LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => ESTERO fino al 18 agosto 2022. => Discussione aperta da: Admin - Febbraio 06, 2010, 11:47:50 am



Titolo: FRANCESCO GUERRERA.
Inserito da: Admin - Febbraio 06, 2010, 11:47:50 am
6/2/2010

Wall Street e la paura dell'oro
   
FRANCESCO GUERRERA

La nuova stella nel firmamento culinario newyorchese si chiama «Maialino» - una versione super-lusso di una trattoria «tipica» romana che ha aperto da poco a Gramercy Park Hotel. Fino a questa settimana, i banchieri d’affari Usa erano molto più interessati alla disponibilità dei tavoli al «Little Pig» che alla salute economica dei porcellini dei mercati finanziari - Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna - i quattro Paesi che sono stati soprannominati «Pigs» da operatori di mercato burloni.

Ma dopo il crollo delle Borse di giovedì, i padri-padroni di Wall Street hanno smesso di fare la fila per gli spaghetti cacio e pepe di Maialino e sono stati costretti a concentrarsi sui deficit straripanti, economie comatose e governi deboli dei «Pigs». Non c’è voluto molto per infrangere i sogni di isolazionismo dei finanzieri americani - l’illusione che i mercati d’Oltreoceano avrebbero potuto evitare l’enorme crisi fiscale del Vecchio Continente. Anzi, c’è voluto abbastanza poco: un governo portoghese che ha avuto problemi a vendere delle obbligazioni, delle brutte notizie sulla situazione economica spagnola e le solite paure sulla stabilità della Grecia, et voila, un rogna europea si è trasformata in un malessere transatlantico e globale (anche i mercati asiatici hanno sofferto giovedì e venerdì). «Come ai vecchi tempi», è stato l’ironico commento di uno dei banchieri protagonisti della crisi del 2007-2008 mentre guardava i mercati cadere a piombo e all’unisono su televisori pieni di luci rosse e operatori con le mani nei capelli.

In 48 ore, i «Pigs» sono diventati l’incubo di Wall Street: il Dow Jones Industrial, il barometro della borsa di New York, non aveva perso così tanti punti da aprile, il prezzo del petrolio è crollato del 5 per cento e pure l’oro - il bene-rifugio più amato dagli investitori - è colato a picco. La situazione è migliorata un pochino venerdì ma quasi tutti i mercati hanno continuato a vedere rosso. Questa proprio non ci voleva - né per l’economia americana, né per i mercati internazionali e tantomeno per le fortune elettorali di Obama e dei suoi democratici.

Un mio amico banchiere che è un fanatico del jogging, ha paragonato le vicissitudini dell’economia americana a una corsetta a Central Park. «Stai correndo, pensando ai fatti tuoi, e appena prendi un po’ di velocità, un greco (o portoghese, o spagnolo) salta fuori dai cespugli e ti sgambetta». Lo sgambetto europeo, in questo caso, potrebbe costare caro ai consumatori e lavoratori statunitensi. L’economia americana è riuscita ad evitare una replica della Grande Depressione degli Anni 30, grazie soprattutto alla decisione del governo Obama di spendere più di 700 miliardi di dollari per rivitalizzare settori ed industrie che erano stati distrutti dalla recessione.

Nonostante ciò, un americano su dieci è senza lavoro, il mercato edilizio rimane moribondo e i consumatori - la tradizionale locomotiva economica - non hanno né i soldi, né la voglia di spendere.

L’unica speranza per evitare un’inattività economica prolungata, tipo-Giappone, sta in un ritorno di fiamma della base industriale e manifatturiera attraverso le esportazioni. Non è un caso che Obama abbia promesso di recente di raddoppiare il volume dell’export americano nei prossimi cinque anni.

Il problema è che il crollo dei mercati, le paure «europee» degli investitori internazionali e la prospettiva di una lunga recessione nell’Unione Europea, stanno trasformando il dollaro nella super-moneta del dopo-crisi. La divisa americana sta passando di record in record nei confronti del povero euro, rendendo i beni e i servizi made in Usa più cari e meno appetibili per le aziende e i consumatori dell’Ue, il più importante «trading partner» per gli Stati Uniti.

E non finisce qui. Le convulsioni dei mercati azionari e di materie prime sono molto preoccupanti per la stabilità del sistema finanziario americano e mondiale. Per me, il comportamento dell’oro è veramente molto strano.

La teoria - e fino a questa settimana anche la prassi - è sempre stata che l’oro tendere a salire di prezzo in tempi bui perché gli investitori cercano la sicurezza di un bene che non dipende dai mercati azionari e dai tassi di interesse. Questa volta, invece, l’oro ha perso più del 4 per cento del suo valore in pochi giorni.

Il sospetto - e la paura - degli operatori è che il repentino cambiamento di direzione dei mercati abbia messo in seria difficoltà un grande «hedge fund», o ancora peggio, una banca centrale, costringendoli a vendere le loro riserve d’oro a prezzi stracciati. Fino a ora non ci sono prove, ma l’esplosione di un hedge fund - o anche solamente il pericolo di un’esplosione - potrebbe avere effetti devastanti sul resto dei mercati.

Ma anche se la caduta dell’oro è una correzione «tecnica» (la scusa degli operatori quando non hanno spiegazioni plausibili) le vicissitudini degli ultimi due giorni hanno dimostrato che sarà complicatissimo per governi e banche centrali tenere a galla i salvagenti che hanno aiutato i mercati durante la crisi.

Negli ultimi mesi, il dibattito in America è stato sul «quando» la Federal Reserve e il Tesoro avrebbero dovuto smettere di pompare denaro nel sistema finanziario e lasciare i mercati e le banche liberi di interagire come prima della crisi.

Gli avvenimenti degli ultimi giorni hanno cambiato le carte in tavola. La domanda non è più «quando» ma «se» il governo debba tagliare il cordone ombelicale coi mercati, almeno per i prossimi mesi - una decisione difficile che potrebbe a sua volta ritardare o diluire la ripresa economica.

In tempi come questi, sono solito consultare la più ottimista fonte che ho - un banchiere anziano che ne ha passate di tutti i colori ed è uno che vede quasi sempre il bicchiere mezzo pieno. L’ho chiamato giovedì sera e invece del solito tipo chiacchierone e contento, l’ho trovato taciturno e pensieroso. «Non mi piace. Non mi piace proprio», mi ha detto, «stai in guardia che la crisi non è finita».

francesco.guerrera@ft.com
da lastampa.it


Titolo: FRANCESCO GUERRERA Wall Street non rinuncia ai suoi Martini
Inserito da: Admin - Febbraio 18, 2010, 03:02:37 pm
18/2/2010

Wall Street non rinuncia ai suoi Martini
   
FRANCESCO GUERRERA

Mi ricordo ancora l’espressione di totale incredulità sulla faccia del banchiere americano. Eravamo in un grattacielo di Hong Kong durante il grande boom prima della crisi e stavamo festeggiando il suo bonus principesco con cocktail dai prezzi stratosferici. Al quarto Martini, smise di parlare di sé (avvenimento raro tra i maghi della finanza) e mi chiese: «Did the newspaper look after you this year?» («Il giornale si è preso cura di te quest’anno?») - domanda che nel codice di Wall Street significa: che bonus hai preso?

Quando gli spiegai che i giornalisti non ricevono mega-pagamenti a fine anno, che questa tradizione esiste solo tra banchieri, operatori di borsa e affini, spalancò la bocca ma non riuscì ad emettere nemmeno un suono (un altro momento quasi unico per chi segue le grandi banche). Dopo pochi instanti, mi guardò sbigottito e con un filo di voce disse: «Ma allora, perché fai questo lavoro?».

Volevo rispondere «perché mi piace», ma sapevo che non avrebbe capito. Nessun banchiere di successo avrebbe capito. Per riuscire nel mondo crudele e darwiniano della finanza anglosassone bisogna essere spinti da un unico motivo: fare soldi. E non un po’ di soldi, quanti ne basterebbero a una persona «normale» per vivere bene e senza problemi finanziari. Assolutamente no, la molla per i grandi padroni della finanza è la prospettiva di guadagnare milioni e magari miliardi. Ladies and gentlemen, benvenuti a Wall Street, la strada dove ognuno ha un prezzo ma nessuno offre uno sconto.

Fino allo scoppio della crisi, questa mentalità - e il sistema finanziario che aveva creato - è stata uno dei motivi-chiave dell’enorme successo delle banche americane e della loro supremazia nel resto del mondo.

Lasciando da parte le considerazioni morali, è facile capire come la prospettiva di guadagni da nababbi abbia potuto creare un circolo virtuoso che ha fatto ricchi i banchieri, le loro aziende e gli investitori. Funziona così: la promessa di bonus a sei cifre spinge i banchieri e gli operatori a «vendere» sempre più prodotti e servizi a clienti, aumentando gli utili per le banche. Gli azionisti, a loro volta, sono contenti perché utili elevati si trasformano quasi sempre in valori azionari in crescita e dividendi rispettabili.

Il motivo per cui questa febbre dell’oro ha contagiato l’America più di ogni altro Paese - ed ha spinto le sue banche al top dell’industria mondiale - è culturale. A differenza della tradizione calvinista e puritana dell’Inghilterra e della Germania e del retaggio cattolico di Italia e Spagna, il nuovo continente non si è mai fatto scrupoli nell’esaltare la ricchezza personale, anzi l’ha assunta a stile di vita con la creazione e la divulgazione del «Sogno Americano».

È così che quando Lloyd Blankfein, il capo della Goldman Sachs, «guadagnò» 68 milioni di dollari tra contanti e azioni nel 2007 - anno di utili miliardari per la sua banca - la reazione degli opinionisti, e pure della gente, fu: «Che male c’è?» (Per la cronaca, la reazione degli altri banchieri fu: «Siamo sottopagati...»).

Non fosse stato per la crisi e la «Grande Recessione» che l’ha seguita, questa predilezione per incentivi monetari esorbitanti sarebbe probabilmente continuata per anni e anzi già cominciava ad essere copiata da qualche banca internazionale (come Deutsche Bank e Ubs) i cui grandi manager non volevano sentirsi da meno dei colleghi americani.

Ma come nei «Vestiti nuovi dell’imperatore» - la fiaba di Andersen - il tumulto devastante degli ultimi tre anni ha messo a nudo tutti i difetti di uno schema di remunerazione che, a ben guardare, è più una roulette russa che un sistema per ottenere il meglio da banchieri e banche.

Innanzitutto, pagare bonus di milioni in contanti alla fine di ogni anno incoraggia banchieri e operatori a rischiare tutto su scommesse a breve termine - le stesse che hanno portato le banche e l’economia mondiale sull’orlo dell’abisso. Non solo, ma la propensione delle banche a dirottare metà dei loro redditi alla remunerazione dei banchieri - una percentuale incredibile se paragonata ad altre industrie - è tollerabile dagli investitori solo negli anni «buoni». Quando una banca come Morgan Stanley, che non ha avuto utili nel 2009, ha deciso di pagare i banchieri come se fosse ancora nel boom, gli azionisti si sono giustamente ribellati.

Ma il vero problema è l’opinione pubblica. Le operazioni di salvataggio lanciate dal governo statunitense, che hanno messo a rischio miliardi di dollari «pubblici» per salvare le banche proprio mentre la disoccupazione stava crescendo e l’economia entrava in recessione, hanno intaccato la fede del cittadino medio nell’«American Dream».

È difficile spiegare a chi non vive in America il cambiamento drammatico e repentino nell’atteggiamento della gente, dei politici e dei sindacati nei confronti di Wall Street. Certe volte, quando scrivo di questi argomenti per il Financial Times, mi sembra di mandare dei dispacci dal fronte di una nuova guerra di classe.

Perfino un tipo pacato come il presidente Obama si è messo ad attaccare i bonus chiamandoli «osceni» e ricordando ai signori della finanza che lui non è stato eletto per aiutare un gruppo di «fat cats» (i gatti grassi - l’insulto riservato ai «ricconi»).

Lo scalpore ha già dato dei risultati. Il signor Blankfein si è fatto dare un bonus di «solo» 9 milioni di dollari per il 2009 in azioni nonostante il fatto che gli utili della Goldman abbiano superato quelli del 2007. E tutte le banche americane hanno pagato gran parte dei bonus in azioni invece che contanti - un tentativo di legare la paga dei banchieri al futuro a lungo termine dell’azienda.

La questione, però, è se le banche fanno sul serio o se questi cambiamenti sono solo una risposta a caldo alle critiche dei politici. I primi segnali non sono proprio incoraggianti: un paio di capi di banche di Wall Street mi hanno già sussurrato nell’orecchio che l’anno prossimo tenteranno di ripristinare il culto dei grandi bonus.

Se lo faranno, avranno sprecato un’occasione storica di cambiare in meglio l’industria finanziaria americana. Un sistema di remunerazione che pagasse salari decenti ma non esorbitanti in contanti e bonus più grandi in azioni avrebbe due vantaggi fondamentali per le banche: ridurre i costi, aumentando gli utili a disposizione degli azionisti (che in questo caso includerebbero anche i banchieri); evitare che i politici, esortati da un’opinione pubblica in rivolta, prendano misure drastiche che potrebbero colpire il bene più importante dell’industria finanziaria: i cervelloni stakanovisti che ci lavorano. Non sono ottimista di natura ma spero davvero, un giorno, di alzare un costosissimo Martini per brindare a una riforma di questo tipo invece che al grasso bonus di un banchiere.

francesco.guerrera@ft.com
da lastampa.it


Titolo: FRANCESCO GUERRERA Le 7000 banche che possono salvare l'America
Inserito da: Admin - Marzo 06, 2010, 11:29:27 am
6/3/2010

Le 7000 banche che possono salvare l'America

   
FRANCESCO GUERRERA
NEW YORK

Merchant Street è un vialone nel centro di Honolulu a due passi dal mare ma lontano dalle spiagge gremite di turisti accaldati e surfisti abbronzati.

A parte gli uomini di affari del posto, sono in pochi a sapere che al numero 130 della «strada del mercante» c’è il quartiere generale della Bank of Hawaii, una delle più antiche negli Stati Uniti e, da un certo punto di vista, una delle più importanti. Con le altre 7.000 piccole e medie banche d’America, la Bank of Hawaii è un ingranaggio fondamentale nel motore dell’economia statunitense.

Non è un refuso: ho scritto proprio settemila. Nessun Paese, nemmeno la Cina dove il partito limita il numero di banche per controllarle meglio, ha un sistema finanziario così ramificato come l’America. Senza l’aiuto dei banchieri di Honolulu e dei loro colleghi di Pittsburgh, Cincinnati, Albuquerque e di ogni altro angolo remoto di un Paese che è quasi un continente, la più grande economia mondiale non sarà in grado di riprendersi dallo shock della crisi. Se la Bank of Hawaii e le sue rivali negli altri 51 Stati non prestano denaro a consumatori e imprese, risvegliando le attività produttive dal loro lungo torpore, il tasso di disoccupazione rimarrà elevato, il Pil smetterà di crescere e il sogno americano si trasformerà nell’incubo di un ristagno economico paragonabile al Giappone degli ultimi decenni.

Per chi vive a New York ed è immerso nella cosiddetta «alta finanza» è facile dimenticarsi di un semplice fatto messo a nudo dalle vicende degli ultimi due anni: la locomotiva della ripresa americana dovrà fare una fermata a Merchant Street prima di passare per Wall Street.

Dove la Germania ha le piccole società del «Mittelstand» e l’Italia una miriade di imprenditori locali, l’America ha un universo bancario così capillare e frammentato che i suoi membri vanno dalla Bank of America, che da sola controlla il dieci per cento dei depositi bancari, a centinaia di «community banks», banche di quartiere con una filiale e una decina di impiegati. Questa anomalia americana in campo finanziario deriva da condizioni geografiche - la necessità di offrire servizi a un Paese immenso con enormi differenze da zona a zona - e storiche - sin dall’indipendenza dalla Gran Bretagna, gli americani hanno avuto una passione sfrenata per il federalismo e un’antipatia cronica per istituzioni centralizzate, sia private che pubbliche.

Alcune banche, che oggi sono dei giganti nel settore, sono cresciute proprio perché sono riuscite a espandersi oltre i loro confini naturali. Quando gli avventurieri del Far West «conquistarono» l’Ovest, furono le carrozze blindate a cavalli dell’American Express e della Wells Fargo (che ha ancora un vecchio cocchio come logo) a mandare i loro pochi risparmi alle famiglie che erano rimaste sulla costa orientale. Altre, come la Bank of America, sono il prodotto di fusioni tra banche regionali. Ma la maggioranza del sistema finanziario, che è tuttora considerato il più sofisticato e complesso del mondo, è composta da istituzioni di credito locali, troppo piccole per interessare alla grande stampa o agli investitori.

Ed è proprio per questo che, durante la crisi, mentre i mercati, i giornali e i politici si occupavano delle sorti di «Citigroup» e «Goldman Sachs», quasi nessuno si è accorto che la recessione paralizzava il sistema nervoso dell’economia americana. Strette tra perdite enormi su carte di credito e mutui, e prestiti mai ripagati da società locali (soprattutto le imprese di costruzioni distrutte dalla débâcle del mercato immobiliare), molte banche sono state costrette a scegliere tra inattività e morte.

Gli ultimi dati ufficiali - usciti la settimana scorsa - mettono i brividi. La quantità di prestiti fatta dalle banche americane è crollata del 7% nel 2009 - il più grande calo annuale dal 1942, subito dopo la Grande Recessione. Ma c’è di peggio. Il numero delle istituzioni considerate ufficialmente «a rischio» di bancarotta dalla Federal Deposit Insurance Corporation (Fdic), l’Authority di settore, è balzato a 702 negli ultimi tre mesi, il livello più alto negli ultimi 16 anni.

La fonte che più stimo su questo argomento - un avvocato che lavora nel settore bancario da più di trent’anni - ha promesso di pagarmi una cena da «Per Se», il ristorante più caro di New York, se il numero di banche che falliranno nel 2010 non supera le 140 che sono andate in malora l’anno scorso.

«Il settore delle piccole e medie banche è come una macchina senza freni che accelera verso il baratro», mi ha detto l’altro giorno nel suo ufficio con vista sulla Statua della Libertà. «A meno di un miracolo, non la si può fermare».

Forse ha esagerato un po’ per compiacere un giornalista in cerca di una citazione. Alcune banche, come per esempio la «Bank of Hawaii», stanno benissimo, in parte perché non hanno mai fatto prestiti o dato mutui a tassi altissimi al famigerato «subprime sector» - gente così povera da non avere i soldi per ripagare i prestiti. «Non ho mai capito come una banca potesse fare soldi a lungo termine con quel tipo di prestito», mi ha detto Allan Landon, il capo della Bank of Hawaii un po’ di mesi fa, una logica che non fa una grinza ma che è stata l’eccezione, non la regola, tra le banche americane.

La maggior parte delle istituzioni si è fatta sedurre dalle sirene del «fast buck», la chimera del fare tanti soldi velocemente attraverso prestiti al settore subprime e società locali senza grandi mezzi. In realtà, se si trattasse solo di vedere un centinaio di piccole banche andare in bancarotta, un’economia come quella Usa sarebbe in grado di assorbire il colpo senza soffrire più di tanto. Il problema è che questo è proprio il momento in cui lo Zio Sam ha bisogno di tutte le 7.000 banche per trascinare il Paese fuori dalla recessione.

Con Obama che lancia pacchetti stimolo da centinaia di miliardi di dollari, la banca centrale che tiene i tassi bassissimi e un settore imprenditoriale che dice di volere investire dopo anni di vacche magre, l’unica cosa che manca è un sistema bancario in buona salute per «passare» i soldi dal governo e la Federal Reserve a consumatori e imprese.

Non c’è bisogno d’essere nei box della Ferrari per sapere che nessun motore - né economico, né meccanico - può funzionare se la trasmissione è rotta.

da lastampa.it


Titolo: FRANCESCO GUERRERA. Wall Street non è Las Vegas
Inserito da: Admin - Marzo 17, 2010, 10:23:08 am
17/3/2010

Wall Street non è Las Vegas
   
FRANCESCO GUERRERA
La prima volta non si scorda mai. E io non dimenticherò la mia prima volta al trentunesimo piano del grattacielo della Lehman Brothers. Era prima del Natale 2006. Sotto di noi brillava una Times Square illuminata a giorno, un luna park dai colori abbaglianti. Nel salotto buono della Lehman, i capi della banca d’affari stringevano mani a giornalisti e clienti, sorridevano a signore eleganti strizzate nei vestiti neri di Vera Wang e confabulavano a bassa voce con politici e portaborse.

Il boom di Wall Street sembrava destinato a non finire, come i canapé all’aragosta e lo champagne pregiato. I «Christmas parties» della Lehman erano famosi nel bel mondo newyorchese. «Non te lo perdere. Vale la pena», era stato il consiglio di un collega più anziano, vero esperto nell’arte del mangiare e bere a sbafo. Al centro della stanza, vidi Dick Fuld, il padre-padrone della banca che aveva pilotato da poco nel «bulge bracket» – il circolo esclusivo dei potenti della finanza fino ad allora dominato da Goldman Sachs, Morgan Stanley e Merrill Lynch.

Mi feci spazio tra la folla di gente arrivata e arrivista fino a quando fui faccia a faccia con «il Gorilla» – un soprannome che Fuld si era meritato negli anni in cui aveva terrorizzato rivali e colleghi con un’aggressività che aveva fatto scalpore persino nel mondo della finanza americana. Il mio obiettivo era chiedergli se fosse vera la voce che lo voleva vicino alla pensione. Dopo anni passati a lavorare venticinque ore su ventiquattro, con un patrimonio da nababbo e una reputazione incredibile, era plausibile che il gorilla volesse scendere dall’albero. Fuld – un tipo basso ma muscoloso, naso aquilino, occhi piccoli e penetranti – mi guardò per un attimo, in silenzio, e poi disse: «Dumb question», domanda cretina, prima di girare i tacchi e scomparire tra i suoi ospiti. Purtroppo per Fuld, non ci saranno più feste al trentunesimo piano e le domande – cretine o meno – presto verranno poste da giudici e pubblici ministeri.

Due anni dopo quel party, la Lehman è diventata la più grande azienda a fallire nella storia degli Stati Uniti, la vittima più famosa di una crisi finanziaria senza uguali. «Vittima» è quello che pensavano un po’ tutti prima della settimana scorsa, quando un taciturno avvocato di Chicago – tal Anton Volukas - ha pubblicato un rapporto-bomba sulla bancarotta della Lehman. Le 2200 pagine uscite dalla penna di Volukas, a cui la corte e i creditori hanno chiesto di indagare sulle cause e sulle responsabilità del fallimento, sono più un romanzo giallo che un rapporto legale. Sul banco degli imputati del «Lehmangate» siedono non solo Fuld e i suoi ma l’intera classe dirigente di Wall Street negli anni prima della crisi. Dopo aver raccolto 350 miliardi di pagine di documenti interni della Lehman e aver interrogato centinaia di testimoni, l’avvocato di Chicago è arrivato ad una conclusione, semplice ma esplosiva: la morte della Lehman è stata causata dalla Lehman stessa. Con una pazienza da certosino e uno stile letterario alla Erle Stanley Gardner, il creatore di Perry Mason, Volukas ha spiegato che il fallimento di una banca che aveva resistito a crisi e recessioni per 158 anni è stato provocato dal suo desiderio sfrenato di fare soldi. A qualsiasi costo. Dalla speculazione edilizia a «derivatives» complesse, la Lehman metteva a rischio i fondi di clienti ed azionisti per non «lasciare soldi sul tavolo» – un detto di Wall Street che, non a caso, è preso in prestito dagli scommettitori di Las Vegas.

Quando, verso la fine del 2007, la convulsione dei mercati e la recessione hanno messo in difficoltà questo gigante dai piedi di argilla - una banca che sopravviveva solo grazie a prestiti a corto termine – la Lehman ha cominciato ad ispirarsi a Machiavelli. Con una politica del «fine giustifica i mezzi», i grandi finanzieri rinchiusi nel grattacielo di Times Square si sono inventati «Repo 105», un trucchetto contabile che ha permesso alla banca – secondo il rapporto – di nascondere circa 50 miliardi di dollari proprio prima di pubblicare gli utili trimestrali.

Uno stratagemma niente male, visto che spostare una somma del genere fuori bilancio ha consentito alla Lehman di presentare risultati che hanno tenuto a bada i mercati e le agenzie di credito e ritardato il suo fallimento di molti mesi. Il problema è che Fuld e i suoi non rivelarono mai alle authority, agli azionisti, o, Dio ne guardi, alla stampa, il «segreto» del loro successo.

Per Volukas – e i creditori che hanno perso miliardi quando Lehman andò in malora – questo potrebbe essere un reato ed è sufficiente per chiedere ai giudici di indagare su Fuld, tre «chief financial officers» della Lehman e la società contabile Ernst & Young. I quattro accusati ed E&Y hanno negato ogni responsabilità e spetterà ai tribunali decidere chi ha torto e chi ha ragione.

Per il mondo finanziario, però, il risultato finale non è tanto importante. Quello che conta è la condanna di un modo di fare business - aggressivo, rischioso, ossessionato dai profitti a breve termine - che era stato preso a modello da banche americane e internazionali. Lehman (e la sua rivale Bear Stearns) sono fallite perché hanno spinto questo «business model» oltre ogni limite, ma la verità è, per dirla con Mozart, che Così Facevan Tutte (le banche). Alcune più, alcune meno, naturalmente, ma non è una scusa. Prima o poi, banche che giuravano (e tuttora giurano) di avere a cuore solo gli interessi di clienti e azionisti, dovranno ammettere che la loro passione per il denaro facile (e la prospettiva di bonus multimilionari) le ha spinte a mettere a rischio tutto: le loro società, la loro industria e perfino l’economia mondiale.

La bancarotta di Lehman è anche la bancarotta morale di Wall Street. La mattina dopo la pubblicazione del rapporto Volukas, il capo di una delle più grandi banche d’America mi ha detto: «Ho quasi vomitato quando l’ho letto. Sono disgustato da noi, dal nostro settore». Lo scandalo Enron – anche quello basato su conti fittizi e fuori bilancio – portò una rivoluzione nel codice legale delle compagnie americane nel tentativo di aumentare i rischi e le punizioni per i falsi in bilancio. Il Lehmangate offre un’opportunità simile ma per un settore ancora più importante: la finanza, che è la conditio sine qua non per lo sviluppo economico.

Le riforme possibili sono tante ma la domanda fondamentale che Wall Street e l’amministrazione Obama si devono porre è semplice: come estirpare la mentalità di Las Vegas da Wall Street e creare un settore finanziario che cresca e faccia soldi senza essere una bomba ad orologeria per l’economia mondiale? Non so cosa ne pensi Mr. Fuld, ma a me questa non sembra una domanda cretina.

francesco.guerrera@ft.com
da lastampa.it


Titolo: FRANCESCO GUERRERA. Ma l'America è già ripartita
Inserito da: Admin - Aprile 17, 2010, 04:45:46 pm
17/4/2010

Ma l'America è già ripartita
   
FRANCESCO GUERRERA

Le ultime vicende della finanza americana sembrano tratte da «Thriller», il video di Michael Jackson. Immaginate la scena: è notte fonda in una deserta Wall Street. Da tombini vuoti e grattacieli bui incominciano ad apparire delle strane figure, società-zombie che si pensavano perdute per sempre. Dopo mesi nell’aldilà sono ritornate tra i vivi, grazie alla generosità dei contribuenti statunitensi.

La tenue luce della luna ci permette di riconoscere alcune facce note. C’è la Citigroup, il gigante bancario che il governo americano ha tenuto a galla con 45 miliardi di dollari, la General Motors che andò in bancarotta dopo aver sperperato i soldi dello Zio Sam, e perfino l’Aig - la società di assicurazioni più grande e temuta del mondo che crollò come un castello di carte nel 2008. Non tutti questi morti viventi sono in grande forma. La Goldman Sachs, per esempio, che fu una delle prime banche a ripagare gli aiuti federali e a ritornare a guadagnare utili stratosferici, è braccata da regolatori e politici. Solo ieri, la Securities and Exchange Commission – l’authority del settore – ha accusato la Goldman di frode, dicendo che nascose delle informazioni importanti ad investitori che comprarono uno dei suoi prodotti «subprime» (complicatissime obbligazioni «costruite» con mutui sulle case dei poveracci).

Goldman ha negato tutto ma l’attacco della Sec è durissimo perché accusa la più famosa banca di Wall Stret di essere al centro del sistema marcio e corrotto del subprime che ha portato alla crisi. I grandi banchieri con cui ho parlato ieri pomeriggio erano in stato di choc e non uno era pronto a scommettere contro la mia previsione che Lloyd Blankfein, il potentissimo capo della Goldman, potrebbe essere silurato nei prossimi giorni.

Ma a parte la Goldman, gran parte del resto del settore finanziario è in forte ripresa. Forse non è un caso, ma la Pasqua è passata da poco e nei salotti buoni di New York e Washington non si fa altro che parlare della resurrezione di aziende che erano state date per morte. La Citi sta per annunciare il primo utile trimestrale in due anni e le azioni hanno preso il volo da quando il Tesoro americano ha detto che venderà la sua quota del 27 per cento. La Gm già parla di ripagare i 6,7 miliardi ricevuti dai cittadini americani, mentre il capo dell’Aig sta tentando di convincere il governo a liberare l’azienda dal giogo di una partecipazione azionaria dell’80 per cento. L’amministrazione Obama non ha perso l’occasione per mettere in imbarazzo i cosiddetti esperti (me incluso) che avevano predetto che il governo federale avrebbe perso quasi tutti i soldi spesi nel fare la respirazione bocca-a-bocca all’economia Usa. Gli esperti del Tesoro hanno fatto sapere che il costo dell’operazione-salvataggio non ammonterà a più di 89 miliardi di dollari perché gran parte degli aiuti sono stati, o saranno, ripagati con interessi. Ottantanove miliardi non sono pochi, ma la cifra è ben al di sotto dei 250 miliardi predetti dal governo un anno fa, e meno dell’uno per cento del Pil americano (tanto per dare un’idea, il crollo delle casse di risparmio negli Anni 80 costò ai consumatori americani più del 3 per cento del Pil). Come ha fatto il governo Obama a trasformare un probabile tracollo economico in una bazzecola, una postilla in fondo al bilancio annuale di Usa Inc.?

I fan del Presidente già gridano al miracolo e raccontano di un team - il segretario del Tesoro Tim Geithner, il super-consigliere Larry Summers, il capo della Federal Reserve Ben Bernanke - che ha acciuffato l’America sull’orlo del baratro economico e l’ha guidata con tranquillità verso la salvezza. In realtà il Presidente e gli altri abitanti dell’ala Ovest della Casa Bianca sono stati un po’ bravi e molto fortunati. Gli aiuti immensi distribuiti dai governi Bush e Obama ai settori più deboli dell’economia americana - investimenti diretti ma anche tassi d’interesse bassissimi e prestiti a poco prezzo - hanno creato un circolo virtuoso che pochi avrebbero pronosticato due anni fa. Le dosi da cavallo di medicine made in Washington hanno salvato l’economia da una recessione che sembrava destinata a diventare un ristagno economico stile Giappone. La ripresa ha, a sua volta, permesso alle imprese di ricominciare a investire e ad assumere impiegati, alle banche di fare soldi finanziando queste attività e ai consumatori di ritornare nei negozi.

I mercati hanno fiutato il cambiamento di aria e si sono messi a tirare - questa settimana l’indice-guida della Borsa di New York ha toccato il punto più alto dal settembre del 2008 - aumentando gli utili di banche d’affari che comprano e vendono titoli e obbligazioni. Come ama dire il leggendario investitore Warren Buffett, «a rising tide lifts all boats» - quando sale, la marea solleva tutte le barche - ed è così che le onde della ripresa americana hanno aiutato perfino società che erano naufragate come la Citi, la Gm e l’Aig. Alla fine il risultato è quello che conta, e in questo caso il risultato è positivo non solo per l’America ma per noi tutti: l’economia statunitense sta crescendo e il sistema bancario più importante del mondo è ancora in piedi. Tanto di cappello ai signori dell’ala Ovest. Però prima di lanciarci nei panegirici a Obama, Geithner e Summers vale la pena ricordarsi che lo stesso programma di aiuti sarebbe potuto finire male, anzi malissimo.

Se l’economia non avesse risposto alla terapia-shock di interessi a tasso zero, aiuti senza precedenti a istituzioni finanziarie e consumatori, e interventi mastodontici nei mercati, le autorità statunitensi avrebbero messo a repentaglio il futuro del Paese con un deficit fiscale sempre più enorme, un Pil che non cresce e un tessuto sociale corroso dalla disoccupazione alle stelle. Per fortuna, l’economia e la base aziendale - le grandi multinazionali ma anche le piccole e medie aziende che sono l’asse portante dell’imprenditoria Usa - hanno risposto, riaccendendo gli impianti, chiedendo prestiti alle banche e vendendo prodotti ai consumatori sia in America che all’estero. Per spiegare il successo dell’operazione architettata dal team Obama bisogna chiamare gli psicologi, non gli economisti. La differenza tra recessione e ripresa è stato il fatto che i mercati, le aziende e i consumatori ci «hanno creduto» - sono tornati a lavorare nella speranza che, come dicono a Broadway, «it will be alright on the night» (andrà tutto bene in prima serata). L’ottimismo quasi panglossiano degli americani è uno dei tratti caratteriali più disprezzati da noi europei - soprattutto negli ambienti cinici e duri della finanza e dei grandi affari (e pure, diciamolo, del giornalismo).

Anche il culto del successo individuale e l’etica spartana del lavoro - due capisaldi del «sogno americano» che ancora anima le speranze e gli obiettivi di gran parte degli Stati Uniti - sono spesso considerati alieni, quasi di cattivo gusto, nel Vecchio Continente. Portate all’eccesso, queste caratteristiche americane sono controproducenti - e la crisi degli ultimi due anni è un esempio perfetto di un disastro globale causato dal desiderio sfrenato e arrogante di un popolo che si sentiva in diritto di vivere al di sopra dei propri mezzi senza riguardo per le conseguenze. Allo stesso tempo però l’ingegnosità di un Paese giovane con una classe imprenditoriale a cui piace rischiare (chi aveva sentito parlare di Google 15 anni fa?) e una forza lavoro flessibile e molto mobile si è rivelata l’arma vincente per un’economia ferita quasi a morte.

Vista dall’America, col suo sistema sanitario da terzo mondo, immense disparità tra ricchi e poveri, e un mondo del lavoro che sembra sia stato progettato da Stakhanov, la piccola Europa sembra spesso un’isola felice. Ma basta guardare la tragedia greca della crisi della zona euro per capire che, in questo caso, l’America è riuscita ancora una volta a dar torto agli scettici e a far meglio dei Paesi sull’altra sponda dell’Atlantico.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario per il Financial Times a New York.

Francesco.guerrera@ft.com

da lastampa.it


Titolo: FRANCESCO GUERRERA Wall Street, la regola dell'immoralità
Inserito da: Admin - Maggio 01, 2010, 10:20:52 am
1/5/2010

Wall Street, la regola dell'immoralità

FRANCESCO GUERRERA


Memorizzate questa data: il ventidue giugno dell’anno 2007 – il giorno in cui Wall Street fece cadere il velo e mostrò il suo aspetto più becero e meschino.

Alle 16,32 di quel fatidico pomeriggio, Tom Montag, all’epoca uno dei dirigenti della Goldman Sachs, mandò un’email ad un collega nella prestigiosissima banca d’affari.
Montag, come tutti i grandi banchieri, era presissimo e la sua missiva consisteva di una sola riga: «Ragazzi, l’Obbligazione Lupo è stata proprio merdosa». Quelle sette parole inglesi potrebbero diventare il motto di un modo di interpretare l’alta finanza che è stato una delle cause dell’implosione dell’economia mondiale e dell’enorme crisi di fiducia nel settore bancario.

Vi risparmio la descrizione della complicatissima Obbligazione Lupo: vi basti sapere che si trattava di un titolo pieno di mutui «subprime» che crollò in valore dopo pochi mesi quando gli indigenti debitori smisero di pagare. Il dettaglio fondamentale, però, è che la Goldman vendette un miliardo di dollari di queste obbligazioni a investitori - intascando milioni in commissioni - nonostante l’opinione scatologica del Signor Montag.

Ma non è finita. Grazie alle investigazioni di un gruppo di agguerritissimi senatori americani, sappiamo che la Goldman non solo creò e smistò un prodotto «sospetto», ma ci scommise pure contro, comprando dei contratti che le garantivano dei pagamenti ogni volta che il titolo perdeva valore.

Per ricapitolare: mentre gli investitori in Timberwolf stavano rimettendoci centinaia di milioni di dollari (uno dei fondi d’investimento andò persino in bancarotta), la Goldman ci guadagnava di suo. Altro che Lupo: i cervelloni della banca d’affari quell’obbligazione l’avrebbero dovuta chiamare Squalo.

