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Autore Discussione: FRANCESCO GUERRERA.  (Letto 50944 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Aprile 08, 2012, 05:19:29 pm »

8/4/2012

Il salvagente che l'America sta cercando

FRANCESCO GUERRERA

All’inizio, il buio nel seminterrato del baretto di Tribeca, nel cuore «trendy» di New York, è totale. Ma, poco a poco, gli occhi si abituano e incominciano a distinguere le lucine bianche che illuminano piccoli lembi della stanza. Sono tutte a forma di mela mozzicata. Dietro di loro, delle persone, chine su computer sottili e raffinati, che battono freneticamente su tastiere soffici. Alcuni hanno delle cuffie, altri solo un’espressione intenta e concentrata. E’ la stanza dei puristi dell’Apple, dove gli aderenti al culto della semplicità tecnologica e del design accattivante vanno per stare soli con i loro Igadget.

Il locale di Tribeca è un microcosmo dell’economia americana in quest’epoca post-industriale e post-crisi finanziaria. Quando ho chiesto al padrone del bar come mai aveva deciso di creare la caverna per gli Apple-dipendenti, mi ha dato una risposta da professore di economia. «Domanda ed offerta», ha detto. La gente vuole la grotta per il Mac e l’Ipad e la grotta viene costruita. E la domanda non è solo nei bar di moda di New York, ma pure nelle casette a schiera un po’ squallide del Midwest rurale, nei loft di Los Angeles e San Francisco, nei grattacieli di Chicago e Boston, sulle metropolitane, gli autobus e persino nelle macchine.

Gli Stati Uniti di oggi sono un Paese in cerca d’autore, una superpotenza militare e finanziaria paralizzata dalla consapevolezza del suo declino e spaccata a metà da sperequazioni economiche e politiche faziose. L’Apple e i suoi prodotti sono uno dei pochi collanti per una società sfilacciata e tormentata. Ricchi e poveri, bianchi e neri, i ragazzi di Occupy Wall Street e i signori di mezza età del «Tea Party» di Sarah Palin, sono accomunati dalla lucina bianca a forma di mela. «Se Steve Jobs fosse vivo, sarebbe potuto diventare Presidente degli Stati Uniti. Io lo avrei votato», mi ha detto, senza traccia d’ironia, un banchiere di Wall Street che odia sia Obama e sia Romney ma che non riesce a staccarsi dal suo iPad, persino durante le interviste. Ma Jobs non c’è più.

E’ andato a disegnare computer in Paradiso (credo) da ormai sei mesi, lasciando dietro di sé un vuoto enorme sia per la sua società che per la società americana. Dicono che una mela al giorno tolga il medico di torno ma per gli Stati Uniti Apple potrebbe non bastare. Gli ottimisti – e negli Usa ce ne sono sempre molti - vedono nella compagnia californiana la parabola di un’economia che si trasforma e rigenera in continuazione, rimanendo sempre dinamica e all’avanguardia. Per i mercati e gli investitori, la Apple – che era quasi in bancarotta prima del ritorno trionfale di Jobs nel 1997 – è il segno che lo spirito imprenditoriale, la voglia di prendere rischi e di non guardare in faccia a nessuno permea ancora la classe dirigente del Paese. Dietro ad Apple, dicono i benpensanti di Silicon Valley, c’è una coda di giovani società che permetteranno all’America di rimanere al top dell’economia mondiale.

I cinesi, i vietnamiti e gli indiani producano pure quello che vogliono a basso prezzo, noi abbiamo Facebook, Twitter, Zynga, Pandora e chissà quant’altre belle idee che si trasformeranno in realtà ed utili. «Il fervore intellettuale e tecnologico di questo Paese è vivo e vegeto», mi ha detto uno dei venture capitalists della Costa Ovest, il cui lavoro è scoprire nuovi imprenditori e dargli soldi nella speranza che diventino gli Steve Jobs del futuro. Ma di Steve Jobs ce n’era uno solo e il cancro al pancreas se l’è portato via. E la Apple non può né sollevare, né stimolare un’intera economia nonostante la fenomenale crescita. Da mesi ormai, l’Apple è la compagnia più grande sui mercati azionari americani, avendo superato la Exxon, un gigante del petrolio i cui ricavi sono cinque volte più grandi e ha quasi il doppio dei dipendenti. Ma il valore dell’Apple va ben al di là dei 600 miliardi di dollari - più del Pil della Grecia e dell’Irlanda messi insieme – a cui è quotata. Senza la società di Jobs, i mercati sarebbero molto più depressi negli ultimi mesi.

E, stando alle previsioni degli analisti di Wall Street, la crescita esplosiva nelle vendite dell’Apple è l’unico motivo per cui il settore aziendale Usa riuscirà ad aumentare gli utili nei prossimi mesi. Il titano di Cupertino fa la differenza tra crescita e contrazione ma non ha la forza di Atlante per portare l’economia più grande del pianeta sulle sue spalle. La realtà è che l’Apple è eccezione e non regola. Per accelerare, il motore Usa ha bisogno di almeno due dei sue tre pistoni storici: i consumatori, l’industria manifatturiera e la finanza. Per ora, i primi mancano ancora all’appello. Spendono per Ipad e Iphone, questo è vero, ma non hanno soldi o prestiti per comprare le case, macchine e vacanze che servono per far ripartire l’economia. L’industria manifatturiera rimane boccheggiante nonostante il fatto che gli ultimi dati siano incoraggianti grazie al dollaro debole e al crollo nei prezzi dell’energia il settore sta ricominciando a crescere. Ma non velocemente e non come un tempo: nel 1947, il settore manifatturiero contribuiva un quarto del Pil americano.

Oggi è meno del 12%. Per anni, quella differenza è stata colmata dai servizi e soprattutto dall’alchimia di Wall Street, il laboratorio finanziario in cui denaro veniva trasformato in altro denaro. Purtroppo, anche lì le notizie non sono buone. Dopo la crisi sono arrivate nuove, dure regole e le banche hanno tagliato posti di lavoro, guadagnato meno soldi e prestato meno ad imprenditori e consumatori. Il ridimensionamento dell’industria finanziaria è probabilmente giusto ma in questo frangente delicato avrà ripercussioni sulla ripresa. Il che lascia l’America a guardare all’Apple, una società che produce poco negli Usa, come la Grande Salvatrice. Purtroppo, però, non di solo mele vive un’economia.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York.
francesco.guerrera@wsj.com

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9973
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« Risposta #46 inserito:: Aprile 22, 2012, 12:27:13 pm »

22/4/2012

Wall Street, la mano visibile che avvelena

FRANCESCO GUERRERA


Il platano di fronte al numero 68 di Wall Street non c’è più. Ma lo spirito dei 24 pionieri che nel 1792 si riunirono sotto quell’albero e fondarono il primo mercato azionario di New York si respira ancora nelle anguste viuzze del Sud di Manhattan.
Basta fermarsi un momento ad un angolo di Wall Street ed alzare gli occhi dal Blackberry per osservare dal vivo la psiche dei mercati e del capitalismo americano.
Il flusso umano è rapido ed ininterrotto, quasi fosse diretto da un burattinaio con mille mani. La gente cammina con passo alacre, spinta dal desiderio di fare soldi e dalla paura di fallire – lo yin and yang della vita newyorchese.

E gli edifici torreggiano sulle strade, totem solenni pronti ad accogliere le migliaia di persone che hanno deciso di spendere gran parte della vita comprando e vendendo azioni.
«Il mercato è re, siamo noi sudditi che a volte sbagliamo», mi disse tanti anni fa un vecchio operatore di Borsa per spiegarmi in due parole l’essenza della finanza.
Negli ultimi anni, però, questa professione di fede laica è stata messa a dura prova. Il mito dell’infallibilità del mercato è stato sfatato dall’uno-due della crisi del 2007-2009 e dall’attuale disastro economico europeo.

Ed il credo nella «mano invisibile» di Adam Smith – un sistema di compravendita che, se lasciato operare in piena libertà, porta ad un risultato economico ottimale – è stato minato dagli interventi massicci dei governi nei sistemi finanziari di mezzo mondo.
E’ un’ironia pesante: a più di vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino che consacrò la vittoria della democrazia e del capitalismo sulla dittatura statale del comunismo, la libera economia di mercato occidentale ha bisogno di aiuti di Stato per non affondare.
Altro che mano invisibile, oggigiorno la lunga mano del governo è visibile dappertutto. In America, la Casa Bianca ed il Congresso sono stati costretti a farsi dare miliardi di dollari dai contribuenti per evitare il collasso del mercato immobiliare e delle grandi banche.

Il risultato è che nove mutui su dieci negli Usa oggi sono garantiti da entità statali, che la Federal Reserve ha comprato tonnellate di titoli «tossici» da banche ed investitori per purgare il sistema e che i tassi d’interesse rimarranno bassissimi per anni per tenere l’economia in vita.
L’Europa è in una situazione simile. Negli ultimi mesi, la Banca Centrale Europea si è dovuta sostituire al settore privato come principale mezzo di trasmissione del denaro nell’economia.
In tempi normali, le istituzioni finanziarie prendono soldi dai risparmiatori e li prestano ad aziende e consumatori. Ma con il sistema finanziario paralizzato dalla tragedia greca, la farsa italiana e i pasticci spagnoli e portoghesi, le banche hanno abbandonato le trincee e battuto in ritirata, spaventando gli investitori e facendo impazzire i mercati.
Mario Draghi e i suoi sono stati costretti a scendere in campo, dispensando un triliardo di euro alle banche del continente per incoraggiarle a fare il loro mestiere: dare soldi all’economia reale.

Per ora, l’intervento massiccio dei governi occidentali ha funzionato solo a metà. Ha evitato il peggio – un’altra Grande Depressione negli Usa, la dissoluzione della moneta unica in Europa –, ma non ha risolto i problemi di fondo di quelle economie.
Anzi. La dipendenza di mercati e del settore privato dall’elemosina dei governi sta provocando degli scompensi finanziari ed economici che potrebbero portare alla prossima crisi.

Uno dei capi delle banche di Wall Street ha paragonato gli aiuti statali alla morfina. «Servono ad alleviare il dolore, non a curare la malattia», mi ha detto.
L’iniezione di capitali a basso prezzo da parte di governi e banche centrali sta portando investitori a prendere rischi che non dovrebbero.
L’emissione di «junk bonds» – le obbligazioni «spazzatura» emesse da società non proprio affidabili dal punto di vista finanziario – è a livelli altissimi sia in America che in Europa.
E negli Usa c’è stato un ritorno di fiamma di «titoli esotici», obbligazioni legate a beni non ortodossi tipo gli utili di Domino’s Pizza o le vendite di dvd de «Il paziente inglese» (non sto scherzando…). Nei primi mesi del 2012, gli alchimisti di Wall Street hanno venduto più di 5 miliardi di dollari di questa roba, il doppio dell’anno scorso.

Il vantaggio di questi strani animali nello zoo della finanza è che hanno tassi d’interesse molto più alti dei beni «sicuri» quali le obbligazioni del Tesoro americano.
È un fenomeno darwiniano: come le giraffe che dovettero estendere il collo per raggiungere le foglie, così i fondi pensione, gli hedge funds e persino la gente comune deve spingersi su investimenti rischiosi per guadagnare qualche soldo.
Decisioni razionali e comprensibili, ma che aumentano il rischio di nuove bolle speculative e mettono pressione su un sistema che non si è ancora completamente ripreso dalla crisi di tre anni fa.

