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Autore Discussione: FRANCESCO GUERRERA.  (Letto 50691 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Marzo 25, 2013, 07:21:34 pm »

Editoriali
25/03/2013

E Wall Street scopre l’incubo di una nuova crisi

Francesco Guerrera


«Ma Cipro è vicina alla Sicilia, vero?». La domanda dell’investitore newyorchese incapsula il momento di confusione dei mercati internazionali di fronte all’ultima crisi europea. Gli occhi di operatori e fund managers sarebbero tutti su Cipro se solo sapessero dov’è. Dopo le paure sull’Irlanda e il Portogallo, l’Italia e la Grecia, Wall Street non si aspettava certo che Cipro diventasse l’ago della bilancia dell’euro. 

 

Nel peggiore dei casi, Cipro potrebbe essere con l’acqua alla gola già oggi, perché la Banca centrale europea ha minacciato di tagliare aiuti al sistema finanziario del Paese. Il tragitto da lì all’uscita dall’euro è brevissimo, come andare dal bungalow a una delle spiagge di Limassol. 

 

Per gli investitori americani il fatto che fa molta paura è che un’isola la metà del Connecticut possa mettere a repentaglio l’integrità della moneta unica del più importante partner commerciale degli Usa. Un mio amico banchiere, fan delle commedie di «Austin Powers», ha ribattezzato Cipro «il Mini Me» della Grecia, molto più piccola ma non meno pericolosa. 

 

Non fatevi illudere dalla calma relativa dei mercati azionari. Le Borse non si sono mosse granché la settimana scorsa perché la situazione cipriota è complicata, fluida e spesso indecifrabile. Quando parlo con investitori e operatori, però, non li sento calmi per niente: sono quasi tutti col dito sul pulsante del «vendere» ma aspettano notizie chiare prima di premerlo.

 

I problemi di Cipro sono sintomatici degli squilibri, sfasature e imperfezioni di un’Europa che continua a chiamarsi unita ed è invece sempre più sfilacciata. Il peccato originale nel caos di Cipro è stato l’accordo tra il governo e l’Unione Europea che ha imposto una tassa sui depositi bancari.

 

Si credevano furbi i burocrati di Nicosia e Bruxelles, pensando che le vittime principali della tassa sarebbero stati i ricconi russi che per anni hanno evitato le tasse di Putin mettendo il denaro nella Banca Laiki e Bank of Cyprus. 

 

Ed invece si sono trovati con centinaia di persone normali in coda ai bancomat per riprendersi i loro soldi. Persino il governatore della banca centrale di Cipro Panicos Demetriades, il cui nome è tutto un programma, ha predetto che almeno il 10% dei depositi sarà scomparso se e quando le banche riapriranno questa settimana. Visto il frangente di quasi panico, la stima di Panicos sembra ottimista.

 

Tassare i depositi è stato un errore clamoroso. A Cipro, come a Wall Street, le banche sono sempre e comunque in competizione con i materassi.
Se i risparmiatori non credono che i soldi che depositano allo sportello oggi saranno ancora lì domani, li mettono sotto al letto.

 

La tassa di Nicosia ha creato un’economia del materasso dall’oggi al domani, distruggendo la seconda banca di Cipro - la Laiki che non riaprirà mai più e dovrà essere salvata dal governo - e creando un circolo vizioso da cui sarà difficilissimo uscire. 

 

La fiducia è l’ingrediente più importante per la stabilità del settore finanziario. Investitori, risparmiatori e contribuenti perdonano molto alle banche, basta pensare ai miliardi spesi dal governo americano per salvare le varie Citigroup, Aig e Bank of America durante la crisi del 2007-2009.

 

Ma la fede nella santità del sistema finanziario non è un bene rinnovabile. Una volta persa, non si recupera più. Ed è per questo che gente come Makis Adams, un impiegato della Banca Laiki, ha detto ai miei colleghi del Wall Street Journal che si prenderà tutti i suoi soldi ed emigrerà in Australia con moglie e due bambini. Non crede più nelle parole ormai vuote di governi e banchieri.

 

Cosa succederà ora? Dipende tutto da come i mercati interpretano il pasticciaccio di Cipro. La parola che nessuno vuole sentire è «contagio». 

 

È possibile che Cipro precipiti nel caos finanziario, rimanga senza banche ed esca dall’euro senza compromettere la stabilità della moneta unica, ma solo se gli investitori sono convinti che rimarrà un caso isolato.

Persino nei momenti più bui della crisi precedente, i mercati erano rassegnati all’uscita della Grecia ma non avevano mai veramente creduto che l’Italia o Spagna fossero in pericolo. Il miracolo dovrà ripetersi per evitare che Cipro diventi il casus belli della fine dell’euro.

 

I super-scettici come Mark Grant, uno degli investitori americani che di Europa sa davvero, non sono convinti. «Nello spazio di due settimane siamo passati da zero parole su Cipro alla Crisi di Cipro»; Grant, che lavora per la Southwest Securities, ha scritto ai suoi clienti venerdì mattina: «Se può succedere a Cipro, può succedere in qualsiasi altro Paese della zona-euro». 

 

Speriamo che si sbagli. Dopo il macello di Cipro, nessun governo sarà così stupido da contemplare una tassa sui depositi, questo è certo.
Ma il contagio finanziario, come la donna della canzone degli U2, si muove in maniera misteriosa. Il lato negativo dell’integrazione economica europea è che i flussi di denaro possono andare da un paese all’altro o fuoriuscire dall’Ue nel giro di pochi minuti.

 

I risparmiatori italiani e spagnoli, in teoria, potrebbero facilmente aprire un conto in Germania e mettere i soldi lì. Così se l’euro dovesse esplodere, almeno riceverebbero solidi marchi teutonici invece di svalutatissime lire e pesetas. E le società potrebbero non solo evitare
d’investire in Europa visto la totale incertezza economica e politica ma cominciare a chiudere fabbriche e uffici in molti Paesi.

 

Per ora in pochi sono ricorsi a questi estremi rimedi. La speranza, si dice, è l’ultima a morire e la speranza in questo caso è che l’alleanza Draghi-Merkel, possa mettere pezze alle falle europee fino a quando l’economia del continente si riprende.

 

Il bailamme di Cipro aggiunge un nuovo livello di difficoltà a questo atto di equilibrismo politico ed economico, e riporta in primo piano lo spettro del contagio. Da questa settimana, gli occhi del mondo sono su Italia e Spagna. Per fortuna, o purtroppo, quelle due gli investitori sanno dove trovarle sulla mappa.

 

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal. 

Francesco.guerrera@wsj.com e su Twitter:@guerreraf72 .

da - http://lastampa.it/2013/03/25/cultura/opinioni/editoriali/e-wall-street-scopre-l-incubo-di-una-nuova-crisi-ZztNqDPTL7RaykkcddJMjI/pagina.html
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« Risposta #61 inserito:: Aprile 07, 2013, 06:33:59 pm »

Editoriali
07/04/2013

Lo strappo dei banchieri centrali

Francesco Guerrera

«Tre uomini soli sono al comando». Le parole di Mario Ferretti, che lui usò al singolare per immortalare Fausto Coppi, tornano utili per descrivere il momento unico della finanza mondiale.

Tre uomini - Ben Bernanke, Mario Draghi e, da questa settimana, Haruhiko Kuroda - sono al comando dell’economia del pianeta. Dietro i tre banchieri centrali d’America, Europa e Giappone, un gruppone d’investitori che segue ogni loro movimento con un solo obiettivo: fare soldi nonostante le difficili condizioni dei tre grandi blocchi del cosiddetto mondo sviluppato.

Il frangente è quasi storico. Dopo la crisi finanziaria del 2008-2009, i grandi signori del capitalismo - le banche, le società e i fund managers - hanno abdicato la loro supremazia sui mercati. Al loro posto sono ascesi i burocrati di Washington, Bruxelles e Tokyo su un trono sorretto dalle pile di denaro stampate per resuscitare le economie di mezzo mondo.

 

La Federal Reserve, la Banca Centrale Europea e la Banca del Giappone hanno già iniettato 4700 miliardi di dollari nelle vene del capitalismo mondiale. Tanto per darvi un’idea, la somma è più del doppio del prodotto interno lordo dell’Italia. Le misure annunciate questa settimana da Kuroda per sconfiggere la depressione che affligge il Giappone da decenni, potrebbero aggiungere altri 1400 miliardi. 

Le dosi da cavallo sono giustificate. La crisi di cinque anni fa ha paralizzato mercati, consumatori ed aziende. Il crollo della Lehman Brothers, la recessione negli Usa ed in Europa, e l’incertezza sul futuro hanno forzato i tre attori principali a prendere decisioni razionali ma deleterie per l’economia mondiale. 

 

I mercati si sono buttati subito su beni-rifugio quali il dollaro e le obbligazioni del governo americano, lasciando società ed individui senza denaro per prestiti e mutui. I consumatori spaventati dalla crisi, hanno fatto catenaccio - ripagando debiti, risparmiando ogni spicciolo e riducendo consumi discrezionali come le cene al ristorante, la macchina nuova e le vacanze all’estero. E le aziende non sono state da meno, tagliando costi e posti di lavoro e rimandando grandi investimenti fino a quando la situazione non migliora. 

«Era l’economia del “non vale la pena”», mi ha detto un banchiere di Wall Street. «Nessuno voleva rischiare».

E allora a rischiare sono state le banche centrali. Il ragionamento di Draghi and company è stato: a mali estremi, estremi rimedi. Se i motori dell’economia hanno paura di spendere denaro, abbassiamo il costo del denaro. E diciamo ai mercati che le nostre misure continueranno fino a quando non vediamo risultati concreti. O, come disse proprio Draghi, «faremo tutto il possibile» per salvare l’economia europea. E quella americana. E quella giapponese.

 

E’ per questo che parlo di momento storico. Un intervento monetario così massiccio e co-ordinato dalle tre banche centrali più importanti del mondo (sorry, Banca d’Inghilterra…) non si era mai visto.

Anche i risultati sono senza precedenti. Dopo un primo periodo di assestamento, e con la pausa della crisi europea, i mercati hanno risposto con entusiasmo alle mosse dei banchieri.

Tra tassi d’interesse bassissimi, interventi nel mercato del reddito fisso e svalutazioni monetarie, gli ultimi anni sono stati un paradiso per gli speculatori. Bernanke e i suoi lo hanno detto ripetutamente: vogliamo che gli investitori rischino di più perché solo quando gli «spiriti animali» di Keynes governano i mercati, le economie possono ritornare a crescere.

 

Il gruppone degli investitori ha seguito gli uomini al comando. Più rischio? Ecco i mercati azionari in America toccare nuovi record. Più rischio? Ecco i buoni del tesoro italiani e spagnoli vendere come churros appena sfornati. Più rischio? Certe obbligazioni «esotiche» che pensavamo, e speravamo, dimenticate dopo la crisi sono di nuovo di moda tra investitori grandi e piccoli.

Il bello, per gli investitori, è che questa corsa verso le parti meno sicure dei mercati finanziari non è stata sanzionata, anzi perfino incoraggiata, da banche centrali alla disperata ricerca di crescita. E’ come se dei genitori dessero il permesso ai figli teenager di fare una festa con alcol e marijuana quando sono via per un paio di giorni.

 

Come finirà? Dipende tutto dal quando le banche centrali decideranno di mettere fine all’era del permissivismo. William McChesney Martin, Jr, che fu a capo della Fed dal 1951 al 1970, disse che il ruolo della banca centrale è di portare via la coppa del punch quando la festa incomincia a farsi interessante.

Per ora, Bernake, Draghi e Kuroda non fanno altro che ri-riempire la coppa. Prima o poi, però, ritorneranno in cucina e ritireranno i miliardi di stimolo, lasciando i mercati a cavarsela da soli.