Bisogna dire che la condotta della Goldman non è illegale – anche se la società è stata accusata di frode dall’authority americana per un’altra obbligazione molto simile a Lupo (Goldman nega quelle accuse). Anzi, i banchieri della Goldman non si stancano mai di ripetere che non hanno mai avuto nessun dovere di dire ai clienti quello che pensano dei titoli che gli vendono.

In questo hanno ragione: nel mondo della finanza americana «caveat emptor» è una delle regole immutabili. I fondi d’investimento che si sono fatti azzannare dall’Obbligazione Lupo sarebbero dovuti stare più attenti a quello che compravano. Ma alla luce degli eventi epocali del 2007-2009, una spiegazione strettamente legale non basta più. Dopo aver partecipato a follie finanziarie che sono costate miliardi di dollari e milioni di posti di lavoro, la domanda da porre a Wall Street è di natura morale, non legale. È etico per una banca mettere i propri interessi al di sopra di quelli dei suoi clienti? È giusto per un venditore mettere in vetrina prodotti che sa che sono marci? Per Goldman - e molte altre banche - la risposta è sì. Se i clienti vogliono un prodotto, loro glielo vendono - per una bella commissione - senza tante remore e crisi di coscienza, salvo riservarsi il diritto di fare dei soldi scommettendoci contro.

Per gran parte della gente e la classe politica la risposta è no. Come ha detto il senatore repubblicano John Ensign, che di scommesse se ne intende visto che viene dal Nevada, durante un’udienza parlamentare con dirigenti della Goldman questa settimana: «Las Vegas si dovrebbe offendere quando viene paragonata a Wall Street: a Las Vegas gli scommettitori conoscono le loro probabilità di vittoria, voi invece manipolate le probabilità a partita in corso».

Un casinò truccato dove il banco vince sempre. Se questa è l’immagine del sistema finanziario più grande e sofisticato del mondo, non bisogna essere uno dei geni matematici che hanno inventato Timberwolf per capire che Wall Street ha un problema serio.
Un problema che non scomparirà da solo e certo non viene risolto dallo spettacolo a cui ho assistito martedì: 11 ore di colloquio tra capi della Goldman e senatori e nemmeno una traccia di pentimento nelle facce o nelle parole dei banchieri.

Lloyd Blankfein, l’amministratore delegato della Goldman che nel 2007, l’anno di Timber-wolf, si portò a casa 68 milioni di dollari, l’ha detto chiaro e tondo ai senatori che protestavano che una banca che vende prodotti con una mano e scommette con i suoi soldi con l’altra è al centro di gravi conflitti d’interesse. «Non ci vedo nulla di male», ha detto martedì. Ogni crisi finanziaria ha le sue vittime e i suoi carnefici e la Grande Recessione degli anni 2007-2009 non fa eccezione. Le vittime le conosciamo bene: gli americani medi convinti che i prezzi delle case non sarebbero caduti mai, che avere sette carte di credito, quattro macchine e cinque televisori fosse normale e che il «sogno americano» di prosperità infinita non si sarebbe mai infranto.

I carnefici sono anch’essi molti e molto noti (una classe politica, spronata dal banchiere centrale Alan Greenspan, che s’innamorò della deregulation; agenzie di credito che chiusero gli occhi; e investitori accecati dalla chimera dei soldi facili). Ma se le banche continuano a negare l’evidenza saranno le uniche a pagare per colpe non tutte loro. L’ostinazione e l’arroganza di un banchiere milionario che dice: «Non c’è niente di male» non aiuta né la sua banca né un settore che, al momento, è meno rispettato dei venditori di auto usate (e perfino dei giornalisti...).

Le riforme stanno arrivando a grande velocità con un bel carico di populismo acchiappa-voti - non è un caso che le accuse di frode contro Goldman siano state annunciate proprio quando l’amministrazione Obama stava avendo difficoltà a convincere i repubblicani a passare la legge che ridisegnerà il sistema finanziario Usa.

La «regola Volcker» - che prende il nome dal vecchio capo della Federal Reserve e proibisce alle banche di usare fondi propri per comprare e vendere titoli e investire in società - sarà sicuramente approvata e banche come la Goldman (ma anche rivali come la Morgan Stanley e la JPMorgan) dovranno dire addio a miliardi di utili. E forse è questa la soluzione più giusta ai problemi di Wall Street: lasciare dei soldi sul tavolo - come dicono i banchieri quando non riescono ad estrarre la commissione più alta possibile da un cliente - e in cambio evitare misure draconiane e punitive che potrebbero mettere a rischio il futuro di uno dei settori più importanti dell’economia statunitense.

Abbandonare i mercati rischiosi ma redditizi di prodotti complessi ed esotici, dei titoli tipo Timberwolf e delle scommesse con i propri soldi non sarà facile per banchieri, banche e investitori che si sono abituati a utili altissimi e bonus principeschi.

Il «ritorno al futuro» - al ruolo di banche come intermediarie di flussi monetari tra compratori e venditori piuttosto che protagoniste di azioni finanziarie con capitale proprio - non sarà facile soprattutto perché questi tipi di servizi non sono molto remunerativi. L’alternativa però è essere al centro del tifone del dopo-crisi - identificati come colpevoli da una classe politica che è praticamente obbligata ad infierire sui banchieri e le loro società per soddisfare la sete di sangue di un pubblico arrabbiato. Dopo tanti anni di caveat emptor, sarebbe utile per Wall Street adottare la regola del «caveat venditor».

*Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario per il Financial Times a New York.
Francesco.guerrera@ft.com

da lastampa.it


Titolo: FRANCESCO GUERRERA. Wall Street, la regola dell'immoralità
Inserito da: Admin - Maggio 02, 2010, 11:05:18 am
1/5/2010

Wall Street, la regola dell'immoralità
   
FRANCESCO GUERRERA


Memorizzate questa data: il ventidue giugno dell’anno 2007 – il giorno in cui Wall Street fece cadere il velo e mostrò il suo aspetto più becero e meschino.
Alle 16,32 di quel fatidico pomeriggio, Tom Montag, all’epoca uno dei dirigenti della Goldman Sachs, mandò un’email ad un collega nella prestigiosissima banca d’affari.
Montag, come tutti i grandi banchieri, era presissimo e la sua missiva consisteva di una sola riga: «Ragazzi, l’Obbligazione Lupo è stata proprio merdosa». Quelle sette parole inglesi potrebbero diventare il motto di un modo di interpretare l’alta finanza che è stato una delle cause dell’implosione dell’economia mondiale e dell’enorme crisi di fiducia nel settore bancario.

Vi risparmio la descrizione della complicatissima Obbligazione Lupo: vi basti sapere che si trattava di un titolo pieno di mutui «subprime» che crollò in valore dopo pochi mesi quando gli indigenti debitori smisero di pagare. Il dettaglio fondamentale, però, è che la Goldman vendette un miliardo di dollari di queste obbligazioni a investitori - intascando milioni in commissioni - nonostante l’opinione scatologica del Signor Montag.

Ma non è finita. Grazie alle investigazioni di un gruppo di agguerritissimi senatori americani, sappiamo che la Goldman non solo creò e smistò un prodotto «sospetto», ma ci scommise pure contro, comprando dei contratti che le garantivano dei pagamenti ogni volta che il titolo perdeva valore.

Per ricapitolare: mentre gli investitori in Timberwolf stavano rimettendoci centinaia di milioni di dollari (uno dei fondi d’investimento andò persino in bancarotta), la Goldman ci guadagnava di suo. Altro che Lupo: i cervelloni della banca d’affari quell’obbligazione l’avrebbero dovuta chiamare Squalo.

Bisogna dire che la condotta della Goldman non è illegale – anche se la società è stata accusata di frode dall’authority americana per un’altra obbligazione molto simile a Lupo (Goldman nega quelle accuse). Anzi, i banchieri della Goldman non si stancano mai di ripetere che non hanno mai avuto nessun dovere di dire ai clienti quello che pensano dei titoli che gli vendono.

In questo hanno ragione: nel mondo della finanza americana «caveat emptor» è una delle regole immutabili. I fondi d’investimento che si sono fatti azzannare dall’Obbligazione Lupo sarebbero dovuti stare più attenti a quello che compravano. Ma alla luce degli eventi epocali del 2007-2009, una spiegazione strettamente legale non basta più. Dopo aver partecipato a follie finanziarie che sono costate miliardi di dollari e milioni di posti di lavoro, la domanda da porre a Wall Street è di natura morale, non legale. È etico per una banca mettere i propri interessi al di sopra di quelli dei suoi clienti? È giusto per un venditore mettere in vetrina prodotti che sa che sono marci? Per Goldman - e molte altre banche - la risposta è sì. Se i clienti vogliono un prodotto, loro glielo vendono - per una bella commissione - senza tante remore e crisi di coscienza, salvo riservarsi il diritto di fare dei soldi scommettendoci contro.

Per gran parte della gente e la classe politica la risposta è no. Come ha detto il senatore repubblicano John Ensign, che di scommesse se ne intende visto che viene dal Nevada, durante un’udienza parlamentare con dirigenti della Goldman questa settimana: «Las Vegas si dovrebbe offendere quando viene paragonata a Wall Street: a Las Vegas gli scommettitori conoscono le loro probabilità di vittoria, voi invece manipolate le probabilità a partita in corso».

Un casinò truccato dove il banco vince sempre. Se questa è l’immagine del sistema finanziario più grande e sofisticato del mondo, non bisogna essere uno dei geni matematici che hanno inventato Timberwolf per capire che Wall Street ha un problema serio.
Un problema che non scomparirà da solo e certo non viene risolto dallo spettacolo a cui ho assistito martedì: 11 ore di colloquio tra capi della Goldman e senatori e nemmeno una traccia di pentimento nelle facce o nelle parole dei banchieri.

Lloyd Blankfein, l’amministratore delegato della Goldman che nel 2007, l’anno di Timber-wolf, si portò a casa 68 milioni di dollari, l’ha detto chiaro e tondo ai senatori che protestavano che una banca che vende prodotti con una mano e scommette con i suoi soldi con l’altra è al centro di gravi conflitti d’interesse. «Non ci vedo nulla di male», ha detto martedì. Ogni crisi finanziaria ha le sue vittime e i suoi carnefici e la Grande Recessione degli anni 2007-2009 non fa eccezione. Le vittime le conosciamo bene: gli americani medi convinti che i prezzi delle case non sarebbero caduti mai, che avere sette carte di credito, quattro macchine e cinque televisori fosse normale e che il «sogno americano» di prosperità infinita non si sarebbe mai infranto.

I carnefici sono anch’essi molti e molto noti (una classe politica, spronata dal banchiere centrale Alan Greenspan, che s’innamorò della deregulation; agenzie di credito che chiusero gli occhi; e investitori accecati dalla chimera dei soldi facili). Ma se le banche continuano a negare l’evidenza saranno le uniche a pagare per colpe non tutte loro. L’ostinazione e l’arroganza di un banchiere milionario che dice: «Non c’è niente di male» non aiuta né la sua banca né un settore che, al momento, è meno rispettato dei venditori di auto usate (e perfino dei giornalisti...).

Le riforme stanno arrivando a grande velocità con un bel carico di populismo acchiappa-voti - non è un caso che le accuse di frode contro Goldman siano state annunciate proprio quando l’amministrazione Obama stava avendo difficoltà a convincere i repubblicani a passare la legge che ridisegnerà il sistema finanziario Usa.

La «regola Volcker» - che prende il nome dal vecchio capo della Federal Reserve e proibisce alle banche di usare fondi propri per comprare e vendere titoli e investire in società - sarà sicuramente approvata e banche come la Goldman (ma anche rivali come la Morgan Stanley e la JPMorgan) dovranno dire addio a miliardi di utili. E forse è questa la soluzione più giusta ai problemi di Wall Street: lasciare dei soldi sul tavolo - come dicono i banchieri quando non riescono ad estrarre la commissione più alta possibile da un cliente - e in cambio evitare misure draconiane e punitive che potrebbero mettere a rischio il futuro di uno dei settori più importanti dell’economia statunitense.

Abbandonare i mercati rischiosi ma redditizi di prodotti complessi ed esotici, dei titoli tipo Timberwolf e delle scommesse con i propri soldi non sarà facile per banchieri, banche e investitori che si sono abituati a utili altissimi e bonus principeschi.

Il «ritorno al futuro» - al ruolo di banche come intermediarie di flussi monetari tra compratori e venditori piuttosto che protagoniste di azioni finanziarie con capitale proprio - non sarà facile soprattutto perché questi tipi di servizi non sono molto remunerativi. L’alternativa però è essere al centro del tifone del dopo-crisi - identificati come colpevoli da una classe politica che è praticamente obbligata ad infierire sui banchieri e le loro società per soddisfare la sete di sangue di un pubblico arrabbiato. Dopo tanti anni di caveat emptor, sarebbe utile per Wall Street adottare la regola del «caveat venditor».

*Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario per il Financial Times a New York.
Francesco.guerrera@ft.com

da lastampa.it


Titolo: FRANCESCO GUERRERA. È meglio rileggere Frankenstein
Inserito da: Admin - Maggio 15, 2010, 12:28:55 pm
15/5/2010

È meglio rileggere Frankenstein

FRANCESCO GUERRERA

I dieci minuti da brivido vissuti dalla Borsa di New York la settimana scorsa sono una storia degna delle penne di Franz Kafka, Agatha Christie e Mary Shelley: un giallo surreale che ha messo a nudo i difetti di un sistema che tutti pensavano quasi perfetto.
I fatti sono noti. Un bel pomeriggio primaverile, l’indice Dow Jones ha perso il 10% prima di rimbalzare in maniera altrettanto violenta e chiudere in lieve perdita.

Il problema è che, a dieci giorni da quel crollo improvviso, nessuno è riuscito a rispondere alla domanda che uno dei miei colleghi mi ha posto non appena ho messo piede in ufficio dopo un pranzo di lavoro alle 14,31 di quel fatidico giovedì 6 maggio. «Come mai?».

Investitori grandi e piccoli, da Syracuse nello Stato di New York a Siracusa in Sicilia, hanno perso miliardi di dollari quando il più grande mercato azionario del mondo si è trasformato in un enorme yo-yo ma il governo americano, le banche d’affari e gli operatori di Borsa ancora non sanno cosa sia successo.

Un veterano dei mercati americani, la cui voce ancora tremava a raccontare il giovedì nero, ha fatto un’analogia interessante e preoccupante. «Pensa che cosa succederebbe se le autorità non dicessero assolutamente nulla dopo un incidente aereo: questo silenzio istituzionale è terrificante». I soliti ben informati parlano di un errore grossolano di un operatore con «le dita grasse» – uno che voleva vendere un po’ di azioni e ha scritto «miliardi» invece di «milioni» sulla tastiera. Altri danno la colpa ai super-computer che dominano le Borse americane ed europee, cervelloni che comprano e vendono titoli ad una tale velocità che nessun essere umano li può frenare. Gli pseudo-psicologi, invece, parlano dell’insicurezza cronica di mercati che per mesi hanno dovuto digerire le cattive notizie provenienti dalla Grecia e altri Paesi del vecchio Continente.

Ma anche se tutte queste ragioni fossero vere, la Borsa di New York dovrebbe avere regole ed infrastrutture che non le permettono di comportarsi come un adolescente con la passione per il bungee-jumping. La vera perdita subita dai mercati americani è molto più grave dei passivi finanziari di migliaia di investitori. In quei 600 secondi di fuoco, la Borsa più famosa del mondo ha perso il diritto ad essere il faro del capitalismo internazionale, il metronomo che batte il tempo per l’economia mondiale.

Prima o poi, le perdite del Dow, del Nasdaq e la miriade di piccole Borse che sono colate a picco in quei dieci pazzi minuti verranno recuperate. La legge del mercato è simile alle storie d’amore raccontate da Lucio Battisti quando cantava, in Io vorrei... non vorrei... ma se vuoi, di «discese ardite e risalite/ su nel cielo aperto/ e poi giù il deserto/ e poi ancora in alto/con un grande salto». L’unica certezza nel mondo arcano della compravendita di azioni è che un mercato ribassista – o «mercato dell’orso» nel gergo anglosassone – è sempre seguito dal mercato «del toro», in cui gli indici salgono e gli investitori guadagnano, e viceversa.

Perdere la faccia, però, per una Borsa che dipende dalla fiducia di investitori e operatori è un po’ come perdere la verginità: non si può più tornare indietro. Come ha detto Larry Tabb, uno dei santoni dell’analisi finanziaria made in Usa: «Non è tanto che non sappiamo esattamente cosa sia successo ma che sappiamo fin troppo bene che la liquidità di mercati che pensavamo solidi e robusti è evaporata in un battibaleno».

E se le Borse di Londra, Hong Kong e Tokyo – le grandi rivali di New York - pensano di poter approfittare delle disgrazie altrui, si sbagliano di grosso. La débâcle di Wall Street ha avuto ripercussioni in tutto il mondo (persino il petrolio, quotato a Londra, è sceso velocemente quel giovedì pomeriggio) ed investitori che sono stati bruciati sul mercato-guida non si sposteranno sicuramente su Borse più rischiose e meno liquide.

Gli operatori newyorchesi, quantomeno quelli seri e intelligenti, hanno capito subito la gravità della situazione. Le mie spie nella sede del New York Stock Exchange (Nyse) – il palazzone neo-classico che domina l’angolo tra Wall Street e Broad Street sulla punta di Manhattan – mi hanno detto che il baccano caotico della sala di contrattazione si è trasformato in un silenzio di tomba quando il Dow è incominciato a crollare. Nelle sedi delle banche d’affari, operatori che ne hanno viste di tutti i colori sono rimasti sbalorditi. «Non c’era nulla da fare: sono rimasto lì, con la bocca aperta, fissando uno schermo che è diventato tutto rosso», mi ha detto uno dei più esperti traders di una banca americana. In quindici anni di giornalismo finanziario su tre continenti non mi era mai capitato di sentire una confessione d’impotenza così sincera e disperata.

Il motivo per cui gli operatori sono passati da protagonisti a spettatori delle convulsioni del mercato è dovuto alla rivoluzione tecnologica e strutturale delle Borse americane negli ultimi decenni. L’invenzione di computer sempre più potenti ha trasformato il modo in cui gli investitori interagiscono con i mercati. Fino alla metà del XX secolo, la Borsa di New York ha funzionato più o meno come era stato deciso nel 1792 nell’«Accordo del Platano» – il patto tra 24 brokers riuniti sotto un albero vicino a Wall Street che creò il nucleo del primo Stock Exchange.

L’avvento dei super-computer ha fatto sì che il mercato fosse in grado di trattare molte più azioni, molto più velocemente e a prezzi così bassi (il costo-base di una transazione è passato da una media di 12 cents a meno di 1 cent) da permettere a milioni di risparmiatori di giocare in Borsa. La «democratizzazione» del mercato è avvenuta a spese degli operatori. Se le casalinghe del Wyoming potevano comprare General Electric e Ibm dalla camera da letto con un click del mouse, che bisogno c’era di tutti quei signori in giacche sgargianti che urlavano numeri e sgomitavano di fronte a un tabellone pieno di cifre? E così, negli ultimi dieci anni, gli esseri umani – i rumorosi, costosi e fallibili esseri umani - sono stati esclusi dal tourbillon finanziario che chiamiamo mercati. Oggigiorno, più del 90 per cento degli ordini eseguiti al New York Stock Exchange sono automatizzati.

Allo stesso tempo, i prezzi relativamente bassi delle nuove tecnologie hanno facilitato la nascita di mercati alternativi al vecchio Stock Exchange. Banche d’affari hanno creato «stagni scuri» – mini-borse che permettono ai loro clienti di comprare e vendere azioni in privato senza rivelare il prezzo ai loro rivali. Altri operatori di mercato – come il Nasdaq, che un tempo era dedicato a società di tecnologia e telecomunicazioni – hanno approfittato del progresso tecnologico per offrire azioni trattate sul Nyse.

Il risultato è stato una frammentazione che rende praticamente impossibile – a regolatori, investitori e operatori – avere una visione completa dei mercati. Nel 2009, solo il 13 per cento del volume di mercati è passato attraverso il Nyse.

Come se non bastasse, la possibilità di fare soldi (moltissimi soldi) usando computer per sfruttare piccole discrepanze di prezzo tra un mercato e l’altro ha spinto generazioni di laureati in matematica e fisica a creare algoritmi complicatissimi da applicare alla compravendita di titoli. La velocità con cui questi fondi «algos» agiscono li ha trasformati nei re del mercato. In un giorno normale, questi investitori senza faccia e senza una strategia chiara muovono circa due terzi del volume dei mercati americani.

La mancanza di regole comuni tra tutti questi attori è una delle ragioni del crollo del 6 maggio. A differenza del Nyse, per esempio il Nasdaq non ha un meccanismo per «rallentare» il mercato quando gli indici calano – una differenza che ha permesso ad investitori che volevano vendere a tutti costi di disfarsi di titoli a prezzi bassissimi. E mentre gli operatori del Nyse sono obbligati a ricevere ordini in tutte le condizioni, gli «algos» possono ritirarsi dal mercato in momenti di crisi – un fattore che ha fatto evaporare la liquidità ed esacerbato la caduta del Dow.

La confluenza quasi miracolosa di tecnologia e cervelloni (sia computerizzati che umani) ha portato dei vantaggi immensi ai mercati Usa, contribuendo alla crescita del settore bancario americano e consolidando la posizione di New York come capitale della finanza mondiale. Ma ha anche dato origine un sistema così astruso e complesso che è impossibile da sorvegliare e che non può essere fermato quando diventa ingestibile. Come con la crisi dei mutui subprime, la passione di Wall Street per creare prodotti nuovi e lucrativi ha creato un mostro che i suoi stessi artefici non sono più in grado di controllare.
Invece di fissare quegli schermi verdi e rossi, gli operatori dovrebbero rileggersi «Frankenstein» – il capolavoro della Shelley – al più presto.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario per il Financial Times a New York.
francesco.guerrera@ft.com

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7356&ID_sezione=&sezione=


Titolo: FRANCESCO GUERRERA. Robin Hood all'attacco delle banche
Inserito da: Admin - Maggio 29, 2010, 12:44:58 pm
29/5/2010

Robin Hood all'attacco delle banche

FRANCESCO GUERRERA

I pendolari della metropolitana di New York sono abituati a mendicanti e matti ed è raro che abbandonino giornali e iPod per prestare attenzione alle scene disperate del mondo sotterraneo della «subway». Ma un signore di mezza età che si è alzato nel mezzo della carrozza l’altro giorno mi ha colpito. L’ho notato non solo per gli occhiali da sole – indossati quasi in segno di sfida, o disprezzo, per i viaggiatori che passano parte della loro vita nel buio di stazioni fetide e tunnel obsoleti. A differenza del solito sottobosco newyorchese, questo personaggio non ha chiesto nulla ai nomadi della linea F. Anzi, ha fatto loro un’offerta di lavoro. «Siamo una società di guardie giurate - ha detto -. Cerchiamo gente che ha più di 18 anni e in buona forma fisica. Se volete lavoro, datemi il vostro nome». Prossima fermata, un posto da buttafuori: ecco il sogno americano del dopo-crisi. Dopo aver preso due o tre nomi, si è seduto accanto me e, vedendomi in giacca e cravatta, ha tratto le sue conclusioni.

«Un banchiere eh? Tu senz’altro devi cambiare lavoro». La mia risposta – che non lavoro a Wall Street e che fare il metronotte non è la mia passione – non l’ha convinto. «Voi banchieri – ha continuato imperterrito - avete distrutto questo grande Paese. Distrutto». Duecento miglia a Sud dell’isola di Manhattan, i politici di Washington stavano lavorando per placare il malcontento dello sconosciuto con gli occhiali da sole – e milioni di altri americani – con una legge che rivoluzionerà le regole del mondo finanziario americano. Dopo mesi di negoziati e contrattazioni, la Camera e il Senato stanno per raggiungere un compromesso su uno statuto che dovrebbe essere firmato dal presidente Obama all’inizio di luglio. I dettagli della legislazione – un tomo di più di mille pagine – fanno venire il mal di testa anche agli esperti ma il tono non lascia spazio ad interpretazioni. Dopo quasi dieci anni di deregulation sfrenata (sostenuta, paradossalmente, da gente come Larry Summers che ora è il più potente consigliere di Obama in materie economiche), le prossime oscillazioni del pendolo normativo andranno a colpire il settore bancario e i portafogli dei signori della finanza. «Più piccola, meno remunerativa e meno rischiosa», è stata la risposta di una mia fonte quando gli ho chiesto che tipo di Wall Street avremo con la nuova legge.

Una Wall Street dove istituzioni finanziarie non usano i propri fondi per scommettere contro i loro clienti, dove la creazione di prodotti sempre più complicati e incomprensibili è scoraggiata e dove il Gordon Gekko del film di Oliver Stone «Wall Street», quello che dice «l’avidità è buona, l’avidità è giusta» non è più il modello di generazioni di banchieri e operatori. Con milioni di americani senza lavoro – gli economisti parlano di una crescita permanente del tasso «naturale» di disoccupazione perché molti dei posti scomparsi durante la crisi non ritorneranno mai più –, un mercato immobiliare ancora in pieno caos, e una classe media traumatizzata dai debiti eccessivi degli anni grassi, non c’è da stupirsi che l’amministrazione e il Congresso vogliano fare i Robin Hood. Prendere ai ricchi banchieri per aiutare i poveri consumatori è una strategia comprensibile e legittima per prendere voti e difendersi dalla critica che la classe politica è colpevole di aver lasciato fare banchieri senza scrupoli e investitori bramosi quello che gli è parso per anni.

E non c’è dubbio che il settore finanziario – soprattutto la cosiddetta «alta finanza» dei derivati esotici e bonus rabelesiani – debba essere ridimensionato e punito per avere gonfiato una bolla che ha messo a rischio l’economia mondiale. Avendo avuto l’onore (ed onere) di aver raccontato sia il boom del credito gratis e dei mutui facili, sia la crisi finanziaria e la Grande Recessione che l’ha seguita, vi assicuro che l’arroganza, l’egoismo e l’ottusità di banchieri ed investitori sono state cause fondamentali del disastro del 2007-2009. Il problema per il Congresso – e per i politici europei come i tedeschi che vogliono imitare la linea dura degli americani – è che il settore finanziario è un ingrediente fondamentale di ogni ricetta di ripresa economica. A differenza di altri settori, la cui partecipazione alla crescita produttiva è un optional (se le esportazioni non tirano ci pensano i consumatori o i servizi ecc. ecc.), le banche sono la conditio sine qua non per un ritorno di fiamma dell’economia mondiale.

Sono almeno nove secoli (dal Medio Evo, quando i crociati avevano bisogno di fondi per le loro conquiste) che il settore finanziario si è interposto tra chi i soldi li ha (i risparmiatori, gli investitori) e chi ne ha bisogno (le società, i governi). Un mio compagno di università – che ora è professore di finanza a Yale – ha paragonato la relazione tra le banche e il resto dell’economia ai discorsi che facevamo dopo essere stati lasciati da una delle nostre ragazze. «Usavamo sempre l’adagio: “le donne: è difficile vivere con loro, è impossibile vivere senza di loro”», mi ha ricordato, non senza imbarazzo da entrambe le parti. Obama si trova nella stessa situazione: se la nuova legge impedisce alle banche di fare soldi e prestare denaro a consumatori e società, a soffrirne non saranno solo i banchieri sovrappeso col gessato e il sigaro cubano (di contrabbando) ma anche gli operai della General Motors e gli impiegati di McDonald’s. Purtroppo, quando il settore bancario ha il raffreddore, il resto dell’economia ha una febbre da cavallo. Le banche questo lo sanno e ci marciano. Durante i lunghi mesi di preparazione per la legge, ogni volta che il settore finanziario era contro una nuova regola del gioco, urlava che la nuova misura avrebbe ristretto la disponibilità di prestiti e fondi a consumatori e piccole e medie aziende.

L’altra linea d’attacco di Wall Street – ancora più scandalosa - era che una legge anti-banche avrebbe sfavorito l’America e permesso all’Europa – con le sue regole lassiste e governi complici – di usurpare New York e diventare il centro finanziario mondiale. La realtà è che attaccare il settore finanziario per gli eccessi degli ultimi decenni non metterebbe a rischio né l’economia americana né la supremazia di New York. La disonestà intellettuale delle perorazioni delle banche e dei loro amici a Washington sta nell’equiparare servizi-base (come ricevere depositi e fare prestiti) con l’alchimia dei derivati e altri intrugli inventati più per fare soldi che per ridistribuire fondi ad attività produttive. Fare di tutta l’erba un fascio, e proclamare che le banche sono intoccabili perché svolgono un ruolo vitale nell’economia è solo un modo per salvaguardare privilegi e comportamenti che hanno contribuito al caos degli ultimi anni. La cartina di tornasole per la nuova legge sarà proprio questa: se le nuove regole distingueranno tra banche come strumenti di trasmissione di risorse produttive e banche come venditrici di speculazione fine a se stessa. Tra pochi giorni la cacofonia di gruppi di pressione, capi della finanza e politici in cerca di voti, cesserà. C’è solo da sperare che quando Barack Hussein Obama scriverà il suo nome sulla prima pagina della nuova normativa, le bottiglie di champagne nei grattacieli di Wall Street rimangano chiuse.

*Caporedattore finanziario del Financial Times a New York
francesco.guerrera@ft.com

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Titolo: FRANCESCO GUERRERA. Le banche ammalate di paura
Inserito da: Admin - Luglio 31, 2010, 08:26:39 am
31/7/2010

Le banche ammalate di paura

FRANCESCO GUERRERA

Immaginate la scena. Un giornalista finanziario decide che è venuto il momento di comprare casa a New York e si reca in banca a chiedere un mutuo. Dopo i controlli di rito (stipendio, tasse, altri beni ecc.), la signorina ritorna con il sorriso sulle labbra e un’offerta che lascia il reporter, un tipo che di solito è molto loquace, senza parole. «Buone notizie», dice. «Le possiamo offrire un ottimo prodotto: un mutuo option ARM». Pausa per la traduzione: gli option ARM sono stati le bombe al napalm della crisi finanziaria: hanno fatto terra bruciata dovunque siano arrivati. ARM sta per adjustable rate mortgage: un mutuo il cui tasso varia col tempo. La caratteristica dell'option ARM era che il cliente aveva l'opzione di pagare il minimo indispensabile all'inIzio del contratto salvo poi pagare tassi molto più alti negli anni seguenti. Negli Usa della Grande Depressione del 2007-2009, questo tipo di prestito immobiliare è diventato famigerato perché ha costretto milioni di americani ad abbandonare le proprie case. Il problema degli ARM era che avevano un tasso d’interesse bassissimo per i primi diciotto mesi, che poi saliva vertiginosamente in anni successivi: un giochino che funziona se i prezzi delle case e il mercato del lavoro continuano a tirare, ma che porta dritti alla rovina appena l’economia si ferma.

Opinionisti di ogni specie (il sottoscritto incluso) hanno deplorato l’immoralità di un mutuo che ha attratto i consumatori meno esperti con il tasso introduttivo allettante solo per stangarli dopo un anno e mezzo. «La signorina chiaramente non legge i giornali, non guarda la televisione e non ha nemmeno fatto attenzione al mio biglietto da visita», pensa il giornalista sempre più infuriato. Ma mentre la poverina prova a spiegare i vantaggi dell’option ARM, leggendo la brochure scaricata sul computer, il cronista finalmente ci arriva: la banca offre un mutuo del genere sapendo benissimo che verrà rifiutato. Dopo aver inondato il mercato con prestiti a basso costo – e aver pagato con perdite enormi quando la bolla è scoppiata - le banche americane non vogliono più offrire soldi a consumatori e società per paura di non rivederli mai più. La fifa dei grandi banchieri sta avendo un effetto dirompente sull’economia americana. Non sono solo i giornalisti che non possono comprare appartamenti. Le aziende non possono né investire nel presente assumendo impiegati, né nel futuro comprando nuove macchine. E i consumatori se ne stanno a casa, con meno carte di credito e ancora meno voglia di comprare. Un imprenditore che conosco – uno della Silicon Valley che ha lanciato e venduto quattro società grazie ai prestiti delle banche – ha paragonato l’economia americana a un motore ingrippato: senza i prestiti a lubrificarli, i pistoni del consumo e della produzione non possono ripartire. Le cifre non lasciano dubbi. La Keefe Bruyette & Woods, una società di analisi, ha calcolato che negli ultimi tre mesi le grandi istituzioni finanziarie americane hanno ridotto il volume di prestiti del 5 per cento rispetto al 2009: un calo incredibile se si pensa che di solito le banche aumentano i prestiti di anno in anno. Il seguitissimo sondaggio trimestrale della Federal Reserve è stato ancora più deprimente: quando le autorità monetarie hanno chiesto a tutte le banche d’America se avevano stretto o allentato i criteri per avanzare un prestito, la maggioranza ha ammesso di aver limitato l’accesso al credito. I numeri celano una reazione naturale ed umana da parte dei banchieri. Dopo l’ingordigia che ha portato a perdite enormi e al crollo economico, arriva il digiuno del dopo-crisi. La parabola biblica dei sette anni di vacche grasse e i sette anni di vacche magre è pertinente in questo caso. Ed è vero che una parte dei consumatori e anche del mondo aziendale è ancora in stato di choc e non ha nessuna intenzione di chiedere soldi alle banche. Il mio amico Mike Mayo, uno dei veterani dell’analisi finanziaria Usa, calcola che solo il trenta per cento dei prestiti accordati dalle banche è utilizzato al momento. Molto meno della media storica del 40-45 per cento. Questa è una realtà che fa buon gioco ai banchieri, soprattutto quando i politici li accusano di non fare abbastanza per far risorgere l’economia. La risposta immediata di un vecchio marpione come John Gerspach, il finance director della Citigroup, alla mia domanda sul calo dei prestiti è stata proprio questa: «Non vuole giocare nessuno. Sono tutti seduti in panchina», mi ha detto. «Non ci sarà tanta domanda per i prestiti fino a quando non si dissipa l’incertezza sul futuro dell’economia». Sarà anche vero, però è troppo facile per le banche scrollare le spalle e dire che non è colpa loro.

La realtà è che la crisi dei prestiti e la flaccidità dell’economia hanno lo stesso rapporto che esiste tra l’uovo e la gallina: senza l’una non c’è l’altra e viceversa. Il fatto che la mentalità da casinò degli ultimi anni sia stata sostituita da prudenza da parte sia delle banche, sia dei consumatori è senz’altro uno sviluppo positivo. Ma senza soldi non si può fare soldi e lo spettro di una stagflazione stile-Giappone diventa sempre più vero per l’economia americana. Non è un caso che Ben Bernanke, il capo della Fed, abbia smesso di fare l’ottimista e abbia ricominciato a parlare di una nuova serie di stimoli monetari per rivitalizzare il Paese. E, con le elezioni del Congresso a Novembre, non c’è dubbio che Barack Obama stia già preparando una nuova dose di stimoli governativi. Se il settore privato non ci mette del suo, starà a Washington riempire il vuoto, con buona pace di quelli che si preoccupano del deficit enorme e delle tasse alte. La ritrosia delle banche a prestare soldi, che tra l’altro non sono neanche loro ma dei risparmiatori, ha messo a nudo il paradosso vissuto dall’America sin dalla fine della crisi. Un Paese che, per tradizione e storia, aborre l’intervento del governo e delle autorità centrali; una classe imprenditoriale che ha basato il suo successo economico sull’individualità e un milieu sociale che ha fatto dello spirito d’avventura un simbolo culturale esportato in tutto il mondo (grazie a Hollywood), sono stati costretti ad andare a mendicare sulle scale della Casa Bianca. Senza il governo (il «Big Government» tanto odiato da Repubblicani e fautori del libero mercato), oggi Wall Street sarebbe in bancarotta, il settore automobilistico sarebbe sparito e l’economia sarebbe in caduta libera. Senza le entrate delle tasse (un altro incubo dei nemici delle «intrusioni» statali nell’economia), la disoccupazione sarebbe al trenta per cento e le aziende avrebbero perso gran parte del mercato interno per prodotti e servizi. Alla fine, un giornalista finanziario può continuare a restare in affitto a New York senza grandi danni, ma il sogno Americano di un capitalismo «puro» e isolato da questioni sociali non è più di casa negli Usa del 2010.


Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Financial Times a New York.

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Titolo: FRANCESCO GUERRERA. Wall Street, il regista è Hitchcock
Inserito da: Admin - Agosto 27, 2010, 08:56:57 pm
27/8/2010

Wall Street, il regista è Hitchcock
   
FRANCESCO GUERRERA

Il film della ripresa economica americana doveva essere una storia edificante di caduta e risurrezione tipo «Rocky», ma gli avvenimenti degli ultimi giorni l’hanno trasformato in un giallo. Secondo il copione hollywoodiano scritto da mercati, politici e banchieri centrali dopo la crisi, ormai dovremmo già essere nel secondo tempo, nel mezzo del clamoroso ritorno di fiamma di una nazione temprata da difficoltà senza pari. Ma dopo un’estate di mosse politiche maldestre, dati catastrofici e mercati nervosissimi, la più grande economia del mondo si trova ingarbugliata in una trama alla Hitchcock, dove niente è quello che sembra e il pericolo è sempre dietro l’angolo.