La realtà è che, prima o poi, governi e banche centrali dovranno cedere il palcoscenico al settore privato, l’attore principale di ogni economia. Ma nessuno sa quando e come.
Il dilemma di Ben Bernanke alla Fed e Draghi alla Bce è che se si ritirano troppo presto, l’economia potrebbe ricadere nel coma, ma se rimangono troppo a lungo rischiano di fare la fine di Alan Greenspan – condannato per aver causato la crisi dagli stessi mercati che lo avevano beatificato per aver pompato l’economia negli anni precedenti.
«Non possono vincere», mi ha detto uno dei capi delle banche d’affari americane la settimana scorsa. «Qualsiasi cosa facciano, saranno criticati».
Che è la verità, ma anche un peccato perché le banche centrali hanno fatto il loro dovere – sorreggere il sistema quando era sull’orlo del crollo.

In America ed Europa si parla tanto di cambiamenti «strutturali»: riforme radicali dello Stato sociale e della tassazione, austerità fiscale, riduzioni drastiche dei deficit. Sono discorsi nobili ma anche facili per politici e commentatori, perché i tempi per rivoluzioni di questo tipo sono biblici. Come disse John Maynard Keynes, che di aiuti statali all’economia se ne intendeva: «Nel lungo termine saremo tutti morti».

Purtroppo i mercati e le economie, come i lavoratori di Wall Street, di tempo non ne hanno. Da quando quei 24 proto-operatori di Borsa si riunirono sotto il platano, il capitalismo mondiale ha solo un tempo: il presente. E per il momento è un presente dominato dall’ombra ingombrante dello Stato.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario
del Wall Street Journal a New York.

francesco.guerrera@wsj.com

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« Risposta #47 inserito:: Maggio 13, 2012, 05:58:12 pm »

13/5/2012

Facebook, una risposta alla paura

FRANCESCO GUERRERA

Gli Stati Uniti sperano che Facebook sia loro amico.


Il sito-fenomeno creato da Mark Zuckerberg nella camerata di Harvard otto anni fa sta per diventare una società quotata in Borsa valutata a quasi 100 miliardi di dollari. Più della HewlettPackard, il gigante dei computer, o della McDonald’s, la multinazionale del panino, e della Amazon.com, il grande magazzino dell’Internet.

Ma Facebook vale molto di più della quotazione che il mercato gli darà la prossima settimana.

La società californiana è metafora di un’America che insiste a voler credere a se stessa nonostante i segni vistosi del declino economico e sociale.

La parabola di Facebook è segno tangibile che il capitalismo americano funziona ancora. Che il famoso spirito imprenditoriale degli Usa - quello che ha animato Thomas Edison, Bill Gates, Steve Jobs – è vivo e vegeto.

Il contrasto è nettissimo. Negli ultimi anni, mentre Facebook cresceva e Zuckerberg passava da sbarbatello con le felpe a guru dell’imprenditoria, l’America ha sofferto una crisi dopo l’altra.

Prima lo scoppio della bolla del mercato immobiliare, poi un dirompente terremoto finanziario con il collasso della Lehman Brothers e, adesso, una ripresa lenta e faticosa che si ostina a tenere milioni di persone fuori dal mercato del lavoro.

All’orizzonte, non c’è granché: una campagna elettorale prevedibile e populista tra un Obama che ha deluso molti ed un Romney che convince pochi; problemi annosi sul deficit e lo Stato sociale; ed un’insicurezza sempre più radicata sul ruolo di una strapotenza sempre più intimidita dalla crescita esponenziale della Cina.

Facebook è la risposta a molte di queste paure. Il successo di Zuckerberg dà speranza ad un Paese che di speranza vive: l’America è l’unica nazione al mondo ad avere prestato il suo nome ad un sogno.

Joe Sixpack – l’americano medio che si beve sei lattine di birra al giorno – avrà anche perso il posto di lavoro, la casa e la fiducia nel capitalismo made in Usa, ma ha guadagnato tanti «amici» su Facebook a cui raccontare vicissitudini e gioie quotidiane.

E mentre Joe creava relazioni virtuali con gente che non vede da anni, Facebook è diventato un prodigio globale con più di 900 milioni di utenti e quasi 4 miliardi di dollari di fatturato l’anno, quasi tutti dalla pubblicità.

La quotazione in Borsa – sul Nasdaq che già ospita i santoni della tecnologia Google e Microsoft – sarà la consacrazione del ruolo quasi mistico di Facebook nel Pantheon dell’economia americana.

Se riesce a vendere le azioni al prezzo più alto indicato dalle banche di Wall Street, Facebook avrà un valore di mercato di 96 miliardi di dollari. A quel prezzo, la partecipazione di Zuckerberg sarebbe valutata a quasi 19 miliardi di dollari, quasi quanto la valutazione di tutta Google quando fece la sua Opa nel 2004.

Ma il fattore forse più importante è che Facebook è nato dal nulla, un’intuizione geniale che il sistema economico americano è riuscito a trasformare in realtà.

L’idea-base, raccontata da Zuckerberg in un video per gli investitori, è di una semplicità disarmante. «Ho sempre pensato che Internet fosse una magnifica invenzione», ha detto il ventisettenne negletto, vestito in jeans e maglietta, «mancavano solo le persone».

E così lui ha portato quasi un miliardo di esseri umani a scoprirsi, specchiarsi e raccontarsi su un sito Internet, svelando dati importantissimi per le imprese che gli vogliono vendere prodotti.

È un successo tutto americano, «mi ha detto un banchiere di Wall Street con molto orgoglio. “Non sarebbe potuto succedere da nessun’altra parte”».

Su questo ha ragione. La voglia di prendere rischi per fare soldi, di sviluppare idee mai tentate in passato, di non avere paura di fallire, è una caratteristica importante della psiche imprenditoriale americana. Facebook ne è l’espressione più recente.

Basterà per rivitalizzare l’economia più grande del pianeta? Ne dubito. L’euforia che circonda Facebook è giustificata – anche se forse gli investitori sono un po’ troppo eccitati - ma nessuna società può essere una panacea per i malanni economici dell’ America.

Senza un’industria manifatturiera in buona salute, una riforma seria dello Stato sociale che riduca il deficit stratosferico dello Stato federale e, soprattutto, senza i consumatori, l’America non può tornare a tirare.

Gli Zuckerberg e i Jobs aiutano ma il vero sforzo deve venire da Washington e Joe Sixpack.

Le notizie dalla capitale non sono buone: i bene informati parlano d’impasse totale sino alle presidenziali di novembre. Dopo il voto, la situazione dipenderà da chi ha vinto ma quello che è certo è che ci sarà battaglia su tassazione e riduzione del deficit tra la Casa Bianca e Democratici e Repubblicani nel Congresso.

La realtà è che, come i suoi cittadini prima della crisi, lo Stato federale ha vissuto al di sopra dei propri mezzi per molto, troppo tempo. Washington è riuscita a finanziare le sue spese folli vendendo buoni del Tesoro agli stranieri, soprattutto i cinesi.

Ma ipotecare il proprio futuro e metterlo nelle mani di altri Paesi con diverse priorità economiche e geopolitiche non è una soluzione plausibile a lungo termine. Il nuovo Presidente ed il nuovo Congresso dovranno introdurre la stessa austerità che continuano a richiedere ai governi europei – tagli alle pensioni, riforme fiscali e della sanità – e fare fronte agli stessi problemi politici di Mario Monti, David Cameron e Lucas Papademos.

Misure di questo tipo avranno ripercussioni profonde sul portafogli di Joe e dei suoi amici, sia su Facebook che nella vita reale. Con un mercato delle case in crisi ormai da anni e un tasso di disoccupazione ancora altissimo, i consumatori americani sono squattrinati, stremati e disincantati. L’austerità non farà altro che esacerbare le difficoltà della gente comune, complicando ancora di più la ripresa economica.

L’America che si specchia su Facebook deve far fronte a questioni di fondo che non possono essere risolte da un giovanotto con la felpa.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York

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« Risposta #48 inserito:: Maggio 21, 2012, 05:48:57 pm »

21/5/2012 - CASO J. P. MORGAN

A Wall Street non si impara dagli errori

FRANCESCO GUERRERA

La prima volta che incontrai Jamie Dimon, nel grattacielo della JP Morgan su Park Avenue, mi strinse la mano e, prima di liberarla dalla presa serrata, disse: «Benvenuto a Wall Street: d’ora in poi, la tua vita non sarà facile».

La settimana scorsa, Dimon e la più grande banca negli Stati Uniti hanno scoperto sulla propria pelle quanto sia difficile vivere a Wall Street.

Da giovedì 10 maggio, quando J.P. Morgan ha sorpreso i mercati con l’ammissione di aver perso 2 miliardi di dollari in meno di due mesi comprando e vendendo dei complicatissimi derivati, la finanza globale è sotto choc.

Mentre le perdite - causate in parte da un trader soprannominato «la balena di Londra» - continuano ad aumentare e sono già a quota 3 miliardi, la domanda nei palazzoni di New York, nella City ed ad Hong Kong, è una sola: «Ma com’è possibile?».

Com’è possibile che il «re di Wall Street», il grande Jamie Dimon, si sia fatto un autogol così clamoroso? (Dimon, capirebbe la metafora perché, da buon nipote d’immigranti greci, giocava a calcio e non a baseball da ragazzino).

Com’è possibile che un disastro di questo genere possa essere capitato alla J.P. Morgan, la banca che aveva vinto la crisi, comprando rivali in difficoltà e superando antagonisti agguerriti come la Goldman Sachs e la Morgan Stanley?

E com’è possibile che a pochi anni da una crisi finanziaria senza pari, la banca che era l’epitome della «Nuova Wall Street», sempre più supermercato finanziario e sempre meno casinò, abbia potuto fare un errore così clamoroso?

La risposta di Dimon che, a differenza dei tanti «Dottor Sottile» del mondo delle imprese è uno molto brusco, è stata di dare la colpa a se stesso e alla banca. «E’ un errore grossolano e stupido», ha detto. «Ce la siamo andata a cercare. Siamo stati disattenti». E così via.

Tutto vero ma, purtroppo per Dimon e gli azionisti della J.P. Morgan, non basta. Una volta aperto, il vaso di Pandora delle paure del mercato e dei regolatori non si può chiudere facilmente.

Lo spiaggiamento della «balena di Londra» – Bruno Iksil, un trader francese che aveva fatto un sacco di soldi scommettendo su derivati – non farà fallire la J.P. Morgan. Con più di due triliardi di dollari sul bilancio, la banca sopravviverà anche se le perdite arrivano a 5 miliardi, come ormai temono i luogotenenti di Dimon.

Il vero danno causato dal cetaceo è alla reputazione di Wall Street e, forse, alla carriera di Jamie Dimon.

Questo non è un buon momento per mostrare al mondo le debolezze del sistema finanziario e la fragilità dei suoi membri.

La crisi europea sta diventando sempre più un problema per le banche e l’economia reale – basta solo vedere l’assalto agli sportelli nel Paese avito di Dimon, mentre in America la ripresa è lentissima e le banche non hanno fatto granché per accelerarla.

Con una campagna elettorale per le presidenziali di novembre in corso e delle scadenze importanti per riscrivere le regole del gioco finanziario, Wall Street è vulnerabilissima.

Le perdite del signor Iksil e dei suoi colleghi negli uffici londinesi di J.P. Morgan hanno confermato ed amplificato le paure recondite di politici e gente comune.

Wall Street non impara mai. Dopo aver fatto mea culpa per gli errori del 2007-2009, le banche e i loro leader ci avevano promesso che avrebbero cambiato strategie e stili di vita. Che la «Nuova Wall Street» sarebbe stata più attenta ad aiutare società e risparmiatori che a imbottire i propri utili e le tasche dei banchieri.

