LA-U dell'OLIVO
Dicembre 03, 2024, 06:58:36 pm *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: 1 2 [3] 4 5 6
  Stampa  
Autore Discussione: FRANCESCO GUERRERA.  (Letto 50943 volte)
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #30 inserito:: Agosto 07, 2011, 12:30:36 pm »

7/8/2011

Cersasi supereroe

FRANCESCO GUERRERA

A Wall Street, lo chiamano «il concorso di bruttezza» – la battaglia tra America ed Europa per stabilire chi stia peggio, tra economie in tracollo, deficit enormi e monete allo sbando. Venerdì sera la competizione è diventata ancora più brutta. Per la prima volta nella storia, gli Stati Uniti hanno perso l’importantissima «tripla A». L’agenzia di credit rating Standard & Poor’s ha bocciato la politica economica Usa, togliendo al Paese il rating più alto – un imprimatur che, per 70 anni, ha rassicurato investitori e governi del fatto che lo zio Sam paga sempre i suoi debiti. La decisione bomba della S&P è stata subito contestata dall’amministrazione Obama che ha accusato l’agenzia di un errore di calcolo di 2 triliardi di dollari. S&P – una delle tre «big» nel mondo del rating che contribuì alla crisi finanziaria del 2008 non è certo senza peccato. Ma il tempo delle recriminazioni è ormai passato. La mossa-choc di S&P è arrivata alla fine di settimane campali in cui i due pilastri dell’economia mondiale – l’America e l’Europa – hanno vacillato pericolosamente. Gli Stati Uniti sono partiti per primi, con un accordo sulla riduzione del loro debito enorme che non ha soddisfatto nessuno. Il governo Obama e la Federal Reserve ci hanno messo del loro, facendo poco e nulla per convincere i mercati – ed anche la gente comune – che hanno i mezzi economici e la volontà politica per evitare un «doppio tuffo» nella recessione. L’Unione Europea non è stata da meno, con una dimostrazione di inanità politica ed impotenza finanziaria che ha spaventato gli investitori. I mercati sono creature dalla psiche fragilissima e parole come quelle del presidente dell’Ue José Manuel Barroso e di Silvio Berlusconi hanno rappresentato l’avverarsi di un incubo. Se non si hanno soluzioni concrete, ammettere, come ha fatto Barroso, che l’ultimo summit di meno di un mese fa non ha risolto niente e dichiarare che la crisi non è più confinata alla periferia di Portogallo, Grecia ed Irlanda ma ha contagiato l’Italia e la Spagna, è giocare col fuoco. E se si è il leader di un Paese nel mirino di investitori pieni di paura e scetticismo, dare la colpa a fattori esterni quando il debito pubblico è al 120 per cento del Pil e la crescita è pressoché zero, non è la maniera migliore per rassicurare i mercati. L’inadeguatezza delle istituzioni politiche ha costretto la banca centrale europea a rimangiarsi le sue parole di austerità, probabilmente proferite in tedesco, per dichiararsi pronta a comprare buoni del Tesoro spagnoli ed europei già da domani.

Per la Bce, che da Novembre verrà guidata da Mario Draghi, si tratta di un’ammissione che la crisi sta attaccando il cuore pulsante dell’Europa, una constatazione che a mali estremi bisogna opporre rimedi costosi e rischiosi. I mercati, ovviamente, hanno reagito. Giovedì il Dow Jones – l’indice guida della borsa di New York e il punto di riferimento per investitori di tutto il mondo – è crollato del 4,3 per cento, il giorno peggiore dal 2009. I mercati europei hanno seguito lo stesso copione. «Questa settimana è stato un bagno di sangue», mi ha detto un investitore ieri sera, esausto dal continuo vendere di azioni, poco prima di farsi scappare una volgarità dopo aver visto la notizia del downgrade della S&P. L’aspetto più preoccupante di questa crisi è che il crollo dei mercati non è stato provocato da una ragione sola. Di solito, la caduta a precipizio delle Borse è causata da un elemento catalizzatore: dati economici deboli, problemi politici, guerre e così via. Questa volta, i mercati sono stati mossi dalla scomparsa della fiducia degli investitori nella capacità dei governi di controllare la crisi. Non si è trattato di un «big bang» – uno scoppio immediato della paura – ma piuttosto di un’erosione lenta ed inesorabile della fede del mondo della finanza nel mondo della politica. Wall Street e la City di Londra hanno votato la sfiducia alla Casa Bianca, Bruxelles e Palazzo Chigi. Il problema ora è che, un volta persa, la fiducia dei mercati è difficile da riconquistare. La differenza fondamentale tra il terremoto finanziario del 2007-2008 e quello attuale è che allora la crisi fu causata da banche e risparmiatori incauti ed avidi, non da politici incapaci e banchieri centrali indecisi. Quando le banche vanno in malora, ci sono sempre i governi a salvarle con i miliardi dei contribuenti – una soluzione inefficiente e dolorosa che pero’ riesce a prendere l’economia per i capelli prima che raggiunga il baratro. Nel 2008, le banche centrali coadiuvarono i governi, pompando miliardi di dollari nell’economia mondiale grazie a tassi bassissimi e programmi di liquidità per investitori e istituzioni finanziarie. Quella dose da cavallo di stimolo riuscì ad evitare un’altra Grande Depressione negli Usa e a proteggere i cittadini europei da una dura recessione. Ma oggi? Se i governi e i banchieri centrali non possono, o non vogliono, far nulla, chi si ergerà a super-eroe dell’economia mondiale? Le condizioni e le circostanze sono veramente infelici. In America, la congiuntura politica – con le elezioni presidenziali nel 2012 e un Congresso diviso tra Repubblicani e Democratici – non è favorevole ad un stimolo economico. Il dibattito pubblico negli Stati Uniti è tutto su come ridurre il deficit, con misure di austerità e tagli di spesa. Una posizione senz’altro lodevole nel lungo termine, vista la situazione fiscale del Paese, ma non certo utile quando l’economia è nei guai seri. I luogotenenti di Obama guardano alla Fed, ma la banca centrale può fare poco e nulla in un frangente economico in cui i tassi d’interesse sono già a zero. Il problema non è che non c’è denaro in circolazione ma che aziende, consumatori e banche non vogliono né spenderlo neé investirlo. «E’ un problema di fiducia, non di soldi», mi ha detto uno sconsolato funzionario della Fed questa settimana Per l’Europa, la soluzione è più drammatica.

L’unica strada per uscire dalla crisi senza abbandonare l’euro passa per una maggiore integrazione fiscale tra i Paesi membri. Ovvero: Paesi i cui governi si sono dimostrati non all’altezza di gestire la propria economia dovranno delegare le loro politiche di tassazione e spesa ad un’entità europea. E’ un passo enorme, una cessione di sovranità che lascerebbe l’amaro in bocca a molti, soprattutto perché la Germania emergerebbe come leader della nuova Europa – un risultato problematico per ragioni sia storiche sia culturali. Ma l’alternativa – la decomposizione della zona-euro e la balcanizzazione delle economie nazionali – non è auspicabile. Nel concorso di bruttezza tra le due economie-guida del pianeta, non ci può essere una medaglia d’oro ed una d’argento. Per il bene dell’economia mondiale, l’America e l’Europa sono obbligate a tornare a splendere insieme. Speriamo solo che non ci siano due perdenti.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9071
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #31 inserito:: Agosto 21, 2011, 09:37:32 pm »

21/8/2011

Aspettando il ruggito del leone

Francesco Guerrera

La crisi economica americana non ha risparmiato nemmeno il Re Leone. La versione di Las Vegas del mega-show della Disney, ispirato dal «Libro della giungla» di Rudyard Kipling, chiuderà per sempre il sipario a fine anno, dopo più di mille performances. La fine dello spettacolo, con la famosissima musica di Elton John, lascerà centinaia di persone senza lavoro, aggravando una situazione già difficile in una delle città più colpite dal crollo del mercato immobiliare Usa. L’ultimo ruggito del leone è una metafora triste per un Paese che è da anni il re della foresta economica. A tre anni da una crisi finanziaria che sarebbe dovuta essere un evento epocale, non ripetibile nel corso delle nostre vite, l’America e il mondo occidentale si ritrovano sul baratro della recessione. Come nel 2008, i mercati sono in caduta libera, i consumatori hanno paura di spendere, e le banche non vogliono prestare soldi né ad aziende né ad individui. I disagi americani sono accompagnati da un malessere ancora più profondo in Europa – il mercato più importante per i beni e servizi made-in-Usa. E i governi, il deus ex machina che salvò l’economia mondiale con miliardi di aiuti durante l’ultima crisi, questa volta sono troppo indebitati per aprire i cordoni della borsa. E allora? Allora si soffre.

Un banchiere mio amico, che di solito è un ottimista inveterato, ha fatto un riassunto perfetto della situazione questa settimana. «Ormai - mi ha detto - oscillo tra l’essere pessimista e l’essere molto pessimista». Nell’America di oggi, il pessimismo sembra una condizione cronica, che affligge investitori, aziende e gente comune, e che esacerba lo stallo economico a tutti i livelli.

Partendo dalle radici della foresta economica: la gente comune non riesce a comprarsi casa. Le ultime notizie dal fronte immobiliare sono scoraggianti: le vendite di case sono calate del 3,5% tra giugno e luglio: una brutta sorpresa per i mercati e non solo perché l’estate è il tempo degli acquisti. Le nuove cifre hanno contraddetto le rilevazioni dei mesi passati che indicavano un aumento nel numero di contratti di vendita. Per gli esperti, questo significa che potenziali acquirenti stanno rinnegando i contratti perché hanno paura di un’altra recessione. L’alto tasso di disoccupazione e il continuo calo dei salari rinforzano questa ipotesi: nonostante tassi d’interesse bassissimi, molte persone non vogliono un mutuo se non sono sicure che avranno un posto di lavoro ed uno stipendio per ripagarlo.

Il mercato immobiliare è una delle locomotive dell’economia americana e, se non tira, altri consumi - mobili, televisioni, frigoriferi e così via – ed altri settori, dalle costruzioni ai trasporti, ne soffrono. Ai piani buoni dell’economia, il morale non è tanto più alto. E’ vero che le società americane – dopo aver imparato la lezione di altre crisi – hanno pochi debiti e molti liquidi in cassaforte. Ma è anche vero che non hanno nessuna intenzione di investirli negli Usa, soprattutto se l’economia domestica è in difficoltà e le esportazioni verso l’Europa languono. Le mie conversazioni con capitani d’industria, sia americani che europei, cominciano e finiscono con due parole: «emerging markets». I mercati emergenti di Brasile, Cina e India, con le loro popolazioni enormi e tassi di crescita strepitosi, sono il Santo Graal del capitalismo mondiale.

Poco importa che gran parte di quei miracoli economici sia basata sulla vendita di materie prime e beni a basso costo a un’America e un’Europa che hanno sempre meno soldi per comprarle: gli azionisti e i mercati hanno bisogno di speranze. Ma non di sole speranze vive un’economia e le mosse strategiche delle aziende indicano una realtà diversa. La Delta Airlines, la più grande compagnia aerea americana, ha appena annunciato che ridurrà i suoi voli del 5% perché le costa troppo far decollare aerei mezzi pieni. Compagnie grandi e piccole – da Cisco (il gigante di Silicon Valley) a banche con tre filiali – stanno tagliando migliaia, forse milioni, di posti di lavoro per far fronte ad un’emergenza economica che non si aspettavano.

In una congiuntura normale, tre anni dopo una recessione, l’economia dovrebbe essere in piena ripresa con salari in aumento e disoccupazione in calo. Invece, il dibattito sulle pagine economiche dei giornali e nei talk-show in televisione è se siamo già in una nuova recessione. La domanda è a trabocchetto, visto che le imperfezioni della scienza economica fanno sì che periodi di contrazione economica possano essere individuati solo quando stanno per finire, mai all’inizio. Ma questo non impedisce agli esperti di fare predizioni. Quando il Wall Street Journal ha chiesto a 60 economisti di recente, la risposta è stata che in media, c’è una chance su tre che il 2012 sia un anno di recessione. Il 2012 è anche l’anno delle elezioni presidenziali e il malore economico del paziente americano sta contagiando l’amministrazione Obama.

