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« inserito:: Maggio 06, 2010, 11:59:51 pm » |
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Il commento A chi sono utili le agenzie di rating? L'analisi di Moody's a mercati aperti Quando la vicenda greca sarà più sotto controllo, arriverà forse il momento di porsi qualche domanda. Due soprattutto: come funziona oggi la fabbrica di quel bene essenziale di un’economia che si chiama fiducia? E chi è stato autorizzato a entrarci o chi si è auto-proclamato capo-reparto in quella fabbrica? A giudicare dalla cronaca di queste ore, il luogo di produzione della fiducia oggi è un impianto sovraffollato, caotico, obsoleto, pieno di soggetti inadeguati, da cui esce un prodotto guasto. Prendiamo per esempio l’agenzia di rating Moody’s: con una certa responsabilità, a differenza della concorrente Standard & Poor’s, si era astenuta dal dare commenti negativi sulla situazione della Grecia prima di vedere il piano d’austerità. Contribuire a capire i fatti è sempre utile, alimentare il panico molto meno. Oggi però, dopo due giorni di sbandamenti dei mercati, nelle ore delicatissime in cui il parlamento di Atene si prepara a votare le misure e il governo di Madrid si affaccia sul mercato, Moody’s cambia linea. Fa uscire un rapporto in cui sottolinea «il rischio di un contagio della crisi greca per il sistema bancario europeo» e in particolare per «Portogallo, Spagna, Irlanda, Italia e Gran Bretagna». Poco importa che le banche più esposte sulla Grecia siano francesi e tedesche, o che quelle più esposte sulla Spagna siano soprattutto tedesche. Gli analisti di Moody’s avranno le loro ragioni e hanno sempre diritto di parola, ovviamente: anche quando escono a mercati aperti e, come ieri, affondano le Borse nel momento più difficile. Ci ha poi pensato la Banca d’Italia a ricordare la solidità che il sistema bancario da lei vigilato sta dimostrando in questa lunga crisi. Ma la domanda di partenza resta: a quali soggetti il sistema ha delegato la sua fabbrica della fiducia? Federico Fubini 06 maggio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/economia/10_maggio_06/moodys-banche-fubini_83ac5470-590d-11df-ace4-00144f02aabe.shtml
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« Ultima modifica: Luglio 25, 2012, 04:56:01 pm da Admin »
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« Risposta #1 inserito:: Luglio 31, 2011, 11:22:15 am » |
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Distrazione italiana Un altro giorno, un'altra scossa. Anche ieri il premio di rischio che i titoli di Stato italiani devono pagare per trovare dei compratori sul mercato è salito e ormai viaggia ai livelli più alti da ben prima che partisse l'euro. Più che i record, colpisce la dinamica dello smottamento: dall'inizio di luglio il differenziale (o spread) con la Germania è quasi raddoppiato e il costo del debito per il Tesoro è salito rapidamente. In giugno la Repubblica italiana poteva indebitarsi a dieci anni pagando interessi del 4,7%, ieri invece lo stesso margine sfiorava il 6%. È stato un luglio orribile, che per certi versi ricorda quello nel '92 da cui speravamo di esserci vaccinati per sempre. Come allora, si rincorrono le voci e le accuse alle banche straniere, a quei tempi Goldman Sachs, oggi Deutsche Bank. Come allora, l'Italia è finita al centro di una «tempesta di opinione» internazionale in cui la difficoltà del governo e la sfiducia degli investitori si alimentano a vicenda. Eppure le analogie finiscono qua. Diversamente dal '92 l'Italia non può svalutare per dare subito ossigeno all'export e all'occupazione. Non può farlo, anche se ormai è chiaro che occorre evitare a tutti i costi un altro mese orribile come questo. In agosto il Tesoro ha cancellato le aste dei Btp, ma a settembre dovrà tornare a raccogliere i prestiti che servono al Paese per funzionare ogni giorno: per allora servono condizioni sostenibili. Sperare che la situazione si calmi da sé, che arrivi l'Europa a toglierci dai guai oppure prendersela con la speculazione non serve più a molto. Ai mercati è difficile che l'Italia possa dettare le condizioni avendo costantemente bisogno di prestiti per 1.900 miliardi. Quanto all'Europa, il nuovo fondo salvataggi non sarà operativo prima di fine settembre (a essere ottimisti) e la Bce non intende aiutare l'Italia se prima l'Italia non si aiuta da sé. Perché il punto è esattamente questo: andare in vacanza con l'idea che nel frattempo la crisi si fermi e ci aspetti sarebbe peggio di un'ingenuità. Sarebbe la riprova che in Italia latita la consapevolezza dei rischi che corriamo e ciò non farebbe che alimentare il problema di credibilità internazionale del Paese. È una spirale da evitare: minore è la credibilità, più vulnerabili si diventa sui mercati. Perché mai un investitore dovrebbe puntare su un Paese il cui governo, mentre il contagio divampa, dibatte su qualche stanzone a Monza? In realtà neanche la manovra è bastata a rassicurare i mercati e per molti aspetti la situazione sta diventando simile a quella della Spagna di qualche mese fa. Anche lì le parti sociali hanno messo sotto pressione il governo, come da noi questa settimana. Alla fine Zapatero ha affrontato le vacche sacre delle riforme che servono alla Spagna: lo ha fatto per coraggio o perché non aveva scelta, ma così si è tolto dalla scia dei Paesi più in difficoltà e oggi il premio di rischio spagnolo aumenta meno di quello italiano. Anche da noi serve lo stesso coraggio, per lo meno nelle dosi minime necessarie perché il governo convochi subito, non a settembre, l'incontro sulla crisi con le parti sociali. Meglio farlo ora. Domani, purtroppo, di coraggio potrebbe volercene di più. Federico Fubini 30 luglio 2011 08:21© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/11_luglio_30/fubini_distrazione_italiana_b0a036dc-ba6d-11e0-9ed5-57850404ec1a.shtml
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« Risposta #2 inserito:: Gennaio 28, 2012, 06:28:33 pm » |
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Il questionario di Davos Lo spread dei Btp sui Bund, il termometro della febbre, è più basso di quando Standard & Poor’s declassò l’Italia due settimane fa. Ieri era a quota 404 punti, allora era a 487. L’agenzia di rating quel giorno spiegò la sua decisione dicendo che il mercato di fatto l’aveva già presa, ma forse è proprio perché S&P si è limitata a seguire gli investitori che questi ora rifiutano di seguire lei: in quella scelta non c’era molta analisi dei dati di fondo del Paese, dalla riforma pensioni al taglio del deficit verso quota zero. Era solo la presa d’atto che un debitore può finire in difficoltà se i suoi creditori pensano che lo sia, lesinandogli dunque i prestiti. Simili osservazioni si potrebbero muovere da ieri sera sul conto di Fitch. Anche la terza delle grandi società di valutazione ieri ha tagliato di due gradini il giudizio sull’affidabilità finanziaria dell’Italia, benché il suo rating resti sopra a quello delle concorrenti S&P e Moody’s. Ma le motivazioni suonano decisamente familiari. Fitch parla dell’assenza di quello che chiama un vero «muro taglia fuoco», un fondo salvataggi credibile in Europa. Evoca il rischio che una crisi si auto-avveri solo perché i mercati la pensano plausibile e finiscono quindi preda del panico, acuendo così la crisi stessa. Ricorda la recessione nella quale gran parte dell’area euro sta scivolando. Per la verità, l’agenzia cita anche fattori specifici sull’Italia, soprattutto il rischio che la caduta dell’economia vanifichi quanto fatto sinora per mettere i conti in ordine. È una tela di Penelope, l’austerità tessuta di giorno rischia di disfarsi con il calo del fatturato che può provocare. E anche qui i contro argomenti non mancherebbero: se un anno fa l’Italia meritava un rating due gradini sopra, perché tagliarlo ora che ha fatto manovre per il 5,5% del Pil e ha risolto il problema delle pensioni prima e meglio della Germania o dell’Olanda? È una discussione che può andare avanti all’infinito, ma non sposta di un centimetro una realtà di fondo che ieri Fitch stessa ha ricordato: da questa crisi si esce solo con una ripresa vera e diffusa, cioè non subito. Noi italiani siamo i campioni del mondo dei colpi di reni, degli