Questa folgorazione – magari non proprio sulla via di Damasco ma certamente sulla via di Washington – era il motivo addotto da banche e lobbisti per persuadere regolatori e politici ad andarci piano con le riforme del dopocrisi. Se non state attenti, avevano detto, rischiate di restringere il flusso vitale dell’economia: il denaro pompato dalle banche a consumatori e imprenditori.

Il tonfo della balena cambia tutto. Grazie al lavoro di reportage di un paio di media, tra cui il «Wall Street Journal», abbiamo scoperto molto prima dell’ammissione di Dimon, che Iksil & co. non avevano nulla a che vedere con aziende, consumatori o altri clienti di cui le banche si riempivano la bocca nei colloqui con i politici.

L’obiettivo del Chief Investment Office, il gruppo in cui lavora Iksil, era di prendere i soldi di J.P. Morgan e investirli per aumentare gli utili della banca. In teoria, il cio avrebbe dovuto semplicemente ridurre i rischi della banca con degli «hedges», le «siepi» finanziarie che proteggono da repentini cambiamenti dei mercati.

Ma, grazie all’indifferenza più totale all’interno di J.P. Morgan – Dimon era troppo preso ad attaccare le nuove regole del gioco e il presidente Obama, per prestare attenzione – la balena e i suoi amici si sono messi a prendere rischi inconsulti invece di ridurli.

Quando, in aprile, Dimon disse che gli scoop della stampa sul cio erano «una tempesta in una tazzina di tè», Iksil e suoi avevano già preso posizioni gigantesche nel mercato dei derivati – più di 100 miliardi di dollari secondo una delle mie fonti.

Sembra difficile credere che dei traders esperti e stagionati possano comprare 100 miliardi di roba complicata e pericolosa non per speculare, ma per ridurre i rischi di una banca.

La verità di questo pasticcio verrà fuori alla fine – ora che l’Fbi e altre agenzie federali hanno aperto indagini – ma ormai il latte è stato versato.

I banchieri con cui ho parlato questa settimana già si aspettano il peggio: provvedimenti ancora più severi da Washington per limitare attività rischiose con i soldi delle banche; un’altra serie di attacchi da politici e consumatori; e la sensazione un po’ nauseante che la crisi del 2007-2009 non era un fatto isolato ma una tessera in un mosaico degli orrori della finanza.

John Pierpont Morgan, il leggendario banchiere che precedette Dimon al timone di J.P. Morgan, una volta disse: «L’uomo ha sempre due ragioni per fare una cosa: una buona ed una vera». Per arpionare la balena del rischio una volta e per tutte, Dimon ed il resto di Wall Street dovranno rassicurare il mondo che l’epoca della distinzioni tra ragioni buone e ragioni vere è finita.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York
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« Risposta #49 inserito:: Giugno 17, 2012, 09:50:46 am »


16/6/2012

La domenica irrazionale di Wall Street

FRANCESCO GUERRERA

L’ Europa è in bilico e l’America trema. La Grecia non era mai stata un pericolo per Wall Street. Un bel posto dove i banchieri potevano andare in vacanza ed immergersi nella storia millenaria che gli Stati Uniti non hanno, quello sì.

Ma non una piazza monetaria ed economica in grado di spaventare i signori del denaro, nemmeno quelli di origine greca come Jamie Dimon, capo della J.P. Morgan Chase. Ma negli ultimi due anni i brokers, i traders e i banchieri col gessato sono tutti diventati esperti di storia greca. Non quella di Pericle, Ettore ed Achille, ma quella recente di Papademos, Samaras e Syriza.

Per questo weekend di passione, alcune banche d’affari americani hanno addirittura cancellato le vacanze e chiesto agli operatori di presentarsi in ufficio domenica pomeriggio per essere pronti quando le Borse asiatiche reagiscono ai risultati dell’elezione greca.

A Wall Street vogliono tutti sapere, soprattutto da europei come me, se siamo all’inizio della fine: la morte dell’euro, l’implosione dell’Europa e la recessione globale. Il mondo della finanza americano non fa altro che chiedersi cosa succederà se i giochi di potere intraeuropei tra tedeschi sparagnini e mediterranei spendaccioni finiscono nel «game over» del più grande blocco economico del mondo.

In realtà, non siamo ai campionati europei dove chi perde adesso va a casa. L’elezione greca non darà risposte definitive, viste le mille permutazioni che potrebbero scaturire dai risultati. Le banche centrali, a cominciare dalla Bce di Draghi, hanno già il dito sul grilletto dello stimolo, pronte a sparare denaro nell’economia ai primi segni di panico. Ma i mercati non sono in condizione di ragionare pacatamente. I nervi sono tesi e i portafogli in perdita. In questi momenti, la razionalità non c’è e non si vede.

Nell’America tremebonda, però, diversi gruppi tremano in maniera diversa. Prima di tutto, c’è Wall Street. Le banche americane giurano di avere poco o nulla in Grecia nella speranza di rassicurare gli investitori. Ma le parole non bastano. Il rischio per le istituzioni finanziarie non sono gli investimenti diretti che hanno in Grecia (o in Italia e Spagna) ma la possibilità, ormai non tanto remota, del crollo dell’euro.

Il capo di uno dei giganti della finanza americana mi ha detto questa settimana che, secondo lui, c’è il 30% di probabilità di un collasso dell’euro. Il 30%. Non l’1% o il 5% ma il 30%. Se ciò accadesse, rivivremmo l’episodio Lehman – il momento di panico in cui il fallimento della banca d’affari fece fermare l’economia mondiale e causò una contrazione economica e finanziaria di enormi proporzioni. E quando chiedo che cosa le banche possano fare per prevenire o ridurre un rischio del genere, i padroni della finanza, di solito molto loquaci, tacciono e scrollano le spalle, ma senza sorridere.

Gli investitori non sono da meno. In molti sono usciti completamente dall’Europa, vendendo e svendendo azioni e Buoni del Tesoro per rifugiarsi in beni che hanno poco valore ma tanta sicurezza, quali le obbligazioni federali americane e tedesche. Ma nemmeno l’investitore più prudente si può completamente isolare dalla crisi europea.

Milioni di americani, per esempio, investono in «money market funds», fondi che di solito sono a basso rischio ma che sono spesso usati da banche europee, in particolare quelle francesi, per finanziare le loro operazioni negli Usa. Se una di queste banche fallisse, le ripercussioni si risentirebbero ad Orly come in Ohio, a Parigi come a Phoenix.

E poi c’è Washington. In pubblico, le parole del ministro del Tesoro Geithner sono melliflue – ha detto che gli europei sono determinati ad evitare il crollo dell’euro e a rimettere ordine nel caos delle loro finanze. Ma in privato, i suoi luogotenenti, e quelli del capo della Federal Reserve Ben Bernanke, sono molto preoccupati. La Fed ha promesso di offrire dollari alle banche europee (attraverso la Bce), se ne avessero bisogno, per fare in modo che abbiano abbastanza soldi anche se la situazione peggiora.

Ma al di là di ciò, non c’è molto che gli Usa possano fare per aiutare l’Europa. Di soldi, il governo Obama non ne ha, anzi. E i venti della politica, con un’elezione presidenziale a novembre, soffiano verso l’interno, non l’estero. L’America in questo momento si trova in una posizione inconsueta: impotente e dipendente. Una superpotenza politica ed economica senza artigli e in balia di eventi che non può né controllare né influenzare. Allacciate le cinture di sicurezza, la turbolenza è appena iniziata.

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« Risposta #50 inserito:: Luglio 01, 2012, 03:48:42 pm »

30/6/2012

Ora c'è bisogno di tempo e politica

FRANCESCO GUERRERA

La storia non ha nascondigli/La storia non passa la mano». Non penso che Monti, Van Rompuy e Merkel siano fan di De Gregori (fattori generazionali e d’estrazione, credo).

Ma alla fine di un vertice europeo che ha sorpreso un po’ tutti per la qualità e quantità di decisioni prese, le parole del cantautore sembrano una colonna sonora adatta. L’incontro di Bruxelles sarebbe potuto finire come tanti altri incontri di Bruxelles: una serie di dichiarazioni magniloquenti che rimangono fini a stesse, prigioniere delle sabbie mobili della burocrazia europea e beghe politiche nazionali.
Ma la convergenza di una crisi sempre più acuta e la necessità di prendere misure drastiche prima che sia troppo tardi ha conferito al summit una patina storica.

Giovedì mattina, l’Unione Europea si trovava ad un bivio: da una parte, la strada verso un’unione fiscale e politica, dall’altra l’abisso della disintegrazione della moneta unica. Venerdì mattina, ha imboccato decisamente la prima strada. E’ ormai inutile discutere i dettagli di come il continente sia arrivato a tale punto di rottura. Il Bignami della crisi scriverà che incuria e pessima gestione della situazione avevano messo l’euro e i suoi membri con le spalle al muro.

Quel che conta, ora, sono i risultati. Diciamolo chiaramente: le proposte radicali per una «unione bancaria» pan-europea, la possibilità di usare fondi comunitari per immettere capitali nelle banche malate ed un’assicurazione comune per i depositi bancari del continente non sono particolari tecnici. Sono i primi passi verso gli Stati Uniti d’Europa.

A molti l’idea non piacerà, ma la finanza non è un’opinione, almeno in questo caso. Come posso essere così sicuro? La storia degli altri Stati Uniti, quelli d’America, è prova lampante che un’unione monetaria accompagnata da un’unione bancaria può esistere solo nel contesto di un governo federale. Uno dei capi di Wall Street me lo ha spiegato bene questa settimana: «Almeno», ha detto, «l’Europa sta arrivando ad un’unione politica senza la guerra civile per cui siamo dovuti passare noi».

Gli Usa del 1786 sono molto simili alla zona euro del 2012: un’accozzaglia di Stati con interessi diversi, grandi sperequazioni tra Nord e Sud, un’economia in difficoltà ed una diffidenza di fondo tra i vari membri dell’Unione. La differenza fondamentale tra gli Stati Uniti di ieri e
l’Europa di oggi è che i padri fondatori riuniti a Philadelphia crearono un’unione monetaria in concomitanza con un’unione politica. I pionieri di Maastricht non furono in grado di fare lo stesso e si dovettero «accontentare» della moneta unica.

Negli ultimi anni, però, l’Europa si è accorta che una moneta non può essere veramente «unica» se i sistemi bancari che le stanno dietro rimangono nazionali. La spaccatura tra nazioni deboli (Grecia, Spagna, Italia, Portogallo, Irlanda) e forti (in particolare la Germania e
l’Olanda) ha messo in discussione la premessa fondamentale dell’euro: che i governi dei Paesi hanno tutti la stessa identica capacità di sostenere e garantire le proprie banche. La fuga di capitali dalla Grecia alla Germania, la ricapitalizzazione con soldi «europei» delle cajas spagnole e le paure dei mercati sulla salute delle banche francesi hanno dimostrato che una delle travi portanti dell’euro ormai non tiene più.

L’unico modo per rimpiazzarla è trasferire l’onore e l’onere di salvaguardare il sistema finanziario del continente dai governi e dalle banche centrali nazionali ad un organo pan-europeo, come proposto da Mario Draghi, Jean-Claude Juncker e Van Rompuy prima del summit di Bruxelles.