I sondaggi non danno buone notizie. L’ultimo, pubblicato mercoledì dalla Gallup, ha rivelato che solo un quarto della popolazione è soddisfatto con le politiche economiche della Casa Bianca, il livello più basso della presidenza Obama. Gli alleati di Obama dicono che la colpa è di Bush e di un governo repubblicano che ha lasciato una montagna di debiti e un retaggio di tensioni sociali tra ricchi e poveri. Guardando i fatti, non hanno tutti i torti, ma l’americano medio non gli darà mai ragione. Senza un miglioramento economico, la rielezione di Obama è a rischio anche se i repubblicani si ostinano a presentare candidati deboli e discutibili. Un po’ di tempo fa, uno degli strateghi di Obama mi disse che la Casa Bianca avrebbe avuto bisogno di un livello di disoccupazione di meno dell’8% per vincere le presidenziali del 2012. Oggi la disoccupazione è a più del 9% e non dà segni di flessione. «E’ l’economia, stupido!» – lo slogan che aiutò uno sconosciuto governatore dell’Arkansas chiamato Bill Clinton a battere il patrizio Bush padre nel 1992 - potrebbe diventare un boomerang letale per i democratici. Il Presidente ed il resto della popolazione hanno un bisogno quasi disperato di un nuovo ruggito del Leone americano.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del «Wall Street Journal» a New York. francesco.guerrera@wsj.com
da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9109
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #32 inserito:: Agosto 27, 2011, 04:26:00 pm »

27/8/2011

I sassolini di Bernanke

FRANCESCO GUERRERA*

L’uragano Irene si sta per abbattere su Wall Street. L’uragano Ben non si sa. Forse distratti dall’imminente arrivo del temuto ciclone nella zona di New York, mercati ed investitori sono rimasti confusi e perplessi dall’attesissimo discorso del capo della Federal Reserve, Ben Bernanke al simposio economico di Jackson Hole.

Circondato dalle montagne del Wyoming, a migliaia di chilometri da mercati finanziari che speravano che la catastrofe meteorologica non fosse il presagio di un altro cataclisma economico, il banchiere più importante del mondo ha fatto del suo meglio per dire che la situazione è sotto controllo. Ad operatori che stavano mettendo «sacchi di sabbia vicino alla finestra» – per dirla con Lucio Dalla – il pacato Bernanke ha detto che la Fed «è pronta ad utilizzare i mezzi necessari per stimolare la ripresa economica». Niente di nuovo fin qui, visto che Ben e i suoi stanno ripetendo la stessa litania da qualche mese senza specificare quali mezzi abbiano o come vogliano impiegarli. A Jackson Hole, però, Bernanke è andato oltre le solite banalità al bromuro che i banchieri centrali somministrano ai mercati.

Senza alzare la voce, il barbuto profeta della politica monetaria Usa si è tolto un paio di sassolini dalle scarpe. Prima di tutto, ha attaccato la Casa Bianca ed il Congresso per non avere fatto assolutamente nulla per stimolare l’economia. Anzi. La farsa estiva sui piani di riduzione del deficit ha «sconvolto i mercati e forse anche l’economia – ha detto Bernanke ad una platea di luminari della politica e della finanza -. Ripetere eventi del genere in futuro potrebbe pregiudicare la volontà degli investitori di comprare beni finanziari americani». Nel mondo delle banche centrali – dove meno si dice meglio è - parole come queste hanno effetti dirompenti. Ma Bernanke non si è fermato lì. Con molta ironia, ha detto di essere «fiducioso che i nostri colleghi europei capiranno l’importanza della situazione» e prenderanno misure adeguate.

Tradotto dal banchiese ciò vuol dire: «Non ho nessuna fiducia che i nostri colleghi europei stiano capendo la gravità della situazione e quindi glielo ricorderò ogni volta che posso». Nel dubbio – e con la fretta di chi vuole lasciare l’ufficio e barricarsi a casa prima dell’uragano – gli operatori di mercati hanno interpretato le esternazioni di Bernanke come un buon segno. La Borsa di New York, che era nel rosso profondo quando Bernanke ha incominciato a parlare, ha chiuso la sessione in forte crescita. Gli operatori con cui ho parlato hanno spiegato che il tono burbero di Bernanke con i politici americani ha acceso speranze che il Congresso e l’amministrazione Obama faranno finalmente qualcosa per stimolare la moribonda economia Usa.

Gli ottimisti si sono aggrappati alla notizia, inserita da Ben nel suo discorso, che il prossimo incontro della Fed, a settembre, sarà di due giorni, anziché uno – forse un segnale che anche la banca centrale si sta preparando ad agire. Sarebbe bello pensare che i problemi annosi degli Stati Uniti si possano risolvere in due giorni. Eppure, mi riesce molto difficile essere ottimista in un frangente come questo, e non solo perché la cantina mi si allagherà sicuramente questo weekend. I «mezzi» di cui parla Bernanke per far risorgere l’economia sono limitatissimi. I tassi d’interesse – l’arma più potente nell’arsenale dei banchieri centrali per ridurre il costo del denaro e invitare aziende e consumatori a spendere – sono già praticamente zero negli Usa.

L’idea che la Fed possa ricominciare a spendere miliardi di dollari per comprare beni del Tesoro e pompare denaro nell’economia - un trucco che ha già tentato due volte senza gran successo – sembra remota. Forse Bernanke riuscirà a persuadere la Casa Bianca e i repubblicani che controllano metà Congresso a raggiungere un accordo su misure di stimolo fiscale – spese statali tipo «New Deal» di Franklin Roosevelt, seguite da un aumento delle tasse per pagarle. Ma le chances che democratici e repubblicani ammettano che bisogna alzare le imposte per pagare i debiti a un anno dalle elezioni presidenziali sono poche. Per quello che riguarda l’Europa, Bernanke può tuonare come e quanto vuole ma le sue parole non hanno grande risonanza in un continente con problemi gravi e di non facile soluzione.

Il discorso di Jackson Hole ha, quanto meno, risollevato il morale dei mercati dopo settimane impegnative e cupe. Ma con le nuvole nere di Irene già visibili dai grattacieli di Manhattan, è difficile credere che gli Usa non siano più nell’occhio del ciclone.

*caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York
francesco.guerrera@wsj.com

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9134
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #33 inserito:: Settembre 04, 2011, 05:27:12 pm »

4/9/2011

La situazione è semplice e disperata

FRANCESCO GUERRERA

Cernobbio è blindata. Dai poliziotti sommozzatori nel lago di Como agli agenti del Mossad con giacche che a malapena celano i muscoli, ai ragazzotti italiani con auricolari troppo visibili, i magnifici giardini di Villa d’Este formicolano di guardie del corpo dei tantissimi vip. Ma i veri pericoli sono dentro la villa, nei saloni sontuosi dove capi di Stato ed economisti discutono dell’epidemia di crisi che si sta diffondendo attraverso il globo. Contro problemi come questi, poco possono i muscoli del Mossad. Il tono lugubre al simposio annuale organizzato dall’Ambrosetti House l’hanno dato, come spesso in questi ultimi mesi, gli Stati Uniti.
Venerdì, mentre economisti di lusso come Nouriel Roubini, il guru della crisi finanziaria del 2008, Martin Feldstein di Harvard ed il nostro Mario Monti si interrogavano sulle sorti del mondo, è arrivata la notizia bomba dagli Usa: in agosto il mercato del lavoro americano non ha creato nessun posto di lavoro.

Nemmeno uno o due posticini, zero.
A questo punto, parafrasando la frase dei prestigiatori di un tempo, la contrazione economica c’è anche se non si vede nelle rilevazioni ufficiali della Federal Reserve.

Dopo quel dato straordinario – la prima volta in quasi un anno che l’occupazione americana è a crescita-zero – gli economisti sono corsi a riscrivere le loro previsioni con inchiostro rosso. Roubini, che era già pessimista prima, ha detto che le probabilità di un «doppio tuffo» nella recessione nei prossimi mesi sono ormai più del 60%, prima di ammonire un po’ tutti che la sperequazione dei redditi statunitensi potrebbe portare a disordini sociali.
Ma non c’è stato tempo di soffermarsi sui problemi d’oltre-Atlantico. Sulle terrazze di Villa d’Este, nelle pause tra le sessioni, si è parlato più dell’Europa ammalata che della vista mozza-fiato che probabilmente ispirò Manzoni: colline verdeggianti che si tuffano in un ramo del lago di Como.

Le onde lambiscono i muri della villa ma i vip di Cernobbio l’acqua se la sentono alla gola e sanno bene di chi è la colpa: una classe politica che sta facendo finta di niente mentre il Titanic dell’euro affonda.
Il presidente della Banca Centrale Europea Jean-Claude Trichet ha chiesto, anzi implorato, Giorgio Napolitano di far sì che la manovra promessa dal governo italiano venga passata il prima possibile. I mercati non possono più attendere, bisogna dargli qualcosa, anche se sono misure pasticciate, raffazzonate come quelle promesse da questo governo distratto e confuso.

Il Presidente, collegato via satellite su uno schermo in cima al podio dell’Ambrosetti, è sembrato quasi una figura messianica: ci siamo messi tutti col naso in su a guardarlo, sperando che dicesse la cosa giusta. E Napolitano il garante l’ha fatto, tentando di rassicurare il banchiere francese che non ci saranno più sotterfugi, mezze promesse e bocciature: l’Italia si rimboccherà le maniche e stringerà la cinghia anche perché, ormai, non c’è alternativa.
Con i tassi d’interesse dei buoni del Tesoro alle stelle – lo sberleffo dei mercati al principio di un’unione monetaria che prometteva tassi uniformi da Atene a Helsinki, gli investitori stanno votando con i soldi: l’asse dell’euro è sotto pressione estrema e potrebbe rompersi da un momento all’altro.

Purtroppo, le professioni di austerità provenienti dai Paesi a rischio – i poveri Piigs, i porcelli europei di Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna – non sembrano aver convinto gli imprenditori e investitori che ho accostato nelle hall di Cernobbio.
Il capo di un’azienda industriale enorme, con migliaia di dipendenti in mezzo mondo, mi ha spaventato ieri mattina quando mi si è seduto vicino a colazione e mi ha chiesto: «Ma tu ci capisci qualcosa? Io sono proprio confuso». «Ma se non lo sai lei...», ho farfugliato, cercando di nascondere il mio smarrimento.

Questa è la congiuntura economica a cui devono far fronte aziende grandi e piccole: incertezza totale sulla direzione delle economie americane ed europee e sfiducia ancora più totale nella classe politica che le deve gestire. Il risultato è un’attesa che piacerebbe a Beckett. E mentre si aspetta non si assume e non si investe.

Trichet, come il collega americano Ben Bernanke lo ripete ormai da mesi: le banche centrali non hanno più munizioni, il pallino è in mano ai politici.
Ma invece di cercare soluzioni, i governi litigano, dimostrando in maniera drammatica, e forse letale, i limiti di un’unione monetaria che non è stata accompagnata da un’unione fiscale e politica.

Le beghe nazionali, i calcoli meschini di politica interna, hanno pregiudicato l’euro sin dall’infanzia. Non ci dimentichiamo che nel 2003, furono proprio la Germania e la Francia (con la complicità della presidenza italiana dell’Unione Europea) ad infrangere le regole serie del Patto di Stabilità, il bastione che avrebbe dovuto proteggere la moneta unica e garantire la probità fiscale dei Paesi membri. Non ci furono sanzioni ed il messaggio fu chiaro a tutti: l’Ue non prende il rigore economico seriamente, il laissez-faire è la nuova regola del gioco.

E’ un’ironia amara che siano proprio Germania e Francia oggi ad ergersi a giudici della situazione europea. Ed è ancora più sgradevole che le due potenze che misero le prime mine sotto l’edificio dell’euro strumentalizzino la geografia per spiegare i malori dell’euro: il Sud prodigo contro il Nord parsimonioso.

Nord e Sud sono ugualmente colpevoli ed accuse come queste, con ammicchi ad elettori in cerca di un capro espiatorio, non rinforzeranno né l’euro né la fiducia dei mercati.
A tre anni dall’ultimo tonfo, siamo di nuovo sul baratro o, come mi ha detto un imprenditore a Cernobbio, «siamo sospesi come Wyle il Coyote prima di accorgersi che sta in mezzo al canyon».