Ricapitoliamo i fatti. Martedì mattina, per colazione, gli operatori di Borsa a New York hanno dovuto digerire la notizia-bomba che le vendite delle case sono crollate di più del 27 per cento a luglio, il peggiore risultato in 15 anni.

La frana del settore immobiliare è arrivata quando Wall Street aveva appena finito di assorbire la decisione-choc della Federal Reserve di ricominciare a intervenire nei mercati finanziari, cinque mesi dopo aver gridato ai quattro venti che l’economia non aveva più bisogno di tali stimoli artificiali. I banchieri centrali hanno tentato di spiegare la mossa come una bagatella tecnica, una manovra di routine per tenere i tassi di interesse bassi e facilitare la ripresa, ma i mercati non hanno abboccato.

Gli investitori hanno scaricato i titoli azionari come se fossero materiali tossici, leggendo la mossa come un segnale che Washington è preoccupatissima per le sorti della ripresa. I mercati erano già in stato di fibrillazione da quando Ben Bernanke, il capo della Fed, aveva confessato al Congresso che la congiuntura economica è «insolitamente incerta», e le ultime vicissitudini hanno avuto un peso determinante per spingere il Dow Jones Industrials, l’indice guida, sotto il livello chiave dei 10.000 punti. Come mi ha detto uno dei grandi «fund manager» della costa Ovest, un tipo che ha studiato ad Harvard che di solito parla come un libro stampato: «Siamo proprio fregati. Se neanche Bernanke sa cosa fare, siamo proprio fregati».

Il mio amico di Los Angeles ha ragione a perdere la calma. Lo stillicidio di brutte notizie sta aumentando le probabilità del famigerato «double dip», il doppio tuffo nella recessione. Perfino ottimisti inveterati come David Wyss, il capo economista Standard & Poor’s, ora predicono un lungo periodo di ristagno economico à la japonaise. Altro che giallo hitchcockiano, se continua così, la saga dell’economia americana si trasformerà in Nightmare on Main Street con Bernanke nel ruolo di Freddy Krueger. Il dilemma è semplice ma non di semplice soluzione. Ogni Paese caduto nelle sabbie mobili della recessione ha bisogno di una forza trainante che lo trascini sulla terraferma, ma l’America di oggi non ha né trattori né locomotive a disposizione. I consumatori, che costituiscono circa il 70 per cento del Pil statunitense, mancano all’appello per ovvi motivi: hanno pochi soldi e ancor meno voglia di spenderli.

La caduta vertiginosa nelle vendite delle case nonostante il fatto che i tassi dei mutui siano a livelli bassissimi e che il governo abbia lanciato non meno di otto programmi di stimoli per incoraggiare gli acquisti, è veramente preoccupante. A meno di un miracolo, il mercato immobiliare americano è sull’orlo del «doppio tuffo» - un altro calo dei prezzi da aggiungere al crollo del 30 per cento visto durante la crisi. Con le case al ribasso e la disoccupazione intorno al 10 per cento, i consumatori rimarranno fuori dal gioco per parecchio tempo.

L’onere della ripresa dovrà dunque ricadere su altri due attori economici: il settore privato e quello pubblico. Le aziende e le banche non stanno male: gli ultimi risultati trimestrali sono stati positivi, i conti sono in nero e le esportazioni tirano. Il problema è che il mondo dell’industria è ancora in una posizione di difesa, anzi catenaccio: tagliare costi e non spendere nemmeno un centesimo più del dovuto. I capi aziendali con cui parlo utilizzano sempre lo stesso refrain: gli investimenti e gli acquisti arriveranno solo quando l’economia migliora - un discorso sensato in teoria ma contraddittorio in pratica, visto che la congiuntura non migliorerà se gli investimenti non si materializzano. A meno che... A meno che lo Stato non arrivi su un cavallo bianco a salvare l’economia sparpagliando miliardi di dollari freschi di zecca.

Una soluzione keynesiana - spendere adesso, tassare dopo - sembrerebbe ideale in questo frangente e non certo aliena alla mentalità di centro-sinistra di Barack Obama e i suoi. L’amministrazione ha già speso più di 700 miliardi di dollari per far ripartire l’economia e quasi tutti gli uomini del Presidente vorrebbero fare di più. Purtroppo, però, la realtà politica non lo permette. Con i Democratici in gravissima difficoltà nella campagna elettorale per le elezioni parlamentari di novembre, una nuova ondata di spese governative accompagnata dall’implicita promessa di tasse più alte in futuro, sarebbe un assist perfetto per i Repubblicani.

Obama potrebbe avere mano più libera dopo le elezioni, ma dipenderà da quanti seggi vinceranno i suoi avversari, soprattutto gli esponenti della corrente estremista di Sarah Palin. Il federalismo rampante degli Usa consentirebbe ai governi locali di soppiantare Washington nel ruolo di stimolatore dell’economia, ma molti Stati sono con l’acqua alla gola e devono tagliare i costi al più presto per evitare la bancarotta (anzi, visto che abbiamo parlato di cinema, la California di Schwarzenegger in bancarotta già ci è andata).

Rimane ovviamente la Fed. Un paio di alti funzionari con cui ho parlato questa settimana mi hanno accusato di essere un «profeta del disastro», ricordandomi che la Banca centrale ha molte frecce al suo arco per evitare una ricaduta nella recessione o un ristagno stile Giappone. E’ vero che la Fed può esercitare un controllo quasi totale sui prezzi di titoli, azioni e altri beni finanziari e ha le risorse per comprare mutui, obbligazioni e perfino titoli azionari qualora volesse immettere liquidità nei mercati. Ma è anche vero che la Fed, come tutte le banche centrali, ha poteri limitati sulla domanda economica - la voglia di consumatori, aziende e governi di spendere invece di risparmiare - ed è proprio questo che all’America manca oggi.

Forse l’unica soluzione sarebbe ristampare quei poster dell’esercito americano durante le guerre mondiali con una piccola chiosa sotto la faccia arcigna del vecchio signore. «Lo Zio Sam ha bisogno di te... e dei tuoi soldi».

Francesco Guerrera è il capo redattore Finanza del Financial Times a New York.
Francesco.guerrera@ft.com

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Titolo: FRANCESCO GUERRERA. Lehman, crisi da non sprecare
Inserito da: Admin - Settembre 16, 2010, 10:23:24 am
16/9/2010

Lehman, crisi da non sprecare

FRANCESCO GUERRERA

Un venerdì pomeriggio di due anni fa, John Thain, l’amministratore delegato della Merrill Lynch era nel suo ufficio che sbrigava le ultime pratiche prima del weekend quando squillò il telefono. In linea c’era un funzionario del governo statunitense con un messaggio conciso ma chiaro: «Si faccia trovare al quartier generale della Federal Reserve di New York tra un’ora». Thain è un veterano di Goldman Sachs, è stato persino capo della Borsa di New York e non è facilmente impressionabile. Ma quel giorno, capì subito la gravità della situazione: i signori della finanza si dovevano riunire d’urgenza nella sede della Banca Centrale perché la Lehman Brothers, una delle più grandi banche d’affari del mondo, era in fin di vita.

«Di telefonate del genere ne ho ricevute pochissime nel corso dei miei trent’anni a Wall Street - mi raccontò dopo -. E non hanno mai portato buone notizie». Thain aveva ragione. Nel breve spazio di un weekend d’autunno, il settore finanziario e l’economia mondiale furono colpiti da un terremoto da cui devono ancora riprendersi. I miliardi di fondi spesi dai governi per stimolare la crescita, i nuovi limiti sul capitale delle banche stabiliti questa settimana a Basilea, e, soprattutto, l’odio viscerale della gente comune per i nababbi della finanza, sono tutti figli di quei due giorni che cambiarono il mondo.

Quando Thain e gli altri titani di Wall Street uscirono dal palazzo-bunker della Fed quella domenica sera, la Lehman era morta, uccisa da perdite esorbitanti sul mercato immobiliare e consegnata alla storia come la più grande bancarotta di sempre. Aig – il gigante delle assicurazioni – dovette essere salvato dai contribuenti americani con 180 miliardi di dollari. E perfino Goldman, Morgan Stanley e Citigroup furono costrette a prendere soldi dal governo Usa per rimanere a galla. (Anche Merrill scomparsa, comprata dalla Bank of America, che licenziò Thain dopo pochi mesi).

Ma il tonfo di Lehman echeggiò ben oltre i grattacieli di New York. Lo choc nei mercati provocò un blocco quasi totale del commercio internazionale, con investitori ed aziende paralizzati dalla paura di perdere soldi. Mi ricordo bene il panico nella voce di un vecchio amico che mi chiamò da Hong Kong, uno dei porti-chiave per il transito di merci tra continenti, il lunedì dopo il weekend di Lehman. Disse semplicemente: «Le navi-container sono ferme. Non capisco. Sono... ferme».

A ventiquattro mesi di distanza, le navi sono salpate e i mercati hanno superato le paure del dopo-Lehman. Parlamenti e banche centrali stanno cambiando le regole del gioco per impedire alle banche di trasformare ancora una volta l’economia mondiale in una roulette russa i cui proiettili vanno a colpire i posti di lavoro e il tenore di vita degli innocenti. E Wall Street e la City di Londra stanno svecchiando le loro classi dirigenti, nella speranza che una nuova generazione introduca valori e comportamenti meno venali e più morali di quella precedente.

La crisi come atto catartico – un male doloroso ma necessario per purificare un settore finanziario vittima dei suoi successi ed eccessi. E’ un’idea allettante, come i discorsi melliflui di politici e banchieri che ci dicono che ora va tutto bene, che le esplosioni del 2007-2009 non accadranno mai più grazie al nuovo sistema finanziario che stanno progettando.

La realtà, purtroppo, è più complessa. L’attivismo politico del dopo-crisi ha fatto del bene, su questo non c’è dubbio. Costringere le banche a mettere fine ad operazione rischiose e fini a se stesse – come la compra-vendita di titoli con i propri soldi che è stata messa fuori legge negli Usa – e mantenere alti livelli di capitale - come da accordo di Basilea - sono senz’altro sviluppi positivi. Il problema è che gran parte delle riforme introdotte sia nel vecchio che nel nuovo continente curano i sintomi, non le cause, del male.

Quando gli Stati Uniti si trovarono in una situazione simile negli Anni 1930, il governo prese misure drastiche, passando la famosa legge «Glass-Steagall» che separò le banche d’affari dalle casse di risparmio. L’erezione di quel muro tra investitori e risparmiatori fece sì che Wall Street non avesse accesso ai soldi di Main Street e non fosse quindi in grado di utilizzarli (e sperperarli) in attività ad alto rischio.

Nel mezzo secolo seguente – fin quando le banche convinsero il Congresso ad abolire la «Glass-Steagall» - la speculazione e il desiderio di fare soldi rimasero le raisons d’être dei professionisti del mercato, ma senza mettere a repentaglio il benessere dell’americano medio. La recente ondata di nuove regole non comporterà nessun cambiamento fondamentale né nella struttura delle istituzioni finanziarie né nei comportamenti dei loro capi e questo è molto preoccupante. Il ripristino di una separazione netta alla «Glass-Steagall» è forse impossibile vista la complessità delle banche moderne. Ma governi e regolatori avrebbero potuto fare di più. Molto di più.

Un paio di esempi. Se, come sembra, una delle cause della crisi è stato il fatto che il pagamento annuale dei bonus ha creato una mentalità a breve termine tra i banchieri, si sarebbe potuto obbligare le aziende a pagare gli alti dirigenti in azioni che possono essere vendute solo quando vanno in pensione. E perché non decidere che le banche non possono prestare i depositi dei piccoli risparmiatori a hedge funds e altri operatori di mercato? La verità è che, nonostante l’antipatia dei cittadini per la classe finanziaria, le banche sono riuscite a persuadere i politici che misure più radicali le avrebbero danneggiate e messo a rischio la ripresa economica. E visto che i governanti sono anch’essi vittime di una mentalità a breve-termine (la prossima elezione, la prossima intervista ecc, ecc), le lamentele dei banchieri hanno trovato terreno fertile. Vikram Pandit, che, come capo della Citigroup, è un esperto in materia di disastri, mi ha detto di recente: «A crisis is a terrible thing to waste» – Sprecare una crisi è terribile. Lui parlava di altro, ma quella frase dovrebbe essere inscritta su tutti gli edifici governativi di New York, Washington, Basilea e Bruxelles.

*Caporedattore finanziario del Financial Times a New York.
francesco.guerrera@ft.com

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Titolo: FRANCESCO GUERRERA. Le cifre nascondono la tragedia americana
Inserito da: Admin - Settembre 25, 2010, 08:37:12 am
25/9/2010

Le cifre nascondono la tragedia americana
   
FRANCESCO GUERRERA

Niente da fare». «Comincio a crederlo anch’io». Le battute iniziali di Estragone e Vladimiro, i due anti-eroi di «Aspettando Godot», illustrano perfettamente la situazione economica americana. La banca centrale, il presidente Obama e il Paese intero si sarebbero dovuti rallegrare questa settimana quando gli esperti governativi hanno finalmente dichiarato la fine ufficiale della recessione 2007-2009.

Lunedì, il Comitato per la Datazione dei Cicli Economici (un nome di cui Beckett e Kafka sarebbero stati fieri...) ha deciso che il periodo di flessione economica iniziato nel 2007 è finito a giugno dell’anno scorso. Il che significa che l’economia più grande del mondo è in ripresa da più di un anno – un fatto che un Presidente alla ricerca disperata di voti per le elezioni di mid-term e una Federal Reserve desiderosa di rispondere ai suoi critici non si sarebbero dovuti far scappare.

Ma invece dei fuochi d’artificio, le ragazze pon pon e Madonna che canta l’inno nazionale in diretta sulla Cnn, Washington ha risposto ad un annuncio che sarebbe dovuto essere la fine di un periodo nero con un silenzio spettrale. Il motivo è semplice: la ripresa in America non c’è o se c’è non si vede. E né governo né Fed possono fare granché per stimolarla. Un’analisi troppo pessimista? Il solito giornalista che si innamora delle brutte notizie perché fanno più scalpore? Guardiamo i fatti. Stando alle stime ufficiali, la recessione che abbiamo appena vissuto è stata la più lunga dai tempi della Grande Depressione degli Anni 30.

In 18 mesi d’inferno, più di sette milioni di persone sono state licenziate mentre il prodotto interno lordo è crollato del 4 per cento (quattro volte di più che nella recessione degli Anni 90, per esempio). La disoccupazione, il crollo dei prezzi delle case, e la mancanza di uno Stato sociale decente hanno fatto sì che il patrimonio netto dell’americano medio sia crollato di più del 20 per cento. Per avere un’idea degli effetti psicologici di una tale distruzione di ricchezza, prendete il vostro conto in banca, dividetelo per cinque e sottraete quella cifra dal totale. Ora pensate al futuro vostro e dei vostri cari: paura?, paranoia? disperazione? – tutti sentimenti che hanno attanagliato milioni di americani nell’ultimo anno e mezzo.

Obama parla di speranza, Ben Bernanke, il capo della Fed, promette nuovi stimoli e le banche continuano a dire che i soldi per i prestiti ci sono. Ma la realtà è che per la gente comune, la Grande Recessione del 2007-2009 è stata una tragedia immensa e inaspettata. I dati economici non la dicono nemmeno tutta. L’ultimo censimento della popolazione americana ha rivelato che 4 milioni di persone sono cadute in povertà nel 2009, portando il totale a 44 milioni. Nel Paese dove tutti vogliono l’iPad, i ristoranti servono porzioni enormi e il governo spende centinaia di miliardi in guerre lontane, un cittadino su sette vive con meno di $10.830 dollari l’anno – il reddito minimo per non essere considerati poveri. Per i bambini, le cifre sono ancora più gravi: uno su cinque vive in condizioni d’indigenza.

In questa America grassa, potente e arrogante, ogni neonato ha una fiche da giocare sulla roulette della vita in cui c’è una probabilità del 20 per cento di perdere tutto. Vista la situazione, non è un caso che la Casa Bianca e la Fed non abbiano scritto comunicati stampa trionfalistici per celebrare la fine della recessione. Come ha detto un anziano signore a Obama durante un incontro tra il Presidente e la gente comune, «a dirle la verità, sono esausto. Sono esausto di difendere lei, la sua amministrazione e gli slogan di cambiamento per cui ho votato. Sono molto deluso dalla situazione». Delusione ed esaurimento – due condizioni che non si addicono all’America rampante degli anni del boom, l’America dell’ottimismo e degli immigrati, delle luci di Hollywood e dei banchieri ingelatinati di Wall Street.

La Grande Recessione ha spinto questo Paese verso l’abisso e non sarà facile risalire la china. Anche la storia non sembra essere dalla parte di una ripresa repentina. In passato, a crolli economici seguirono periodi di crescita altissima, il frutto di un rimbalzo quasi naturale nelle attività di aziende e i consumatori. Questo effetto yo-yo – astinenza seguita da ingordigia – non si è materializzato questa volta, in parte perché la recessione è stata più lunga e più severa. Il mio amico Neal Soss, un veterano dell’analisi economica che ora lavora per Crédit Suisse, spiega l’anomalia con un giochino di parole: «Abbiamo evitato la Grande Depressione ma abbiamo una deprimente ripresa».

Per spiegare la situazione ci vogliono gli psicologi, non gli economisti. Le attività produttive sono in atrofia, anche quando i soldi ci sono, perché il Paese è traumatizzato dalla recessione. Le società americane si tengono circa 1.800 miliardi di dollari nelle loro casseforti – un record assoluto – ma hanno paura di investirli in infrastrutture o acquisizioni di altre aziende. E i consumatori, anche quelli benestanti, stanno imitando i giapponesi-formichine, risparmiando ogni centesimo invece di spenderlo. Ma se il problema è davvero psicologico, i signori di Washington possono fare ben poco, soprattutto quando i tassi d’interesse sono già bassissimi, il governo ha speso 780 miliardi di dollari per stimolare l’economia senza grandi risultati, e le elezioni di novembre paralizzeranno l’attività legislativa per mesi. L’economia americana probabilmente eviterà il temutissimo «doppio tuffo» – la ricaduta nella recessione – ma ci vorrà del tempo prima che ritorni a navigare con il vento in poppa. Per ironia della sorte, lo stesso giorno in cui il governo Usa ha determinato la fine della recessione, l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico ha predetto che il tasso di disoccupazione americano rimarrà elevato fino al 2013. L’occupazione è la trave portante della ripresa: senza lavoro, i consumatori non consumano e le aziende non possono produrre più di tanto.

Se l’Ocse ha ragione, ci vorranno almeno due anni prima che l’economia americana si liberi del retaggio della recessione. I politici e i banchieri fanno bene a ricordarci che sarebbe potuto succedere di peggio, che senza gli interventi massicci del governo in settori come la finanza e le automobili staremmo vivendo in una replica della Depressione. La stasi economica del 2010 è senz’altro meglio della crisi del 1930. Ma il ristagno di un Paese che è solito dominare e trainare il resto del mondo non è una condizione positiva, soprattutto per i 44 milioni di poveri. Estragone e Vladimiro lo sanno fin troppo bene: aspettare qualcuno, o qualcosa, senza sapere se e quando arriverà, fa male allo spirito.

*caporedattore finanza del Financial Times a New York.

francesco.guerrera@ft.com
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Titolo: FRANCESCO GUERRERA. Pignoramenti, motore della crescita
Inserito da: Admin - Ottobre 31, 2010, 10:32:26 pm
31/10/2010

Pignoramenti, motore della crescita

FRANCESCO GUERRERA

Jeff Horton è una vittima improbabile dell’ultima scossa del terremoto del mercato delle case americano. Trentatreenne distinto che lavora nel settore dell’alta tecnologia in Florida, il signor Horton ha un bello stipendio, due macchine e un conto in banca rispettabile. I suoi problemi incominciano sulla soglia di casa. Il crollo dei prezzi durante il disastro economico del 2007-2009 ha fatto sì che la casetta di Jeff - a Orlando, non lontano da Disneyland - ormai valga circa 100.000 dollari meno di quando la comprò prima della recessione. Non avendo nessuna speranza di recuperare i soldi spesi, questo uomo taciturno e un po’ timido si è dato al «crimine»: ha smesso di pagare il mutuo, tenendosi i 2200 dollari al mese che avrebbe dovuto dare alla banca.

In tempi normali, Horton sarebbe stato sloggiato dopo meno di un anno e la banca avrebbe subito rimesso la casa sul mercato. Ma gli Usa del 2010 non vivono tempi normali e Jeff è ancora a casa. Anzi pensa che ci resterà almeno altri sei mesi. «Non sono stupido», ha detto a una mia collega. «Vivrò qui gratis fino a quando la banca non si riprende la casa».

Jeff e le centinaia di migliaia di americani che, per disperazione o ripicca, hanno deciso di infrangere la legge e non pagano più il mutuo possono vivere sonni tranquilli: il sistema immobiliare made in Usa è talmente marcio che le banche non hanno né i mezzi né la volontà per cacciarli di casa.

Nelle ultime settimane, proprio quando i mercati si stavano tranquillizzando, il settore finanziario è stato colpito da una nuova piaga: dalla crisi delle case alla crisi dei pignoramenti. Uno dopo l’altro, grandi istituti di credito quali la Bank of America e la JP Morgan Chase hanno dovuto sospendere centinaia di migliaia di pignoramenti dopo aver «scoperto» che le loro procedure non erano legali. Le banche hanno ammesso di aver chiesto agli impiegati di firmare centinaia di migliaia di documenti con i dettagli delle persone da cacciare (nome, cognome, importo del mutuo ecc.) senza controllarne la veridicità. Sembra una bega tecnica, ma in America si tratta di un’infrazione molto grave perché questi pezzi di carta vanno presentati in tribunale dove il giudice decide se permettere alla banca di prendersi la casa.

Lo scandalo dei «robo-signers» - i firmatari a mitraglia - ha raggelato gli ardori dei mercati per il settore finanziario, facendo precipitare le azioni delle banche. Nelle ultime due settimane 17 miliardi di dollari sono evaporati dal valore di mercato della Bank of America, il più grande istituto di credito negli Stati Uniti. Gli investitori hanno ragione a essere preoccupati sia per i costi - rivedere 102.000 documenti, come dovrà fare la BofA, non è gratis - sia per le ramificazioni giuridiche di questa débâcle. I procuratori generali in 40 Stati hanno già annunciato un’inchiesta congiunta e anche le autorità federali hanno incominciato a muoversi.

Persino Jamie Dimon, l’agguerritissimo capo della JP Morgan, ha ammesso che le banche saranno costrette a pagare multe abbastanza salate alla fine di questa crisi. Ma le conseguenze di questo imbroglio vanno ben al di là di multe e azioni e coprono tre fronti importantissimi per il benessere del Paese.

Innanzitutto, il blocco dei pignoramenti arriva in un momento poco propizio per la boccheggiante economia americana. La ripresa dipende dalla salute dei consumatori, ma senza un ritorno di fiamma nel settore immobiliare la gente comune non metterà mano ai portafogli. Una delle speranze di economisti e politici era che le case abbandonate da padroni senza soldi per il mutuo ritornassero sul mercato a prezzi ragionevoli, dando la possibilità ai compratori di approfittare di tassi d’interesse bassissimi.

Uno degli effetti più perversi della crisi è che il «settore dei pignoramenti» è diventato un ingrediente fondamentale della crescita economica: una su tre delle case vendute negli Usa oggi è stata figlia di un pignoramento e più di 6 milioni di case in America sono al centro di azioni giudiziarie da parte delle banche, secondo il centro studi Core Logic. Se le banche non riescono a cacciare al più presto Jeff Horton e i suoi compari da case che ormai non pagano più, l’incubo di una stagnazione economica in stile Giappone diventerà sempre più realtà.

Per avere un’idea del problema, cinque anni fa ci volevano in media 302 giorni per completare un pignoramento. Oggi, anche prima della moratoria di BofA, JP Morgan e altri, ce ne vogliono 478. La colpa di questo disastro, però, non è certo di un ingegnere elettronico di Orlando o degli altri anonimi cittadini che si rifiutano di pagare il mutuo.

La disobbedienza economica degli Horton di questo mondo è la diretta conseguenza dell’ennesimo svarione di un sistema bancario che per anni è stato abbagliato dal desiderio di fare più soldi possibile il più velocemente possibile. Lo scandalo dei pignoramenti è l’ultimo anello nella catena della vergogna per le banche statunitensi. Ora possiamo tranquillamente dire che, nel settore immobiliare, i signori di Wall Street non hanno sbagliato molto - hanno sbagliato tutto. Hanno dato mutui principeschi a gente che non se li poteva permettere senza nemmeno controllare le buste paga; hanno preso quei mutui e li hanno trasformati in titoli «tossici» che hanno infettato l’economia mondiale; hanno chiesto miliardi di dollari ai contribuenti per coprire perdite sui titoli-Frankenstein da loro creati. E ora sappiamo che hanno usato sotterfugi e scorciatoie nel dopo-crisi, creando un altro mostro che non sanno come uccidere.

I grandi banchieri possono pure sostenere che «non c’è nessuna prova che abbiamo sfrattato gente che non se lo meritava», come mi ha detto Jamie Dimon di recente.
Ma, vista la situazione politica ed economica negli Usa, le prove non contano più di tanto. Il vero pericolo per le banche non sono gli investitori e nemmeno i procuratori generali, ma i politici di Washington. A differenza dell’ultima crisi - che era incentrata su concetti astrusi e fatti complicatissimi - in questo caso sarà facile per un parlamentare ambizioso - e persino un Presidente impopolare - attaccare le banche e minacciare altre leggi e regolamenti per controllarne gli eccessi. Basterà dire: «I ricchissimi padroni di Wall Street, salvati dai soldi dei cittadini americani, si sono messi a cacciare di casa dei poveri contribuenti senza nemmeno controllare i documenti».

Fin ad ora la Casa Bianca e il Congresso non hanno detto o fatto granché. Ma è quasi un caso, dovuto al fatto che la capitale è deserta in questi giorni con i politici sparsi per il Paese a fare campagna elettorale per le elezioni parlamentari di Midterm del 2 novembre.
Da mercoledì prossimo, però, la politica diventerà molto meno locale e molto più nazionale, con un Parlamento diviso tra repubblicani e democratici e un Barack Obama pronto a lanciare una controffensiva dopo la (probabile) batosta elettorale che patirà il suo partito. Sulla questione dei pignoramenti la scelta tra Jeff Horton e Jamie Dimon non è difficile per una classe politica alla ricerca dei responsabili per la stasi dell’economia.

francesco.guerrera@ft.com
Francesco Guerrera è il caporedattore
finanziario del Financial Times a New York

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Titolo: FRANCESCO GUERRERA. L'Europa deve imparare dall'America
Inserito da: Admin - Dicembre 05, 2010, 12:31:35 am
4/12/2010

L'Europa deve imparare dall'America

FRANCESCO GUERRERA

L’alto funzionario del Tesoro statunitense è ritornato bambino in un istante, chiudendosi la bocca con un’immaginaria cerniera e riaprendola solo per offrirmi un sorriso di scherno e la frase più odiata dai giornalisti: «No comment». Gli avevo semplicemente chiesto un parere sull’Irlanda e le convulsioni di un’Europa che sprofonda nelle sabbie mobili di una crisi economica sempre più seria.

Il silenzio-sberleffo della mia fonte cela preoccupazioni gravi all’interno dell’amministrazione di Barack Obama. Nei corridoi del potere di Washington non c’è sollievo agli stenti della zona euro nonostante le recenti tensioni tra i due blocchi culminate nel rifiuto di Germania e Francia di sostenere le posizioni Usa al summit del G20 sulle cure per l’economia mondiale.

In frangenti come questi, la schadenfreude (il piacere del male altrui) – parola tedesca adottata dalla lingua inglese – è un lusso che nessuno si può permettere. E non solo per altruismo.

Gli uomini del Presidente – quelli senza zip sulla bocca – hanno paura di una «crisi di ritorno»: un malessere che, dopo essere nato in America e aver contagiato l’Europa potrebbe rimpatriare e distruggere l’anemica ripresa Usa. Se l’Europa, che nonostante i balzi giganti della Cina rimane il partner commerciale più importante per gli Stati Uniti, non ricomincia a tirare, gli sforzi americani per tenere il dollaro basso e stimolare esportazioni e crescita serviranno a poco. Invece di vendere merci e servizi al mondo, gli Usa si ritroveranno ad importare beni di cui non hanno proprio bisogno: la deflazione e la recessione made in Europe. Come mi ha detto un banchiere americano che si muove da decenni nel mondo del commercio estero, «Adesso bisognerebbe parafrasare il discorso di Kennedy a Berlino e dire; “Io sono irlandese... e spagnolo... e portoghese... e forse pure italiano”».

Il male comune, però, fa solo mezzo gaudio. Le angustie americane sono accompagnate da frustrazione per il modo in cui la zona euro e la sua banca centrale hanno affrontato i problemi prima della Grecia e poi dell’Irlanda. I signori del Tesoro non lo diranno mai in pubblico ma sono arrabbiati, e forse anche un poco offesi, dal fatto che i governanti europei sembrano aver imparato poco e niente dall’esperienza americana del 2007-2009. Una delle lezioni dell’ultima crisi è che temporeggiamenti, indecisioni e polemiche - la trinità che ha caratterizzato la risposta europea al crollo economico - non fanno altro che esacerbare i problemi e innervosire gli investitori. La Banca Centrale Europea e i ministri delle finanze della zona euro si dovrebbero rileggere i lanci di agenzia da New York e Washington del 29 settembre del 2008.

Quel giorno, poco dopo l’ora di pranzo, la Camera dei deputati Usa bocciò il pacchetto da 700 miliardi di dollari presentato dal governo Bush per comprare beni «tossici» dalle boccheggianti banche. La decisione-bomba fece tremare i mercati internazionali e l’economia mondiale per quasi una settimana – fino al nuovo voto che approvò le misure – e cambiò per sempre l’atteggiamento del mondo politico americano nei confronti della crisi.

Non più compromessi e lunghe discussioni ma «shock and awe» – la tattica militare dello «sciocca e impressiona» (che non ha funzionato in Iraq, ma questa è un’altra storia) ovvero spendere miliardi di dollari per convincere gli investitori, le banche e i cittadini che lo Zio Sam faceva sul serio. Nello spazio di poche settimane, il governo utilizzò 250 di quei 700 miliardi per ricapitalizzare una decina di banche, un’azione senza precedenti nella storia del Paese, e creò altri fondi speciali per comprare mutui, obbligazioni e persino case. Ricordo bene l’espressione tesa ma sicura sulla faccia di uno dei consiglieri di Tim Geithner, allora presidente della Federal Reserve di New York ed ora ministro del Tesoro, quando gli chiesi di riassumere la ricetta Usa per salvare il sistema finanziario. «Compriamo tutto. E se non basta compriamo di più», mi disse. E non stava scherzando. Fu una strategia rischiosa, criticata e probabilmente ingiusta – perché salvare Wall Street quando milioni di cittadini sono senza lavoro? – ma che si è rivelata fondamentale ad evitare il peggio: il passaggio da una recessione dura ma sopportabile ad una Grande Depressione come quella degli Anni 30. Al confronto, la strategia europea sembra più «divide et impera» che «shock and awe», almeno vista dall’altra parte dell’Atlantico.

La tragedia greca e quella irlandese hanno seguito copioni simili: rifiuto di ammettere la gravità della situazione da parte del governo locale, la Bce e l’Unione Europea; crollo della fiducia dei mercati; litigi tra Paesi guida e nazioni «periferiche»; aiuti di emergenza che mettono una pezza ma potrebbero non risolvere nulla nel lungo termine. Una diagnosi troppo negativa? Non secondo i mercati, che dopo il pacchetto-Irlanda hanno venduto euro come se piovesse e costretto Paesi come l’Italia, la Spagna ed il Belgio ad aumentare i tassi d’interesse sul loro debito.

Vecchi amici di Bruxelles con cui ho parlato per questo articolo mi hanno accusato di «voler fare l’americano» – di aver dimenticato le peculiarità e le idiosincrasie di un’Europa composta da nazioni sovrane. E’ vero che i Presidenti americani non sono esposti al fuoco incrociato di interessi nazionali quasi sempre divergenti – la Germania e la Francia e altri Paesi di peso hanno de facto potere di veto su qualsiasi decisione europea mentre la California non può bloccare gli aiuti di Washington alle banche della North Carolina. E non c’è dubbio che gli avvenimenti degli ultimi tre anni hanno dimostrato che nonostante la passione americana per il federalismo, nei momenti di crisi è il governo centrale ad intervenire con soldi e leggi. Ma le (molte) imperfezioni dell’Unione europea non possono essere addotte a scuse per l’incapacità di far fronte ad una crisi senza precedenti.

Non ci dimentichiamo che la creazione dell’euro e della Bce, una banca «centrale» come la Fed, avrebbe dovuto facilitare la cooperazione economica tra diversi Paesi, soprattutto nei momenti difficili. Fino ad ora, però, l’Europa non è stata all’altezza della situazione in parte perché le miriadi di interessi locali, politici e di facciata hanno fatto sì che i suoi governanti non siano stati in grado di riconoscere le due dure realtà imparate dal governo americano nel settembre di fuoco del 2008. In momenti di crisi, gli interlocutori più importanti sono i mercati - non l’opinione pubblica, non la stampa e non gli altri Paesi, ma gli investitori con il potere di fare o disfare economie intere. E i mercati non vogliono parole o lunghi incontri a Bruxelles o Washington ma azioni repentine, decisive ed efficaci. Come disse tanto tempo fa un pensatore, europeo non americano, «il fine giustifica i mezzi».

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario per il Financial Times a New York.
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Titolo: FRANCESCO GUERRERA. I gattopardi del bonus a Wall Street
Inserito da: Admin - Dicembre 18, 2010, 05:16:53 pm
18/12/2010

I gattopardi del bonus a Wall Street


FRANCESCO GUERRERA*

Nella New York pre-natalizia, addobbata a festa con le luci abbaglianti, le piste da pattinaggio e l’albero di Natale al Rockefeller Centre, ci sono poche oasi di pace. Una passeggiata sulla Quinta strada si trasforma subito in uno slalom affannato tra le nazioni unite del turismo – italiani e spagnoli, ovviamente, ma anche cinesi, russi, indiani e brasiliani – e residenti esasperati dal passo lento dei vacanzieri in cerca di saldi. Per trovare un po’ di calma, bisogna allontanarsi dal caos di Gap, Abercrombie & Fitch e persino Tiffany, gioielleria storica ormai alla portata di molti, e dirigersi verso la più austera Park Avenue.

E’ qui, tra i grattacieli delle banche, i ristoranti storici come il Four Seasons (dove una bistecchina costa 48 dollari), e la sensazione palpabile che l’isola di Manhattan galleggi su un fiume di denaro, che Wall Street viene a fare shopping. A Park Avenue, gli executives in cerca di regali per mogli e amanti devono suonare il campanello prima di entrare dai gioiellieri – non siamo mica da Tiffany qua - quando vedono un dipinto di Miró in una galleria d’arte non chiedono mai se è originale, e se hanno bisogno di un’auto, la scelta è tra Maserati e Ferrari.

Queste settimane prima di Natale sono di solito caldissime per i venditori di beni di lusso a New York perché banchieri e operatori di Borsa incominciano a spendere i principeschi bonus di fine anno. L’altro giorno, grazie ad un amico banchiere che mi ha dato appuntamento a Park Avenue anziché in ufficio, sono riuscito ad infiltrarmi in questo «material world» di cui cantava Madonna e scriveva Tom Wolfe nel «Falò delle Vanità». Mentre ci spostavamo da negozio a negozio – io chiedendo i prezzi e tentando di mascherare la mia sorpresa, lui comprando oggetti unici come fossero figurine Panini – ho avuto l’impressione netta che i grandi spendaccioni di Wall Street quest’anno siano meno scatenati del solito. Non erano solo gli sguardi di gran sollievo delle signorine dietro il bancone quando il mio amico tirava fuori l’American Express ma anche l’aria meno spavalda di altri avventori ben vestiti.

Un piccolo sondaggio di commercianti d’alto bordo (se avete bisogno di affittare uno yacht nei Caraibi, ho tutti i numeri che contano) ha confermato l’impressione iniziale. Dopo un anno così-così, l’industria finanziaria attingerà da una cornucopia di denaro più piccola del solito. Nel 2009, Wall Street sorprese un po’ tutti – e fece arrabbiare Washington – con la decisione di ripristinare bonus astronomici un anno dopo una crisi epica che aveva fatto perdere il posto di lavoro a milioni di americani. Quella mossa all’epoca fu giustificata dal fatto che gli utili delle varie Goldman Sachs, JPMorgan e Merrill Lynch erano aumentati e che i banchieri dovevano essere remunerati almeno quanto gli investitori (assente da quella spiegazione era il fatto che la crescita degli utili era dovuta in gran parte ai bassissimi tassi d’interesse, non al genio delle banche).

