messo il problema all’ordine del giorno.

C’è poi l’impatto sui conti pubblici. Grazie alla Bce, per fortuna i tassi sui titoli di Stato ormai sono bassissimi. Oggi chi investe 100 mila euro in Btp a 10 anni, anche dopo il balzo dei rendimenti di ieri, sa che alla fine del 2025 avrà guadagnato appena 1.435 euro netti. Nel frattempo però rischia di vincolare i propri soldi per dieci anni e registrare forti perdite teoriche ogni volta che il prezzo dei suoi titoli scende a causa del peso di un debito enorme. Investire così è razionale solo se un risparmiatore pensa che con un rendimento di 1.435 euro comprerà in futuro più cose di oggi; in altri termini i titoli di Stato italiani rischiano di diventare attraenti solo se si scommette sulla continua caduta dei prezzi, cioè sul fatto che il Paese non ripartirà. Altrimenti nessun privato comprerebbe più, e resta solo la Bce a sostenere il debito.

È un paradosso, ma mostra che l’urgenza di risanare non è passata. La Banca centrale di Draghi ci ha salvati e continua a farlo. Ma illudersi che basti a risolvere i nostri problemi, significa volerla imprigionare per anni o decenni in questo ruolo di manager della nostra tenda a ossigeno. Il quantitative easing è stato eroico come risposta all’emergenza. Preoccupiamoci quando, per colpe non sue, diventa l’unico possibile modello di sviluppo.

4 dicembre 2015 (modifica il 4 dicembre 2015 | 10:35)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_dicembre_04/non-facciamoci-illusioni-ecco-veri-freni-dell-italia-bce-draghi-7799bc48-9a4f-11e5-99f9-ca90c88b87df.shtml


Titolo: Federico FUBINI. Banche, le ragioni di un dissidio (destinato a durare)
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 26, 2015, 11:29:33 pm
L’analisi
Banche, le ragioni di un dissidio (destinato a durare)
I contrasti fra Roma e la Commissione Europea, la lettera sui quattro istituti di credito coinvolti dal «salvabanche».
La posizione di Bankitalia: «Ingiusto bruciare obbligazioni». La posta in gioco: il ruolo dell’Italia nell’area euro da qui in poi

Di Federico Fubini

Non si ricorda nei decenni di storia comunitaria una disfida del genere, a colpi di carte e controdeduzioni su un evento già consumato. Chiuso, deciso. Con vincenti e perdenti, ma comunque tale da non poter essere più cambiato. Non lo si ricorda sicuramente fra l’Italia e la Commissione Ue, eppure l’intensità degli scambi è tale da far sospettare che questo non sia tanto uno scontro sul passato. La politica entra in fibrillazione solo quando la posta in gioco è il futuro. La vicenda dei quattro istituti «risolti» riparte da qui: da ciò che rivela sul ruolo delle banche e sul posto dell’Italia nell’area euro da oggi in poi.

La prima evidenza è che l’unione bancaria è entrata subito in tensione: per far fronte ai dissesti esistono solo risorse nazionali, ma versate sulla base un punitivo sistema di regole comuni fatte rispettare dall’esterno. Per quanto discutibili siano le norme europee appena entrate in vigore, molti protagonisti nel Paese vi sono arrivati impreparati. Non erano mancate le messe in guardia: il 23 ottobre del 2013 la Banca centrale europea aveva reso nota una lettera in cui concordava in principio con l’idea di far assorbire certe perdite delle banche ai creditori più esposti; ma notava che è saggio non applicare le norme in modo impropriamente restrittivo. La stessa Banca d’Italia nel novembre del 2013 aveva avvertito dei problemi nelle nuove norme; aveva ricordato il rischio che, bruciando obbligazioni emesse prima sulla base ai altre leggi, si violassero i diritti di proprietà dei trattati europei. In Italia non se n’è accorto nessuno. La politica non ne ha parlato, benché a fine febbraio 2014 abbia votato praticamente in blocco per la nuova direttiva bancaria, sia nell’europarlamento che nel Consiglio dei ministri Ue.

Il resto della posta in gioco però è anche più complesso, perché riguarda il ruolo dell’Italia nell’area euro. Ed è qui che i dissensi fra Roma e Bruxelles sui bilanci bancari diventano importanti. L’operazione sulla Cassa di Teramo, con contributi volontari e fiscalmente deducibili da parte delle altre banche, dimostra che il Paese sa ancora trovare soluzioni efficienti. Ma è sul «salvataggio» di Banca Etruria e Marche e delle Casse di Ferrara e Chieti che gli scogli europei sono venuti fuori. Nel suo rapporto di ieri il Tesoro fa capire che l’intervento del Fondo interbancario era stato disegnato dal governo e della Banca d’Italia in modo rigoroso, ma non traumatico. Le perdite sui crediti inesigibili dei quattro istituti sarebbero state quelle già registrate dalla gestione straordinaria dei commissari. Il capitale sarebbe stato abbattuto, non cancellato o portato i n negativo. Azzerati o quasi i soci, per ricostituire il patrimonio sarebbe bastato convertire in azioni le obbligazioni subordinate. Ci sarebbero state perdite, non un disastro. E dal Fondo interbancario di tutela dei depositi sarebbe stata sufficiente un contributo da 2,2 miliardi.

È qui che la Commissione Ue ha frenato. Per lei le banche andavano «risolte» in base alla nuova normativa europea, cioè liquidate salvandone le parti buone. Gli obbligazionisti subordinati e gli azionisti dovevano perdere tutto per sempre. Costo dell’operazione (finanziato dal Fondo di risoluzione, sempre pagato dalle altre banche italiane), 3,7 miliardi. La chiave è in quella differenza di un miliardo e mezzo fra 2,2 e 3,7. Sappiamo infatti che la soluzione impostasi, quella gradita a Bruxelles, svaluta i crediti in default delle quattro banche fino ad appena al 17,6% del valore originario. Si può dunque immaginare che l’operazione da 2,2 miliardi proposta dall’Italia trattasse quegli stessi crediti al valore di bilancio intorno al 40%: un miliardo e mezzo di perdite in meno. Quel prezzo al 17,6% che piace a Bruxelles è da liquidazione, da vendita al più presto domattina. Il 40% che prevale nei bilanci delle banche in Italia per i crediti in difficoltà invece è un valore di lungo periodo: a volte dietro ci sono anche ville a garanzia, o aziende in crisi che ripartono. E questa forbice fra le due letture è esattamente ciò che oggi blocca un intervento di sistema in Italia per rimuovere dalle banche italiane ben 200 miliardi di prestiti in default.

Questa misura complessiva del governo resta urgente. Serve a rimettere a posto il sistema del credito nel Paese e far ripartire gli investimenti. Ma applicare a tappeto ai prestiti in default gli sconti da liquidazione stimati da Bruxelles, equivale a far emergere un brutale, sproporzionato buco nei bilanci delle banche italiane. Per questo si è arrivati allo stallo. E stare fermi, quando serve una ripresa, è davvero scomodo.
24 dicembre 2015 (modifica il 24 dicembre 2015 | 08:53)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/economia/15_dicembre_24/banche-ragioni-un-dissidio-destinato-durare-e21a68a4-aa0f-11e5-85c0-9f00ee6a341c.shtml


Titolo: Federico FUBINI. Sostegni alla crescita Le riforme e il passo smarrito
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 03, 2016, 06:39:33 pm
Sostegni alla crescita
Le riforme e il passo smarrito

Di Federico Fubini

G li elettori italiani e i leader europei si stanno abituando a vedere Matteo Renzi in un ruolo per lui nuovo: quello\ del co-pilota. Non è il posto naturale del premier, che da quando ha preso controllo del Partito democratico e poi del governo è sempre stato il primo e spesso unico pilota della politica. Per due anni era stato lui a dettare il ritmo e i contenuti dell’agenda delle cose da fare. Una strategia del tutto legittima, soprattutto per un motivo: da Renzi prende origine il programma di riforme di una nazione che vacilla ancora per i postumi di una pesante recessione. Per un certo periodo, il premier ha obbligato tutti a smetterla con le lamentele di parte e a confrontarsi su precise proposte di innovazione: il Jobs act, la riforma della Pubblica amministrazione, l’ingresso delle banche popolari nel XXI secolo.

Non più. A volte si ha l’impressione che la cabina di pilotaggio, non del governo ma dell’agenda delle cose da fare, sia meno presidiata di prima. E che il premier si trovi a volte nelle vesti di uno di quei co-piloti del sedile accanto che cercano di intervenire all’ultimo sul volante per aggiustare la rotta o evitare sbandate. In qualunque Paese è fisiologico che alcune riforme - vedi alla voce spending review - finiscano diluite. Ma da qualche tempo Renzi sembra non riuscire più a dettare l’agenda come prima. Si muove distratto da un’emergenza all’altra a cui risponde in affanno: dalla tempesta per il «salvataggio» di 4 piccole banche, alla freddezza con alcune capitali europee, alle polemiche per l’inquinamento nelle città.
Per certi aspetti è comprensibile. Nessun leader riesce a dominare per intero la politica del suo Paese. Il rischio è però di trovarsi alla lunga meno protetti di fronte ai propri avversari nazionali ed europei. Renzi ha imposto il rispetto dell’Italia in Europa finché ha continuato, anche bruscamente, a innovare. È la dimostrazione della massima secondo cui la migliore difesa è l’attacco. Come il Jobs act, emblema di questo sortilegio virtuoso: il premier lo ha messo sul tavolo, ha definito se stesso attraverso la sua proposta e sia favorevoli che contrari hanno dovuto misurarsi su di essa.

Di recente il sortilegio gli riesce meno bene. La spinta verso ulteriori innovazioni sembra ridotta: la tentazione di non estendere agli statali il contratto a tutele crescenti è evidente e si è smesso di parlare della riforma della Pubblica amministrazione. Nell’ultimo Consiglio dei ministri prima della sosta dovevano passare i provvedimenti per portare finalmente un po’ di realismo e responsabilità nelle municipalizzate, sui servizi pubblici locali, nelle concessioni pubbliche e sulla semplificazione della burocrazia. Ancora una volta però è tutto rinviato.

Qualunque riforma produce scontenti, specie nelle stagioni elettorali. Ma lo stato del Paese è tale che qualunque riforma efficace produce anche molti più italiani felici che qualcosa si sia fatto. L’innovazione a sostegno della ripresa è la sola ragione che può alimentare la legittimità di Renzi in Italia e in Europa. Serve per ragioni di fondo, visto lo stato dell’economia; ma serve anche sul piano tattico, se il premier vuole tornare sul sedile di guida. Renzi nel 2016 non ha molta scelta: deve continuare sulla strada che lui stesso ha indicato. L’alternativa è diventare un bersaglio immobile, troppo facile da inquadrare nel mirino per cecchini di qualunque risma appostati in Italia o a Bruxelles.

3 gennaio 2016 (modifica il 3 gennaio 2016 | 10:30)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/editoriali/16_gennaio_03/riforme-passo-smarrito-d17bbc9a-b1ea-11e5-829a-a9602458fc1c.shtml


Titolo: Federico FUBINI. Il sistema del credito Sofferenze e fragilità
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 20, 2016, 04:09:20 pm
Il sistema del credito
Sofferenze e fragilità

Di Federico Fubini

Se c’è una lezione che lasciano questi anni, essa riguarda in primo luogo le dinamiche dell’instabilità. Quella di questi giorni sulle banche è una frazione infinitesima dell’esperienza vissuta dall’area euro nel 2011 o nel 2012.

Ma i suoi ingranaggi hanno almeno un punto in comune con allora: il contagio finanziario attacca dove percepisce che gli anticorpi della politica sono diventati più deboli. Quando è così, basta un grido d’allarme per innescare una grande fuga verso la porta d’uscita del mercato italiano. Poco importa che alla base ci sia il rischio di un equivoco, reso ancora più intrattabile dalla difficoltà di chi investe a capire cosa stia accadendo fra Roma e Bruxelles e esattamente su quale rotta sia fissato il timone.

Ieri l’allarme è scattato quando si è diffusa una notizia che probabilmente in altri momenti non avrebbe quasi prodotto sussulti. I mercati hanno registrato la notizia, segnalata dal «Sole 24 Ore», che la Banca centrale europea ha inviato un questionario sui crediti inesigibili agli istituti di credito. Molti vi hanno letto l’intenzione dell’autorità di vigilanza di Francoforte di preparare una stretta e obbligare le banche a nuove svalutazioni nei propri bilanci. Questo del resto è esattamente il nervo scoperto nel confronto sulle banche fra il governo italiano e la Commissione europea di Bruxelles.

È uno dei grandi problemi dell’economia italiana, rimasto sotto i radar finché le norme europee lo hanno reso bruciante perché i risparmiatori ora perderebbero denaro in ogni salvataggio pubblico di una banca. In Italia i crediti inesigibili degli istituti superano di poco i 200 miliardi di euro di valore teorico (più altri 150 miliardi circa di crediti «deteriorati», ma non ancora ufficialmente in insolvenza). Poiché le perdite eventuali su questi prestiti sono coperte in media con accantonamenti di risorse per circa il 57%, le banche italiane valutano di poter recuperare circa 86 miliardi su 200 prestati. È su questa base che stimano il loro bilancio e il loro capitale. La stessa Bce ha validato questi numeri negli esami dei principali istituti conclusi appena due mesi fa.