Non tutto è perduto ma la posta è altissima. In momenti come questi, i manager aziendali parlano di «piattaforma infuocata» – il momento di crisi che finalmente costringe i leader a prendere decisioni e i dipendenti a seguirli.

Negli Usa, sulla piattaforma c’è Obama ma, purtroppo per lui, i repubblicani controllano l’idrante. Lo stimolo fiscale – spese di infrastrutture, piani per stimolare l’occupazione, incentivi per gli investimenti d’impresa – non arriverà prima delle elezioni del prossimo anno. Il Presidente della speranza deve ora sperare che la disoccupazione cali o rischia di passare da nuovo Kennedy a nuovo Carter.

In Europa, le scelte sono ugualmente difficili. Un’integrazione maggiore, sia dal punto fiscale che da quello politico è inevitabile per prevenire la catastrofe dell’implosione dell’euro.
Ma la decisione passa per la Germania, che riceverà sia il conto sia le redini per progettare un’Europa più unita. Se gli elettori tedeschi non se la sentono di pagare o il resto del continente soccombe a paure storiche sul potere teutonico, i mercati potrebbero prendere decisioni drastiche sul futuro dell’euro.

E per l’Italia? La situazione è sia più disperata sia più semplice. Non c’è via d’uscita: bisogna agire ed agire subito, con misure concrete e riforme radicali.
Come dicono a Cernobbio quando i dibattiti stanno per finire: «Time is up» - «Il tempo è scaduto».

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal
a New York  - francesco.guerrera@wsj.com

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9158
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #34 inserito:: Settembre 19, 2011, 12:08:49 pm »

19/9/2011 - LA CRISI GLOBALE

Monete, il risiko dei perdenti

FRANCESCO GUERRERA

Quando anche la Svizzera entra in guerra, i problemi sono proprio seri.

L’annuncio da parte della neutralissima confederazione elvetica che la banca centrale di Berna è pronta ad utilizzare «quantità illimitate» di denaro per mettere fine ad un rialzo del franco e far respirare l’economia interna, segna l’inizio ufficiale della «guerra delle monete».

La crisi che sta indebolendo l’America, corrodendo l’euro e mettendo a repentaglio la crescita-razzo dei Paesi emergenti ha spinto nazioni dell’Est e dell’Ovest verso una collisione monetaria.

L’obiettivo di questa particolarissima guerra, in realtà, è perdere – un gioco al ribasso in cui ogni Paese tenta di far deprezzare la propria divisa per stimolare le esportazioni e far ripartire l’economia.

Poliglotti cugini svizzeri, Willkommen, Bienvenue, Benvenuti sull’ affollatissimo campo di battaglia. Se guardate a destra vedrete la barba bianca di Ben Bernanke a capo dei battaglioni della Federal Reserve, che da mesi stanno combattendo contro le orde germaniche con l’euro sullo stendardo.

Dietro la collina ci sono i kamikaze giapponesi, sempre più disperati. I loro attacchi per tenere lo yen sotto controllo sono falliti, affondando un’economia che non cresce da più di un decennio.

E più in là, fate attenzione ai cinesi per cui la debolezza del renminbi è un articolo di fede – un pilastro di un’ economia costruita sulle esportazioni. Le urla che sentite? Sono gli eserciti brasiliani e turchi che protestano contro un’Occidente che continua ad investire nei loro Paesi, gonfiando le valute e strangolando le esportazioni.

Visto dall’alto, è uno spettacolo deprimente: le più grandi economie del pianeta che si azzuffano per vincere il premio per la moneta più flaccida del mondo. Questo Risiko dei perdenti è un segnale lampante dell’impotenza di governi e banche centrali nell’attuale frangente economico. Privi di altre armi – perché nessuno vuole alzare le tasse o prendere altre decisioni serie sull’austerità fiscale – i potenti del pianeta scommettono tutto sul minimo comun denominatore di esportazioni e monete flebili.

Dopo aver rovistato nel vasto arsenale delle loro politiche economiche, l’unica cosa che i potentissimi Bernanke, Jean-Claude Trichet e Barack Obama sembrano aver trovato sono i trucchetti dei governuncoli italiani prima dell’avvento dell’euro: svalutazioni e parole, parole e svalutazioni.

Per i mercati, gli investitori, ed anche la gente comune, la domanda più importante, a questo punto, e se questa baruffa delle divise produrrà un vincitore. La risposta è a trabocchetto: o tutti o nessuno. Se la guerra delle monete porterà ad una pace delle economie sarà perché la corsa verso il fondo è stata così sfrenata da convincere consumatori, aziende e governi a ricominciare a spendere.

C’è un parallelo storico importante: durante la Grande Depressione degli anni 1930, l’America e l’Europa presero parte in un’orgia di svalutazioni simile alla spirale odierna. Per un periodo, il risultato fu la stasi economica: con monete tutte deboli ed economie in difficoltà, le esportazioni si bloccarono.

Dopo un po’ di tempo, però, la montagna di soldi creata per tenere le divise basse – e i tassi d’interesse zero – arrivò nelle tasche di imprenditori, lavoratori e operatori di Borsa, spronando investimenti e consumi. L’economia mondiale si salvò non, come credevano erroneamente i profeti della svalutazione, perché tutti i Paesi riuscirono ad esportare beni e servizi allo stesso tempo ma perché, a lungo andare, il denaro stampato dalle banche centrali deve essere speso.

Gli economisti, amanti dell’astratto, parlano di riflazione e aumento della domanda, ma io preferisco paragonare questo effetto ad una Bialetti sul fornello: se il gas è acceso, prima o poi la pressione sarà tale che l’acqua si trasformerà in caffè.

E se venisse a mancare il gas? C’è una possibilità che, viste le condizioni pessime dell’economia mondiale, la guerra delle monete si trasformi in battaglia all’ultimo sangue con una sola, grande vittima: la globalizzazione. Il fattore determinante della nostra epoca – almeno a livello economico – è stato l’aumento esponenziale nel commercio tra nazioni, facilitato dal progresso tecnologico e dalla fine della guerra fredda.

I giovani degli Anni 60 erano cresciuti con l’idea che dovevano cambiare il mondo, la mia generazione, invece, è sempre stata convinta che il mondo se lo poteva comprare. Mi spiego: da decenni, ormai, siamo abituati ad acquistare carrozzine made in China, giacche fatte a Hong Kong e macchine costruite dal Messico al Brasile alla Polonia – a prezzi molto più bassi che se fossero state prodotte nella vecchia Europa o in America.

Per i consumatori di oggi, la globalizzazione del commercio è ovvia e la sua permanenza è data per scontata. Ma che succederebbe se il mondo, invece di essere piatto come ci ha detto Thomas Friedman nel suo best-seller, fosse pieno di angoli, barriere e fili spinati?

Una guerra delle monete in un periodo di contrazione economica può senz’altro portare ad un’ esplosione di protezionismo. Non è difficile per un politico opportunista strumentalizzare il tasso di disoccupazione elevato e la crescita anemica di un Paese per attaccare governi stranieri o, peggio ancora, gente non «del posto». Molte guerre vere – quelle combattute con le armi – in passato sono iniziate con tensioni economiche che portano a diffidenza tra governi e si trasformano poi in ostilità aperta.

La buona notizia è che, al momento, questa versione apocalittica della guerra delle monete non è ancora realtà. Parlando con politici e banchieri centrali la mia impressione è che i potenti del pianeta capiscono chiaramente che commercio e collaborazione internazionale sono l’unica via d’uscita da questo labirinto di problemi economici.

La presenza del ministro del Tesoro americano Tim Geithner al summit dei ministri delle Finanze europei lo scorso venerdì a Bruxelles è un esempio degli sforzi euro-americani per risolvere la crisi. Il dialogo tra i due blocchi rimane fondamentale, anche quando, come nel caso di Geithner, gli americani vogliono dare lezioni agli europei sul come affrontare questi difficili passaggi. Nella battaglia contro la recessione mondiale, nessuno si può permettere di essere neutrale. Nemmeno la Svizzera.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York
francesco.guerrera@wsj.com

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9217
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #35 inserito:: Ottobre 04, 2011, 07:34:55 pm »

2/10/2011

Ascoltiamo quell'urlo in piazza

FRANCESCO GUERRERA

Una ragazza bionda urla, disperata, mentre due poliziotti la buttano sul ruvido asfalto newyorchese ed un terzo prepara le manette.
Il momento – catturato da un fotografo del Daily News questa settimana – non è una delle solite scene di piccola criminalità che punteggiano la vita quotidiana di New York.

Il «reato» della giovane era quello di aver protestato contro Wall Street – la stradina di Manhattan che per lei e centinaia di altri manifestanti contiene tutti i mali del capitalismo moderno.
L’urlo muto della foto, che ricorda il famoso dipinto di Munch, sta riecheggiando in altre piazze del mondo.

Dagli indignados madrileni che hanno occupato Puerta del Sol alle barricate sanguinose dei disoccupati greci, fino alla violenza cieca e truffaldina dei saccheggiatori di Londra, la crisi economica sta alienando e marginalizzando una parte della popolazione mondiale.
Le proteste europee sono forse meno epocali della «primavera araba» che ha ribaltato i regimi di Tunisia, Egitto e Libia e meno aggressivi dei metodi Gandiani di Anna Hazare – il guru anti-corruzione indiano.

Ma qualcosa in comune tra le varie proteste c’è ed è la sfiducia nella capacità dell’establishment politico ed economico di risolvere i gravi problemi attuali – dal prezzo del pane in Egitto al posto di lavoro in Spagna.
Quando sono andato a Zuccotti Park, il parco a pochi metri dal sito del World Trade Center che è diventato il quartier generale dei dimostranti newyorchesi, non ho trovato una rivoluzione in fieri.

Certo, i ragazzi con cui ho parlato, studenti, attori senza lavoro, camerieri a tempo perso, mi hanno schernito per la mia «uniforme» – venendo dall’ufficio, non ho avuto tempo di togliermi giacca e cravatta – e attaccato le banche e «gli speculatori».

Ma i loro sogni, desideri e preoccupazioni erano molto «capitalisti». Quando gli ho detto che ero un giornalista finanziario, le domande più frequenti sono state: «Ma secondo te, l’economia americana migliorerà? Ed il mercato delle case quando riprende?».
Che, tradotte dal linguaggio delle proteste, vogliono dire: «Ma secondo te, un lavoro lo troverò quando finisco l’università? E ce la farò a guadagnare abbastanza per comprarmi casa?» - due interrogativi che nel «Capitale» di Marx proprio non si trovano.

L’assenza d’impeti rivoluzionari radicali, però, non vuol dire che l’élite politica e finanziaria, sia in America che in Europa, si possa permettere di ignorare il dissenso di porzioni della società civile.
Il problema per i governanti sulle due sponde dell’Atlantico, è che la congiuntura è talmente cupa che le misure da prendere non faranno altro che esacerbare le sperequazioni sociali ed economiche.
Partiamo dall’America. Dopo decenni di vita spericolata – al di sopra dei propri mezzi pagata dalla cocaina del credito pubblico e privato – l’ultima superpotenza sta barcollando sotto il peso dei suoi debiti.
I repubblicani e democratici su questo almeno sono d’accordo: la posizione fiscale attuale è insostenibile. La baruffa è ovviamente sul come risolverla.

I repubblicani – ansiosi di riprendersi la Presidenza nel 2012 e tirati a destra da un Tea Party sempre più fondamentalista – parlano di tagli radicali al Welfare state: la sanità e le pensioni che costano migliaia di miliardi di dollari l’anno. I democratici vogliono tagliare meno e tassare di più, soprattutto i ricchi. Non a caso l’ultima salva del presidente Obama è stata un’imposta sui ricconi ispirata dal fatto che il miliardario Warren Buffett ha detto che lui paga meno tasse della sua segretaria.
Le ricette variano ma il risultato sarà lo stesso. Come mi ha detto un alto funzionario della Federal Reserve questa settimana: «Staremo peggio prima di stare meglio».

Le proposte repubblicane per ridurre il deficit sarebbero senz’altro più efficaci di azioni demagogiche quali la «tassa Buffett», ma hanno il difetto enorme di mettere ancora più pressione sulle classi povere.
In una nazione come gli Stati Uniti, dove l’un per cento della popolazione controlla più di un quinto della ricchezza del Paese e il 15 per cento della gente vive sotto la soglia di povertà, politiche che aumentano la diseguaglianza potrebbero avere gravi conseguenze sociali.