Quest’anno però, gli utili sono in calo, la ripresa economica rimane anemica e un americano su dieci è disoccupato. Che fare con i bonus? La domanda ha due risposte: quello che Wall Street farà e quello che dirà di aver fatto. Incominciano dalla seconda. Le banche diranno, anzi, stanno già dicendo, all’opinione pubblica e ai politici che i bonus quest’anno crolleranno del 20-30 per cento. E’ una cifra eclatante che dovrebbe dimostrare che, dopo gli eccessi del passato, Wall Street ha finalmente imparato la lezione: non di solo bonus vive il banchiere. La storia dei «tagli» alle buste paga fa buon gioco alle banche, soprattutto in un momento in cui il Congresso e le authority di settore stanno riscrivendo le regole del gioco della finanza. Se, come disse il presidente Obama, la Casa Bianca è l’ultimo bastione tra i banchieri e il linciaggio, rimpicciolire i bonus di un terzo dovrebbe placare le masse e ridimensionare un pochino i signori del capitalismo.

Io, però, aspetterei un attimo prima di mandare la Caritas a Park Avenue. E’ vero che, in media, i bonus caleranno dai livelli altissimi del 2009 ma la parola chiave qui è «in media». Senza andare a disturbare Trilussa e i suoi mezzi polli, va detto che nessuno a Wall Street guarda alla media-bonus. Quello che conta sono i pagamenti individuali ed è qui che, come si dice in inglese, il «diavolo è nei dettagli». Dire che i bonus calano del 30 per cento in un anno in cui gli utili saranno anch’essi giù del 30 per cento più o meno, non dimostra assolutamente che Wall Street sta «sconfiggendo la cultura dell’eccesso» come mi ha detto un banchiere l’altro giorno.

La vera cifra da controllare è la percentuale dei ricavi che viene pagata in stipendi e bonus. Per decenni, quel numero è stato fisso intorno al 50 per cento, ovvero i banchieri e gli operatori si sono presi metà di tutto quello che le loro aziende hanno guadagnato durante l’anno. Se, come credo, quella percentuale rimane la stessa – e la sola cosa che cala sono le cifre assolute perché le banche hanno fatto meno soldi nel 2010 – la famosa «riforma» di Wall Street sarà ridotta ad una magia finanziaria. L’altro modo in cui le banche possono ridurre il costo totale dei bonus pur pagando benissimo le loro «star» è di dividere la torta tra meno persone. Le tendenze darwiniane dell’industria finanziaria in questo aiutano: la tradizione di Wall Street è che un calo nei ricavi è quasi sempre seguito da licenziamenti. Meredith Whitney, uno dei migliori analisti finanziari in America, ha predetto di recente che tra la fine del 2010 e l’inizio del 2011 le grandi banche statunitensi elimineranno 80.000 posti di lavoro – un calo del 10 per cento da aggiungere alla flessione dell’8 per cento negli anni della crisi. Per quelli che rimangono, un bonus da nababbo è pressoché garantito. Il che, a ben guardare, spiega sia l’uso a raffica della carta di credito da parte del mio amico, che un lavoro a gennaio ce l’avrà, sia la cautela dei rivenditori di beni di lusso. Le grande vendite di diamanti e yacht potrebbero essere solo rimandate a quando le banche decideranno chi resta e chi va. Per scrivere del «cambiamento» di Wall Street, forse non ci vuole Tom Wolfe, ma Giuseppe Tomasi di Lampedusa.

*Francesco Guerrera
è il caporedattore finanziario
del Financial Times a New York
Francesco.guerrera@ft.com

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Titolo: FRANCESCO GUERRERA. È l’America nuova
Inserito da: Admin - Dicembre 25, 2010, 06:23:05 pm
24/12/2010 (7:39)  - IL NUOVO ANNO

Ripresa e declino

È l’America nuova

I disoccupati caleranno, ma anche il ruolo mondiale degli Usa

FRANCESCO GUERRERA

Cari amici vi scrivo/ così mi distraggo un po'/ ma siccome siete molto lontani/ più forte vi scriverò».
Con tante scuse a Lucio Dalla, l'anno che verrà porterà più di una trasformazione all'economia americana e al ruolo degli Stati Uniti nella finanza mondiale. A differenza di Paul Gascoigne, il grande incompiuto del calcio inglese che una volta disse: «Previsioni non ne ho mai fatte e non ne farò mai», questi sono i miei pronostici per il 2011.

L’economia Usa
Il paziente sta dando segnali di vita. Dopo un anno terribile in cui la disoccupazione è salita quasi al 10 per cento e la ripresa è stata stentata, la crescita nel prodotto interno lordo americano è accelerata negli ultimi tre mesi del 2010, grazie alle esportazioni e una buona stagione di vendite pre-natalizie. Il prolungamento degli sgravi fiscali dell’era Bush decretato di recente dall’amministrazione Obama dovrebbe contribuire a tonificare l’economia nel 2011. Bisognerà vedere se le aziende e i consumatori vorranno spendere i 374 milardi di dollari regalatigli dall'ufficio tasse. Ma è quasi sicuro che almeno una parte dello stimolo fiscale verrà riciclato nell’economia reale attraverso consumi e investimenti, soprattuto se la Federal Reserve rispetterà le promesse e terrà i tassi d'interesse bassi fino al 2012.

La buona nuova è che la crescita del Pil americano sembra essere uscita dalle sabbie mobili del 2-2.5 per cento - un livello insufficiente per trascinare l’economia Usa fuori dalla crisi - in cui è rimasta per gran parte del 2010. Nel 2011 dovremmo vedere un più normale 3-3.5 per cento, una buona piattaforma per ridurre la disoccupazione e istigare la ripresa.

Il commercio estero
Occhio al dollaro e alla Cina. Gli alti funzionari del Tesoro americano si infuriano alla minima menzione di una politica del «dollaro debole», ma la realtà è che le strategie monetarie della Federal Reserve - tassi d’interesse bassissimi e grandi iniezioni di denaro nei mercati - hanno avuto l’effetto di spingere in giù la valuta.

Obama e i suoi non si lamentano più di tanto, visto che una divisa più «leggera» aiuta le esportazioni in un momento in cui il commercio estero è uno dei fari dell’economia americana.

Il problema, finora, è stato che le continue crisi nel Vecchio Continente hanno fatto crollare l’euro più del dollaro, facendo aumentare i prezzi dei beni e servizi americani in vendita nell’Unione Europea. I garbugli fiscali dell’Ue non si risolveranno per un po’, e il dollaro rimarrà forte, troppo forte, nei confronti dell’euro nel 2011.

In questo momento, gli Usa avrebbero bisogno della Cina, ma Pechino non ha nessuna intenzione di rivalutare lo yuan nel breve termine. Il fiasco del G20 a Seul, con il fallimento clamoroso del tentativo americano di creare una coalizione euroasiatica per costringere la Cina a muoversi, è destinato a ripetersi nel 2011. La Cina ha ormai un profilo internazionale e una potenza economica - aumentata dal fatto che è padrona di una bella porzione di debito Usa - che le permette di ignorare i diktat degli Stati Uniti. Nel match con Pechino nel 2011, Washington può sperare al massimo in un pareggio.

Wall Street e i mercati
Ora si paga. Dopo aver contribuito alla Grande Recessione del 2007-2009, le grandi banche si troveranno di fronte ad un conto salato nel 2011. Nuove regole del gioco in America ed Europa eroderanno gli utili e ridurrano i bonus da re Mida degli anni passati.

L’industria finanziaria diventerà più piccola (meno impiegati, meno prestiti e meno aerei privati), meno redditizia e, si spera, meno arrogante. Uno dei risultati negativi della rivoluzione del dopo-crisi sarà che le banche ridurranno la liquidità a disposizione di società e cittadini, facendo rallentare la ripresa. Ma, vista l’antipatia della gente comune nei confronti di Wall Street, i politici sulle due sponde dell’Atlantico non sembrano preoccupati da questa eventualità.

Attenzione, però, alla capacità delle banche d’affari di «reinventarsi». In momenti di difficoltà, questi camaleonti della finanza hanno dimostrato di essere capaci di creare prodotti e servizi che hanno aumentato gli utili, salvo poi mettere a repentaglio l’economia mondiale. Basta ricordarsi l’esempio delle famigerate obbligazioni riempite di mutui «subprime» per capire che le «innovazioni» di Wall Street non sono sempre salutari.

La rielezione di Obama
Dipende quasi tutto dalla disoccupazione. Se rimane intorno al 10 per cento, le chances di un Obama-2 nel 2012 sono pressoché nulle. Ma Sarah Palin e gli esponenti di punta di un partito repubblicano che si sta spostando sempre più a destra sanno bene che, prima o poi, il mercato del lavoro ricomincerà a tirare. Se la ripresa continua e le aziende ritornano ad investire, l’economia americana potrebbe tranquillamente creare più di 2 milioni di posti di lavoro l’anno prossimo, facendo calare il tasso di disoccupazione sotto il 9 per cento.

Le voci di corridoio nella Casa Bianca dicono che, se la percentuale dei senza lavoro sarà intorno all’8 per cento alla fine del 2011, la rielezione del Presidente sarà cosa fatta, anche se i repubblicani candidano «Gesù bambino», come mi ha detto un consigliere di Obama l’altro giorno. Sarà pure vero, ma aumentare così tanti posti di lavoro in un frangente così fragile è più facile a dirsi che a farsi.

Il ruolo mondiale
In inglese si dice: «Less is more» - il meno è più - e questo dovranno sperare gli americani che stanno diventando sempre più comprimari sul palscoscenico dell’economia e della finanza mondiale. L’ascesa di Paesi emergenti - la Cina ma anche l’India e il Brasile - è ormai incontenibile e l’asse AmericaEuropa, che è stato la trave portante dell’economia mondiale nel dopoguerra, è stato indebolito dalla crisi finanziaria Usa e i disastri economici europei.

L’America del 2011 sarà sospesa tra il pirandelliano e il kafkiano: in cerca di un nuovo ruolo in un mondo che non tollera più una sola superpotenza economica e consapevole che il suo declino, anche se lento, è inarrestabile.

God Bless America...

Caporedattore finanziario del «Financial Times» a New York francesco.guerrera@ft.com

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Titolo: FRANCESCO GUERRERA. Obama chiede un salvagente all'industria
Inserito da: Admin - Gennaio 22, 2011, 05:41:39 pm
22/1/2011
 
Obama chiede un salvagente all'industria
 
 
FRANCESCO GUERRERA
 
Il Presidente americano e il capo della General Electric, cestisti di buon livello ai tempi dell’università (l’uno guardia, l’altro pivot), dovranno tentare di trasformare l’uno-contro-uno tra governo e aziende in uno schema vincente per l’economia americana. L’assist di Obama è arrivato ieri con la nomina di Immelt a capo del gruppo di consiglieri economici della Casa Bianca - uno dei gabinetti più importanti della presidenza. Il cambio della guardia tra Paul Volcker, ottuagenario ex governatore della Federal Reserve, e Immelt, un 54enne brillante che guida una delle più grandi aziende del mondo da ormai un decennio, è molto più di un salto generazionale.

Volcker è il passato sia della politica economica americana sia della presidenza Obama. Immelt è il presente e, almeno a quanto spera l’ala Ovest della Casa Bianca, il futuro. La scelta del capo della «GE», che una volta mi confessò di aver sempre votato per il partito repubblicano, è in parte figlia di opportunismo politico da parte di Obama. Un presidente che è famoso per aver detto a un gruppo di signori di Wall Street: «Io sono l’ultimo bastione tra voi e le forche», e che ha utilizzato il disastro ambientale causato da BP nel Golfo del Messico per attaccare l’avidità spietata del capitalismo senza rete, è andato a scegliere uno dei più grandi capitani di industria come consigliere economico.

Non per la prima volta nel corso della presidenza Obama, la retorica ha dovuto cedere il posto alla Realpolitik. Le frecciate al veleno tra la Casa Bianca e gli abitanti dei piani buoni dei grattacieli di New York, Chicago e Los Angeles hanno creato un clima di ostilità che ha danneggiato l’amministrazione e fatto poco o nulla per la crescita economica. Con le elezioni del 2012 all’orizzonte, i grandi imprenditori e i banchieri di Wall Street hanno incominciato a finanziare i repubblicani, abbandonando il Presidente che avevano tanto amato nella campagna elettorale del 2008. La Casa Bianca ha bisogno di Immelt e degli altri membri del club del grande business non solo per rivitalizzare l’economia ma anche per rinvigorire la presidenza. Per Immelt il nuovo ruolo, anche se part-time, è l’occasione ideale per uscire dall’ombra di Jack Welch, il suo leggendario predecessore che è sinonimo degli anni d’oro di «GE». I paragoni tra Jack e Jeff sono sempre stati difficili per il pupillo, soprattutto quando Welch andò in tv a dire che avrebbe «sparato» a Immelt se gli utili di GE non fossero saliti.

Ma che tipo di consigliere sarà Immelt? Ed è questo un segno che l’amministrazione, ormai disperata e senza idee, ha deciso di delegare la gestione dell’economia ai capitani di industria? Conosco Immelt da quando era un giovanotto di belle speranze a capo della divisione farmaceutica di GE e abbiamo spesso parlato di questioni macro-economiche. Come molti leader aziendali, ha idee chiare e forti esposte con la verve e l’ottimismo di un venditore porta a porta. Nel 2006, in un’intervista, Immelt si lanciò in un attacco violento contro la politica economica degli Stati Uniti. «Abbiamo fatto un errore clamoroso - mi disse - abbiamo creato un’economia della ciambella, con una concentrazione del settore terziario sulle due coste e niente in mezzo. Senza l’industria manifatturiera, gli Usa non possono essere una potenza economica». Parlava, chiaramente, di azioni che avrebbero aiutato GE, un impero manifatturiero i cui prodotti vanno dai frigoriferi ai motori per i Boeing 747, ma le sue ricette economiche sono interessanti quanto interessate.

Con i consumatori americani ancora in choc dopo la crisi finanziaria, saranno le esportazioni di beni manifatturieri a dover trainare il Paese fuori dalla recessione. Una volta insediato, Immelt spingerà per una re-invenzione dell’economia americana con investimenti e sgravi fiscali per le aziende che producono «cose che si possono toccare» - come mi disse una volta - e meno favori ai venditori di servizi finanziari e film di Hollywood. Obama l’ha detto chiaro e tondo al presidente cinese Hu Jintao questa settimana: «Vi vogliamo vendere aerei, vi vogliamo vendere macchine e vi vogliamo vendere software». Su questo, il playmaker e il centro sono sulla stessa lunghezza d’onda.

*caporedattore finanziario del Financial Times a New York
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Titolo: FRANCESCO GUERRERA. Ottimismo, l'arma in più di Obama
Inserito da: Admin - Marzo 05, 2011, 04:43:20 pm
5/3/2011

FRANCESCO GUERRERA

Warren Buffett ha il colpo in canna. Miliardario ma con abitudini e passioni da americano medio, il leggendario investitore ha utilizzato una metafora balistica per illustrare la sua brama per nuovi acquisti di società. «Il mio fucile da caccia è carico ed ho il dito sul grilletto», ha scritto la settimana scorsa agli azionisti della Berkshire Hathaway, vecchia azienda di camicie trasformata dal genio di Buffett in un conglomerato gigantesco che va dalle assicurazioni alle caramelle. L’ottantenne santone del capitalismo americano non si è fermato lì. La lettera – scritta, come tutti gli anni, dalla sua casetta di Omaha, una città senz’anima sperduta nelle pianure del Nebraska – contiene una professione d’amore per l’America. Stanco di sentirsi dire che il cuore dell’economia mondiale si sta spostando ad Est e Sud, e infastidito dal refrain degli «esperti» sul lento ma irreversibile declino degli Stati Uniti, il figlio più famoso del Nebraska – un vero patriota, che odia viaggiare ed ama hamburgers e CocaCola – si è sbilanciato.

«I giorni migliori dell’America sono nel futuro», ha detto, aggiungendo che il suo Paese «straripa» di opportunità di investire e far soldi. Così tante opportunità che l’«Oracolo di Omaha» ha promesso che quando premerà il grilletto, la sua preda sarà quasi sicuramente un’azienda made in Usa. Quando Buffett parla, il Gotha dell’economia e della finanza ascolta. E quando Buffett parla di un futuro roseo per l’America, sono in molti a volergli credere. Imercati, Wall Street, la Casa Bianca, Silicon Valley ed investitori di mezzo mondo: la lista di chi ha interesse a che l’America si riprenda dalla crisi e ritorni ad essere il motore dell’economia mondiale è lunga e parla molte lingue. I segni della rinascita – i «verdi germogli» della crescita, come gli americani amano chiamarli – ci sono eccome. Grazie all’interventismo radicale (e costoso) della Federal Reserve e del governo, la Grande Recessione del 2007-2009 non si è trasformata nella Grande Depressione del 1929-1939. Invece delle file per comprare il pane, i senzatetto sotto i ponti, e bambini scalzi per le strade, l’America del 2011 si preoccupa del ritorno dei bonus per i banchieri, quale macchina comprare e quante carte di credito bisogna avere nel portafogli. Sono settimane che cerco di andare a cena con un mio amico che fa l’agente immobiliare per case di lusso a New York – immobili che valgono almeno 2 milioni di dollari – ma lui non fa altro che rimandare perché ha troppe case da vendere (almeno così dice).

I mercati riflettono questi sentimenti positivi. Il Dow Jones Industrial Average – l’indice guida della Borsa di New York – è raddoppiato negli ultimi due anni e, anche dopo il tonfo causato dai tumulti nel Medio Oriente, è ben al di sopra dei livelli toccati prima del crollo di Lehman Brothers – il punto più buio nel tunnel della crisi finanziaria. Anche l’economia reale sta dando segnali di vita. Dopo anni passati ad angustiarsi sul pericolo di un lungo periodo di ristagno economico stile-Giappone, i banchieri centrali della Fed parlano già di come la ripresa stia aumentando il rischio d’inflazione, di come presto verrà il momento di alzare i tassi di interesse e ritirare le dosi da cavallo di stimolo monetario amministrate dalle zecche di Stato nel dopo-crisi. Persino alla Casa Bianca si respira un’aria più tranquilla. La settimana scorsa ho parlato con la mia cartina di tornasole, un alto funzionario del Tesoro che è uno dei più cupi e pessimisti degli uomini di Obama. Mi aspettavo i soliti lamenti sul fatto che la disoccupazione rimane ancora altissima, mettendo a rischio le chance di rielezione del Presidente nel 2012. Ma invece di «Mr Doom» – il signor Tragedia, l’affettuoso soprannome che ho dato alla mia fonte – ho trovato un tipo rilassato e sorridente pronto a giurare che «tutto si sta muovendo nella direzione giusta»: una ripresa economica robusta che riduce il tasso di disoccupazione dal 9-10 per cento attuale verso quel mitico 8 per cento a cui mira l’amministrazione per rassicurare le classi medie e vincere le elezioni.

Come se non bastasse, l’Apple ha presentato il nuovo iPad – il simbolo scintillante delle capacità creative e di marketing del capitalismo americano, la prova «concreta» che, come mi ha detto un eccitatissimo capo di Wall Street, «America is back», gli Usa sono tornati al top. Se tutta questa euforia sembra assurda vista dall’Europa, vale la pena notare che gli Stati Uniti non sono il vecchio continente. Il bene più importante dell’economia americana non è la forza del dollaro, o la potenza finanziaria di New York e nemmeno i muscoli monetari della Federal Reserve ma l’ottimismo, puerile forse ma quasi illimitato, della sua classe imprenditoriale e di parte della popolazione. Le parole di Buffett, l’esaltazione per l’iPad 2 («Ha due macchine fotografiche!», mi ha detto un amico quasi in preda a convulsioni), la spavalderia del mio Mr Doom non sono solo emozioni fine a se stesse. Hanno un’applicazione pratica nell’attività economica. Vi risparmio i dati sui brevetti, i numeri d’ingegneri e d’invenzioni che sono uscite tra l’Atlantico e il Pacifico - comunque molto di più che dalla vecchia Europa e persino dalla rampante Asia.

Per capire come l’ingenuità anche un po’ ridicola della psiche americana possa aiutare l’economia basta guardare Google, una società che è diventata il potere dominante di internet in soli dodici anni, Facebook, che di anni ne ha solo sei, ma anche General Electric, un «dinosauro» dell’industria che è rimasto competitivo grazie alla capacità di rinnovarsi, dalle lampadine di Thomas Edison alle turbine nucleari di oggi. La vera questione, però, è se questo desiderio, indiscutibile, forse innato, di cambiare senza paura di fallire basterà a far risorgere l’economia più grande del pianeta. Se i ragazzini con brufoli e computer potranno far fronte al declino vero e tangibile di industrie manifatturiere un tempo enormi, alla riluttanza di consumatori bruciati dalla crisi a spendere, ed alla forza inesorabile dei flussi globali di commercio che spingono merci da Est ad Ovest e denaro nella direzione opposta. Persino Ge, l’azienda americana per eccellenza il cui amministratore delegato è il super-consigliere di Obama in materie economiche, ormai deriva più della metà degli utili lontano dalla patria. Di fronte a sfide epocali come queste, non sono sicuro che il fucile da caccia di un ottantenne signore di Omaha sia l’arma giusta.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Financial Times a New York.

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Titolo: FRANCESCO GUERRERA. I cigni neri in volo sul dopo-crisi
Inserito da: Admin - Marzo 20, 2011, 03:30:24 pm
20/3/2011

I cigni neri in volo sul dopo-crisi

FRANCESCO GUERRERA

Gli eventi, caro ragazzo, gli eventi».
La risposta del primo ministro britannico Harold McMillan quando gli fu chiesto quale fosse la paura più grande di uno statista è la didascalia perfetta per le immagini terribili e commoventi delle ultime settimane.

Dalla Tunisia al Bahrein, dall’Egitto al Giappone, gli statisti, i mercati e la gente comune sono stati costretti a riconoscere che di fronte alle rivoluzioni naturali o umane, le previsioni e le precauzioni possono poco o nulla. I «cigni neri» – gli eventi rari e imprevedibili per cui nessuno sa come prepararsi identificati da Nassim Nicholas Taleb nel suo best-seller «The Black Swan» – hanno aperto le ali sul Medio Oriente e l’Asia, offuscando certezze economiche e politiche che in troppi avevano dato per scontate.

Nelle ultime ore, è apparso un nuovo cigno nero: la risposta militare delle potenze dell’Ovest al regime libico - una mossa impensabile solo un mese fa - che apre un nuovo capitolo nella storia tormentata delle relazioni tra occidente e Medio Oriente e di cui nessuno oggi può prevedere gli sviluppi e le ripercussioni economiche e sociali.

Scrivo queste righe dalla California del Sud, all’ombra di una delle centrali eoliche più grandi del mondo, un groviglio di pali e rotori che torreggiano sul deserto che circonda Palm Springs. Questo miracolo d’ingegneria sarebbe dovuto essere l’inizio della fine della petrolio-dipendenza per l’economia Usa. L’energia pulita e sicura del vento avrebbe dovuto permettere agli americani di continuare a guidare macchine enormi, lavare e asciugare i panni quattro volte a settimana e riempire mega-freezer con tonnellate di cibo congelato, ma senza le tensioni politiche causate dall’oro nero e le molte paure legate all’atomo. Ma di fronte ai tremori politici del Medio Oriente e alla violenza, prima sismica ora nucleare, nelle isole nipponiche, questi giganteschi mulini a vento sembrano essere stati concepiti da Cervantes: un monumento alla futilità, un mausoleo del fallimento per le politiche energetiche di presidenti e congressi.

Le proteste della Tunisia, le voci di Piazza Tahrir e gli spari del regime libico hanno attraversato l’oceano con gran rapidità, andando a colpire il portafogli di Joe Blog – il signor Rossi made in Usa. Le interruzioni nell’erogazione del greggio libico e il timore che la febbre di democrazia possa contagiare altri grandi produttori hanno avuto un effetto immediato: il prezzo del petrolio è balzato di quasi il 20 per cento in poche settimane e la benzina è salita alle stelle.

A differenza dell’Europa, dove le tasse attenuano il legame tra prezzo di mercato e costo alla pompa, in America la relazione è quasi perfetta. Nei primi tre mesi del 2011, il prezzo del carburante è aumentato di più un quarto e questa settimana, il costo medio di un gallone di benzina ha raggiunto un nuovo record – uno choc per un sistema economico ed uno stile di vita che tracanna petrolio.

In un Paese in cui le lunghe distanze e il benessere diffuso hanno fatto dell’automobile un accessorio indispensabile per milioni di persone, un’impennata di tal genere ha ripercussioni serie sull’economia reale. Persino nella California «verde», dove le autovetture «ibride» sono una presenza costante sulle autostrade a otto corsie, la gente è preoccupata. «Mica posso smettere di guidare», mi ha detto un tassista all’aeroporto di Palm Springs, prima di aggiungere uno sconsolato «piove sempre sul bagnato».

Non ha tutti torti. Dal punto di vista economico, le convulsioni del Nord-Africa e Medio Oriente stanno avendo un effetto sproporzionato sui consumatori americani.

I prodotti petroliferi rappresentano solo un terzo delle spese in materia di energia per le aziende ma due terzi delle bollette dell’americano medio (oltre alla benzina, Joe Blog deve anche comprare petrolio per riscaldare la sua casetta a schiera). Un americano medio che, vale la pena ricordare, è stato tartassato dalla crisi economica e sta ancora soffrendo per il collasso del mercato immobiliare e l’alto tasso di disoccupazione.

Non è un caso che a marzo l’indice della «fiducia economica» dei consumatori rilevato dall’Università del Michigan sia crollato ai livelli più bassi degli ultimi sei mesi. Anche gli economisti sono preoccupati. Senza un ritorno di fiamma del consumo, che rappresenta il 60 percento del Pil americano, il rischio di un deragliamento della ripresa del dopo-crisi aumenta. A questi livelli – con il prezzo del petrolio intorno ai 110 dollari al barile – gli esperti pensano che l’economia rallenterà un pochino ma non moltissimo, riducendo la crescita economica nel 2011 dal 3 a il 2.8 percento.

Ma il vero pericolo per l’America e il resto dell’economia mondiale si chiama Arabia Saudita e forse anche Iran - due dei più grandi produttori di greggio. Una rivolta democratica in quei due Paesi sarebbe un «cigno nero» di proporzioni epiche. Alcuni grandi banchieri di Wall Street con cui ho parlato, ma che non vogliono fare predizioni pubbliche per paura di creare panico, sussurrano che, in quel caso, il prezzo del petrolio potrebbe raggiungere i 200 dollari al barile quasi immediatamente.

Le conseguenze sarebbero devastanti, e non solo per gli Stati Uniti. Un balzo nel costo dell’energia farebbe sprofondare l’economia mondiale nella «stagflazione» – il mostro a due teste in cui la recessione è accompagnata da inflazione rampante. Va detto che per ora questo scenario non è certo, e nemmeno probabile, ma il fatto stesso che i signori del denaro di New York ne parlino come un’eventualità è prova della fragilità dell’attuale congiuntura economica.

Invece di rimbalzare con vigore da due anni di crisi finanziaria, i Paesi-guida dell’economia mondiale continuano ad incespicare su ostacoli imprevisti e non facilmente trattabili, dalle paure sul debito di Grecia, Spagna e Portogallo all’elettro-choc del petrolio. In altri tempi, le lobby del grande business americano non si sarebbero lasciate scappare l’occasione per spingere il Congresso ed il presidente Obama verso il nucleare – una forma di energia che Washington ha tentato di evitare a tutti i costi dopo la catastrofe nella centrale di Three Mile Island del 1979 in cui una nube radioattiva ricoprì un pezzo della Pennsylvania.

Ma le notizie provenienti dal Giappone rendono l’energia atomica una «non-starter» – una «falsa partenza» nel gergo spietato della politica americana. Anzi, l’industria americana è indirettamente coinvolta nelle vicende giapponesi visto che i reattori semi-distrutti dalle acque della tsunami portano il marchio della General Electric – il faro del settore manifatturiero Usa.
Il mondo del dopo-crisi è un posto inquieto dove l’insicurezza economica e l’instabilità politica sono destinate a regnare. Almeno fino a quando i cigni neri non intoneranno il loro canto finale.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Financial Times a New York francesco.guerrera@ft.com

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Titolo: FRANCESCO GUERRERA. Il secondo terremoto del Giappone
Inserito da: Admin - Aprile 03, 2011, 10:46:42 am
3/4/2011 - ECONOMIE VULNERABILI

Il secondo terremoto del Giappone

FRANCESCO GUERRERA

Non c’è voluto molto prima che le scosse di assestamento del terremoto giapponese arrivassero a Shreveport, un cittadone squallido nel profondo Sud degli Stati Uniti.
Mentre i team di salvataggio nipponici cercavano superstiti e raccoglievano corpi tra le rovine di paesi distrutti dalle onde assassine, Shreveport ha aggiunto il suo nome alla lunga lista delle vittime della devastazione nipponica.

È qui, nell’hinterland paludoso della Louisiana, ad anni luce di distanza dal jazz e dai bar a luci rosse di New Orleans, che la General Motors produce molti dei suoi «pick-up trucks», i furgoncini con portabagagli scoperti tanto amati dagli americani.
È forse meglio dire «produceva», visto che l’impianto è chiuso da dieci giorni a causa della penuria di componenti provenienti dal Giappone.

I bene informati nell’industria automobilistica dicono che il motivo per cui la Gm sta tenendo a casa i 2000 e passa operai di Shreveport è la mancanza di un pezzo che misura il flusso d’aria nei motori. La Hitachi è il leader mondiale di questi sensori e la fabbrica a Nord di Tokyo che li produce è stata danneggiata dal terremoto.

E così, senza il know-how nipponico, i motori made in Usa che alimentano il sogno americano di libertà a quattro ruote non sanno nemmeno se hanno abbastanza aria per respirare - benvenuti nel mondo «globalizzato».

L’industria automobilistica non è la sola a guardare con ansia verso le isole nipponiche.
I produttori di gadget elettronici - compreso l’iPad, la nuova coperta di Linus per banchieri, avvocati e affini -, l’intera industria dell’acciaio, e persino venditori di beni di lusso come Tiffany, la gioielleria resa famosa da Audrey Hepburn, potrebbero perdere miliardi di dollari in fatturato nel dopo-terremoto.

La finanza le sue perdite le sta contando già, con compagnie d’assicurazione di mezzo mondo che dovranno pagare almeno una parte dei 200 miliardi di dollari necessari a ricostruire il Nord del Giappone.

I profeti della globalizzazione ci avevano rassicurato citando «The World is Flat», il best-seller di Thomas Friedman, che ormai il mondo era diventato «piatto» (con buona pace di Galileo...). Che l’esplosione nel commercio tra nazioni non più divise da guerre e distanze incolmabili avrebbe aumentato gli utili di aziende capaci di approfittare del progresso della tecnologia e dei trasporti.

E che la vita del consumatore sarebbe diventata più facile e meno costosa grazie all’«outsourcing», il processo di «delocalizzazione» in cui i prodotti vengono fabbricati nel Paese a più basso costo per poi essere esportati in tutto il mondo.

Non è che queste predizioni rosee non si siano avverate, anzi. Basta andare in un Wal-Mart, il supermercato statunitense che è un santuario del consumo a poco prezzo, per vedere i frutti della globalizzazione: carrozzine cinesi, T-shirt vietnamite e ombrelli cambogiani condividono le mensole con icone americane come la Coca-Cola, le Barbie e i film della Disney.

Quello che i proseliti della globalizzazione si sono dimenticati di aggiungere, però, è che un mondo così piatto - in cui merci e capitali si muovono liberamente intorno al pianeta - è molto più vulnerabile a crisi sia naturali che finanziarie.

Dei «contagi» finanziari sappiamo già molto, basti ricordare che gli effetti della bancarotta di Lehman Brothers, la banca d’affari americana, nel 2008 furono globali: ne soffrirono tutti, dai mercati asiatici alle banche regionali tedesche agli investitori di piccolo taglio del Minnesota.
Ora, il caso di Shreveport dimostra che le ripercussioni economiche di un disastro naturale seguono lo stesso copione, riecheggiando rapidamente a migliaia di chilometri di distanza.
Non è un caso che Tiffany, che deriva quasi un quinto del fatturato vendendo brillanti, collane e l’idea platonica di lusso «all’occidentale» ai giapponesi, abbia già detto che gli utili nei primi tre mesi dell’anno saranno meno di quanto predetto dagli analisti di Wall Street. Nel 1961, quando Audrey Hepburn fece la sua famosa colazione davanti alle vetrine del negozio newyorchese e Tiffany vendeva quasi tutta la sua mercanzia negli Usa, una mossa del genere sarebbe stata impensabile.

La realtà è che, nonostante un decennio di crescita zero, il Giappone produce quasi il 10 per cento del Pil mondiale e rimane una fonte fondamentale di componenti, e consumatori, per molte industrie.

I dirigenti di aziende elettroniche, con cui ho parlato di recente, sono in bilico tra il fatalismo e la paura.

Il Giappone, con la sua tradizione di eccellenza nell’ingegneria elettronica, è responsabile per il 60 per cento della produzione mondiale di «wafer» di silicio, un ingrediente fondamentale dei «chip» che sono in computer, iPad e videogiochi.

Per ora non c’è panico a Silicon Valley, in parte perché molte società hanno scorte di componenti che dovrebbero bastare per un po’ di settimane.

Ma nessuno sa cosa accadrà nei prossimi mesi, soprattutto perché i produttori giapponesi hanno rivelato poco o nulla sulla situazione delle loro fabbriche. Come mi ha detto un dirigente di una società di elettronica americana che ha un fatturato di miliardi di dollari: «Qui viviamo alla giornata. Non escludo di dover chiudere bottega per un paio di settimane se le parti incominciano a mancare».

Il dirigente non ha notato, o forse non ha voluto notare, la crudele ironia della situazione: il motivo per cui società di tutti i tipi, dalla Apple alla Gm, hanno giacenze così limitate - settimane invece di mesi o anni - è dovuto a un sofisticatissimo sistema di gestione delle scorte inventato proprio in Giappone, dalla Toyota.

Il sistema «just-in-time», che permette alle aziende di comprare componenti e produrre beni «appena in tempo», cioè solo quando sono richiesti da rivenditori e consumatori, è stato copiato da tutti perché riduce costi e sprechi.

Come la globalizzazione, però, la geniale idea della Toyota ha i suoi difetti, soprattutto in periodi di altissimo stress produttivo come quelli che stiamo vivendo, quando la mancanza di scorte mette a rischio vendite e posti di lavoro.

Purtroppo, o forse per fortuna, la globalizzazione soffre dello stesso problema che Winston Churchill identificò per la democrazia: non è perfetta, ma è meglio delle alternative.
Tornare indietro, a un’epoca di protezionismo, commercio anemico e prezzi alti per consumatori e aziende, non è né realistico né auspicabile.

Ma la prossima volta che uno dei fanatici della globalizzazione intona un peana al «mondo piatto», vale la pena ricordargli i sensori di Shreveport e poi magari cantargli anche una filastrocca che i bambini anglosassoni imparano alle elementari: «Un chiodo mancò e il ferro di cavallo fu perso / Il ferro di cavallo mancò e il cavallo fu perso / Il cavallo mancò e il cavaliere fu perso / Il cavaliere mancò e la battaglia fu persa / La battaglia mancò e il regno fu perso».

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Financial Times
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Titolo: FRANCESCO GUERRERA. Wall Street si riconcilia con l'America
Inserito da: Admin - Aprile 16, 2011, 04:20:20 pm
16/4/2011

Wall Street si riconcilia con l'America

FRANCESCO GUERRERA

Carl Levin ha i lineamenti da giudice. Con la fronte alta, i capelli bianchi con il riporto e il naso aquilino, il senatore del Michigan sembra essere stato concepito da Hollywood per il ruolo dell’inquisitore burbero e implacabile. Negli ultimi due anni questo veterano della politica - è al Congresso dal 1978 - ha recitato la sua parte sul prestigioso palcoscenico di Washington, indagando Wall Street e le cause della crisi finanziaria. Capo dell’autorevole comitato investigativo del Senato i cui ampi poteri furono usati sia da Joseph McCarthy per la sua caccia alle streghe comuniste negli Anni 50 sia da Robert Kennedy per attaccare la mafia un decennio dopo, Levin ha interrogato, arringato e deriso i grandi della finanza americana. Ero nell’auletta strapiena lo scorso aprile quando, in uno scontro memorabile, Levin chiese a Lloyd Blankfein, il capo della temutissima Goldman Sachs, sei volte di fila se non fosse vero che la banca d’affari avesse «scommesso» i suoi soldi contro i propri clienti. Sotto lo sguardo marmoreo di un’aquila americana, Blankfein, accigliato e sudante, cercò disperatamente di non dare ragione all’astuto politico che lo scrutava da sopra i suoi occhiali a mezzaluna.