La Commissione europea ha una posizione diversa: sospetta un aiuto di Stato e dunque impone di colpire i risparmiatori se una banca cede un credito deteriorato a un prezzo sopra quello di mercato di stamattina, che è a meno della metà dei valori di bilancio; lo sospetta, ovviamente, se da qualche parte c’è una garanzia pubblica come rete di sicurezza per il compratore. La via suggerita dalla Commissione europea porterebbe dritta a un colossale, ingestibile buco di oltre 40 miliardi nei bilanci delle banche, se queste volessero liberarsi in fretta dei prestiti in default che le zavorrano e le logorano. Su questo punto Bruxelles si è dimostrata inamovibile. Ma il governo di Roma in compenso non è mai riuscito a spiegare le ragioni (che ha) in modo convincente, ed è entrato in una spirale di ritorsioni verbali che reso la Commissione ancora più diffidente. Ogni scambio di battute al vetriolo di Matteo Renzi a Roma e Jean-Claude Juncker a Bruxelles non fa che alimentare la paralisi.

È in questo labirinto che sono piombate ieri le voci sull’iniziativa della Bce. Se davvero la Banca centrale imponesse nuove svalutazioni di quei crediti in default, avvicinandole ai prezzi di mercato, molti istituti registrerebbero perdite importanti e sarebbero costretti a raccogliere nuovo capitale per poter andare avanti. Non è un caso se ieri in Piazza Affari sono caduti di più i titoli di banche con più crediti in default, Montepaschi o Banco Popolare. Fin qui la lettura del mercato. Questa volta però gli investitori rischiano di essersi spinti troppo avanti. A Francoforte si sottolinea che il Consiglio di vigilanza della Bce non ha mai discusso una stretta sul valore dei crediti in default delle banche. A quanto risulta, il questionario mira soprattutto a capire come le banche stiano gestendo i debitori insolventi e a spingerle ad adottare le migliori soluzioni tecniche. Certo, precisa un portavoce della Bce, all’Eurotower è stata creata una task force su questo problema perché «i prestiti deteriorati sono un’area su cui ci concentreremo nel 2016». Non c’è altro. Se non una lezione sempre attuale: nessun investitore si butta dall’auto in movimento dell’economia italiana, se pensa che sia guidata in modo da scansare gli scontri più evitabili.

19 gennaio 2016 (modifica il 19 gennaio 2016 | 07:23)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/economia/16_gennaio_19/sofferenze-fragilita-5686ce94-be74-11e5-8000-980215fcd4e6.shtml


Titolo: Federico FUBINI. Italia-Ue, parla Gutgeld
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 25, 2016, 11:37:45 pm
Intervista
Italia-Ue, parla Gutgeld: «L’Europa ci tratti come gli altri. Avanti con la spending, le riforme marciano»
Il commissario alla revisione della spesa e consigliere economico di Palazzo Chigi:
«Con l’Unione non è un problema di comunicazione, ma politico»

Di Federico Fubini

Yoram Gutgeld non si lascia distrarre dalle fibrillazioni sulle banche italiane. Da mesi porta avanti la sua opera di commissario alla revisione della spesa con tutta la concretezza di cui è capace: oggi stesso riunisce gli assessori e i direttori generali alla Sanità di tutte le regioni italiane per far entrare nel vivo il nuovo sistema centralizzato degli acquisti. Ma come consigliere economico di Palazzo Chigi, vede bene il contesto: «È nell’interesse della Commissione europea avere un’Italia forte - dice - ed è interesse dell’Italia avere una Commissione forte».

Intanto però a molti la «spending review» sembra ferma. Impressione errata?
«Sì, e lo dimostro. Proprio in questi giorni sta partendo operativamente il nuovo sistema degli acquisti di beni e servizi dell’amministrazione. Passiamo da 33 mila stazioni appaltanti a 35. Ovviamente il processo avverrà in modo graduale, ma iniziamo in questi giorni facendo entrare una quota importante degli acquisti della sanità nel nuovo sistema. Parliamo di circa 15 miliardi di spesa. E entro tre anni potremo raggiungere almeno 50 miliardi».

Avete un’idea dei risparmi possibili da quest’anno?
«I risparmi arriveranno quando faremo le gare nuove d’appalto. E le gare diventeranno effettive in modo graduale, in parte quest’anno, in parte il prossimo e via di seguito. A regime, penso che sia realistico ipotizzare un risparmio attorno medio al 10%».

Lavorate anche su altri fronti della spesa sanitaria?
«Intanto il progetto sugli acquisti non riguarda solo la sanità, ma anche ministeri, comuni e tutte le altre amministrazioni. Ma sulla sanità c’è anche un altro intervento, previsto dalla legge di Stabilità: gli ospedali che non registrano né risultati economici né un’adeguata performance clinica dovranno avviare un percorso di rientro su entrambi i fronti. Vale l’approccio che cerco di dare a tutta la spending review: non si tratta solo di mettere a dieta lo Stato, ma di fargli cambiare stile di vita perché poi non servano sempre nuove diete. L’utilizzo dei costi standard dei Comuni sono un altro esempio».

Tutto avviene su uno sfondo di tensione crescente fra il governo italiano e la Commissione Ue. Come si spiega?
«Ciò che l’Italia sta chiedendo, anche sui conti pubblici, è nelle regole. Non chiediamo niente che non sia previsto. C’è la percezione che su qualche dossier l’approccio della Commissione verso l’Italia sia stato, forse, più rigido rispetto a quello verso altri Paesi. L’Italia chiede solo il rispetto e la considerazione dovuti a un Paese che negli ultimi due anni ha fatto riforme importantissime, come forse pochi altri in Europa. Non a caso stiamo ottenendo risultati apprezzabili di crescita e riduzione della disoccupazione».

Eppure polemiche così accese fra Bruxelles e altri governi si vedono di rado. Un problema di comunicazione?
«Può darsi che in passato la debolezza dell’Italia, dovuta alla mancanza di riforme e a una performance economica nettamente inferiore a quella degli altri, non abbia consentito di chiedere con più forza dei riconoscimenti».

Ma ora perché non cercate di farvi capire meglio in Europa?
«Non credo sia un problema di comunicazione. La questione è politica. Il punto è ottenere a Bruxelles risultati che forse nel passato non siamo stati in grado di raggiungere a causa della nostra debolezza. Lo sottolineo: è un dibattito politico. Temo che discutere di comunicazione sia un pretesto».

Per esempio, state discutendo da più di un anno con Bruxelles sulla «bad bank» per liberare le banche dai crediti in default. Davvero è così importante?
«Sicuramente quello è uno strumento molto utile, soprattutto per le banche piccole, per consentire loro di gestire meglio la questione dei crediti in difficoltà che rendono i loro bilanci più problematici. Quindi sì, è importante».

E non c’è. L’Italia entra nel sistema europeo che fa pagare i risparmiatori in caso di salvataggio pubblico delle banche senza avere risolto il problema.
«Spero che questo negoziato sia agli sgoccioli. Mi auguro sia risolto in tempi brevissimi».

Alcuni dicono che la tempesta sulle banche in Borsa è frutto della tensione fra Roma e Bruxelles. Che ne pensa?
«Abbiamo un sistema bancario solido, fatto per due terzi di banche internazionali, a partire da Unicredit e Intesa Sanpaolo. Per un terzo invece è fatto da banche più piccole, che hanno bisogno di aggregarsi per diventare più forti e di ricapitalizzarsi per gestire il tema dei crediti in difficoltà. Il governo ha affrontato le riforme strutturali che servono a rendere questo pezzo meno forte del sistema bancario altrettanto forte: abbiamo fatto la riforma delle banche popolari e stiamo per fare quella delle banche di credito cooperativo. Anche per questo chiediamo alla Commissione europea più considerazione».

Però il mercato sembra non fidarsi. Perché secondo lei?
«C’è un contesto internazionale di caduta delle Borse negli ultimi giorni. Ma non è vero che i mercati non si fidano dell’Italia. Piazza Affari nel 2015 ha registrato dei progressi fra i maggiori in Europa. Paghiamo sui titoli di Stato interessi più bassi della Spagna, e prima non succedeva. Nell’ultimo anno la fiducia degli investitori nell’Italia è aumentata notevolmente. Ora c’è un fenomeno congiunturale che riguarda certe banche, per i motivi che ci siamo detti».

Senza «bad bank» il problema è gestibile?
«Credo che la cosa fondamentale siano le riforme strutturali. Questo sì. La bad bank sicuramente sarebbe utile, e credo che ci siano tutte le premesse per farla partire. Ma il punto fondamentale è l’insieme di interventi che abbiamo già lanciato per far crescere l’economia».

20 gennaio 2016 (modifica il 20 gennaio 2016 | 09:23)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/economia/16_gennaio_20/italia-ue-parla-gutgeldl-europa-ci-tratti-come-altri-avanti-la-spending-riforme-marciano-226cb460-bf47-11e5-b186-10a49a435f1d.shtml


Titolo: Federico FUBINI. Bad bank, garanzie a pagamento per l’accordo con l’Europa
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 27, 2016, 06:48:22 pm
LE SOFFERENZE delle banche
Bad bank, garanzie a pagamento per l’accordo con l’Europa
L'intesa fra il governo e la Commissione Ue è arrivato dopo un negoziato di un anno.
Il comunicato del Tesoro I punti deboli di una lunga trattativa, la mancanza di efficacia dei massimi vertici amministrativi del Tesoro, la rigidità dell’esecutivo Ue

Di Federico Fubini

Il meccanismo, ha avvertito lo stesso ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, è «un po’ più complicato» di una semplice garanzia statale o probabilmente anche di quanto il governo sperasse all’inizio. Ma ora c’è. L’accordo fra la Commissione europea e l’Italia su un metodo per aiutare le banche a vendere i propri crediti inesigibili è stato trovato solo martedì sera, al termine di un negoziato partito all’inizio di febbraio del 2015.

In un comunicato di mercoledì mattina il ministero dell’Economia ha chiarito i contorni dell’accordo. «Lo Stato garantirà̀ soltanto le tranche senior delle cartolarizzazioni, cioè̀ quelle più̀ sicure, che sopportano per ultime le eventuali perdite derivanti da recuperi sui crediti inferiori alle attese», si legge. In sostanza, la garanzia sarà riservata solo ai segmenti di maggiore valore e affidabilità dei pacchetti di prestiti deteriorati che le banche cercheranno di cedere agli investitori. Questi ultimi poi potrebbero rilavorarli in modo da metterli sul mercato come titoli strutturati (composti da tanti piccoli crediti), che offriranno un flusso di cassa in base ai pagamenti residui da parte dei debitori o dalla vendita dei beni che questi avevano posto a garanzia dei prestiti stessi.

La garanzia – spiega il Tesoro - sarà condizionata al fatto che questi pacchetti di prestiti abbiano un rating (giudizio di affidabilità) di livello accettabile. E potrà essere richiesta sia dall’operatore che compra questi pacchetti dalle banche, che dalle banche stesse se intendono rilavorare e mettere sul mercato direttamente i propri crediti in difficoltà. Nel comunicato di questa mattina, il ministero dell’Economia spiega che il prezzo della garanzia sarà calcolato sulla base del prezzo delle assicurazioni in derivati (credit default swaps) a favore di titoli obbligazionari di livello di rischio comparabile a quello di quei crediti malati. In sostanza, ci saranno riferimenti di mercato automatici che determinano il valore delle garanzie. Ma più passano gli anni, più il prezzo della garanzia salirà per ogni singolo pacchetto di crediti cartolarizzati e messi sul mercato.

L’obiettivo ultimo dell’operazione è dunque chiaro: creare pacchetti di titoli composti da crediti deteriorati, ma di buona qualità. Questi ultimi poi potranno essere comprati dalla Banca centrale europea nelle sue operazioni di “quantitative easing”, acquisto di obbligazioni con moneta appena creata. Il solo dubbio è che sia troppo ridotto il volume di titoli di questa qualità elevata nella montagna di credito malato delle banche italiane.

È dunque un accordo limitato, ma è almeno un punto dal quale ripartire.  A bocce ferme, sia il governo che la Commissione dovranno chiedersi cos’è che non ha funzionato. C’è voluto troppo tempo per arrivare a una decisione così importante per voltare pagina dopo la recessione. L’Italia paga senz’altro la lentezza con la quale ha maturato la scelta di un intervento a favore delle banche, a partire dall’ormai lontano 2011; ma paga probabilmente anche un negoziato che nell’ultimo anno non sempre è stato svolto con tutta l’efficacia necessaria da parte dei massimi vertici amministrativi del ministero dell’Economia.