scatti improvvisi per balzare fuori da situazioni che sembravano disperate. Ma con tutte le incoerenze del caso, le agenzie di rating e i tanti investitori in questi giorni riuniti a Davos non si preoccupano di questo. Ci parlano di ordini temporali diversi. Il malessere dell’Italia viene da lontano e neppure il più efficiente dei governi lo risolverà mai in un anno solo. Ripensare un Paese non può essere un esercizio una tantum. In questi dodici anni di euro, l’Italia ha perso trenta punti percentuali di competitività rispetto alla Germania e non li recupererà più con nessuna svalutazione: né esterna della moneta, né interna deprimendo all’infinito il potere d’acquisto dei salari. La sola via possibile per gli italiani è accettare che dopo un brillante scatto sui cento metri, guidato da questo governo, la corsa continuerà. La domanda di fondo di Fitch, di S&P e degli investitori è che Paese sarà questo fra cinque anni. Non vogliono sapere solo se riuscirà a finanziarsi nei prossimi dodici mesi. La tenuta anche nel breve periodo dipende in buona parte dalla consapevolezza che la metamorfosi che viviamo ha radici lontane e una dimensione nella lunga durata. Ma su questo la risposta devono darla gli italiani, non Mario Monti. Federico Fubini 28 gennaio 2012 | 7:43© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_gennaio_28/fubini-questionario-di-davos_3f27bf5e-4977-11e1-a339-d42b0f14f392.shtml
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« Risposta #3 inserito:: Giugno 11, 2012, 05:54:34 pm » |
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IL SOCCORSO ALLA SPAGNA Mossa per evitare il contagio con l'ipotesi di intervento-bis C'è chi calcola fino a 300 miliardi per Madrid. I riflettori sulla situazione italiana e la Paura della prossima Onda È da più di una settimana che la questione non era più se la Spagna avrebbe chiesto o no un sostegno per le sue banche. Da tempo questa svolta era inevitabile, ciò che conta per il futuro dell'euro adesso è cosa accadrà dopo che gli altri governi si sono detti pronti ad aiutare. Più di ogni altro aspetto, i mercati in questi giorni stanno cercando di capire quali saranno le conseguenze per la stessa Spagna e per un altro Paese decisivo per gli equilibri europei: l'Italia. Non che l'esborso per Madrid sia davvero dietro l'angolo. Il solo Paese ad essere mai stato aiutato per il crollo delle sue banche, l'Irlanda, ha dovuto attraversare molte settimane di stallo fra la resa e la salvezza. Il percorso è sempre lo stesso: prima c'è sempre un governo che nega di avere un problema, quindi garantisce di poterlo gestire da solo e infine - allora Dublino, oggi Madrid - alza bandiera bianca. La richiesta d'aiuto all'Irlanda fu accolta dall'Eurogruppo nel novembre 2010, il primo esborso arrivò solo nella seconda metà di gennaio. Anche per la Spagna il percorso sulla carta appare lineare, ma è disseminato di trappole. Gli aiuti che si inizieranno a versare il mese prossimo verranno dal nuovo fondo salvataggi permanente in vigore da luglio, l'Esm. Ma l'Esm, come il Fondo monetario, è legalmente un creditore privilegiato: ciò significa che ha diritto a essere rimborsato dei suoi prestiti prima degli altri creditori, i quali dunque da ora in poi corrono un maggiore pericolo di non riavere più il loro capitale investito. È per questo che i privati potrebbero diventare sempre più riluttanti a finanziare il governo di Madrid. Inoltre, un prestito dell'Esm alla Spagna in queste condizioni può contribuire a far salire il debito pubblico del Paese al 100% del Pil nei prossimi cinque anni, spaventando ancora di più gli investitori privati. Non c'è banca internazionale che non abbia già fatto proiezioni del genere. È questo insieme di circostanze che spinge molti, nei governi e nel mercato, a sospettare che l'intervento per le banche sia solo il primo dei salvataggi necessari per Madrid. Se tutto fosse stato fatto prima, forse sarebbe stato diverso. Ma ora Janet Henry, capo-economista di Hsbc per l'Europa, pensa che sterilizzare il contagio spagnolo intervenendo solo sulle banche non sia scontato: «La domanda chiave - osserva l'economista inglese - è capire se un pacchetto di sostegno per il settore finanziario sia la fine o solo l'inizio dell'assistenza alla Spagna». Dopo gli istituti, anche il governo potrebbe aver bisogno di un prestito internazionale tra non molto. La differenza fra le due opzioni è fra un pacchetto di circa cento o di 300 miliardi di euro. E per nessuno altro governo essa conta come per quello italiano, ma non solo perché la mediazione di Vittorio Grilli, Enzo Moavero Milanesi e Mario Monti, è stata preziosa per l'accordo di ieri su Madrid. C'è anche un altro motivo che tutti hanno presente in questi giorni: l'Italia è ormai il solo Paese in difficoltà a non aver dovuto chiedere un salvataggio. Può continuare a restare tale. Se i tassi iberici si stabilizzeranno dopo la concessione del pacchetto per le banche, anche quelli pagati da Roma possono scendere; nel frattempo, un accordo europeo sul sistema bancario può calmare la situazione. In caso contrario però l'incertezza è altissima e gli occhi sull'Italia si fanno sempre più attenti. Ieri l'agenzia di rating Moody's ha sottolineato i rischi di contagio in arrivo dalla Spagna e Citigroup ha prodotto un rapporto sferzante. «Con gli attuali tassi d'interesse di mercato la posizione di bilancio dell'Italia è probabilmente su un percorso di lungo termine insostenibile», si legge nello "Euro Economics Weekly" di Citigroup. A causa della crescita cronicamente assente, «il rapporto fra debito e Pil tende a salire per un periodo prolungato». Come nell'emergenza di novembre scorso, il premier Monti ha bisogno di spingere al massimo per misure credibili in Europa e in Italia. Lui per primo sa che la prossima ondata dei mercati va anticipata prima che arrivi. Solo i partiti, i sindacati, la pubblica amministrazione e le imprese sussidiate, uniti solo nel frenare, sembrano pensare che la Spagna si bagni in qualche mare lontano da qui. Federico Fubini 10 giugno 2012 | 10:34© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/economia/12_giugno_10/Soccorso-Spagna-mossa-evitare-contagio-italia-paura-prossima-onda_d07e680a-b2c6-11e1-8b75-00f6d7ee22cc.shtml
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« Risposta #4 inserito:: Giugno 20, 2012, 11:17:25 pm » |
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IL PIANO DAL SUMMIT I duri commenti sul debito italiano e le mosse taglia tassi del premier I colloqui di Monti a Los Cabos e la strategia delle cessioni E Gurria parla di misure straordinarie sui titoli di Stato C'è un argomento che Mario Monti ha ripetuto spesso in questi giorni con gli altri leader al G20 di Los Cabos, Messico. Ma per una volta la logica del premier non era «tecnica», non faceva appello a progetti europei né a dettagli dei sistemi di finanziamento. Era politica. Una logica da navigatore giunto al termine di un corso di sopravvivenza di sette mesi nei corridoi romani. Ad alcuni dei leader che l'hanno visto, Monti ha spiegato che in nome della stabilità del suo governo a lui serve decisamente un risultato fuori dall'Italia. Dal vertice europeo del 28 e 29 giugno, l'esecutivo dei tecnici di Roma deve ottenere decisioni tangibili e non solo perché servono a calmare le tensioni di mercato: ci sono da sedare anche quelle dei partiti, in particolare quelle del Pdl. Ad alcuni colleghi europei e del G20, Monti ha spiegato di aver ricevuto segnali neppure troppo velati dal principale partito di maggioranza. Un esito deludente dell'ultimo giro di negoziati in Europa metterebbe in dubbio la stabilità del governo a Roma, perché molti nel Pdl troverebbero seri argomenti per giustificare il loro malumore verso la linea dei tecnici. Se l'Europa non serve a far calare gli interessi sul debito, a che serve un governo «ben visto» in Europa? Se niente funziona a Bruxelles, un Pdl che scende nei sondaggi ogni settimana di più può essere tentato di tagliare le perdite troncando la legislatura. Il messaggio a Monti è stato recapitato dagli esponenti del centrodestra prima della sua partenza per il Messico e lì il premier l'ha spiegato ai suoi interlocutori. Uno di coloro ai quali l'ha detto lunedì a Los Cabos