Questa settimana, il lavoro del comitato Levin ha finalmente dato i suoi frutti: un rapporto di più di 600 pagine, con quasi 5000 pagine di appendici e grafici. L’obiettivo di questo mostro cartaceo è semplice: dare un nome, una faccia o quantomeno un indirizzo e una ragione sociale ai responsabili del peggiore tracollo finanziario del dopoguerra. A quattro anni dallo scoppio della bolla immobiliare statunitense, l’identità delle vittime è ben nota: i lavoratori, proprietari di case e investitori che hanno perso denaro e posti di lavoro, e i contribuenti che hanno dovuto pagare il salatissimo conto. Ma dei colpevoli non si sa granché. Gli amministratori delegati di società fallite - come la Lehman Brothers, l’Aig e la Bear Stearns - sono disoccupati e un po’ meno ricchi di prima. Gli azionisti che hanno comprato banche dalle finanze ballerine senza studiarne i bilanci hanno visto i loro investimenti fare la stessa fine della neve al sole. E i cittadini incauti che hanno mentito sul loro reddito per ottenere mutui che non avrebbero mai potuto ripagare hanno dovuto abbandonare le loro ville e vendere i televisori a schermo piatto. Ma queste sono cause quasi «naturali» del disastro.

La risposta legale e giudiziaria, invece, è stata pressoché assente. E’ vero che la Goldman Sachs ha dovuto pagare 550 milioni di dollari per risolvere accuse di frode da parte dell’authority di mercato americana, ma una multa del genere non è gran cosa per una società che l’anno scorso ha avuto entrate di quasi 40 miliardi di dollari. Regole e leggi sono state cambiate ma nessuno è andato in galera, anzi: molti dei pezzi grossi di Wall Street sono rimasti negli uffici d’angolo dei loro grattacieli e né i regolatori né i politici hanno fatto mea culpa. Un mio amico avvocato la chiama «la Immacolata Recessione» - una crisi che ha vittime ma non carnefici. Su questo punto Levin e i suoi hanno fatto un ottimo lavoro. Le 600 e passa pagine non sono proprio «Guerra e Pace» ma la narrativa che ne emerge è avvincente. E’ come un thriller alla Hitchcock dove niente è come sembra. I testi sacri di finanza ci avevano detto che il ruolo del sistema bancario è di ridistribuire risorse finanziarie dai risparmiatori agli investitori e alle aziende per oliare gli ingranaggi dell’economia. Ma le banche del rapporto Levin fanno tutt’altro. L’obiettivo dei banchieri e degli operatori che popolano il tomo dei senatori è fare soldi a ogni costo, anche se ciò vuol dire mettere a repentaglio gli utili dei clienti, la reputazione delle loro banche e, come ora sappiamo, la salute economica del Paese.

L’inchiesta dimostra che gli «incentivi finanziari» - frase molto amata da economisti che vogliono lasciare il libero mercato decidere le regole del gioco e la remunerazione dei banchieri - erano tutti sbagliati. Invece di spingere i vari attori del sistema bancario a considerare le conseguenze delle loro azioni sul benessere della loro società - se non «della» società - e sul lungo termine, l’insistenza di Wall Street su bonus annuali e legati solamente agli utili di reparti specializzati ha creato una cultura egoistica e del breve termine. Ognuno per sé e nessuno per tutti. I risultati sono ben noti: investitori convinti a comprare prodotti di cui non hanno bisogno, banche che usano i propri soldi per investire contro i loro stessi clienti, l’invenzione di titoli e obbligazioni sempre più complessi e meno comprensibili. Il bello del rapporto Levin è che i nomi li fa, eccome: Goldman Sachs, Deutsche Bank e le agenzie di credit rating Moody’s e Standard & Poor’s sono, loro malgrado, i protagonisti di questa tragedia all’americana, con comprimari di lusso a Wall Street, Francoforte e nella City di Londra. La domanda che a New York e a Washington si fanno un po’ tutti è: «What now?», «Ora che succede?». Levin ha già detto che presenterà il rapporto al ministero di Giustizia, che ha il potere di lanciare indagini giudiziarie e concludere il lavoro iniziato dai senatori. Wall Street, però, sembra rilassata.

I banchieri di Goldman con cui ho parlato si dicevano rincuorati dal fatto che Levin è l’ultimo ostacolo prima di tornare alla «normalità» di fare soldi al riparo da occhi indiscreti. Un signore di Wall Street mi ha preso in giro quando insistevo a chiedergli cosa sarebbe successo. «Ma tu non sei italiano?» mi ha detto. «Non l’hai letto il Gattopardo?». Forse ha ragione lui. Persino il presidente Obama - lo stesso presidente Obama che un paio d’anni fa chiamò i capi di Wall Street nell’ufficio ovale e gli disse che lui era l’unica barriera tra le banche e «i forconi» - ha fatto pace con l’industria finanziaria. Con un occhio ai fondi da raccogliere per la campagna elettorale del 2012 e un altro al fatto che, per far risorgere l’economia, le banche devono ricominciare a prestare denaro a consumatori e aziende, la Casa Bianca ha fatto capire che la guerra con Wall Street è finita. E forse lo Zeitgeist del momento con un’economia in ripresa e la disoccupazione in calo - e l’innato ottimismo della psiche americana faranno sì che il Paese riuscirà a dimenticare il passato e a guardare al futuro senza la catarsi di processi e punizioni.

Ma prima di chiudere questo capitolo di storia americana, vale forse la pena ricordarsi di Ferdinand Pecora, un emigrato di Nicosia, vicino ad Enna, che divenne famoso come il grande inquisitore del dopo Grande Depressione. Come Levin, Pecora e la sua commissione interrogarono Wall Street e scrissero pagine e pagine per spiegare la crisi del 1929. All’epoca, però, le parole di Pecora non rimasero lettera morta. La sua inchiesta divenne una delle travi portanti dell’architettura del capitalismo americano, dando vita a leggi e regole che crearono le basi per decenni di espansione economica Usa e trasformarono New York nel centro mondiale della finanza. Se un emigrante siciliano è stato capace di rompere con il gattopardesco desiderio di non cambiare nulla dopo una crisi devastante, un Presidente il cui slogan era «sì, si può!» dovrebbe essere capace di fare lo stesso.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Financial Times a New York.
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Titolo: FRANCESCO GUERRERA. Sono finite le scorciatoie
Inserito da: Admin - Aprile 19, 2011, 04:53:37 pm
19/4/2011

Sono finite le scorciatoie

FRANCESCO GUERRERA

Per capire la decisione da parte di Standard&Poor’s di cambiare il suo giudizio sul debito Usa da «stabile» a «negativo», immaginate un alpinista che scala il Mount Rushmore e prende a scalpellate il nasone di pietra di Abramo Lincoln o le basette di George Washington. Di per sé il gesto non è né gravissimo né irreparabile, ma il suo valore simbolico va ben al di là del danno pratico.

I mercati azionari, che di simbolismo e impulsi vivono, questo l’hanno capito subito e sono crollati non appena appresa la notizia che S&P aveva peggiorato il suo giudizio sulla posizione fiscale degli Stati Uniti per la prima volta nella storia.

L’oro, il bene rifugio per eccellenza in momenti difficili per l’economia più grande del pianeta, è balzato a un nuovo record mentre il dollaro è calato. La reazione degli investitori è comprensibile: il sistema finanziario globale del dopoguerra è basato sull’assioma che il debito del governo statunitense è «a rischio zero» - lo Zio Sam prima o poi paga sempre ciò che deve - e che il dollaro verrà sempre accettato come moneta di scambio nell’economia mondiale.

Le parole di S&P hanno fatto incrinare entrambi i pilastri, erodendo la fiducia dei mercati nel modello economico americano.

Dal punto di vista tecnico, la decisione di S&P è semplicemente un ammonimento: se gli Usa non riducono il loro enorme deficit fiscale e debito pubblico prima del 2013, c’è una possibilità su tre che l’agenzia di rating ridurrà la sua valutazione di «tripla A» - il più alto punteggio per il debito sovrano - per gli Usa. Ma quando si parla di debito e deficit in America - la questione politica più ostica e discussa del momento - nulla è tecnico, e l’avvertimento di S&P è riverberato come un tuono a Washington.

Un po’ come la situazione in Italia prima dell’avvento dell’euro, i partiti politici sanno benissimo che la situazione fiscale è insostenibile ma non hanno la volontà, il coraggio politico e l’esperienza economica per risolvere velocemente la situazione.

Leggere i dati è da film dell’orrore (lo si potrebbe chiamare «Nightmare su Wall Street»). Tra il 2003 e il 2008 il deficit pubblico del governo Usa è fluttuato tra il 2 e il 5 per cento del Pil, più alto di molti altri Paesi con la «tripla A». Nel 2009, però, si è gonfiato fino a raggiungere l’11 per cento del Pil - una cifra astronomica. Per finanziare queste spese enormi, il governo americano si è ipotecato un po’ tutto, vendendo titoli del Tesoro come se fossero caramelle: negli ultimi tre anni il debito pubblico americano è raddoppiato, raggiungendo quota 9000 miliardi.

Il fatto che la metà di queste cambiali siano in mano a investitori stranieri, soprattutto la Cina e il Giappone, non fa altro che aumentare l’ansia degli americani sul declino del loro stile di vita e il loro ruolo come padri-padroni del capitalismo mondiale.

Il dilemma del governo americano non è insolubile. Anche uno studente al primo anno di economia sa che per ridurre il deficit bisogna tagliare le spese e alzare le tasse. E negli ultimi giorni sia l’amministrazione Obama sia l’opposizione repubblicana hanno proposto pacchetti di azione che dovrebbero ridurre il deficit di più di 4000 miliardi nel prossimo decennio.

Ovviamente, i due piani evitano scrupolosamente di parlare di tasse - l’equivalente del cianuro per un politico di Washington - e si limitano a vaghe promesse di misure di austerità.

Il problema è che, in materie economiche, ai politici ormai non crede più nessuno. Non i mercati, non gli investitori e, a partire da ieri, non le agenzie di rating. Dopo anni di errori economici e fiscali, le belle parole sui tagli alle spese non bastano più.

L’unica speranza è che la mossa di S&P faccia capire ai potenti di Washington che questa volta bisogna fare sul serio, come anche alcuni Paesi della Vecchia Europa sembrano aver imparato.

La ricetta non è complicata ma potrebbe essere indigesta: o tagli alla sanità, alle pensioni e alla sicurezza sociale - con il rischio che, senza un minimo di «Welfare State», i poveri statunitensi diventeranno ancora più poveri; o aumenti seri delle tasse, soprattutto su quell’1 per cento della popolazione che controlla più del 40 per cento della ricchezza del Paese, una mossa non facile per politici che si vogliono far rieleggere.

«Our back is against the wall», «Abbiamo le spalle al muro», mi ha detto un vecchio marpione della finanza ieri, e ha perfettamente ragione: il bello e il brutto della situazione americana è che non ci sono più scorciatoie.

Il tempo per la retorica politica è scaduto. L’economia americana e il sistema finanziario mondiale non si possono permettere più frane sul Mount Rushmore.

*Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Financial Times a New York

francesco.guerrera@ft.com

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Titolo: FRANCESCO GUERRERA. Gli Usa al bivio della crisi
Inserito da: Admin - Maggio 01, 2011, 05:37:51 pm
1/5/2011

Gli Usa al bivio della crisi

FRANCESCO GUERRERA

Tra un matrimonio reale britannico e la prospettiva, anch’essa reale, di un italiano al timone della zona euro, questa settimana non ha lesinato occasioni storiche.

L’America ci ha messo del suo. In un mercoledì che verrà ricordato per anni, il pubblico Usa ha assistito allo straordinario e deprimente spettacolo di un Presidente costretto a mostrare il suo certificato di nascita per convincere i suoi concittadini che è uno di loro, e alla prima conferenza stampa di un governatore della Federal Reserve nei 97 anni di vita della banca centrale americana.

Ammetto subito che, con protagonisti come Will & Kate, Mario Draghi, e un documento su carta verde in cui si legge «Barack Hussein Obama - nato ad Honolulu», Ben Bernanke deve fare da comprimario. Ma sarebbe un errore trascurare le parole pacate del barbuto ex professore con il compito più arduo di Washington: pilotare l’economia americana fuori dalle paludi della recessione verso la ripresa ma senza risvegliare lo spettro dell’inflazione.

E’ vero che per i tre quarti d’ora in cui ha risposto a domande, forse un po’ troppo ossequenti, di giornalisti americani e stranieri, Bernanke è riuscito nel suo obiettivo di dire poco e nulla. «Ben Bernanke ha fatto storia, non notizia» è stato il commento dei media o, come ha detto il manager di un hedge fund in un’e-mail che è stata girata a mezza Wall Street: «BB sta per Brilliantly Boring - fantasticamente noioso». Ma il desiderio da parte del capo della Fed di «esporsi» e spiegare le sue decisioni ogni tre mesi va ben al di là delle parole di questa settimana.

La «glasnost» di Bernanke è l’ammissione che, dopo una crisi che ha tolto posti di lavoro, case e soldi a milioni di americani, i poteri economici devono scendere dalle torri d’avorio e confrontarsi con i mercati, il Congresso, e persino la gente comune. Il momento è opportuno. La politica monetaria americana è a una giuntura cruciale che determinerà il percorso dell’economia nazionale e mondiale nei prossimi anni, e forse decenni. Dopo aver risuscitato un Paese che era sull’orlo del collasso, evitando che la Grande Recessione del 2007-2009 si trasformasse nella Grande Depressione degli Anni 30, Ben Bernanke e i suoi devono decidere se è venuto il momento di smettere la terapia-choc.

I tassi di interesse super-bassi e le enormi iniezioni di capitali utilizzati dalla Fed per stimolare l’economia nel dopo-crisi hanno avuto l’effetto sperato: il Pil americano aumenterà di più del 3 per cento nel 2011 - una crescita non spettacolare ma di rispetto, che dovrebbe continuare a ridurre l’alto tasso di disoccupazione Usa. In economia, però, tutto ha un costo. I banchieri centrali il terzo principio della dinamica lo sanno a memoria: «Ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria».

In questo caso la reazione degli investitori alle politiche monetarie «rilassate» della Fed (e della Bce) è stata quella di usare i miliardi di dollari pompati nei mercati dai governi per comprare beni e azioni come se fossero a una svendita di Macy’s. Dall’argento al cotone, dal rame al caffè - i prezzi delle «commodities» sono saliti alle stelle. L’oro ormai si vende a 1500 dollari l’oncia - un record storico, mentre il petrolio è cresciuto di più di un terzo quest’anno - una bolla finanziaria con contenuti più nobili, soffici e aromatici, ma non certo meno pericolosi, delle solite azioni e prestiti. Per i banchieri di Washington e Francoforte, ma anche Pechino e Mumbai, queste scosse dei prezzi significano una cosa sola: il denaro a costo zero «creato» dai governi per combattere la crisi sta facendo nascere le condizioni per un attacco di inflazione.

Una delle poche notizie fornite da Bernanke mercoledì è stata la predizione che i prezzi al consumo negli Usa potrebbero salire al di sopra del «magico» 2 per cento - lo spartiacque che divide l’inflazione «buona» che aumenta stipendi, ricavi e investimenti da quella «cattiva» che riduce la crescita economica.

«Helicopter Ben» - il soprannome di Bernanke da quando scrisse un pamphlet accademico consigliando ai governi di combattere le recessioni gettando denaro alla popolazione dagli elicotteri - ha un altro problema. Per far fronte alla crisi, le zecche di Stato hanno lavorato a doppi turni, stampando miliardi di dollari e creando un circolo vizioso in cui il troppo denaro fa deprezzare la valuta e aumenta il pericolo di inflazione: non è un caso che nei 45 minuti di conferenza stampa di Bernanke il dollaro sia calato ai livelli più bassi in quasi tre anni.

L’inazione fiscale di politici troppo vicini alle elezioni per prendere decisioni impopolari - come per esempio alzare le tasse - per tagliare l’enorme debito pubblico americano mette la Fed in una posizione quasi impossibile. Per i vecchi patiti di fumetti, paragonerei la situazione alla striscia satirica di Andy Capp, con le autorità monetarie nei panni di Flo, la moglie disperata che ha tre lavori per sbarcare il lunario, e il Congresso e l’amministrazione Obama nel ruolo di Andy, il marito inutile e disoccupato.

Il dilemma di Bernanke è come districarsi da una serie di aiuti eccezionali, che hanno costretto la Fed a invischiarsi nei mercati finanziari come mai nella sua storia, ma senza compromettere la ripresa economica. Le mie fonti a Washington parlano di misure graduali: a giugno la Banca centrale terminerà un programma in cui ha comprato 600 miliardi di dollari di buoni del Tesoro americano per tenere i tassi d’interesse bassi; nei mesi seguenti la Fed penserà a vendere i due triliardi di buoni del Tesoro e titoli «tossici» che ha comprato da investitori e banche durante la crisi. E tra un po’, magari nel 2012, Bernanke alzerà i tassi di interesse per tarpare le ali all’inflazione.

E’ una strategia che non fa una grinza in teoria, ma che sembra non avere notato i movimenti convulsi dei mercati e la fragilità di alcuni settori dell’economia, soprattutto i consumatori e il tartassatissimo mercato immobiliare. Né, tanto meno, il fatto che mercati emergenti come la Cina stanno già combattendo con l’inflazione e potrebbero «esportarla» negli Usa con movimenti di capitali e merci. Sospeso tra l’«esuberanza irrazionale» degli investitori, per usare la famosa frase del suo predecessore Alan Greenspan, e il pericolo di una ricaduta nella recessione, Bernanke è a un bivio impervio e imprevisto. Se fossi stato a Washington mercoledì, avrei alzato la mano e chiesto semplicemente: «Che fare adesso, governatore?».
 
Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Financial Times a New York.

francesco.guerrera@ft.com

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Titolo: FRANCESCO GUERRERA. L'America nella palude immobiliare
Inserito da: Admin - Maggio 15, 2011, 10:50:39 am
15/5/2011

L'America nella palude immobiliare

FRANCESCO GUERRERA

Tu non vivi in America, vivi a New York». Trovai la frase, urlata da un amico in un affollatissimo bar di Soho nel corso di un’accesa discussione economica, offensiva - uno schiaffo retorico per ricordare allo straniero che non sarà mai in grado di penetrare i misteri del suo Paese adottivo. Rimasi a bocca aperta, capace solo di pagare il conto, salutare freddamente l’interlocutore e perdermi nella notte quasi primaverile. Mi ci vollero tre isolati tra le vecchie fabbriche ora trasformate in boutique d’alta moda e loft di lusso per capire che aveva ragione.

L’epicentro dell’economia americana non è nei grattacieli di Manhattan, nei grandi magazzini della Fifth Avenue o nei computer portatili dei banchieri di Wall Street.
Il commercio e la finanza di New York sono le arterie che facilitano la circolazione di capitali e merci ma il cuore pulsante dell’economia-guida del pianeta si trova nei sobborghi monotoni e senz’anima di Detroit, Atlanta, Sacramento e le mille altre città di un continente che si ostina a credersi nazione. Il mio amico ed io guardavamo nel posto sbagliato. La vera ripresa Usa non si può trovare in un bar pieno di yuppies nel quartiere più chic di Manhattan. Per sentire il polso dell’economia americana bisogna suonare il campanello delle casette a schiera, contare i cartelli «for sale» nei giardinetti ormai trascurati delle villette di periferia e chiedere ai lavoratori quanti soldi hanno per sbarcare il lunario.

Senza un ritorno di fiamma del mercato immobiliare, gli Stati Uniti saranno condannati ad anni di crescita anemica, con consumatori che non hanno i mezzi per ricominciare a spendere e società che non hanno i ricavi per ricominciare ad assumere. L’economia è il vero nemico di Barack Obama in vista delle elezioni del 2012 – un incubo molto più spaventoso dei fenomeni da baraccone che il partito repubblicano gli metterà contro.

Quando ho chiesto ad uno dei consiglieri del Presidente di elencare le tre priorità della Casa Bianca per il 2011 si è irrigidito e mi ha risposto: «Case, case, case». L’uomo del Presidente fa bene a preoccuparsi: le notizie dal fronte immobiliare non sono incoraggianti. Mentre altre parti dell’economia americana come il settore manifatturiero ed, ovviamente, la finanza sono rimbalzate bene dalla crisi e stanno crescendo a livelli non visti da anni, il mercato delle case è ancora nella recessione. Il prezzo medio di un immobile negli Usa è sceso del 3 per cento tra gennaio e marzo, il più grande calo trimestrale dalla fine del 2008, quando eravamo in piena crisi, secondo dati usciti questa settimana. E questa è solo la media: in posti come Detroit, Atlanta e Minneapolis, i prezzi delle case sono scesi di più del 15 per cento negli ultimi tre mesi, secondo Zillow.com, un sito di compravendite immobiliari.

Il tonfo ha scioccato gli esperti che pensavano che, dopo più di due anni di deprezzamento, il grande crollo del mercato immobiliare Usa stesse per finire. Secondo Paul Dales di Capital Economics, i prezzi delle case potrebbero calare di un altro 10 per cento quest’anno – il doppio di quanto lui stesso prevedesse prima di vedere gli ultimi numeri.

La notizia è veramente clamorosa perché non c’è mai stato un periodo nella storia degli Stati Uniti in cui le case siano state cosi convenienti. Non solo i prezzi sono calati per 57 mesi di fila, ma i tassi d’interesse sono praticamente zero - un regalo in un Paese in cui quasi tutti i mutui sono a tasso fisso – e ci sono milioni d’immobili sul mercato a causa della crisi. Eppure nessuno compra. Le case a più basso prezzo dai tempi di George Washington e Benjamin Franklin e nessuno compra. Come è possibile?
Gli economisti possono spiegare solo parte del problema, la psicologia e le scienze politiche dovranno fare il resto.
Sul fronte economico, la ripresa americana ha, fino ad ora, fatto pochissimo sul piano dell’occupazione. Esportazioni e finanza – i due motori della crescita Usa – non hanno creato abbastanza posti di lavoro ed il tasso di disoccupazione è al 9 per cento, molto più alto della media e, soprattutto, ben al di sopra di dove dovrebbe essere a questo punto del ciclo.
La mancanza di assistenza sociale – in America il «welfare state» è considerato una follia europea – crea un circolo vizioso in cui la disoccupazione, o anche semplicemente la paura di perdere il posto, rende impossibile l’acquisto di case. Questo, a sua volta, scoraggia altri consumi e frena l’economia, aumentando la disoccupazione e così via. Il governo e le banche ci hanno messo del loro.

Invece di cominciare una riforma seria e decisiva del mercato immobiliare, che per decenni è stato falsato da sussidi di Stato e condoni fiscali, l’anno scorso l’amministrazione ed il Congresso decisero di introdurre un’agevolazione fiscale temporanea. Il risultato è stato prevedibile: le vendite delle case sono aumentate un pochino nei mesi in cui l’esenzione era in vigore per poi crollare rovinosamente alla fine della vacanza fiscale. Le banche in questo non aiutano.

Bruciate dalla crisi – in cui hanno perso migliaia di miliardi di dollari su prestiti che non vennero mai ripagati - le istituzioni finanziarie ci stanno andando con i piedi di piombo, negando mutui anche a chi se li può permettere. La riluttanza delle banche è comprensibile ma contribuisce all’impasse del mercato delle case e riduce l’effetto positivo dei tassi super-bassi. Il dilemma per la Federal Reserve è che prima, o poi, avrà bisogno di alzare i tassi - per evitare una caduta libera del dollaro e l’inizio di una spirale inflazionistica – ma lo stato di coma del mercato immobiliare rende una decisione del genere praticamente impossibile. Lo spettro della stagflazione – crescita zero e inflazione – che si pensava debellato nel dopo-crisi sta ritornando a tormentare le notti di politici e banchieri centrali. Come tutti i fantasmi, anche questo passa per i muri e si nasconde nelle case. Sia in America che a New York.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal
Francesco.guerrera@wsj.com

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Titolo: FRANCESCO GUERRERA. L'oste e il rating del vino
Inserito da: Admin - Maggio 22, 2011, 10:05:38 am
22/5/2011

L'oste e il rating del vino

FRANCESCO GUERRERA

Non c’è furia all’inferno pari a quella di una donna derisa». Quando scrisse questo famoso verso, Wiliam Congreve, poeta inglese del ’600, non aveva chiaramente visto la reazione dei governi alle agenzie di rating.

Con prevedibile furore, il Tesoro italiano ha risposto per le rime al pessimismo della Standard&Poor’s sulla situazione politica e fiscale del Paese. Al taglio dell’«outlook» – le previsioni della S&P sul debito pubblico - il ministro Tremonti ha opposto un attacco alla credibilità della rating agency.

«Le valutazioni espresse e confermate nei giorni scorsi dalle principali organizzazioni internazionali sono molto diverse da quelle espresse oggi da Standard&Poor's», ha tuonato il Tesoro in un comunicato. È una tattica non nuovissima - basta chiedere ai governi di Grecia, Portogallo e Spagna - ma che può funzionare visti i dubbi dei mercati sull’attendibilità di S&P, Moody’s e Fitch, le tre società americane che dominano il mondo del rating. Le memorie di Wall Street, della City e persino di Piazza Affari sono corte ma la maggioranza di banchieri ed operatori ricorda bene gli errori clamorosi delle Big Three del rating negli anni prima della crisi.

Imbambolate da melliflui banchieri e attaccate al denaro che potevano guadagnare nel boom del credito a poco prezzo del 2005-2007, S&P e le sue concorrenti «coronarono» miliardi di dollari di obbligazioni piene di mutui subprime con le loro «triple A».

Protetti dal massimo rating possibile, investitori creduloni si buttarono sulle «collaterized debt obligations» – i famigerati Cdo – senza pensarci un secondo. L’idea, venduta dalle banche e comprata dalle agenzie di rating – era che l’alchimia di queste obbligazioni era tale che il rischio di bancarotta era praticamente nullo nonostante il fatto che gran parte dei mutui fossero in mano a gente povera con lavori precari. La complicità delle agenzie di credito in questa menzogna contribuì all’esplosione del mercato dei Cdo e convinse i mercati che fosse possibile trasformare la spazzatura in oro. Quando i Cdo si rivelarono per quello che erano – prodotti «tossici» che perdono soldi a palate non appena i prestiti non vengono ripagati – la valanga della crisi coprì tutti, dai fondi pensione della California, alle landesbanken tedesche, agli hedge funds di Manhattan.

Magari non proprio tutti. Le agenzie di credito sono sopravvissute completamente intatte, con gli stessi problemi e conflitti d’interesse di prima della crisi. Negli Usa, i politici hanno provato a regolarle un pochino meglio, ma né la legge Dodd-Frank, la bibbia della finanza del dopo-crisi, né la Securities and Exchange Commission, l’authority di settore, sono riusciti ad andare al di là di sforzi velleitari ed inefficaci. Il fatto che agenzie come S&P stiano tenendo banco sui problemi del debito europeo è prova tangibile della loro continua influenza sulla finanza mondiale.

Un banchiere che ho chiamato questa settimana – dopo l’ennesimo tentativo fallito da parte della Sec di controllare le agenzie di rating – non riusciva quasi a parlare per la rabbia. «Wall Street è stata crocifissa e questi qua continuano a fare come gli pare», è stato il suo commento quando è finalmente riuscito a formulare una frase.
La realtà è che anche se i mercati non si fidano delle agenzie di rating, non ci sono molte alternative. I fondi pensione non hanno né le risorse né l’esperienza per analizzare ogni obbligazione che comprano e devono quindi basarsi sui giudizi di agenzie esterne.

Nonostante qualche sforzo da parte di imprenditori come la mia amica Meredith Whitney, un’analista di valore che sta per lanciare la sua credit rating agency, il «triopolio» di S&P, Moody’s e Fitch rimane pressoché intatto, conferendo alle Big Three enorme potere. Il problema più grave, però, non è il monopolio da parte delle tre grandi ma il conflitto d’interessi che è al centro del loro business. Il fatto che le agenzie di rating siano pagate dalle società, banche e governi che emettono le obbligazioni è semplicemente inaccettabile. È assurdo che il Congresso americano si sia «dimenticato» di questo fatto quando ha scritto più di 2000 pagine di nuove regole del gioco finanziario con Dodd-Frank.

Se c’è un filo conduttore per gli avvenimenti della crisi è la presenza di incentivi perversi: i mutui a tassi troppo bassi, la paga dei banchieri, il corto-termismo degli investitori. Il modo in cui S&P and company vengono pagate è l’incentivo più perverso di tutti. Bisogna dire che questo conflitto d’interessi si manifesta più spudoratamente nel caso delle obbligazioni societarie, in parte perché i governi non pagano le agenzie di credito granché ed in parte perché i dati economici su cui le agenzie basano i rating nazionali sono abbastanza oggettivi. Ma il principio è lo stesso: se gli investitori non vogliono pagare i rating, non possono aspettarsi giudizi imparziali da agenzie il cui stipendio è pagato dagli emettitori. Quando si chiede all’oste se il vino è buono, non ci si può lamentare di una brutta sbronza la mattina dopo.

Francesco Guerrera è il caporedattore della finanza per il Wall Street Journal
Francesco.guerrera@wsj.com

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Titolo: FRANCESCO GUERRERA. Banche-regole, il paradosso di Wall Street
Inserito da: Admin - Giugno 20, 2011, 08:37:57 am
19/6/2011

Banche-regole, il paradosso di Wall Street

FRANCESCO GUERRERA

Montgomery Street, nel centro di San Francisco, è molto lontana da Wall Street. A separare le due strade non sono solo migliaia di chilometri - la larghezza di un continente che si ostina a chiamarsi nazione - ma anche le differenze culturali di un Paese in bilico tra due coste con costumi quasi antitetici. Chi ha bisogno di esempi può recarsi al numero 420 di Montgomery Street, il quartier generale della Wells Fargo, una delle banche piu grandi d’America.
Invece delle hall grandiose con pavimenti di marmo e Warhol sulle pareti che sono di rigore tra le banche d’affari di New York, il visitatore entra in una cameretta dal soffitto basso dominata da una diligenza di quelle che si vedono solo nei film western - mancano solo i cavalli pieni di polvere e magari un John Wayne che si avvicina lentamente con la mano sulla pistola.

Il cocchio – restaurato con gran cura – è il simbolo delle origini della Wells Fargo, la banca della febbre dell’oro, fondata nel 1850 per portare lingotti su lingotti dalla California alla costa Est e riportare indietro denaro e provvigioni. Un mezzo di trasporto d’altri tempi per un mondo finanziario d’altri tempi - un’America bambina in cui le banche avevano una funzione precisa e di fondamentale importanza per l’economia: far crescere l’ex-colonia inglese. Se fossero vivi oggi, Henry Wells and William Fargo – i padri fondatori della Wells e della cugina American Express – farebbero fatica a riconoscere il sistema bancario moderno.

Dopo essere stata responsabile, almeno in parte, per una crisi che ha spinto il Paese ed il resto del mondo sull’orlo della Depressione la finanza americana, è al centro di una battaglia socio-politica che determinerà il futuro dell’economia Usa. Il dilemma è ben noto anche alla vecchia Europa dove la tragedia greca mette le banche ancora più a rischio dei loro rivali sull’altra sponda dell’ Atlantico.

Da una parte, i politici, l’opinione pubblica e i regolatori vogliono punire le banche per gli atti imprudenti e sconsiderati commessi nel boom che ha preceduto la crisi (la lista è nota: mutui ad interessi altissimi chi non aveva soldi, rischi folli con le derivate, irregolarità contabili per coprire le perdite, fallimenti rovinosi ecc.). Come disse il Presidente Obama ai capi di Wall Street non molto tempo fa: «Ricordatevi che io sono l’ultimo baluardo tra voi e la forca». Ma il desiderio di far giustizia, di «vendicare» i milioni di americani che hanno perso casa e lavoro e rendere il sistema finanziario più sicuro si scontra con un fatto semplice ma scomodo: senza le banche, gli Usa non possono ritornare a crescere.

Le nuove leggi, le regole più dure, i controlli più severi sulla paga dei banchieri sono reazioni giustificatissime e, anzi, tardive, al terremoto finanziario del 2007-2009. Ma i loro effetti collaterali – meno profitti per le banche, meno prestiti a consumatori ed imprese, meno crescita economica – non possono essere dimenticati. Jamie Dimon, il capo della JPMorgan Chase, un gigante bancario che è emerso dalla crisi più forte di tutti, l’ha persino ricordato a Ben Bernanke, il capo della Fed la settimana scorsa. Di fronte alle telecamere, Dimon, che i peli sulla lingua non li ha mai avuti, ha preso il microfono ed ha fatto una domanda-minaccia al banchiere centrale più potente del mondo: «Direttore, lei ha paura come me che il fanatismo dei regolatori verrà visto come la ragione per cui le banche, le società ed il mercato del lavoro non stanno ancora crescendo?». Bernanke ha glissato sulla domanda retorica e impertinente di un capo di Wall Street che ha perso l’occasione di star zitto, ma la verità è che gli argomenti di Dimon sono logici.

La ripresa stentorea dell’economia americana nel dopo-crisi ha messo a nudo il patto faustiano che ogni paese capitalista fa con il suo sistema bancario: per far funzionare l’economia, le grandi banche ricevono un trattamento preferenziale e la garanzia, implicita, che verranno salvate dal governo quando si trovano nei guai. Uno dei signori di Wall Street me l’ha detto chiaro e tondo questa settimana, con tipica spavalderia: «Questi politici o ci fanno o ci sono: noi siamo il sistema nervoso dell’economia: senza di noi non si muove un tubo». E’ una posizione arrogante e un po’ volgare – un ricatto morale e finanziario che le banche fanno al Paese: «Vi daremo i soldi per crescere ma solo se ci proteggete sempre e comunque». E’ vero che, dopo un breve ritorno di fiamma subito dopo la fine della crisi, le banche stanno facendo fatica a far soldi – in parte perché le nuove regole del gioco hanno limitato il loro raggio d’azione e in parte perché l’economia è debole e non c’é molta domanda per i loro prestiti.

Un amico analista ha sintetizzato il recente crollo nelle azione di banche piccole e grandi, dicendo semplicemente «Il mercato pensa che Wall Street abbia più valore da viva che da morta». Ma la domanda da farsi non è se le banche stiano soffrendo, nei loro mercati od in Borsa. Quello che conta è capire se lo sforzo legislativo e normativo degli ultimi due anni sia riuscito a ridurre il rischio di un’altra crisi rovinosa. La risposta, purtroppo, è no – nonostante il calo negli utili e nelle azioni di molte banche.

Il paradosso di questa partita di poker tra Washington e Wall Street è che il governo ha più bisogno di istituzioni finanziarie che non viceversa. Anche in questi tempi abbastanza bui, le banche sono riuscite a far soldi e a dirottare metà degli utili nelle buste paga dei propri dipendenti. Il governo, invece, appare impotente - paralizzato da una campagna presidenziale che durerà più di un anno e prigioniero di un debito pubblico così stratosferico da non permettere grandi spese per rivitalizzare l’economia.

La «bottom line», la morale della favola, è che lo Zio Sam non si può permettere di attaccare le banche, di distruggere uno dei motori di un’economia che è in folle. Come avevano senz’altro capito Henry Wells and William Fargo, una diligenza senza cavalli non va molto lontano.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York.

Francesco.guerrera@wsj.com

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Titolo: FRANCESCO GUERRERA. Gli errori Usa salveranno l'Europa
Inserito da: Admin - Luglio 01, 2011, 11:33:27 pm
1/7/2011

Gli errori Usa salveranno l'Europa

FRANCESCO GUERRERA

Ad Everett, un’idillica cittadina a quaranta chilometri da Seattle, nessuno dei 104.000 cittadini sembra preoccuparsi della crisi in Grecia. Gli scontri violenti tra polizia e dimostranti nelle strade di Atene, la tensione sempre più alta tra governi europei e le paure dei mercati finanziari non riecheggiano nelle strade linde e pinte di questo paesino nel Nord-Ovest degli Usa, dove un tempo girarono Twin Peaks, il film di David Lynch.

Forse, però, gli abitanti di Everett dovrebbero prestare più attenzione alla Grecia e alle sorti dell’euro. Soprattutto quando vanno a pattinare sul ghiaccio o ad ascoltare un concerto. Grazie alle contorsioni della finanza globale, la pista di pattinaggio e l’auditorium di Everett sono stati finanziati dalla Dexia, una banca franco-belga che potrebbe soffrire perdite enormi su miliardi di obbligazioni greche.

Ricapitoliamo: una cittadina sperduta degli Stati Uniti dipende da una banca francese e belga che dipende dalla salute economica di un Paese a migliaia di chilometri di distanza che a sua volta dipende da un accordo politico ed economico tra 17 nazioni e la Banca Centrale Europea.

Benvenuti nella finanza internazionale - come il famoso Hotel California di cui cantavano gli Eagles, una volta entrati non si esce più.