I banchieri centrali giurano che quel momento è molto lontano, che le economie sono ancora troppo deboli, lo spettro dell’inflazione inesistente. I mercati per ora ci credono ma gli investitori più intelligenti sanno che stanno giocando alla roulette russa con le banche centrali.

 

«E’ tutta una questione di tempo», mi ha detto il capo di uno dei più grandi fondi d’investimento americani questa settimana. «Quando la musica smette, in molti si troveranno senza sedia».

Il problema più serio, però, è che tutto questo stimolo sembra solo aiutare gli speculatori. L’economia reale rimane debole, sia in Europa, sia in America - basta guardare ai dati sul mercato del lavoro Usa usciti venerdì.

Vista la latitanza delle forze politiche, che non vogliono assolutamente rischiare l’impopolarità con misure di austerità o aumenti di tasse, i tre banchieri non hanno scelta: devono continuare a pompare denaro fino a quando l’economia non si riprende. Anche se stanno creando bolle speculative. Anche se qualche investitore ci perderà la camicia e forse anche di più.

Il vero pericolo per i tre uomini al comando è che la loro fuga si riveli una corsa verso il nulla.

 

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York 

francesco.guerrera@wsj.com 

e su Twitter: @guerreraf72 

da - http://lastampa.it/2013/04/07/cultura/opinioni/editoriali/lo-strappo-dei-banchieri-centrali-hkd7SZ1CAxq5FQxUxwSwkO/pagina.html
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« Risposta #62 inserito:: Maggio 21, 2013, 07:05:23 pm »

Editoriali
20/05/2013 - la finanza USA

Wall Street il malato è guarito

Francesco Guerrera


Il toro di Wall Street è pronto a caricare. Dopo anni di vacche magre, le banche americane sono di nuovo all’attacco, decise a recuperare il tempo, e i soldi, perduti durante la crisi finanziaria. 

Me l’ha spiegato l’altro giorno uno dei signori della finanza americana, mentre approfittavamo della prima giornata primaverile a New York per fare una passeggiata nel Financial District.

Quando siamo arrivati al toro – la famosissima scultura in bronzo di Arturo Di Modica – mi ha detto: «Finalmente ci sentiamo così». E ha puntato alla massa bronzea dell’animale, con le narici dilatate, i muscoli tesi e gli occhi a palla. Pronti all’assalto.

Se la mia fonte ha ragione, la rinascita di Wall Street sarà un cambiamento importante con conseguenze sia per l’economia mondiale che per il tessuto sociale americano. 

Dopo la crisi del 2007-2008, l’industria finanziaria si è ristretta e non solo nei numeri. Con politici e opinione pubblica contro, gli utili a picco e i licenziamenti a migliaia, Wall Street era come un super-eroe che aveva perso i suoi poteri. 

Fiacca, debole e depressa.

Chi i soldi li aveva fatti – i banchieri 50enni che si erano arricchiti durante il boom che ha preceduto il crac del 2007 – se n’è andato in pensione. Chi ancora i soldi li voleva fare, se n’è andato in un hedge fund; e chi una volta sarebbe stato attirato dalla finanza come gli orsi dal miele – i giovani laureati di Harvard, Yale e Mit – se n’è andato da Google, Twitter o da qualche startup di belle speranze. 

Su scala globale, le banche del 2013 guadagnano circa 100 miliardi di dollari all’anno meno delle banche nel 2006 – un crollo nei ricavi di quasi un terzo. Il calo nelle entrate si è ripercosso sull’occupazione. Oggi ci sono più di 200.000 persone al mondo con lo sfortunato titolo di «disoccupati della finanza». 

Negli ultimi sei anni, le capitali dei capitali – New York, Londra, Francoforte, Milano – hanno dovuto far fronte alla drastica contrazione di una delle più grandi fonti di crescita per l’economia locale: i banchieri e gli operatori di Borsa che spendevano e spandevano su case, ristoranti e Dom Perignon.
 
I politici hanno preso la palla al balzo. Spinti da fatti incontrovertibili – le responsabilità delle banche durante la crisi – e opportunismo populista – un’opinione pubblica spronata dai ragazzi di «Occupy» che voleva dei colpevoli per il disastro economico del 2007-2009 – il Congresso, la Commissione Europea e le autorithy nazionali hanno creato il più complesso e duro quadro normativo dai tempi della Grande Depressione degli Anni 30.

Il che non vuol dire che le banche siano delle vittime innocenti. Diciamolo chiaro e tondo: Wall Street andava ridimensionata. Gli eccessi del pre-crisi – i bonus assurdi, il dimenticarsi dei clienti per fare soldi in proprio, l’arroganza rozza e insopportabile – avevano fatto sì che in pochi abbiano rimpianto le batoste prese dal toro durante la corrida degli ultimi anni.

Ma quel ciclo sta ormai per finire per due ragioni: perché le banche sono cambiate, sia dal punto di vista del business che, si spera, da quello della morale; e perché la società, la politica e persino la gente comune ha bisogno di loro, anche se non lo ammettono. 

«È come una persona che mangia male e non si riguarda e viene colta da un infarto», mi ha detto il capo di una banca d’affari americana. «Ti dà una scossa che ti fa riconsiderare tutto».

La Wall Street in convalescenza è certo diversa dalla Wall Street grassa e arrogante di prima del crollo. Gente come Jamie Dimon, capo dell’enorme J.P.Morgan, o Lloyd Blankfein, chief executive di Goldman Sachs, un tempo ammirata e ora vituperata, parlano di responsabilità sociale, di rispetto per le regole e di onestà verso i clienti – concetti nuovi ma encomiabili, soprattutto se sinceri.

Ed è anche vero che le fonti di reddito per la finanza del futuro saranno molto diverse, e meno lucrose, che in passato. Le nuove regole non permettono più alle banche di caricarsi di debito come un ciclista con gli steroidi e di scommettere con il proprio denaro. Attività che un tempo erano molto redditizie – come la vendita di prodotti esotici che nessuno mai capiva – sembrano essere state consegnate ai libri di storia. 

Come mi ricorda sempre una delle mie fonti: «Ma dai, vai a scrivere di qualcos’altro che non c’è niente di sexy qui». La nuova finanza è «boring», noiosa e banale.

Forse ha ragione. Ma per il momento, io un occhio sulla finanza ce lo terrei. Zitta, zitta, Wall Street si è ricostruita. Gli utili sono in salita – la JP Morgan l’anno scorso ha registrato un record di profitti – i mercati sono in rialzo e le regole o sono già note (e quindi «fatta la legge, trovato l’inganno») o in grave ritardo.

La verità e che, in un sistema capitalista, le banche svolgono funzioni fondamentali che non possono essere sostituite. «Trasformare» i depositi dei risparmiatori in prestiti a società, compratori di case e imprenditori è la linfa vitale di ogni economia di mercato.

Gli uomini e le donne della finanza questo lo sanno ed è per questo che si sentono pronti all’assalto: l’economia lo richiede, la società ne ha bisogno e né politici, né Occupy possono impedirlo.

«O con noi o niente», è la visione, forse un po’ manichea, di uno dei giovani manager che stanno prendendo potere nella nuova Wall Street. 

Ma la fortuna della finanza – non c’è altra industria che sia così indispensabile – è anche il suo più grande test: avere un ritorno di fiamma che non bruci il resto dell’economia mondiale come in passato.

Il toro di Wall Street possiede una forza immensa. Ma se non viene indirizzata verso il bene pubblico, quel povero animale finirà come tanti altri tori con troppa energia e non molta intelligenza.


Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal. 

francesco.guerrera@wsj.com e su Twitter @guerreraf72 

da - http://lastampa.it/2013/05/20/cultura/opinioni/editoriali/wall-street-il-malato-e-guarito-P5vwR2LxYVWlmxbR9A9xBO/pagina.html
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« Risposta #63 inserito:: Giugno 22, 2013, 05:52:25 pm »

Editoriali
22/06/2013

Le tre malattie che fiaccano mr. mercato


Francesco Guerrera

Mr. Market sta male.


I vecchi marpioni di Wall Street si riferiscono al mercato come se fosse una vecchia conoscenza e lo chiamano «il Signor Mercato». 

Negli ultimi giorni, questo signore di bella presenza ma di una certa età ha avuto problemi di salute che potrebbero presagire un crollo più serio. Dopo anni in cui era stato trattato con i guanti bianchi, Mr. Market è stato malmenato in tre continenti: dagli Usa alla Cina e persino in Europa. 

In America, le parole chiare ma preoccupanti di Ben Bernanke – un altro signore di bella presenza – questa settimana hanno fatto calare la pressione a Mr. Market.

Il capo della Federal Reserve ha detto che, tra pochi mesi, la banca centrale americana incomincerà a tagliare lo stimolo che sta pompando nei mercati dai tempi della crisi finanziaria. 

Bernanke ha pure aggiunto che la Fed vorrebbe chiudere il rubinetto degli aiuti l’anno prossimo perché l’economia americana sta finalmente raggiungendo velocità di crociera.

In teoria, il messaggio dovrebbe essere stato positivo. Una di quelle scene hollywoodiane in cui il paziente – in questo caso il prodotto interno lordo Usa – si sveglia dal coma, abbraccia la famiglia, ed esce dall’ ospedale piangendo lacrime di gioia.

Ma il signor Mercato, ed i signori del mercato, non l’hanno presa così. Il Dow Jones Industrial Average è crollato di 500 punti mercoledì e giovedì. In meno di un mese, questo barometro delle borse mondiali ha perso più del 4%, trascinandosi dietro indici di mezzo mondo – dall’ Hang Seng di Hong Kong al MIB di Milano, che è calato di quasi l’8% dall’inizio dell’ anno.

«Mr. Market ci sta dicendo che non crede che l’economia americana può continuare a marciare senza la spinta della Fed», mi ha detto uno dei veterani della borsa di New York. 

Fino a qui, il ragionamento non fa una grinza: la ripresa americana è lentissima in gran parte perché i consumatori ed il mercato immobiliare, i grandi motori dell’ economia Usa, stanno mancando all’appello.

Ma il ritiro degli aiuti Fed presagito da Bernanke – il famoso «tapering» di cui parlai due settimane fa – sta avendo degli effetti sui mercati che non hanno quasi niente a che fare con l’economia reale. 

Uno dei risultati meno appetibili delle politiche di stimolo della banca centrale americana è stato quello di scatenare un’onda di speculazione. Non contenti dei tassi d’interesse bassissimi offerti dai beni del tesoro, e aiutati dal costo stracciato del debito, investitori di tutti i tipi si sono buttati su beni ad alto rischio. 

D’improvviso, le obbligazioni «spazzatura» (il nome è tutto un programma…) emesse da aziende con bilanci ballerini sono diventate super-popolari. Lo stesso è valso per le azioni di mercati emergenti come il Brasile e la Tailandia e le divise di paesi ad alta crescita ma con tanti pericoli, quali le Filippine e l’India.

L’ intervento di Bernanke ha cambiato le carte in tavola. «E’ stato come se uno avesse gridato “fuoco” in un cinema pieno di persone», è stato il commento, un po’ esagerato, di un banchiere mio amico. Gli investitori sono corsi tutti verso l’uscita di sicurezza riscoprendo beni-rifugio come il dollaro.

L’America non è più amica di Mr. Market ma il signore azzimato non ha tante alternative in Asia o in Europa. 

La Cina è in crisi per la prima volta in almeno un decennio. Un Paese che nell’ economia globale ha ricoperto il ruolo che Andrea Pirlo ricopre nella Nazionale – una certezza di cui non ti devi mai preoccupare - sta diventando un’ incognita che può essere o spettacolare o pericolosa, tipo Mario Balotelli.

La combinazione di un rallentamento economico e inflazione che sale è una miccia accesa che il nuovo regime di Pechino sta facendo fatica a spegnere. 