 La Commissione Ue per parte propria ha rivelato, accanto a una grande attenzione alle regole che limitano gli aiuti di Stato, alcuni atteggiamenti di una intransigenza a tratti irragionevole. Di certo il quadro di regole che obbligano a colpire i risparmiatori se anche un solo euro di intervento pubblico viene concesso alle banche, si sono dimostrate per quello che era prevedibile fossero: talmente rigide da rischiare di creare l’opposto di ciò per cui sono state disegnate, il contagio finanziario e l’insicurezza del risparmiatori, anziché la stabilità necessaria alla ripresa. Ma questo è il passato, e in politica come in finanza conta soprattutto il futuro. Quando i contorni dell’accordo di martedì sera diverranno chiari nei dettagli, a partire dai prossimi giorni, ci si renderà conto probabilmente che il meccanismo emerso dal negoziato di Padoan a Bruxelles è piuttosto minimalista. Non poteva essere altrimenti, a questo punto. Ma certo non rappresenterà di per sé il grande colpo di spugna che permette alle banche italiane di liberarsi di crediti inesigibili per 200 miliardi di euro senza registrare forti perdite in bilancio.

C’è però un lato positivo da non sottovalutare: comunque sia, ora la lunga incertezza è finita. Per quanto di minima, il meccanismo di garanzie per la gestione di quella montagna di prestiti cattivi adesso c’è e presto tutti lo conosceranno e ne misureranno esattamente l’efficacia. Avanzato o meno, questo è il punto dal quale l’Italia e le sue banche da oggi in poi potranno finalmente ripartire per mettersi alle spalle i postumi di una lunghissima recessione.

Quel patto Roma-Bruxelles se non altro aiuta a stabilire con più chiarezza le forze in campo e i valori intrinseci di ciascuna banca italiana, soprattutto di quelle più cariche di crediti in sofferenza come Montepaschi di Siena o il Banco Popolare di Verona. Il mercato detesta l’incertezza e almeno questo fattore destabilizzante sarà meno pericoloso da stamattina. A partire da qui, sarà più facile per tutti accelerare nel processo che da ora in poi dovrà portare a nuove aggregazioni fra banche medie e medio grandi in Italia. Le protagoniste saranno inevitabilmente Ubi di Bergamo, la Banca popolare di Milano, fra le banche più solide, e le stesso Montepaschi, il Banco Popolare e altre fra quelle meno in grado di condurre le danze.

Quello delle aggregazioni bancarie è il nuovo capitolo che si sta aprendo nell’economia italiana. Grazie anche all’accordo di ieri sera fra Padoan e Vestager. Forse non è abbastanza, ma non è poco.

27 gennaio 2016 (modifica il 27 gennaio 2016 | 11:22)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/economia/16_gennaio_27/quel-mini-accordo-banche-bruxelles-che-puo-segnare-svolta-97f45876-c4c1-11e5-9027-934aa0fd82d6.shtml


Titolo: FUBINI Bruxelles il cuore ferito della città simbolo, capitale di tutta l’Europa
Inserito da: Arlecchino - Marzo 23, 2016, 06:04:00 pm
La sede dell’unione europea
Bruxelles: il cuore ferito della città simbolo, capitale di tutta l’Europa
La capitale del Belgio non è solo la sede della burocrazia, ma il luogo in cui si decidono i destini di milioni di persone

Di Federico Fubini

Nessuno affiderebbe la sicurezza di Washington alla polizia del Distretto di Columbia o ai servizi segreti della Virginia. Nessuno sarebbe sfiorato dall’idea di proteggere così la Casa Bianca o il Congresso Usa, eppure è esattamente quanto accade a Bruxelles. La capitale dell’Unione Europea e sede dell’Alleanza atlantica, la città al centro di un sistema da 508 milioni di abitanti e di un’economia vasta come quella degli Stati Uniti, è protetta come un vecchio insediamento di campagna. Le sue difese dicono tutto della riluttanza dell’Europa ad accettare il ruolo politico che, perversamente, persino gli islamisti gli hanno riconosciuto attraverso il sangue versato martedì.

Sei distinte polizie
A Bruxelles si decide in questi mesi il futuro di milioni di profughi siriani e quello della seconda moneta del mondo. Angela Merkel vi si gioca la cancelleria di Berlino, e il suo posto nei libri di storia. Nel frattempo la sicurezza è nelle mani delle autorità belghe e della Région Bruxelles-Capitale. Questo significa che non può neanche contare su un corpo di polizia unificato — in città operano sei distinte forze, su base rionale e clientelare — né su un servizio segreto paragonabile anche solo a quello di una media potenza occidentale. Dopo gli attacchi a Charlie Hebdo a Parigi nel gennaio 2015, il governo belga scoprì che gli mancavano 150 su 750 agenti dell’intelligence; da allora ne ha reclutati 42 ma, scrive Politico, resteranno in addestramento per almeno due anni.

Forse il problema è che Bruxelles è troppe cose in una, riunisce troppe contraddizioni in uno spazio più piccolo di Milano. La popolazione araba è iniziata ad arrivare negli anni 50 dal Marocco, dalla Tunisia e dall’Algeria assieme a quella italiana, turca o portoghese: tutti reclutati nei loro Paesi per le miniere o le acciaierie della Vallonia. Oggi sono di religione musulmana 300 mila bruxellesi, poco più di un quarto degli abitanti della capitale; dal 2013 la Valonia, la regione francofona, ha rinominato la sosta natalizia nelle scuole «vacanze d’inverno» per non urtare nessuna suscettibilità. La grande maggioranza dei musulmani coesiste in pace con le altre comunità. C’è poi una minoranza ambigua abbastanza ampia da aver garantito per mesi la copertura del terrorista Salah Abdeslam a Molenbeek, a mezz’ora di bicicletta dalla Commissione Ue. Lì accanto, al mercato degli scannatoi di Anderlecht, si fatica a riconoscere una sola persona di origine europea in una folla da stadio.

Stili diversi
A Bruxelles si cammina per pochi isolati, e può cambiare la lingua ammessa negli uffici pubblici (dal francese al fiammingo). Ancora più spesso in una passeggiata di cinque minuti cambiano gli odori e gli abiti dei passanti, dalle cravatte firmate, alle tuniche salafite, ai copricapo tribali del Congo. La Tour Madou, da dove i funzionari della Concorrenza della Commissione Ue decidono il futuro delle banche italiane, all’interno è perfettamente asettica. Pratica e disadorna in perfetto stile eurocratico. Fuori invece è avvolta dalla popolazione musulmana di Saint Josse, demograficamente debordante e sempre più spesso radicalizzata nei suoi giovani in cerca di identità. Dall’altra parte del quartiere europeo, alle spalle del nuovo e enorme Parlamento, le vie principali di Ixelles sono piene di caffè di gusto francese e di giovani laureati da ogni angolo d’Europa. Ma le piccole traverse sono disseminate di obsoleti Internet café dove figli di immigrati marocchini o bengalesi passano le notti sempre sugli stessi siti web in arabo.

Troppo complessa e simbolica
Bruxelles è troppo complessa, importante e simbolica per considerare quello di martedì un attacco solamente al Belgio. Persino i nostri nemici, tragicamente, dichiarano con un atto di guerra che questa è la capitale politica d’Europa e per i cittadini come per i governi è tempo di trattarla come tale. Bruxelles si era preparata per mesi a questa giornata. Sotto Natale il governo belga aveva persino imposto un lungo coprifuoco; eppure ieri, più di un’ora dopo la prima strage in aeroporto, nessuno si era curato di fermare le metropolitane per prevenire il secondo colpo.

Serve una forza di sicurezza europea
Lasciare la sicurezza di Bruxelles al governo belga e alle sue polizie rionali è come pretendere che il governo greco e i pescatori di Lesbo gestiscano da soli le ondate dei rifugiati. Serve una forza di sicurezza europea, lungo i confini e anche nel centro nevralgico dell’Unione. I terroristi che hanno colpito il cuore dell’Unione sembrano capire queste contraddizioni più di noi stessi europei. Facendo esplodere le bombe nell’aeroporto di Zaventem e nel metrò a due passi dalla Commissione e dal Paramento Ue trattano Bruxelles — nel loro modo orrendo — da capitale degli Stati uniti d’Europa. Si vedrà presto se la risposta sarà a questa altezza. O se dopo le lacrime prevarranno ancora le fughe illusorie dietro i muri o le piccole frontiere, dove proprio i nostri nemici vorrebbero rinchiuderci.

22 marzo 2016 (modifica il 22 marzo 2016 | 23:41)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/cronache/16_marzo_23/bruxelles-cuore-ferito-citta-simbolo-capitale-tutta-europa-ecbe4880-f077-11e5-b1a2-f236e4ccb109.shtml


Titolo: Federico FUBINI. La sfida del Def e l'incognita debito
Inserito da: Arlecchino - Aprile 08, 2016, 08:54:40 pm
Finanza pubblica

La sfida del Def e l'incognita debito
Le previsioni del governo sull’economia (secondo alcuni troppo «ottimistiche») all'esame di Bruxelles

Di Federico Fubini

Il presupposto del Documento di economia e finanza (Def) che approda in Consiglio dei ministri è che un’altra stretta di bilancio sarebbe, letteralmente, «controproducente». Lo si legge nel Def e lo dicono quasi tutti: l’amministrazione americana, il Fondo monetario internazionale del «World Economic Outlook» in arrivo la prossima settimana; lo dice persino il Giappone e lo sussurra la Commissione europea. Il fatto che la Germania resti sulle posizioni rigoriste in materia di finanza pubblica non significa che la scelta del governo italiano di posporre il risanamento sia, in sé, sbagliata.

Poi però restano domande più concrete, e più vicine alle circostanze specifiche del Paese. Le previsioni di crescita e di inflazione nel Def, sulle quali si fonda la prospettiva di una discesa del debito nel 2016 e nel 2017, appaiono generose; non irrealistiche, ma senz’altro più ottimistiche rispetto alle stime della stragrande maggioranza degli analisti indipendenti. Bisogna dunque da capire cosa succederebbe al deficit e soprattutto al debito se le previsioni del governo sulla tenuta dell’economia si rivelassero ancora una volta sbagliate per eccesso.

C’è poi una questione specifica che riguarda i saldi di finanza pubblica: il deficit per l’anno prossimo viene indicato al 1,8% del Pil. È più dell’obiettivo di 1,1% iscritto nella nota di aggiornamento al Def di settembre scorso, ma è poco rispetto ai tagli delle tasse promessi. È poco anche di fronte all’elevata probabilità che il governo non faccia scattare le cosiddette «clausole di salvaguardia» di aumento delle imposte indirette nel 2017.

Quell’obiettivo di deficit implica dunque che la prossima Legge di stabilità contenga anche tagli di spesa. Resta da vedere quanto tutto questo impianto sia credibile, quanto ci creda il governo stesso, e quanto verrà creduto a Bruxelles.

Del resto la strategia del Def ricalca quella raccomandata anche dal Fmi per favorire ripresa in tutto l’Occidente: meno sacrifici, più sostegno alla domanda tramite il bilancio pubblico. Ma questo non vuol dire che tutti i Paesi possano permetterselo nella stessa misura; né che ogni euro di tagli alle tasse o di spesa pubblica in più rafforzi la competitività dell’Italia nello stesso modo. Poiché le risorse a disposizione non sono molte, usarle con la massima efficienza diventa vitale come non mai. Ma questa sfida il governo di Matteo Renzi non l’ha ancora vinta.

8 aprile 2016 (modifica il 8 aprile 2016 | 16:07)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/economia/16_aprile_08/sfida-def-incognita-debito-1a94f904-fd91-11e5-9289-66f52007845c.shtml


Titolo: Federico FUBINI. I tagli dell’Europa uccidono la Grecia: «Io neurochirurgo non..
Inserito da: Arlecchino - Maggio 13, 2016, 06:15:38 pm
I tagli dell’Europa uccidono la Grecia: «Io neurochirurgo non posso operare i malati di tumore»
«Non abbiamo i soldi per i letti della terapia intensiva. La spesa sanitaria è scesa di oltre il 60%. Carenze così marcate hanno un costo in vite umane».
Lo stipendio del dottore è di meno di 2000 euro al mese, 700 il salario degli infermieri

Di Federico Fubini-inviato ad Atene

La dichiarazione sul carbone e l’acciaio. I popoli da riconciliare. Un’unione sempre più stretta. Panagiotis Papanikolaou ieri non ha trovato cinque minuti per riflettere che altrove il 9 maggio significa tutto questo. Per lui l’Europa equivale a liste d’attesa di quaranta giorni per operare di tumore cerebrale e un ascensore in cui i piani sono stati marcati a pennarello blu per risparmiare pochi euro. Si sale così per arrivare al suo decrepito, minuscolo ufficio di neurochirurgo. È nell’ospedale nazionale di Nicea, a occidente della capitale di un club di Paesi che ha realizzato uno degli esperimenti più visionari della storia: l’Unione europea. La dichiarazione sul carbone e l’acciaio. I popoli da riconciliare. Un’unione sempre più stretta. Panagiotis Papanikolaou ieri non ha trovato cinque minuti per riflettere che altrove il 9 maggio significa tutto questo. Per lui l’Europa equivale a liste d’attesa di quaranta giorni per operare di tumore cerebrale e un ascensore in cui i piani sono stati marcati a pennarello blu per risparmiare pochi euro. Si sale così per arrivare al suo decrepito, minuscolo ufficio di neurochirurgo. È nell’ospedale nazionale di Nicea, a occidente della capitale di un club di Paesi che ha realizzato uno degli esperimenti più visionari della storia: l’Unione europea.