Negli Usa, il caso-Everett non è unico.

Dai licei californiani alle scuole di New York e persino O’Hare, l’enorme aeroporto di Chicago, i tentacoli di banche europee che avevano ambizioni più grandi delle loro competenze legano ormai inesorabilmente le economie sulle due sponde dell’Atlantico. «Siamo tutti greci ora», mi ha detto un banchiere l’altro giorno, e non stava scherzando: la globalizzazione di flussi di capitali e di commercio fa sì che i tremori di Atene si risentano a Wall Street e in molte altre strade, stadi del ghiaccio e sale concerti degli Stati Uniti.

Negli Usa, la tragedia greca e i suoi effetti sull’economia reale del Paese sono ingombranti ricordi della crisi finanziaria di due anni fa – un flashback da incubo come nei film di David Lynch. Sostituite Lehman Brothers alla Grecia, la Federal Reserve alla Bce e Citigroup e Goldman Sachs alle varie Société Générale, Dexia e Deutsche Bank, e la situazione è quasi identica: un Paese sull’orlo del precipizio, un’economia mondiale che guarda con il fiato sospeso ed investitori che corrono verso le uscite nonostante le parole melliflue di politici e banchieri centrali.

La ferita di Lehman – l’enorme banca d’affari che andò in bancarotta nel 2008 paralizzando il sistema finanziario mondiale – non si è ancora cicatrizzata nei corridoi del potere di Washington e nei salotti buoni di Wall Street. Molti degli autori di quell’errore costosissimo – gli uomini e le donne che decisero di rifiutare aiuti di Stato per Lehman, mettendo a repentaglio l’economia del pianeta – sono ancora nelle stanze dei bottoni. Tim Geithner, il capo della Fed di New York ai tempi della crisi, è ora ministro del Tesoro, Ben Bernanke rimane a capo della Fed, i super-avvocati e grandi banchieri di Wall Street come John Mack, il capo della Morgan Stanley e Lloyd Blankfein di Goldman Sachs sono ancora tutti lì. E ricordano bene le conseguenze dei loro atti – o non-atti - in quel weekend di fuoco a metà settembre del 2008 e non hanno nessuna intenzione di riviverlo con la colonna sonora in greco moderno ed i sottotitoli.

Il paradosso delle relazioni UsaEuropa in questo momento così difficile è che gli americani si sentono in grado di dare consigli agli europei proprio perché commisero svarioni clamorosi durante la «loro» crisi.

Chiaramente, le autorità americane non la vedono così. Dal loro punto di vista, il fatto che le loro azioni abbiano evitato (di poco) un’altra Grande Depressione va celebrato e preso ad esempio per altri.

E’ questa arroganza intellettuale (e memoria selettiva degli eventi del 2008) che la settimana scorsa ha portato Geithner ad alzare il telefono rosso e chiamare i colleghi europei per esortarli a darsi una mossa, a non procrastinare gli aiuti alla Grecia e alle banche europee. «Abbiamo esperienza di queste situazioni», mi ha detto un alto funzionario del Tesoro americano. «Sappiamo benissimo cosa fare e gli europei stanno tentennando». L’ultima frase è l’unica cosa vera che ha detto. Il «triangolo delle Bermude» Bruxelles-Parigi-Francoforte ha bloccato ogni decisione sulla crisi greca, lasciando il Paese e gli investitori in mare aperto. Qualsiasi cosa succeda ora, è ormai troppo tardi per salvare la Grecia dal default e da anni di durissime riforme fiscali ed instabilità sociale. Di fronte alla latitanza dei governi, hanno deciso i mercati – basta guardare a quanto il governo di Atene deve pagare in interessi sul suo debito.

La vera battaglia ormai è salvare l’euro evitando il contagio dalla Grecia al Portogallo e all’Irlanda e, ancora peggio, alla Spagna e all’Italia. E’ questo che spaventa davvero gli investitori e dovrebbe fare venire i brividi a cittadini da Everett a Eboli.

L’America ha qualcosa da offrire agli sfortunati governanti europei: i suoi errori in tempo di crisi. Ricordarsi dei ritardi e tentennamenti dell’amministrazione Bush, della Fed e del Congresso (che fece crollare i mercati quando bocciò la prima versione della Tarp, l’iniezione di 700 miliardi di dollari per salvare le banche) potrebbe aiutare Bruxelles e Francoforte a prendere atto della situazione ed agire.

L’azione in questo caso consisterebbe nell’aprire i cordoni della borsa, salvare la Grecia dalla bancarotta con un fondo europeo e convincere banche ed investitori a rinegoziare le obbligazioni che possiedono. Non costerà poco, ma l’alternativa – il non fare niente mentre la situazione diventa impossibile negli altri Paesi a rischio – è molto più cara.

Se c’è una lezione che gli Usa del 2008 possono impartire all’Europa del 2011 è che l’ottimismo non è una buona politica durante una crisi finanziaria. Bisogna sempre aspettarsi il peggio quando ci sono miliardi in gioco, soprattutto se, come nel caso della Grecia, la pazienza degli investitori è ai minimi termini.

Come gli abitanti di Everett sanno bene, pattinare su un ghiaccio troppo sottile non è una buona idea.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York.
francesco.guerrera@wsj.com

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8923&ID_sezione=&sezione=


Titolo: FRANCESCO GUERRERA. La finanza più cauta della politica
Inserito da: Admin - Luglio 26, 2011, 11:19:29 am
26/7/2011

La finanza più cauta della politica

FRANCESCO GUERRERA

Il banchiere stava cercando le parole giuste per comunicare la sua frustrazione nei confronti della classe politica americana ma senza offendermi. «Beh – disse alla fine, quasi imbarazzato - siamo ormai in una situazione… un po’…. all’italiana, ecco».

Sarà forse perché l’avevo disturbato di domenica per chiedergli un parere sulla paralisi nei negoziati sul debito Usa, ma il paragone non era proprio un complimento.

L’America come l’Italia: una nazione dove il caos politico ed il «corto-termismo» della classe dirigente stanno contagiando l’economia, mettendo a rischio la fiducia dei mercati e separando sempre di più il Paese reale dai governanti.

L’ultimo dramma di Washington è il braccio di ferro tra repubblicani, democratici e la Casa Bianca su come e quanto alzare il «tetto» del debito pubblico americano prima della scadenza del 2 agosto. La battaglia è sui numeri, ma la sostanza è concreta. Senza un aumento del tetto, che in questo momento è di 14,3 triliardi di dollari, il governo federale non potrà pagare gli stipendi dei dipendenti, le pensioni e le bollette mediche per i poveri e gli anziani.

E c’è di peggio: se non c’è un accordo prima del 2, lo Zio Sam andrà in «default», smettendo di pagare gli interessi su obbligazioni del Tesoro che sono in mano un po’ a tutti: dai fondi pensioni per pompieri e insegnanti al governo cinese.

Un default da parte degli Stati Uniti potrebbe avere conseguenze devastanti sulla finanza mondiale, distruggendo la credibilità dei beni del Tesoro americano – uno dei pochissimi «safe havens», i porti sicuri in cui gli investitori attraccano in tempi di tempesta.

Se non mi credete, chiedete pure al Fondo monetario internazionale. Il guardiano dell’economia mondiale, generosamente finanziato dal governo Usa, ieri non ha usato perifrasi per spiegare la situazione.

La sfiducia dei mercati nei confronti del debito americano – ha detto l’Fmi nella sua diagnosi annuale dell’economia americana - «potrebbe portare ad effetti negativi enormi ed universali».

In realtà, il danno è già stato fatto: lo spettacolo turpe di un Congresso impegnato solo a proteggere gli interessi di partito (non alzare le tasse per i repubblicani, non tagliare le spese per i democratici) e di un presidente Obama indeciso e non decisivo, ha già portato le agenzie di affidabilità creditizia a minacciare un downgrade, un declassamento del debito Usa anche se le varie fazioni dovessero raggiungere un accordo questa settimana.

Il declassamento non è cosa da tecnici. Una bocciatura degli Stati Uniti da parte delle agenzie di credito segnalerebbe ai mercati che nemmeno una superpotenza con l’economia più grande del mondo può essere considerata senza rischi – un verdetto che fa venire i brividi agli investitori.

Come mi ha detto il capo di uno dei colossi dei fondi d’investimento nel weekend, «nei prossimi giorni, Washington qualcosa deciderà e probabilmente eviterà un default. Il problema è che un accordo dell’ultima ora potrebbe non essere abbastanza per sfuggire ad un costossissimo downgrade”.

L’aspetto forse più grave nella saga del debito americano è che si sarebbe potuto facilmente evitare. A differenza della situazione sull’altra sponda dell’Atlantico – in cui Paesi come Grecia e Irlanda non avevano proprio più soldi –, l’America non ha problemi di liquidità.

Il «tetto» sul debito e i negoziati per rinnovarlo sono un artificio della politica, inventato nel 1917 quando gli Usa intervenirono nella Prima guerra mondiale e il Congresso introdusse un meccanismo per impedire al Presidente di spendere fondi pubblici senza consultarsi con il Parlamento.

E’ vero che il debito americano si sta gonfiando in maniera sproporzionata rispetto alla crescita economica, ma il potere degli Stati Uniti sui mercati mondiali e la credibilità (fino ad ora, almeno) delle sue politiche finanziarie permettono all’America di farsi finanziare dagli investitori come e quanto vuole.

La «crisi» del debito è quindi solo una crisi di una classe politica che ha saputo almeno otto mesi prima che il Tesoro americano avrebbe esaurito i fondi il 2 agosto. Ma invece di aprire discussioni serie, Obama e i baroni del Congresso hanno preferito ignorare la realtà fino all’ultimo, per poi strumentalizzarla con un occhio alle elezioni presidenziali del prossimo anno: un approccio veramente «italiano».

«Gli europei staranno pensando che siamo pazzi», mi ha detto un funzionario della Federal Reserve, la banca centrale americana. «Loro hanno una crisi vera e noi ci siamo messi a danzare sul baratro per scelta».

I mercati fino ad ora hanno risposto in maniera molto, forse troppo, composta.

Anche ieri, dopo il nulla di fatto del weekend, la borsa di New York ha perso un pochino di terreno, ma non tanto da far pensare al panico. I mercati delle obbligazioni sono un po’ più nervosi, ma anche lì non ci sono segnali di paura inconsulta.

Il che, però, non vuol dire che gli investitori rimarranno immuni alle convulsioni di Washington. L’errore più stupido da parte di Obama e dei leader repubblicani e democratici sarebbe di dare per scontata l’acquiescenza dei mercati.

Uno dei miei primi maestri – un vecchio marpione del giornalismo finanziario britannico – era solito paragonare la fiducia dei mercati ad una vasca da bagno in un hotel di lusso: l’acqua c’è ed è tanta, ma basta un piccolo errore, un gesto sbagliato, per far saltare il tappo e farla scomparire.

I politici americani questo lo dovrebbero sapere, visto che sono passati meno di tre anni dal fallimento della Lehman Brothers, un evento che tolse l’acqua, e pure l’ossigeno, all’economia mondiale.

Dopo una crisi devastante causata dalla miopia delle banche, sembra quasi che Washington voglia prendersi la rivincita, creando un pandemonio che rischia di minare le fondamenta della finanza globale. Ed in questo caso i mercati, spesso accusati di avere la memoria corta, sembrano essere più lungimiranti dei politici.

Siamo ormai nel bel mezzo di una partita di roulette russa, ed ogni ora che passa senza un accordo è un nuovo colpo alla fiducia degli investitori nel bastione del capitalismo mondiale.

Per il bene di tutti, speriamo che Washington impari da Roma anche l’arte del compromesso e dell’arrangiarsi a tutti costi.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario  del Wall Street Journal a New York. Francesco.guerrera@wsj.com
da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9021


Titolo: FRANCESCO GUERRERA. L'anno più importante sarà quello che verrà
Inserito da: Admin - Agosto 04, 2011, 09:54:21 am
4/8/2011 - OBAMA - L'ECONOMIA

L'anno più importante sarà quello che verrà

FRANCESCO GUERRERA

Il presidente della speranza appare sempre più disperato. Preso nella morsa di un’economia moribonda ed un Congresso incontrollabile, Barack Obama festeggia mezzo secolo di vita con poco champagne e molte preoccupazioni. Lo spettacolo indecoroso della scorsa settimana, in cui Washington è riuscita ad evitare un catastrofico default solo in zona Cesarini, non ha aiutato l’immagine di un leader che non sembra più in grado di controllare il dibattito politico ed economico. L’anno più importante per Obama sarà quello che verrà.

Gli uomini del Presidente stanno guardando con nervosismo alle elezioni del 2012, spaventati che l’incubo di una sconfitta - un’eventualità considerata impossibile mesi fa - possa diventare realtà. Le sorti di Obama sono legate quasi interamente all’economia. Con una disoccupazione ancora altissima, un mercato delle case boccheggiante e il pericolo che la crisi europea possa esacerbare la situazione oltreoceano, la prognosi non è affatto buona. Uno stimolo fiscale - la risposta di Obama dopo la crisi del 2007-2008 - non sembra possibile vista l’ostilità degli agguerritissimi repubblicani, che controllano metà Congresso, ad ogni misura di spesa. A meno di un miracolo economico, le speranze dei fan del Presidente risiedono nell’incapacità del partito repubblicano di scegliere candidati credibili e nel talento oratorio immenso di Obama, che dovrebbe tornare utile in campagna elettorale.

Vincere le elezioni però non sarà tutto. Un trionfo nel 2012 non cancellerà le domande poste sia da destra che da sinistra ad un presidente enigmatico e poco ideologico. Che tipo di leader sarà Obama II? Il condottiero sicuro e capace che riuscì nel compito impossibile di riformare la sanità americana e regolare Wall Street a pochi mesi dal suo arrivo alla Casa Bianca? O il presidente indeciso e tentennante degli ultimi mesi ? Solo un uomo potrà rispondere a questi quesiti.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9060


Titolo: FRANCESCO GUERRERA. Cersasi supereroe
Inserito da: Admin - Agosto 07, 2011, 12:30:36 pm
7/8/2011

Cersasi supereroe

FRANCESCO GUERRERA

A Wall Street, lo chiamano «il concorso di bruttezza» – la battaglia tra America ed Europa per stabilire chi stia peggio, tra economie in tracollo, deficit enormi e monete allo sbando. Venerdì sera la competizione è diventata ancora più brutta. Per la prima volta nella storia, gli Stati Uniti hanno perso l’importantissima «tripla A». L’agenzia di credit rating Standard & Poor’s ha bocciato la politica economica Usa, togliendo al Paese il rating più alto – un imprimatur che, per 70 anni, ha rassicurato investitori e governi del fatto che lo zio Sam paga sempre i suoi debiti. La decisione bomba della S&P è stata subito contestata dall’amministrazione Obama che ha accusato l’agenzia di un errore di calcolo di 2 triliardi di dollari. S&P – una delle tre «big» nel mondo del rating che contribuì alla crisi finanziaria del 2008 non è certo senza peccato. Ma il tempo delle recriminazioni è ormai passato. La mossa-choc di S&P è arrivata alla fine di settimane campali in cui i due pilastri dell’economia mondiale – l’America e l’Europa – hanno vacillato pericolosamente. Gli Stati Uniti sono partiti per primi, con un accordo sulla riduzione del loro debito enorme che non ha soddisfatto nessuno. Il governo Obama e la Federal Reserve ci hanno messo del loro, facendo poco e nulla per convincere i mercati – ed anche la gente comune – che hanno i mezzi economici e la volontà politica per evitare un «doppio tuffo» nella recessione. L’Unione Europea non è stata da meno, con una dimostrazione di inanità politica ed impotenza finanziaria che ha spaventato gli investitori. I mercati sono creature dalla psiche fragilissima e parole come quelle del presidente dell’Ue José Manuel Barroso e di Silvio Berlusconi hanno rappresentato l’avverarsi di un incubo. Se non si hanno soluzioni concrete, ammettere, come ha fatto Barroso, che l’ultimo summit di meno di un mese fa non ha risolto niente e dichiarare che la crisi non è più confinata alla periferia di Portogallo, Grecia ed Irlanda ma ha contagiato l’Italia e la Spagna, è giocare col fuoco. E se si è il leader di un Paese nel mirino di investitori pieni di paura e scetticismo, dare la colpa a fattori esterni quando il debito pubblico è al 120 per cento del Pil e la crescita è pressoché zero, non è la maniera migliore per rassicurare i mercati. L’inadeguatezza delle istituzioni politiche ha costretto la banca centrale europea a rimangiarsi le sue parole di austerità, probabilmente proferite in tedesco, per dichiararsi pronta a comprare buoni del Tesoro spagnoli ed europei già da domani.

Per la Bce, che da Novembre verrà guidata da Mario Draghi, si tratta di un’ammissione che la crisi sta attaccando il cuore pulsante dell’Europa, una constatazione che a mali estremi bisogna opporre rimedi costosi e rischiosi. I mercati, ovviamente, hanno reagito. Giovedì il Dow Jones – l’indice guida della borsa di New York e il punto di riferimento per investitori di tutto il mondo – è crollato del 4,3 per cento, il giorno peggiore dal 2009. I mercati europei hanno seguito lo stesso copione. «Questa settimana è stato un bagno di sangue», mi ha detto un investitore ieri sera, esausto dal continuo vendere di azioni, poco prima di farsi scappare una volgarità dopo aver visto la notizia del downgrade della S&P. L’aspetto più preoccupante di questa crisi è che il crollo dei mercati non è stato provocato da una ragione sola. Di solito, la caduta a precipizio delle Borse è causata da un elemento catalizzatore: dati economici deboli, problemi politici, guerre e così via. Questa volta, i mercati sono stati mossi dalla scomparsa della fiducia degli investitori nella capacità dei governi di controllare la crisi. Non si è trattato di un «big bang» – uno scoppio immediato della paura – ma piuttosto di un’erosione lenta ed inesorabile della fede del mondo della finanza nel mondo della politica. Wall Street e la City di Londra hanno votato la sfiducia alla Casa Bianca, Bruxelles e Palazzo Chigi. Il problema ora è che, un volta persa, la fiducia dei mercati è difficile da riconquistare. La differenza fondamentale tra il terremoto finanziario del 2007-2008 e quello attuale è che allora la crisi fu causata da banche e risparmiatori incauti ed avidi, non da politici incapaci e banchieri centrali indecisi. Quando le banche vanno in malora, ci sono sempre i governi a salvarle con i miliardi dei contribuenti – una soluzione inefficiente e dolorosa che pero’ riesce a prendere l’economia per i capelli prima che raggiunga il baratro. Nel 2008, le banche centrali coadiuvarono i governi, pompando miliardi di dollari nell’economia mondiale grazie a tassi bassissimi e programmi di liquidità per investitori e istituzioni finanziarie. Quella dose da cavallo di stimolo riuscì ad evitare un’altra Grande Depressione negli Usa e a proteggere i cittadini europei da una dura recessione. Ma oggi? Se i governi e i banchieri centrali non possono, o non vogliono, far nulla, chi si ergerà a super-eroe dell’economia mondiale? Le condizioni e le circostanze sono veramente infelici. In America, la congiuntura politica – con le elezioni presidenziali nel 2012 e un Congresso diviso tra Repubblicani e Democratici – non è favorevole ad un stimolo economico. Il dibattito pubblico negli Stati Uniti è tutto su come ridurre il deficit, con misure di austerità e tagli di spesa. Una posizione senz’altro lodevole nel lungo termine, vista la situazione fiscale del Paese, ma non certo utile quando l’economia è nei guai seri. I luogotenenti di Obama guardano alla Fed, ma la banca centrale può fare poco e nulla in un frangente economico in cui i tassi d’interesse sono già a zero. Il problema non è che non c’è denaro in circolazione ma che aziende, consumatori e banche non vogliono né spenderlo neé investirlo. «E’ un problema di fiducia, non di soldi», mi ha detto uno sconsolato funzionario della Fed questa settimana Per l’Europa, la soluzione è più drammatica.

L’unica strada per uscire dalla crisi senza abbandonare l’euro passa per una maggiore integrazione fiscale tra i Paesi membri. Ovvero: Paesi i cui governi si sono dimostrati non all’altezza di gestire la propria economia dovranno delegare le loro politiche di tassazione e spesa ad un’entità europea. E’ un passo enorme, una cessione di sovranità che lascerebbe l’amaro in bocca a molti, soprattutto perché la Germania emergerebbe come leader della nuova Europa – un risultato problematico per ragioni sia storiche sia culturali. Ma l’alternativa – la decomposizione della zona-euro e la balcanizzazione delle economie nazionali – non è auspicabile. Nel concorso di bruttezza tra le due economie-guida del pianeta, non ci può essere una medaglia d’oro ed una d’argento. Per il bene dell’economia mondiale, l’America e l’Europa sono obbligate a tornare a splendere insieme. Speriamo solo che non ci siano due perdenti.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9071


Titolo: FRANCESCO GUERRERA. Aspettando il ruggito del leone
Inserito da: Admin - Agosto 21, 2011, 09:37:32 pm
21/8/2011

Aspettando il ruggito del leone

Francesco Guerrera

La crisi economica americana non ha risparmiato nemmeno il Re Leone. La versione di Las Vegas del mega-show della Disney, ispirato dal «Libro della giungla» di Rudyard Kipling, chiuderà per sempre il sipario a fine anno, dopo più di mille performances. La fine dello spettacolo, con la famosissima musica di Elton John, lascerà centinaia di persone senza lavoro, aggravando una situazione già difficile in una delle città più colpite dal crollo del mercato immobiliare Usa. L’ultimo ruggito del leone è una metafora triste per un Paese che è da anni il re della foresta economica. A tre anni da una crisi finanziaria che sarebbe dovuta essere un evento epocale, non ripetibile nel corso delle nostre vite, l’America e il mondo occidentale si ritrovano sul baratro della recessione. Come nel 2008, i mercati sono in caduta libera, i consumatori hanno paura di spendere, e le banche non vogliono prestare soldi né ad aziende né ad individui. I disagi americani sono accompagnati da un malessere ancora più profondo in Europa – il mercato più importante per i beni e servizi made-in-Usa. E i governi, il deus ex machina che salvò l’economia mondiale con miliardi di aiuti durante l’ultima crisi, questa volta sono troppo indebitati per aprire i cordoni della borsa. E allora? Allora si soffre.

Un banchiere mio amico, che di solito è un ottimista inveterato, ha fatto un riassunto perfetto della situazione questa settimana. «Ormai - mi ha detto - oscillo tra l’essere pessimista e l’essere molto pessimista». Nell’America di oggi, il pessimismo sembra una condizione cronica, che affligge investitori, aziende e gente comune, e che esacerba lo stallo economico a tutti i livelli.

Partendo dalle radici della foresta economica: la gente comune non riesce a comprarsi casa. Le ultime notizie dal fronte immobiliare sono scoraggianti: le vendite di case sono calate del 3,5% tra giugno e luglio: una brutta sorpresa per i mercati e non solo perché l’estate è il tempo degli acquisti. Le nuove cifre hanno contraddetto le rilevazioni dei mesi passati che indicavano un aumento nel numero di contratti di vendita. Per gli esperti, questo significa che potenziali acquirenti stanno rinnegando i contratti perché hanno paura di un’altra recessione. L’alto tasso di disoccupazione e il continuo calo dei salari rinforzano questa ipotesi: nonostante tassi d’interesse bassissimi, molte persone non vogliono un mutuo se non sono sicure che avranno un posto di lavoro ed uno stipendio per ripagarlo.

Il mercato immobiliare è una delle locomotive dell’economia americana e, se non tira, altri consumi - mobili, televisioni, frigoriferi e così via – ed altri settori, dalle costruzioni ai trasporti, ne soffrono. Ai piani buoni dell’economia, il morale non è tanto più alto. E’ vero che le società americane – dopo aver imparato la lezione di altre crisi – hanno pochi debiti e molti liquidi in cassaforte. Ma è anche vero che non hanno nessuna intenzione di investirli negli Usa, soprattutto se l’economia domestica è in difficoltà e le esportazioni verso l’Europa languono. Le mie conversazioni con capitani d’industria, sia americani che europei, cominciano e finiscono con due parole: «emerging markets». I mercati emergenti di Brasile, Cina e India, con le loro popolazioni enormi e tassi di crescita strepitosi, sono il Santo Graal del capitalismo mondiale.

Poco importa che gran parte di quei miracoli economici sia basata sulla vendita di materie prime e beni a basso costo a un’America e un’Europa che hanno sempre meno soldi per comprarle: gli azionisti e i mercati hanno bisogno di speranze. Ma non di sole speranze vive un’economia e le mosse strategiche delle aziende indicano una realtà diversa. La Delta Airlines, la più grande compagnia aerea americana, ha appena annunciato che ridurrà i suoi voli del 5% perché le costa troppo far decollare aerei mezzi pieni. Compagnie grandi e piccole – da Cisco (il gigante di Silicon Valley) a banche con tre filiali – stanno tagliando migliaia, forse milioni, di posti di lavoro per far fronte ad un’emergenza economica che non si aspettavano.

In una congiuntura normale, tre anni dopo una recessione, l’economia dovrebbe essere in piena ripresa con salari in aumento e disoccupazione in calo. Invece, il dibattito sulle pagine economiche dei giornali e nei talk-show in televisione è se siamo già in una nuova recessione. La domanda è a trabocchetto, visto che le imperfezioni della scienza economica fanno sì che periodi di contrazione economica possano essere individuati solo quando stanno per finire, mai all’inizio. Ma questo non impedisce agli esperti di fare predizioni. Quando il Wall Street Journal ha chiesto a 60 economisti di recente, la risposta è stata che in media, c’è una chance su tre che il 2012 sia un anno di recessione. Il 2012 è anche l’anno delle elezioni presidenziali e il malore economico del paziente americano sta contagiando l’amministrazione Obama.

I sondaggi non danno buone notizie. L’ultimo, pubblicato mercoledì dalla Gallup, ha rivelato che solo un quarto della popolazione è soddisfatto con le politiche economiche della Casa Bianca, il livello più basso della presidenza Obama. Gli alleati di Obama dicono che la colpa è di Bush e di un governo repubblicano che ha lasciato una montagna di debiti e un retaggio di tensioni sociali tra ricchi e poveri. Guardando i fatti, non hanno tutti i torti, ma l’americano medio non gli darà mai ragione. Senza un miglioramento economico, la rielezione di Obama è a rischio anche se i repubblicani si ostinano a presentare candidati deboli e discutibili. Un po’ di tempo fa, uno degli strateghi di Obama mi disse che la Casa Bianca avrebbe avuto bisogno di un livello di disoccupazione di meno dell’8% per vincere le presidenziali del 2012. Oggi la disoccupazione è a più del 9% e non dà segni di flessione. «E’ l’economia, stupido!» – lo slogan che aiutò uno sconosciuto governatore dell’Arkansas chiamato Bill Clinton a battere il patrizio Bush padre nel 1992 - potrebbe diventare un boomerang letale per i democratici. Il Presidente ed il resto della popolazione hanno un bisogno quasi disperato di un nuovo ruggito del Leone americano.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del «Wall Street Journal» a New York. francesco.guerrera@wsj.com
da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9109


Titolo: FRANCESCO GUERRERA. I sassolini di Bernanke
Inserito da: Admin - Agosto 27, 2011, 04:26:00 pm
27/8/2011

I sassolini di Bernanke

FRANCESCO GUERRERA*

L’uragano Irene si sta per abbattere su Wall Street. L’uragano Ben non si sa. Forse distratti dall’imminente arrivo del temuto ciclone nella zona di New York, mercati ed investitori sono rimasti confusi e perplessi dall’attesissimo discorso del capo della Federal Reserve, Ben Bernanke al simposio economico di Jackson Hole.

Circondato dalle montagne del Wyoming, a migliaia di chilometri da mercati finanziari che speravano che la catastrofe meteorologica non fosse il presagio di un altro cataclisma economico, il banchiere più importante del mondo ha fatto del suo meglio per dire che la situazione è sotto controllo. Ad operatori che stavano mettendo «sacchi di sabbia vicino alla finestra» – per dirla con Lucio Dalla – il pacato Bernanke ha detto che la Fed «è pronta ad utilizzare i mezzi necessari per stimolare la ripresa economica». Niente di nuovo fin qui, visto che Ben e i suoi stanno ripetendo la stessa litania da qualche mese senza specificare quali mezzi abbiano o come vogliano impiegarli. A Jackson Hole, però, Bernanke è andato oltre le solite banalità al bromuro che i banchieri centrali somministrano ai mercati.

Senza alzare la voce, il barbuto profeta della politica monetaria Usa si è tolto un paio di sassolini dalle scarpe. Prima di tutto, ha attaccato la Casa Bianca ed il Congresso per non avere fatto assolutamente nulla per stimolare l’economia. Anzi. La farsa estiva sui piani di riduzione del deficit ha «sconvolto i mercati e forse anche l’economia – ha detto Bernanke ad una platea di luminari della politica e della finanza -. Ripetere eventi del genere in futuro potrebbe pregiudicare la volontà degli investitori di comprare beni finanziari americani». Nel mondo delle banche centrali – dove meno si dice meglio è - parole come queste hanno effetti dirompenti. Ma Bernanke non si è fermato lì. Con molta ironia, ha detto di essere «fiducioso che i nostri colleghi europei capiranno l’importanza della situazione» e prenderanno misure adeguate.

Tradotto dal banchiese ciò vuol dire: «Non ho nessuna fiducia che i nostri colleghi europei stiano capendo la gravità della situazione e quindi glielo ricorderò ogni volta che posso». Nel dubbio – e con la fretta di chi vuole lasciare l’ufficio e barricarsi a casa prima dell’uragano – gli operatori di mercati hanno interpretato le esternazioni di Bernanke come un buon segno. La Borsa di New York, che era nel rosso profondo quando Bernanke ha incominciato a parlare, ha chiuso la sessione in forte crescita. Gli operatori con cui ho parlato hanno spiegato che il tono burbero di Bernanke con i politici americani ha acceso speranze che il Congresso e l’amministrazione Obama faranno finalmente qualcosa per stimolare la moribonda economia Usa.

Gli ottimisti si sono aggrappati alla notizia, inserita da Ben nel suo discorso, che il prossimo incontro della Fed, a settembre, sarà di due giorni, anziché uno – forse un segnale che anche la banca centrale si sta preparando ad agire. Sarebbe bello pensare che i problemi annosi degli Stati Uniti si possano risolvere in due giorni. Eppure, mi riesce molto difficile essere ottimista in un frangente come questo, e non solo perché la cantina mi si allagherà sicuramente questo weekend. I «mezzi» di cui parla Bernanke per far risorgere l’economia sono limitatissimi. I tassi d’interesse – l’arma più potente nell’arsenale dei banchieri centrali per ridurre il costo del denaro e invitare aziende e consumatori a spendere – sono già praticamente zero negli Usa.

L’idea che la Fed possa ricominciare a spendere miliardi di dollari per comprare beni del Tesoro e pompare denaro nell’economia - un trucco che ha già tentato due volte senza gran successo – sembra remota. Forse Bernanke riuscirà a persuadere la Casa Bianca e i repubblicani che controllano metà Congresso a raggiungere un accordo su misure di stimolo fiscale – spese statali tipo «New Deal» di Franklin Roosevelt, seguite da un aumento delle tasse per pagarle. Ma le chances che democratici e repubblicani ammettano che bisogna alzare le imposte per pagare i debiti a un anno dalle elezioni presidenziali sono poche. Per quello che riguarda l’Europa, Bernanke può tuonare come e quanto vuole ma le sue parole non hanno grande risonanza in un continente con problemi gravi e di non facile soluzione.

Il discorso di Jackson Hole ha, quanto meno, risollevato il morale dei mercati dopo settimane impegnative e cupe. Ma con le nuvole nere di Irene già visibili dai grattacieli di Manhattan, è difficile credere che gli Usa non siano più nell’occhio del ciclone.

*caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York
francesco.guerrera@wsj.com

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Titolo: FRANCESCO GUERRERA. La situazione è semplice e disperata
Inserito da: Admin - Settembre 04, 2011, 05:27:12 pm
4/9/2011

La situazione è semplice e disperata

FRANCESCO GUERRERA

Cernobbio è blindata. Dai poliziotti sommozzatori nel lago di Como agli agenti del Mossad con giacche che a malapena celano i muscoli, ai ragazzotti italiani con auricolari troppo visibili, i magnifici giardini di Villa d’Este formicolano di guardie del corpo dei tantissimi vip. Ma i veri pericoli sono dentro la villa, nei saloni sontuosi dove capi di Stato ed economisti discutono dell’epidemia di crisi che si sta diffondendo attraverso il globo. Contro problemi come questi, poco possono i muscoli del Mossad. Il tono lugubre al simposio annuale organizzato dall’Ambrosetti House l’hanno dato, come spesso in questi ultimi mesi, gli Stati Uniti.
Venerdì, mentre economisti di lusso come Nouriel Roubini, il guru della crisi finanziaria del 2008, Martin Feldstein di Harvard ed il nostro Mario Monti si interrogavano sulle sorti del mondo, è arrivata la notizia bomba dagli Usa: in agosto il mercato del lavoro americano non ha creato nessun posto di lavoro.

Nemmeno uno o due posticini, zero.
A questo punto, parafrasando la frase dei prestigiatori di un tempo, la contrazione economica c’è anche se non si vede nelle rilevazioni ufficiali della Federal Reserve.

Dopo quel dato straordinario – la prima volta in quasi un anno che l’occupazione americana è a crescita-zero – gli economisti sono corsi a riscrivere le loro previsioni con inchiostro rosso. Roubini, che era già pessimista prima, ha detto che le probabilità di un «doppio tuffo» nella recessione nei prossimi mesi sono ormai più del 60%, prima di ammonire un po’ tutti che la sperequazione dei redditi statunitensi potrebbe portare a disordini sociali.
Ma non c’è stato tempo di soffermarsi sui problemi d’oltre-Atlantico. Sulle terrazze di Villa d’Este, nelle pause tra le sessioni, si è parlato più dell’Europa ammalata che della vista mozza-fiato che probabilmente ispirò Manzoni: colline verdeggianti che si tuffano in un ramo del lago di Como.

Le onde lambiscono i muri della villa ma i vip di Cernobbio l’acqua se la sentono alla gola e sanno bene di chi è la colpa: una classe politica che sta facendo finta di niente mentre il Titanic dell’euro affonda.
Il presidente della Banca Centrale Europea Jean-Claude Trichet ha chiesto, anzi implorato, Giorgio Napolitano di far sì che la manovra promessa dal governo italiano venga passata il prima possibile. I mercati non possono più attendere, bisogna dargli qualcosa, anche se sono misure pasticciate, raffazzonate come quelle promesse da questo governo distratto e confuso.

Il Presidente, collegato via satellite su uno schermo in cima al podio dell’Ambrosetti, è sembrato quasi una figura messianica: ci siamo messi tutti col naso in su a guardarlo, sperando che dicesse la cosa giusta. E Napolitano il garante l’ha fatto, tentando di rassicurare il banchiere francese che non ci saranno più sotterfugi, mezze promesse e bocciature: l’Italia si rimboccherà le maniche e stringerà la cinghia anche perché, ormai, non c’è alternativa.
Con i tassi d’interesse dei buoni del Tesoro alle stelle – lo sberleffo dei mercati al principio di un’unione monetaria che prometteva tassi uniformi da Atene a Helsinki, gli investitori stanno votando con i soldi: l’asse dell’euro è sotto pressione estrema e potrebbe rompersi da un momento all’altro.

Purtroppo, le professioni di austerità provenienti dai Paesi a rischio – i poveri Piigs, i porcelli europei di Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna – non sembrano aver convinto gli imprenditori e investitori che ho accostato nelle hall di Cernobbio.
Il capo di un’azienda industriale enorme, con migliaia di dipendenti in mezzo mondo, mi ha spaventato ieri mattina quando mi si è seduto vicino a colazione e mi ha chiesto: «Ma tu ci capisci qualcosa? Io sono proprio confuso». «Ma se non lo sai lei...», ho farfugliato, cercando di nascondere il mio smarrimento.

Questa è la congiuntura economica a cui devono far fronte aziende grandi e piccole: incertezza totale sulla direzione delle economie americane ed europee e sfiducia ancora più totale nella classe politica che le deve gestire. Il risultato è un’attesa che piacerebbe a Beckett. E mentre si aspetta non si assume e non si investe.

Trichet, come il collega americano Ben Bernanke lo ripete ormai da mesi: le banche centrali non hanno più munizioni, il pallino è in mano ai politici.
Ma invece di cercare soluzioni, i governi litigano, dimostrando in maniera drammatica, e forse letale, i limiti di un’unione monetaria che non è stata accompagnata da un’unione fiscale e politica.