Le voci dall’ interno parlano di un Pil che sta crescendo «solo» del 5-6%, meno delle stime ufficiali e, soprattutto, molto meno del 9-10% a cui la Cina ed il resto del mondo si erano abituati. Ma con l’inflazione in agguato, le autorità cinesi non possono usare il manuale degli anni passati che prevedeva aiuti enormi da parte del governo e delle banche statali. 

Anzi, la banca centrale cinese sta strizzando le banche per evitare che prestino soldi in maniera inconsulta. Nel frattempo, però, le imprese ed i consumatori made-in-China sono a corto di denaro per investire e spendere – una situazione che esacerba il rallentamento economico. E’ un circolo vizioso che potrebbe portare a cambiamenti fondamentali e conseguenze geopolitiche di enorme importanza.

E poi c’è l’Europa. E’ estate e Mr. Market, che è americano doc, con le scarpe da tennis bianche e i pantaloncini bermuda un po’ stretti, potrebbe pensare a rilassarsi nel vecchio continente, magari nel Mediterraneo. 

Dunque vediamo un attimo: la Grecia è di nuovo nella crisi totale e la comunità internazionale ha persino minacciato di tagliare gli aiuti se il governo di Atene non manterrà le sue promesse di austerità. 

La Spagna, magari? Be’ lì la disoccupazione è a livelli da terzo mondo, molte banche sono tra la vita e la morte e la crescita è anemica. «What about Italy?», potrebbe chiedere Mr. Market. Sta meglio delle prime due ma, diciamoci la verità, tra incertezze politiche ed un’ economia in retromarcia non sembra proprio un’isola felice.

C’è sempre la Germania, no? L’efficienza teutonica ecc. ecc. Non c’è dubbio che la Germania è il proverbiale monocolo nella terra dei ciechi. Ma negli ultimi mesi persino la locomotiva tedesca è stata rallentata dalla crescita nell’ euro che rende più care le esportazioni dei beni «in Deutschland hergestellt».

Povero Mr Market, con questi chiari di luna, sarà difficile dormire sonni tranquilli.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal. 

Francesco.guerrera@wsj.com 

e su Twitter:@guerreraf72. 

da - http://lastampa.it/2013/06/22/cultura/opinioni/editoriali/le-tre-malattie-che-fiaccano-mr-mercato-u8EK2Watd8lu5ZzRRuC4pJ/pagina.html
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« Risposta #64 inserito:: Agosto 25, 2013, 05:06:14 pm »

Editoriali
25/08/2013

Wall Street crimini senza colpevoli

Francesco Guerrera


Il capro espiatorio della crisi finanziaria ha il volto angelico e l’accento francese di Fabrice Tourre, un giovane ex trader di Goldman Sachs. 

Un paio di settimane fa, una giuria riunita nella corte federale di Manhattan ha deciso che Tourre aveva defraudato gli investitori con una delle obbligazioni «tossiche» vendute da Goldman poco prima del crollo del mercato delle case americano.

Tourre, che a Wall Street è famoso per un’email a una fidanzata in cui si ribattezzò «il favoloso Fab», non andrà in prigione perché il processo era civile. Ma questo ragazzotto cresciuto nei sobborghi di Parigi potrebbe passare alla storia come il più grande scalpo preso da giudici e procuratori per infrazioni commesse durante la Grande Recessione del 2008-2009.

Il fatto che un trader sconosciuto e senza tante responsabilità possa diventare il nemico pubblico numero uno per una crisi che ha messo in ginocchio l’economia mondiale è sconcertante.

A cinque anni dagli eventi storici del 2008 – il crollo di Lehman Brothers, la paralisi del commercio internazionale e una lunga, gelida recessione negli Usa e in Europa – non ci sono colpevoli di rango.

Banche e individui hanno pagato centinaia di miliardi di dollari per risarcire le vittime di una bolla immobiliare e finanziaria senza precedenti.

Ma, per ora almeno, il favoloso Fab è l’unico a essersi alzato dal banco degli imputati dopo essere stato giudicato colpevole.

Questa mancanza di condanne e condannati è forse uno dei motivi per cui la crisi sembra ancora così vicina e fa ancora paura: senza capri espiatori, la catarsi è più difficile. Con un’economia americana che, come ha confermato la Federal Reserve questa settimana, è senza infamia e senza lode, recuperare dal trauma di mezzo decennio fa è ancora più complicato.

Ma la domanda vera è se la scarsità di rei sia il prodotto della scarsità di reati. Se, nonostante tutto, la crisi sia stata causata non da crimini ma da errori, enormi ma commessi in buona fede. 

È una questione che divide l’opinione pubblica americana e il mondo finanziario e che diventerà ancora più importante mentre ci si prepara a commemorare il 15 settembre, l’anniversario del collasso di Lehman.

Un bel pezzo del ceto politico – soprattutto tra i democratici di sinistra – e della «gente comune» – chi scrive lettere ai giornali (e ai giornalisti, a giudicare dal mio inbox…), i blog, gli attivisti che proteggono risparmiatori e consumatori etc. – si sta strappando i capelli.

In America si dice spesso che la frode fiscale è un crimine «senza vittime», nel senso che ne risente solo il governo, ma per i critici di Wall Street, la crisi finanziaria sembra essere un crimine senza colpevoli.

Com’è possibile – si chiede gente come Sheila Bair, che era a capo di una delle authority di settore durante il periodo caldo del 2008-2009 – che un’enorme parte dell’economia crolli sotto il peso di strumenti finanziari di dubbio uso e che nessuno ne paghi le conseguenze?

Il corollario è che regolatori e procuratori non hanno fatto il proprio mestiere, incapaci di trovare le prove per mettere in galera nomi importanti.

La risposta ufficiale a queste invettive è arrivata questa settimana dal ministro della Giustizia dell’amministrazione Obama. In un’intervista con il Wall Street Journal, Eric Holder ha detto che il suo ministero sta preparando una serie di processi contro i responsabili della crisi. Non ha dato dettagli ma ha aggiunto, con toni minacciosi, che chi «ha inflitto danni al sistema finanziario americano non si deve sentire al sicuro solo perché è passato un po’ di tempo».

Un messaggio duro ma che dovrà essere provato in Corte, di fronte a giurie che spesso non sono d’accordo con chi vuole incarcerare Wall Street. Nel 2009, pochi mesi dopo l’arrivo di Holder, fu proprio il suo ministero a prendere una batosta clamorosa, perdendo uno dei primi casi importanti della crisi, contro due ex funzionari della Bear Stearns, la banca che crollò quattro mesi prima di Lehman.

Il problema – emerso nel processo Bear Stearns e in altri casi seguenti – è che è estremamente difficile provare che Wall Street ha commesso dei crimini in un periodo in cui un’intera economia si è sbriciolata. Basta solo pensare alle condizioni del pre-crisi: né le banche centrali, né gli «esperti» (e tra loro ci metto la stampa), né tantomeno i consumatori riuscirono ad anticipare lo scoppio della bolla immobiliare Usa e i suoi effetti devastanti sul resto del pianeta. 

È un vecchio adagio della giustizia: se sono colpevoli tutti, non è colpevole nessuno. O, come mi ha detto questa settimana uno che era a capo di una delle grandi banche nel 2008, «essere un cattivo manager non è un crimine». Fino a quando mastini come Holder non riescono a provare il contrario, la mia fonte ha ragione. Di incompetenza ce n’è stata tanta, di criminalità poco o nulla.

Il che significa che per dimenticare i dolori della crisi, per ritornare a sperare e a spendere, i consumatori americani non potranno contare sull’effetto depurativo che potrebbe dare la vista di un paio di banchieri finiti dietro le sbarre dopo una condanna.

Per il male di cuore, si dice che il tempo aiuta, ma per i malanni finanziari l’unica cura è la crescita economica. I guadagni di oggi fanno dimenticare le perdite di ieri. Ma l’economia Usa non sta cooperando. Vivacchia e non sembra innestare la marcia giusta. Dà barlumi di luce, ma non la ancora grande energia di cui ci sarebbe bisogno.

Persino la Fed non sa cosa fare. I dettagli dell’ultimo incontro – rilasciati questa settimana – hanno rivelato una banca centrale spaccata a metà, divisa tra il desiderio di smettere di pompare denaro gratis nell’economia e il terrore di far ricadere il Paese nella recessione. La Fed è lo specchio dell’America di oggi. Vogliosa di cambiamento, pronta a sperare in un futuro migliore ma frustrata da una realtà che non sembra migliorare. In un frangente così, attaccare un povero francesino dall’email facile non è una soluzione accettabile.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal. francesco.guerrera@wsj.com

twitter@guerreraf72


da - http://lastampa.it/2013/08/25/cultura/opinioni/editoriali/wall-street-crimini-senza-colpevoli-m4G7nGoy0N0mY5pxG2ZyfN/pagina.html
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« Risposta #65 inserito:: Settembre 08, 2013, 04:22:59 pm »

Editoriali
08/09/2013

La paralisi che peggiora i conti

Francesco Guerrera


Tra Manzoni e Clooney, Cernobbio è il posto perfetto per raccontare tragedie e commedie dell’Europa di oggi.

La splendida Villa d’Este si affaccia sul ramo del Lago di Como tanto caro all’autore dei Promessi Sposi ed è a pochi minuti in barca dalla villa della star di Hollywood (dall’acqua non si vede quasi niente: George ama la privacy). 

Ma questo weekend, l’aristocratica dimora che ospita il summit annuale dell’Ambrosetti House è il palcoscenico di lusso per uno show che sta toccando milioni di cittadini ed imprenditori europei. 

Lo si potrebbe chiamare: «OK, il prezzo non è giusto». Il prezzo è il costo della stasi politica ed istituzionale che sta attanagliando l’Unione Europea, facendo soffrire società ed individui, preoccupare gli investitori e innervosire partner commerciali come gli Usa. (C’è anche un’attrazione prettamente nazionale: il tormentone sul futuro del governo Letta). 

Alcuni dei grandi del pianeta riuniti a Cernobbio l’hanno buttata sull’ottimismo. Nelle sale cinquecentesche, politici e banchieri centrali hanno sfoderato un sorriso vincente alla Clooney e ricordato che un anno fa stavamo peggio, con l’euro sul baratro e gli spread alle stelle. 

Che bello – dicono – che alla riunione del Gruppo dei 20 di San Pietroburgo non si sia quasi parlato di Europa. Che «il sorvegliato speciale» - come ha detto il primo ministro italiano – non sia più l’Italia e nemmeno la moneta unica ma la catastrofe siriana, i dilemmi bellici degli Usa e i problemi economici dei Paesi emergenti. Che l’euro-crisi che ci portiamo dietro da almeno tre anni sia finita. 

«Qui - scrisse Stendhal del Lago di Como – tutto è nobile e commovente, e tutto parla d’amore». Ma i numeri non parlano d’amore per l’economia europea. Sì, il peggio della crisi è passato – grazie soprattutto alle mosse coraggiose, e rischiose, della Banca Centrale Europea. Ma, come mi ha detto il dirigente di una multinazionale dell’industria, «il paziente è fuori dalla terapia intensiva ma sta ancora in ospedale». 

Quest’anno, l’economia della zona-euro calerà dello 0.6%, secondo un sondaggio di economisti condotto dalla Ambrosetti. Nel 2014, se va bene, crescerà ma meno dell’ 1%. Persino il moribondo Giappone fara’ di meglio (1.7% quest’anno e 1.4% l’anno prossimo). Per non parlare degli Usa che nel 2014 dovrebbero essere a quota +2.8%, o la Cina che sta «rallentando» verso il 7.6%.

Nemmeno l’Azzeccagarbugli di Manzoni riuscirebbe a far passare questi dati come una buona notizia per l’Europa. Soprattutto perché ogni 8 abitanti della zona euro c’è un disoccupato. E quella è la media: in Spagna siamo a uno su quattro.

Fa bene Jean-Claude Trichet – anche lui a Villa d’Este - a prendere una posizione opposta a quella del connazionale Stendhal. «Questo non è il momento per compiacersi», ha detto il predecessore di Draghi ad un dibattito organizzato dalla Cnn. «Abbiamo molto lavoro da fare».