è Angel Gurria, segretario generale dell'Ocse. Con lui l'incontro era delicato non tanto perché Gurria sia un uomo molto influente, non lo è, ma perché poco prima aveva parlato di qualcosa che sembrerebbe impensabile per un Paese del G7. In una conversazione di tre giorni fa con Ian Talley e Chris Emsden del gruppo «Dow Jones», Gurria ha discusso l'ipotesi che il governo decida di rinviare le scadenze di rimborso del debito pubblico. «L'Italia può allungare unilateralmente le scadenze sui suoi titoli di Stato già emessi», ha detto Gurria secondo Talley e Emsden. «Perché qualcuno potrebbe voler iniziare a parlare di questo?», si sarebbe chiesto Gurria. «Perché questa soluzione non comporterebbe perdite sui prezzi di mercato dei bond per chi li detiene per un lungo periodo e potrebbe persino spingerne i prezzi al rialzo». Talley e Emsden del «Wall Street Journal» notano che è la prima volta che un dirigente internazionale di questo livello parla di una possibilità del genere riguardo all'Italia. Non è chiaro se Gurria lo abbia fatto anche nel suo incontro di persona con Monti, lunedì a Los Cabos. Alcune fonti dicono di sì, altre lo negano nettamente. Il portavoce dell'Ocse, Anthony Gooch, sottolinea che l'ipotesi di cui Gurria ha parlato al «Wall Street Journal» non è in discussione. «È solo uno scenario estremo, che non abbiamo mai proposto: Gurria l'ha menzionata solo reagendo a una richiesta di commenti in proposito». Come che sia, Monti ha osservato nei suoi colloqui con Gurria e altri a margine del G20 che ci sono altre due strade che il suo governo ha davanti a sé per gestire il debito: cercare di andare avanti anche con tassi alti, o applicarsi nel programma già varato di cessione di beni pubblici. L'operazione è partita e, com'è noto, Mediobanca stima che nel medio periodo l'Italia possa mirare a cessioni per circa 90 miliardi su un patrimonio demaniale che ne vale in tutto 425. Monti e i suoi più stretti collaboratori sanno perfettamente che i mercati stanno scrutando a ogni passo la dinamica del debito italiano. L'ultimo Documento di economia e finanza mette in conto un debito che si stabilizza al 123,4% del Pil quest'anno, con un'economia che decresce dell'1,2%, tassi d'interesse sui Bot a tre mesi all'1% e sui Btp a dieci anni al 5,4%. Invece la decrescita dei primi sei mesi fa temere una caduta del Pil su tutto il 2012 di ben oltre l'1,2% per quest'anno. E gli interessi sui titoli di Stato per ora viaggiano più alti di quanto previsto dal Tesoro. In queste condizioni non è scontato che il livello di avanzo primario messo in cantiere, cioè il surplus di bilancio prima di pagare gli interessi, basti a stabilizzare la dinamica del debito. Per riuscire in questo - non solo per placare la fronda anti governo nel Pdl - l'Italia ha bisogno anche di un accordo europeo entro giugno. A questo proposito il negoziato si è sviluppato freneticamente in questi giorni, fra Los Cabos e Bruxelles, su due fronti separati. Per il medio termine si sta parlando di una «roadmap», un tracciato verso la cosiddetta unione politica, di bilancio e anche bancaria in Europa: sullo sfondo di quest'ultima c'è anche l'ipotesi di garanzie sui depositi dei risparmiatori e di una vigilanza finanziaria comune. Ma su questi temi dal vertice di fine mese uscirà poco più dello scheletro sui piani di lavoro per il seguito. Intanto però serve qualcosa di immediato, che blocchi la deriva dei tassi d'interesse e quella di parte della maggioranza a Roma. Che fermi l'emorragia di fiducia prima che sia tardi. In effetti anche di misure più immediate si è parlato fra le delegazioni dei principali Paesi in questi di giorni al G20 in Messico. Così sembra funzionare una delle ipotesi discusse: per i Paesi che rispettano certi vincoli di politica economica ma sono sotto attacco sui mercati, potrebbe esserci la possibilità di contare su interventi dei fondi salvataggi europei (Efsf e Esm) sui propri bond, quando superano certi rendimenti. Secondo una delle proposte l'Esm, il meccanismo europeo di sostegno permanente, dovrebbe potersi finanziare presso la Banca centrale europea come fosse una banca commerciale e poi aiutare gli Stati in difficoltà. Saremmo così più vicini agli acquisti massicci di titoli di Stato come vengono fatti in Gran Bretagna o negli Stati Uniti. Un'opzione del genere fu discussa appena nove mesi fa dagli stessi «sherpa» e da molti degli stessi leader di oggi. E fu bocciata. Allora il livello di stress nel mercato e nella politica italiana era altissimo. Oggi è tale che, se si sceglie il rinvio, la prossima volta i leader del G20 rischiano di parlarne con qualcuno di cui, per ora, non si sa niente. Federico Fubini 20 giugno 2012 | 7:41© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/economia/12_giugno_20/monti-debito-italiano-Fubini_c0e58d18-ba98-11e1-9945-4e6ccb7afcb5.shtml
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« Ultima modifica: Luglio 01, 2012, 03:35:35 pm da Admin »
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« Risposta #5 inserito:: Luglio 01, 2012, 03:36:09 pm » |
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LE TERAPIE DEI PAESI A RISCHIO Chi investe e non vede La festa non è durata neanche due ore. Ieri mattina l’euro aveva ripreso quota e la febbre sui tassi dei titoli di Stato stava iniziando a scendere. Sembrava l’inizio di un giorno di sollievo per l’esito del voto greco, invece alle dieci e mezza è già finito tutto. Ciascuno è ridisceso nella propria trincea. Il solo listino che si è tenuto nettamente in positivo è rimasto quello di Atene, mentre le Borse di Milano e Madrid sprofondavano e il resto d’Europa restava attorno a quota zero. Gli spread della Spagna e dell’Italia hanno ripreso a crescere come in un’inerzia infernale. Il messaggio non poteva essere più chiaro. Fino a venerdì la classe media di Atene accaparrava cibo e medicine di scorta, l’esercito teneva in preallarme i riservisti, i neonazisti improvvisavano ronde di sicurezza nelle periferie abbandonate dalla polizia. Ma l’aver scongiurato la catastrofe di una vittoria degli estremisti in Grecia non significa che i problemi siano risolti. Restano tutti come prima. Con la loro festa troncata a metà, gli investitori ieri hanno detto ai governi che ormai stanno guardando oltre Atene, verso la Spagna e l’Italia. E lo spettacolo non li convince. Nella penisola iberica vedono il crollo immobiliare senza fine e l’aiuto europeo congegnato come un ponte che non regge: invece di versare capitale direttamente nelle banche, vero tallone d’Achille iberico, si prestano soldi al governo di Madrid aumentandone così il debito e il legame perverso con le banche stesse. E invece di rassicurare gli investitori esteri, li si mette in fuga dicendo loro che saranno rimborsati solo dopo il fondo salvataggi europeo Esm. Di questo passo la Spagna finirà presto per aver bisogno di un intervento di aiuto molto più pesante, banche e Stato insieme. Ma ai mercati non piace neanche ciò che vedono in Italia. La decrescita dei primi sei mesi del 2012 è stata tale da mettere in dubbio le stime fatte fin qui. Senza un’inversione di tendenza, c’è il rischio che il debito continui a crescere. Gli investitori per ora non vedono una decisione europea che blocchi l’ingranaggio, dunque nell’incertezza si tengono alla larga. Certo non aiuta l’intero Paese — partiti, sindacati, imprese — l’abitudine di allentare la coesione e gli sforzi non appena gli «spread» calano e poi di nuovo accelerare solo quando si torna sotto schiaffo. In questo modo si dà alla Germania un segnale masochista: che questa tensione da infarto all’Italia in fondo fa bene, ed è meglio lasciarci in questo stato. Niente di tutto questo è inevitabile. In Europa ci sono Paesi colpiti duro dalla crisi che si sono rimboccati le maniche, lavorando di più, e ora mostrano chiari progressi. L’export del Portogallo è salito del 13% in un anno e del 76% solo verso la Cina. Anche Dublino ha ricevuto un salvataggio europeo ma da ieri paga uno spread più basso di Madrid, il suo export vola e l’economia è tornata a crescere. Forse perché è una nazione piccola e coesa, l’Irlanda non vive nel rifiuto di ogni gruppo sociale di accettare le rinunce nel timore che il prossimo se ne avvantaggi. Fuori dal calcio, magari, qualcosa da insegnare all’Italia ce l’ha. Federico Fubini 19 giugno 2012 | 7:49© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_giugno_19/fubini-chi-investe-non-vede_1becb9c8-b9ce-11e1-88e3-74eab70f59c2.shtml