Vista da qui, suona come un’utopia distante. Sessantasei anni fa esatti il ministro degli esteri francese Robert Schuman gettava il seme della comunità che avrebbe portato a generazioni di pace, crescita e frontiere aperte. Oggi nel suo piccolo ufficio, il dottor Papanikolaou pensa all’Europa e si lascia sfuggire i segni di un esaurimento nervoso. Cerca di guardare i suoi ospiti ma tiene gli occhi fissi sul pavimento; credendo di parlare, urla. A lui la parola «Bruxelles» fa pensare ai cantieri stradali del suo quartiere di Atene, Pateli, e l’idea lo manda in bestia. «Spendiamo decine di milioni dei fondi europei per ricostruire i marciapiedi a prezzi criminali – dice – ma non abbiamo soldi per tenere aperti i letti di terapia intensiva”. Vista da qui, suona come un’utopia distante. Sessantasei anni fa esatti il ministro degli esteri francese Robert Schuman gettava il seme della comunità che avrebbe portato a generazioni di pace, crescita e frontiere aperte. Oggi nel suo piccolo ufficio, il dottor Papanikolaou pensa all’Europa e si lascia sfuggire i segni di un esaurimento nervoso. Cerca di guardare i suoi ospiti ma tiene gli occhi fissi sul pavimento; credendo di parlare, urla. A lui la parola «Bruxelles» fa pensare ai cantieri stradali del suo quartiere di Atene, Pateli, e l’idea lo manda in bestia. «Spendiamo decine di milioni dei fondi europei per ricostruire i marciapiedi a prezzi criminali – dice – ma non abbiamo soldi per tenere aperti i letti di terapia intensiva».

All’ospedale di Nicea al Pireo, come in tutta la Grecia, la contabilità è controversa quanto tragica. Per tenere aperti i quindici letti di terapia intensiva di questo ospedale servirebbero almeno venti infermieri e dieci medici, ma oggi l’ospedale ne ha rispettivamente dieci e tre. Da anni non è più stato sostituito il personale andato in pensione e questa è solo una parte di una catastrofe più vasta: preferendo salvare altre clientele, i vari governi di Atene hanno tagliato il bilancio del ministero della Salute ben oltre gli obiettivi già durissimi indicati dai governi creditori a Bruxelles. Durante una caduta dell’economia del 29,6% dal 2008, la spesa sanitaria per abitante è crollata il doppio.

A Nicea, questo significa qualcosa di preciso: i letti in terapia intensiva sono rimasti solo undici e si spiegano così alcune delle esperienze recenti del dottor Papanikolaou. Una malata di tumore al cervello ha dovuto aspettare tre mesi per curarsi. Un paziente già operato con successo resta ricoverato da due mesi perché ha preso a sanguinare dal cervello, dopo aver contratto in terapia intensiva un raro batterio: lo trasmettono le infermiere, a quanto pare, troppo poche e dunque costrette a curare e toccare più ricoverati in ogni turno. Da anni lavorano sette giorni la settimana. Servirebbe un paramedico per ogni postazione, in Grecia oggi ce ne sono uno ogni tre e resta chiuso oltre un quarto dei letti disponibili in terapia intensiva.

Una carenza di queste dimensioni sta sicuramente costando vite umane. Il 4 febbraio scorso una donna di 55 anni è morta d’influenza nell’ospedale Sotiria («Salvezza») aspettando invano un letto: quel giorno la lista d’attesa per la terapia intensiva ad Atene era di 75 persone. L’associazione dei medici di Atene sostiene – su basi imprecisate - che riaprire duecento letti chiusi salverebbe duemila vite l’anno e la procura proprio ieri ha annunciato «inchiesta di massima urgenza» dal sapore e clamore decisamente italiani. Non che le radici del problema siano un mistero: per riaprire duecento letti in terapia intensiva in Grecia lo Stato deve assumere cento medici e quattrocento paramedici, al costo di quindici milioni l’anno. Non può. I creditori, i governi europei guidati dalla Germania e il Fondo monetario internazionale, non autorizzano il governo greco ad assumere un solo statale: temono il ritorno del clientelismo, oltre a quello della spesa.

Proprio ieri a Bruxelles gli europei hanno preso atto che il governo di Alexis Tsipras imporrà, su loro richiesta, nuovi tagli e un altro aumento delle tasse. Sulla scala dell’Italia, equivarrebbe a un pacchetto di sacrifici da 48 miliardi di euro. La sola differenza è che l’economia ellenica è già crollata di quasi un terzo rispetto in otto anni, nel frattempo ha ridotto il deficit pubblico dell’11% del Pil e – secondo il sito PubMed – è salita al primo posto in Europa per frequenza delle infezioni in terapia intensiva. Papanikolaou, il neurochirurgo, sa già che le misure porteranno nuove tasse per lui, dopo un taglio di oltre metà dello stipendio dal 2011. Da domani opererà il cervello per meno di duemila euro al mese, mentre la migrazione dei nuovi laureati verso la Germania e la Gran Bretagna non potrà che accelerare: già oggi l’ospedale di Nicea fatica a trovare praticanti da formare, perché tutti si precipitano all’estero. «Abbiamo perso una generazione di medici», dice Papanikolaou.

In una lettera ai governi europei, la direttrice dell’Fmi Christine Lagarde ha definito tutto questo insensato. Gli obiettivi di bilancio imposti alla Grecia, un attivo del 3,5% del Pil sul futuro prevedibile, secondo lei non hanno più senso: «Più di quanto economicamente e socialmente sostenibile», ha scritto Lagarde. «Controproducente». Il governo di Atene finge di adeguarsi tagliando e tassando là dove è meno difficile, non dove servirebbe. Ma Wolfgang Schäuble, il ministro delle Finanze tedesco all’origine di queste richieste, non deflette: il suo partito conservatore a Berlino non intende scoprire il fianco destro all’ascesa dei nazionalisti di Alternative für Deutschland. Così, sessantasei anni dopo la dichiarazione di Schuman, le scelte vitali di una nazione vengono determinate dall’agenda di partito di un altro governo in Europa e non da un minimo di logica o di umanità. Il bilancio della Grecia al 2018 prevede già nuovi tagli sui farmaci. In ufficio a Nicea, Papanikolaou continua a guardare per terra. I suoi strumenti di microchirurgia sono obsoleti, le macchine mobili dei raggi X bloccate. Come fate? Il dottore alza gli occhi e si capisce che il vecchio bisturi vorrebbe finirlo sull’ospite.

(Ha collaborato Nikolas Leontopoulos)

10 maggio 2016 | 10:58
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/video-articoli/2016/05/10/negli-ospedali-atene-rimasti-senza-bisturi/e1fa3d12-168a-11e6-a3a2-ca09c5452a5d.shtml


Titolo: Federico FUBINI. «Il salvataggio? I paletti della Ue sono già scattati in ...
Inserito da: Arlecchino - Luglio 12, 2016, 12:03:15 pm
«Il salvataggio? I paletti della Ue sono già scattati in altri Paesi»
L’economista di Bruegel, Nicolas Véron: le svalutazioni possono funzionare.
Abbiamo già avuto perdite sui bond subordinati, non è stato destabilizzante


Di Federico Fubini

Nel 2012 il francese Nicolas Véron è stato incluso da Bloomberg Markets nella sua lista delle 50 persone più influenti. La ragione: è uno dei padri intellettuali dell’Unione bancaria in Europa, una strada che è stato fra i primi a indicare dall’inizio della crisi finanziaria. Economista ai centri studi Bruegel di Bruxelles e al Peterson Institute di Washington, Véron ha un messaggio per quanti in Italia non vogliono affrontare alcun colpo di forbice sui creditori delle banche in crisi: si è fatto così molte volte in Europa, e ha funzionato.

In caso di aiuti di Stato a Mps, la Commissione Ue chiede che vengano diluiti almeno gli investitori professionali che hanno bond subordinati. Ha senso?
«Da anni la Commissione lavora nel suo mandato di controllo degli aiuti di Stato per accrescere la sostenibilità dei sistemi bancari in Europa, la disciplina di mercato e la parità delle condizioni competitive. Ci sono stati molti episodi. I primi salvataggi, per esempio la tedesca Ikb nel luglio 2007, sono stati fatti senza far pagare i creditori. Nei casi di Dexia o di Rbs nel 2008 sono stati tutelati in buona parte anche gli azionisti. Poi l’approccio si è riequilibrato. La prima volta in cui sono stati coinvolti i detentori professionali di bond subordinati è stata nel 2010, con alcune banche danesi. Per altro non su iniziativa della direzione generale Concorrenza della Commissione europea. Ma quel tipo di investitori deve conoscere i rischi».

In quali altri casi è successo?
«Perdite degli azionisti e degli obbligazionisti subordinati si sono avute negli anni a Cipro, in Portogallo, Spagna, Olanda, Irlanda, Austria e Slovenia. Il caso della tedesca Hsh è aperto e forse succederà anche lì».

Che sia successo altrove dà una logica economica al fatto che debba avvenire anche in Italia?
«La Commissione è vincolata dalla proprio giurisprudenza e da quella della Corte di giustizia europea».

Insomma, può subire ricorsi da altri governi se Roma ottiene un trattamento speciale?
«Anche da investitori in altre banche europee, che sono stati coinvolti. Poi c’è la nuova direttiva sulla gestione delle crisi bancarie tramite il salvataggio interno, frutto dell’impeto politico dominante: i salvataggi sono cattivi, le perdite di azionisti, creditori e depositanti sono buone. Questa è più rigida: prevede di coinvolgere fino all’8% delle passività, con un paio di scappatoie nel caso di particolari stress di mercato».

È la deroga invocata dall’Italia. È giusto che la ottenga?
«Sappiamo che ci sono situazioni in cui l’intervento pubblico è necessario. Nella crisi finanziaria del 2008 e 2009 negli Stati Uniti, applicare il fondamentalismo di mercato non avrebbe migliorato la situazione. Ma penso che gli italiani in questo esagerino».

Perché?
«Lasciamo da parte le conseguenze politiche: non è compito della Commissione Ue gestire la tattica politica nei vari Paesi. Abbiamo già avuto perdite degli investitori professionali sui bond subordinati altrove, e non è mai stato destabilizzante in modo sistemico».

Il governo sostiene che punire gli investitori renderà difficile poi attrarne altri per aumenti di capitale.
«Trovo soprattutto che sia l’Italia, inclusa la Banca d’Italia, che la Banca centrale europea abbiano posposto troppo a lungo questi problemi nel 2014 e 2015. Di gran lunga, è l’ultima questione aperta».

8 luglio 2016 (modifica il 9 luglio 2016 | 10:18)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/economia/16_luglio_08/salvataggio-paletti-ue-sono-gia-scattati-altri-paesi-00e784de-4541-11e6-888b-7573a5147368.shtml


Titolo: Federico FUBINI. A Berlino adesso cambiano le priorità
Inserito da: Arlecchino - Settembre 01, 2016, 07:41:21 pm
A Berlino adesso cambiano le priorità
I dubbi sui conti restano ma pesa più la politica
La cancelliera è convinta che Renzi rappresenti la migliore speranza che ha l’Italia — dunque anche l’Europa — di non scivolare in uno stato di caos politico e istituzionale

Di Federico Fubini

Non capita spesso che il leader di un Paese regolarmente accusato di ogni problema da un collega straniero, visiti quest’ultimo fra mille sorrisi ogni dieci giorni. Ma questa è l’Europa. E questa è Angela Merkel di fronte a quel rebus avvolto in un mistero dentro un enigma che per lei si chiama Matteo Renzi. Probabilmente la cancelliera fin qui ha tratto con certezza non più di due conclusioni quanto al presidente del Consiglio italiano. La prima è che di lui non ci si può fidare, se ci si preoccupa che l’Italia mantenga una rotta di stabilità finanziaria nei prossimi anni; ma la seconda, anche più pressante oggi, è che adesso Renzi va aiutato perché rappresenta la migliore speranza che ha l’Italia — dunque anche l’Europa — di non scivolare in uno stato di caos politico e istituzionale.

Non era molto tempo fa quando Renzi metteva tutta la sua energia in una sfida con Merkel nel Consiglio europeo: «Non diteci che date il sangue per l’Europa». Seguivano osservazioni anche irrituali del premier su Deutsche Bank o su un progetto di gasdotto dalla Russia alla Germania del Nord. In pubblico la cancelliera non ha mai risposto. In privato, in un incontro di Berlino di fine gennaio seguito a un vertice di Bruxelles particolarmente teso, Merkel trattò Renzi con un’aria di superiorità così accondiscendente che non fece che acuire la diffidenza fra i due. Sembrano passati anni, ma sono solo otto mesi. Da allora non è cambiata a Berlino — si è solo radicata — la convinzione che l’Italia non sia su una traiettoria molto sicura con il suo deficit e soprattutto con il debito. Il Patto di stabilità e la Commissione Ue non sembrano al governo tedesco in grado di risolvere questi problemi. In Germania, a torto o a ragione, è molto avvertito il problema di come proteggere i contribuenti tedeschi e l’integrità dell’euro se una delle sette grandi economie avanzate del mondo dovesse tornare in crisi finanziaria.