Quando ho chiesto ad un alto funzionario dell’Fbi come mai, secondo lui, la durissima recessione del 2007-2009 non avesse portato a conflitti sociali, la risposta mi ha sorpreso. «Due parole» ha detto: «Barack Obama». A suo avviso, l’elezione storica di un presidente di colore ha placato le minoranze etniche ed le altre classi sociali che hanno sofferto di più durante la contrazione economica.
È una tesi difficile dimostrare – ed impossibile da articolare in un’America che non ha ancora sconfitto il razzismo – ma che vale la pena tenere in mente in questo periodo così turbolento.

In Europa, la situazione è diversa ma non meno grave. Il consenso di economisti e mercati è che il vecchio continente ha bisogno di una dose da cavallo di austerità per uscire dalla crisi. La lista dei rimedi è ben nota: tagli alla spesa pubblica e alle pensioni; allungamento della settimana lavorativa; lotta all’evasione fiscale e così via.

Tutto ottimo in teoria. Molto meno in pratica. I programmi di austerità hanno due, colossali, svantaggi: sono indigesti a politici ed elettori; e soffocano l’economia nel breve termine.

Magari è pure giusto tagliare le pensioni-baby dei dipendenti statali e costringere i dentisti greci a pagare le tasse. Il problema è che nessuno si fa togliere quello che ha avuto per anni senza lottare. (vedi: «barricate greche»). E, visto che, come si dice in America, «i tacchini non sono in favore del pranzo di Natale» è praticamente impossibile per un governo lanciare misure così impopolari a meno che non sia costretto (vedi: «George Papandreou»).

Ma anche se ci fosse la volontà politica, il risultato immediato di misure di austerità è un calo della crescita economica. Il motivo è semplice: se tutti stringono la cinghia allo stesso tempo, non rimane più nessuno a comprare beni e servizi. Un’economia anemica, a sua volta, aumenta il malcontento e le disparità finanziarie.

Se i governi vogliono evitare che la crisi economica inneschi conflagrazioni sociali, dovranno prestare più attenzione alle urla che provengono dalle piazze e dalle strade.


Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York.
francesco.guerrera@wsj.com

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9269
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #36 inserito:: Novembre 07, 2011, 10:58:04 pm »

7/11/2011

I mercati chiedono serietà

FRANCESCO GUERRERA*

Era bello essere europei la notte del 31 dicembre del 2001.

Io ero nella piazza principale di Maastricht, infreddolito ed emozionato, ad aspettare la «nascita» dell’euro con migliaia di altri concittadini d’Europa.

Dopo anni di preparazione, la moneta unica di un continente che aveva combattuto innumerevoli guerre contro se stesso era pronta.

In poche ore, i bancomat da Helsinki a Patrasso avrebbero cominciato a rigurgitare la nuova divisa dell’Europa unita. Mi ricordo un’atmosfera più da festa popolare che da occasione storica nella cittadina olandese dove fu firmato il trattato che diede vita all’euro. Un concerto di musica folk, qualche fuoco d’artificio, molta birra. Ma il motivo per essere lì era comune, come la moneta: la voglia di celebrare un pezzo importante della storia dell’Europa. A quasi dieci anni di distanza, in Europa non fa festa più nessuno. Dopo un altro summit di parole vuote, speranze frustrate e promesse non mantenute – questa volta al Gruppo dei 20 di Cannes – il continente e la sua moneta sono alla deriva.

I mercati non sanno più cosa pensare. Gli investitori e gli operatori di Borsa a cui ho chiesto cosa avrebbero fatto una volta di fronte ai loro schermi questa mattina non sembravano avere la più pallida idea. «Siamo esausti», mi ha detto un operatore di New York. «Se i governi e i burocrati non sanno come risolvere la situazione, come possono pensare che i mercati capiscano cosa stia succedendo?». Parole gravi. Il rischio più grande per l’Unione Europea – e l’economia mondiale – in questo momento non è la recessione, e nemmeno un calo nel valore dell’euro, ma la rassegnazione dei mercati.

Fino ad ora, le Borse mondiali, e persino gli investitori in beni del tesoro di gran parte dei Paesi europei, ci hanno voluto credere. Nonostante tutto, fino a venerdì sera i mercati ancora speravano che i potenti europei non fossero capaci di affondare un intero continente con i loro tentennamenti. La frase che ho sentito più spesso nelle mie visite ai piani nobili di Wall Street quando esprimevo le mie preoccupazioni sull’Europa è stata: «Ma dai, stai tranquillo che in un modo o nell’altro la situazione si risolve». La psiche Usa – razionale, semplice, ottimista e non esperta di politica interna slovacca e plebisciti greci - non riusciva a concepire altra soluzione.

L’accordo del 26 ottobre – prima del «Papandemonio» creato dall’annuncio-suicidio del referendum – ha fatto salire i mercati alle stelle nella speranza che un default «controllato» della Grecia, la ricapitalizzazione di molte banche europee e la promessa di misure di austerità avrebbe messo fine ai travagli degli ultimi due anni. Dopo il nulla di fatto del weekend, però, l’ottimismo molto «americano» dei mercati sta perdendo il braccio di ferro con l’incompetenza molto «europea» dell’Ue. I politici stanno giocando con il fuoco. La fiducia dei mercati è, come la donna del Rigoletto, «qual piuma al vento», può scomparire in un istante. E perdere la fiducia degli investitori - che fino ad ora hanno tollerato, e sottoscritto, le magagne europee – in questo momento sarebbe catastrofico.

I numeri non sono molto incoraggianti. Partiamo dall’Italia, il Paese che, dopo la disperata Grecia, è nelle peggiori condizioni in questo frangente. I tassi d’interesse sui beni del Tesoro hanno raggiunto livelli mai visti nell’èra dell’euro, nonostante il fatto che la Banca centrale europea – guidata dal «nostro» Mario Draghi - stia furiosamente comprando il debito italiano per abbassarne l’interesse. Il balzo nei tassi ha due conseguenze, una contabile e l’altra psicologica. Dal punto di vista dei conti, il governo italiano – o quello che passa per il governo italiano – deve pagare sempre di più per finanziare le sue spese, un bruttissimo segno per un Paese che deve rinnovare circa 300 miliardi di euro di debito nel 2012.

La ripercussione psicologica è forse peggiore: i tassi d’interesse sui beni del Tesoro sono il contatore geiger delle paure degli investitori. Il messaggio dei mercati è chiaro: l’Italia è a rischio. Il Belpaese non è solo, ma in questo caso mal comune non dà nessun gaudio. Con la Grecia ormai data per persa, l’attenzione degli operatori e, diciamolo pure, degli speculatori si sta spostando su Paesi di ben altra stazza come l’Italia ma anche Spagna e Francia. Le parole incaute di Nicolas Sarkozy e Angela Merkel la settimana scorsa sulla possibilità che la Grecia potesse uscire dall’euro – un’idea impensabile fino a pochi mesi fa – hanno minato un’altra sicurezza degli investitori e aperto un vaso di Pandora di angosce sull’implosione della moneta unica. Il sistema bancario è, come sempre, il meccanismo di trasmissione del panico dei mercati e il crollo nelle azioni delle banche dei Paesi-guida dell’Europa è un segnale che non deve essere trascurato.

I due rilevatori-chiave nei prossimi mesi per decidere se il Titanic europeo è ancora a galla saranno i tassi d’interesse sul debito italiano e il prezzo delle azioni di Deutsche Bank o Bnp Paribas.

Cosa fare per rassicurare i mercati? La soluzione è semplice: opporre serietà e buon senso alle paure degli investitori. Far vedere al mondo delle imprese che c’è la volontà politica ed economica per attaccare i problemi. Mettere fine alla farsa quotidiana messa in scena a Bruxelles, Roma ed altre capitali europee.

Purtroppo il cast è da commedia di Ionesco: Berlusconi, Papandreou, Herman Achille Van Rompuy, «Sarkel» o «Merkozy» non sembrano in grado di cambiare registro e diventare attori seri. Ai numeri dei mercati – i 300 miliardi di euro di debito italiano nel 2012, il calo del 20% nella Borsa francese quest’anno, il 50% di perdite di chi ha Buoni del tesoro greci – non si possono opporre chiacchiere sui ristoranti pieni di gente o vaghe parole sull’austerità e la crescita economica.

Uno degli investitori più astuti che conosco, Mohamed ElErian, l’amministratore delegato di Pimco, il gigante californiano degli investimenti, riassume la situazione così: «I politici sono al volante, gli investitori sono sul sedile di dietro ed il parabrezza è completamente oscurato dalla nebbia». Evitare incidenti sta diventando sempre più difficile.

*caporedattore centrale del «Wall Street Journal» a New York francesco.guerrera@wsj.com

DA - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9404
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #37 inserito:: Dicembre 04, 2011, 04:50:46 pm »

4/12/2011

Che cosa chiede Wall Street a Mario & Mario

FRANCESCO GUERRERA

Cari presidenti Draghi e Monti,

Vi scrivo per farvi sapere che noi della stampa anglosassone siamo pronti.
Se riuscirete nell’impresa di proteggere l’euro e l’Italia, vi conferiremo l’onore di essere chiamati «Super Mario Brothers» senza alcun indugio.
Già mi immagino i titoloni di testate di mezzo mondo con riferimenti al video-gioco amato da generazioni di ragazzi.

Purtroppo, il vostro compito è ben più arduo di quello del baffuto idraulico della Nintendo, che deve semplicemente salvare la Principessa Peach nel Regno dei Funghi.
Altro che gioco per bambini, qui bisogna essere tutti adulti e responsabili per le proprie azioni perché l’Europa non ha tre vite come nei video-games.
Nella realtà in cui vivete, presidenti, non c’è spazio per le illusioni e le fantasie che hanno caratterizzato i mandati dei vostri predecessori.

I mercati non hanno più nessuna voglia di tollerare i bilanci fittizi, i conti sospetti e la spesa pubblica fuori controllo che hanno permesso a Paesi come la Grecia, il Portogallo e l’Italia di vivere al di sopra dei propri mezzi per decenni.
Il gigante dai piedi di argilla che ci ostiniamo a chiamare «moneta comune» non è più stabile e solo azioni decisive e repentine possono tenerlo in piedi.

Chi, come me, parla spesso con banchieri, operatori di borsa e capi d’azienda, sente solo un messaggio provenire dall’economia reale e dai mercati: sbrigatevi.

Ciò che bisogna fare, a partire dall’importantissimo summit europeo della settimana prossima, ormai è chiaro. Un patto di ferro per imporre discipline teutoniche nelle politiche fiscali dei Paesi della zona-euro, seguito da un intervento massiccio da parte della Banca Centrale Europea per comprare il debito dei Piigs – il gruppo di porcellini economici di Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna.

Questo dovrebbe bastare a stabilizzare i mercati, mettere fine alla corsa al rialzo nel costo del debito di Paesi come l’Italia e la Francia, e tranquillizzare i tanti investitori che paventano il fallimento di una grande banca europea.

Come economisti di calibro, sapete benissimo che una ricetta del genere rimarrà indigesta a molti, soprattutto ai milioni di persone destinati a soffrire a causa delle misure di austerità che verranno imposte per mettere ordine nei bilanci di Stato.
Ma in questo momento – dopo due anni di tentennamenti, occasioni mancate e decisioni non prese – non ci sono più tante soluzioni.

Questo senso che siamo all’ultima spiaggia, che il più grande blocco economico del mondo sta bevendo, per dirla all’americana, nel saloon dell’ultima chance, è, egregi presidenti, il vostro alleato più potente.

Le parole – serene ma dure – del presidente Draghi questa settimana, in cui ha detto che la Bce scenderà in campo solo quando i governi europei concretizzeranno misure fiscali comuni, sono un buon segno. La politica sarà pure l’arte del compromesso ma in condizioni estreme bisogna ricorrere agli ultimatum, anche se educati.