La diagnosi è giusta ma la prognosi è riservata. Dopo un triennio di crisi, le soluzioni più facili sono state prese - gli americani le chiamano «low-hanging fruits», i frutti alla base dell’albero. Ora bisogna fare sforzi molto più significativi per salire sui rami più alti. 

Mario Draghi non sembra voglia fare la scaletta. Dopo aver utilizzato le politiche monetarie in maniera aggressiva e non ortodossa per mantenere l’euro intatto, gli uomini del presidente della Bce sono ai limiti dei loro poteri. Il presidente sarà anche stato ribattezzato «SuperMario» ma si sta scontrando con una kryptonite di interessi politici contrastanti.

I tedeschi – con un’elezione alle porte e gran parte dell’elettorato d’umore euroscettico – non vogliono che la banca di Francoforte faccia più granché. Per non fare un assist d’oro ai partiti di protesta, Angela Merkel e il resto dell’establishment teutonico devono cancellare l’impressione che la Germania paghera sempre e comunque il conto salato degli errori europei. 

I governi di mezza Europa, dal canto loro, non hanno nessuna intenzione di proseguire con l’austerità che la cancelliera vorrebbe come quid pro quo per eventuali aiuti. Con la recessione ancora presente, solo politici masochisti vorrebbero infliggere dolore a corto termine ai propri cittadini nel nome di vaghi benefici a lungo termine. 

L’Italia è un caso classico. Le imposte sulle imprese sono al 68% - il più alto tasso unione e 21 punti percentuali più che negli Usa. La pressione fiscale sui lavoratori è altrettanto pesante - 42%, il doppio dell’Inghilterra. Il risultato? Le imprese non assumono, le banche non prestano, i piccoli imprenditori soffrono e l’economia è ancora in recessione. Altri Paesi come la Spagna e il Portogallo sono in simili condizioni penose. 

Il contesto non si presta ad un altro giro sulle montagne russe dell’austerità.

Né i politici né la commissione Europa, né la Bce sanno come uscirne e allora fanno l’imitazione del Manzoniano Ferrer. Circondato da una folla irata, il cancelliere spagnolo fa promesse populiste e chiede al cocchiere: «Pedro, adelante con juicio». 

Ovvero la paralisi politica che aumenta i costi economici. 

Il calendario non aiuta. Tra il ballottaggio tedesco, il voto per il Parlamento europeo – seguito dalla scelta di una nuova Commissione – e, chissà, forse elezioni e anatre zoppe in Italia, il momento ricorda il «Batman» di Clooney – un film d’azione senza tanta azione. 

Star fermi, in questo caso, non fa guadagnare tempo, ma lo fa perdere. Prima o poi, le riforme (delle pensioni, della sanità, del settore pubblico, delle tasse etc.) dovranno essere fatte. Decisioni difficili e impopolari, soprattutto da parte della Germania, dovranno essere prese. 

Purtroppo, come disse Don Abbondio di se stesso: «Il coraggio uno non se lo può dare». 

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York. francesco.guerrera@wsj.com e su Twitter:@guerreraf72. 

da - http://lastampa.it/2013/09/08/cultura/opinioni/editoriali/la-paralisi-che-peggiora-i-conti-YmuetbNTLX8rcqHpHJS4gK/pagina.html
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« Risposta #66 inserito:: Ottobre 06, 2013, 07:40:18 pm »

EDITORIALI
06/10/2013

Se l’America va avanti senza governo

FRANCESCO GUERRERA

La Statua della Libertà è in cattività. Da quando il governo americano ha chiuso i battenti martedì, la “Lady Liberty” – il nomignolo affettuoso datole dai newyorchesi – è in isolamento nella baia di Manhattan. Senza fondi federali, né turisti né impiegati dei parchi nazionali la possono visitare.
Il simbolo della democrazia americana, del «governo della gente per la gente», come disse Abraham Lincoln, è stata abbandonata a se stessa da un Congresso impelagato in squallide beghe politiche e da un Presidente che non le sa risolvere. 
Tesori nazionali come la Statua della Libertà – e il parco di Yellowstone, il fantastico museo dello Smithsonian a Washington e il Mount Rushmore con le facce dei Presidenti scolpite nella pietra – sono chiusi come se fossero una pompa di benzina fuori turno o un negozietto di periferia: «Torno subito. O quando i repubblicani e i democratici si mettono d’accordo». 
La politica con la «p» minuscola non è prerogativa esclusiva degli Usa – basta guardare alla settimana del brivido che ha passato il governo italiano. Ma il gioco delle tre carte a Montecitorio è cosa normale e ricorrente. Lo «shutdown», la serrata forzata del governo Usa, non si vedeva da 17 anni quando alla Casa Bianca c’era Bill Clinton e al Congresso Newt Gingrich.
In quest’occasione storica, vale la pena andare al di là dei potenti simboli dell’impotenza del governo americano e guardare all’economia reale, all’America degli investitori e del lavoro, al settore privato che non chiude mai i battenti.
Come spesso accade, i mercati sono lo specchio, un po’ distorto ma non completamente sballato, dell’economia americana. Parlando con operatori e banchieri, le storie che si sentono sono abbastanza sorprendenti. Per il momento, ai mercati lo «shutdown» interessa poco. Qualcuno teme che il governo americano possa smettere di pagare i suoi (enormi) debiti. Ma sono paure a lungo termine temperate dal fatto che sembra impensabile che il Congresso, persino questo Congresso, sia così stupido da far fallire l’America.
Ed è vero che la latitanza del governo priverà gli investitori di dati economici quali i numeri sulla disoccupazione, che dovevano uscire venerdì ma sono stati ritardati dalle vacanze forzate degli statistici del Tesoro.
Ma quando ho chiesto ad un signore di Wall Street quale fosse la sua principale preoccupazione questa settimana mi ha risposto con una parola sola: «Twitter». E’ una parola che non esisteva nemmeno l’ultima volta che il governo americano ha chiuso ma che ora è sulla bocca di tutti.
Per il mio interlocutore, la cosa più importante è lavorare sull’offerta pubblica di acquisto del «social network» che sta rivoluzionando il mondo della comunicazione e della pubblicità. Non i casini di Washington, i dati sulla disoccupazione o la chiusura di Yellowstone. Come mi ha detto un altro finanziere: «Se non lo riesci a dire in 140 caratteri, non mi interessa» (il che, diciamolo chiaramente, è po’ un problema per un giornalista…). 
Per il mondo della finanza e, forse anche dell’economia reale, l’imminente arrivo di Twitter, con i suoi 220 milioni di utenti, sul mercato azionario è un momento più storico della paralisi governativa. Giovedì sera, quando Twitter ha rilasciato i suoi dati finanziari, i mercati erano in brodo di giuggiole.
L’isteria di investitori e banchieri sull’Opa da un miliardo di dollari di Twitter non è, ovviamente, una rappresentazione completa dell’umore del grande pubblico americano. 
Ma è un simbolo da contrapporre alla solitudine malinconica di Lady Liberty. Il governo chiude, la vita continua. E continua nelle autostrade digitali di un’economia che si sa reinventare ed adattare con incredibile facilità. Twitter è nato nel 2006, Facebook due anni prima. Persino Google, che sembra essere stato con noi da sempre, non esisteva quando Bill e Newt litigavano sul budget nel 1996. 
Le beghe washingtoniane hanno spinto editorialisti e bloggers a scrivere necrologi del sogno americano. Ma le Cassandre stanno guardando nel posto sbagliato. Sono decenni che il sogno americano non vive nella capitale ma a Silicon Valley, nei dormitori universitari e nelle menti fervide e fameliche degli immigranti messicani, cinesi ed indiani, con o senza dottorato, che ancora vedono l’America come la terra promessa.
La vera rivelazione dello «shutdown» è che non è tanto importante. Che il governo federale – un’istituzione che molti americani vedono con sospetto e diffidenza – non è fondamentale al funzionamento del paese.
Lo zio Sam deve preoccuparsi dei servizi essenziali – aeroporti ed ospedali, tasse e polizia – ma al resto ci pensa l’individualismo, determinazione ed egoismo di un paese il cui motto è «e pluribus unum» – da molti, uno. 
Si può discutere se di solo Twitter vive l’uomo (e la donna). Se l’economia più grande del pianeta può sorreggersi su pilastri virtuali, sempre più servizi e sempre meno industrie pesanti. Ma anche quello è un dibattito falso. Proprio questa settimana, il Wall Street Journal ha calcolato che gli Stati Uniti sono diventati il più grande produttore al mondo di petrolio e gas naturale, superando la Russia.
Il boom dell’olio e gas di scisto sta trasformando e rivitalizzando settori industriali che avevamo dichiarato morti anni fa. A migliaia di chilometri da Silicon Valley – in aree che erano state depresse da anni - ingegneri, operai ed imprenditori sono nel mezzo di una nuova rivoluzione industriale che non ha limiti di caratteri.
L’America di oggi assomiglia molto all’Italia di sempre. Un paese pieno di risorse, problemi e contraddizioni che tenta di funzionare non attraverso il governo ma a dispetto del governo. Il Presidente e i leader del Congresso dovrebbero riflettere su ciò, almeno fino a quando non riaprono la Statua della Libertà.
 
Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal. 
Francesco.guerrera@wsj.com 
e su Twitter:@guerreraf72 
http://www.corriere.it/13_ottobre_05/lizzani-come-monicelli-si-buttato-finestra-d61d9d9c-2dc4-11e3-89d5-cdac03f987bf.shtml
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« Risposta #67 inserito:: Gennaio 27, 2014, 04:35:38 pm »

Editoriali
27/01/2014

L’ottimismo a Davos l’incertezza nel mondo

Francesco Guerrera

A Davos, quest’anno, l’élite mondiale non è scivolata. Le Alpi svizzere sono state innevate come da cartolina, la temperatura è rimasta ostinatamente polare e i marciapiedi si sono ghiacciati come sempre. 

Ma ministri, banchieri e capitani d’industria hanno levitato su una nuvoletta di ottimismo. Non che i risultati del rito annuale del World Economic Forum siano stati diversi dal passato: tanti incontri, molte parole e qualche promessa ma tutto sommato poco di fatto. Nonostante ciò, i potenti rintanati in questo paesino ormai troppo piccolo erano di buon umore. 

«E cosa temi?» mi ha detto un banchiere tedesco mentre sorseggiavamo un liquore verde non ben identificato a uno dei tanti ricevimenti. Per lui, il bicchiere era mezzo pieno. «I grandi pericoli si sono dissipati. Da qui in poi, la situazione migliorerà», ha proclamato. Banchieri tedeschi e ottimismo non sono compagni di viaggio abituali, quindi gli ho chiesto di spiegarsi. Con logica teutonica ha elencato le tre grandi paure degli ultimi anni che ora stanno battendo la ritirata: la disintegrazione dell’euro; un rallentamento dell’economia cinese; e un’esplosione medio-orientale con ripercussioni internazionali. 

Sulla scomparsa della prima non ci sono dubbi. Basta guardare alla vera star del Wef. Non Bono, Matt Damon o la Sheryl Sandberg di Facebook ma Mario Draghi e la politica monetaria che ha salvato la moneta unica.

«Sei fiero di essere italiano come Super-Mario?», mi ha chiesto un investitore americano che di solito si specializza in battute sull’ incapacità economica dei nostri compatrioti. Mi ha pure suggerito il titolo per un articolo: «Draghi sconfigge il dragone della crisi».

Con la zona-euro sotto i riflettori, la Cina è rimasta dietro le quinte. Pochi delegati, com’è tradizione per un governo che non ama il forum, ma molte certezze. Il consenso di Davos è che i nuovi leader di Pechino riusciranno a far crescere l’economia di più del 7% quest’ anno – una velocità di crociera accettabile sia per i cittadini cinesi che per il resto del mondo.