Ciò che invece è cambiato a Berlino negli ultimi mesi è la riflessione politica sull’Italia. Renzi sta guidando il Paese verso il referendum costituzionale sullo sfondo di un’Europa messa alla prova dalla Brexit, dal terrorismo, dalle ondate di migranti e dalla lunga paralisi politica di Parigi. Per Merkel, l’Italia e il suo premier oggi sono il solo interlocutore possibile e sono da aiutare ad ogni costo a superare il percorso dei prossimi mesi. Uno dei segnali in questo senso è stata l’apertura del ministro dell’Interno, Thomas de Maizière, al suo collega Angelino Alfano al Meeting di Rimini dieci giorni fa: la Germania per la prima volta fa scattare gli accordi europei e accoglierà «centinaia» di migranti sbarcati in Italia ogni mese.

Le concessioni e la cordialità di Merkel a Ventotene pochi giorni fa e ieri a Maranello sono altri tasselli della stessa tattica. L’errore più grande, in Italia, sarebbe prendere tutto questo come un via libera incondizionato, su tutto e per sempre. Se e quando Renzi supererà il referendum, si accorgerà che non sarà bastato quello a dissolvere i timori diffusi a Berlino sulla direzione verso cui sta viaggiando l’Italia.

31 agosto 2016 (modifica il 31 agosto 2016 | 23:27)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/


Titolo: Federico FUBINI. Perotti, ex commissario alla spending review: «Tagliati 25 ...
Inserito da: Arlecchino - Settembre 07, 2016, 11:18:44 am
L’INTERVISTA

Spesa pubblica, Perotti: «Dalle partecipate ai troppi sussidi, ecco perché le riforme hanno fallito»
Perotti, ex commissario alla spending review: «Tagliati 25 miliardi, ma sono state aumentate altre spese per la stessa cifra. E i costi della politica non sono scesi»


  Di Federico Fubini

Roberto Perotti, economista, ex commissario alla spending review (Imagoeconomica) Roberto Perotti, economista, ex commissario alla spending review (Imagoeconomica) shadow