La possibilità di ricapitalizzare banche in difficoltà con fondi Ue - invece di prestare soldi a governi nazionali - aiuta perché permette di salvare istituzioni finanziarie senza gonfiare i debiti dei Paesi membri. La prima frase del comunicato uscito all’alba di sabato da Bruxelles è stata chiara e tonda: «E’ indispensabile rompere il circolo vizioso tra settore bancario e settore statale», hanno scritto i leader europei.
L’esempio degli Stati Uniti è illuminante. Quando una banca fallisce nel Wyoming o nel Montana, a pagare non sono quegli Stati ma il governo federale. Se, nel 1982, l’Illinois avesse dovuto coprire il costo del crollo della Continental Illinois, all’epoca la settima banca negli Usa, lo Stato sarebbe probabilmente andato in bancarotta. Ma il problema non si pose: in una vera unione monetaria e bancaria quali gli Usa, i costi del sistema vengono divisi tra tutti i membri.

Purtroppo, come dicono gli inglesi, «Nessun pranzo è gratis». Lo scambio per la creazione di organismi e fondi pan-europei per salvaguardare il sistema bancario è la cessione della sovranità nazionale. In questo senso, le continue richieste da parte della Germania per una maggiore disciplina fiscale – un «patto di ferro» che punisca i Paesi goderecci e spendaccioni – sono comprensibili e condivisibili. Non si può chiedere alla signora Merkel di aprire i cordoni della borsa senza prometterle che d’ora in poi la smetteremo di fare i figlioli prodighi. Il corollario di tutto ciò, però, non può che essere un movimento inesorabile verso l’unione politica – un’idea che è indigesta a molti Paesi (la Gran Bretagna in primis) e porzioni importanti dell’opinione pubblica (basta chiedere a Beppe Grillo).

Per ora, i mercati hanno votato a favore di questo salto verso l’integrazione di sistemi bancari e fiscali, contenti del fatto che i potenti
d’Europa abbiano finalmente fatto qualcosa di concreto. Ma mettere in pratica le proposte del vertice di Bruxelles richiederà sia tempo sia la volontà politica di superare alti ostacoli – due cose che la zona euro non ha in grandi quantità. Dopo anni di tentennamenti e mezze misure, però, non ci sono tante alternative. L’Europa si deve incamminare su un percorso storico quasi suo malgrado. La storia non passa la mano.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York.

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« Risposta #51 inserito:: Luglio 17, 2012, 05:17:26 pm »

15/7/2012

Il vento della sfiducia

FRANCESCO GUERRERA

Cedar Falls, un paesino sperduto tra le pianure dell’Iowa, è distante anni luce da Londra, l’epitome della metropoli sofisticata e cosmopolita. Ma una serie di eventi tragici, bizzarri ed inaspettati hanno trasformato due città, divise da un oceano e molto altro, in simboli gemelli della crisi di fiducia nella finanza moderna.

Gli avvenimenti londinesi sono più noti. Un paio di settimane fa, la più grande banca inglese, la Barclays, è stata la prima vittima del «Libor-gate» uno scandalo enorme in cui decine di istituzioni finanziarie sono accusate di aver manipolato tassi interbancari a loro favore. I fatti sono complicatissimi ma l’opinione pubblica è stata aiutata dalle rivelazioni di e-mail vergognose tra traders. Questi signori, senza pudore o auto-controllo, si scambiavano tranquillamente idee su come contraffare i tassi, promettendo bottiglie di Bollinger ai colleghi che truccavano l’importantissimo Libor - l’indice utilizzato per fissare il prezzo di circa 800 trilioni (sì, 8 milioni di miliardi…) di prestiti e obbligazioni dall’Alaska allo Zimbabwe. «Quando e come vuoi, ragazzone mio…», si legge in una delle e-mail mandata da uno dei manipolatori, e non bisogna essere George Soros per capirne l’importanza. Barclays ha pagato una multa abbastanza salata - circa 450 milioni di dollari - ma il putiferio politico scatenato dallo scandalo le è costato molto di più. Nello spazio di due giorni, la società ha perso il presidente, l’amministratore delegato e il capo della sua banca d’affari. La cacofonia d’inchieste parlamentari, attacchi del governo contro le banche e astrusità finanziarie ha lasciato il pubblico, e non solo quello inglese, in stato confusionale sulla solidità del sistema finanziario. Io in Inghilterra non vivo ormai da quasi dieci anni ma ho ricevuto e-mail da vecchi amici che, senza offrire bottiglie di champagne, mi chiedevano se dovessero chiudere il loro conto alla Barclays.

L’idea è ovviamente assurda, ma quando Mr. and Mrs. Smith sentono il cancelliere dello scacchiere George Osborne dire che lo scandalo-Libor è «l’epitaffio per un’era di irresponsabilità» delle banche, che cosa devono pensare? Che tutti i banchieri sono corrotti, che il sistema è marcio e non si salva più nessuno. A quel punto, il materasso diventa un’alternativa appetibile alla Barclays, la Lloyds e la Citibank. E se per caso gli Smiths si imbattessero in Joe e Jane Sixpack - gli americani medi che amano le sei lattine di birra - avrebbero molto di cui parlare.

Negli Usa della disoccupazione altissima, del mercato immobiliare allo sfascio e dell’economia in coma, la fiducia di investitori e risparmiatori nei confronti di Wall Street è sotto zero. In questo clima di paura e scetticismo, Cedar Falls non aiuta. La cittadina dell’Iowa è ormai famosa per la scena di un crimine finanziario quasi perfetto. E’ qui che Russell Wasendorf Senior, padre padrone di Peregrine Financial - società finanziaria specializzata nelle compravendite di valute - ha tentato il suicidio dopo aver rubato circa 200 milioni di dollari ai suoi clienti. Poco prima che morisse asfissiato nella sua Chevrolet Cavalier nel parcheggio di un asilo nido, Wasendorf è stato salvato da una delle mamme che era lì a prendere i bambini.

Wasendorf è sopravvissuto - anzi venerdì ha confessato una frode ventennale agli agenti dell’Fbi - ma Peregrine è deceduta, portandosi nella tomba le speranze e i risparmi di migliaia di persone. La società è in bancarotta ed i clienti - in gran parte agricoltori e piccoli imprenditori - non vedranno più i propri soldi. Il profilo becero del capitalismo anglosassone è in bella vista tra i cedri di Cedar Falls. Le recriminazioni e le inchieste sono già iniziate con le authority del settore sul banco degli accusati. Ma il danno più grave è stato fatto non ai conti in banca dei contadini dell’Iowa ma alla psiche già fragile degli investitori americani.

Dopo la crisi del 2007-2009, dopo il collasso di tre pilastri di Wall Street - la Bear Stearns, la Lehman Brothers e la Aig - dopo la frode da 50 miliardi di Bernie Madoff, questa proprio non ci voleva. I numeri sono incontrovertibili: Joe e Jane Sixpack hanno disertato i mercati. Dall’inizio della crisi, i piccoli investitori americani hanno venduto più di 450 miliardi di dollari di azioni e reinvestito gli utili in buoni del Tesoro o nei materassi. Il sogno americano di fare soldi con i soldi, di utilizzare le vaste risorse finanziarie del paese e i liquidissimi mercati per aumentare i propri standard di vita non funziona più, almeno per il momento. Tutti i sistemi di scambio - dai baratti della preistoria ai derivati di oggi, passando per eBay e Amazon - sono fondati sulla mutua fiducia tra compratori e venditori, su regole non scritte che dicono: «In generale, non penso che mi fregherai ed in cambio spero che tu non creda che io ti fregherò».

Gli eventi di Cedar Falls e di Londra mettono in dubbio il tacito contratto alla base della finanza mondiale. L’isteria dei politici - che in America raggiungerà livelli altissimi durante la campagna presidenziale tra il populista Obama e il super-capitalista Romney - non fa altro che amplificare la paura della gente, la sfiducia dei piccoli risparmiatori in un sistema troppo grande e complesso per essere comprensibile.

L’opinione pubblica vede solo nero. Non è incoraggiata dal fatto che, per esempio, in Inghilterra chi sbaglia paga, come è capitato ai capi della Barclays, o che i fallimenti stile-Peregrine sono tutto sommato abbastanza rari tra le migliaia di aziende finanziarie americane. L’aria che tira non è buona. Senza la fiducia, i mercati ed il capitalismo non possono funzionare: né a Londra né a Cedar Falls.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York. francesco.guerrera@wsj.com

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« Risposta #52 inserito:: Luglio 30, 2012, 09:33:57 am »

30/7/2012

Non date per morta l'America

FRANCESCO GUERRERA

La città si chiama Aurora ma da una settimana è il simbolo di un’America al tramonto.

La follia omicida di James Holmes, lo studente che ha ucciso 12 innocenti e ne ha feriti altri 58 alla prima di «Batman» in Colorado, ha sconvolto una nazione e accentuato la sua crisi di identità. I proiettili sparati dal 24enne con i capelli rossi e gli occhi da pazzo sono echeggiati nei televisori, case ed uffici di un paese che fa fatica a trovarsi ormai da anni. Non più superpotenza economica, senza un nemico chiaro con cui confrontarsi, e con il fiato della Cina sul collo, l’America è attanagliata dai dubbi.

L’atto barbarico di Holmes è un’altra batosta alla fragile psiche nazionale, la «prova» che nell’America di oggi nessuno è sicuro, nemmeno in un cinema di provincia del Colorado. Non se è possibile comprare 6000 pallottole per fucili e pistole su internet come fossero buoni del Tesoro.

L’ esortazione del presidente Obama - l’America deve far fronte al massacro di Aurora come «una grande famiglia» - è sintomatica del momento. Il carismatico «padre» del Paese, l’uomo più potente del mondo, non ha risposte, solo parole.

Con l’economia sull’orlo della recessione, il mondo della finanza alle corde e una quasi-guerra di classe tra i ricchi di Wall Street e i sempre più poveri che vogliono «occupare» il capitalismo, sembra naturale concludere che siamo ormai alla fine dell’impero americano. L’intelligencija fa la sua parte, riflettendo e fomentando l’idea che i giorni migliori del paese sono nello specchietto retrovisore.

Da ideologi di destra come Pat Buchanan - il consigliere di Nixon e Reagan che ha scritto un libro intitolato «Il suicidio di una superpotenza» - alla sinistra liberal di Thomas Friedman, il columnist del New York Times la cui ultima opera si intitola «That Used to Be Us» (Un tempo questi eravamo noi), il mormorio dei benpensanti è un coro di laudatores temporis acti.

Il parossismo, quasi parodico, di questa mentalità è esemplificato in un monologo nella nuova serie televisiva di Aaron Sorkin - il creatore della «West Wing» - ambientata in uno studio televisivo. Parlando ad un gruppo di studenti, il protagonista, un vecchio anchorman incarnato da Jeff Daniels, urla: «Quando dite che l’America è il migliore paese del mondo, non ho la più pallida idea di che cazzo parliate. Il parco di Yosemite?».

Ma siamo proprio sicuri che l’America sia in declino terminale? Aurora è un capitolo tragico e la congiuntura economica e finanziaria non è certo favorevole, ma pazzia e recessione non portano automaticamente alla decadenza di un paese come gli Stati Uniti.

I molti critici dell’America di oggi fanno un errore abbastanza basilare e ben noto a chi studia economia - confondendo fattori ciclici e fattori strutturali. Mi spiego. Non c’è dubbio che gli Stati Uniti siano in un momento di profonda crisi, economica e sociale. Ed è senz’altro possibile che l’economia Usa ricada nella recessione prima di essersi completamente ripresa dall’ ultima contrazione. I numeri sono deprimenti: dai dati sulla fiducia dei consumatori, al tasso di disoccupazione, al moribondo mercato immobiliare.

Persino il terziario, il settore dei servizi che ha tenuto l’economia a galla e dato posti di lavoro a milioni di persone per decenni, ha l’acqua alla gola. Basta guardare a Wall Street - che pochi anni fa era una fonte di orgoglio nazionale ed un’aspirazione per tanti giovani ed ora è diventata un sacco da pugile per politici, giornalisti e ragazzi del movimento «Occupy».