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« Risposta #6 inserito:: Luglio 25, 2012, 04:50:31 pm » |
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La crisi dell'euro L'arma nascosta L'11 marzo 1990 la Lituania dichiarò l'indipendenza dall'Unione Sovietica, innescando la frammentazione di una superpotenza. Il 25 giugno 1991, la Slovenia e la Croazia fecero sapere che da quel giorno non avrebbero più fatto parte della Jugoslavia. Il resto della storia è noto. Sistemi politici che sembravano irrevocabili, basati sul principio stesso della permanenza, iniziarono ad andare in frantumi perché i loro territori più forti a un certo punto rifiutarono di mantenere rapporti con quelli più deboli. Se ieri la Spagna, l'Italia ma anche le banche francesi e tedesche hanno vissuto momenti di vera e propria capitolazione sui mercati, è anche perché la storia resta incisa nel codice genetico degli investitori. Per loro non si tratta più tanto di capire se la Grecia resterà nell'euro, ma se la moneta unica sopravviverà. La Bundesbank tedesca ammonisce severamente Atene. In Finlandia o in Olanda, così piccole e così apparentemente impeccabili, l'ipotesi di tornare alla moneta nazionale fa ormai parte delle conversazioni quotidiane sempre più condizionate dai populisti. Ciascuno di noi ha i suoi problemi e ciascuno, almeno in parte, si merita ciò che i suoi creditori pensano di lui. Ma le convulsioni della zona euro, un nome che non ha mai conquistato la maiuscola, sono entrate in queste settimane in una fase che coglie gli europei psicologicamente impreparati. Forti e deboli, virtuosi e imperfetti, fino a poche estati fa tutti si illudevano di navigare un mare in bonaccia. I tedeschi credevano di poter condividere la moneta senza condividere il destino, e gli errori, degli altri. Gli spagnoli erano impegnati a diventare consumatori moderni, a godere dei loro nuovi diritti economici e prepararsi a conquistarne sempre di nuovi. Noi italiani vedevamo bene i nostri problemi, ma in fondo eravamo convinti che non fossero tutta colpa nostra e soprattutto credevamo di conservare una sorta di diritto naturale al lieto fine. Ciò che accade in questi giorni ci dice che non è così. I mercati sono passati dalla sfiducia nei confronti della Spagna, o dell'Italia, a quella verso il sistema di cui tutti facciamo parte. Il primo passo per spezzare la spirale è che le istituzioni vitali dell'euro dimostrino di avere ancora forza da spendere e molto coraggio. La Banca centrale europea sarà determinante nelle prossime settimane, in un senso o nell'altro. Il suo presidente, Mario Draghi, ha detto che la Bce è disposta ad agire «senza tabù» e probabilmente è il segnale che potrebbe impegnarsi in una campagna di creazione di moneta e acquisti massicci di titoli di Stato. È la via non convenzionale che la Federal Reserve, la Banca d'Inghilterra e la Banca del Giappone conoscono bene. Ma quelle sono le banche centrali di nazioni coese. La sequenza di eventi in Europa dimostra invece che senza sufficiente capitale di fiducia fra le parti nessuna misura alla lunga basterà. Se gli europei non sapranno ricostruire questo capitale, anche il grattacielo della Bce finirà per apparire una cattedrale nel deserto. Federico Fubini 24 luglio 2012 | 7:37© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_luglio_24/arma-nascosta-fubini_21c63054-d54e-11e1-8344-73c80d6dcb3d.shtml
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« Risposta #7 inserito:: Luglio 30, 2012, 09:41:07 am » |
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L'analisi Rajoy , il ruolo di Monti e il domino di Draghi Perché non è scontato che giovedì arrivino le misure decisive Non è scontato che la decisione in grado di rovesciare il fronte della crisi arrivi questo giovedì. Quel giorno il consiglio direttivo della Banca centrale europea concluderà la sua prossima riunione e tutti sui mercati finanziari aspettano che per allora Mario Draghi, il presidente, comunichi nuove misure dell'Eurotower per sostenere i Paesi sull'orlo del baratro. «Nei limiti del nostro mandato, faremo ciò che serve per salvaguardare l'euro: e credetemi, sarà abbastanza», ha detto Draghi giovedì scorso a una conferenza di Londra. Sarà probabilmente abbastanza, ma non è altrettanto chiaro che sarà quando i mercati finanziari se lo aspettano. Nella sua conferenza stampa di giovedì Draghi potrebbe limitarsi a annunciare alcune misure meno controverse, però non ancora l'avvio di un nuovo programma di acquisti di bond sovrani spagnoli. A questo la Bce sta ormai lavorando a pieno regime, dopo aver interrotto gli interventi l'inverno scorso. Ma sono molti i pezzi ancora fuori posto, nel domino che Draghi ha innescato da Londra tre giorni fa. Non è certo che tutto sarà pronto per giovedì e, in caso di una delusione quel giorno, la reazione dei mercati potrebbe anche essere violenta. La tessera determinante del mosaico riguarda proprio la Spagna. C'è un piano di acquisti di titoli che prevede interventi alle aste da parte dell'Efsf, il fondo salvataggi provvisorio, mentre la Bce fa altrettanto con i bond già sul mercato. In contropartita, la Germania chiede però che il governo di Mariano Rajoy sottoscriva un «Memorandum d'intesa» destinato ad azzerare il poco che resta della sovranità della Spagna sulla propria politica economica. Il protocollo non imporrebbe nuove misure, oltre a quelle del bilancio 2013-2014 che Rajoy varerà già domani. Il governo iberico però dovrebbe sottoporsi alle visite di controllo periodiche (lo chiamano «monitoraggio») dei tecnici di Bruxelles e della Bce, su un calendario che lo vincolerebbe per anni. È un prezzo molto alto per Rajoy. Firmare quella lettera significa per lui abdicare di fatto a un potere che ha inseguito per otto anni, in due elezioni perse (2004 e 2008) e nella terza finalmente vinta solo nove mesi fa. Non è un passo facile per il premier di un Regno che per secoli ha gestito un impero globale. Rajoy sa bene che non ha molta scelta, perché il costo dell'indebitamento spagnolo era ormai fuori controllo prima che Draghi parlasse tre giorni fa. Ma mentre il percorso è definito, è sui tempi che ancora manca la chiarezza. Luis de Guindos, ministro delle Finanze ed ex capo di Lehman Brothers in Spagna, pensa che per firmare la resa debba almeno tenersi un Eurogruppo. Per ora però nessun incontro dei ministri finanziari dell'euro è in agenda, mentre si avvicina il giorno in cui Draghi dovrà dire ciò che la Bce intende fare. Il presidente della Bce ne sta parlando in questi giorni con Jens Weidmann, il suo pari grado della Bundesbank. Lo fa perché la Banca centrale tedesca non intende fare sconti: a costo di violare i vincoli di riservatezza imposti dall'Eurotower, la Bundesbank ha già ribadito che resta del tutto contraria agli acquisti di bond sovrani. È per sbloccare questo impasse che molti in Europa adesso si stanno voltando verso Mario Monti. A Bruxelles e a Francoforte, a Berlino e a Parigi, si spera ancora che il premier italiano convinca il suo collega spagnolo ad accelerare i tempi e piegarsi. Magari anche prima del vertice italo-spagnolo di Madrid proprio il prossimo giovedì. Monti può mediare, ma è improbabile che lo faccia di buon grado: non se per caso iniziasse a sospettare che il postino dei memorandum, la seconda volta, suonerà all'uscio di Palazzo Chigi. Federico Fubini 29 luglio 2012 | 16:37© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/economia/12_luglio_29/manca-il-tassello-spagnolo-fubini_21f8d8d2-d987-11e1-baf7-133d6e5f95b5.shtml
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« Risposta #8 inserito:: Settembre 01, 2012, 11:13:51 am » |