Perché ha scelto di lasciare il suo incarico a Palazzo Chigi?
«Perché io ero andato lì, e vi ero stato chiamato, per ridurre la spesa pubblica. Mi sono reso conto che, per decisioni politiche che rispetto, è stato deciso di non ridurla seriamente. A quel punto a me non interessava star lì a lavorare su come ridurre una detrazione da dieci milioni e aumentarne un’altra. A quel punto mi sono reso conto che non c’era la volontà di ridurre la spesa pubblica, e ho considerato il mio mandato inutile»
Il presidente del Consiglio, il ministro dell’Economia e il commissario alla “spending review” ripetono che la spesa pubblica è stata ridotta dal 2014 di 25 miliardi. Non è una cifra banale, è quasi 2% del Pil
«Questa non è un’affermazione inesatta ma è altamente ingannevole, nel senso i capitoli che sono stati ridotti, se si mettono insieme, lo sono stati per circa 25 miliardi. Poi ce ne sono stati altri che sono stati aumentati in maniera equivalente. Quindi, al netto, la spesa pubblica non è diminuita. Poi si può discutere se la riduzione da 25 miliardi sia stata una buona cosa per fare spazio a misure più utili. Su quello ognuno ha la sua opinione».
La sua qual è? Pensa che la qualità della spesa almeno sia migliorata?
«Non particolarmente. Anche perché è difficile migliorare la qualità della spesa se non c’è un intervento un po’ pianificato e pensato bene all’inizio. Sono stati dati interventi soprattutto nel campo del welfare, piccoli e non strutturati, non coordinati. Che si sono succeduti nel tempo per accumulazione. Non c’è stato dietro un disegno, che non è facile fare. Ma appunto perché non è facile andava, pensato sull’arco dei due o tre anni che questo governo aveva a disposizione»
Sta parlando di bonus di vario tipo, o degli sgravi contributivi sui contratti permanenti?
«È inutile negarlo: nonostante la retorica politica, associare il bonus ai 18enni a un aumento della spesa per la difesa contro il terrorismo non ha alcuna motivazione. Il fatto Le Monde abbia inneggiato a questo non significa niente. Il bonus ai 18enni è una mossa non necessariamente elettorale o demagogica, ma senza alcuna ratio economica sociale. Anzi. Invece molti dei i programmi di cui si sta parlando attualmente, la quattordicesima, l’aumento delle pensioni minime, il bonus fertilità, e via elencando, sono tutte misure quantitativamente piccole, ma molto spesso elettorali, e soprattutto pensate in modo estemporaneo: disperdono risorse preziose che potrebbero essere usate meglio, in base a un disegno organico, per raggiungere chi ha veramente bisogno»
Si riferisce anche al bonus per le forze di polizia?
«Non voglio nascondermi dietro un dito, quello era una forma di adeguamento salariale sotto altro nome, che ci può stare. In tutto il mondo i governi sono sottoposti a queste pressioni. Ma quando si prendono queste misure così piccole, una di qua, una di là, e non coordinate nel tempo, be’, necessariamente poi la qualità della spesa peggiora. E sono tutti programmi che lasciano eredità al futuro, perché poi una volta lanciati, è molto difficile toglierli»
Invece i 25 miliardi di tagli vengono da razionalizzazioni di acquisti, centrali di acquisto aggregate?
«Quelle per adesso non sono ancora apparse a bilancio, sono cose che nel bilancio 2016 non si vedranno ancora perché è un processo un po’ lungo. Si spera che alla fine porteranno altri 4 o 5 miliardi. Sul 2016 ne appare appena una minima parte»
Allora quei 25 miliardi di tagli da dove vengono?
«Sono stati tagliati trasferimenti alle regioni e agli enti locali, anche se poi non è detto si manifestino come riduzioni di spesa: potrebbero anche diventare aumenti delle tasse a livello decentrato. Poi ci sono due miliardi di tagli ai ministeri, 5 di tagli al fondo per la riduzione del cuneo fiscale, e altri interventi»
Sembra di capire che il governo stia chiedendo nuovamente della flessibilità sul deficit. Gli equilibri di finanza pubblica le sembrano stabilizzati?
«Una premessa: secondo me c’è un punto di partenza di questo governo su cui si può essere d’accordo, o in ogni caso si può capire: il governo chiaramente pensa che ci sia stato un eccesso di tecnicismo a livello della Commissione europea. Le regole, inutile negarlo, sono complicate e un po’ cervellotiche. C’è un motivo perché siano cervellotiche: si voleva evitare che qualcuno facesse il furbo»
Ma al netto della regole, anche se non esistesse il Patto di stabilità, le pare che la finanza pubblica italiana sia su un sentiero ragionevolmente stabile?
«La mia impressione è che ci sia un elemento di discontinuità con il passato: la riforma delle pensioni; ovviamente se ne può discutere quanto si vuole in termini di equità, ma dal punto di vista puramente finanziario è stato un elemento di discontinuità ed è stata una svolta nei rapporti con il resto del mondo. È stato il fattore che ha permesso che all’estero si cambiasse opinione sull’Italia. La correzione apportata dal governo Renzi con l’APE, l’anticipo pensionistico, è a mio avviso una soluzione intelligente a un problema reale, dopo oltre un anno di false partenze e di annunci estemporanei e poco ponderati. Al netto di questo però non vedo una grande differenza con il passato. Anzi ho l’impressione che, come spesso succede in politica, ci si sia un po’ seduti sugli allori»
La preoccupa che il deficit rischi di aumentare?
«Devo anche dire la decisione del governo di aumentare il disavanzo di circa l’1% del Pil rispetto agli impegni presi con la Commissione poteva aver senso. Personalmente penso che sarebbe stato importante rispettare gli impegni di riduzione della spesa, perché da un punto di visto economico era giusto farlo e simultaneamente ridurre le tasse ancora più di quanto si riduceva la spesa. Non scordiamoci che si può aumentare il disavanzo anche così, diminuendo le tasse anche più della spesa. Io lo avrei fatto, perché bisognava dare un segnale che c’è la volontà di controllare la spesa inutile e la capacità di tagliare le tasse. Ma per tagliare le tasse permanentemente, bisogna tagliare anche la spesa pubblica. Mentre annunciare un taglio di tasse è facilissimo - sapeva farlo anche Berlusconi - tagliare la spesa pubblica è maledettamente difficile, e non si fa in tre mesi»
Per voi esperti è facile dire cosa fare. Poi però non siete voi a dovervi prendere la responsabilità politica e sociale delle conseguenze. Qualunque taglio di spesa è un taglio a commesse su imprese o a trasferimenti sociali. Questo vuol dire distribuire oneri e sacrifici. Non trova?
«Assolutamente. È proprio per questo che l’unico modo per affrontare questo problema è farlo da un punto di vista complessivo. Non si può farlo in tre mesi, non si può farlo in sei mesi, bisogna guardare a tutta la spesa e avere un’idea di quali sono i propri fini ultimi»
Cioè farlo in maniera complessiva perché tutti devono vedere che non tocca solo loro, ma è un impegno complessivo che tocca tutti?
«Esatto. In questo modo puoi dire di aver toccato questo, ma anche quello. Il nostro fine ultimo dovrebbe essere la lotta alla povertà, la lotta alla disoccupazione giovanile. Se hai qualcosa da mostrare, se fai vedere che stai tagliando la spesa, ma stai liberando risorse per povertà e disoccupazione giovanile non in modo frammentario e improvvisato, ma complessivo, allora diventa più facile. Se lo fai in modo disorganizzato e diluito nel tempo, è difficile. Devi farlo tutto insieme, nel tempo e su tutti gli articoli di spesa non in linea con le priorità che ti sei dato. Soprattutto è fondamentale far vedere che si interviene sui privilegiati, sia da un punto di vista economico che politico. È per questo che aggredire i costi della politica è fondamentale»
Cioè è politicamente accettabile fare un programma di riduzione di spesa solo se si fa vedere che le élite, l’establishment sono coinvolti?
«Sì»
Renzi dice che lo ha già fatto, perché ha ridotto i costi della politica e ha limitato i compensi dei dirigenti pubblici a 240 mila. Dunque non è che non è successo.
«Ha ulteriormente esteso la limitazione ai compensi che era stata introdotta da Monti e da Letta. Però non c’è stato quel programma organico di lotta ai costi della politica che si sarebbe potuto fare, e che presuppone a sua volta una ricognizione organica. Facile prendersela con questo o quell’altro ente, magari sulla spinta di qualche dato eclatante uscito recentemente sui giornali. Quello di cui hai bisogno è una ricognizione organica di tutto. Tutti i comparti statali, la giustizia, le regioni, gli enti locali. Tutti i livelli ministeriali. Se non fai un confronto con gli altri Paesi, come fai a dire che questa o quella figura guadagnano troppo o troppo poco?»
Sulla dirigenza pubblica qualcosa è stato fatto, anche con la riforma Madia.
«A livello economico non mi risulta che sia stato fatto molto. Anzi, a mio avviso c’è il rischio concreto che la riforma Madia addirittura porti a un passo indietro. Con l’abolizione delle fasce retributive dirigenziali, ci sarà una omogeneizzazione delle retribuzioni. Ma sarà inevitabilmente verso l’alto. Quando mai si è vista una omogeneizzazione delle retribuzioni verso il basso? Io aumento la tua retribuzione, tu aumenti la mia…. Bisogna tenere presente un dato non molto noto: i dirigenti pubblici italiani a tutti livelli, ma soprattutto a livelli apicali, sono già molto ben pagati, più per esempio i degli omologhi inglesi. Sia a livello ministeriale che a livello locale e anche nel campo della giustizia. E lì non mi risulta che sia stato fatto niente. Poi c’è la riforma Madia sugli incarichi a termine e i dirigenti che possono essere valutati: però lì secondo me è stato un enorme specchietto per le allodole. Intanto perché i criteri di valutazione sono incredibilmente astratti, come è inevitabile che sia. E poi nell’università pubblica è già stato introdotto questo sistema, i docenti dovrebbero essere valutati ogni tre anni e lo sono. E in teoria è previsto che alla fine potresti perdere il posto. Nella storia dell’università italiana non è mai successo che una volta un ordinario o associato o un ricercatore sia stato rimosso. È successo due o tre volte che dei ricercatori non sono stati confermati, sono andati al Tar e sono stati reintegrati. Cane non mangia cane. Ma questo non è colpa necessariamente del governo, perché è molto difficile in un sistema pubblico fare una valutazione. Anche in Gran Bretagna è da 30 anni che ci stanno pensando ma non hanno trovato la soluzione. Ma questa idea che cambierà tutto secondo me è un’illusione»
Sulle partecipate pubbliche si è molto legiferato. Che ne pensa?
«Lì purtroppo c’è un’illusione collettiva ancora più forte che nel caso della dirigenza pubblica. Quasi niente della riforma Madia è nuovo. Sono tutti criteri formali, aggirabili e soprattutto non mordono»
Sta parlando del fatto che le partecipate devono occuparsi solo di attività proprie della funzione pubblica?
«Sì, è un criterio talmente generale che qualunque partecipata potrà sempre dire che lo sta facendo. La riforma Madia inizia dicendo che da ora in poi le amministrazioni pubbliche non potranno partecipare in società ‘non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali’»
Ma questo non c’era già dalle riforme degli anni precedenti?
«Sì. Ed è una frase talmente ovvia e generica che qualunque partecipata potrà sempre dire che sta svolgendo quel tipo di funzioni»
Dunque anche questa riforma rischia di creare esiti gattopardeschi?
«Sì, anche perché è una riforma fatta con criteri amministrativistici, tutta basata da un lato su pompose enunciazioni generali che non hanno alcun mordente, dall’altro su un elenco infinito di casi e sottocasi, ognuno ovviamente con la sua deroga. Per esempio, la riforma dice che l’ente partecipante non possa ripianare le perdite di una partecipata, ‘a meno che tale intervento sia accompagnato da un piano di ristrutturazione aziendale’. Quindi tutto quello che si deve fare è assumere un consulente e farsi fare un piano di ristrutturazione aziendale. Altri soldi che partono. Oppure, la riforma prevede che ‘in caso di risultati negativi attribuibili alla responsabilità dell’amministratore, la parte variabile della sua remunerazione non può essere corrisposta’. Ma qualcuno ha mai pensato come si fa a dimostrare che un risultato negativo è attribuibile alla responsabilità di un amministratore? Facciamo una causa che si chiuderà tra venti anni con un’assoluzione? Oppure ancora, se la partecipata ha avuto un risultato economico negativo per tre anni di fila, si procede alla riduzione del 30 per cento del compenso degli amministratori; ed è persino una giusta causa ai fini della revoca degli amministratori. A meno che, ovviamente, ‘il risultato economico, benché negativo, sia coerente con un piano di risanamento preventivamente approvato dall’ente controllante’. Altri piani di risanamento, altre consulenze. Invece di tutti questi bizantinismi, c’era un modo semplicissimo per tagliare le poltrone: eliminare l’organismo interno di vigilanza, che non serve a niente, e attribuirne i compiti al collegio sindacale. Si sarebbero tagliate oltre 10.000 poltrone in un colpo solo. E legalmente non c’è nessun ostacolo a farlo. L’impatto sul risparmio di spesa sarebbe stato limitato. Ma ovviamente qualcuno non sarebbe stato contento»
Questi aspetti sono frutto di una volontà di cambiare tutto per non cambiare niente?
«No. In questo caso sono convinto che ci fosse buona fede e la volontà di fare»
E allora perché non ha funzionato?
«Perché la riforma è stata scritta tutta da amministrativisti, che ragionano solo in funzione di enunciazioni formali e di elenchi di cose permesse e proibite, e pensano che basti scrivere che una cosa è proibita perché non avvenga più»
Un po’ napoleonico, no?
«Molto latino. Tutto questo l’ho visto in azione, ed è terribile. La tradizione amministrativista in azione. L’illusione che da 8.000 si passi a 1.000 partecipate, usando criteri che sono già in teoria attivi da dieci anni, è destinata a rimanere tale. Il risveglio sarà amaro»
Serviva un manager?
«Non necessariamente. Serviva il buon senso. Ogni volta che si scrive un provvedimento, ci si dovrebbe fare quattro domande: In pratica, che effetti avrà? Come può essere aggirato? Il gioco vale la candela? Si può attuare senza dover fare ricorso a un contenzioso giuridico infinito che si risolverà in un nulla di fatto tra quindici anni? Anzitutto si sarebbe dovuto fare una ricognizione definitiva e fatta bene delle partecipate: ci sono almeno quattro elenchi ufficiali, ma in gran parte inutilizzabili per gli scopi della riforma. Ancora oggi il governo non sa esattamente quante e dove sono, cosa fanno, quanto spendono per ogni dipendente, e via dicendo. E poi ci sono aziende da prendere una per una. Per gestire un cimitero non serve una partecipata, bisogna solo scavare delle fosse. Si dica che se ne occupa una divisione del comune. Ci sono Comuni di diecimila abitanti con holding finanziarie. Ci sono regioni con decine di società di startup, anche a livello comunale: una follia. Ci sono persino Comuni con partecipate che si occupano della semplificazione dei rapporti con il pubblico! Si prendono una per una e si dice: chiudetele. Hai il foglio excel con tutte le partecipate, metti una X di fianco a quelle che in base a questi criteri verranno eliminate. Il comune, la regione non le chiude? Gli taglio i trasferimenti: vediamo chi vince»
Anche sulla Rai ha lavorato molto. Cosa ne pensa?
«Sulla Rai sono rimasto molto stupito dagli sviluppi. Il problema della Rai è che ha troppi soldi. Se si compara alla Bbc, i costi unitari sono molto più alti. Parlo di costo del lavoro unitario, il costo medio del lavoro per ogni unità di valore aggiunto. E soprattutto come sempre in Italia sono molto pagati i dirigenti. Perché l’Italia, che si vanta di essere un Paese molto egualitario, nel settore pubblico sono molto pagati i dirigenti, rispetto agli altri Paesi, e sono meno pagati invece quelli a livello più basso»
Cioè ai livelli più bassi dell’amministrazione sono sotto le medie europee?
«Per esempio un insegnante o un maestro guadagnano meno che nelle medie europee. Già un dirigente scolastico guadagna più di un dirigente scolastico in Gran Bretagna, per esempio. Però gli esempi più eclatanti sono nella dirigenza ministeriale e regionale, riguardo a questa disparità. La Rai incorpora tutti questi problemi, più il fatto che rispetto alla Bbc ha un bilancio enormemente più alto, per ore di produzione. Ha una percentuale altissima di dirigenti tra i giornalisti, sono 600 su 1.600, una percentuale pazzesca. Quindi era ovvio che una riforma dovesse affrontare questo problema»
Cosa vuol dire, mandarli via?
«No, ma porre la basi per cambiare le cose poco a poco. Al limite con dei prepensionamenti. Però qualcosa andava fatto, se non nell’immediato almeno qualcosa che affrontasse il problema nel lungo periodo. Invece la riforma che è passata nei mesi scorsi è esclusivamente legalistico-formale e di corporate governance: tratta di chi nomina chi. Però poi non è cambiato niente perché di fatto in maggioranza erano e sono di nomina politica. Dal punto di visto dei costi non è cambiato niente, anzi gli sono stati dati più soldi perché il canone in bolletta ha aumentato enormemente le entrate della Rai»
Il canone in bolletta è una forma di lotta capillare e efficace all’evasione. Si è sempre detto che i proventi della lotta all’evasione dovevano finanziare un calo del prelievo. Ma perché il canone è sceso così poco?
«È per quello che sulla retorica della lotta all’evasione bisogna stare molto attenti. Se tu recuperi un miliardo e ti serve per ridurre le tasse sugli altri che prima pagavano un miliardo, è un’ottima cosa. Ma se recuperi un miliardo e lo usi per dare un miliardo in più a dei dirigenti statali o per rimpinguare la RAI, allora cosa serve recuperare l’evasione? Il caso della Rai con il canone in bolletta è l’esempio perfetto di questo: il canone è stato diminuito di soli dieci euro, in compenso molti che prima lo evadevano adesso pagano, quindi in aggregato le risorse che vanno alla Rai sono aumentate. Esattamente il contrario di quello che bisognava fare, perché la Rai è già la più finanziata di tutte le televisioni pubbliche. Quindi non capisco questa riforma, esclusivamente di tipo formalistico e legalistico. Un esempio classico di riforme del tipo di quelle delle partecipate: solo formali e legali»
Sta dicendo che Renzi è partito con certe premesse di riforma di certi snodi che la vedevano molto convinto e poi ha fatto un passo indietro verso una politica più tradizionale?
«Non so se sia stato intenzionale. Non credo lo sia stato. È un esempio del fatto che le riforme non basta farle scrivere in un pomeriggio a un amministrativista, o a un funzionario con la stessa formazione. Le riforme bisogna pensarle, fare confronti con gli altri Paesi, cercare di capire la ratio dell’esistente. L’esistente non va giustificato semplicemente perché c’è. Se la Rai ha il doppio del bilancio degli altri Paesi, significa che o tutti gli altri Paesi sbagliano, oppure siamo noi. Allora dobbiamo cercare di intervenire. Però queste cose non si fanno in tre giorni. Non si fanno solo da un punto di vista legale e formale. Io non credo ci fosse malafede, c’è stata semplicemente superficialità. Per esempio, un caso eclatante di superficialità è che il precedente direttore generale della Rai si era già ridotto il compenso a 240 mila euro; ma insieme alla riforma della Rai, quando è arrivato il nuovo direttore generale, se lo è ri-aumentato a 650 mila euro. Negli ultimi anni il compenso del direttore generale della BBC, che è molto più grande ed è vista in tutto il mondo, è stato ridotto da 750.000 a 500.000 euro. Quello che è successo alla Rai non credo fosse intenzionale, ma mi sembra insensato anche se è una piccola cosa. Non credo che sia stato fatto intenzionalmente da parte della politica, è stato solo un approccio superficiale alle cose»
Queste sono tutte spese importanti e non piccole, circa due o tre miliardi di spesa se ci mettiamo anche le partecipate. Ma tre miliardi non cambiano niente alla pressione fiscale. Qual è l’altra parte, quella che colpisce una platea più ampia, su cui lei interverrebbe?
«Qui entriamo ovviamente in un campo minato e mi rendo conto che tutto quello che dirò è politicamente difficile. Però per esempio ci sono tantissimi sussidi alle imprese, per cui nessuno sa esattamente quanti siano. Molti sono fuori bilancio, ricordiamocelo, molti»
Non sono nella famosa lista delle 814 deduzioni o detrazioni esistenti?
«No, no. Molti trasferimenti diretti non lo sono. Adesso Enrico Bondi sta facendo la ricognizione. Quindi lì, nessuno sa esattamente quanto ci sia da tagliare. In termini di valore attualizzato di flussi futuri (‘present discounted value terms’) sono miliardi e miliardi. A partire per esempio dalle energie rinnovabili. Poi le pensioni sono un terreno minato, ma sono ancora convinto della proposta di Tito Boeri - che è stato sottoposto a una vera e propria character assassination appena l’ha avanzata - fare cioè il ricalcolo contributivo sulle pensioni più alte e tagliare non tutta la differenza ma anche solo il 30% o il 40%. La gente ha completamente distorto, intenzionalmente, quello che proponeva Boeri. Secondo me quella è ancora una via possibile che porta due o tre miliardi, di cui alcuni si possono utilizzare per il welfare. Ma è inutile illudersi, non c’è niente che ti dia 15 miliardi di risparmi di colpo. È un lavoro da certosini. Prendiamo i sussidi al cinema, che valgono ‘solo’ 500 milioni. Io continuo a sostenere che i sussidi al cinema, che sono stati più che raddoppiati in gennaio, sono uno scandalo. Il cinema italiano è il più sussidiato del mondo per euro di valore aggiunto prodotto. Molto più dei francesi, che già ne fanno una fissazione. Tutti dicono che i sussidi italiani sono meno di quelli francesi o inglesi, ma dimenticano di dire che l’industria francese o inglese è cinque volte quella italiana. E poi cerca di farglielo capire… A gennaio i sussidi al cinema sono stati portati da 200 milioni o 500 milioni. Tutti contenti, strette di mano, giornali che inneggiano sai nuovi finanziamenti per la cultura... Ma perché il povero disoccupato del Sud deve sussidiare i cinepanettoni? Quando sollevavo il problema, tutti mi parlavano dell’indotto. Ma l’indotto c’è dappertutto: se parliamo di indotto, non si finisce più. Bisogna dimostrarmi che ha più indotto quello di un’altra spesa»
In questo quadro si è aperto in Italia un dibattito accesissimo sulle Olimpiadi. Che ne pensa?
«Se viene un marziano a Roma, vede una città allo sbando. Con periferie in condizioni difficilissime. Ad amici che dovevano andare a Tor Bella Monaca la polizia ha consigliato di non fermarsi ai semafori rossi con il motorino, per sicurezza. Hai una città nell'occhio del ciclone da anni per diecimila motivi. L’ultima cosa di cui hai bisogno sono le Olimpiadi. Il problema è che i politici pensano sempre di risolvere i problemi con il mattone, perché è la cosa più semplice. È molto più difficile sedersi a tavolino e cercare di risolvere i problemi di un quartiere deteriorato. La gente lì ha bisogno di verde, di scuole o di chiudere le buche. Non ha bisogno di una nuova piscina olimpionica che il giorno dopo non usa più nessuno. Ha bisogno di tante piscine per far fare sport ai ragazzi. L’Italia è il paese con meno piscine per abitante d’Europa e lo sport è importante. Hai bisogno di tante piscine non faraoniche, semplici, per far fare sport ai ragazzi e toglierli dalla strada. Le Olimpiadi sono l’esatto opposto di questa idea e distolgono le energie non solo finanziarie, ma anche politiche, amministrative, intellettuali. Per anni e anni si pensa a una sola cosa, che durerà due settimane. Mentre Roma ha bisogno di tornare all'ordinaria amministrazione, ma questa è molto meno redditizia per un politico, nell'immediato. Perché un politico va alla cerimonia di inaugurazione dell’Expo o delle Olimpiadi, non va all'inaugurazione di un campetto di calcio di un quartiere disastrato. Anche se poi magari quello è socialmente molto più redditizio nel lungo termine»
Al referendum costituzionale come voterà?
«Voterò sì perché penso che abolire il bicameralismo sia importante. Il bicameralismo perfetto è stato un disastro per l’Italia. Anche se era meglio abolire del tutto il Senato. Ma c’è uno sviluppo degli ultimi mesi che non mi è piaciuto. Ho l’impressione che Renzi abbia capito che non riuscirà a vendere la riforma all'opinione pubblica perché è troppo complessa, e quindi ha deciso di puntare sui suoi presunti effetti per i costi della politica. Il marketing del governo è che si ridurranno di un terzo le poltrone, e di 500 milioni i costi della politica. Sono affermazioni un po’ birichine. La riforma riduce di un terzo le poltrone dei parlamentari, che sono una minima parte delle poltrone della politica. Nei 500 milioni, sono inclusi 350 milioni di risparmi dall'abolizione definitiva delle provincie che il referendum consentirebbe, che però sono già stati conteggiati nell’abolizione di fatto che è già in gran parte avvenuta. Secondo i miei calcoli il risparmio è dunque al massimo di 150 milioni, ma solo ammesso che il Senato faccia molto downsizing. Purtroppo questo governo, per ragioni che posso comprendere ma che non condivido, ha fatto pochissimo sui costi della politica, e ora cerca di recuperare distorcendo il contenuto del referendum, che non ha quasi niente a che fare con i costi della politica»