Attenzione, però, a sottovalutare gli Usa.

Chi li dà per morti deve prima considerare il contesto storico. Non è la prima volta che gli Stati Uniti hanno paura di essersi svegliati dal Sogno Americano. La Grande Depressione degli Anni 30, la crisi di fiducia scatenata dalla guerra in Vietnam e il senso d’impotenza rivelato dagli attacchi dell’11 settembre sono tre esempi di momenti critici nel passato di un paese ancora abbastanza giovane.

L’America è riuscita a superarli grazie alla flessibilità di un sistema politico - il federalismo - e di un’economia che, a differenza della rigidissima Europa, sono capaci di adattarsi ai tempi che corrono.

E’ possibile che la storia si ripeta in questo nuovo, difficilissimo, frangente. Un attento osservatore può già notare il cambiamento camelontico dell’economia americana, da gigante manifatturiero a mostro dei servizi, soprattutto finanziari, ed ora, campione di nuove tecnologie.

Non solo Facebook - una società che non esisteva nemmeno dieci anni fa ed Apple (e Google e Microsoft e Twitter etc etc). Ma anche esperimenti come Singularity, un’«università» non a scopo di lucro fondata da scienziati della Nasa, che è specializzata nello studio e nell’insegnamento di nuove tecnologie a gente in carriera.

O figure come Ray Kurzweil, l’inventore del software che permise ai computer di «ascoltare» voci umane e di tradurle sullo schermo. Ad una conferenza piena di manager d’impresa il mese scorso, ho sentito Kurzweil giurare di essere capace di «riprodurre» il cervello umano in un computer - una scoperta che, per esempio, potrebbe aiutare a debellare l’Alzheimer ed il morbo di Parkinson.

E se il futurismo non fa per voi, ci sono ragioni più concrete per temperare predizioni della fine dell’America. Il fatto, per esempio, che l’Unione Europea non sta proprio benissimo e che l’economia del Giappone è in stato semi-comatoso da decenni. Che persino la Cina ha bisogno dei consumatori americani per continuare a crescere. E che il dollaro rimane la moneta dominante ed il bene-rifugio più importante nell’economia mondiale - un ruolo fondamentale che aiuta l’economia Usa.

Senza considerare le ripercussioni sulla crescita economica di una possibile rivoluzione nel campo dell’energia made in Usa, soprattutto se le nuove scoperte di gas naturale e nuovi metodi di esplorazione mantengono le promesse.

Chi guarda ad Aurora e vede il tramonto dovrebbe prima darsi un’occhiata intorno.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York

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« Risposta #53 inserito:: Agosto 12, 2012, 04:19:06 pm »

12/8/2012

Wall Street e City unite dai peccati

FRANCESCO GUERRERA

Voi Americani del cavolo! Ma chi vi credete di essere per poterci dire di non trattare con l’Iran?». Queste parole di fuoco, urlate, secondo le autorità americane, da un dirigente della Standard Chartered - la banca inglese indagata per riciclaggio del denaro iraniano -, hanno innescato la miccia nella relazione-dinamite tra New York e Londra.
Le capitali del capitale sono ai ferri corti. Wall Street e la City – accomunate dalla passione per il denaro dei loro abitanti, ma sempre in lotta per diventare il centro internazionale della finanza – sono in rotta di collisione.

Il «casus belli» è inconsueto. Un’inchiesta a sorpresa di Ben Lawsky, un giovane procuratore di New York che questa settimana ha accusato Standard Chartered di aver «lavato» 200 miliardi di dollari iraniani in contravvenzione delle sanzioni Usa contro il regime di Teheran. La Standard Chartered nega tutto, ma la notizia ha scatenato un putiferio transatlantico. Boris Johnson, il popolarissimo sindaco di Londra, si è assentato dalle Olimpiadi per attaccare il «protezionismo finanziario» degli Usa. Alla sinistra di Boris, il parlamentare laburista John Mann ha accusato gli americani di «discriminazione anti-britannica». E persino Mervyn King, il pacato governatore della Banca d’Inghilterra, ha impersonato Tony Soprano, «consigliando» ai colleghi americani di andarci con i piedi di piombo nelle inchieste con le banche inglesi.

I britannici sono particolarmente sensibili in questo frangente perché altre due grandi banche – la Hsbc e la Barclays – sono state accusate dagli Usa di misfatti internazionali. Gli americani, dal canto loro, fanno finta di non capire le ramificazioni geopolitiche delle loro azioni, chiedendosi con falso stupore come mai gli inglesi abbiano reagito con tale virulenza ad inchieste di autorità giudiziarie indipendenti. Lawsky, in questo momento, è il nemico numero uno della City, ma le ragioni di fondo della tensione tra i due poli del sistema finanziario vanno ben al di là di un giovanotto che si crede Eliot Ness negli «Intoccabili».
Il bel Lawsky, con i suoi capelli alla Tom Cruise e i vestiti di ottimo taglio, è solo il simbolo della guerra fredda tra due città e due culture che sono con l’acqua alla gola sin dal terremoto finanziario del 2008.

Con i mercati allo sbaraglio, le economie in coma ed il settore bancario in ritirata, New York e Londra sono nel mezzo di una crisi d’identità. Disorientate e ferite, le due città si azzuffano per prendere quello che è rimasto del settore finanziario. «La recessione non ci si addice», mi ha detto un capo di Wall Street l’altro giorno. «Noi finanzieri siamo creature del boom. Quando la situazione peggiora non sappiamo più cosa fare».

Lo stesso si può dire delle città che ospitano questa strana razza umana: gente di grandissima intelligenza e ambizione, ma motivata quasi esclusivamente dal fare soldi. Ho passato gli ultimi vent’anni in tre capitali del denaro – Londra, Hong Kong e New York (con un interludio a Bruxelles) – e il filo conduttore è molto chiaro: la classe finanziaria ha la capacità di dominare, influenzare e snaturare un’intera città. Dai ristoranti ai taxi, dai prezzi delle case alla prostituzione, il potere dei signori in giacca e cravatta (e delle poche signore in tailleur) è immenso. 200 sterline per una «Ferrari infuocata», un cocktail con rum, Grand Marnier e Chartreuse? Non c’e’ problema. Appartamenti per 60 milioni di dollari con il campo di basketball privato? Subito, sir. Cocaina come se piovesse? Ma certo.

Nei periodi di boom, gli altri vivono di luce riflessa, tentando di servire quest’aristocrazia del dollaro (e della sterlina) o di diventare uno di loro.
Durante le crisi, però, quest’economia dell’eccesso non funziona più: i banchieri e gli operatori vengono licenziati, i ristoranti chiudono e anche gli spacciatori hanno poco da fare. E le città soffrono.

L’anno scorso, il settore finanziario ha contribuito con il 14 per cento alle entrate fiscali dello stato di New York, molto meno del 2010, quando un dollaro di tasse statali su cinque veniva da un banchiere o operatore di Borsa.
Il sindaco di New York Michael Bloomberg, che da buon miliardario di soldi se ne intende, lo ha spiegato bene: «Non torneremo più ai bei tempi, quando le tasse pagate da una Wall Street in stato di grazia coprivano tutti i debiti». A Londra, la situazione è simile, visto che un settore che contribuisce a quasi il 10% del Pil è in crisi ormai da anni.
E allora le due città lottano per accaparrarsi quello che possono: posti di lavoro, quartier generali delle banche, tasse.

Non è solo orgoglio nazionale che ha portato l’establishment britannico ad esplodere quando Lawsky ha chiamato Standard Chartered – una banca antica e all’antica – un’«istituzione-canaglia».
E’ stata anche la paura di essere visti come un posto dove i servizi finanziari sono sporchi, dove anche i pilastri più solidi del sistema, quale Standard Chartered, si stanno decomponendo. «Non vogliamo diventare la Las Vegas della finanza», ha protestato un banchiere inglese.

La realtà è che sia New York sia Londra sono sempre state un po’ Las Vegas, soprattutto nei periodi di vacche grasse. Per anni, la City si è offerta a banche ed hedge funds come la campionessa della «light-touch regulation», il posto dove le autorità di settore non disturbano più di tanto. E Wall Street, nonostante procuratori aggressivi come Eliot Spitzer e Ben Lawsky, ha spesso chiuso uno o due occhi sugli scandali e i peccati dei suoi abitanti. Tra i casi di «insider trading», il macello dei mutui subprime e le varie truffe finanziarie degli ultimi anni, New York non può proprio scagliare la prima pietra.
Indispensabili per il funzionamento del capitalismo mondiale, Londra e New York hanno scoperto di avere un altro elemento in comune: nessuna delle due è senza peccato.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York
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« Risposta #54 inserito:: Settembre 27, 2012, 02:32:10 pm »

24/9/2012

Stupido, non è l'economia

FRANCESCO GUERRERA

«E’ l’economia, stupido». Lo slogan coniato da James Carville, il grande stratega del partito democratico, per un candidato presidenziale dal nome di William J. Clinton nel 1992 è una delle pietre miliari della politica americana.

Clinton fece il resto. Con l’economia Usa in grave crisi e la disoccupazione alle stelle, il giovane governatore dell’Arkansas combinò i suoi talenti oratori con l’intuizione di Carville per distruggere George Bush padre e conquistare la Casa Bianca.

Vent’anni dopo è il partito repubblicano a sperare che la storia si ripeta.

La crescita economica è anemica, la disoccupazione a livelli altissimi e salari, redditi e patrimoni della classe media sono al ristagno ormai da anni. Mitt Romney, il businessman diventato politico, si presenta agli elettori come un manager competente ed industrioso, capace di risolvere una situazione difficilissima meglio di Obama.

Per i fan di Romney, la prova c’è già: Mittpresidente farebbe al paese quello che fece nel 2002 quando salvò le Olimpiadi invernali di Salt Lake City dalla bancarotta e dal ridicolo.

«In questo frangente, chi volete: uno che il business l’ha vissuto in prima persona, o un professore di legge di Chicago?» e’ stata la domanda, retorica, di uno dei tanti capi di Wall Street che è passato dall’amore spassionato per Obama al sostegno, finanziario e politico, per Romney.

In teoria, Romney è in una situazione ideale per attaccare il Presidente.

Uno su dodici americani in cerca di lavoro è disoccupato: più di dodici milioni di persone. Ed ormai lo sanno pure i bambini dell’asilo che nessun Presidente americano del dopoguerra è stato rieletto con un tasso di disoccupazione così alto.

L’economia sta crescendo più di zone disastrate come l’Unione Europea, ma è lontanissima dai livelli di ripresa che ci si aspetta quattro anni dopo una recessione e crisi finanziaria. Ed i consumatori, il tradizionale polmone dell’economia americana, sono ancora in fase di choc dopo il crollo rovinoso del mercato immobiliare nel 2007-2009.

Le ultime statistiche hanno rivelato che, nel 2011, i redditi medi delle famiglie americane sono diminuiti o rimasti uguali in quasi tutti gli Stati dell’Unione. Il reddito di una famiglia «tipica» è intorno ai 50.000 dollari l’anno - un livello bassissimo che non si vedeva dalla metà degli Anni 90, proprio quando Clinton sconfisse Bush.

Perquellocheriguardaleimprese,adifferenza di altre fasi di crisi, questa volta gli imprenditori non possono contare su mercati esterni. Con l’Europa in crisi, la Cina in fase di rallentamento e il «miracolo economico» dell’America Latina sempre meno miracoloso, la domanda per le esportazioni made in Usa è flaccida.

Le società ne soffrono perché dopo anni di tagli di costi e diete drastiche, «corporate America» non ha più molto peso da perdere. Tra giugno e settembre, gli utili delle società Usa sono calati - la prima volta in tre anni che il grande motore dell’industria americana non è riuscito a fare più soldi che nei tre mesi precedenti.