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La trattativa con la Ue Vincoli alleggeriti ma duri impegni Scudo anti-spread La sua attivazione non richiederebbe un commissariamento ma un documento d’intesa Forse è solo l’ultimo dei paradossi del labirinto nel quale è andata a cacciarsi l’élite politica europea. A giugno l’Italia e la Spagna avevano lottato a Bruxelles perché il fondo salvataggi potesse acquistare titoli di Stato. Ora non hanno fretta di usarlo. A luglio poi la Germania ha fatto capire che avrebbe accettato gli interventi della Banca centrale europea solo se Madrid e Roma avessero sottoscritto una lettera d’impegni. Ma anche stavolta le parti si sono invertite. I più recenti segnali di fumo che il governo di Berlino sta dirigendo verso Madrid indicano agli spagnoli che neanche la Germania ha fretta. Non vuole che il governo di Mariano Rajoy chieda aiuto subito. Il Bundestag ha appena votato il pacchetto per le banche iberiche e adesso la cancelliera Angela Merkel non intende rimettere sotto pressione l’intera struttura politica interna troppo presto: troppe lacerazioni nella sua stessa maggioranza di centrodestra, troppe tensioni istituzionali con la Bundesbank, sul fondo dello smarrimento nell’opinione pubblica. Per parte propria, prima di muovere un solo passo Rajoy invece vuole capire esattamente quale tipo di interventi sul mercato la Bce sia disposta ad affrontare. Senza vedere più da vicino il premio, il governo di Madrid non si sottoporrà all’impegno di un memorandum che prescrive all’intero Paese un preciso calendario di riforme. È proprio per rimuovere questo ostacolo che il 6 settembre Mario Draghi preciserà meglio in che modo la sua banca potrà acquistare titoli di Stato dei Paesi in difficoltà. Quel giorno il presidente della Bce sarà ascoltato con grande attenzione in Italia, non solo in Spagna. Anche a Roma l’opzione di un ricorso al sostegno dell’Eurotower e dell’Esm, lo European stability mechanism, è tutt’altro che tramontata. Non si tratta di attivare questo o quello scudo, non subito. È del tutto improbabile che il governo italiano azioni un ingranaggio del genere prima della Spagna. Ma a pesare sulle valutazioni del governo può contribuire senz’altro il fatto che quel passo ormai non si presenta affatto come una messa sotto tutela di sapore coloniale. Il «Memorandum d’intesa» da firmare (e poi rispettare) per ottenere il sostegno di Bruxelles non è il manuale per l’uso di un commissariamento. Sarebbe piuttosto un documento, che gli addetti ai lavori definiscono «leggero», in continuità con ciò che l’Italia e la Spagna si sono già impegnate a fare. Mario Draghi e Mario Monti sostengono da tempo che un’unione monetaria implica una messa in comune delle decisioni, soprattutto nei momenti delicati. Questi, negli ultimi tempi, non sono mai mancati. E il premier lo sa. Federico Fubini 30 agosto 2012 | 7:41© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/economia/12_agosto_30/vincoli-alleggeriti-duri-impegni-fubini_6fd2eb2e-f264-11e1-9efb-e78611c7bd41.shtml
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« Risposta #9 inserito:: Novembre 11, 2012, 04:01:34 pm » |
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ESCLUSIVA Monti: «Non ho una forza politica mia, ma ho più consenso dei partiti che mi sostengono»
Intervista-prefazione al libro del presidente del Consiglio
«È vero, sono pedagogico: devo convincere tutti»Intervista di FEDERICO FUBINI Non è che lei si sente un po’ solo in queste bellissime stanze di Palazzo Chigi? «Solo? Non mi sento solo, e non unicamente perché ho ministri molto leali e bravissimi, così come i collaboratori. Che intende dire? Che le sembro preoccupato?». Solo da un punto di vista istituzionale. I partiti che dovrebbero sostenerla lo fanno con ambiguità. Scalpitano, recalcitrano. «Un altro modo di vederla è che non è chiaro perché dovrebbero sostenerci. Ma perché mai dovrebbero sostenere questo governo? Il nostro lavoro produce per loro costi politici rilevanti di breve periodo. Che alla fine la responsabilità di certe decisioni sia nostra, mi pare ovvio. Ma in passato chi sedeva in queste stanze a Palazzo Chigi aveva dietro di sé una forza politica, grande o piccola che fosse, alleata o meno con altre. Coloro che sono stati presidenti del Consiglio prima di me non dovevano guadagnarsi tutti i giorni il consenso. Io invece non ho un retroterra politico mio, eppure devo prendere decisioni che hanno una probabilità di trovare consenso più bassa rispetto a tante decisioni che prendevano coloro che pure erano più corazzati di me in termini di retroterra politico. Però perché le sembro solo?». Questa assenza di una sua forza politica propria alle spalle non le pare una ragione sufficiente? «No. Non credo possa considerarsi solo uno che — per quello che possono valere i sondaggi — sembra avere un consenso superiore a quello di cui godono i partiti che lo sostengono in Parlamento. E quando incontro persone per la strada, mi sento dire quasi sempre: "Vada avanti!". Qualcuno, ma è raro, è più esplicito sui sacrifici: "Vada avanti, ma ci tassate troppo!". Altri hanno un tocco di comprensione sulla difficoltà del compito. Ricordo un tale che una volta, a Milano, mi ha apostrofato: "Eh! Aveva proprio ragione la sua mamma…". Qualche mese prima, in televisione avevo detto che mia mamma usava dire spesso, quando ero ragazzo: "Alla larga dalla politica!". Quel signore, che non avevo mai visto, se n’era ricordato, all’uscita da una messa affollata, nella totale incomprensione degli astanti. Io gli ho risposto: "Sì, sì. Aveva proprio ragione la mia mamma". E lui: "Sempre dare ascolto alle mamme!". (Ride) (...) Un operaio che ha già subìto gli effetti del crollo dei subprime, di Lehman, poi la sfiducia degli investitori sul debito italiano capisce bene gli eccessi del mercato. Come fa a convincerlo che la via d’uscita dalla crisi sia ancora più mercato? «È una critica comprensibile, anche perché fatta sotto l’impatto di un grosso disagio personale. Ma la mia lettura è in parte diversa. La crisi non è dovuta agli eccessi del mercato, ma a un mercato dove la presenza della regolazione e della vigilanza è stata insufficiente. Per questo credo in un’economia di mercato con pubblici poteri forti (...). Ciò permette di avere un’economia sociale di mercato, che riesca a contemperare la competitività e appunto la dimensione sociale. È un tema su cui ho lavorato a lungo come commissario europeo a Bruxelles. (...) Quella per un’economia sociale di mercato è una lotta difficile per l’Europa nel mondo e ancor più lo è per un singolo Paese. Ma secondo me è la formula giusta alla quale mira l’Europa, spesso senza riuscire a realizzarla. Il Trattato di Lisbona parla di "un’economia sociale di mercato altamente competitiva": nessuna di queste parole può venir meno. Però sappiamo anche da Luigi Einaudi che se il sociale e il mercato sono mischiati malamente, si fa quello che lui chiamava il pasticcio di lepre. In Italia lo si è fatto per decenni, con i prezzi politici e tante altre distorsioni. La mia linea di riformatore, prima come politico tra quattro virgolette a Bruxelles, ora tra due virgolette a Roma, è sempre stata la stessa: agire con gli strumenti istituzionali e legali a disposizione, e con la persuasione. Non possiamo darci come solo obiettivo quello di realizzare gli otto passi avanti che si vorrebbero, ma che non sarebbero fattibili o preluderebbero a dei crolli. Meglio allora assicurare due o tre passi avanti che consentano dei miglioramenti». (...) La accusano anche di essere troppo pedagogico, come se lei ritenesse che si tratti di istruire gli italiani e non di governare. «La pedagogia è naturale in un professore, è l’unica arma che ho. E ho un obbligo di spiegare maggiore di altri. In questo contano le ragioni soggettive: nessuno mi ha scelto, ma devo dire agli italiani che se sono qui è per far fare loro cose che non volevano fare e che tutti quelli che sono venuti prima hanno sostenuto si potessero evitare. In più sono questioni complicate, quindi cerco di spiegarle. Fa parte della mia natura, malgrado qualche recente erosione, di parlare in modo calmo di cose brutte e magari anche drammatiche. Uno degli aspetti che mi sono imposto di cambiare — in parte riuscendoci — è che io ero abituato a parlare davanti a un pubblico più limitato e spesso anglosassone, dove la battuta e l’ironia sono elementi essenziali. Ma è molto rischioso: perché è vero che il posto fisso è monotono, però sicuramente dirlo in quel modo è stato per me un bell’infortunio. Quindi adesso cerco di non fare più battute, che pure all’inizio mi avevano