Il presidente Monti, la cui pacatezza e misura conosco bene, non è uomo da ultimatum ma il suo ruolo non lo richiede. La mera presenza di un governo «tecnico» guidato da una figura di statura internazionale è servita a ridurre il nervosismo dei mercati. Ora, però, gli investitori hanno paura che le sabbie mobili della politica italiana possano bloccare le riforme.
«Ma voi italiani ci fate o ci siete?», ha sbottato un banchiere americano questa settimana. «Ancora non avete capito che fino a quando ci sono scaramucce di politica interna tra partiti e fazioni, gli investitori in Italia non ci ritornano?».
Vi confesso, presidenti, che mi sono sentito un po’ a disagio durante l’invettiva del banchiere perché le domande erano retoriche ma giuste.

Sono solo riuscito a rispondere – non so se per fervore patriottico o per disperazione – che la situazione è talmente difficile che il governo italiano potrà giocare sul fatto che l’unica alternativa al suo programma è l’implosione dell’euro e una recessione selvaggia. Il progetto della moneta unica non si può permettere di perdere l’Italia. La Grecia sì, ma l’Italia no.
L’Europa è così malata che sarà costretta a prendere la medicina da voi somministrata, anche se amara e dolorosa. D’altra parte, come mi ha detto un investitore americano di recente, «quando tutto quello che hai è un martello, devi sperare di trovare un chiodo».
Che è un po’ la filosofia dei mercati negli ultimi mesi: balzi strepitosi ogni volta che si pensava l’Europa fosse pronta a battere il chiodo nel muro una volta per tutte e cadute rovinose quando si capiva che c’erano altri chiodi in bilico o che il martello era di gomma.
La risposta entusiasta, questa settimana, alla decisione da parte delle autorità monetarie di mezzo mondo di facilitare l’accesso a fondi in dollari fa parte dello stesso copione. La speranza, più che i fatti, hanno portato gli investitori a comprare azioni.

La speranza è che le mosse di questa settimana siano il preludio ad una serie di interventi da parte di banche centrali e governi.
Gli operatori di Borsa, che di storia antica poco sanno, non la mettono proprio così ma nella loro visione del mondo il presidente Draghi è Alessandro Magno di fronte al nodo gordiano della crisi dell’euro.

E questo, alla fine, è il vostro problema più grande, cari presidenti. L’attesissimo cambio di regime alla Bce ed in Italia ha creato aspettative altissime nei mercati internazionali.
Anche gli investitori più esperti e cinici stanno guardando a voi – e alla cancelliera di ferro Angela Merkel e all’elegante e furbo Nicolas Sarkozy – come il deus ex machina di questa tragedia greco-europea.

Quando chiedo ai potenti di Wall Street come credono che i mercati reagirebbero se il summit della settimana prossima si risolvesse in un altro nulla di fatto, sento solo silenzio. Paura e silenzio.

La crisi dell’euro un video-gioco proprio non è.

Buon lavoro Super Marios.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York. francesco.guerrera@wsj.com .


da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9512
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #38 inserito:: Dicembre 18, 2011, 05:49:52 pm »

18/12/2011

Wall Street fuori dall'inferno

FRANCESCO GUERRERA

A chi gli chiede se ha visto un film per la Tv uscito da poco sul collasso di Lehman Brothers, il presidente della Federal Reserve Ben Bernanke suole rispondere, con un sorriso amaro, «Ho visto l’originale». Il banchiere centrale americano, che nella pellicola della Hbo è impersonato da Paul Giamatti, potrebbe però essere l’artefice di un lieto fine per il film dell’orrore intitolato; «Made in the Usa: genesi di una crisi».

Il Paese che ha causato il terremoto finanziario del 2008-2009, spingendo il resto del mondo in una recessione lunga e severa, si sta scuotendo dal suo torpore. La ripresa sarà lenta, difficile e non garantita ma, di questi tempi, i mercati e la gente prendono quello che possono. «Beggars can’t be choosers» «I mendicanti non si possono permettere di rifiutare l’elemosina», mi ha detto l’altro giorno un banchiere di Wall Street che non è proprio un esperto in campo di mendicità ma che di finanza ne capisce. Con l’Unione Europea in stato quasi comatoso, il Giappone in ristagno permanente e persino la Cina malaticcia, il fatto che gli Usa stiano dando segnali di vita è quasi un miracolo. Un miracolo che, se trasformato in realtà prima delle presidenziali del novembre 2012, terrà i traslocatori ben lontano dalla Casa Bianca di Barack Obama.

Vista dall’alto, l’economia americana si sta muovendo nella direzione giusta e i grandi numeri sono amici di Bernanke ed Obama. Il Pil sta accelerando: da una crescita dell’1,3 per cento nel secondo trimestre al 2 per cento nel terzo periodo, a più del 3 per cento negli ultimi tre mesi dell’anno, secondo le ultime stime.

I consumatori americani hanno ricominciato a spendere e a dimostrare più fiducia nei propri mezzi finanziari – un fattore cruciale per le sorti dell’economia. E le società hanno ripreso a vendere beni e servizi e ad assumere impiegati dopo anni di tagli e licenziamenti. La disoccupazione – la grande piaga che ha afflitto l’America e la presidenza di Obama – è ai livelli più bassi dal marzo del 2009 mentre il dollaro è vicino ad un record annuale nei confronti dell’euro.

A Wall Street, i mercati finanziari, nonostante il caos creato dall’Europa, hanno retto, un buon segno per investitori e piccoli risparmiatori che pregano al San Dow Jones perché preservi le loro pensioni.

Persino a Detroit, la bistrattatissima città dell’automobile che era stata data per morta, si parla di rinascita, con Ford, Chrysler e General Motors che riportano vendite rispettabili. Anche la Fed di Bernanke, che di solito non si sbilancia in pubblico, ha dovuto ammettere le buone notizie. Dopo il loro ultimo incontro del 2011 la settimana scorsa, i governatori della Fed hanno rilasciato un comunicato che, tradotto dal burocratese, è positivo. «L’economia sta crescendo in maniera graduale, a dispetto di una decelerazione dell’economia mondiale», hanno detto, nel loro stile inimitabilmente piatto.

L’unica grinza in questo ragionamento è che la Fed ha una visione economica da elicottero. Al pian terreno, gli Usa non sembrano completamente guariti. Basta farsi un giro per certe zone della Florida o della California per capirlo. Le case vuote, i cartelli «For Sale» sbiancati dal sole e arrugginiti dall’attesa di compratori che non arrivano. I negozi sbarrati e il crimine in aumento. I disoccupati agli angoli delle strade con una sigaretta in bocca e quasi niente in tasca.

Non sono immagini di un’economia in salute, di un Paese in piena ripresa, pronto ad uscire dalle sabbie mobili di una crisi finanziaria che lo attanaglia da anni.
A questo punto, a chi si deve credere? Ai numeri positivi e le parole melliflue di Obama o alle fotografie da incubo provenienti dall’hinterland?

Purtroppo ad entrambe: sono due facce delle sofferenze dell’economia più grande del pianeta. Per i prossimi anni, la ripresa Usa sarà un Giano Bifronte. Nessun Paese può sprofondare in una crisi come quella vissuta dall’America degli ultimi anni e uscirne indenne. Soprattutto se il governo si ostina ad indebitarsi come fosse un quindicenne con la prima carta di credito. Prima o poi, i debiti si debbono pagare, come l’Europa ha scoperto sulla propria pelle.

Gli Usa sono nel Purgatorio economico, non in Paradiso. Meglio dell’Inferno europeo – dove la recessione c’è e si vede - ma non in un equilibrio stabile che permetta a mercati e gente comune di tirare un sospiro di sollievo. Certo, la disoccupazione è calata, ma solo dal 9 all’8,6 per cento – un livello troppo alto per un Paese industrializzato. E, con il mercato immobiliare moribondo, la predizione più realistica è che nel 2012 gli Usa cresceranno del 2 per cento e solo grazie allo Zio Ben, che tiene i tassi d’interesse bassissimi.

Come sempre nel campo economico, tutto è relativo. Ad agosto – l’agosto terribile del «downgrade» del debito Usa, del panico dei mercati stretti tra l’incudine dell’America e il martello dell’Europa – non si parlava d’altro che di «doppio tuffo» nella recessione. Alcuni gufi addirittura evocavano lo spettro della stagflazione – contrazione economica accompagnata da inflazione – il peggio di tutti i mondi possibili. Ora di tuffi non parla più nessuno e le uniche metafore acquatiche che si sentono a Wall Street parlano di trampolini: usare i primi segni di una ripresa economica per spiccare il volo.

Ed è qui che il lavoro degli economisti finisce e quello degli psicologi incomincia. Gli Usa sono al bivio. Se l’economia ricomincerà veramente a tirare, o continuerà a vivacchiare, dipenderà in gran parte dagli «spiriti animali» di Keynes. Se investitori, consumatori ed aziende si «sentono bene» e continuano a spendere e spandere senza farsi spaventare da fattori esterni; se l’Ue smette di danzare sul precipizio e disastri naturali e umani (terremoti, guerre, tsunami) non aumentano paure e paranoie, gli Usa avranno una chance di recuperare il terreno perduto e, forse, di trainare l’economia mondiale verso un futuro più roseo.
Purtroppo non ci sono garanzie perché la psiche americana – forgiata dall’ottimismo e dallo spirito di frontiera – è stata minata, forse irreparabilmente, da avversità politiche e stenti economici che pochi si aspettavano in questo Paese.

Come scrisse un giovane candidato presidenziale di colore del 2006, l’America deve ricatturare «l’audacia della speranza». Negli ultimi cinque anni, c’è stata poca audacia e poca speranza negli Usa, a cominciare dalla Casa Bianca. Il film di Bernanke ed Obama è ancora in corso. Nessuno si può permettere un finale alla Dario Argento.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario
del Wall Street Journal a New York
francesco.guerrera@wsj.com

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9558
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #39 inserito:: Gennaio 16, 2012, 11:44:19 am »

16/1/2012

I cinque misteri del 2012

FRANCESCO GUERRERA

Il sorriso vuoto del grande investitore seduto di fronte a me per discutere del futuro di mercati ed economie nel 2012 fu il segnale che aveva esaurito le risposte.

Invece di parole, un bene di cui non era mai stato privo in passato, il fund manager californiano, emise un sospiro lungo e un po’ disperato. «E chi lo sa?» disse, mettendo fine all’intervista.

La risposta è «nessuno». Nessuno sa cosa succederà nel mondo del denaro dopo un 2011 di pathos, passione e paura. Chi dice di saperlo – gli analisti delle banche e pubblicazioni di mezzo mondo hanno creato una piccola industria delle previsioni che sforna verdetti ogni gennaio – mente.

In questo momento di estrema fragilità del tessuto connettivo dell’economia mondiale, non si può far altro che analizzare i temi che domineranno i prossimi dodici mesi. Io ne ho identificati cinque. 1) L’economia e le elezioni americane Se le presidenziali fossero domani, Barack Obama probabilmente sarebbe sconfitto da Mitt Romney, il papabile candidato repubblicano. Ma le elezioni sono a novembre, e il comportamento dell’economia nei prossimi mesi determinerà l’inquilino della Casa Bianca dopo il 6 novembre.

Ci sono segnali incoraggianti per il presidente in carica. La crescita Usa è ricominciata, anche se lentamente, e lo spettro di un «doppio tuffo» nella recessione è ormai lontano. La fiducia di consumatori e imprenditori è in ascesa e i mercati si stanno riprendendo. Negli ultimi mesi gli investitori che hanno «comprato» l’America e «venduto» l’Europa hanno fatto parecchi soldi.

Ma il numero più importante per Obama e Romney è il tasso di disoccupazione. Se rimane all’8,5% - un livello altissimo per gli Usa – Obama rischia di passare alla storia come un presidente-meteora: un momento la vedi ed un secondo dopo non la vedi più. Ma se l’economia mantiene un passo elevato e la disoccupazione continua a scendere – era più del 10% alla fine del 2009 – Obama ha buone chances.

Anzi, il presidente democratico potrebbe addirittura imitare Ronald Reagan, l’eroe di quasi tutti i candidati repubblicani, che entrò l’anno elettorale 1984 con un tasso di disoccupazione dell’8,4%, ma in calo dall’anno prima, e riuscì a battere Walter Mondale senza problemi. 2) La situazione europea e la stabilità dell’euro Non c’è dubbio che per mercati ed investitori, questa è la preoccupazione più grande.