«Se tagli e tagli, alla fine arrivi all’osso», mi ha detto, con una smorfia amara, l’amministratore delegato di una società manifatturiera la settimana scorsa.

Se fosse «l’economia, stupido», Romney dovrebbe vincere a mani basse. Ed invece è lì che arranca dietro ad Obama nei sondaggi d’opinione, nonostante i tentativi dei suoi consiglieri di portare il dibattito sullo stato di bilancio dell’impresa-Usa. «Sappiamo tutti quello che ha fatto Obama negli ultimi quattro anni», ha intonato Romney questa settimana in Florida. «Ha creato un’economia che è alla frutta».

Parole che, una volta purificate dalla retorica elettorale, dovrebbero essere musica per le orecchie delle classi medie americane.

Invece sembra quasi che gli elettori stiano guardando ad un’economia diversa da quella criticata da Romney.

Quando il Wall Street Journal e la Nbc hanno chiesto a cittadini di tre Stati chiave nelle elezioni del 6 novembre - il Colorado, il Wisconsin e l’Iowa - chi fosse il candidato migliore per l’economia, Obama ha «vinto» in tutti e tre. A livello nazionale, Obama e Romney sono testa a testa su chi sarebbe meglio per l’economia (43 per cento l’uno). Due mesi fa, Romney era preferito da quasi metà dell’elettorato.

Cosa sta succedendo? Il grande pubblico americano sembra convinto che la traiettoria dell’economia americana sia in crescita e ripresa, che la situazione sia in via di miglioramento, un miglioramento per cui il merito, al momento, va ad Obama.

La realtà è diversa: è vero che il mercato immobiliare sta dando segnali di vita ma il progresso del sistema-Usa è lento e quasi impercettibile ed, in ogni caso, il merito andrebbe non all’amministrazione ma alla Federal Reserve di Ben Bernanke che ha pompato miliardi di dollari nell’economia.

Ma, a meno di due mesi dalle elezioni, la verità conta poco. Come mi ha spiegato un consigliere di Obama, «la realtà è nella mente degli elettori». E la mente degli elettori pensa che siamo sulla via del recupero. Nello stesso sondaggio del Wsj e della Nbc, più del 40% dei votanti ha predetto che l’economia migliorerà, mentre solo il 18% ha detto che peggiorerà.

Sono numeri difficili da digerire per un candidato repubblicano che ha fatto della competenza economica la sua arma più potente.

Nelle prossime sette settimane - tra dibattiti presidenziali, spot pubblicitari e una campagna elettorale forsennata intorno agli Usa - tutto è possibile.

Ma se il manager Romney venisse sconfitto dal professor Obama, la lezione per candidati presenti e futuri sarà che non è tanto «l’economia, stupido», ma «la direzione dell’economia, stupido».

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York. francesco.guerrera@wsj.com

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« Risposta #55 inserito:: Ottobre 23, 2012, 05:48:52 pm »

editoriali
22/10/2012

Il 6 novembre deciderà il portafogli

 
Francesco Guerrera

Prendi un lunedì sera uggioso nella Grande Mela. 

Io seduto su una poltrona un po’ troppo comoda in un’aula della New York University. Accanto a me, Paul Volcker, il leggendario capo della Federal Reserve che sconfisse l’inflazione negli Anni 80. Davanti a noi, più di 400 persone venute a sentire l’eminenza grigia della politica economica americana degli ultimi quarant’anni.

Ad un certo punto chiedo a Volcker, «Mr. Chairman, secondo lei qual è il pericolo più grande per l’economia Usa in questo momento?». E’ una domanda retorica. La risposta che mi aspetto, che si aspettano un po’ tutti dal lucido e grintoso ottuagenario è un’invettiva contro l’inflazione, un monito alla Fed di oggi di stare attenta all’aumento dei prezzi.

Ed invece, Volcker mi guarda, fa un sorriso un po’ monello, si gira verso il pubblico e dice: «E’ semplice. Il problema più grande dell’economia americana è che il paese è spaccato a metà».

Il resto della risposta non contiene né numeri né complicati termini economici. Solo una diagnosi spassionata di come gli Usa di oggi siano divisi. Tra destra e sinistra, ricchi e poveri, giovani e vecchi, uomini e donne. Volcker, che si è sempre erto al di sopra della politica dei partiti, conclude con una nota d’ottimismo. «Spero che le elezioni ci aiutino a colmare le nostre differenze».

Meno di 24 ore dopo, i due uomini chiamati a colmare quelle differenze, Barack Obama e Mitt Romney, si sono scannati in diretta televisiva in un dibattito presidenziale che sembrava un match tra pesi massimi.

Sentire il presidente democratico e il pretendente repubblicano attaccare i valori e le politiche dell’altro è stata la dimostrazione più evidente di un’America in crisi d’identità. 

La scelta delle elezioni presidenziali del 6 novembre è netta su quasi tutti i temi: dalla politica estera all’aborto, passando per la sanità e la difesa. Il trucco della politica americana degli ultimi 50 anni, che le elezioni si vincono al centro, non sembra funzionare in questa campagna elettorale.

Ma la differenza più inequivocabile tra Obama e Romney è sull’economia. L’elettorato Usa dovrà scegliere tra l’interventismo populista del presidente e il «laissez-faire» individualista del candidato.

Chiunque vinca dovrà, comunque, salvare il paese dal «precipizio fiscale» prima della fine dell’anno, trovando un accordo con il Congresso per postporre gli aumenti di spesa e la fine di esenzioni fiscali che potrebbero causare un’altra recessione.

Ma anche se gli Usa non verranno trafitti da quella spada di Damocle, le conseguenze dell’elezione saranno profonde. Se Obama rimane alla Casa Bianca, «il segretario del Tesoro sarà John Maynard Keynes», si è lamentato uno scetticissimo banchiere di Wall Street.

Voleva dire che ci saranno aumenti di spesa pubblica e rincari delle tasse, soprattutto per i più ricchi (come lui). Sulla spesa il presidente non ha detto granché visto il deficit enorme degli Usa e la riluttanza storica dei politici americani a parlare di costi in campagna elettorale.

Ma sul secondo punto, Obama è stato chiarissimo, dicendo di voler imporre un’imposta del 30% su chi guadagna più di un milione di dollari l’anno. Il Presidente l’ha chiamata «la tassa Buffett», ricordando a tutti che il miliardario Warren Buffett - l’investitore più famoso del mondo - ha spiegato di recente come non sia giusto che lui paghi meno tasse della sua segretaria.

Se l’idea degli uomini del Presidente era quella di usare Buffett come scudo umano contro accuse di socialismo, non ha funzionato. Sono ormai mesi che i repubblicani accusano Obama di voler fare «la lotta di classe» per meschini fini politici. 

Per Romney - un milionario che ha fatto soldi a Wall Street e paga circa il 15% di tasse - le idee di Obama e Buffett distruggerebbero il sogno americano, asfissiando il fervore imprenditoriale che ha creato società quali Microsoft, Google ed Apple.

Nella tradizione della destra americana, Romney vuole che il governo si tolga di mezzo, lasciando gli individui a decidere da soli come diventare ricchi e contenti. Con Romney nell’ufficio ovale, la redistribuzione del reddito, lo stato sociale e la sanità, sarebbero delle Cenerentole da lasciare a sinistrorsi ed europei.

Mitt dice di voler essere un presidente alla Ronald Reagan, tutto sgravi fiscali e liberalizzazioni, mentre Barack promette un secondo quadriennio tra Bill Clinton e Franklin Delano Roosevelt.

Due filosofie politiche ed economiche in pieno conflitto con se stessi ma non con il paese. Uno dei motivi principali per cui la corsa alla presidenza è così in bilico è che le ricette proposte dai due candidati rispecchiano le divisioni dell’America. 

La dura recessione del dopo-crisi ha colpito le classi medie in maniera sproporzionata, perché gran parte del loro patrimonio è sparito con l’implosione del mercato immobiliare. Il risultato è stato un aumento nel divario tra classi sociali. Dal 2008, l’1% dei più ricchi ha ricevuto quasi un quarto del reddito Usa, una cifra enorme.

Se si passa dai salari al patrimonio, aggiungendo gli investimenti ed altre entrate, il divario diventa un baratro. L’1% in questo momento controlla un terzo del patrimonio nazionale statunitense.

Per Romney e i suoi, questo è un fenomeno naturale che dovrebbe spronare altri a lavorare di più e meglio per entrare nel Gotha della ricchezza. Il ruolo del governo, in questo caso, è di facilitare, ma non influenzare il processo.

Per Obama e la sua base, invece, la sperequazione tra ricchi e poveri è «ingiusta» e va rettificata con interventi statali sia sul fronte fiscale che su quello della spesa. Con buona pace di Aristotele e Confucio, in questa dialettica non c’è giusto mezzo. 

Le differenze sono ancora più lampanti per ch

i lascia i numeri a casa e scende nelle strade e nelle piazze. Un giro a New York, come anche a San Francisco e a Houston, dimostra che le grandi auto e le scarpe di pelle italiana dividono le strade con barboni senza tetto e mendicanti vestiti di stracci. 

Non è un caso che quest’economia Usa abbia prodotto due movimenti popolari e populisti - l’Occupy Wall Street a sinistra e il «Tea Party» a destra - che attaccano lo status quo e chiedono cambiamenti radicali (anche se opposti). Nelle urne del 6 novembre, gli americani sceglieranno il leader del mondo libero più con il portafogli che con il cuore.

 
Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New Yorkfrancesco.guerrera@wsj.com 

da - http://lastampa.it/2012/10/22/cultura/opinioni/editoriali/il-novembre-decidera-il-portafogli-pLbXGpI409nZEaWyoXny5I/pagina.html
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« Risposta #56 inserito:: Novembre 08, 2012, 11:28:55 pm »

Editoriali
08/11/2012

I mercati non vanno alla festa

Francesco Guerrera


L’America che si è svegliata mercoledì mattina non è tanto diversa dall’America che era andata a letto martedì sera. Lo stesso inquilino della Casa Bianca, lo stesso Congresso spaccato a metà tra repubblicani e democratici, la stessa economia senza infamia e senza lode. 

 

Eppure... Eppure qualcosa è successo nel segreto dell’urna, tra i pensieri e le fatiche di milioni di cittadini che hanno vissuto la Grande Recessione del 2008-2009, tra le speranze di un Paese che ha fatto dell’ottimismo la sua ragione d’essere.

Il momento più importante della lunghissima nottata elettorale è stato, per me, quando i sondaggi della Cnn hanno rivelato che gli elettori in uscita dai seggi preferivano Barack Obama a Mitt Romney come «gestore» dell’economia. 

 

Quando ho visto gli exit polls ero seduto di fronte all’enorme schermo televisivo in redazione ed ho detto ad un collega, romniano di ferro: «E’ finita. Non ce la farà».

 

Gli americani non sono riusciti a fidarsi del businessman Romney nemmeno dopo quattro anni di recessione e ripresa anemica, con la disoccupazione quasi all’8% - un livello altissimo per gli Usa - e una montagna di debito che sembra il Mount Rushmore.

 

Ci sono, ovviamente, altre ragioni per la vittoria abbastanza facile di Obama - la grande partecipazione di ispanici, neri e donne; un partito repubblicano che ha preso posizioni troppo estreme su temi quali l’aborto e l’immigrazione, ed il «fattore umano» di un Presidente che sembra nato per fare campagna elettorale ed uno sfidante che sembra nato per stare nell’ufficio d’angolo con vista sui grattacieli.