Le beghe nazionali, i calcoli meschini di politica interna, hanno pregiudicato l’euro sin dall’infanzia. Non ci dimentichiamo che nel 2003, furono proprio la Germania e la Francia (con la complicità della presidenza italiana dell’Unione Europea) ad infrangere le regole serie del Patto di Stabilità, il bastione che avrebbe dovuto proteggere la moneta unica e garantire la probità fiscale dei Paesi membri. Non ci furono sanzioni ed il messaggio fu chiaro a tutti: l’Ue non prende il rigore economico seriamente, il laissez-faire è la nuova regola del gioco.

E’ un’ironia amara che siano proprio Germania e Francia oggi ad ergersi a giudici della situazione europea. Ed è ancora più sgradevole che le due potenze che misero le prime mine sotto l’edificio dell’euro strumentalizzino la geografia per spiegare i malori dell’euro: il Sud prodigo contro il Nord parsimonioso.

Nord e Sud sono ugualmente colpevoli ed accuse come queste, con ammicchi ad elettori in cerca di un capro espiatorio, non rinforzeranno né l’euro né la fiducia dei mercati.
A tre anni dall’ultimo tonfo, siamo di nuovo sul baratro o, come mi ha detto un imprenditore a Cernobbio, «siamo sospesi come Wyle il Coyote prima di accorgersi che sta in mezzo al canyon».

Non tutto è perduto ma la posta è altissima. In momenti come questi, i manager aziendali parlano di «piattaforma infuocata» – il momento di crisi che finalmente costringe i leader a prendere decisioni e i dipendenti a seguirli.

Negli Usa, sulla piattaforma c’è Obama ma, purtroppo per lui, i repubblicani controllano l’idrante. Lo stimolo fiscale – spese di infrastrutture, piani per stimolare l’occupazione, incentivi per gli investimenti d’impresa – non arriverà prima delle elezioni del prossimo anno. Il Presidente della speranza deve ora sperare che la disoccupazione cali o rischia di passare da nuovo Kennedy a nuovo Carter.

In Europa, le scelte sono ugualmente difficili. Un’integrazione maggiore, sia dal punto fiscale che da quello politico è inevitabile per prevenire la catastrofe dell’implosione dell’euro.
Ma la decisione passa per la Germania, che riceverà sia il conto sia le redini per progettare un’Europa più unita. Se gli elettori tedeschi non se la sentono di pagare o il resto del continente soccombe a paure storiche sul potere teutonico, i mercati potrebbero prendere decisioni drastiche sul futuro dell’euro.

E per l’Italia? La situazione è sia più disperata sia più semplice. Non c’è via d’uscita: bisogna agire ed agire subito, con misure concrete e riforme radicali.
Come dicono a Cernobbio quando i dibattiti stanno per finire: «Time is up» - «Il tempo è scaduto».

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal
a New York  - francesco.guerrera@wsj.com

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Titolo: FRANCESCO GUERRERA. Monete, il risiko dei perdenti
Inserito da: Admin - Settembre 19, 2011, 12:08:49 pm
19/9/2011 - LA CRISI GLOBALE

Monete, il risiko dei perdenti

FRANCESCO GUERRERA

Quando anche la Svizzera entra in guerra, i problemi sono proprio seri.

L’annuncio da parte della neutralissima confederazione elvetica che la banca centrale di Berna è pronta ad utilizzare «quantità illimitate» di denaro per mettere fine ad un rialzo del franco e far respirare l’economia interna, segna l’inizio ufficiale della «guerra delle monete».

La crisi che sta indebolendo l’America, corrodendo l’euro e mettendo a repentaglio la crescita-razzo dei Paesi emergenti ha spinto nazioni dell’Est e dell’Ovest verso una collisione monetaria.

L’obiettivo di questa particolarissima guerra, in realtà, è perdere – un gioco al ribasso in cui ogni Paese tenta di far deprezzare la propria divisa per stimolare le esportazioni e far ripartire l’economia.

Poliglotti cugini svizzeri, Willkommen, Bienvenue, Benvenuti sull’ affollatissimo campo di battaglia. Se guardate a destra vedrete la barba bianca di Ben Bernanke a capo dei battaglioni della Federal Reserve, che da mesi stanno combattendo contro le orde germaniche con l’euro sullo stendardo.

Dietro la collina ci sono i kamikaze giapponesi, sempre più disperati. I loro attacchi per tenere lo yen sotto controllo sono falliti, affondando un’economia che non cresce da più di un decennio.

E più in là, fate attenzione ai cinesi per cui la debolezza del renminbi è un articolo di fede – un pilastro di un’ economia costruita sulle esportazioni. Le urla che sentite? Sono gli eserciti brasiliani e turchi che protestano contro un’Occidente che continua ad investire nei loro Paesi, gonfiando le valute e strangolando le esportazioni.

Visto dall’alto, è uno spettacolo deprimente: le più grandi economie del pianeta che si azzuffano per vincere il premio per la moneta più flaccida del mondo. Questo Risiko dei perdenti è un segnale lampante dell’impotenza di governi e banche centrali nell’attuale frangente economico. Privi di altre armi – perché nessuno vuole alzare le tasse o prendere altre decisioni serie sull’austerità fiscale – i potenti del pianeta scommettono tutto sul minimo comun denominatore di esportazioni e monete flebili.

Dopo aver rovistato nel vasto arsenale delle loro politiche economiche, l’unica cosa che i potentissimi Bernanke, Jean-Claude Trichet e Barack Obama sembrano aver trovato sono i trucchetti dei governuncoli italiani prima dell’avvento dell’euro: svalutazioni e parole, parole e svalutazioni.

Per i mercati, gli investitori, ed anche la gente comune, la domanda più importante, a questo punto, e se questa baruffa delle divise produrrà un vincitore. La risposta è a trabocchetto: o tutti o nessuno. Se la guerra delle monete porterà ad una pace delle economie sarà perché la corsa verso il fondo è stata così sfrenata da convincere consumatori, aziende e governi a ricominciare a spendere.

C’è un parallelo storico importante: durante la Grande Depressione degli anni 1930, l’America e l’Europa presero parte in un’orgia di svalutazioni simile alla spirale odierna. Per un periodo, il risultato fu la stasi economica: con monete tutte deboli ed economie in difficoltà, le esportazioni si bloccarono.

Dopo un po’ di tempo, però, la montagna di soldi creata per tenere le divise basse – e i tassi d’interesse zero – arrivò nelle tasche di imprenditori, lavoratori e operatori di Borsa, spronando investimenti e consumi. L’economia mondiale si salvò non, come credevano erroneamente i profeti della svalutazione, perché tutti i Paesi riuscirono ad esportare beni e servizi allo stesso tempo ma perché, a lungo andare, il denaro stampato dalle banche centrali deve essere speso.

Gli economisti, amanti dell’astratto, parlano di riflazione e aumento della domanda, ma io preferisco paragonare questo effetto ad una Bialetti sul fornello: se il gas è acceso, prima o poi la pressione sarà tale che l’acqua si trasformerà in caffè.

E se venisse a mancare il gas? C’è una possibilità che, viste le condizioni pessime dell’economia mondiale, la guerra delle monete si trasformi in battaglia all’ultimo sangue con una sola, grande vittima: la globalizzazione. Il fattore determinante della nostra epoca – almeno a livello economico – è stato l’aumento esponenziale nel commercio tra nazioni, facilitato dal progresso tecnologico e dalla fine della guerra fredda.

I giovani degli Anni 60 erano cresciuti con l’idea che dovevano cambiare il mondo, la mia generazione, invece, è sempre stata convinta che il mondo se lo poteva comprare. Mi spiego: da decenni, ormai, siamo abituati ad acquistare carrozzine made in China, giacche fatte a Hong Kong e macchine costruite dal Messico al Brasile alla Polonia – a prezzi molto più bassi che se fossero state prodotte nella vecchia Europa o in America.

Per i consumatori di oggi, la globalizzazione del commercio è ovvia e la sua permanenza è data per scontata. Ma che succederebbe se il mondo, invece di essere piatto come ci ha detto Thomas Friedman nel suo best-seller, fosse pieno di angoli, barriere e fili spinati?

Una guerra delle monete in un periodo di contrazione economica può senz’altro portare ad un’ esplosione di protezionismo. Non è difficile per un politico opportunista strumentalizzare il tasso di disoccupazione elevato e la crescita anemica di un Paese per attaccare governi stranieri o, peggio ancora, gente non «del posto». Molte guerre vere – quelle combattute con le armi – in passato sono iniziate con tensioni economiche che portano a diffidenza tra governi e si trasformano poi in ostilità aperta.

La buona notizia è che, al momento, questa versione apocalittica della guerra delle monete non è ancora realtà. Parlando con politici e banchieri centrali la mia impressione è che i potenti del pianeta capiscono chiaramente che commercio e collaborazione internazionale sono l’unica via d’uscita da questo labirinto di problemi economici.

La presenza del ministro del Tesoro americano Tim Geithner al summit dei ministri delle Finanze europei lo scorso venerdì a Bruxelles è un esempio degli sforzi euro-americani per risolvere la crisi. Il dialogo tra i due blocchi rimane fondamentale, anche quando, come nel caso di Geithner, gli americani vogliono dare lezioni agli europei sul come affrontare questi difficili passaggi. Nella battaglia contro la recessione mondiale, nessuno si può permettere di essere neutrale. Nemmeno la Svizzera.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York
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Titolo: FRANCESCO GUERRERA. Ascoltiamo quell'urlo in piazza
Inserito da: Admin - Ottobre 04, 2011, 07:34:55 pm
2/10/2011

Ascoltiamo quell'urlo in piazza

FRANCESCO GUERRERA

Una ragazza bionda urla, disperata, mentre due poliziotti la buttano sul ruvido asfalto newyorchese ed un terzo prepara le manette.
Il momento – catturato da un fotografo del Daily News questa settimana – non è una delle solite scene di piccola criminalità che punteggiano la vita quotidiana di New York.

Il «reato» della giovane era quello di aver protestato contro Wall Street – la stradina di Manhattan che per lei e centinaia di altri manifestanti contiene tutti i mali del capitalismo moderno.
L’urlo muto della foto, che ricorda il famoso dipinto di Munch, sta riecheggiando in altre piazze del mondo.

Dagli indignados madrileni che hanno occupato Puerta del Sol alle barricate sanguinose dei disoccupati greci, fino alla violenza cieca e truffaldina dei saccheggiatori di Londra, la crisi economica sta alienando e marginalizzando una parte della popolazione mondiale.
Le proteste europee sono forse meno epocali della «primavera araba» che ha ribaltato i regimi di Tunisia, Egitto e Libia e meno aggressivi dei metodi Gandiani di Anna Hazare – il guru anti-corruzione indiano.

Ma qualcosa in comune tra le varie proteste c’è ed è la sfiducia nella capacità dell’establishment politico ed economico di risolvere i gravi problemi attuali – dal prezzo del pane in Egitto al posto di lavoro in Spagna.
Quando sono andato a Zuccotti Park, il parco a pochi metri dal sito del World Trade Center che è diventato il quartier generale dei dimostranti newyorchesi, non ho trovato una rivoluzione in fieri.

Certo, i ragazzi con cui ho parlato, studenti, attori senza lavoro, camerieri a tempo perso, mi hanno schernito per la mia «uniforme» – venendo dall’ufficio, non ho avuto tempo di togliermi giacca e cravatta – e attaccato le banche e «gli speculatori».

Ma i loro sogni, desideri e preoccupazioni erano molto «capitalisti». Quando gli ho detto che ero un giornalista finanziario, le domande più frequenti sono state: «Ma secondo te, l’economia americana migliorerà? Ed il mercato delle case quando riprende?».
Che, tradotte dal linguaggio delle proteste, vogliono dire: «Ma secondo te, un lavoro lo troverò quando finisco l’università? E ce la farò a guadagnare abbastanza per comprarmi casa?» - due interrogativi che nel «Capitale» di Marx proprio non si trovano.

L’assenza d’impeti rivoluzionari radicali, però, non vuol dire che l’élite politica e finanziaria, sia in America che in Europa, si possa permettere di ignorare il dissenso di porzioni della società civile.
Il problema per i governanti sulle due sponde dell’Atlantico, è che la congiuntura è talmente cupa che le misure da prendere non faranno altro che esacerbare le sperequazioni sociali ed economiche.
Partiamo dall’America. Dopo decenni di vita spericolata – al di sopra dei propri mezzi pagata dalla cocaina del credito pubblico e privato – l’ultima superpotenza sta barcollando sotto il peso dei suoi debiti.
I repubblicani e democratici su questo almeno sono d’accordo: la posizione fiscale attuale è insostenibile. La baruffa è ovviamente sul come risolverla.

I repubblicani – ansiosi di riprendersi la Presidenza nel 2012 e tirati a destra da un Tea Party sempre più fondamentalista – parlano di tagli radicali al Welfare state: la sanità e le pensioni che costano migliaia di miliardi di dollari l’anno. I democratici vogliono tagliare meno e tassare di più, soprattutto i ricchi. Non a caso l’ultima salva del presidente Obama è stata un’imposta sui ricconi ispirata dal fatto che il miliardario Warren Buffett ha detto che lui paga meno tasse della sua segretaria.
Le ricette variano ma il risultato sarà lo stesso. Come mi ha detto un alto funzionario della Federal Reserve questa settimana: «Staremo peggio prima di stare meglio».

Le proposte repubblicane per ridurre il deficit sarebbero senz’altro più efficaci di azioni demagogiche quali la «tassa Buffett», ma hanno il difetto enorme di mettere ancora più pressione sulle classi povere.
In una nazione come gli Stati Uniti, dove l’un per cento della popolazione controlla più di un quinto della ricchezza del Paese e il 15 per cento della gente vive sotto la soglia di povertà, politiche che aumentano la diseguaglianza potrebbero avere gravi conseguenze sociali.

Quando ho chiesto ad un alto funzionario dell’Fbi come mai, secondo lui, la durissima recessione del 2007-2009 non avesse portato a conflitti sociali, la risposta mi ha sorpreso. «Due parole» ha detto: «Barack Obama». A suo avviso, l’elezione storica di un presidente di colore ha placato le minoranze etniche ed le altre classi sociali che hanno sofferto di più durante la contrazione economica.
È una tesi difficile dimostrare – ed impossibile da articolare in un’America che non ha ancora sconfitto il razzismo – ma che vale la pena tenere in mente in questo periodo così turbolento.

In Europa, la situazione è diversa ma non meno grave. Il consenso di economisti e mercati è che il vecchio continente ha bisogno di una dose da cavallo di austerità per uscire dalla crisi. La lista dei rimedi è ben nota: tagli alla spesa pubblica e alle pensioni; allungamento della settimana lavorativa; lotta all’evasione fiscale e così via.

Tutto ottimo in teoria. Molto meno in pratica. I programmi di austerità hanno due, colossali, svantaggi: sono indigesti a politici ed elettori; e soffocano l’economia nel breve termine.

Magari è pure giusto tagliare le pensioni-baby dei dipendenti statali e costringere i dentisti greci a pagare le tasse. Il problema è che nessuno si fa togliere quello che ha avuto per anni senza lottare. (vedi: «barricate greche»). E, visto che, come si dice in America, «i tacchini non sono in favore del pranzo di Natale» è praticamente impossibile per un governo lanciare misure così impopolari a meno che non sia costretto (vedi: «George Papandreou»).

Ma anche se ci fosse la volontà politica, il risultato immediato di misure di austerità è un calo della crescita economica. Il motivo è semplice: se tutti stringono la cinghia allo stesso tempo, non rimane più nessuno a comprare beni e servizi. Un’economia anemica, a sua volta, aumenta il malcontento e le disparità finanziarie.

Se i governi vogliono evitare che la crisi economica inneschi conflagrazioni sociali, dovranno prestare più attenzione alle urla che provengono dalle piazze e dalle strade.


Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York.
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Titolo: FRANCESCO GUERRERA. I mercati chiedono serietà
Inserito da: Admin - Novembre 07, 2011, 10:58:04 pm
7/11/2011

I mercati chiedono serietà

FRANCESCO GUERRERA*

Era bello essere europei la notte del 31 dicembre del 2001.

Io ero nella piazza principale di Maastricht, infreddolito ed emozionato, ad aspettare la «nascita» dell’euro con migliaia di altri concittadini d’Europa.

Dopo anni di preparazione, la moneta unica di un continente che aveva combattuto innumerevoli guerre contro se stesso era pronta.

In poche ore, i bancomat da Helsinki a Patrasso avrebbero cominciato a rigurgitare la nuova divisa dell’Europa unita. Mi ricordo un’atmosfera più da festa popolare che da occasione storica nella cittadina olandese dove fu firmato il trattato che diede vita all’euro. Un concerto di musica folk, qualche fuoco d’artificio, molta birra. Ma il motivo per essere lì era comune, come la moneta: la voglia di celebrare un pezzo importante della storia dell’Europa. A quasi dieci anni di distanza, in Europa non fa festa più nessuno. Dopo un altro summit di parole vuote, speranze frustrate e promesse non mantenute – questa volta al Gruppo dei 20 di Cannes – il continente e la sua moneta sono alla deriva.

I mercati non sanno più cosa pensare. Gli investitori e gli operatori di Borsa a cui ho chiesto cosa avrebbero fatto una volta di fronte ai loro schermi questa mattina non sembravano avere la più pallida idea. «Siamo esausti», mi ha detto un operatore di New York. «Se i governi e i burocrati non sanno come risolvere la situazione, come possono pensare che i mercati capiscano cosa stia succedendo?». Parole gravi. Il rischio più grande per l’Unione Europea – e l’economia mondiale – in questo momento non è la recessione, e nemmeno un calo nel valore dell’euro, ma la rassegnazione dei mercati.

Fino ad ora, le Borse mondiali, e persino gli investitori in beni del tesoro di gran parte dei Paesi europei, ci hanno voluto credere. Nonostante tutto, fino a venerdì sera i mercati ancora speravano che i potenti europei non fossero capaci di affondare un intero continente con i loro tentennamenti. La frase che ho sentito più spesso nelle mie visite ai piani nobili di Wall Street quando esprimevo le mie preoccupazioni sull’Europa è stata: «Ma dai, stai tranquillo che in un modo o nell’altro la situazione si risolve». La psiche Usa – razionale, semplice, ottimista e non esperta di politica interna slovacca e plebisciti greci - non riusciva a concepire altra soluzione.

L’accordo del 26 ottobre – prima del «Papandemonio» creato dall’annuncio-suicidio del referendum – ha fatto salire i mercati alle stelle nella speranza che un default «controllato» della Grecia, la ricapitalizzazione di molte banche europee e la promessa di misure di austerità avrebbe messo fine ai travagli degli ultimi due anni. Dopo il nulla di fatto del weekend, però, l’ottimismo molto «americano» dei mercati sta perdendo il braccio di ferro con l’incompetenza molto «europea» dell’Ue. I politici stanno giocando con il fuoco. La fiducia dei mercati è, come la donna del Rigoletto, «qual piuma al vento», può scomparire in un istante. E perdere la fiducia degli investitori - che fino ad ora hanno tollerato, e sottoscritto, le magagne europee – in questo momento sarebbe catastrofico.

I numeri non sono molto incoraggianti. Partiamo dall’Italia, il Paese che, dopo la disperata Grecia, è nelle peggiori condizioni in questo frangente. I tassi d’interesse sui beni del Tesoro hanno raggiunto livelli mai visti nell’èra dell’euro, nonostante il fatto che la Banca centrale europea – guidata dal «nostro» Mario Draghi - stia furiosamente comprando il debito italiano per abbassarne l’interesse. Il balzo nei tassi ha due conseguenze, una contabile e l’altra psicologica. Dal punto di vista dei conti, il governo italiano – o quello che passa per il governo italiano – deve pagare sempre di più per finanziare le sue spese, un bruttissimo segno per un Paese che deve rinnovare circa 300 miliardi di euro di debito nel 2012.

La ripercussione psicologica è forse peggiore: i tassi d’interesse sui beni del Tesoro sono il contatore geiger delle paure degli investitori. Il messaggio dei mercati è chiaro: l’Italia è a rischio. Il Belpaese non è solo, ma in questo caso mal comune non dà nessun gaudio. Con la Grecia ormai data per persa, l’attenzione degli operatori e, diciamolo pure, degli speculatori si sta spostando su Paesi di ben altra stazza come l’Italia ma anche Spagna e Francia. Le parole incaute di Nicolas Sarkozy e Angela Merkel la settimana scorsa sulla possibilità che la Grecia potesse uscire dall’euro – un’idea impensabile fino a pochi mesi fa – hanno minato un’altra sicurezza degli investitori e aperto un vaso di Pandora di angosce sull’implosione della moneta unica. Il sistema bancario è, come sempre, il meccanismo di trasmissione del panico dei mercati e il crollo nelle azioni delle banche dei Paesi-guida dell’Europa è un segnale che non deve essere trascurato.

I due rilevatori-chiave nei prossimi mesi per decidere se il Titanic europeo è ancora a galla saranno i tassi d’interesse sul debito italiano e il prezzo delle azioni di Deutsche Bank o Bnp Paribas.

Cosa fare per rassicurare i mercati? La soluzione è semplice: opporre serietà e buon senso alle paure degli investitori. Far vedere al mondo delle imprese che c’è la volontà politica ed economica per attaccare i problemi. Mettere fine alla farsa quotidiana messa in scena a Bruxelles, Roma ed altre capitali europee.

Purtroppo il cast è da commedia di Ionesco: Berlusconi, Papandreou, Herman Achille Van Rompuy, «Sarkel» o «Merkozy» non sembrano in grado di cambiare registro e diventare attori seri. Ai numeri dei mercati – i 300 miliardi di euro di debito italiano nel 2012, il calo del 20% nella Borsa francese quest’anno, il 50% di perdite di chi ha Buoni del tesoro greci – non si possono opporre chiacchiere sui ristoranti pieni di gente o vaghe parole sull’austerità e la crescita economica.

Uno degli investitori più astuti che conosco, Mohamed ElErian, l’amministratore delegato di Pimco, il gigante californiano degli investimenti, riassume la situazione così: «I politici sono al volante, gli investitori sono sul sedile di dietro ed il parabrezza è completamente oscurato dalla nebbia». Evitare incidenti sta diventando sempre più difficile.

*caporedattore centrale del «Wall Street Journal» a New York francesco.guerrera@wsj.com

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Titolo: FRANCESCO GUERRERA. Che cosa chiede Wall Street a Mario & Mario
Inserito da: Admin - Dicembre 04, 2011, 04:50:46 pm
4/12/2011

Che cosa chiede Wall Street a Mario & Mario

FRANCESCO GUERRERA

Cari presidenti Draghi e Monti,

Vi scrivo per farvi sapere che noi della stampa anglosassone siamo pronti.
Se riuscirete nell’impresa di proteggere l’euro e l’Italia, vi conferiremo l’onore di essere chiamati «Super Mario Brothers» senza alcun indugio.
Già mi immagino i titoloni di testate di mezzo mondo con riferimenti al video-gioco amato da generazioni di ragazzi.

Purtroppo, il vostro compito è ben più arduo di quello del baffuto idraulico della Nintendo, che deve semplicemente salvare la Principessa Peach nel Regno dei Funghi.
Altro che gioco per bambini, qui bisogna essere tutti adulti e responsabili per le proprie azioni perché l’Europa non ha tre vite come nei video-games.
Nella realtà in cui vivete, presidenti, non c’è spazio per le illusioni e le fantasie che hanno caratterizzato i mandati dei vostri predecessori.

I mercati non hanno più nessuna voglia di tollerare i bilanci fittizi, i conti sospetti e la spesa pubblica fuori controllo che hanno permesso a Paesi come la Grecia, il Portogallo e l’Italia di vivere al di sopra dei propri mezzi per decenni.
Il gigante dai piedi di argilla che ci ostiniamo a chiamare «moneta comune» non è più stabile e solo azioni decisive e repentine possono tenerlo in piedi.

Chi, come me, parla spesso con banchieri, operatori di borsa e capi d’azienda, sente solo un messaggio provenire dall’economia reale e dai mercati: sbrigatevi.

Ciò che bisogna fare, a partire dall’importantissimo summit europeo della settimana prossima, ormai è chiaro. Un patto di ferro per imporre discipline teutoniche nelle politiche fiscali dei Paesi della zona-euro, seguito da un intervento massiccio da parte della Banca Centrale Europea per comprare il debito dei Piigs – il gruppo di porcellini economici di Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna.

Questo dovrebbe bastare a stabilizzare i mercati, mettere fine alla corsa al rialzo nel costo del debito di Paesi come l’Italia e la Francia, e tranquillizzare i tanti investitori che paventano il fallimento di una grande banca europea.

Come economisti di calibro, sapete benissimo che una ricetta del genere rimarrà indigesta a molti, soprattutto ai milioni di persone destinati a soffrire a causa delle misure di austerità che verranno imposte per mettere ordine nei bilanci di Stato.
Ma in questo momento – dopo due anni di tentennamenti, occasioni mancate e decisioni non prese – non ci sono più tante soluzioni.

Questo senso che siamo all’ultima spiaggia, che il più grande blocco economico del mondo sta bevendo, per dirla all’americana, nel saloon dell’ultima chance, è, egregi presidenti, il vostro alleato più potente.

Le parole – serene ma dure – del presidente Draghi questa settimana, in cui ha detto che la Bce scenderà in campo solo quando i governi europei concretizzeranno misure fiscali comuni, sono un buon segno. La politica sarà pure l’arte del compromesso ma in condizioni estreme bisogna ricorrere agli ultimatum, anche se educati.

Il presidente Monti, la cui pacatezza e misura conosco bene, non è uomo da ultimatum ma il suo ruolo non lo richiede. La mera presenza di un governo «tecnico» guidato da una figura di statura internazionale è servita a ridurre il nervosismo dei mercati. Ora, però, gli investitori hanno paura che le sabbie mobili della politica italiana possano bloccare le riforme.
«Ma voi italiani ci fate o ci siete?», ha sbottato un banchiere americano questa settimana. «Ancora non avete capito che fino a quando ci sono scaramucce di politica interna tra partiti e fazioni, gli investitori in Italia non ci ritornano?».
Vi confesso, presidenti, che mi sono sentito un po’ a disagio durante l’invettiva del banchiere perché le domande erano retoriche ma giuste.

Sono solo riuscito a rispondere – non so se per fervore patriottico o per disperazione – che la situazione è talmente difficile che il governo italiano potrà giocare sul fatto che l’unica alternativa al suo programma è l’implosione dell’euro e una recessione selvaggia. Il progetto della moneta unica non si può permettere di perdere l’Italia. La Grecia sì, ma l’Italia no.
L’Europa è così malata che sarà costretta a prendere la medicina da voi somministrata, anche se amara e dolorosa. D’altra parte, come mi ha detto un investitore americano di recente, «quando tutto quello che hai è un martello, devi sperare di trovare un chiodo».
Che è un po’ la filosofia dei mercati negli ultimi mesi: balzi strepitosi ogni volta che si pensava l’Europa fosse pronta a battere il chiodo nel muro una volta per tutte e cadute rovinose quando si capiva che c’erano altri chiodi in bilico o che il martello era di gomma.
La risposta entusiasta, questa settimana, alla decisione da parte delle autorità monetarie di mezzo mondo di facilitare l’accesso a fondi in dollari fa parte dello stesso copione. La speranza, più che i fatti, hanno portato gli investitori a comprare azioni.

La speranza è che le mosse di questa settimana siano il preludio ad una serie di interventi da parte di banche centrali e governi.
Gli operatori di Borsa, che di storia antica poco sanno, non la mettono proprio così ma nella loro visione del mondo il presidente Draghi è Alessandro Magno di fronte al nodo gordiano della crisi dell’euro.

E questo, alla fine, è il vostro problema più grande, cari presidenti. L’attesissimo cambio di regime alla Bce ed in Italia ha creato aspettative altissime nei mercati internazionali.
Anche gli investitori più esperti e cinici stanno guardando a voi – e alla cancelliera di ferro Angela Merkel e all’elegante e furbo Nicolas Sarkozy – come il deus ex machina di questa tragedia greco-europea.

Quando chiedo ai potenti di Wall Street come credono che i mercati reagirebbero se il summit della settimana prossima si risolvesse in un altro nulla di fatto, sento solo silenzio. Paura e silenzio.

La crisi dell’euro un video-gioco proprio non è.

Buon lavoro Super Marios.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York. francesco.guerrera@wsj.com .


da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9512


Titolo: FRANCESCO GUERRERA. Wall Street fuori dall'inferno
Inserito da: Admin - Dicembre 18, 2011, 05:49:52 pm
18/12/2011

Wall Street fuori dall'inferno

FRANCESCO GUERRERA

A chi gli chiede se ha visto un film per la Tv uscito da poco sul collasso di Lehman Brothers, il presidente della Federal Reserve Ben Bernanke suole rispondere, con un sorriso amaro, «Ho visto l’originale». Il banchiere centrale americano, che nella pellicola della Hbo è impersonato da Paul Giamatti, potrebbe però essere l’artefice di un lieto fine per il film dell’orrore intitolato; «Made in the Usa: genesi di una crisi».

Il Paese che ha causato il terremoto finanziario del 2008-2009, spingendo il resto del mondo in una recessione lunga e severa, si sta scuotendo dal suo torpore. La ripresa sarà lenta, difficile e non garantita ma, di questi tempi, i mercati e la gente prendono quello che possono. «Beggars can’t be choosers» «I mendicanti non si possono permettere di rifiutare l’elemosina», mi ha detto l’altro giorno un banchiere di Wall Street che non è proprio un esperto in campo di mendicità ma che di finanza ne capisce. Con l’Unione Europea in stato quasi comatoso, il Giappone in ristagno permanente e persino la Cina malaticcia, il fatto che gli Usa stiano dando segnali di vita è quasi un miracolo. Un miracolo che, se trasformato in realtà prima delle presidenziali del novembre 2012, terrà i traslocatori ben lontano dalla Casa Bianca di Barack Obama.

Vista dall’alto, l’economia americana si sta muovendo nella direzione giusta e i grandi numeri sono amici di Bernanke ed Obama. Il Pil sta accelerando: da una crescita dell’1,3 per cento nel secondo trimestre al 2 per cento nel terzo periodo, a più del 3 per cento negli ultimi tre mesi dell’anno, secondo le ultime stime.

I consumatori americani hanno ricominciato a spendere e a dimostrare più fiducia nei propri mezzi finanziari – un fattore cruciale per le sorti dell’economia. E le società hanno ripreso a vendere beni e servizi e ad assumere impiegati dopo anni di tagli e licenziamenti. La disoccupazione – la grande piaga che ha afflitto l’America e la presidenza di Obama – è ai livelli più bassi dal marzo del 2009 mentre il dollaro è vicino ad un record annuale nei confronti dell’euro.

A Wall Street, i mercati finanziari, nonostante il caos creato dall’Europa, hanno retto, un buon segno per investitori e piccoli risparmiatori che pregano al San Dow Jones perché preservi le loro pensioni.

Persino a Detroit, la bistrattatissima città dell’automobile che era stata data per morta, si parla di rinascita, con Ford, Chrysler e General Motors che riportano vendite rispettabili. Anche la Fed di Bernanke, che di solito non si sbilancia in pubblico, ha dovuto ammettere le buone notizie. Dopo il loro ultimo incontro del 2011 la settimana scorsa, i governatori della Fed hanno rilasciato un comunicato che, tradotto dal burocratese, è positivo. «L’economia sta crescendo in maniera graduale, a dispetto di una decelerazione dell’economia mondiale», hanno detto, nel loro stile inimitabilmente piatto.

L’unica grinza in questo ragionamento è che la Fed ha una visione economica da elicottero. Al pian terreno, gli Usa non sembrano completamente guariti. Basta farsi un giro per certe zone della Florida o della California per capirlo. Le case vuote, i cartelli «For Sale» sbiancati dal sole e arrugginiti dall’attesa di compratori che non arrivano. I negozi sbarrati e il crimine in aumento. I disoccupati agli angoli delle strade con una sigaretta in bocca e quasi niente in tasca.

Non sono immagini di un’economia in salute, di un Paese in piena ripresa, pronto ad uscire dalle sabbie mobili di una crisi finanziaria che lo attanaglia da anni.
A questo punto, a chi si deve credere? Ai numeri positivi e le parole melliflue di Obama o alle fotografie da incubo provenienti dall’hinterland?

Purtroppo ad entrambe: sono due facce delle sofferenze dell’economia più grande del pianeta. Per i prossimi anni, la ripresa Usa sarà un Giano Bifronte. Nessun Paese può sprofondare in una crisi come quella vissuta dall’America degli ultimi anni e uscirne indenne. Soprattutto se il governo si ostina ad indebitarsi come fosse un quindicenne con la prima carta di credito. Prima o poi, i debiti si debbono pagare, come l’Europa ha scoperto sulla propria pelle.

Gli Usa sono nel Purgatorio economico, non in Paradiso. Meglio dell’Inferno europeo – dove la recessione c’è e si vede - ma non in un equilibrio stabile che permetta a mercati e gente comune di tirare un sospiro di sollievo. Certo, la disoccupazione è calata, ma solo dal 9 all’8,6 per cento – un livello troppo alto per un Paese industrializzato. E, con il mercato immobiliare moribondo, la predizione più realistica è che nel 2012 gli Usa cresceranno del 2 per cento e solo grazie allo Zio Ben, che tiene i tassi d’interesse bassissimi.

Come sempre nel campo economico, tutto è relativo. Ad agosto – l’agosto terribile del «downgrade» del debito Usa, del panico dei mercati stretti tra l’incudine dell’America e il martello dell’Europa – non si parlava d’altro che di «doppio tuffo» nella recessione. Alcuni gufi addirittura evocavano lo spettro della stagflazione – contrazione economica accompagnata da inflazione – il peggio di tutti i mondi possibili. Ora di tuffi non parla più nessuno e le uniche metafore acquatiche che si sentono a Wall Street parlano di trampolini: usare i primi segni di una ripresa economica per spiccare il volo.

Ed è qui che il lavoro degli economisti finisce e quello degli psicologi incomincia. Gli Usa sono al bivio. Se l’economia ricomincerà veramente a tirare, o continuerà a vivacchiare, dipenderà in gran parte dagli «spiriti animali» di Keynes. Se investitori, consumatori ed aziende si «sentono bene» e continuano a spendere e spandere senza farsi spaventare da fattori esterni; se l’Ue smette di danzare sul precipizio e disastri naturali e umani (terremoti, guerre, tsunami) non aumentano paure e paranoie, gli Usa avranno una chance di recuperare il terreno perduto e, forse, di trainare l’economia mondiale verso un futuro più roseo.
Purtroppo non ci sono garanzie perché la psiche americana – forgiata dall’ottimismo e dallo spirito di frontiera – è stata minata, forse irreparabilmente, da avversità politiche e stenti economici che pochi si aspettavano in questo Paese.

Come scrisse un giovane candidato presidenziale di colore del 2006, l’America deve ricatturare «l’audacia della speranza». Negli ultimi cinque anni, c’è stata poca audacia e poca speranza negli Usa, a cominciare dalla Casa Bianca. Il film di Bernanke ed Obama è ancora in corso. Nessuno si può permettere un finale alla Dario Argento.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario
del Wall Street Journal a New York
francesco.guerrera@wsj.com

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Titolo: FRANCESCO GUERRERA. I cinque misteri del 2012
Inserito da: Admin - Gennaio 16, 2012, 11:44:19 am
16/1/2012

I cinque misteri del 2012

FRANCESCO GUERRERA

Il sorriso vuoto del grande investitore seduto di fronte a me per discutere del futuro di mercati ed economie nel 2012 fu il segnale che aveva esaurito le risposte.

Invece di parole, un bene di cui non era mai stato privo in passato, il fund manager californiano, emise un sospiro lungo e un po’ disperato. «E chi lo sa?» disse, mettendo fine all’intervista.

La risposta è «nessuno». Nessuno sa cosa succederà nel mondo del denaro dopo un 2011 di pathos, passione e paura. Chi dice di saperlo – gli analisti delle banche e pubblicazioni di mezzo mondo hanno creato una piccola industria delle previsioni che sforna verdetti ogni gennaio – mente.

In questo momento di estrema fragilità del tessuto connettivo dell’economia mondiale, non si può far altro che analizzare i temi che domineranno i prossimi dodici mesi. Io ne ho identificati cinque. 1) L’economia e le elezioni americane Se le presidenziali fossero domani, Barack Obama probabilmente sarebbe sconfitto da Mitt Romney, il papabile candidato repubblicano. Ma le elezioni sono a novembre, e il comportamento dell’economia nei prossimi mesi determinerà l’inquilino della Casa Bianca dopo il 6 novembre.

Ci sono segnali incoraggianti per il presidente in carica. La crescita Usa è ricominciata, anche se lentamente, e lo spettro di un «doppio tuffo» nella recessione è ormai lontano. La fiducia di consumatori e imprenditori è in ascesa e i mercati si stanno riprendendo. Negli ultimi mesi gli investitori che hanno «comprato» l’America e «venduto» l’Europa hanno fatto parecchi soldi.