aiutato a comunicare». (...) Nell’articolo «Una guerra di liberazione» del 2 gennaio 1999, scritto all’avvio dell’euro, lei disse che noi italiani correvamo il rischio di diventare il Mezzogiorno d’Europa. Lei definì quella sfida la prossima guerra di liberazione: l’abbiamo persa? «In parte sì, abbiamo perso quella guerra di liberazione. Quando, con le decisioni europee del maggio 1997, fu conseguito l’obiettivo dell’entrata nell’euro, è venuta meno la tensione unificante e la maggioranza di Prodi si è dissolta. Là dove c’era un obiettivo visibile, un criterio numerico, una sanzione, ci sono state focalizzazione e unità d’intenti. Ma conseguito quell’obiettivo, ci siamo scordati dell’esigenza di essere competitivi in una moneta unica. Anche perché poi l’impulso europeo che è venuto è stato quello della strategia di Lisbona del 2000, molto più debole di Maastricht. (...) Visto che l’Europa non ci dava un vincolo cogente come per la finanza pubblica, dovevamo farci noi un piano delle riforme strutturali. Che poi è quello che dieci anni dopo l’Europa ha impostato con i piani nazionali delle riforme». Vuole dire che abbiamo perso la guerra con noi stessi? «Esatto, abbiamo perso la guerra con noi stessi. Abbiamo avuto un’erosione di competitività non tanto e non solo per la dinamica del costo del lavoro, ma per l’andamento insufficiente della produttività totale dei fattori, legata alla qualità delle infrastrutture, alla funzionalità del mercato dei prodotti e dei servizi, a un’adeguata dimensione media d’impresa e molto altro. Non c’era più la valvola delle svalutazioni competitive ed è mancata la politica economica reale. C’è stato un vuoto sotto questo aspetto. Io speravo (...) che il governo Berlusconi, uscito dalle elezioni del 2008 con una maggioranza così forte, con un orizzonte di cinque anni e quel successo d’immagine al G8 dell’Aquila, avrebbe veramente potuto fare un piano delle riforme strutturali, invece di negare che l’Italia avesse un problema di crescita». (...) Lei ha trovato molto gratificante il mestiere di commissario europeo. Per questo attuale mestiere è lo stesso? O teme che a volte la facciano sentire un po’ un corpo estraneo o un ospite appena sopportato in questa macchina amministrativa che, dice il suo ministro Fabrizio Barca, è da registrare? «A Bruxelles per un periodo iniziale abbastanza lungo mi sentivo frustrato, anche perché avevo la responsabilità per uno degli aspetti più difficili a causa dell’esiguità e della lentezza dei poteri della Commissione sul mercato interno. Ma soprattutto non ero rodato io per un’esperienza del genere, anche se avevo molta conoscenza teorica sull’Europa. Dopo no, dopo non ho più trovato frustrante quell’esperienza, anzi. Ora qui sarei un corpo estraneo? È strano, perché sono un corpo estraneo; però questa situazione sta dando a questo corpo estraneo una qualche centralità». Dunque trova questo mestiere piuttosto gratificante che frustrante, grazie alla capacità di influire e di agire? «Quella non si può negare che ci sia, poi si può agire bene o male, con più o meno risultati. Ma non è che gli strumenti non ci siano. Dunque no, non trovo questo mestiere frustrante. Ovviamente c’è un’oscillazione, soprattutto nei primi tempi era così; poi uno impara a diventare più insensibile e soprattutto a mostrare meno se è sensibile. Comunque gli alti e bassi sono orari, quotidiani. Ci sono cose che danno grande soddisfazione, altre che danno grande frustrazione e bisogna imparare a incassare e ripartire. Ma frustrante nel senso dell’impotenza, no. Alcuni risultati sono molto più lenti a manifestarsi di quanto pensassi, questo è certo. Però se ne è fatta tutti insieme un’analisi, si è cercato di farla validare in Europa e di apprestare gli strumenti conseguenti. E vorrei aggiungere una cosa che non significa niente per il mio futuro, ma è oggettivamente vera: se i problemi che l’Italia manifestava in modo acuto nel novembre 2011 sono il risultato non tanto di particolari governi recenti, quanto del non aver affrontato certi nodi strutturali per anni o decenni, questa non può che essere un’operazione lunga anni o decenni. Ma non ho la frustrazione che deriva dal sapere che non sarò io a vederne il compimento. Sarò già molto contento se saranno stati messi alcuni semi; speriamo diano delle pianticelle presto e che persuadano ad andare avanti con tutte le correzioni del caso». 11 novembre 2012 | 9:05 da - http://www.corriere.it/politica/12_novembre_11/intervista-monti-fubini_ad830a82-2bce-11e2-a3f0-bca5bc7cc62d.shtml
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« Risposta #10 inserito:: Novembre 13, 2012, 07:37:54 pm » |
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Un errore anche parlarne Negli ultimi quindici anni il debito delle famiglie in Italia è salito dal 23 al 50 per cento del reddito. Anche dopo la grande bolla dell'ultimo decennio, si tratta di uno dei livelli più bassi dell'Occidente: appena la metà o anche meno rispetto alla Spagna, agli Stati Uniti e persino all'Olanda, che pure non rinuncia alle lezioni di austerità. Il risparmio degli italiani, a dire il vero, già dal 2008 è sceso al di sotto della media europea eppure continua a rappresentare una risorsa che viene da lontano e fa da fondamenta al Paese. Non si vede, se ne parla poco, ma tiene in piedi l'intero edificio. In questa Repubblica affetta da una strana circolarità della sua storia, per certi aspetti siamo già passati di qui. Il debito delle famiglie era ancora più basso e il risparmio più alto quando in una notte di luglio del '92, senza preavviso, il governo di Giuliano Amato prelevò il sei per mille sui conti correnti. Anche allora l'Italia era una grande barca sbilanciata dal suo debito pubblico e dall'erosione della competitività. In quei giorni concitati una persona confessò (in privato) i suoi dubbi sul prelievo in banca: era un giovane direttore del Tesoro, il suo nome era Mario Draghi, e temeva che tassare i patrimoni a freddo avrebbe portato a una fuga del risparmio all'estero e quindi reso più fragili le banche italiane. Passano vent'anni e rieccoci: con un po' meno di risparmio privato, un po' più di debito pubblico e lo stesso dilemma su come rendere liquide e utilizzabili le risorse degli italiani. Oggi come allora, chi governa e chi è governato ha bisogno di sapere di poter tamponare le falle se dovessero aprirsi. È in un'Italia con un passato e un presente di questo tipo che ieri Mario Monti ha fatto sapere che, in linea di principio, non è contro una patrimoniale. Il premier ha confermato di averci riflettuto un anno fa, ma l'operazione era irrealizzabile: mancavano i tempi e i dati per un intervento «adatto» e su base ordinaria, anziché punitivo e una tantum . Non che poi non si sia fatto nulla. Oggi abbiamo una tassa sugli immobili che aumenta per le seconde case, una sugli aerei privati, un'altra (elusa) sugli yacht e le auto di lusso, oltre all'imposta di bollo sui conti. Negli anni la somma di queste misure finirà per pesare come un prelievo di prima categoria sul risparmio e i patrimoni. Palazzo Chigi poi ha precisato che il premier non pensa affatto a un'altra tassa sulla ricchezza, ma il tema in realtà non riguarda più tanto Monti. Prima o dopo le elezioni se ne riparlerà e allora vale forse la pena di ripensare a quei timori di Draghi del '92. Oggi i depositi bancari nel Paese (tolti quelli delle banche stesse) valgono circa 1.400 miliardi di euro, il 70% del debito pubblico. Se questo o soprattutto un prossimo governo andasse a caccia di quei risparmi e li spingesse alla fuga, le banche perderebbero l'unica base con cui oggi finanziano i loro già scarsi prestiti a famiglie e imprese. L'Italia scivolerebbe in una strozzatura del credito più dura, l'economia si contrarrebbe e il debito salirebbe invece di scendere. Forse è meglio rassegnarsi all'idea che non ci sono armi segrete per vincere questa guerra del debito. C'è solo la disponibilità a camminare tutti, passo dopo passo, nello stesso senso: quello della crescita e della competitività. FEDERICO FUBINI 13 novembre 2012 | 7:28© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_novembre_13/un-errore-anche-parlarne-fubini_a123bb00-2d5a-11e2-9fd6-1d698914d372.shtml