 

Prima delle elezioni scrissi che gli americani avrebbero votato con il portafogli. Martedì, il Paese ha puntato il portafogli verso Obama e gli ha detto: «Hai quattro anni per riempirlo!».

 

Con il pallino dell’economia in mano, il Presidente uscente e rientrante ha il compito di fare meglio del primo quadriennio. 

 

Ce la farà? I mercati ieri non erano proprio ottimisti, con gli indici guida in crollo un po’ in tutto il mondo (bisogna dire che i venti gelidi di recessione provenienti dall’Europa e le immagini violente della Grecia non hanno aiutato il morale).

 

Ma gli investitori hanno la memoria corta e Obama II dovrà fargli dimenticare presto l’indigestione post-elettorale. 

 

Appena ritorna nell’ufficio Ovale, il Presidente si troverà a far fronte a tre questioni importantissime. Prima di tutto, la ripresa economica. A breve termine, la crescita dipende quasi tutta dal «burrone fiscale», il cocktail micidiale di rialzi di tasse e tagli di spesa che potrebbe far ricadere l’America nel baratro della recessione.

Le regole del gioco sono semplici: la Casa Bianca ed il Congresso devono trovare un accordo prima della fine dell’anno per non sprofondare nel burrone. Gli investitori e i banchieri pensano che un compromesso verrà raggiunto ma hanno paura che lo scontro d’interessi politici discordanti renda i negoziati lunghi ed incerti, innervosendo i mercati e invogliando le agenzie di rating a bocciare il debito Usa, come successe nell’agosto del 2010.

 

«Questo film già l’abbiamo visto e non c’è piaciuto per niente», mi ha detto il capo di un grande fondo d’investimento. «Non abbiamo nessuna intenzione di vederne la replica».

 

A lungo termine, però, la questione più importante sarà come stimolare un’economia che sta crescendo ma molto lentamente. Qui tutto dipende dalla Federal Reserve, che ha promesso di tenere i tassi d’interesse bassissimi fino almeno al 2015 e sta pompando miliardi di dollari nell’economia per aiutare sia il mercato del lavoro sia quello delle case. 

 

La ri-elezione di Obama in questo senso aiuta perché, a differenza di Romney, il presidente ha già detto di essere in favore di una politica monetaria espansionista. Anche se il team economico del Presidente cambierà, con l’uscita certa del Segretario del Tesoro Tim Geithner e quella quasi sicura del capo della Fed Ben Bernanke, le politiche di stimolo rimarranno le stesse.

 

Il secondo punto caldo sull’agenda di Obama è di colmare il divario gigante tra la Casa Bianca e Wall Street. Quasi tutti i grandi banchieri di New York si sono schierati con Romney, nella speranza che un Presidente repubblicano smantellasse il labirinto di regole costruito dall’amministrazione precedente.

La vittoria di Obama complica la situazione perché lo zoccolo duro dei fan del Presidente - i sindacati, i lavoratori e le minoranze etniche - vuole punire le banche che hanno contribuito alla crisi del 2007-2008. Allo stesso tempo, però, il Paese ha bisogno di istituzioni finanziarie che finanzino individui ed imprese ed accelerino la ripresa economica.

 

«In un modo o nell’altro, dovremo trovare del terreno comune. Conviene a noi e conviene a lui», mi ha detto uno dei grandi banchieri di Wall Street. Un sentimento nobile ma difficile da realizzare, soprattutto se il Presidente continua con la retorica anti-Wall Street che ha utilizzato spesso e volentieri durante la campagna.

E poi ci sono i mercati. Gli imprevedibili e spesso incomprensibili mercati che reagiscono in maniera rapida e violenta a notizie di tutti i tipi. In un certo senso, questo è il compito più difficile del Presidente in materie economico-finanziarie. Obama si trova di fronte un interlocutore irrazionale con cui non può negoziare.

A giudicare dalla reazione di ieri, gli investitori non hanno nessuna intenzione di lasciare un periodo di «luna di miele» al Presidente. Come il giocatore viziato di football americano di «Jerry Maguire» stanno chiedendo alla Casa Bianca di mostrargli i soldi.

 

Nella notte di martedì, sul podio del suo quartier generale a Chicago, il nuovo/vecchio Presidente ha promesso che «il meglio dell’America deve ancora venire». Prima di applaudire, i mercati, gli investitori e Wall Street vorranno vedere dei fatti. 

 

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York. Francesco.guerrera@wsj.com 

 da - http://www.lastampa.it/2012/11/08/cultura/opinioni/editoriali/ma-i-mercati-non-vanno-alla-festa-pjWW81G8YLzbg9HKUFhSxI/pagina.html
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« Risposta #57 inserito:: Dicembre 03, 2012, 06:46:49 pm »

Editoriali
03/12/2012

L’addio ai bonus che spaventa Wall Street

Francesco Guerrera*


«Forse è venuto il momento di vendere qualche pezzo della nostra collezione d’arte moderna». Per capire la psicologia di Wall Street, bisogna parlare con le mogli dei banchieri. Quella frase, uscita dalla bocca con molto rossetto ma senza ironia di una delle «first ladies» della finanza statunitense, incapsula il momento difficile dei piani alti del settore bancario. 

 

La collezione - che ho visto di persona ed è veramente ottima - è il frutto di decenni di bonus, il prodotto elegante e costoso di una carriera nella corsia di sorpasso del capitalismo.

 

Ora però il raffinato banchiere, la bella moglie, e molti altri come loro, sono al bivio: dopo la crisi finanziaria del 2008, le buste paga che permisero di comprare quadri di Miró e sculture di Henry Moore sono scomparse, ma lo stile di vita altissimo a cui sono abituati è difficile da abbandonare. Negli anni delle vacche grasse, novembre e dicembre erano mesi fantastici per New York, la City di Londra e le altre capitali della finanza: dopo un anno di duro lavoro, banchieri ed operatori di Borsa aspettavano con gioia, soddisfazione e trepidazione di intascare bonus principeschi. Per chi, come me, ha l’onore e l’onere di stare dietro ai grandi del denaro, il periodo pre-natalizio era passato a respingere inviti a bere un altro bicchiere di Dom Perignon in ristoranti d’alto rango. E a ripetere regole deontologiche su pagamenti di cene che sapevo avrebbero fatto rabbrividire i contabili del mio giornale. Non quest’anno: le scosse di assestamento del terremoto finanziario del 2008 stanno facendo tremare i portafogli di Wall Street. La regola semplice ed efficace alla base della finanza mondiale - un’industria dedicata a muovere denaro tra i vari agenti economici in cambio di una fetta sostanziosa dei ricavi - è stata compromessa, forse fatalmente, dal disastro di quattro anni fa.

 

Le previsioni variano ma anche le stime più conservatrici predicono che i bonus del 2012 caleranno del 30-40% dal livello, pure non elevatissimo, dell’anno scorso. E non tutti gli incentivi saranno in contanti. Le nuove regole del gioco del dopo-crisi, almeno in America, stipulano che due-terzi dei bonus siano pagati in azioni delle banche che non possono essere vendute per anni. In realtà, ricevere un bonus dovrebbe già essere un privilegio in un settore che ha perso più di 300.000 posti di lavoro negli ultimi anni. Da giganti americani come Citigroup e Goldman Sachs a rivali europee come Ubs e Deutsche Bank, le banche occidentali hanno buttato fuori dipendenti come fossero alberi di Natale il giorno dopo la Befana.

 

Per i ragazzi di Occupy, e gli altri critici di Wall Street, questa è la giusta fine per una classe dirigente grassa, avida ed arrogante. Perché preoccuparsi di un banchiere che è costretto a vendere un Miró per pagare il botox alla moglie quando ci sono milioni di senza-lavoro da Phoenix a Palermo? Invece di lavorare per dieci milioni l’anno, i signori e le signore nei gessati si dovranno «accontentare» di un milione o due. Sarà dura ma ce la faranno. Argomenti ragionevoli e forse anche «giusti» dal punto di vista etico ma che però dimenticano due fatti fondamentali della finanza: è un settore pressoché indispensabile per la crescita economica; ed è l’unica industria in cui la maggioranza dei lavoratori sono motivati esclusivamente dal denaro.

 

La prova del primo punto sta proprio negli effetti rovinosi della crisi del 2008. Il fallimento di una American Airlines - la più grande compagnia aerea americana - o della General Motors - il gigante automobilistico di Detroit - fa male ai dipendenti e a agli azionisti ma non ha la capacità di distruggere l’economia mondiale.

Bastò invece il collasso di una banca d’affari importante ma non grandissima come la Lehman Brothers per spingere il mondo intero nella recessione, scioccando i mercati e paralizzando il commercio mondiale. E’ una asserzione forse sgradevole ma vera: senza la finanza e i banchieri, l’economia non si può muovere, ma senza il denaro i banchieri non si muovono. Privati dell’incentivo monetario, gran parte di banchieri ed operatori utilizzerebbero la loro intelligenza e talento in maniera diversa. Ho perso ormai il conto dei mancati fisici, scienziati, maestri di scuola, scrittori e matematici che sono finiti in giacca e cravatta per via delle profumatissime ricompense offerte dalla finanza.

 

«E’ il dilemma di noi tutti - mi ha detto un signore di Wall Street -. Vale la pena lavorare come cani tutti i santi giorni se la remunerazione non è più la stessa?».

 

Il pericolo non è tanto che lui, o quelli come lui, lascino. Come i vecchi operai di fabbrica, i veterani della finanza non sanno fare altro e non sono tipi da pensionamento anticipato. Il vero problema è se i giovani di belle speranze di Harvard, Oxford e della Bocconi decidono in massa che la finanza non fa più per loro, perché la vedono come sporca, poco lucrativa od entrambe. O se le banche, incapaci di fare soldi come un tempo, smettono di assumere. Se ciò accadesse, il riflesso condizionato dell’opinione pubblica sarebbe quello di applaudire il ridimensionamento della finanza.

 

Attenzione, però, alle conseguenze a lungo termine. Un «drenaggio dei cervelli» in un settore così fondamentale potrebbe avere serie ripercussioni per il resto dell’economia. La storia del capitalismo insegna che, dopo questo periodo di tumulto e cambiamento radicale, raggiungeremo un «equilibrio», probabilmente con salari più bassi e banchieri diversi, motivati da fattori non solamente legati al soldo. Ma ci vorrà del tempo, forse una generazione intera, perché la manovalanza del denaro impari nuove regole e si adegui a stili di vita diversi e, diciamolo chiaramente, inferiori.

 

Nel frattempo, gli slogan di Occupy dovranno trovare modo di co-esistere con le collezioni d’arte moderna dei ricchi di Wall Street. Che ci piaccia o no.

 

*caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York 

francesco.guerrera@wsj.com 

Twitter: @guerreraf72 

da - http://lastampa.it/2012/12/03/cultura/opinioni/editoriali/l-addio-ai-bonus-che-spaventa-wall-street-Of5D3l88z01sVUalbOBFvN/pagina.html
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« Risposta #58 inserito:: Gennaio 02, 2013, 05:22:34 pm »

Editoriali
02/01/2013

Tasse e politica l’America resta divisa

Fancesco Guerrera*


«Il nostro problema», dice lo splendido Daniel Day-Lewis nel «Lincoln» di Steven Spielberg, «è l’incapacità a comunicare l’uno con l’altro». 

Il presidente americano si riferiva al dialogo tra sordi tra repubblicani e democratici sulla questione della schiavitù nel 19° secolo ma la frase funziona ancora nel 21° secolo. Anzi è lo slogan perfetto per descrivere gli interminabili negoziati tra gli stessi due partiti sul «burrone fiscale», la combinazione di tagli di spesa e aumenti di tasse che negli ultimi mesi ha paralizzato Washington e messo a rischio la ripresa dell’economia americana. 