Il disastro totale – la decomposizione della zona euro – sembra per il momento evitato ma gli ostacoli sulla strada del risanamento sono tanti, come dimostrato dalla raffica di «downgrade» sparati da Standard & Poor’s su mezza Europa venerdì.

La Grecia rimane instabile, soprattutto perché molte banche e fondi non vogliono sottomettersi alla perdita «volontaria» di metà dei loro investimenti nel debito greco, come proposto dai governi europei. Un «default» totale, che potrebbe costringere la Grecia ad uscire dall’euro, non si può escludere. Come mi ha detto un investitore americano: «In questo momento, i mercati hanno bisogno di un default come di un buco nella testa».

Ma i veri problemi potrebbero essere altrove nel Mediterraneo. L’Italia e la Spagna dovranno fare sforzi colossali per rimettere in sesto i conti pubblici. Le loro economie, per non parlare di pensionati, impiegati statali e ceti bassi, ne soffriranno molto.

Questo potrebbe essere l’anno in cui la coesione sociale europea – uno degli aspetti che gli Stati Uniti più invidiano alla struttura socio-economica del vecchio Continente - potrebbe essere messa a dura prova dalle misure di austerità prese da Roma, Madrid e altri governi.

Come sempre, in questi casi, occhio alle banche. Con un’economia più o meno in recessione, debiti pubblici altissimi ed investitori svogliati, l’Europa rimane sull’orlo di una crisi bancaria. La reazione negativa dei mercati all’aumento di capitale di UniCredit non è certo di buon auspicio per altre banche europee. 3) La Cina e il raffreddamento della sua economia Visti dall’Ovest, i grattacapi di Pechino sono bazzecole. Obama, Merkel e Monti pagherebbero per scambiare la loro situazione con il mandato del Politburo cinese: far sì che un’economia abituata a crescere più del 10% l’anno rallenti un pochino senza creare troppe tensioni sociali e finanziarie.

Ma il dibattito sull’«atterraggio morbido» della Cina cela questioni molto più importanti. La crescita economica è fondamentale per mantenere lo status quo politico. La «dittatura capitalista» del paese funziona solo se la disoccupazione rimane bassa e lo standard di vita di milioni di persone aumenta inesorabilmente anno dopo anno.

Il conseguimento di beni e servizi migliori del passato – da acqua corrente, scuole ed elettricità per le popolazioni rurali ad appartamenti, macchine e borse di Louis Vuitton per l’élite urbana – tiene sotto controllo le enormi tensioni politiche ed economiche che covano ai piedi del Dragone cinese.

Il problema per il governo di Pechino è che non è padrone del proprio destino a causa della dipendenza economica dalle esportazioni in Europa e Usa. Contro la globalizzazione non c’è muraglia che tenga: la Cina sta esportando meno e importando le magagne economiche dei suoi partner commerciali. 4) Wall Street e i bonus dei banchieri Considerando la situazione della «gente normale» – in bilico tra la padella della disoccupazione e la brace dell’austerità fiscale – il crollo nella paga dei banchieri non dovrebbe preoccupare nessuno.

Ed è vero che i signori (e le poche signore) nei gessati blu possono senz’altro vivere con mezzo milione di dollari l’anno invece di tre milioni. La casa a St-Tropez magari dovrà essere venduta ma per il resto…

L’effetto strutturale di questi cambiamenti, però, va analizzato con cura. Con le banche americane ed europee alle corde, più di 300.000 persone perderanno il posto di lavoro a Wall Street, la City, Piazza Affari e le altre città della finanza mondiale.

Con nuove leggi, utili in calo ed azionisti in stato d’allerta, sembra difficile che le banche riassumano questi impiegati a breve termine. Il risultato: un’industria finanziaria più piccola e meno importante nel contesto economico.

Per chi le critica, il ridimensionamento delle banche sarà cosa buona, soprattutto perché il settore finanziario è cresciuto in maniera esponenziale nel dopoguerra. Ed è giusto chiedersi se il settore bancario non fosse diventato «troppo» importante per l’economia mondiale visto che non produce nulla ma trasforma denaro in altro denaro, con rischi che ormai sappiamo altissimi.

Ma prima di festeggiare il funerale delle banche, vale la pena valutare che la loro funzione primaria – prendere soldi dai risparmiatori e prestarli ad aziende e consumatori – è fondamentale per la crescita economia. Un’industra finanziaria più piccola è forse auspicabile ma non senza costi. 5) I mercati Questa è semplice. Predire quello che faranno i mercati è un mestiere ingrato, soprattutto in questo frangente in cui l’impossibile – la distruzione dell’euro, il crollo della Cina, il fallimento di una banca europea - potrebbe diventare realtà in qualsiasi momento. Il californiano aveva ragione. Meglio sapere cosa non si sa.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario per il Wall Street Journal a New York. francesco.guerrera@wsj.com

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9654
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #40 inserito:: Febbraio 02, 2012, 10:37:29 am »

Economia

29/01/2012 - LA CRISI DAVOS DIETRO LE QUINTE

Il catenaccio Ue non convince

L’euro è salvo ma i prossimi due anni sono in salita

Merkel e Draghi non rassicurano gli investitori

FRANCESCO GUERRERA
Davos

Siamo come pesci in un acquario. Giriamo e giriamo senza toccarci e senza andare da nessuna parte».
Il finanziere-filosofo - più Schopenhauer che Epicuro - riassume così la vita del partecipante al World Economic Forum di Davos. Anche quest’anno migliaia di capitani d’industria, banchieri e politici hanno scalato le Alpi immortalate da Thomas Mann nella Montagna Incantata per tentare di risolvere i problemi del mondo in quattro giorni nella cittadina svizzera. Anche quest’anno hanno fallito.

Sospesi tra la realtà dei temi trattati e l’artificialità della situazione - una bolla blindata in cui si fa la fila al bar con Mick Jagger (ho una foto sfocata sul telefonino per gli increduli) ma è quasi impossibile uscire all’aria aperta - i potenti di Davos non hanno trovato risposte adeguate alle domande del presente. Quando l’«élite globale» – la modestia non è il forte di Davos – s’incontra al centro dell’Europa in un frangente come questo, la discussione verte su un tema solo: cosa sarà dell’Unione Europea e della moneta unica? Nei corridoi del lugubre Centro Congressi o nei piano bar un po’ squallidi in cui i pezzi grossi si rilassano bevendo gin and tonic e aiutando le cameriere ad imparare l’inglese, le domande sono sempre le stesse: «Cosa bevi?», oppure «Ma secondo te l’euro sopravviverà?». Con gli Stati Uniti distratti dalla campagna elettorale e la Cina occupata dai festeggiamenti del suo Capodanno, la povera Europa è costretta suo malgrado a fare da protagonista sul palcoscenico innevato di Davos.

Noi nerd della finanza e della politica attendevamo con più ansia le parole di Angela Merkel e Mario Draghi che il dolce accento cockney di Jagger. Il duo ital-tedesco ci ha deluso o forse, come cantava proprio Mick, «you can’t always get what you want», «non si può sempre ottenere ciò che vuoi». Le voci di corridoio avevano suggerito che la premier tedesca avrebbe usato il suo intervento per addolcire la posizione tedesca sul fronte europeo. Alcuni beninformati avevano addirittura predetto che la Merkel avrebbe annunciato l’intenzione di allentare i cordoni della borsa teutonica per aiutare le figliole prodighe dell’Europa: l’Italia, la Spagna e la Grecia. In realtà, non c’è stato niente di dolce nelle parole proferite dalla Cancelliera di ferro. Anzi. La platea di Davos – e il resto del mondo – si è dovuta sorbire l’ennesimo fervorino sul bisogno urgente di misure di austerità nella zona euro.

A chi chiedeva di più - qualche favilla di speranza nella crescita dell’economia europea, per esempio la Merkel ha opposto un catenaccio che avrebbe fatto felice Nereo Rocco. «Ho chiuso tutte le mie posizioni europee non appena ha cominciato a parlare» mi ha detto un investitore poco dopo la fine della ramanzina-Merkel. Due giorni dopo la parola è passata a Mario Draghi. Performance impeccabile: sobrio, tranquillo, quasi mellifluo, il presidente della Banca centrale europea sa come affrontare i momenti difficili. La sostanza delle sue parole, però, non è stata rassicurante: «Quelli della crisi sono stati i quattro anni più lunghi della mia vita», ha confessato Draghi, mentre la classe dirigente del pianeta annuiva in un collettivo «non dirlo a me». Poco dopo, ha lanciato una mini-bomba: «Abbiamo evitato un enorme “credit crunch”, un’enorme crisi di liquidità» ha detto, spiegando perché ha deciso un’iniezione di liquidità da oltre 480 miliardi di euro nelle banche europee.

A questo punto, anche noi pesci di acquario abbiamo capito il messaggio: in Europa si starà peggio prima di stare meglio. Il collasso dell’euro è stato probabilmente evitato, ma i prossimi due o tre anni saranno in salita e nessuno è sicuro se l’euro ha il passo e il fiato per arrivare in cima. Gli ottimisti, come i tanti banchieri che ho incontrato nel bar sponsorizzato da Google (lo champagne gratis aiuta la conversazione), sostengono che le posizioni della Merkel e di Draghi siano di facciata, necessarie a costringere i Paesi deboli a mettere ordine nelle loro economie. Prima o poi, dicono, i soldi da Berlino e Francoforte arriveranno. «La Cancelliera vuole tenere i tacchi sul collo degli italiani e degli spagnoli», mi ha detto il capo di una banca di Wall Street. «Gli sta dicendo che se non fanno i compiti vanno a letto senza cena».

Il problema è che i compiti sono difficili – tagliare pensioni, licenziare impiegati, far sì che tutti paghino le tasse – e hanno l’effetto collaterale di deprimere la crescita economica. L’austerità made in Germania sarà anche necessaria dopo decenni di vita spericolata, ma il risultato sarà una contrazione dell’economia. Mario Draghi siede all’altro lato di questo tavolo con la coperta troppo corta. Aver evitato una crisi di liquidità tra le banche è un ottimo risultato, ma non siamo ancora nemmeno all’intervallo. I prestiti a prezzo di saldo della Bce – 489 miliardi di euro per tre anni ad un tasso dell’1% - danno alle banche un po’ di tempo per ristrutturare i bilanci e ridurre le posizioni a rischio. E se per caso dovessero pure comprare qualche Buono del Tesoro italiano o spagnolo non protesterebbe proprio nessuno.

«Guadagnare tempo in questo momento è un’ottima cosa» mi ha detto un banchiere intelligente come Peter Sands, il capo della banca inglese Standard Chartered. Ma il tempo «comprato» dalla Bce per 489 miliardi verrà sfruttato dalle banche per aumentare il capitale, tagliare i costi e vendere operazioni marginali. Una depurazione necessaria per un sistema bancario che è ancora pieno di elementi tossici ma il risultato sarà meno prestiti ad individui ed aziende e, quindi, meno crescita. Per un esempio di cosa potrà succedere, basta guardare a banche francesi come la Bnp Paribas e Société Générale, che hanno ridotto in maniera drammatica le loro attività in America perché facevano fatica a racimolare dollari. L’Europa è in bilico tra l’imperativo di agire per evitare un ulteriore deterioramento e il fatto inconfutabile che quelle azioni porteranno ad una stretta economica. Visto dall’acquario di Davos, il Vecchio Continente è in posizione precaria.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York.

Francesco.guerrera@wsj.com.

da - http://www3.lastampa.it/economia/sezioni/articolo/lstp/440289/
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #41 inserito:: Febbraio 10, 2012, 11:18:16 am »

10/2/2012

Perché Barack ha bisogno di noi

FRANCESCO GUERRERA

In America, lo chiamano «the perfect storm», l’uragano perfetto che sta inondando gli Usa con posti di lavoro e crescita. Una confluenza di fattori inaspettata – salari bassi, imprese con molti soldi e consumatori pronti di nuovo a spendere – ha fatto ripartire l’economia più grande del pianeta, dato respiro ai mercati e aumentato le chance che Barack Obama non debba traslocare dalla Casa Bianca a novembre.

Senza l’Europa, però, l’uragano non sarà perfetto. L’America ed il suo Presidente devono sperare che il vagone più importante trainato dalla locomotiva Usa non venga deragliato da crisi rovinose e beghe politiche. Le parole calorose di Obama nei confronti della leadership politica europea – compresa la professione di gran stima nei confronti di Mario Monti in questo giornale – non sono del tutto disinteressate.