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« Risposta #11 inserito:: Gennaio 19, 2013, 12:10:05 am » |
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EXPORT Il passo indietro della competitività Taglio dei costi, Madrid batte Roma Dopo il crac del 2008, la «svalutazione interna». Che ora aiuta Sono passati oltre cinque anni dall'inizio del terremoto. Di questi tempi un lustro fa, Bear Stearns stava per diventare la prima grande banca di Wall Street a cedere come un castello di carte. L'Italia sarebbe entrata in recessione mesi dopo. Se quel crollo di Bear fosse l'equivalente del Grande Crash del '29, oggi dovremmo essere già in pieno New Deal di Franklin Delano Roosevelt. I Paesi occidentali si starebbero già tutti riorganizzando. Ma è così? Per capire se davvero l'Italia ha imboccato il suo New Deal verso il ritorno alla crescita, serve un passo indietro. Prima della crisi, per anni Jean-Claude Trichet, allora presidente della Bce, ha presentato ai ministri europei un grafico che riassumeva le cause di ciò che stava per accadere. Trichet faceva notare che i vari Paesi dell'euro ballavano fuori tempi. Alcuni diventavano sempre più produttivi e capaci di presidiare i mercati esteri imponendovi le loro condizioni di prezzo; altri perdevano sempre più quote di mercato o le difendevano solo a colpi di sconti sui loro prodotti, mantenendo salari deboli e dal potere d'acquisto declinante. È il caso dell'Italia o della Spagna. Dall'inizio dell'unione monetaria, entrambe stavano perdendo qualcosa come il 30% di competitività sulla Germania e il 20% sulla Francia o la media europea. La produttività a Sud e a Nord viaggiava a velocità diverse; il Sud (con l'aggiunta dell'Irlanda) era in deficit negli scambi con il resto del mondo e teneva il passo della crescita solo indebitandosi e riciclando così il risparmio prodotto dai surplus commerciali del Nord. Ma dato che Spagna o Italia non potevano più recuperare (provvisoriamente) competitività svalutando, prima o poi questa musica doveva fermarsi. Lo ha fatto nel 2008, quindi sempre di più dal 2011 quando l'Italia è tornata nella recessione nella quale si trova ancora. Senza competitività, l'accesso al credito si è fatto sempre più in salita. I grafici di Trichet partivano dal '99, avvio dell'unione monetaria. Ora invece la stessa immagine presa a partire da un momento diverso, l'inizio della crisi, mostra come molto nel frattempo sia cambiato. Per qualcuno, non per tutti: l'Irlanda, la Spagna e persino la Grecia hanno iniziato a recuperare competitività sulla Germania e sulla Francia; il Portogallo ha smesso di restare indietro; solo l'Italia continua a perdere terreno rispetto a entrambe le classi di Paesi, sia quelli colpiti che quelli risparmiati dalla crisi. Il grafico in alto in questa pagina, elaborato da Fabio Fois di Barclays, fotografa quello che gli addetti ai lavori chiamano il «tasso di cambio effettivo» dei vari Paesi, corretto in base al costo unitario del lavoro: è una misura-chiave della produttività e della competitività, ossia quanto di fatto i vari Paesi hanno svalutato (o meno) pur restando nell'euro. Quando la linea di un andamento scende significa che un'economia ha svalutato, ma quando sale è la spia di una perdita di terreno. Come si vede l'Italia è rimasta sola nel continuare a perdere competitività dopo l'esplodere della crisi. Sull'Irlanda ha perso circa il 50%, sulla Spagna il 20%, sulla Germania un altro 10% dopo il 30% accumulato nel primo decennio dell'euro. Significa che in teoria l'Italia dovrebbe svalutare di altrettanto se volesse recuperare di colpo la competitività persa dall'inizio della crisi. Gli effetti si vedono. Peugeot, Ford e Renault aumentano già la loro produzione di auto in Spagna per l'export, mentre l'Italia a gran fatica spera di mantenere quella della Fiat. Dirk Schumacher di Goldman Sachs stima che dal duemila l'export dell'Italia verso la Cina è raddoppiato, mentre quello della Germania è cresciuto di nove volte e quello della Spagna di otto: una conferma che la struttura delle piccole imprese italiane, incoraggiate dalla legge che rende i contratti più flessibili solo sotto i 15 dipendenti, è inadatta ai mercati contemporanei. A questo punto esistono solo un'opzione virtuosa, e una dolorosa. Schumacher ritiene che il Paese debba ultimare la revisione iniziata sulle regole lavoro, della giustizia civile o dei settori chiusi dell'economia. L'alternativa è che l'inevitabile «svalutazione interna» - la riduzione dei costi - sia imposta di fatto dall'aumento costante della disoccupazione, che porta i lavoratori a accettare salari molto bassi pur di mantenere il posto. Per Fabio Fois di Barclays è il bivio fra una «svalutazione guidata» e una dettata dagli ingranaggi inesorabili di un'economia poco competitiva. Sarà la scelta del dopo-voto, prima che la musica si fermi di nuovo. Federico Fubini 18 gennaio 2013 | 8:21© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/economia/13_gennaio_18/il-passo-indietro-della-competitivita-taglio-dei-costi-madrid-batte-roma-federico-fubini_4711ed80-613a-11e2-8866-a141a9ff9638.shtml
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« Ultima modifica: Gennaio 19, 2013, 04:20:35 pm da Admin »
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« Risposta #12 inserito:: Gennaio 30, 2013, 07:38:29 pm » |
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LA PERDITA SUI DERIVATI Mps, si profila il falso in bilancio Un'ipotesi di questo tipo innescherebbe un'inchiesta penale Dal nostro inviato FEDERICO FUBINI DAVOS (Svizzera) -Alla saga del Monte dei Paschi si aggiunge un nuovo tassello delicato. La perdita sui derivati potrebbe innescare un’inchiesta di natura penale per un'eventuale ipotesi di falso in bilancio, in parallelo alle indagini dell’autorità di vigilanza sulla dinamica finanziaria dello scandalo. Il caso Siena in queste ore è inevitabilmente rimbalzato anche al World Economic Forum di Davos, dove oggi sono presenti il governatore della Banca d’Italia Visco, il ministro dell’Economia Vittorio Grilli e il presidente della Bce (e ex governatore italiano) Mario Draghi. VIGILANZA - Proprio Visco ha osservato che Bankitalia ha svolto fino in fondo il suo compito di vigilanza su Mps, anche se l’istituto di via nazionale «non è la polizia delle banche». “La Banca d’Italia ha svolto ispezioni al Monte dei Paschi negli anni scorsi”, quando l’istituto senese era presieduto da Giuseppe Mussari. A quell’epoca, ha detto oggi Visco a Davos, «abbiamo rilevato problemi in termini di liquidità». La sostituzione della primissima linea del management con Alessandro Profumo alla presidenza e Fabrizio Viola come amministratore delegato nasce anche da qui: «Siamo stati noi a fare pressione per la sostituzione del management», ha detto questa mattina Visco. «MASSIMA STIMA» - Sia il governatore che il ministro Grilli hanno cercato di superare qualunque polemica su un’eventuale irritazione del Tesoro per l’attività di vigilanza di Via Nazionale. Grilli ha ribadito «massima stima per il lavoro della Banca d’Italia di ieri e di oggi». E Visco ha ricordato che il governo e Via Nazionale sono in stretto contatto in questi giorni e «hanno coordinato la comunicazione». 25 gennaio 2013 | 15:41 da - http://www.corriere.it/cronache/13_gennaio_25/mps-ipotesi-falso-in-bilancio_d9a8f726-66f6-11e2-95de-416ea2b54ab7.shtml
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« Risposta #13 inserito:: Marzo 02, 2013, 11:03:18 pm » |