E il Medio Oriente? E’ strano pensare che i politici e gli esperti riuniti a Davos possano avere speranze per una regione che ospita la Siria, l’Iran e Israele. A Davos, la tensione tra gli ultimi due Paesi è stata palpabile. Ci è voluta tutta l’efficienza svizzera per non far incontrare, o scontrare, la delegazione iraniana guidata dal presidente Hassan Rouhani e politici israeliani tra cui Shimon Peres e «Bibi» Netanyahu.

Ma anche su questo punto, l’opinione dei leader del Wef era che nessuno ha intenzione di trasformare conflitti regionali in guerre mondiali. Fin qui, tutto bene. Anzi benissimo. Giovedì – dopo due giorni passati ad ascoltare le opinioni positive che riecheggiavano nelle caverne del centro congressi - ho pensato: magari ci possiamo rilassare, goderci le montagne che tanto piacevano a Thomas Mann e tornare a casa ristorati e speranzosi.

Ma prima di mettere via il taccuino e andare a sciare con Matt Damon o farmi un Irish coffee con Bono, sono uscito dalla zona blindata del centro congressi per incontrarmi con dei signori del denaro. Volevo capire se anche loro – investitori e banchieri che scommettono miliardi di dollari sul futuro – fossero saliti a bordo della nuvoletta rosea di Davos.

Ed è qui che la storia si complica. «Non confondere il sollievo con la fine dei problemi», ha ammonito il capo di un’azienda d’investimenti americana a colazione. Tra cucchiaioni di muesli, mi ha convinto che l’economia europea è ancora a rischio di recessione anche se la moneta unica è intatta. A suo avviso, tre ingredienti rendono la situazione precaria: i tassi di disoccupazione in Spagna, Italia e Portogallo sono altissimi, soprattutto tra i giovani; investimenti, mutui e prestiti a imprese rimangono a livelli anemici; e i consumatori non sembrano volere, o potere, spendere.

A guardar bene, anche la situazione geopolitica non è granché. Magari il Medio Oriente non esplode ma l’Asia sta dando nuovi grattacapi. Il primo ministro giapponese Shinzo Abe ha scioccato il Wef quando ha detto che le relazioni tra Tokyo e Pechino ricordano la tensione tra la Germania e la Gran Bretagna alla vigilia della prima guerra mondiale. E anche se un conflitto tra Cina e Giappone è impensabile, le schermaglie tra i due Paesi destabilizzano una regione che ha tante altre ferite aperte dalla Corea del Nord a Taiwan. 

Persino i mercati non sono più una strada a senso unico. Dopo essere cresciute di più del 30% l’anno scorso, le azioni americane hanno iniziato il 2014 come la mia Inter: facendo fatica a vincere. E proprio mentre i grilli parlanti del Wef lodavano la stabilità del mondo finanziario, i mercati emergenti sono crollati, spinti da una nuova crisi monetaria ed economica nella recidiva Argentina.

La nebbia che mi ha accompagnato nella mia discesa dalle Alpi sabato è un’ottima metafora per il momento attuale. Potremmo essere all’inizio di un periodo di crisi o all’inizio della sua fine, ma la visibilità è limitata. Viste le condizioni è prudente uscire dal mucchio e scendere dalla nuvoletta di Davos. Anche se c’è il rischio di scivolare. 

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York. Francesco.guerrera@wsj.com e su Twitter:@guerreraf72 

Da - http://lastampa.it/2014/01/27/cultura/opinioni/editoriali/lottimismo-a-davos-lincertezza-nel-mondo-ObgXLhIQEUint1MPHt6MwN/pagina.html
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« Risposta #68 inserito:: Maggio 15, 2014, 04:34:30 pm »

Editoriali
15/05/2014 - economia

Tra Cina e Usa il gioco sottile di due giganti

Francesco Guerrera

Fu in un taxi, dieci anni fa a Pechino, che capii veramente quanto è grande la Cina. 

Stavo parlando di calcio col tassista in un misto orripilante di cinese e inglese - «Baggio…ting hao…very good!» - quando imboccò un’autostrada enorme che sembrava fosse stata aperta il giorno prima. 

«La quarta tangenziale», mi disse molto fiero. «Pechino è l’unica città al mondo con quattro tangenziali». 

Oggi, di tangenziali a Pechino ce ne sono sette, monumenti d’asfalto che celebrano la voglia di crescere della Cina moderna. 

Sono anni che il Paese continua a spingere sull’acceleratore e i risultati sono eccezionali.

La Cina sta per superare gli Stati Uniti per diventare l’economia più grande del mondo. Questo, almeno, è quanto ha detto l’International Comparison Program, un progetto della Banca Mondiale, un paio di settimane fa. 

La notizia ha fatto scalpore, soprattutto in America e Cina. 

Se l’Icp ha ragione, saremmo di fronte ad un momento storico, un passaggio di consegne dall’Ovest all’Est che confermerebbe il declino degli Usa e l’ascesa ormai inesorabile della Cina come strapotenza economica.

I numeri, però, non sono chiari. Se si guarda solo il prodotto interno lordo, l’economia Usa vale più o meno il doppio di quella cinese (l’Italia è all’ottavo posto). Il sorpasso non è previsto prima del 2020.

Ma l’Icp e la Banca Mondiale tentano di misurare le «vere» dimensioni delle economie del pianeta. Non solo il valore nominale del Pil ma anche il potere di acquisto delle monete. 

 L’idea è ovvia per chiunque abbia viaggiato all’estero: nei Paesi in via di sviluppo, come la Cina, il denaro «compra» di più perché beni e servizi costano meno che nel primo mondo. In questo senso - e solo in questo senso - l’Icp ha detto che la Cina sta per superare gli Stati Uniti.

La metodologia è legittima ma i risultati sono discutibili. E’ vero che a Shanghai uno yuan compra più di un dollaro a New York, ma un Paese come la Cina deve usare la propria divisa per importare beni dall’estero. Quando comprano missili e navi da guerra, gli iPhone o le Bmw, i cinesi devono pagare il prezzo dettato dai mercati internazionali. 

Ma anche se la Cina non è ancora l’unica superpotenza dell’economia mondiale, il fiato del dragone cinese è sul collo dello zio Sam e gli Usa lo sentono.

Le reazioni dei due Paesi ai calcoli della Banca Mondiale la dicono lunga sulla precaria posizione dell’economia mondiale. Negli Stati Uniti, media ed esperti hanno tentato o di ignorare i numeri dell’Icp o di spiegare perché fossero sbagliati. In Cina, il governo ha fatto lo stesso. L’Istat cinese ha detto che non «riconosce i risultati come statistiche ufficiali» e gli organi di stampa governativi hanno detto chiaramente di non credere ai numeri.

E’ un sottile gioco politico, tra due Paesi che hanno molto da perdere da un confronto aperto sia sul piano economico.

Gli Usa - soprattutto la debole amministrazione Obama - non vogliono sentire parlare di declino terminale, a pochi anni da una crisi finanziaria durissima e da una recessione devastante. 

E la Cina fa la classica pretattica: non ha nessuna intenzione di spaventare il mondo né di aumentare le aspettative di una popolazione locale che, in generale, non vede molti frutti di questa crescita mozzafiato. La verità è che la Cina rimane un Paese povero perché ha quasi un miliardo e mezzo di abitanti: il Pil pro capite è il 99esimo al mondo, anche tenendo conto del valore d’acquisto della moneta.

«La Cina è grande ma non è forte», ha detto il guru dell’economia cinese Mao Yushi al Financial Times. E’ un aforisma applicabile a tanti aspetti della crescita di un Paese che mezzo secolo fa era ancora nel medioevo di Mao Zedong.

Per ora, gli Stati Uniti e la Cina sono alleati nel non voler cambiare lo status quo economico. Ma è una pace fragile, destinata ad essere interrotta dalle correnti inarrestabili di commercio, capitali e crescita. 

La Cina già controlla aspetti fondamentali dell’economia del pianeta. Il suo appetito insaziabile per materie prime sta trasformando (in meglio) Paesi quali l’Australia e il Brasile, la Mongolia e l’Angola. Gli investimenti di aziende e banche cinesi stanno aiutando l’Africa a combattere secoli di oppressione e problemi economici. Non ci sono molti paralleli storici per l’impatto della Cina sul resto del mondo: un Paese in via di sviluppo che muove mercati mondiali e cambia la realtà economica di interi continenti. 


Non è un caso che il successo di Pechino stia creando tensioni politiche, soprattutto con il Giappone, un’altra potenza economica in declino che un tempo aveva ambizioni di egemonia regionale in Asia. 

Ma sarebbe un errore dare gli Usa per spacciati. Nonostante i fallimenti degli ultimi anni e una seria crisi di leadership politica nella Casa Bianca e nel Congresso, l’America possiede risorse uniche. E non parlo solo di petrolio e gas a fratturazione idraulica che stanno alimentando una nuova rivoluzione industriale in parti del Paese.

Mi riferisco più alle «energie capitaliste» di un Paese che ha fatto del rinnovo la sua raison d’être. La lista dei vantaggi dell’America sul resto del mondo è lunga: dai mercati finanziari all’industria dell’intrattenimento di Hollywood, dagli imprenditori della tecnologia all’esercito di immigrati pronti a tutto per prendersi un pezzetto del sogno americano.

L’influenza degli Stati Uniti sul resto del mondo è più grande persino dell’economia Usa e né la Cina, né l’Europa possono pensare di contrastarla nei prossimi anni.

Nell’autostrada dell’economia, i sorpassi sono più difficili che nelle ampie tangenziali di Pechino. 

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York. 

francesco.guerrera@wsj.com e su Twitter: @guerreraf72 

da - http://lastampa.it/2014/05/15/cultura/opinioni/editoriali/tra-cina-e-usa-il-gioco-sottile-di-due-giganti-v9Oqov4DwElrbDz1wTOZTM/pagina.html
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« Risposta #69 inserito:: Giugno 02, 2014, 04:52:53 pm »

Editoriali
02/06/2014

A Wall Street torna di moda il rischio
Francesco Guerrera

Ci risiamo. Quasi fossero lo specchio di una cultura popolare che ama il retrò, il vintage e il déjà-vu, i mercati finanziari stanno ripetendo gli errori del passato.

Se una casa discografica può vendere un «nuovo» album di Michael Jackson; se a New York e a Los Angeles le ragazze scimmiottano i look Anni 60 di Elizabeth Taylor; e se una pellicola all’antica come La grande bellezza («Grazie a Fellini» ha detto Paolo Sorrentino agli Oscar) fa così tanto successo, non c’è da stupirsi se Wall Street ha voglia di rivivere gli anni che precedettero la crisi finanziaria. 

Con tipica memoria troppo corta, gli investitori stanno comprando beni sempre più rischiosi. Dalle «obbligazioni-spazzatura» ai mercati azionari in Paesi difficili come la Nigeria, l’Argentina e il Vietnam; dalle case costruite per pura speculazione edilizia agli incomprensibili derivati, questo è un film che abbiamo già visto, un po’ come la Grande bellezza.

Negli anni del boom del 2005-2007, l’ottimismo dei mercati aveva gonfiato un’enorme bolla in investimenti simili: roba da amici del brivido che però offriva la promessa di guadagni più alti dei conti in banca o dei Bot. 

Il resto, come dicono in America, è passato alla storia. Una storia dolorosa che parla del crollo di Lehman Brothers, di una disoccupazione lancinante negli Stati Uniti e di una lunghissima recessione in due continenti.

Per ora però il passato non importa. Si guarda avanti, anche se il futuro potrebbe essere un miraggio.

Wall Street ha coniato una frase per spiegare questo ritorno di fiamma del rischio: «search for yield», la caccia al rendimento – un eufemismo tecnico, un po’ professorale, un po’ Indiana Jones, che punta a rassicurare sia chi compra sia chi vende. 