Nel mondo della globalizzazione, nessun Paese è un’isola e gli Usa e l’Europa sono legati da relazioni commerciali che ne fanno compagni di viaggio inseparabili. Anche se le traiettorie economiche sono divergenti: l’America è in ripresa mentre l’Europa soffre la recessione.

L’ America guarda avanti, con i suoi Facebook, Google e Apple, mentre il vecchio continente si lecca le ferite e contempla senza gioia anni ed anni di austerità per rimettere in sesto i conti.

Ma la relazione è simbiotica. Per Obama e l’America, la ripresa si trasformerà in vera crescita solo e se l’Europa starà fuori dai guai e ricomincia a comprare i prodotti e servizi made in Usa.

I numeri provenienti dagli Stati Uniti non sono affatto male. La crescita è ai livelli più alti in un anno e mezzo – il Pil statunitense è salito del 2.8% negli ultimi tre mesi del 2011. Timothy Geithner, il ministro delle Finanze, ha detto di recente che nel 2012, l’economia potrebbe crescere del 3%. Non è la Cina o l’India, ma nemmeno l’Italia o la Grecia.

Il dato più importante per la Casa Bianca non è però il Pil ma il tasso di disoccupazione – il tallone d’Achille dell’economia Usa e l’area in cui Obama è più vulnerabile dagli attacchi dei candidati Repubblicani, soprattutto un ex finanziere come Mitt Romney.

Anche su questo fronte, però, ci sono state buone notizie. A gennaio, il tasso di disoccupazione è calato all’8.3%, il livello più basso nell’arco dell’amministrazione Obama. Il trend è ancora più gratificante per gli uomini del Presidente: sono ormai cinque mesi di fila che la disoccupazione cala e gli esperti pensano che la tendenza continuerà nei prossimi mesi. Un bell’assist per un Presidente che dovrà andare a vincere voti nel Midwest – il cuore recondito e destrorso degli Stati Uniti dove l’industria manifatturiera regna sovrana. O nel Sud, dove la povertà abbonda e i posti di lavoro sono spariti come neve al sole nel corso degli ultimo decenni.

E’ per questo che, in visita ad una stazione dei pompieri in Virginia di recente, Obama ha preso la palla al balzo e ricordato a tutti che «la ripresa sta accelerando», prima di ammonire che «non si può ritornare alle politiche economiche che hanno causato la recessione».

Belle parole, espresse con il solito piglio oratorio di Obama, vero erede di Demostene, ma che serviranno a poco se la ripresa si ingolfa o smette di tirare.

Ed è qui che l’Europa conta. Analizzando i dati della crescita Usa è ovvio che gran parte delle buone nuove sono concentrate sul fronte interno. Fino ad ora, le imprese che hanno assunto più lavoratori sono prettamente domestiche, settori come i ristoranti, la sanità (che in America è quasi tutta privata) e i servizi professionali (gli avvocati, i notai e le segretarie).

L’industria manifatturiera – uno dei motori dell’economia Usa – non ha partecipato alla festa. Le imprese che producono beni, invece di servizi, hanno recuperato solo 400.000 dei 2 milioni e mezzo di posti di lavoro che hanno perso dall’inizio della crisi Usa.

Ed all’interno del settore, le società che vanno bene sono quelle che si affacciano sul mercato interno, come le «tre grandi di Detroit» – le case automobilistiche, compresa la «nostra» Chrysler – che tutti avevano dato per morte nel 2007-2008.

Non c’è simbolo più concreto della rinascita di Detroit dello spot lanciato dalla Chrysler la settimana scorsa a metà del Super Bowl – la finale del torneo di football Americano che è lo spettacolo più visto negli Stati Uniti. La voce rauca di Clint Eastwood che annuncia: «Siamo all’intervallo America. Rinasceremo nel secondo tempo».

Ma il risultato non dipenderà solo dall’America. Per continuare a trainare – e a ridurre la disoccupazione – gli Usa hanno bisogno di esportare e di esportare in Europa, visto che l’Asia compra poco dall’Occidente.

Al momento, i consumatori italiani, spagnoli e persino francesi e tedeschi non ne vogliono sapere. La crisi economica li sta costringendo a tirare la cinghia e a risparmiare i loro euro.

E’ una dicotomia che racchiude il dilemma economico transatlantico. Il «feelgood factor» - la spinta ai consumi del sentirsi bene – che sta aiutando l’economia Usa è assente dalla depressa, preoccupatissima Europa.

L’uragano perfetto non ha ancora attraversato l’Atlantico.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario per il Wall Street Journal a New York

Francesco.guerrera@wsj.com

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9758
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #42 inserito:: Febbraio 26, 2012, 06:20:07 pm »

26/2/2012

La cura dimagrante di Wall Street

FRANCESCO GUERRERA

La mattina era di quelle da dimenticare, in una New York fredda ed inospitale che nei film non si vede mai.
Il vento, gelido, si incanalava tra i grattacieli per poi esplodere in faccia ai signori in giacca e cravatta e le signore con i tacchi a spillo quasi li volesse punire per andare al lavoro prima dell’alba.

Io ero lì mio malgrado, cercando di tenere il passo con il flusso umano e l’energia sovrumana dei fanti della finanza americana: solo uno dei capi delle banche di Wall Street può scegliere le sette del mattino di inizio novembre per un incontro con un giornalista.
A quell’ora, l’idea di sedere su una sedia bassa (i trucchetti di Wall Street non sono nuovissimi) per trascrivere le esternazioni ottimiste di un maschio-alfa non è molto allettante.

Ma il gran capo aveva in programma una sorpresa. «La festa è finita», mi ha detto senza ironia. «Dobbiamo cambiare. Wall Street non sarà più la stessa».
È toccato a quest’uomo che sarebbe piaciuto a Nietzsche dettarmi l’epitaffio per un capitolo di storia della finanza internazionale.
Quarantacinque piani sotto di noi, gli uomini e donnine si affrettavano a prendere i loro posti nella catena di montaggio che ogni giorno muove miliardi e miliardi di dollari tra le capitali del mondo. Ma il mio banchiere sapeva già la verità: per sopravvivere, Wall Street sarebbe dovuta diventare più piccola.

Nei mesi dopo il nostro incontro, banche in America, Europa ed Asia hanno licenziato circa 200.000 persone – più che durante la crisi finanziaria del 2008-2009. I bonus sono stati tagliati, in molti casi eliminati. E i capi della finanza mondiale hanno ammesso che si dovrà soffrire per almeno due anni e forse di più.
È un paradosso che in un’America in ripresa, anche se lenta, l’industria che rimane in recessione è proprio quella delle banche che negli anni d’oro avevano aiutato, ma anche sfruttato, la crescita del paese.

I motivi per i tagli draconiani di posti di lavoro e salari sono ben noti: la crisi europea, il nervosismo dei mercati e le nuove regole del dopo-crisi hanno fatto crollare gli utili, costringendo le banche a ridurre i costi.
E visto che i costi, per una banca, «prendono l’ascensore e vanno a casa ogni sera», come ama dire il capo della Goldman Sachs Lloyd Blankfein, l’unica soluzione è stata quella di eliminare gente e bonus.

Non che questo sia, di per sé, una novità. La cultura darwiniana di Wall Street ha sempre prodotto espansioni inconsulte e frenate bruschissime. Il tacito contratto tra padronato e «manovalanza» della finanza è: tutto o nulla, bonus principeschi nei periodi di vacche grasse e disoccupazione nei periodi di vacche magre.

In questo caso, però, la paura dei signori della finanza è che il rimpicciolimento non sia parte di un ciclo ma un cambiamento strutturale in un settore che, un po’ come l’americano medio prima della crisi, aveva vissuto al di sopra dei propri mezzi per troppo tempo. «Questa non è una crisi ma un azzeramento», mi ha detto l’altro giorno un capo di una banca d’affari americana.

Potrebbe avere ragione. È vero che, prima o poi, la crisi europea si risolverà e l’economia mondiale ritornerà a crescere. Ed è vero, come sostengono gli ottimisti quali Jamie Dimon, il capo della J.P. Morgan Chase, che i consumatori e le imprese avranno sempre bisogno di servizi finanziari.

Ma la vera questione è quando e quanto. Quando l’economia del globo ricomincerà a tirare e di quanti servizi avranno bisogno i risparmiatori e le aziende? Non certo dei Cdo, Clo e tutti quei prodotti esotici che divennero tossici durante la crisi. Non certo di tutti quei mutui che le banche hanno dato a gente che non li poteva ripagare. E forse nemmeno dei prestiti ad imprese che i soldi o ce li hanno già, perché hanno risparmiato, o non li vogliono perché non hanno nessuna intenzione d’investire in economie così disastrate.

Se a questo si aggiunge che le autorità di settore hanno finalmente costretto le banche a tenere più capitale sui bilanci per evitare collassi rovinosi tipo Lehman Brothers ed Aig (ma anche Commerzbank e Royal Bank of Scotland), si vede chiaramente come gli utili potrebbero rimanere depressi per anni.

Dal punto di vista macro-economico, il ridimensionamento delle banche è sensato. La crescita esplosiva di Wall Street aveva creato uno sbilancio intollerabile nel cuore dell’economia americana.

All’apice del boom finanziario – nel 2005-2006 – il settore finanziario contribuiva quasi al 40 per cento di tutti gli utili delle aziende americane – un numero straordinario visto che le banche non «producono» nulla ma sono solamente dei meccanismi di trasmissione del denaro tra risparmiatori ed investitori. Le stime più generose dicono che le banche Usa sono responsabili per il 10 per cento del prodotto interno lordo del Paese.

La «finanziarizzazione» dell’economia americana era eccessiva ed andava ridotta. Ma anche senza guardare ai numeri, è difficile compiangere il destino misero e baro dei banchieri. Anzi.
Non c’è dubbio che il ridimensionamento di Wall Street – accentuato dalla retorica elettorale di Barack Obama – stia avendo una funzione catartica nell’America della disoccupazione rampante e delle case vuote. Il fatto che il movimento di protesta che è emerso dalla recessione si chiami «Occupy Wall Street» non è certo un caso.

Prima di cantare vittoria però, i critici delle banche dovrebbero essere sicuri che non sia una vittoria di Pirro. Il capitalismo può funzionare solo se il settore finanziario ricopre il suo compito, spingendo i flussi di denaro da chi ne ha in abbondanza a chi ne ha bisogno. Un sistema bancario indebolito e sulla difensiva potrà anche far piacere ai ragazzi di «Occupy» ma non fa bene a chi vuole comprarsi la casa, investire in una nuova fabbrica o creare il nuovo Facebook.

Le banche si meritano una mattina gelida e triste ma è nell’interesse di tutti che si risollevino e ricomincino a fare il proprio mestiere prima del tramonto.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York

francesco.guerrera@wsj.com

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9817
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #43 inserito:: Marzo 11, 2012, 11:00:30 am »

11/3/2012

Un mondo senza locomotiva

FRANCESCO GUERRERA

Il Big Mac è in difficoltà e la colpa è della crescita anemica dell’economia mondiale.
Ormai è ufficiale: il panino più famoso del mondo – due hamburger con pezzi di lattuga un po’ troppo grandi e la famosa salsa «segreta» – sta vendendo poco.

Gli analisti di Wall Street – che di solito preferiscono il caviale al fast food – sono stati tutti orecchie la settimana scorsa quando la McDonald’s ha messo in guardia i mercati dicendo che la prima parte dell’anno sarà dura.

La povera multinazionale del panozzo non sa dove guardare. In Europa, la recessione ha fatto tirare la cinghia un po’ a tutti e la gente sta incominciando a portarsi il pranzo da casa. Gli americani si stanno ingozzando meno perché la ripresa è lemme lemme. E persino in Asia, lo Shangri-la di tutte le aziende in cerca di crescita, il rallentamento di economie-guida come la Cina e l’India tiene la gente lontana dai «ristoranti» con gli archi gialli.

Se si trattasse solo di hamburger e patatine, poco male. Ma il Big Mac – offerto a 68 milioni di avventori in 119 Paesi ogni giorno - è una cartina al tornasole dell’economia mondiale.
I risultati non sono incoraggianti. Per la prima volta nel dopo-guerra, c’è il rischio che il pianeta si trovi senza una locomotiva economica.