 

Dopo aver portato gli Usa sull’orlo del «fiscal cliff», il precipizio fiscale, la Casa Bianca e i repubblicani al Congresso hanno trovato un accordo poco prima della fine del 2012, pieno di compromessi, mezze misure e decisioni rimandate.

 

Le imposte sui redditi verranno aumentate per la prima volta in vent’anni ma solo per i più ricchi: chi guadagna $ 400.000 l’anno, o coppie che insieme guadagnano $ 450.000; le stesse persone pagheranno tasse più alte sulle plusvalenze, dal 15% attuale al 20% che era in voga all’epoca di Clinton, mentre le tasse di successione saliranno dal 35% al 40% per eredità superiori ai 5 milioni di dollari.

 

Per quello che riguarda le riduzioni di spesa, invece, 110 miliardi di dollari di tagli già decisi sono stati rimandati di due mesi perché non c’era accordo sul come procedere. 

 

Tutto qui? Dopo settimane e settimane di logorroici dibattiti e accuse incrociate all’altro partito di non volere «mettere ordine nella casa fiscale degli Usa»? Il patto di capodanno evita il crollo nel burrone economico ed il ritorno della recessione ma non risolve nessuno dei problemi fiscali e di deficit che gli Usa si portano dietro ormai da anni.

 

E le incertezze non sono solo economiche. L’America che si è specchiata nei litigi dei partiti sul «fiscal cliff», si è trovata divisa, irritabile e polarizzata – un Paese non sereno e poco sicuro di sé che guarda con ansia al futuro.

«Come mai è così difficile trovare un accordo?» mi ha chiesto la settimana scorsa un vecchio lobbista di Washington, uno che di battaglie politiche ne ha viste e vissute eppure non riusciva a capire il nulla di fatto sul «fiscal cliff».

 

La realtà è che gli Stati Uniti si trovano in un momento particolare della loro storia. I due partiti condividono il potere (i democratici hanno la Casa Bianca e il Senato, i repubblicani la Casa dei Rappresentanti) ma sono nettamente distanziati sul piano ideologico e politico.

 

Entrambi sono stati messi sotto pressione da ali estreme: il «Tea Party» di Sarah Palin per i Repubblicani e la sinistra dei ragazzi di «Occupy» per i Democratici. Il risultato è un divario ideologico che i tradizionali giochi di potere di Washington non riescono a colmare.

 

Come mi ha detto un veterano dell’amministrazione di Bill Clinton l’altro giorno, «Washington non funziona più perché i due partiti sono stati costretti ad uscire da Washington».

 

Le discrepanze sul burrone fiscale sono solo un sintomo di un malessere ben più profondo: l’America è spaccata a metà – dal punto di vista economico, politico e sociale. La sperequazione tra ricchi e poveri è ai livelli più alti del dopoguerra e le difficoltà degli ultimi anni – il crollo del mercato immobiliare e gli altissimi livelli di disoccupazione – hanno esacerbato la divisione tra gli «haves» e gli «have nots», «chi ha» e «chi non ha».

 

Il welfare state, una delle pietre angolari della società americana ed uno strumento importante di ridistribuzione economica, è sull’orlo della bancarotta per motivi demografici – troppi vecchi che si prendono la pensione e le medicine a poco prezzo e non abbastanza giovani per pagare i conti – e politici: la riluttanza storica di Washington ad aumentare le tasse.

 

L’accordo sul «fiscal cliff» doveva essere l’inizio della soluzione ed invece è diventato l’ultimo problema. Le divisioni politiche e la litigiosità del sistema di governo Usa hanno fatto sì che nessuna delle questioni strutturali del debito pubblico e welfare state verrà affrontata.

Vi dò un esempio. Nel 1965, il debito pubblico degli Usa era pari al 38 per cento del prodotto interno lordo. Oggi è al 74 per cento. Tra un decennio sarà un insostenibile 90 per cento e arriverà al 247 per cento tra trent’anni. Nessun Paese può vivere con questi numeri, figuriamoci l’economia più grande del pianeta. 

Ma il patto tra la Casa Bianca ed i repubblicani non fa assolutamente nulla per ridurre quei numeri spaventosi perché rifiuta di far fronte alla scelta fondamentale, e difficilissima, che è di fronte agli Stati Uniti: ridurre le dimensioni del welfare state, tagliando servizi, o aumentare le tasse in maniera decisiva per pagarne le bollette.

Nessuno dei due ingredienti è nella ricetta utilizzata dal vice-presidente Joe Biden e i leader repubblicani per il patto di capodanno. Ed è per questo che l’accordo è rachitico. Un patto piccolo piccolo che permette di dire a Barack Obama e alla leadership repubblicana che l’intesa è stata trovata ma i cui effetti saranno effimeri, come i fuochi d’artificio di capodanno.

 

Dov’è Lincoln quando ne abbiamo bisogno?

 

* È il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York 

francesco.guerrera@wsj.com e su Twitter: @guerreraf72 

da - http://www.lastampa.it/2013/01/02/cultura/opinioni/editoriali/tasse-e-politica-l-america-resta-divisa-aQtwFqEXkzQwe4Iyai0DcO/pagina.html
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« Risposta #59 inserito:: Marzo 10, 2013, 11:25:27 am »

Editoriali
10/03/2013

Wall Street, l’isola felice (che non c'è)

Francesco Guerrera


Ci vorrebbe Edoardo Bennato per raccontare il nuovo record raggiunto dal mercato azionario americano questa settimana. L’isola felice della Borsa Usa è proprio l’isola che non c’è, un’utopia dei mercati che non riflette la situazione economica della gente comune, i malesseri politici in Europa, America e Cina, e nemmeno il punto di vista di aziende ed imprenditori. 

 

Ero al telefono con uno dei pochi traders che è ancora nella vecchia Borsa di New York - e non davanti ad un computer nel New Jersey o alle Hawaii - martedì mattina, quando l’indice guida dei mercati mondiali Usa, il Dow Jones, ha passato il record di 14164.63 punti . Mi aspettavo un’esplosione di gioia, con altri operatori che gli avrebbero strappato la cornetta per gridare la loro esultanza. Sotto sotto, speravo di essere invitato al party del record, con champagne e caviale per celebrare un momento storico. Ed invece c’è stato un lungo momento di silenzio e poi un sospiro, forse sollievo, forse noia. «Vabbe’… vedremo», mi ha detto il mio trader. «Vedremo». Né grida, né inviti, né caviale.
Un giorno qualunque nella vita dei mercati.

 

Una reazione così sarebbe stata incredibile nell’ottobre del 2007, quando il Dow Jones raggiunse il record precedente. Ma quello era prima. Prima della crisi finanziaria, prima della Grande Recessione che ha fatto perdere il lavoro e la casa a milioni di americani. Prima del crollo di un sistema finanziario che ha paralizzato l’economia mondiale. Prima. Gli eventi degli ultimi cinque anni e mezzo hanno reso mercati, investitori e risparmiatori più tristi e diffidenti, meno pronti a stappare lo champagne.

 

È un peccato perché la ripresa dei mercati azionari Usa è stata straordinaria. Il Dow Jones è più che raddoppiato dal marzo del 2009, subito dopo la crisi, ed è aumentato di più del 9% dall’inizio dell’anno. Ci sono voluti solo mille e quattro giorni lavorativi per battere il precedente primato - un passo velocissimo se si pensa che dopo la Grande Depressione, il Dow Jones andò dal 1929 al 1954 senza toccare un record. 

Le statistiche non sono fine a se stesse. In America e nel mondo, il valore dei mercati conta. Gran parte dei risparmiatori investono in azioni, sia direttamente sia attraverso fondi pensione. Quando i mercati aumentano, l’effetto è simile alle slot machines di Las Vegas: i giocatori diventato più ricchi nello spazio di pochi minuti senza veramente fare granché (purtroppo, il meccanismo funziona al contrario quando i mercati crollano). Gli economisti lo chiamano «effetto-ricchezza», un senso di benessere finanziario che aiuta la psicologia dei consumatori e la voglia di fare delle aziende.

 

Ma se l’effetto c’è, per ora non si vede. Le cicatrici della crisi sono ancora fresche nella mente e nel portafogli di Joe and Jane Blogg (i signori Rossi made-in-Usa) per farli ritornare a spendere e spandere quando vedono che il Dow Jones è ad un nuovo record. E non è solo un problema di psicologia di massa. Gli stessi fattori che hanno portato a questo ritorno di fiamma del mercato azionario sono anche alla base dello scetticismo di operatori ed investitori. C’è un solo grande deus ex machina nel miracolo del Dow Jones e si trova a Washington, dentro ad un palazzone grigio e pesante che sembra una fortezza medievale: la Federal Reserve.

 

Ben Bernanke e i suoi stanno facendo di tutto per rivitalizzare un’economia che era moribonda dopo la crisi. Le misure convenzionali - tenere tassi d’interesse bassissimi - sono ormai quasi inutili. Con i politici latitanti ed incapaci di riformare il sistema fiscale - che significherebbe alzare le tasse o ridurre pensioni e sanità - gli economisti di Ben si sono messi a pompare soldi nell’economia. Ogni mese, la Fed spende 85 miliardi di dollari per comprare i buoni del Tesoro emessi dal governo - il denaro passa da una parte di Washington all’altra. Ma il semplice fatto che la grande Fed sta comprando in massa ha depresso i tassi d’interesse sul debito americano, spingendo gli investitori a cercare investimenti più lucrativi. Il mercato azionario è stato uno dei principali destinatari del denaro stampato da Bernanke. Fondi pensione, hedge funds e persino piccoli investitori hanno comprato azioni, ma più turandosi il naso che per convinzione.

 

Il mondo delle aziende li ha aiutati, annunciando utili decenti e dimostrando che gli anni di austerità durante la crisi sono serviti a tagliare spese, ridurre debiti e scegliere strategie più sobrie della crescita a tutti i costi. Con bilanci che straripano di denaro ma senza grandi idee di come investirli, molte società hanno deciso di dare soldi indietro agli azionisti. I dividendi e i riscatti di azioni sono a livelli record - un altro motivo per cui vale la pena comprare le azioni anche se l’economia è ancora giù di corda.

 

Questi due fattori - i soldi della Fed e gli utili delle aziende - sono le due chiavi per capire il mistero dei mercati. Gli investitori sono come la moglie bella e giovane di un signore anziano e ricco: sono attratti dal mercato per i soldi - 85 miliardi di dollari al mese, 300 miliardi di dividendi l’anno, 117 miliardi di riscatti azionari nel 2013 - ma non c’è amore vero. 

 

Per gli ottimisti, questo è un buon segno. Immaginatevi, dicono, come saliranno i mercati quando l’economia ricomincerà veramente a tirare. Per loro, i robusti numeri sulla disoccupazione usciti venerdì sono il segno che la ripresa americana sta finalmente accelerando. Attenzione però all’altra faccia della medaglia: un mercato che ha raggiunto il record senza più tanta benzina nel serbatoio è un mercato fragilissimo. Basterà poco, un evento esterno - un lungo periodo d’instabilità politica in Italia, per dirne una - o dei dati non buoni per l’economia americana od europea per far correre gli investitori verso l’uscita di sicurezza. 

Buon viaggio verso l’isola che non c’è.

 

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York. francesco.guerrera@wsj.com e su Twitter: @guerreraf72. 

da - http://www.lastampa.it/2013/03/10/cultura/opinioni/editoriali/wall-street-l-isola-felice-che-non-c-e-h4gFsSQnp9FrvUs6W7FNoI/pagina.html
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