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IL LAVORO DEGLI ALTRI Pendolari low cost, sussidi solo a chi lavora Ecco le strategie per evitare i licenziamenti in Europa. A Lisbona c'è chi fa la spola con l'ex colonia, l'Angola Quando nel 2009 la GlaxoSmithKline annunciò che avrebbe chiuso il suo impianto a Sligo, in Irlanda nord-occidentale, i dipendenti rimasero per un po' sotto choc. Erano increduli, mai avrebbero pensato che sarebbe toccato a loro. Fu un trauma simile a migliaia di altri che in questi anni si sono propagati fra i Paesi colpiti dalla crisi del debito. Quello stabilimento farmaceutico esisteva dal 1975, quando fu aperto dal gruppo tedesco Stiefel, e niente di tutto quello che stava accadendo in Irlanda sembrava doverlo interessare così da vicino. I 180 operai e tecnici vedevano bene che l'economia nazionale si stava piegando sotto il peso della bolla immobiliare e bancaria, ma Sligo credeva di vivere in un altro pianeta. In fabbrica dominava l'idea che quel posto fosse troppo importante per essere toccato: un impianto tradizionale, una struttura paternalistica e con poche opportunità, ma se non altro un posto per la vita. Fino all'annuncio dei nuovi azionisti di Glaxo. Passano tre anni e ora la casa madre fa sapere che ha cambiato idea: Sligo non chiude, ma verrà riconvertita alla cosmetica. Nei tre anni fra i due annunci - dalla chiusura al rilancio - i dipendenti hanno affrontato una trasformazione emblematica di una certa Europa in recessione almeno quanto lo fu l'incapacità iniziale di capire cosa stava accadendo. La crisi poteva investire professionisti specializzati, non solo i manovali della porta accanto. A Sligo, i manager e gli addetti hanno deciso di non cedere facilmente. Si sono impegnati a incontrarsi ogni mese per fare il punto e discutere gli intoppi di produzione, per migliorare insieme. In poco più di due anni la quota di lotti difettosi è scesa dal 5% all'1,5%, l'assenteismo dal 4% al 2%, i casi di perdita di tempo in fabbrica dal 6 all'1%. La produttività è salita del 40%, ha riconosciuto la Glaxo. Prima ancora che l'Irlanda uscisse dalla recessione, tutti i posti erano salvi. Quella di Sligo è una storia a lieto fine di un'Europa in viaggio dal mondo di prima, quando il debito copriva ogni inefficienza, a un sistema per molti versi più duro: capace però di creare lavoro, competenze, tenuta delle imprese su basi più sane. Non tutte le vicende hanno lo stesso lieto fine, ma alcune contengono semi esportabili anche in altri Paesi colpiti dal contagio. Sempre in Irlanda, nel settore dell'ottica alcune imprese hanno ridotto l'orario e la paga fino al 40%. Per anni si è lavorato solo tre giorni la settimana, ma tutti. Nessun posto è andato perso e il ritorno della domanda dall'estero ha riportato gli addetti verso salario completo e a tempo pieno. Anche il governo di Dublino ha offerto un'idea che a molti in Italia parrebbe lunare: i disoccupati vengono mandati in fabbrica o negli uffici a fare «tirocinio» - a lavorare - finanziati dall'assegno di mobilità del governo più un indennizzo di 50 euro al mese. Chi ha perso il lavoro non perde contatto con il mondo produttivo, mentre le imprese integrano manodopera gratis e aumentano così la competitività. Non che in Italia non esista qualcosa di simile, ma si consuma nell'illegalità e nella corruzione. Nel Mezzogiorno non è raro che certi sindacalisti chiedano all'imprenditore il 10-15% del costo dell'ultima busta paga di un cassaintegrato, che resta in azienda a produrre, in cambio della garanzia che non ci sarà ispezione dell'ufficio del lavoro. Più lineari i meccanismi di riduzione dei costi di produzione che stanno emergendo in Spagna. Il gruppo iberico di consulenza e servizi Indra Engineering nel 2012 ha aumentato il suo fatturato del 9% a 2,9 miliardi anche grazie ai suoi consigli sulla localizzazione delle aziende spagnole in crisi. A molte suggerisce di spostare l'ubicazione degli impianti dalla regione di Madrid, dove i costi sono più alti, verso le aree più arretrate in Andalusia e Extremadura. Anche qui nessuno viene licenziato, almeno formalmente. Ai dipendenti viene offerto un nuovo contratto a un costo lordo del 10-20% più basso, in modo da riflettere il minore costo della vita nella nuova area di produzione dell'impresa: un processo che gli addetti ai lavori chiamano « near shoring », delocalizzazione non all'estero ma in aree dai costi più bassi di uno stesso Paese. Neanche in Spagna questi aggiustamenti sono privi di una buona dose di brutalità. Dall'inizio dell'euro la Spagna ha perso circa il 20% di competitività sulla media dell'area euro, anche a causa della bolla immobiliare che ha eliminato ogni incentivo all'investimento tecnologico e all'istruzione di alto livello: l'impatto dell'edilizia è stato così pervasivo che chi studiava meno, finiva per guadagnare di più dei laureati e degli specializzati. Questo ha fatto crollare la produttività ma ora anche gli iberici, pur di lavorare, corrono ai ripari. Fra gli esempi più drastici c'è la navetta aerea (ovviamente low cost) che i tecnici della Santander Banesto affrontano ogni settimana per operare in Germania in una controllata tedesca del gruppo bancario spagnolo. In Portogallo c'è chi affronta la crisi con ancora più coraggio. Decine di migliaia di migranti vanno a lavorare nell'indotto dell'industria petrolifera in Angola, un'ex colonia portoghese fino a due anni fa in pieno boom, mentre centinaia di professionisti passano la settimana a Luanda e il weekend a Lisbona da pendolari della crisi. In questi anni le rimesse degli emigranti dall'Angola al Portogallo sono esplose da 5 a 147 milioni di euro, superando quelle dalla Germania, dalla Svizzera e dalla Gran Bretagna. E in Italia? Dall'avvio dell'euro nel '99 la produttività è calata del 3,9% - la performance peggiore d'Europa - mentre saliva dell'8,3% dell'area euro. E forse anche sindacati e imprese in questo Paese, prima o poi, supereranno la stessa incredulità che paralizzò anni fa una fabbrica a Sligo di fronte alla crisi. Lì oggi tutti lavorano: hanno capito, forse, che non è mai così buio come prima dell'alba. Federico Fubini 2 marzo 2013 | 7:29© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/economia/13_marzo_02/pendolari-low-cost-fubini_f582345a-8300-11e2-839d-17a05d1096bb.shtml
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« Risposta #14 inserito:: Marzo 29, 2013, 10:56:58 pm » |
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il caso Ritroviamo fiducia nelle banche Ue: si dimetta il capo dell'Eurogruppo L'Eurogruppo dovrebbe valutare l'ipotesi che il suo neopresidente, Jeroen Dijsselbloem, si dimetta Non è mai successo prima che i ministri economici dell'area euro fossero anche solo sfiorati da un'idea del genere e lo stesso vale per il Consiglio europeo, che riunisce i capi di Stato e di governo. Il solo precedente di rilievo sono le dimissioni nel 1999 della Commissione europea allora guidata da Jacques Santer. All'epoca Santer lasciò per anticipare il voto di sfiducia dell'Europarlamento, vista la sua gestione maldestra dello scandalo personale attorno a uno dei suoi commissari. Anche questa volta la questione va affrontata prima che si trasformi da personale in istituzionale e sistemica. Se Jeroen Dijsselbloem dovrebbe dimettersi da presidente dell'Eurogruppo, non è tanto per la gestione pasticciata del piano per Cipro: questa ha molti responsabili, in una situazione oggettivamente complessa. Il problema non è neppure la tendenza del presidente dell'Eurogruppo a lanciarsi in affermazioni per le quali non ha mandato: oltre a quella secondo cui il piano per Cipro sarebbe «un modello» per altri futuri interventi, anche la pretesa - di fronte al parlamento olandese - che l'Europa avrà diritto a incassare i proventi eventuali dei giacimenti di gas dell'isola. Paradossalmente, il motivo per cui sarebbe giusto che Dijsselbloem lasciasse non è neppure il fatto che quasi tutti lo hanno contraddetto. Il presidente francese, il premier spagnolo, vari esponenti di vertice della Bce e il governo tedesco hanno tutti spiegato che Cipro, con il prelievo forzoso sui depositi e i controlli sui capitali, non è un «modello», ma un caso unico (solo l'Italia per ora è rimasta in silenzio). Il motivo perché l'Eurogruppo si trovi un altro presidente è diverso: le dimissioni di Dijsselbloem sono il modo migliore, forse il solo, per dimostrare che ciò che lui ha detto sulle banche non è vero. Sono il modo per riportare fiducia, oggi incrinata dalle sue parole, nelle banche di quella che Dijsselbloem definisce la «periferia» dell'area euro. In questa «periferia» decine di milioni di famiglie affrontano sacrifici dolorosi per stabilizzare i propri Paesi. Rischiare di vanificarli con una frase rivolta ai propri elettori nazionali è del tutto fuori luogo. Federico Fubini 29 marzo 2013 | 10:59© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/economia/13_marzo_29/cipro-ue-dimissioni-capo-eurogruppo_4a115e1c-983a-11e2-948e-f420e2a76e37.shtml
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