3 settembre 2016 (modifica il 4 settembre 2016 | 17:38)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/economia/16_settembre_03/spesa-pubblica-perotti-dalle-partecipate-troppi-sussidi-ecco-perche-riforme-hanno-fallito-7998c5de-7217-11e6-a5ab-6335286216cb.shtml


Titolo: Federico FUBINI. Il commissario Ue: flessibilità? Pochi margini, fuori dal ...
Inserito da: Arlecchino - Settembre 07, 2016, 12:06:30 pm
L’intervista
Il Commissario Ue, Dombrovskis
«L’ l’Italia ora faccia le riforme: grazie alla Bce il tempo c’è, non va sprecato»
Il commissario Ue: flessibilità? Pochi margini, fuori dal deficit solo le spese d’emergenza per il sisma che ha colpito l’Italia centrale


Di Federico Fubini

Valdis Dombrovskis, 45 anni, condivide con Angela Merkel origini da scienziato e una tremenda volontà nascosta dietro un contegno laconico. In vita sua ha visto da Riga la dissoluzione sovietica, lavorato nei laboratori di fisica di Germania e Stati Uniti, guidato da premier la Lettonia attraverso un piano di sacrifici durissimo e di successo; oggi è il vicepresidente della Commissione Ue e sarà determinante nel decidere se questa volta l’Italia esagera con le sue revisioni al rialzo di deficit e debito. Lo si vedrà presto. Uno scambio di lettere fra Dombrovskis e il ministro Pier Carlo Padoan a maggio impegna l’Italia a un deficit dell’1,8% del Pil nel 2017 e a una riduzione «strutturale», cioè senza tener conto delle fluttuazioni dell’economia e delle misure una tantum. Da settimane però nel governo italiano si sente parlare di nuove richieste di «flessibilità».

L’Italia vuole rinegoziare. Che impressione le fa?
«Riguardo al bilancio per il 2017, potremo dare un qualche giudizio quando vediamo la bozza di Legge di stabilità. Ovviamente ci aspettiamo che il governo si attenga gli impegni e prepari il bilancio 2017 in linea con la raccomandazione-Paese inviata all’Italia. Al primo punto prevede un miglioramento del saldo di bilancio di 0,6% del Pil».

In termini strutturali?
«Sì. Per quanto riguarda la flessibilità in generale, lo spazio è molto limitato perché l’Italia nel complesso ha esaurito nel 2015 e 2016 tutta la flessibilità che era disponibile».

Non ne può invocare altra?
«In caso di disastri naturali, si può considerare che ci siano misure una tantum di cui non tenere conto quando si valuta lo sforzo strutturale di un Paese».

Parla delle spese di ricostruzione e emergenza?
«Esattamente: i costi direttamente legati al sisma».

Ma altre forme di flessibilità? Dopotutto la ripresa si è fermata e rispettare l’obiettivo di deficit a 1,8% con meno crescita significa più tagli o più tasse.
«Per questo ci concentriamo sempre sugli sforzi strutturali dei Paesi. Quanto alla crescita, in primavera prevedevamo 1,1% quest’anno e 1,3% il prossimo, ma adesso dovremo considerare l’impatto della Brexit e altri fattori di rischio al ribasso per l’economia».

Se una parte di deficit in più è dovuta a minore crescita, è accettabile?
«È così».

Lei sa che Matteo Renzi sta affrontando un referendum costituzionale al quale i mercati e le altre capitali guardano con timore. Non è un fattore attenuante sui conti?
«Lei sa che la Commissione cerca di stare fuori dalla politica interna dei vari Paesi. Certo apprezziamo gli sforzi di riforma del governo, nel mercato del lavoro, nell’amministrazione e adesso sulla Costituzione in modo da rendere il processo legislativo più lineare e sostenere la stabilità degli assetti. Ma la Commissione ne resta fuori. Non prendiamo decisioni in base a questi argomenti».

Quanto al debito, sembrerebbe che possa di nuovo aumentare quest’anno e forse anche il prossimo. Che ne pensa?
«In effetti è un freno per la crescita. È ben noto che il Paese ha il secondo livello più alto di debito dopo la Grecia, attualmente al 133%. Davvero alto. Quando ne parliamo con le autorità italiane, sottolineiamo che va posto su una traiettoria discendente, ce lo siamo scritti anche nello scambio di lettere dello scorso maggio. Rifaremo una valutazione insieme a quella sul bilancio per il 2017. E certo sappiamo che ci sono fattori che rendono la situazione più complicata: crescita e inflazione basse, e altri di cui abbiamo tenuto conto quando in passato abbiamo deciso di non avviare una procedura sull’Italia. Ma certo questa questione è ancora lì, ed è rilevante».

La vostra prossima valutazione avverrà nel contesto di un debito in aumento...
«Avverrà nel contesto di un debito che è sopra al 60% del Pil e non si sta riducendo a un tasso del 5% della differenza dal 60% come prevede la regola».

Ma guardi ai surplus di bilancio prima di pagare gli interessi: da vent’anni l’Italia fa come o meglio della Germania, eppure il debito sale perché l’economia non va. Se volete usare le vostre procedure, non è meglio farlo per ottenere riforme per crescita?
«Davvero. Questo è un punto importante. La ripresa dell’Italia è molto lenta e sotto alla media europea e un punto di fondo è la crescita della produttività, che ristagna da due decenni ed è molto sotto la media dell’area euro. È stata pro capite a zero contro circa l’1% l’anno nell’area. Devo dire che l’Italia sta facendo progressi nel mettere in pratica le nostre raccomandazioni. Li definirei progressi “medi”, ma anche così sempre più della media degli altri!».

In Germania c’è poca fiducia nella vostra capacità di garantire disciplina sui conti, tanto che avanzano proposte di procedure d’insolvenza sui titoli di Stato. E il suo stesso ex capo staff Taneli Lahti si è dimesso perché, dice, la Commissione Ue fa troppi compromessi “politici”.
«Non commento mai i commenti. Ho lavorato bene con lui e ora ha deciso di prendersi una pausa principalmente per ragioni personali. Quanto a queste proposte che emergono non solo in Germania, sarei cauto. E’ importante non creare dubbi sulla capacità e volontà dei Paesi di onorare il loro debito. Anche per non complicare loro la vita quando devono finanziarsi».

Per ora la Bce sta aiutando con i suoi acquisti di titoli pubblici. Non teme che l’Italia sprechi l’occasione di mettersi a posto finché questi interventi durano, e dopo sarà più dura?
«Mario Draghi dice sempre che gli strumenti di politica monetaria non possono risolvere i problemi strutturali nell’economia. Concordo. La politica monetaria può far guadagnare tempo per gli Stati perché facciano le riforme strutturali necessarie. Per questo è importante che i Paesi usino questo tempo saggiamente e mettano in pratica le riforme. Il mandato della Bce è la stabilità dei prezzi. Oggi l’inflazione è molto bassa, ma a un certo punto si vedrà che non sarà più così e lo spazio di manovra della Bce diventerà molto minore. È importante che questo tempo sia usato saggiamente».

2 settembre 2016 (modifica il 2 settembre 2016 | 23:24)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/economia/16_settembre_02/dombrovskis-l-italia-ora-faccia-riforme-grazie-bce-tempo-c-non-va-sprecato-9d051992-714e-11e6-82b3-437d6c137c18.shtml


Titolo: Federico FUBINI. Brexit: DOPO IL VERDETTO DELL’ALTA CORTE
Inserito da: Arlecchino - Novembre 05, 2016, 11:06:42 am
DOPO IL VERDETTO DELL’ALTA CORTE
Brexit: Ivo, Gina e il team di avvocati che ha sfidato il Parlamento inglese
Ma i nomi dei «registi» sono segreti
Chi sono i legali che hanno impostato la sfida legale affinché sia il Parlamento a votare l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue

  Di Federico Fubini

Ivo Ilic Gabara ha capito che lui e i suoi potevano vincere quando davanti all’Alta Corte, di colpo, la questione è diventata personale. A inizio ottobre il Procuratore generale dell’Inghilterra e del Galles Jeremy Wright ha aggredito verbalmente Gina Miller, invece di rifarsi alla legge: secondo l’avvocato del governo di Londra, questa manager della finanza etica nata in Guyana stava cercando di sovvertire la volontà del popolo espressa nel referendum sul divorzio dall’Unione europea.
Gli attacchi personali al posto degli argomenti giuridici sono sempre una spia che questi ultimi scarseggiano. Sono tic tipici più di un regime autoritario, che delle battaglie davanti alle parrucche bianche dell’Alta Corte dei Lord. Ivo Gabara, 56 anni, italiano trasferitosi a Londra nel 2008, non li aveva messi in conto quando all’inizio dell’estate con un piccolo gruppo di alleati ha gettato il seme della svolta di ieri. Era il mercoledì dopo il referendum sulla Brexit, 29 giugno. In una saletta di Mishcon de Reya, uno dei grandi studi di avvocati d’affari della City, Miller, Gabara e pochi altri si ritrovano per impostare la sfida legale che ieri avrebbe segnato una prima vittoria.

«Non abbiamo mai cercato di rovesciare l’esito del referendum né di impedire la Brexit», dice Gabara, presidente e proprietario di una società di comunicazione con clienti come i governi del Bangladesh e delle Mauritius o grandi gruppi, da Exxon Mobil a Telia Sonera. «Volevamo ristabilire il principio che nel Regno Unito il Parlamento è la sede della sovranità e non lo si può accantonare in un corto circuito fra un referendum consultivo e l’azione incontrastata del governo. Sarebbe stato uno stravolgimento della Costituzione formatasi in secoli di common law, quasi un colpo di Stato».
Rapidamente Miller, Gabara e una decina di altri, in buona parte soci di Mishcon de Reya, hanno formato un «comitato d’indirizzo» che avrebbe portato al duello di questo autunno nei tribunali. Lo studio legale fondato dallo scomparso Victor Mishcon, figlio di un rabbino polacco che aveva trovato la salvezza a Londra, presto avrebbe pagato per la sua scelta di esporsi: in luglio davanti alle sue finestre hanno iniziato a formarsi proteste e picchetti di fautori più radicali della Brexit. Da allora molti dei nomi dei registi del ricorso sono rimasti gelosamente custoditi nei computer dello studio. Per rappresentare Miller all’Alta Corte Mishcon de Reya ha ingaggiato Lord (David) Pannick, un «Queen’s Council», ossia uno degli avvocati da dibattimento più celebri della nazione. A Gabara tocca il compito di parlare a nome del gruppo e gestire la comunicazione di Miller. Quanto agli altri sostenitori della causa, si sa solo che fra di essi si trovano figure di punta del mondo degli affari e dell’industria. «Non solo soci di Mishcon de Reya — si limita a dire Gabara —.
Ci sono anche clienti dello studio, come la stessa Miller. Non posso aggiungere altro per non dare adito a inesistenti teorie del complotto», aggiunge l’italiano. «Se tirassimo fuori i nomi, saremmo tacciati di essere l’élite di Londra che vuole rovesciare la volontà del popolo».