Gli Usa, il motore degli ultimi decenni, mancano all’appello.
La ripresa c’è ma sta avanzando come i ghiacciai. La disoccupazione rimane altissima, anche se in calo, e la crisi del mercato immobiliare ha distrutto la fiducia dei consumatori. Il cuore dell’economia americana non ha ancora un battito regolare.

Di Europa, purtroppo sappiamo pure troppo. La Grecia sarà anche riuscita a persuadere i creditori ad accettare meno soldi al fine di evitare il disastro totale ma si tratta di una vittoria di Pirro. Tra austerità, instabilità politica e problemi finanziari di banche e risparmiatori, l’Europa rimarrà in recessione per un altro anno almeno.
E l’Asia? Il continente dei poteri emergenti che avrebbe dovuto prendere la guida dell’economia mondiale dalla stanca America e vecchia Europa? Il passaggio di consegne dovrà aspettare.

La settimana scorsa Wen Jiabao, il premier cinese, ha ridotto le proiezioni di crescita dell’economia nazionale dal 8% l’anno - un livello che Pechino aveva mantenuto, e superato, sin dal 2005 – al 7,5%.
Un incremento sempre più rapido che nell’Occidente ma che potrebbe non essere abbastanza per dare lavoro ai milioni di persone che continuano a lasciare le zone rurali del centro della Cina in cerca di fortuna nelle fabbriche del Sud e della costa.

E se la rivoluzione industriale cinese sta rallentando, quella dell’India – l’altro grande polmone dell’organismo asiatico – rischia di fermarsi del tutto.
L’economia sta crescendo ai livelli più bassi degli ultimi due anni mentre il governo insiste a spendere soldi che non ha per costruire uno Stato sociale ed alleviare la povertà di massa che attanaglia il Paese.

Nel 2010, con l’Europa boccheggiante e l’America impantanata nelle sabbie mobili del dopo-crisi, economisti ed operatori di mercato parlavano di una ripresa mondiale «a due velocità»: i mercati emergenti in fuga ed i vecchi continenti ad arrancare nel gruppo.
Storie di successo come il Brasile di Lula – e persino il Sud Africa del dopo Mandela – sembravano confermare la forza delle nuove economie. Non solo Cina ed India, dicevano gli speranzosi, ma anche il Sud America e chissà, forse l’Africa, la grande incompiuta dell’economia del globo.

A due anni di distanza, quei sogni sono stati infranti. I Paesi sviluppati devono confrontare la realtà che governi e cittadini hanno vissuto al di sopra dei propri mezzi per tanto, troppo, tempo. E le nazioni emergenti stanno imparando una lezione amara: chi di globalizzazione ferisce di globalizzazione perisce.
Tutti quei giocattoli made in China, le materie prime del Brasile, l’outsourcing dell’India alla fine chi li comprava? Noi. Sempre noi. I ricchi consumatori dell’Ovest che divoravamo beni e servizi a basso prezzo.

Il bello del sistema era che Paesi come la Cina prendevano dollari e euro ricevuti dall’Ovest e li riciclavano nel debito pubblico di America ed Europa, permettendo all’Occidente di spendere e spandere, e creando un circolo virtuoso di spese, consumi ed investimenti.
Il circolo si è rotto quando le crisi finanziarie degli Usa e della zona-euro hanno rivelato che noi occidentali eravamo molto meno ricchi di quanto pensassimo. La domanda per i prodotti dei Paesi emergenti è calata e, senza una classe media locale pronta a riempire il vuoto lasciato dagli occidentali, la Cina, l’India e il Brasile si trovano in difficoltà.

«È come se il peso di portare l’economia mondiale sulle proprie spalle abbia sfiancato i Paesi emergenti», mi ha detto uno dei santoni economici di Wall Street. «Altro che economia a due velocità, qui di velocità ce n’è una sola ed è lenta».
L’aspetto positivo di questo frangente così insolito è che le crisi che sono scoppiate negli ultimi anni sembrano meno acute.

In America, nessuno ha più paura che una banca enorme come la Citigroup crolli o che il governo non sia in grado di tenere in piedi il mercato dei mutui. In Europa il panico per la paventata implosione dell’euro si sta placando. E nei mercati emergenti – terra fertile in passato per crisi di monete, inflazione rampante e debito pubblico fuori controllo – discipline fiscali e fattori demografici hanno rimesso in sesto i conti di molti Paesi.

Ed è questo il motivo per cui, nonostante tutto, i mercati sono abbastanza tranquilli e in alcuni casi come gli Usa, brillanti. Attenzione, però: gli azionisti e gli operatori di mercato sono i padroni del breve termine e non alzano mai lo sguardo verso l’orizzonte. Sono rilassati perché nei prossimi mesi, l’economia mondiale dovrebbe vivacchiare senza infamia e senza lode e, soprattutto, senza crisi rovinose.

Ma la mediocrità non aiuta nel lungo termine. Una ripresa forte deve partire dai consumi, trasmettersi alle aziende, spingere i mercati delle materie prime, aumentare le attività finanziarie e persuadere le banche ad aprire i cordoni della borsa, incrementando i consumi e così via. Per ora, quell’impeto non c’è.
Nonostante i molti dubbi sul valore nutritivo dei fast-food, l’economia mondiale dovrà mangiare più Big Mac per crescere.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York.
francesco.guerrera@wsj.com

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9870
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #44 inserito:: Marzo 26, 2012, 06:30:48 pm »

26/3/2012

Mr. Smith e il processo al capitalismo

FRANCESCO GUERRERA


Da Zuccotti Park, l’ex quartier generale di «Occupy Wall Street», il palazzone di Goldman Sachs sembra quasi un miraggio. Un enorme obelisco di vetro e metallo che torreggia un po’ arrogante sul cielo di New York» e che per mesi è stato un obiettivo, visibile ma non raggiungibile, per i ragazzi del «movimento».

Così vicino eppure così lontano - fino a quando, due settimane fa, Greg Smith ha colmato la distanza metaforica e reale tra chi a Wall Street si accampa e chi ci lavora.

Smith è passato da sconosciuto impiegato di Goldman a grande accusatore del mondo della finanza mondiale grazie a 1.300 parole al veleno pubblicate dal New York Times.

Una lettera aperta di dimissioni che è diventata un fenomeno virtuale – Google conta circa 70 milioni di menzioni del pezzo – e ha provocato danni reali all’immagine di Goldman e del settore bancario internazionale.

«Non ci voleva. Questa proprio non ci voleva», è stata la reazione a caldo di un mio amico che lavora per Morgan Stanley e che di solito fa salti di gioia quando il rivale storico Goldman è nei guai.

Smith non ci vuole, non tanto per quello che ha detto ma per quello che è diventato: il porta-bandiera di un’opinione pubblica che vede nella finanza la radice di quasi tutti i mali del capitalismo moderno.

Quando Smith spiega che oggigiorno Goldman mette gli utili della banca prima dei bisogni dei clienti, nessuno si dovrebbe stupire.

Le banche d’affari sono associazioni a scopo di lucro ed hanno il dovere di fare soldi, nei limiti della legge, per pagare azionisti ed impiegati. I clienti di Goldman – gli hedge funds, le grandi multinazionali, i super-ricchi – questo lo sanno benissimo. Da sempre.

E sarà anche vero che, come racconta Smith, alcuni suoi colleghi si siano riferiti a clienti chiamandoli «muppets» - lo slang inglese che usa le marionette del Muppet Show come sinonimo per «idioti».

Ma il fatto che l’humour dei banchieri sia spesso puerile ed offensivo – questo lo posso confermare - non è prova lampante che la finanza sia tutta da rifare, per dirla alla Bartali.

Eppure, quando Smith ha pontificato dall’alto pulpito del New York Times, la gente nel villaggio globale ha applaudito fragorosamente.

«Il re è nudo», hanno gridato con gioia i blog e le colonne dei giornali. Robert Reich, l’ex ministro del Lavoro nel governo di Bill Clinton, e uno dei santoni intellettuali della sinistra del Partito Democratico, ha persino coniato un aforismo: «Se togli la cupidigia da Wall Street, ti rimane solo il marciapiede».

Reazioni senz’altro comprensibili perché le banche di colpe ne hanno molte e non solo per aver contribuito alla crisi rovinosa del 2007-2009.
È difficile difendere Wall Street, la City di Londra e Piazza Affari quando non perdono occasione di dimostrare arroganza, egoismo ed insensibilità ai problemi della gente comune.

Il mea culpa del mondo finanziario dopo i problemi gravissimi degli ultimi anni non è stato né abbastanza lungo né abbastanza sincero e le critiche sono in gran parte meritate.

Ma l’inquietudine evidenziata dalla fama istantanea del pamphlet di Smith va ben al di là di Goldman e Wall Street. Il dimissionario dirigente è diventato, suo malgrado, simbolo e sintomo di un malessere profondo nei confronti del capitalismo.

È un paradosso che, quasi un quarto di secolo dopo la caduta del Muro di Berlino, l’ideologia e modo di vita che pensavamo trionfanti siano sotto accusa. Dai manifestanti di Occupy ai greci disperati che ergono barricate nelle piazze, a «pentiti» come Mr Smith, il male di vivere dell’Occidente «ricco» sta raggiungendo livelli altissimi.

Persino in Cina, che ha scommesso le sue ambizioni di egemonia globale su un’industrializzazione sfrenata, la nuova leadership parla di coesione sociale, di aiuti alla popolazione più povera e di un rallentamento nella proliferazione del capitalismo.

Il settore bancario, in questo frangente, è danno collaterale: l’agente più visibile, e sgradevole di un sistema che non piace.

I motivi per la crisi di fiducia sono ben noti: la recessione, prima in America ed ora in Europa, il divario sempre più grande tra i ricchi e i poveri del mondo, e le paure di un declino terminale dell’Occidente in favore delle economie emergenti dell’Est e del Sud.

Ma avere coscienza dei problemi non aiuta più di tanto quando le alternative sono poche e poco rassicuranti. Smith, Reich e i ragazzi di «Occupy» distruggono senza ricostruire, attaccano lo status quo senza offrire una visione realistica del futuro.

Non c’è più tempo per utopie, e non solo perché le grandi idee astratte del passato non hanno funzionato, basti pensare al «comunismo dal volto umano», le «terze vie» dei Tito, Castro e l’autarchia dell’India di Nehru.

In questo frangente, con un’economia mondiale in difficoltà e tensioni elevate sia a livello sociale che geopolitico, il pragmatismo è l’unica soluzione. Non abbiamo più il lusso di sognare di sistemi diversi, dobbiamo riformare e riparare ciò che abbiamo.

E la realtà è che, dopo anni di tentennamenti da parte di governi e privati, le riforme stanno arrivando.

In America, il Congresso, la banca centrale ed altri regolatori stanno scrivendo migliaia di direttive che potrebbero rivoluzionare l’economia Usa. Dalle grandi banche alle società di pegno, le regole del gioco bancario in America stanno per cambiare, con l’obiettivo di evitare gli eccessi, errori e frodi che portarono alla crisi.

Il parallelo è con il grande crollo del mercato nel 1929: negli anni seguenti, gli Usa crearono un sistema finanziario che permise all’America di dominare il mondo del commercio per i 70 anni successivi.

In Europa, le riforme saranno più lunghe e dolorose ma forse ancora più importanti che negli Stati Uniti. L’austerità farà male ma, se messa in pratica in maniera seria ed intelligente, permetterà al continente di risorgere senza abbandonare la moneta unica e i frutti di decenni d’integrazione economica. In questo senso, l’emergenza di leader pragmatici come Mario Monti, Mario Draghi ed Angela Merkel è un buon auspicio.

Ma non di solo governo vive l’uomo e, per ora, le aziende e i consumatori mancano all’appello della ripresa economica sia in Europa che negli Usa.

È una questione di tempo: se il settore pubblico farà la sua parte, «gli spiriti animali» di Keynes faranno la loro, spingendo gli imprenditori ad investire e rischiare capitali e i consumatori a comprare.

Come disse Churchill della democrazia, il capitalismo è il peggiore sistema che abbiamo, a parte tutti gli altri che abbiamo provato.


Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York

francesco.guerrera@wsj.com

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9925
Registrato
Pagine: 1 2 [3] 4 5 6
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!