Ma le parole melliflue non possono mascherare la realtà di un sistema finanziario che sembra in fila dietro il pifferaio di Hamelin.

 

Per capire la psicologia, o la follia, dei mercati attuali bisogna partire dall’immediato dopo-crisi, da quei giorni bui in cui l’economia mondiale era sull’orlo di una Depressione stile Anni 30. In quel momento, le banche centrali fecero l’unica cosa che potevano fare: abbassare i tassi d’interesse, iniettando denaro a poco prezzo nell’economia e ricapitalizzando il sistema finanziario nella speranza che imprese, banche, consumatori ricominciassero a fare quello che sanno.

La strategia ha funzionato solo in parte. Le politiche monetarie della Federal Reserve, la Banca Centrale Europea e la Banca d’Inghilterra (il Giappone arrivò dopo), riuscirono ad evitare che la Grande Recessione si trasformasse nella Grande Depressione. «E’ la differenza tra risparmiare sulle cene al ristorante e vivere sotto i ponti», mi ha detto uno dei funzionari della Fed che era nella stanza dei bottoni nel 2008.

Ha ragione. Il dopo-crisi sarebbe potuto andare molto, molto peggio. Ma il piano a lungo termine delle banche centrali è fallito. L’idea era quella di amministrare dosi da cavallo di stimolo per un breve periodo e lasciare che gli «spiriti animali» di Keynes – la voglia di fare congenita a produttori e consumatori – spingessero sull’acceleratore del capitalismo. 

Ma a quasi sei anni dalla crisi, le economie dei Paesi occidentali sono ancora in folle. In America, la crescita è minuscola, la disoccupazione ancora alta, il mercato immobiliare non in buona salute. In Europa, la situazione è ancora peggio, con lo spettro della deflazione che aleggia sulla zona-euro.

E allora i tassi d’interesse devono rimanere bassi, la Bce deve pensare a misure di stimolo simili a quelle della Fed e dei colleghi giapponesi.

Ma se i tassi rimangono dove sono, beni «sicuri» come le obbligazioni del Tesoro americane e il dollaro, non rendono granché. L’unica soluzione per gli investitori è spostarsi su beni più rischiosi perché offrono rendimenti più alti. «Cherchez la femme», dicono i francesi per spiegare comportamenti strani da parte degli uomini. Per gli investitori la frase è: «search for yield».

 

Viste attraverso questo prisma, le scelte dei signori del denaro sembrano razionali. Ford O’Neil, che è responsabile per circa 14 miliardi di dollari d’investimento al gigante del risparmio Fidelity, lo ha spiegato bene al Wall Street Journal. «I tassi d’interesse bassi – ha detto – stanno spingendo la gente verso beni più rischiosi dove pensano di guadagnare di più».

Quali sono i rischi di questo ritorno del rischio? Due in particolare: una ricaduta nella recessione da parte di un’economia-guida come gli Usa o l’Europa; e un aumento dei tassi d’interesse non anticipato dai mercati.

Per ora, nessuna delle due situazioni è probabile. E’ vero che la crescita economica sulle due sponde dell’Atlantico lascia molto a desiderare ma le chances di un rallentamento non sono alte, soprattutto con le banche centrali in stato d’allerta. Anche il rischio di una rapida salita dei tassi è basso, un po’ perché non avrebbe alcun senso nel frangente economico attuale e un po’ perché la Fed e la Bce hanno ormai imparato a telegrafare le proprie decisioni senza scioccare i mercati. 

La bolla finanziaria c’è ma siamo solo all’inizio del gonfiaggio – un periodo in cui i guadagni possono giustificare i rischi. In momenti come questo, è possibile fare soldi, anche molti soldi, se si azzeccano gli investimenti giusti. 

La salita vertiginosa dei mercati azionari americani l’anno scorso ne è la prova. La ricaduta degli stessi mercati quest’anno – soprattutto le azioni del settore della tecnologia e della biotecnologia – sono la contro-prova dei pericoli di un periodo incerto in cui i prezzi salgono ma la macro-economia ristagna.

Prima o poi, i tassi d’interesse saliranno, la psicologia degli investitori diventerà più conservatrice e la bolla si sgonfierà.

Ma per ora, come disse il vecchio capo di Citigroup Chuck Prince, «bisogna ballare fino a quando la musica smette». Attenzione, però, a dove sono le sedie…

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario 
del Wall Street Journal a New York. francesco.guerrera@wsj.com 
e su Twitter @guerreraf72. 

Da - http://www.lastampa.it/2014/06/02/cultura/opinioni/editoriali/a-wall-street-torna-di-moda-il-rischio-y6DzF8EUocEi7UanZ6qLpM/pagina.html
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« Risposta #70 inserito:: Luglio 03, 2014, 07:03:34 pm »

Editoriali
30/06/2014

I rischi di investitori troppo cinici

Francesco Guerrera

«I mercati trasferiscono soldi da chi è attivo a chi è paziente». Le famose parole di Warren Buffett, che di pazienza e di mercati qualcosina ne sa, sono la chiosa ideale alla prima metà del 2014. 

Chi è stato paziente in questo periodo è diventato più ricco. Magari non ricco come Buffett, il cui genio per gli investimenti vale circa 65 miliardi di dollari, ma certo più ricco di come aveva incominciato l’anno. Il bello di questi sei mesi di grazia è che quasi tutti i tipi di investimenti sono all’attivo: dalle azioni - sia in Paesi sviluppati che in mercati emergenti - alle obbligazioni e perfino l’oro.

Non è assolutamente normale: di solito, se le azioni salgono perché i mercati si aspettano una ripresa economica, le obbligazioni e l’oro calano per paura dell’inflazione e di un rialzo dei tassi d’interesse. Questa volta no. Gli indicatori sono al verde tutti insieme appassionatamente per la prima volta in più di vent’anni. E come se ciò non bastasse, i mercati sono calmissimi. Guardatevi intorno: c’e un conflitto in Iraq che potrebbe fomentare venti di guerra nel Medio Oriente e far aumentare il prezzo del petrolio; una nuova dittatura militare in Tailandia, uno dei più grandi produttori di riso del mondo; e Putin si è annesso la Crimea, aumentando tensioni geopolitiche sulla soglia dell’Europa. 

E i mercati? «I mercati se ne fregano», mi ha detto un capo di una banca di Wall Street l’altro giorno, con un’espressione tra il sorpreso e il preoccupato. Poi ha alzato il suo bicchiere di vino e mi ha detto: «Beviamo per non dimenticare questo grande momento».

Il momento sarà anche grande ma fa un po’ paura. Un mercato menefreghista è un mercato vulnerabile al ritorno di realtà politiche ed economiche che rimangono molto poco rassicuranti.

Un’altra fase famosa di Buffett è: «Abbi paura quando gli altri sono avidi e sii avido quando gli altri hanno paura».

I numeri che vengono dall’America, l’Europa e la Cina non sono granché. 

Proprio questa settimana, le stime ufficiali hanno dichiarato che il prodotto interno lordo Usa è calato di quasi il 3% nei primi tre mesi dell’anno – un risultato choccante per un’economia che, in teoria, dovrebbe essere in piena ripresa. I mercati azionari sono saliti, ragionando che un’economia anemica costringerà la Federal Reserve a tenere aperti i cordoni dello stimolo ancora per un po’. 


Ma la realtà è che il primo trimestre ha segnato il più grande tonfo dell’economia Usa in cinque anni, un dato molto allarmante che non dovrebbe essere ignorato. La povera Europa è in condizioni simili ai giocatori azzurri in Brasile: vecchia, lenta e senza fiato. E persino il dragone cinese non è più capace di crescere a scavezzacollo come un tempo. 

I banchieri centrali sono preoccupati. «Gli investitori sono troppo compiaciuti di se stessi», mi ha detto un alto ufficiale della Fed l’altro giorno. Quando gli ho chiesto se la banca centrale potesse fare qualcosa per instillare un po’ più di realismo nei mercati ha allargato le braccia e sorriso, senza dire nulla.

Diciamocelo chiaramente: l’unico motivo per cui investitori grandi e piccoli comprano beni e azioni è la presenza delle banche centrali. I tassi bassi, le misure di stimolo e le parole melliflue da parte di Janet Yellen, Mario Draghi e Haruhiko Kuroda curano tutti i mali dei mercati in questo momento.

I «fondamentali» – gli utili delle aziende, la crescita economica e il quadro geopolitico – mancano ma in un periodo in cui ci sono poche alternative allo stimolo delle banche centrali, la fortuna aiuta i pazienti. 

Durerà? Certo non così. I prossimi sei mesi saranno un periodo di scelte difficili per investitori, imprenditori e banchieri. 

La dicotomia tra azioni e obbligazioni ritornerà. O le economie ricominciano a tirare, aiutando i mercati azionari e danneggiando beni del tesoro e debito aziendale; o si cade verso la crescita-zero, uno scenario che decimerebbe gli utili, i posti di lavoro e le azioni delle aziende.

La ripresa rimane il caso più probabile ma anche lì i rischi abbondano. Un ritorno di fiamma dell’economia, soprattutto in America, risveglierebbe lo spettro dell’inflazione. Dopo sei anni di vacche magre in pochi si ricordano che la Fed ha una visione apocalittica dell’inflazione. Al primo segno di rialzo nei prezzi al consumo e dei salari, la Yellen e i suoi potrebbero aumentare i tassi, una mossa che gli investitori odiano e non si aspettano.

Vista la situazione, la calma olimpica dei mercati fa paura. Conosco investitori di rango che già stanno uscendo dai mercati, contenti dei primi sei mesi e preoccupati del futuro incerto e, forse, cinico e baro che li attende. 

Ma sono in minoranza. Come spesso accade, gran parte dei signori del denaro e i loro discepoli sono convinti che il bicchiere è mezzo pieno. Nei primi sei mesi del 2014 hanno avuto ragione. 

Per ora, le parole di Buffett vanno accompagnate a quelle di George Bernard Shaw: «La regola d’oro è che non ci sono regole d’oro».

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York. francesco.guerrera@wsj.com

Su Twitter: @guerreraf72. 

Da - http://www.lastampa.it/2014/06/30/cultura/opinioni/editoriali/i-rischi-di-investitori-troppo-cinici-IKdiNDYbMflyMNYLZxdwfL/pagina.html
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« Risposta #71 inserito:: Settembre 07, 2014, 05:12:43 pm »

Un rischioso senso di impotenza
07/09/2014

Francesco Guerrera

A prima vista, la differenza non si vede. Come sempre, il lago di Como risplende nel sole autunnale, Villa d’Este pullula di potenti italiani e stranieri e i dibattiti vertono su argomenti profondi, seri e ambiziosi («Agenda per cambiare l’Europa»; «Oggi il mondo di domani»; «Un’alternativa per l’Italia» e così via). 

Ma a ben guardare c’è qualcosa di strano al forum economico Ambrosetti versione 2014. L’élite di politici, economisti e scienziati vede riflessa nelle acque cristalline del lago l’immagine della propria impotenza.

Dai conflitti dell’Est-Europa alle barbare decapitazioni nel Medio Oriente, dall’anemia economica che affligge l’Europa alla riluttanza a investire da parte d’imprenditori e aziende, i più importanti esponenti della politica e della finanza mondiale poco possono.

Se ne parla, dei problemi annosi e di quelli più recenti, si cercano di mandare messaggi a Putin, a Draghi, a Renzi; si critica la leadership di Obama e la strategia pappamolla dell’Unione Europea nei confronti della Russia. Ma sembra un copione un po’ stanco. Un dovere più che un desiderio vero di affrontare le sfide enormi che la geopolitica e i mercati stanno ponendo alla classe dirigente del pianeta. 

«Nell’era del terrore, non ci sono vittorie, solo successi temporanei», ha detto uno dei partecipanti alla platea. Si riferiva al terrorismo che sta sconvolgendo il Medio Oriente, ma è una frase che si addice anche ad altre questioni.