Questa cortina di segreto rischia di alimentare i sospetti dei fautori della Brexit. A Gabara preme sottolineare il coraggio della donna che ha messo il suo nome sulla battaglia legale: «Nel clima di aggressione seguito al referendum non si è mai tirata indietro». Fare di lei il volto della sfida nelle Corti è stata una decisione presa a fine luglio, dopo il primo dibattimento: allora divenne chiaro che sarebbe bastato avere un unico ricorrente ufficiale. Gabara però sa bene che la vittoria non è ancora assicurata. Da tempo la Corte Suprema aveva riservato il 7 e 8 dicembre per l’appello che sarebbe sicuramente seguito. Ma un primo segnale c’è già, nota l’italiano: «Abbiamo dimostrato che il Regno Unito resta la patria dello Stato di diritto. Non si possono privare milioni di britannici della possibilità di vivere gli anni della pensione in Spagna o di aprire un conto in Germania, senza prima ascoltare il Parlamento». L’Alta Corte in realtà non precisa se la Camera dei Comuni dovrà votare un mandato preciso al governo per i negoziati di secessione dalla Ue, oppure alla premier Theresa May basterà una rapida consultazione. In ogni caso il Parlamento non oserà esprimersi contro la Brexit. «Ma il referendum non ha mai decretato che dovrà esserci la rottura radicale che il governo persegue. Non ha mai dato mandato al premier di portare il Paese fuori dal mercato unico, danneggiando l’industria dell’auto, della farmaceutica e della finanza — nota Gabara —. Ora grazie a noi i moderati tornano in gioco».

3 novembre 2016 (modifica il 3 novembre 2016 | 22:42)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/esteri/16_novembre_04/01-esteri-dxcorriere-web-sezioni-aeb8508e-a207-11e6-9c60-ebb37c98c030.shtml
 


Titolo: Federico FUBINI. - Fuest: «Se l’Italia non cresce, valuti l’uscita dall’euro ...
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 17, 2016, 03:07:41 pm
L’INTERVISTA
Fuest: «Se l’Italia non cresce, valuti l’uscita dall’euro Berlino è preoccupata»
L’economista tedesco: «Il timore è che altri Paesi finiscano per sopportare il costo del debito di Roma. Renzi era considerato una speranza per la modernizzazione»

  Di Federico Fubini

Clemens Fuest, 48 anni
Clemens Fuest, presidente dell’Istituto Ifo di Monaco, non è niente di ciò che si immagina dei tedeschi quando criticano l’Italia. Non è antieuropeo: fa parte con i commissari Ue Frans Timmermans e Pierre Moscovici del «gruppo di alto livello» guidato da Mario Monti, incaricato di ridisegnare parte del bilancio dell’Unione. Né fa parte della generazione nostalgica del marco, perché ha 48 anni. A maggior ragione l’uomo che guida il più influente centro di studi economici in Germania riflette idee ramificate in profondità, e in silenzio, nei palazzi di Berlino.
Il risultato del referendum costituzionale ha cambiato la percezione sull’Italia nell’establishment tedesco?
«Matteo Renzi era considerato una speranza per le riforme. La bocciatura del suo progetto e di lui stesso viene letta come un segnale di resistenza alla riforme e alla modernizzazione. Anche se il contenuto di quella proposta costituzionale non era molto ben compreso in Germania».

Il governo di Paolo Gentiloni probabilmente coincide con l’ultima fase intensa di interventi della Banca centrale europea. Sarà possibile farne a meno?
«Che il governo italiano resti in funzione o meno non dovrebbe dipendere dalle operazioni della Bce. Se la stabilità dell’economia italiana dipendesse da questo, anche se l’inflazione risale, vorrebbe dire che in essa c’è qualcosa di fondamentalmente sbagliato. Qualcosa da affrontare con strumenti diversi dalla politica monetaria».

Perché lei parla di «fuga di capitali dall’Italia» in riferimento al deficit crescente del Paese in Target 2, il sistema dei pagamenti interbancario dell’area euro?
«A luglio il saldo negativo dell’Italia in Target 2 era di meno di 292 miliardi di euro, ma in ottobre era salito a 355».
È un deficit del 22% del Pil, mentre in Spagna supera il 30% e, correttamente, non ci si preoccupa.

«In Spagna l’aumento è stato da 293 a 313 miliardi».
Eppure sulla Spagna non si parla di «fuga di capitali». Sono effetti degli interventi Bce. In più in Italia i depositi bancari salgono del 3,5%. Come fa a dire cose del genere?
«È un fatto che la liquidità sta lasciando l’Italia, l’aumento dei saldi di Target 2 ne è la prova. I venditori esteri di titoli di Stato italiani alla Banca d’Italia potrebbero comprare altro nel vostro Paese ma non lo fanno. Questa la chiamo una fuga di capitali. Lo stesso accade in Spagna ma a velocità molto minore. Non c’è modo di provare che i timori legati al referendum abbiano determinato queste scelte, ma quali altre spiegazioni esistono?»

Lei dice anche che se l’Italia lasciasse l’euro ci sarebbe un’altra crisi, ma sarebbe sempre meglio di una stagnazione permanente e di «una continua dipendenza dai trasferimenti da altri Paesi». Pensa che l’Italia debba valutare l’uscita dall’euro, se non riesce a crescere?
«Sì. C’è un forte interesse dell’Europa nel suo complesso nel tenere l’Italia nell’euro, ma questo è accettabile per la popolazione italiana solo se il Paese riesce a tornare a livelli soddisfacenti di crescita. L’Italia deve riuscirci attraverso miglioramenti della competitività e riforme. Se poi risulta che l’euro è un ostacolo alla crescita in Italia, sembra preferibile che il Paese lasci l’euro. Certo, è una decisione che deve prendere il governo italiano».

Quanto sono presenti idee del genere negli ambienti di politica economica in Germania oggi?
«Le preoccupazioni per la stabilità dell’euro sono molto presenti e c’è un’opinione diffusa che l’alto livello di debito pubblico e la bassa crescita sollevino interrogativi sul fatto che l’Italia voglia restare nell’area euro. C’è anche la preoccupazione che, se l’Italia avesse bisogno di finanziamenti dall’esterno, altri Paesi dovrebbero sopportare il costo del debito italiano. Come per la Grecia».

Dal 1991, come dal 1998, o dal 2010, il surplus di bilancio italiano prima di pagare gli interessi supera sempre quello della Germania. Non è sbagliata l’idea del Paese-cicala?
«No. Un Paese con un debito al 140% del Pil e crescita cronicamente bassa deve avere surplus molto più alti di un Paese con meno debito».

Perché gli investimenti in Germania sono scesi addirittura del 5% del Pil dal 2008, benché il Paese accumuli risparmi in eccesso per 300 miliardi l’anno?
«Perché si considera più redditizio l’investimento all’estero. Non sorprende, in un Paese che invecchia rapidamente».

16 dicembre 2016 (modifica il 16 dicembre 2016 | 02:40)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/economia/16_dicembre_16/clemens-fuest-se-l-italia-non-cresce-valuti-l-uscita-dall-euro-berlino-preoccupata-8f8d963a-c32f-11e6-a6a9-813fa40c3688.shtml


Titolo: Federico Fubini. La crisi economica dietro lo scontento europeo
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 05, 2017, 10:55:48 am
SCENARIO
La crisi economica dietro lo scontento europeo
Ciò che accade in Germania, Spagna, Gran Bretagna o Usa rappresenta il segnale che nell’attuale contesto tutto è più complesso di come sembra

  Di Federico Fubini

Superata la grande recessione dell’economia, i leader europei potrebbero chiedersi se non siamo entrati in una seconda recessione, più strisciante, dei sistemi politici. Questi fenomeni non sono dissoluzioni di ciò che prosperava fino a poco tempo prima. Una recessione è una reversibilissima fase di arretramento, che è possibile mettere alle spalle declinando in modo nuovo il vecchio consiglio di John Foster Dulles, il segretario di Stato americano degli anni 50: «Non stare fermo, fai qualcosa!».

I sintomi dell’arretramento non sono difficili da leggere quasi ovunque nelle democrazie occidentali. In Germania un centinaio di deputati di estrema destra farà il proprio ingresso in parlamento, quello dalla cupola di cristallo ricostruita dopo le distruzioni della guerra. In Catalogna gli indipendentisti e la polizia si sono contesi il controllo dei cosiddetti seggi di un tentativo di referendum popolare che comunque lascerà ferite brucianti. In Francia ha vinto le elezioni un giovane presidente aperto e ottimista, ma lo ha fatto ottenendo al primo turno il voto di non più di un francese su cinque, sulle macerie dei partiti tradizionali. Dell’Italia, vista dall’estero, ciò che colpisce è che non riesca ancora a darsi una legge elettorale degna di questo nome e non si vedano maggioranze omogenee plausibili; vista dall’estero, la campagna elettorale che sta partendo sembra una sorta di ballo in maschera.

Inutile poi parlare della Brexit, quando in una piovosa domenica di giugno un pugno di voti in una confusa consultazione ha determinato lo status costituzionale di un Paese profondamente diviso, senza possibilità di ripensarci. O della vittoria di Donald Trump, che si è imposto non solo contro la maggioranza degli elettori ma — per la prima volta negli Stati Uniti — contro il suo stesso partito.

Negli ultimi dieci anni l’economia internazionale ha affrontato due infarti, Lehman e la crisi dell’euro, ma anche la politica non si sente tanto bene. Ovviamente per questo malessere esistono molte ragioni che non hanno niente a che fare con quei terremoti finanziari: problemi di identità di fronte al carattere multietnico delle nazioni moderne, terrorismo e molto altro ancora.

Eppure quanto sta accadendo in Germania, Spagna, Gran Bretagna o negli Stati Uniti dovrebbe suonare come il segnale che in un’economia del ventunesimo secolo tutto è più complesso di come sembra. L’idolatria dei numeri semplici, la pagellina macroeconomica che un nuovo ceto di sacerdoti predica ogni giorno, può illudere. Germania, Stati Uniti e Gran Bretagna hanno prodotto il voto più spiazzante del dopoguerra mentre viaggiavano a piena occupazione (la Repubblica federale con appena un 3,8% di disoccupati). Della Spagna si sono passati gli ultimi anni a spiegare che cresceva di più del 3% perché aveva «fatto le riforme».

L’Italia naturalmente è molto più indietro e di riforme deve farne sul serio tante di più, dunque gioire in segreto dei problemi altrui sarebbe solo patetico. Eppure quei Paesi sembravano risolti e non lo erano. Forse meritavano un’analisi più libera e profonda di quella proposta dalle solite letture di superficie dei dati di un’economia, che rischiano di diventare una forma contemporanea di superstizione. Si guarda appena sotto, e si scopre che la crescita media per abitante in Germania — quella che ogni singolo elettore sente sulla propria pelle — negli ultimi cinque anni è stata dello 0,9% e negli ultimi due anni è stata persino inferiore a quella dell’Italia (il resto della crescita tedesca è venuto dall’aumento della popolazione straniera). Si guarda sotto la superficie, e si nota che le economie di Stati Uniti e Gran Bretagna sono tornate presto ai livelli pre-crisi solo perché gran parte dei nuovi redditi è andata al 10% più ricco degli abitanti. Si guarda appena sotto alla ripresa spagnola e non si scorge solo la continua deflazione dei salari. Si vede anche che la rivolta secessionista catalana affonda le radici direttamente nella crisi dell’euro: in pieno dissesto, rimasto senza fondi, il governo locale di Barcellona nel 2011 ha scelto di fare di quello di Madrid il capro espiatorio delle proprie miserie. In realtà entrambi erano vittime di una crisi europea all’inizio gestita malissimo, imponendo tagli e tasse al momento meno opportuno. In Catalogna, hanno finito per dare vita a una forma peculiare di populismo.

Tutto questo segnala che camminiamo ancora su ghiaccio sottile. A dieci anni dal crac di Lehman, a otto dallo choc della Grecia, il terreno sotto i nostri piedi non si è ancora ricompattato. I numeri semplici sulla disoccupazione o sul tasso generale di crescita non devono ingannare, anche perché in fondo siamo già passati da qua. Anche a metà del 1937, a otto anni dal Grande Crash di Wall Street, l’economia americana era tornata sopra ai livelli del 1929. Gli Stati Uniti attiravano fiumi d’oro dal resto del mondo, un po’ l’equivalente della attuale creazione di moneta da parte delle banche centrali per comprare titoli. La Federal Reserve reagì con una stretta monetaria e il presidente Franklin Roosevelt varò un bilancio di austerità. Nel giro di poche settimane da quel momento, l’America stava vivendo il crollo economico più fulmineo della sua storia: la Grande Depressione non era superata e durò fino al ’39.

Oggi la fragilità dei sistemi e il rischio di recessione sono evidenti soprattutto nella politica. Siamo in ripresa economica, rischiamo ancora una recessione democratica. E anche oggi le grandi banche centrali e i governi pensano di tornare ad assetti meno espansivi. Magari Foster Dulles avrebbe consigliato: «Fai qualcosa, ma fallo con il massimo di intelligenza possibile».

2 ottobre 2017 (modifica il 2 ottobre 2017 | 21:37)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/opinioni/17_ottobre_03/crisi-economica-dietro-scontento-europeo-96933c9e-a7a1-11e7-8b29-3c19760df94c.shtml