Il simposio della Ambrosetti stava per iniziare giovedì quando la Banca Centrale Europea ha sorpreso i mercati con un nuovo taglio ai tassi d’interesse e l’inizio di una manovra di stimolo enorme. Gli investitori hanno applaudito, gli imprenditori, soprattutto quelli che esportano, si sono preparati a godersi un euro in ribasso e le banche hanno promesso di prestare di più.

Ma il «magic moment» non è durato nemmeno ventiquattr’ore. Venerdì mattina, è arrivato Peter Praet, uno dei luogotenenti di Mario Draghi, a stemperare gli entusiasmi. «Le politiche monetarie possono solo comprare del tempo e non risolvere i problemi strutturali delle nostre società», ha spiegato il barbuto belga, che siede nel comitato esecutivo della Bce.

Traduzione: noi banchieri centrali abbiamo fatto tutto il possibile e forse di più, se i politici non ci aiutano, la ripresa economica ve la scordate e i miliardi di stimolo staranno buttati al vento. 

I mercati questo lo sanno e hanno già ripreso il tran-tran di prima del taglio dei tassi. 

La differenza cruciale con l’America, dove queste dosi da cavallo di stimolo hanno evitato la depressione e rilanciato l’economia, è che l’economia Usa è più flessibile. Lascio ad altri i giudizi politici e morali sui diritti dei lavoratori e i costi della sanità e altri servizi, ma non c’è dubbio che gli Stati Uniti sono un atleta più agile: quando cadono al tappeto si rialzano più velocemente della vecchia Europa. 

Gli investitori se sono accorti e stanno spingendo le Borse americane da record a record, nonostante i venti di guerra provenienti dall’Est e dal Sud del mondo. 

Non è che la mossa di Draghi non avrà effetti positivi: l’euro scenderà aiutando i produttori europei che vogliono vendere all’estero. E anche gli spread sui buoni del Tesoro andranno giù, consentendo a debitori cronici come l’Italia di respirare un pochino.

Ma non sono vittorie definitive, solo successi di tappa, traguardi della montagna in una corsa in cui non si sono ancora affrontati né le Alpi, né i Pirenei.

Quando ho chiesto a un imprenditore straniero perché non investisse di più in Italia, ha guardato per un po’ il lago, forse cercando di non offendermi con la sua risposta. «Che le devo dire?» ha sospirato. «Qui ci vogliono mesi per ottenere permessi e il mercato del lavoro è ossificato». 

«Però il posto è stupendo», ha aggiunto, quasi scusandosi per le parole sincere e crudeli .

Non è il solo. Quando i partecipanti del forum hanno dovuto indicare il loro livello di fiducia nelle sorti economiche dell’Ue, quasi la metà ha risposto «basso» o «molto basso». E’ una statistica preoccupante, soprattutto perché rilevata a meno di due giorni dall’annuncio dello stimolo massiccio della Bce.

La realtà è che le fantomatiche «riforme strutturali» – il mercato del lavoro, le pensioni, la sanità, le tasse ecc. ecc. – non le fa o non le vuole fare nessuno. Non i politici, né tantomeno l’elettorato. Forse l’attuale governo italiano sarà un’eccezione, ma per ora quasi tutta l’Europa è afflitta dalla sindrome «nimby», l’acronimo inglese per «Not In My Back Yard»: fate pure qualsiasi riforma, ma non nel mio cortile di casa. 

L’impotenza dell’economia fa da contrappunto alla debolezza della politica estera dei blocchi occidentali. Dietro le quinte settecentesche di Villa d’Este il dialogo su l’Ucraina e il terrorismo islamico è stato un misto deprimente di dichiarazioni aggressive e ammicchi al compromesso, con l’Europa e l’America impegnati in un gioco transatlantico di scaricabarile.

«Putin non ha niente di cui temere da questi qui», mi ha detto un esperto di politica estera dopo l’ennesimo briefing fine a se stesso.

Niente è ancora perduto perché l’economia e la politica offrono spesso un’altra chance, ma sprecare giorni, settimane e mesi non facilita la situazione. I terroristi si sentono più forti, i nemici ai confini osano di più e i cervelli e gli investitori vanno altrove.

Forse il problema è l’esistenza del salotto buono, come crede il primo ministro. Oppure il fatto che quelli seduti sui divani si ostinano a passare il tempo tra il futile e il dilettevole.


Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del «Wall Street Journal» a New York. francesco.guerrera@wsj.com e su Twitter @guerreraf72

Da - http://lastampa.it/2014/09/07/cultura/opinioni/editoriali/un-rischioso-senso-di-impotenza-lByI06uurYr097gohY4z2L/pagina.html
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« Risposta #72 inserito:: Settembre 22, 2014, 04:06:36 pm »

Se il football americano non fa scandalo
22/09/2014

Francesco Guerrera

Quando l’America si guarda allo specchio, l’immagine riflessa fa spesso paura.

Una società non naturalmente portata all’introspezione ha bisogno di scandali o di avvenimenti eccezionali - dallo sbarco sulla luna all’ assassinio di Kennedy all’attacco alle torri gemelle - per guardare a se stessa.

Nelle ultime settimane, il football Americano, lo sport nazionale, ha fornito una sequela di notizie talmente choccanti da provocare un nuovo esame di coscienza.

È un esame che passa per una telecamera a circuito chiuso in un ascensore di un casino di Atlantic City. Le immagini sono un po’ sfuocate ma non abbastanza da nascondere il pugno codardo e devastante di Ray Rice, una superstar del football, che manda la fidanzata contro la parete e poi al tappeto con un tonfo. Non abbastanza da nascondere il corpo tozzo e muscoloso di Rice mentre trascina la ragazza (che ora, incredibilmente, è sua moglie) fuori dall’ascensore. 

L’esame continua con Adrian Peterson dei Minnesota Vikings, un altro eroe del football, che è stato accusato di aver picchiato il figlio di quattro anni con un ramo d’albero, lacerandogli le gambe. Le foto, che ora per fortuna su Internet non si trovano più, fanno venire le lacrime agli occhi.

Gli scandali sono raccapriccianti: giganti umani costruiti per giocare in uno degli sport più violenti del pianeta che si accaniscono su donne e bambini. Ma l’establishment di sponsor, televisioni e persino fans, non ha voglia di uccidere la gallina dalle uova d’oro. 

Il football Americano è un big business. In un’era in cui non esistono quasi più eventi di massa, dove la proliferazione di Internet, telefoni «intelligenti» e video-registratori elettronici consente a chiunque di guardare quello che vuole quando vuole, le partite della National Football League - la Serie A del football - sono uno dei pochi momenti in cui l’America si raduna davanti alla televisione senza tante distrazioni.

Lo slogan della Nfl - «Together We Make Football», il football lo facciamo insieme - è un inno allo sport come simbolo unificante di una nazione enorme, eclettica e eterogenea. «C’è una sola sicurezza nella televisione di oggi: la Nfl», mi ha detto di recente un veterano della pubblicità, che di solito si lamenta di come sia difficile raggiungere un pubblico sempre più inafferrabile.

Domenica scorsa, più di ventidue milioni di americani si sono seduti a guardare un match tra i San Francisco 49ers e i Chicago Bears. Quelle tre ore di mischie, passaggi e touchdowns sono state il programma televisivo più visto della settimana. 

È per questo che i networks americani pagano centinaia di milioni di dollari per diritti televisivi e gli sponsor aggiungono miliardi per mettere le facce e i muscoli dei vari Rice e Peterson vicino alla Pepsi Cola, al Gatorade e alle scarpe della Nike.

Non è un caso che il fatturato annuale della Nfl sia quasi dieci miliardi di dollari, più di Facebook e Twitter messi insieme.

E non è un caso che di fronte agli orrori degli ultimi giorni, la risposta degli sponsor sia stata patetica. Alcuni, ovviamente hanno deplorato gli attacchi. Indra Nooyi, la signora che è a capo della Pepsi, ha detto parole importanti sulla violenza contro le donne, condannando «il comportamento rivoltante» di alcuni atleti.

Ma solo un’azienda - gli hotels Radisson - ha fatto qualcosa di concreto, cancellando il contratto con i Vikings. Gli altri si sono nascosti dietro ragioni legali e discorsi di circostanza, sperando che la tempesta passi e che il pubblico ritorni a occuparsi di statistiche, di quale allenatore verrà silurato prima di Natale e di chi vincerà il Super Bowl.

È facile dire che le botte di Rice e Peterson non sono indicative di un malessere più grande nella società americana. Basta sostenere, come hanno fatto in tanti, che il football è uno sport basato sulla violenza, dove il contatto fisico è obbligatorio e fondamentale. Non c’è da sorprendersi - dicono gli amanti della Nfl - se qualche volta i campioni si portano il lavoro a casa.

Ma la risposta agli obbrobri recenti nasconde tensioni e problemi più gravi. Nessuno sport è senza peccato e non sarà certo l’Europa, con i suoi calcioscommesse e ciclisti dopati, a scagliare la prima pietra. 

Noi patiti dello sport accettiamo implicitamente che i nostri eroi della domenica non siano sempre degli stinchi di santi. Quello che non è accettabile, però, è che una società intera si rifuti di prendere atto delle sue debolezze per motivi economico-finanziari. In questo senso, l’America è peggio dell’Europa.

Se gli sponsor avessero condannato Rice e Peterson immediatamente, se la Nfl non avesse sospeso Rice per solo due partite (prima di vergognarsi e di sospenderlo a tempo indeterminato), se i Ravens di Baltimora non avessero aspettato mesi prima di licenziare Rice, e se i fan avessero smesso di guardare le partite, il messaggio sarebbe stato chiaro: in America, nel 2014, nessuno, nemmeno i semidei del football, può picchiare donne e bambini con impunità.

Vi risparmio prediche sul consumismo americano perché sono convinto che non sia un fenomeno nefasto, ma in questo caso, la voglia di consumare «prodotti», dalle partite della Nfl agli articoli offerti dagli sponsor, ha mandato in tilt il compasso morale degli Stati Uniti.

L’unica cosa buona è che in questo momento in America non si parla d’altro. Il silenzio dei potenti ha acceso un dibattito vigoroso in fori informali ma efficaci: blog, Twitter, luoghi di lavoro, i bar dello sport.

Per ora sono solo parole. Non ci sono boicottaggi né delle partite né delle Nike. Ma è un segno che la cosiddetta «gente comune» ha più buon senso di chi tiene i cordoni della borsa.

Nei prossimi settimane e mesi, qualcosa cambierà. Forse licenzieranno i capi della Nfl. Forse gli sponsor si renderanno conto che la loro posizione è insostenibile. Forse gli atleti finalmente capiranno che devono essere esempi anche fuori dal campo.

Ma per ora, quando l’America si guarda allo specchio, l’immagine riflessa è quella della signora Rice e del piccolo Peterson.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York. 
francesco.guerrera@wsj.com e su Twitter: @guerreraf72 

da - http://lastampa.it/2014/09/22/cultura/opinioni/editoriali/se-il-football-americano-non-fa-scandalo-RGHbLDhGLzatSK283oTrZL/pagina.html
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« Risposta #73 inserito:: Ottobre 21, 2014, 05:41:13 pm »

L’America ferita tra Isis, Ebola e la debolezza dei mercati

21/10/2014
Francesco Guerrera

La scorsa settimana ero tra le pietre immortali del Grand Canyon, in vacanza, quando Ebola è passato da virus sconosciuto a pericolo vero per milioni di americani. Ammiravo le cime della Monument Valley rese famose dai film western di John Wayne quando i mercati sono colati a picco, spaventati dal pericolo di una recessione globale. E passavo tra paesi sperduti dai nomi poetici – Tuba City, Springdale, Hurricane, l’«america» con la A minuscola – mentre l’America, quella grande, si barcamenava tra una guerra calda in Medio Oriente e una fredda con la Russia di Putin. 

La televisione e le e-mail raccontavano la storia di un Paese confuso e impaurito. Di un Presidente in difficoltà, incapace di calmare una nazione che non ha bisogno di uno «zar» anti-Ebola o di discorsi retorici, ma di una pacca sulla spalla dopo il bombardamento giornaliero di news cupe e preoccupanti.

Se c’è un filo conduttore tra una malattia devastante (ma rara), il malessere dei mercati e la follia omicida degli estremisti cacciatori di teste è la vulnerabilità di un’America che si trova sola, o poco accompagnata, a far fronte ai problemi del mondo.

Un Paese che ha fatto dell’ottimismo la sua ragione d’essere sta dubitando di se stesso. «Non ci sono più certezze, nessuno è sicuro», mi ha scritto un investitore che di solito non ama l’iperbole.

Stava cercando di spiegare la caduta a picco delle Borse mondiali, ma la frase descrive bene la condizione attuale degli Stati Uniti: quando gli americani alzano gli occhi dalla loro vita quotidiana, hanno paura. 

E’ un paradosso raro nella storia recente degli Usa: la situazione interna è abbastanza positiva, ma i pericoli esterni sono minacciosi e in aumento.

Vista dal Grand Canyon, con le sue orde di turisti benestanti e tutto sommato ben educati (guidano piano, non danno da mangiare agli animali e buttano le bottiglie nell’apposito contenitore), l’America sembra in buona salute. 

 

L’economia sta ricominciando a tirare, la disoccupazione è al livello più basso dai tempi della crisi finanziaria e il mercato dei consumi è in netta ripresa. Basta pensare a quanti americani viaggiano, mangiano al ristorante e attendono con ansia il lancio del nuovo gadget per i pagamenti firmato Apple per avere un’altra scusa per spendere di più.

Gli Usa stanno molto meglio dell’Europa, dove la recessione si tocca con mano, e persino della Cina, che sta rallentando più del previsto e deve affrontare l’attacco al suo regime da parte dei ragazzi di Hong Kong.

Ma nel mondo globalizzato di oggi, il benessere interno non basta. Se sei l’ultima superpotenza rimasta, a te spettano tutti i grattacapi del pianeta. L’Europa guarda verso l’Atlantico per difendersi da Putin e far ripartire un’economia in panne. L’Africa malata chiede agli Usa di creare un sistema sanitario quasi dal nulla perché i tremila morti di Ebola non diventino trecentomila o tre milioni.

E anche se Pechino non lo dice, la Cina ha bisogno degli Usa sia per stimolare la propria economia – tocca agli americani comprare i prodotti cinesi – sia per evitare una nuova Tiananmen tra i grattacieli di Hong Kong.

Di fronte a sfide così grandi, gli Usa di oggi, ridimensionati sul piano internazionale e ancora non al top nel campo economico, fanno fatica. Non è un caso che i mercati – un barometro cinico, spassionato e crudele – siano scombussolati da tutte queste incertezze.

Attenzione però a dipingere il quadro con colori troppo scuri. Le trappole ci sono ma, come spesso accade, i mercati e le Cassandre esagerano. Prendiamo, per esempio, il citatissimo rischio di deflazione, l’Ebola dell’economia, che tutto d’un tratto è diventato un habitué sui titoli dei giornali e le bocche degli «esperti».

E’ vero che l’Europa rallenta, la Cina cresce meno e gli Usa non sono una locomotiva velocissima. Ma ciò non vuol dire che siamo sull’orlo di deflazione e recessione – un calo dei prezzi accompagnato da crescita economica negativa. Con l’America in ripresa, spinta da consumatori più in salute e prezzo stracciato del petrolio, l’euro basso che aiuterà economie legate alle esportazioni come la Germania e l’Italia, e la Cina che, se va male, crescerà del 7% annuo, siamo molto lontani da una nuova crisi. 

Chi si butta sui beni rifugio, come le obbligazioni del governo e l’oro, deve ricordarsi che riceverà un reddito bassissimo in cambio: è una polizza salata per assicurarsi contro un’eventualità remota.

Lo stesso vale per l’Ebola. E’ una tragedia in Africa, ma per ora non ci sono le condizioni per trasformarla in pandemia. A differenza di virus più resistenti quale la Sars, l’Ebola si trasmette con difficoltà. I portatori sono contagiosi solo quando hanno la febbre alta e anche in quel caso, ci vuole contatto prolungato e diretto tra persone.

 

Gli errori del governo americano con i primi pazienti faranno sì che i controlli saranno molto più stretti sia negli aeroporti che negli ospedali. La Cnn non lo dice, ma quest’ anno (e l’anno prossimo e quello dopo ancora) molti più americani moriranno in incidenti di macchina che di Ebola. 

Rimangono le guerre, calde e fredde. Non scompariranno, ma i conflitti sono ormai parte della vita moderna. Prima di quest’ultimo momento di panico, i mercati, le economie e la gente comune erano riusciti a proseguire per le loro strade nonostante le molte conflagrazioni in Siria, Iraq e Ucraina.

Forse risciacquare i panni nell’America più semplice ed ottimista del «motherhood and apple pie» – della mamma e della torta di mele – mi ha reso meno attento ai problemi del mondo. Forse il ritorno a New York mi farà capire la gravità della situazione.

Ma da qui, mentre sorvolo le grandi praterie che dividono questo Paese immenso, l’America sembra debole, fragile e vulnerabile, ma non sconfitta.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal 
A New York. Email: francesco.guerrera@wsj.com e su Twitter: @guerreraf72. 

Da - http://www.lastampa.it/2014/10/21/cultura/opinioni/editoriali/lamerica-ferita-tra-isis-ebola-e-la-debolezza-dei-mercati-zoqCIjqxiwO0fu8SFgL4dO/pagina.html
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« Risposta #74 inserito:: Novembre 17, 2014, 05:14:25 pm »

La scommessa dei nuovi ricchi di Wall Street
17/11/2014

Francesco Guerrera

Com’è andata la settimana? Per quasi tutti noi, la risposta è: senza infamia e senza lode. I miei ultimi sette giorni, per esempio, sono stati occupati da beghe, piccole vittorie quotidiane e il sollievo di qualche progetto a più lungo respiro. 

Ma per 78 uomini e donne, la settimana scorsa è stata l’inizio di un’ altra vita. Mi riferisco al piccolo plotone di banchieri, traders e specialisti della finanza che è stato promosso al rango di «partner» a Goldman Sachs, la posizione più alta nella banca d’affari.

Ai magnifici 78, buona fortuna, o come dicono ai nuovi assunti a Goldman: «Don’t screw it up», «Non rovinate tutto». Al resto di noi, soprattutto quelli che hanno avuto una settimana così così, spetta riflettere sul simbolismo e la sostanza della decisione. Come spesso accade, il mondo della finanza guarda a Goldman per prendere atto del suo stato di salute, prestigio e valore sociale. 

La scelta dei nuovi partner non è un’eccezione. La Wall Street che si specchia nei 67 uomini e 11 donne ha le rughe della crisi finanziaria, problemi economici creati da nuove regole e patemi d’animo per il suo ruolo in una società americana sempre più in tumulto. 

Incominciamo, però, con le buone notizie. Diventare partner a Goldman significa far parte di un club esclusivo - il titolo è conferito a meno del 2 per cento degli impiegati, e solo ogni due anni -, con la responsabilità di guidare la banca più famosa, invidiata e copiata del mondo. Ma è anche un biglietto solo andata verso soldi, fama e prestigio. 

I partner di Goldman guadagnano un salario annuo di almeno 900.000 dollari ingigantito da bonus principeschi. E avere il famoso rango sul curriculum è una garanzia di futuro impiego in altre banche, hedge funds e persino nel governo degli Stati Uniti (che i critici di sinistra spesso chiamano «Government Sachs» per la presenza pesante di ex partner). 

Il bello, per i nuovi arrivati, è che la promozione non porta con sé i pericoli di una volta. Quando Goldman era una «partnership», una società a nome collettivo, i partner mettevano a rischio il proprio capitale: se la banca perdeva soldi, i partner erano i primi a rimetterci. Ma dal 1999 quando Goldman si fece quotare in Borsa, gli azionisti e i creditori hanno assunto il ruolo di rete di sicurezza dalla società. 

Goldman mantiene il titolo come status symbol, un marchio Doc di appartenenza all’élite della finanza. Ho parlato con uno dei 78 mercoledì sera, a poche ore dall’annuncio, e mi ha detto di essere stato sommerso da email di congratulazioni: centinaia di missive elettroniche nello spazio di pochi minuti, molte da gente che non sentiva da anni. Quando gli ho chiesto se si sentiva diverso, ha scosso la testa dicendo che poco o niente sarebbe cambiato nella vita e nel lavoro da giovedì mattina.

Fa bene a tenere i piedi per terra. La crisi finanziaria è a soli sei anni di distanza e sono ancora presenti molti dei problemi che fecero delle banche in generale, e di Goldman in particolare, il nemico pubblico numero uno. 

Per ora, l’astio nei confronti dei professionisti della finanza - quell’astio che portò il Congresso a passare regole dure e spinse ragazzi arrabbiati a creare Occupy Wall Street - è stato placato da un’economia in ripresa, un mercato azionario in grande spolvero e riforme serie portate avanti dalle banche.

Gli eccessi, se ci sono, si vedono meno. Anche a New York, la ricchezza non è più ostentata come una volta. Meno bottiglie di Krug, meno Bentley parcheggiate fuori dalle discoteche, meno feste di compleanno stile Versailles. E quasi tutti i banchieri con cui parlo premettono che non ci deve lamentare perché nel loro mestiere si guadagna più che in altre industrie. 

I regolatori ci hanno messo del loro, impedendo alle banche di prendere parte in attività che in passato avevano portato a problemi sia finanziari sia sociali: grandi rischi ricompensati da grandi bonus che spesso incoraggiavano i traders a prendere rischi ancora più grandi, mettendo a repentaglio miliardi di dollari (vedi alla voce: Kerviel, Jerome).

E’ per questo che Zuccotti Park - il quartiere generale di Occupy a pochi passi dal quartier generale di Goldman - non è più occupato, che la gente comune si sta preoccupando di altro (il virus Ebola, l’arrivo di Bradley Cooper sul palcoscenico di Broadway; la forma penosa dei New York Knicks ecc.) e che i banchieri stanno vivendo sonni abbastanza tranquilli.

Ma attenzione a dare per scontato questo momento di pace. Sotto la superficie, Wall Street è tutt’altro che tranquilla. Le nuove regole del gioco del dopo-crisi stanno creando difficoltà enormi per le banche. Senza la possibilità di prendere rischi con i propri soldi - e di amplificarne i guadagni usando enormi quantità di debito - gli utili delle banche stanno soffrendo e gli investitori se ne sono accorti. 

Le azioni di Goldman valgono quasi il 20% di meno di prima della crisi. E anzi, Goldman sta andando meglio di molti altri rivali. Le azioni di Citigroup valgono un decimo di prima della crisi. Le banche stanno tagliando i costi come e quando possono - impiegati, uffici, viaggi - e non è un caso che Goldman abbia promosso solo 78 partner, una delle classi più piccole dal 1999. Ma i mercati finanziari non sono sicuri che basterà. 

Non sono convinti che Goldman e compagnia abbiano delle strategie che gli permetteranno di fare soldi a lungo termine e sopravvivere in una giungla finanziaria che è stata completamente trasformata negli ultimi sei anni.

Quando brindano, discretamente, alla loro nuova vita, i 78 partner di Goldman dovranno sperare di non essere tra gli ultimi membri di una specie in via d’estinzione.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York. 
francesco.guerrera@wsj.com 
su Twitter: @guerreraf72 

da - http://www.lastampa.it/2014/11/17/cultura/opinioni/editoriali/la-scommessa-dei-nuovi-ricchi-di-wall-street-AUpiyCPpAe55eVNBuXz84L/pagina.html
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