Ma il numero più importante per Obama e Romney è il tasso di disoccupazione. Se rimane all’8,5% - un livello altissimo per gli Usa – Obama rischia di passare alla storia come un presidente-meteora: un momento la vedi ed un secondo dopo non la vedi più. Ma se l’economia mantiene un passo elevato e la disoccupazione continua a scendere – era più del 10% alla fine del 2009 – Obama ha buone chances.

Anzi, il presidente democratico potrebbe addirittura imitare Ronald Reagan, l’eroe di quasi tutti i candidati repubblicani, che entrò l’anno elettorale 1984 con un tasso di disoccupazione dell’8,4%, ma in calo dall’anno prima, e riuscì a battere Walter Mondale senza problemi. 2) La situazione europea e la stabilità dell’euro Non c’è dubbio che per mercati ed investitori, questa è la preoccupazione più grande.

Il disastro totale – la decomposizione della zona euro – sembra per il momento evitato ma gli ostacoli sulla strada del risanamento sono tanti, come dimostrato dalla raffica di «downgrade» sparati da Standard & Poor’s su mezza Europa venerdì.

La Grecia rimane instabile, soprattutto perché molte banche e fondi non vogliono sottomettersi alla perdita «volontaria» di metà dei loro investimenti nel debito greco, come proposto dai governi europei. Un «default» totale, che potrebbe costringere la Grecia ad uscire dall’euro, non si può escludere. Come mi ha detto un investitore americano: «In questo momento, i mercati hanno bisogno di un default come di un buco nella testa».

Ma i veri problemi potrebbero essere altrove nel Mediterraneo. L’Italia e la Spagna dovranno fare sforzi colossali per rimettere in sesto i conti pubblici. Le loro economie, per non parlare di pensionati, impiegati statali e ceti bassi, ne soffriranno molto.

Questo potrebbe essere l’anno in cui la coesione sociale europea – uno degli aspetti che gli Stati Uniti più invidiano alla struttura socio-economica del vecchio Continente - potrebbe essere messa a dura prova dalle misure di austerità prese da Roma, Madrid e altri governi.

Come sempre, in questi casi, occhio alle banche. Con un’economia più o meno in recessione, debiti pubblici altissimi ed investitori svogliati, l’Europa rimane sull’orlo di una crisi bancaria. La reazione negativa dei mercati all’aumento di capitale di UniCredit non è certo di buon auspicio per altre banche europee. 3) La Cina e il raffreddamento della sua economia Visti dall’Ovest, i grattacapi di Pechino sono bazzecole. Obama, Merkel e Monti pagherebbero per scambiare la loro situazione con il mandato del Politburo cinese: far sì che un’economia abituata a crescere più del 10% l’anno rallenti un pochino senza creare troppe tensioni sociali e finanziarie.

Ma il dibattito sull’«atterraggio morbido» della Cina cela questioni molto più importanti. La crescita economica è fondamentale per mantenere lo status quo politico. La «dittatura capitalista» del paese funziona solo se la disoccupazione rimane bassa e lo standard di vita di milioni di persone aumenta inesorabilmente anno dopo anno.

Il conseguimento di beni e servizi migliori del passato – da acqua corrente, scuole ed elettricità per le popolazioni rurali ad appartamenti, macchine e borse di Louis Vuitton per l’élite urbana – tiene sotto controllo le enormi tensioni politiche ed economiche che covano ai piedi del Dragone cinese.

Il problema per il governo di Pechino è che non è padrone del proprio destino a causa della dipendenza economica dalle esportazioni in Europa e Usa. Contro la globalizzazione non c’è muraglia che tenga: la Cina sta esportando meno e importando le magagne economiche dei suoi partner commerciali. 4) Wall Street e i bonus dei banchieri Considerando la situazione della «gente normale» – in bilico tra la padella della disoccupazione e la brace dell’austerità fiscale – il crollo nella paga dei banchieri non dovrebbe preoccupare nessuno.

Ed è vero che i signori (e le poche signore) nei gessati blu possono senz’altro vivere con mezzo milione di dollari l’anno invece di tre milioni. La casa a St-Tropez magari dovrà essere venduta ma per il resto…

L’effetto strutturale di questi cambiamenti, però, va analizzato con cura. Con le banche americane ed europee alle corde, più di 300.000 persone perderanno il posto di lavoro a Wall Street, la City, Piazza Affari e le altre città della finanza mondiale.

Con nuove leggi, utili in calo ed azionisti in stato d’allerta, sembra difficile che le banche riassumano questi impiegati a breve termine. Il risultato: un’industria finanziaria più piccola e meno importante nel contesto economico.

Per chi le critica, il ridimensionamento delle banche sarà cosa buona, soprattutto perché il settore finanziario è cresciuto in maniera esponenziale nel dopoguerra. Ed è giusto chiedersi se il settore bancario non fosse diventato «troppo» importante per l’economia mondiale visto che non produce nulla ma trasforma denaro in altro denaro, con rischi che ormai sappiamo altissimi.

Ma prima di festeggiare il funerale delle banche, vale la pena valutare che la loro funzione primaria – prendere soldi dai risparmiatori e prestarli ad aziende e consumatori – è fondamentale per la crescita economia. Un’industra finanziaria più piccola è forse auspicabile ma non senza costi. 5) I mercati Questa è semplice. Predire quello che faranno i mercati è un mestiere ingrato, soprattutto in questo frangente in cui l’impossibile – la distruzione dell’euro, il crollo della Cina, il fallimento di una banca europea - potrebbe diventare realtà in qualsiasi momento. Il californiano aveva ragione. Meglio sapere cosa non si sa.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario per il Wall Street Journal a New York. francesco.guerrera@wsj.com

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Titolo: FRANCESCO GUERRERA. L’euro è salvo ma i prossimi due anni sono in salita
Inserito da: Admin - Febbraio 02, 2012, 10:37:29 am
Economia

29/01/2012 - LA CRISI DAVOS DIETRO LE QUINTE

Il catenaccio Ue non convince

L’euro è salvo ma i prossimi due anni sono in salita

Merkel e Draghi non rassicurano gli investitori

FRANCESCO GUERRERA
Davos

Siamo come pesci in un acquario. Giriamo e giriamo senza toccarci e senza andare da nessuna parte».
Il finanziere-filosofo - più Schopenhauer che Epicuro - riassume così la vita del partecipante al World Economic Forum di Davos. Anche quest’anno migliaia di capitani d’industria, banchieri e politici hanno scalato le Alpi immortalate da Thomas Mann nella Montagna Incantata per tentare di risolvere i problemi del mondo in quattro giorni nella cittadina svizzera. Anche quest’anno hanno fallito.

Sospesi tra la realtà dei temi trattati e l’artificialità della situazione - una bolla blindata in cui si fa la fila al bar con Mick Jagger (ho una foto sfocata sul telefonino per gli increduli) ma è quasi impossibile uscire all’aria aperta - i potenti di Davos non hanno trovato risposte adeguate alle domande del presente. Quando l’«élite globale» – la modestia non è il forte di Davos – s’incontra al centro dell’Europa in un frangente come questo, la discussione verte su un tema solo: cosa sarà dell’Unione Europea e della moneta unica? Nei corridoi del lugubre Centro Congressi o nei piano bar un po’ squallidi in cui i pezzi grossi si rilassano bevendo gin and tonic e aiutando le cameriere ad imparare l’inglese, le domande sono sempre le stesse: «Cosa bevi?», oppure «Ma secondo te l’euro sopravviverà?». Con gli Stati Uniti distratti dalla campagna elettorale e la Cina occupata dai festeggiamenti del suo Capodanno, la povera Europa è costretta suo malgrado a fare da protagonista sul palcoscenico innevato di Davos.

Noi nerd della finanza e della politica attendevamo con più ansia le parole di Angela Merkel e Mario Draghi che il dolce accento cockney di Jagger. Il duo ital-tedesco ci ha deluso o forse, come cantava proprio Mick, «you can’t always get what you want», «non si può sempre ottenere ciò che vuoi». Le voci di corridoio avevano suggerito che la premier tedesca avrebbe usato il suo intervento per addolcire la posizione tedesca sul fronte europeo. Alcuni beninformati avevano addirittura predetto che la Merkel avrebbe annunciato l’intenzione di allentare i cordoni della borsa teutonica per aiutare le figliole prodighe dell’Europa: l’Italia, la Spagna e la Grecia. In realtà, non c’è stato niente di dolce nelle parole proferite dalla Cancelliera di ferro. Anzi. La platea di Davos – e il resto del mondo – si è dovuta sorbire l’ennesimo fervorino sul bisogno urgente di misure di austerità nella zona euro.

A chi chiedeva di più - qualche favilla di speranza nella crescita dell’economia europea, per esempio la Merkel ha opposto un catenaccio che avrebbe fatto felice Nereo Rocco. «Ho chiuso tutte le mie posizioni europee non appena ha cominciato a parlare» mi ha detto un investitore poco dopo la fine della ramanzina-Merkel. Due giorni dopo la parola è passata a Mario Draghi. Performance impeccabile: sobrio, tranquillo, quasi mellifluo, il presidente della Banca centrale europea sa come affrontare i momenti difficili. La sostanza delle sue parole, però, non è stata rassicurante: «Quelli della crisi sono stati i quattro anni più lunghi della mia vita», ha confessato Draghi, mentre la classe dirigente del pianeta annuiva in un collettivo «non dirlo a me». Poco dopo, ha lanciato una mini-bomba: «Abbiamo evitato un enorme “credit crunch”, un’enorme crisi di liquidità» ha detto, spiegando perché ha deciso un’iniezione di liquidità da oltre 480 miliardi di euro nelle banche europee.

A questo punto, anche noi pesci di acquario abbiamo capito il messaggio: in Europa si starà peggio prima di stare meglio. Il collasso dell’euro è stato probabilmente evitato, ma i prossimi due o tre anni saranno in salita e nessuno è sicuro se l’euro ha il passo e il fiato per arrivare in cima. Gli ottimisti, come i tanti banchieri che ho incontrato nel bar sponsorizzato da Google (lo champagne gratis aiuta la conversazione), sostengono che le posizioni della Merkel e di Draghi siano di facciata, necessarie a costringere i Paesi deboli a mettere ordine nelle loro economie. Prima o poi, dicono, i soldi da Berlino e Francoforte arriveranno. «La Cancelliera vuole tenere i tacchi sul collo degli italiani e degli spagnoli», mi ha detto il capo di una banca di Wall Street. «Gli sta dicendo che se non fanno i compiti vanno a letto senza cena».

Il problema è che i compiti sono difficili – tagliare pensioni, licenziare impiegati, far sì che tutti paghino le tasse – e hanno l’effetto collaterale di deprimere la crescita economica. L’austerità made in Germania sarà anche necessaria dopo decenni di vita spericolata, ma il risultato sarà una contrazione dell’economia. Mario Draghi siede all’altro lato di questo tavolo con la coperta troppo corta. Aver evitato una crisi di liquidità tra le banche è un ottimo risultato, ma non siamo ancora nemmeno all’intervallo. I prestiti a prezzo di saldo della Bce – 489 miliardi di euro per tre anni ad un tasso dell’1% - danno alle banche un po’ di tempo per ristrutturare i bilanci e ridurre le posizioni a rischio. E se per caso dovessero pure comprare qualche Buono del Tesoro italiano o spagnolo non protesterebbe proprio nessuno.

«Guadagnare tempo in questo momento è un’ottima cosa» mi ha detto un banchiere intelligente come Peter Sands, il capo della banca inglese Standard Chartered. Ma il tempo «comprato» dalla Bce per 489 miliardi verrà sfruttato dalle banche per aumentare il capitale, tagliare i costi e vendere operazioni marginali. Una depurazione necessaria per un sistema bancario che è ancora pieno di elementi tossici ma il risultato sarà meno prestiti ad individui ed aziende e, quindi, meno crescita. Per un esempio di cosa potrà succedere, basta guardare a banche francesi come la Bnp Paribas e Société Générale, che hanno ridotto in maniera drammatica le loro attività in America perché facevano fatica a racimolare dollari. L’Europa è in bilico tra l’imperativo di agire per evitare un ulteriore deterioramento e il fatto inconfutabile che quelle azioni porteranno ad una stretta economica. Visto dall’acquario di Davos, il Vecchio Continente è in posizione precaria.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York.

Francesco.guerrera@wsj.com.

da - http://www3.lastampa.it/economia/sezioni/articolo/lstp/440289/


Titolo: FRANCESCO GUERRERA. - Perché Barack ha bisogno di noi
Inserito da: Admin - Febbraio 10, 2012, 11:18:16 am
10/2/2012

Perché Barack ha bisogno di noi

FRANCESCO GUERRERA

In America, lo chiamano «the perfect storm», l’uragano perfetto che sta inondando gli Usa con posti di lavoro e crescita. Una confluenza di fattori inaspettata – salari bassi, imprese con molti soldi e consumatori pronti di nuovo a spendere – ha fatto ripartire l’economia più grande del pianeta, dato respiro ai mercati e aumentato le chance che Barack Obama non debba traslocare dalla Casa Bianca a novembre.

Senza l’Europa, però, l’uragano non sarà perfetto. L’America ed il suo Presidente devono sperare che il vagone più importante trainato dalla locomotiva Usa non venga deragliato da crisi rovinose e beghe politiche. Le parole calorose di Obama nei confronti della leadership politica europea – compresa la professione di gran stima nei confronti di Mario Monti in questo giornale – non sono del tutto disinteressate.

Nel mondo della globalizzazione, nessun Paese è un’isola e gli Usa e l’Europa sono legati da relazioni commerciali che ne fanno compagni di viaggio inseparabili. Anche se le traiettorie economiche sono divergenti: l’America è in ripresa mentre l’Europa soffre la recessione.

L’ America guarda avanti, con i suoi Facebook, Google e Apple, mentre il vecchio continente si lecca le ferite e contempla senza gioia anni ed anni di austerità per rimettere in sesto i conti.

Ma la relazione è simbiotica. Per Obama e l’America, la ripresa si trasformerà in vera crescita solo e se l’Europa starà fuori dai guai e ricomincia a comprare i prodotti e servizi made in Usa.

I numeri provenienti dagli Stati Uniti non sono affatto male. La crescita è ai livelli più alti in un anno e mezzo – il Pil statunitense è salito del 2.8% negli ultimi tre mesi del 2011. Timothy Geithner, il ministro delle Finanze, ha detto di recente che nel 2012, l’economia potrebbe crescere del 3%. Non è la Cina o l’India, ma nemmeno l’Italia o la Grecia.

Il dato più importante per la Casa Bianca non è però il Pil ma il tasso di disoccupazione – il tallone d’Achille dell’economia Usa e l’area in cui Obama è più vulnerabile dagli attacchi dei candidati Repubblicani, soprattutto un ex finanziere come Mitt Romney.

Anche su questo fronte, però, ci sono state buone notizie. A gennaio, il tasso di disoccupazione è calato all’8.3%, il livello più basso nell’arco dell’amministrazione Obama. Il trend è ancora più gratificante per gli uomini del Presidente: sono ormai cinque mesi di fila che la disoccupazione cala e gli esperti pensano che la tendenza continuerà nei prossimi mesi. Un bell’assist per un Presidente che dovrà andare a vincere voti nel Midwest – il cuore recondito e destrorso degli Stati Uniti dove l’industria manifatturiera regna sovrana. O nel Sud, dove la povertà abbonda e i posti di lavoro sono spariti come neve al sole nel corso degli ultimo decenni.

E’ per questo che, in visita ad una stazione dei pompieri in Virginia di recente, Obama ha preso la palla al balzo e ricordato a tutti che «la ripresa sta accelerando», prima di ammonire che «non si può ritornare alle politiche economiche che hanno causato la recessione».

Belle parole, espresse con il solito piglio oratorio di Obama, vero erede di Demostene, ma che serviranno a poco se la ripresa si ingolfa o smette di tirare.

Ed è qui che l’Europa conta. Analizzando i dati della crescita Usa è ovvio che gran parte delle buone nuove sono concentrate sul fronte interno. Fino ad ora, le imprese che hanno assunto più lavoratori sono prettamente domestiche, settori come i ristoranti, la sanità (che in America è quasi tutta privata) e i servizi professionali (gli avvocati, i notai e le segretarie).

L’industria manifatturiera – uno dei motori dell’economia Usa – non ha partecipato alla festa. Le imprese che producono beni, invece di servizi, hanno recuperato solo 400.000 dei 2 milioni e mezzo di posti di lavoro che hanno perso dall’inizio della crisi Usa.

Ed all’interno del settore, le società che vanno bene sono quelle che si affacciano sul mercato interno, come le «tre grandi di Detroit» – le case automobilistiche, compresa la «nostra» Chrysler – che tutti avevano dato per morte nel 2007-2008.

Non c’è simbolo più concreto della rinascita di Detroit dello spot lanciato dalla Chrysler la settimana scorsa a metà del Super Bowl – la finale del torneo di football Americano che è lo spettacolo più visto negli Stati Uniti. La voce rauca di Clint Eastwood che annuncia: «Siamo all’intervallo America. Rinasceremo nel secondo tempo».

Ma il risultato non dipenderà solo dall’America. Per continuare a trainare – e a ridurre la disoccupazione – gli Usa hanno bisogno di esportare e di esportare in Europa, visto che l’Asia compra poco dall’Occidente.

Al momento, i consumatori italiani, spagnoli e persino francesi e tedeschi non ne vogliono sapere. La crisi economica li sta costringendo a tirare la cinghia e a risparmiare i loro euro.

E’ una dicotomia che racchiude il dilemma economico transatlantico. Il «feelgood factor» - la spinta ai consumi del sentirsi bene – che sta aiutando l’economia Usa è assente dalla depressa, preoccupatissima Europa.

L’uragano perfetto non ha ancora attraversato l’Atlantico.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario per il Wall Street Journal a New York

Francesco.guerrera@wsj.com

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9758


Titolo: FRANCESCO GUERRERA. La cura dimagrante di Wall Street
Inserito da: Admin - Febbraio 26, 2012, 06:20:07 pm
26/2/2012

La cura dimagrante di Wall Street

FRANCESCO GUERRERA

La mattina era di quelle da dimenticare, in una New York fredda ed inospitale che nei film non si vede mai.
Il vento, gelido, si incanalava tra i grattacieli per poi esplodere in faccia ai signori in giacca e cravatta e le signore con i tacchi a spillo quasi li volesse punire per andare al lavoro prima dell’alba.

Io ero lì mio malgrado, cercando di tenere il passo con il flusso umano e l’energia sovrumana dei fanti della finanza americana: solo uno dei capi delle banche di Wall Street può scegliere le sette del mattino di inizio novembre per un incontro con un giornalista.
A quell’ora, l’idea di sedere su una sedia bassa (i trucchetti di Wall Street non sono nuovissimi) per trascrivere le esternazioni ottimiste di un maschio-alfa non è molto allettante.

Ma il gran capo aveva in programma una sorpresa. «La festa è finita», mi ha detto senza ironia. «Dobbiamo cambiare. Wall Street non sarà più la stessa».
È toccato a quest’uomo che sarebbe piaciuto a Nietzsche dettarmi l’epitaffio per un capitolo di storia della finanza internazionale.
Quarantacinque piani sotto di noi, gli uomini e donnine si affrettavano a prendere i loro posti nella catena di montaggio che ogni giorno muove miliardi e miliardi di dollari tra le capitali del mondo. Ma il mio banchiere sapeva già la verità: per sopravvivere, Wall Street sarebbe dovuta diventare più piccola.

Nei mesi dopo il nostro incontro, banche in America, Europa ed Asia hanno licenziato circa 200.000 persone – più che durante la crisi finanziaria del 2008-2009. I bonus sono stati tagliati, in molti casi eliminati. E i capi della finanza mondiale hanno ammesso che si dovrà soffrire per almeno due anni e forse di più.
È un paradosso che in un’America in ripresa, anche se lenta, l’industria che rimane in recessione è proprio quella delle banche che negli anni d’oro avevano aiutato, ma anche sfruttato, la crescita del paese.

I motivi per i tagli draconiani di posti di lavoro e salari sono ben noti: la crisi europea, il nervosismo dei mercati e le nuove regole del dopo-crisi hanno fatto crollare gli utili, costringendo le banche a ridurre i costi.
E visto che i costi, per una banca, «prendono l’ascensore e vanno a casa ogni sera», come ama dire il capo della Goldman Sachs Lloyd Blankfein, l’unica soluzione è stata quella di eliminare gente e bonus.

Non che questo sia, di per sé, una novità. La cultura darwiniana di Wall Street ha sempre prodotto espansioni inconsulte e frenate bruschissime. Il tacito contratto tra padronato e «manovalanza» della finanza è: tutto o nulla, bonus principeschi nei periodi di vacche grasse e disoccupazione nei periodi di vacche magre.

In questo caso, però, la paura dei signori della finanza è che il rimpicciolimento non sia parte di un ciclo ma un cambiamento strutturale in un settore che, un po’ come l’americano medio prima della crisi, aveva vissuto al di sopra dei propri mezzi per troppo tempo. «Questa non è una crisi ma un azzeramento», mi ha detto l’altro giorno un capo di una banca d’affari americana.

Potrebbe avere ragione. È vero che, prima o poi, la crisi europea si risolverà e l’economia mondiale ritornerà a crescere. Ed è vero, come sostengono gli ottimisti quali Jamie Dimon, il capo della J.P. Morgan Chase, che i consumatori e le imprese avranno sempre bisogno di servizi finanziari.

Ma la vera questione è quando e quanto. Quando l’economia del globo ricomincerà a tirare e di quanti servizi avranno bisogno i risparmiatori e le aziende? Non certo dei Cdo, Clo e tutti quei prodotti esotici che divennero tossici durante la crisi. Non certo di tutti quei mutui che le banche hanno dato a gente che non li poteva ripagare. E forse nemmeno dei prestiti ad imprese che i soldi o ce li hanno già, perché hanno risparmiato, o non li vogliono perché non hanno nessuna intenzione d’investire in economie così disastrate.

Se a questo si aggiunge che le autorità di settore hanno finalmente costretto le banche a tenere più capitale sui bilanci per evitare collassi rovinosi tipo Lehman Brothers ed Aig (ma anche Commerzbank e Royal Bank of Scotland), si vede chiaramente come gli utili potrebbero rimanere depressi per anni.

Dal punto di vista macro-economico, il ridimensionamento delle banche è sensato. La crescita esplosiva di Wall Street aveva creato uno sbilancio intollerabile nel cuore dell’economia americana.

All’apice del boom finanziario – nel 2005-2006 – il settore finanziario contribuiva quasi al 40 per cento di tutti gli utili delle aziende americane – un numero straordinario visto che le banche non «producono» nulla ma sono solamente dei meccanismi di trasmissione del denaro tra risparmiatori ed investitori. Le stime più generose dicono che le banche Usa sono responsabili per il 10 per cento del prodotto interno lordo del Paese.

La «finanziarizzazione» dell’economia americana era eccessiva ed andava ridotta. Ma anche senza guardare ai numeri, è difficile compiangere il destino misero e baro dei banchieri. Anzi.
Non c’è dubbio che il ridimensionamento di Wall Street – accentuato dalla retorica elettorale di Barack Obama – stia avendo una funzione catartica nell’America della disoccupazione rampante e delle case vuote. Il fatto che il movimento di protesta che è emerso dalla recessione si chiami «Occupy Wall Street» non è certo un caso.

Prima di cantare vittoria però, i critici delle banche dovrebbero essere sicuri che non sia una vittoria di Pirro. Il capitalismo può funzionare solo se il settore finanziario ricopre il suo compito, spingendo i flussi di denaro da chi ne ha in abbondanza a chi ne ha bisogno. Un sistema bancario indebolito e sulla difensiva potrà anche far piacere ai ragazzi di «Occupy» ma non fa bene a chi vuole comprarsi la casa, investire in una nuova fabbrica o creare il nuovo Facebook.

Le banche si meritano una mattina gelida e triste ma è nell’interesse di tutti che si risollevino e ricomincino a fare il proprio mestiere prima del tramonto.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York

francesco.guerrera@wsj.com

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9817


Titolo: FRANCESCO GUERRERA. Un mondo senza locomotiva
Inserito da: Admin - Marzo 11, 2012, 11:00:30 am
11/3/2012

Un mondo senza locomotiva

FRANCESCO GUERRERA

Il Big Mac è in difficoltà e la colpa è della crescita anemica dell’economia mondiale.
Ormai è ufficiale: il panino più famoso del mondo – due hamburger con pezzi di lattuga un po’ troppo grandi e la famosa salsa «segreta» – sta vendendo poco.

Gli analisti di Wall Street – che di solito preferiscono il caviale al fast food – sono stati tutti orecchie la settimana scorsa quando la McDonald’s ha messo in guardia i mercati dicendo che la prima parte dell’anno sarà dura.

La povera multinazionale del panozzo non sa dove guardare. In Europa, la recessione ha fatto tirare la cinghia un po’ a tutti e la gente sta incominciando a portarsi il pranzo da casa. Gli americani si stanno ingozzando meno perché la ripresa è lemme lemme. E persino in Asia, lo Shangri-la di tutte le aziende in cerca di crescita, il rallentamento di economie-guida come la Cina e l’India tiene la gente lontana dai «ristoranti» con gli archi gialli.

Se si trattasse solo di hamburger e patatine, poco male. Ma il Big Mac – offerto a 68 milioni di avventori in 119 Paesi ogni giorno - è una cartina al tornasole dell’economia mondiale.
I risultati non sono incoraggianti. Per la prima volta nel dopo-guerra, c’è il rischio che il pianeta si trovi senza una locomotiva economica.

Gli Usa, il motore degli ultimi decenni, mancano all’appello.
La ripresa c’è ma sta avanzando come i ghiacciai. La disoccupazione rimane altissima, anche se in calo, e la crisi del mercato immobiliare ha distrutto la fiducia dei consumatori. Il cuore dell’economia americana non ha ancora un battito regolare.

Di Europa, purtroppo sappiamo pure troppo. La Grecia sarà anche riuscita a persuadere i creditori ad accettare meno soldi al fine di evitare il disastro totale ma si tratta di una vittoria di Pirro. Tra austerità, instabilità politica e problemi finanziari di banche e risparmiatori, l’Europa rimarrà in recessione per un altro anno almeno.
E l’Asia? Il continente dei poteri emergenti che avrebbe dovuto prendere la guida dell’economia mondiale dalla stanca America e vecchia Europa? Il passaggio di consegne dovrà aspettare.

La settimana scorsa Wen Jiabao, il premier cinese, ha ridotto le proiezioni di crescita dell’economia nazionale dal 8% l’anno - un livello che Pechino aveva mantenuto, e superato, sin dal 2005 – al 7,5%.
Un incremento sempre più rapido che nell’Occidente ma che potrebbe non essere abbastanza per dare lavoro ai milioni di persone che continuano a lasciare le zone rurali del centro della Cina in cerca di fortuna nelle fabbriche del Sud e della costa.

E se la rivoluzione industriale cinese sta rallentando, quella dell’India – l’altro grande polmone dell’organismo asiatico – rischia di fermarsi del tutto.
L’economia sta crescendo ai livelli più bassi degli ultimi due anni mentre il governo insiste a spendere soldi che non ha per costruire uno Stato sociale ed alleviare la povertà di massa che attanaglia il Paese.

Nel 2010, con l’Europa boccheggiante e l’America impantanata nelle sabbie mobili del dopo-crisi, economisti ed operatori di mercato parlavano di una ripresa mondiale «a due velocità»: i mercati emergenti in fuga ed i vecchi continenti ad arrancare nel gruppo.
Storie di successo come il Brasile di Lula – e persino il Sud Africa del dopo Mandela – sembravano confermare la forza delle nuove economie. Non solo Cina ed India, dicevano gli speranzosi, ma anche il Sud America e chissà, forse l’Africa, la grande incompiuta dell’economia del globo.

A due anni di distanza, quei sogni sono stati infranti. I Paesi sviluppati devono confrontare la realtà che governi e cittadini hanno vissuto al di sopra dei propri mezzi per tanto, troppo, tempo. E le nazioni emergenti stanno imparando una lezione amara: chi di globalizzazione ferisce di globalizzazione perisce.
Tutti quei giocattoli made in China, le materie prime del Brasile, l’outsourcing dell’India alla fine chi li comprava? Noi. Sempre noi. I ricchi consumatori dell’Ovest che divoravamo beni e servizi a basso prezzo.

Il bello del sistema era che Paesi come la Cina prendevano dollari e euro ricevuti dall’Ovest e li riciclavano nel debito pubblico di America ed Europa, permettendo all’Occidente di spendere e spandere, e creando un circolo virtuoso di spese, consumi ed investimenti.
Il circolo si è rotto quando le crisi finanziarie degli Usa e della zona-euro hanno rivelato che noi occidentali eravamo molto meno ricchi di quanto pensassimo. La domanda per i prodotti dei Paesi emergenti è calata e, senza una classe media locale pronta a riempire il vuoto lasciato dagli occidentali, la Cina, l’India e il Brasile si trovano in difficoltà.

«È come se il peso di portare l’economia mondiale sulle proprie spalle abbia sfiancato i Paesi emergenti», mi ha detto uno dei santoni economici di Wall Street. «Altro che economia a due velocità, qui di velocità ce n’è una sola ed è lenta».
L’aspetto positivo di questo frangente così insolito è che le crisi che sono scoppiate negli ultimi anni sembrano meno acute.

In America, nessuno ha più paura che una banca enorme come la Citigroup crolli o che il governo non sia in grado di tenere in piedi il mercato dei mutui. In Europa il panico per la paventata implosione dell’euro si sta placando. E nei mercati emergenti – terra fertile in passato per crisi di monete, inflazione rampante e debito pubblico fuori controllo – discipline fiscali e fattori demografici hanno rimesso in sesto i conti di molti Paesi.

Ed è questo il motivo per cui, nonostante tutto, i mercati sono abbastanza tranquilli e in alcuni casi come gli Usa, brillanti. Attenzione, però: gli azionisti e gli operatori di mercato sono i padroni del breve termine e non alzano mai lo sguardo verso l’orizzonte. Sono rilassati perché nei prossimi mesi, l’economia mondiale dovrebbe vivacchiare senza infamia e senza lode e, soprattutto, senza crisi rovinose.

Ma la mediocrità non aiuta nel lungo termine. Una ripresa forte deve partire dai consumi, trasmettersi alle aziende, spingere i mercati delle materie prime, aumentare le attività finanziarie e persuadere le banche ad aprire i cordoni della borsa, incrementando i consumi e così via. Per ora, quell’impeto non c’è.
Nonostante i molti dubbi sul valore nutritivo dei fast-food, l’economia mondiale dovrà mangiare più Big Mac per crescere.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York.
francesco.guerrera@wsj.com

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Titolo: FRANCESCO GUERRERA. Mr. Smith e il processo al capitalismo
Inserito da: Admin - Marzo 26, 2012, 06:30:48 pm
26/3/2012

Mr. Smith e il processo al capitalismo

FRANCESCO GUERRERA


Da Zuccotti Park, l’ex quartier generale di «Occupy Wall Street», il palazzone di Goldman Sachs sembra quasi un miraggio. Un enorme obelisco di vetro e metallo che torreggia un po’ arrogante sul cielo di New York» e che per mesi è stato un obiettivo, visibile ma non raggiungibile, per i ragazzi del «movimento».

Così vicino eppure così lontano - fino a quando, due settimane fa, Greg Smith ha colmato la distanza metaforica e reale tra chi a Wall Street si accampa e chi ci lavora.

Smith è passato da sconosciuto impiegato di Goldman a grande accusatore del mondo della finanza mondiale grazie a 1.300 parole al veleno pubblicate dal New York Times.

Una lettera aperta di dimissioni che è diventata un fenomeno virtuale – Google conta circa 70 milioni di menzioni del pezzo – e ha provocato danni reali all’immagine di Goldman e del settore bancario internazionale.

«Non ci voleva. Questa proprio non ci voleva», è stata la reazione a caldo di un mio amico che lavora per Morgan Stanley e che di solito fa salti di gioia quando il rivale storico Goldman è nei guai.

Smith non ci vuole, non tanto per quello che ha detto ma per quello che è diventato: il porta-bandiera di un’opinione pubblica che vede nella finanza la radice di quasi tutti i mali del capitalismo moderno.

Quando Smith spiega che oggigiorno Goldman mette gli utili della banca prima dei bisogni dei clienti, nessuno si dovrebbe stupire.

Le banche d’affari sono associazioni a scopo di lucro ed hanno il dovere di fare soldi, nei limiti della legge, per pagare azionisti ed impiegati. I clienti di Goldman – gli hedge funds, le grandi multinazionali, i super-ricchi – questo lo sanno benissimo. Da sempre.

E sarà anche vero che, come racconta Smith, alcuni suoi colleghi si siano riferiti a clienti chiamandoli «muppets» - lo slang inglese che usa le marionette del Muppet Show come sinonimo per «idioti».

Ma il fatto che l’humour dei banchieri sia spesso puerile ed offensivo – questo lo posso confermare - non è prova lampante che la finanza sia tutta da rifare, per dirla alla Bartali.

Eppure, quando Smith ha pontificato dall’alto pulpito del New York Times, la gente nel villaggio globale ha applaudito fragorosamente.

«Il re è nudo», hanno gridato con gioia i blog e le colonne dei giornali. Robert Reich, l’ex ministro del Lavoro nel governo di Bill Clinton, e uno dei santoni intellettuali della sinistra del Partito Democratico, ha persino coniato un aforismo: «Se togli la cupidigia da Wall Street, ti rimane solo il marciapiede».

Reazioni senz’altro comprensibili perché le banche di colpe ne hanno molte e non solo per aver contribuito alla crisi rovinosa del 2007-2009.
È difficile difendere Wall Street, la City di Londra e Piazza Affari quando non perdono occasione di dimostrare arroganza, egoismo ed insensibilità ai problemi della gente comune.

Il mea culpa del mondo finanziario dopo i problemi gravissimi degli ultimi anni non è stato né abbastanza lungo né abbastanza sincero e le critiche sono in gran parte meritate.

Ma l’inquietudine evidenziata dalla fama istantanea del pamphlet di Smith va ben al di là di Goldman e Wall Street. Il dimissionario dirigente è diventato, suo malgrado, simbolo e sintomo di un malessere profondo nei confronti del capitalismo.

È un paradosso che, quasi un quarto di secolo dopo la caduta del Muro di Berlino, l’ideologia e modo di vita che pensavamo trionfanti siano sotto accusa. Dai manifestanti di Occupy ai greci disperati che ergono barricate nelle piazze, a «pentiti» come Mr Smith, il male di vivere dell’Occidente «ricco» sta raggiungendo livelli altissimi.

Persino in Cina, che ha scommesso le sue ambizioni di egemonia globale su un’industrializzazione sfrenata, la nuova leadership parla di coesione sociale, di aiuti alla popolazione più povera e di un rallentamento nella proliferazione del capitalismo.

Il settore bancario, in questo frangente, è danno collaterale: l’agente più visibile, e sgradevole di un sistema che non piace.

I motivi per la crisi di fiducia sono ben noti: la recessione, prima in America ed ora in Europa, il divario sempre più grande tra i ricchi e i poveri del mondo, e le paure di un declino terminale dell’Occidente in favore delle economie emergenti dell’Est e del Sud.

Ma avere coscienza dei problemi non aiuta più di tanto quando le alternative sono poche e poco rassicuranti. Smith, Reich e i ragazzi di «Occupy» distruggono senza ricostruire, attaccano lo status quo senza offrire una visione realistica del futuro.

Non c’è più tempo per utopie, e non solo perché le grandi idee astratte del passato non hanno funzionato, basti pensare al «comunismo dal volto umano», le «terze vie» dei Tito, Castro e l’autarchia dell’India di Nehru.

In questo frangente, con un’economia mondiale in difficoltà e tensioni elevate sia a livello sociale che geopolitico, il pragmatismo è l’unica soluzione. Non abbiamo più il lusso di sognare di sistemi diversi, dobbiamo riformare e riparare ciò che abbiamo.

E la realtà è che, dopo anni di tentennamenti da parte di governi e privati, le riforme stanno arrivando.

In America, il Congresso, la banca centrale ed altri regolatori stanno scrivendo migliaia di direttive che potrebbero rivoluzionare l’economia Usa. Dalle grandi banche alle società di pegno, le regole del gioco bancario in America stanno per cambiare, con l’obiettivo di evitare gli eccessi, errori e frodi che portarono alla crisi.

Il parallelo è con il grande crollo del mercato nel 1929: negli anni seguenti, gli Usa crearono un sistema finanziario che permise all’America di dominare il mondo del commercio per i 70 anni successivi.

In Europa, le riforme saranno più lunghe e dolorose ma forse ancora più importanti che negli Stati Uniti. L’austerità farà male ma, se messa in pratica in maniera seria ed intelligente, permetterà al continente di risorgere senza abbandonare la moneta unica e i frutti di decenni d’integrazione economica. In questo senso, l’emergenza di leader pragmatici come Mario Monti, Mario Draghi ed Angela Merkel è un buon auspicio.

Ma non di solo governo vive l’uomo e, per ora, le aziende e i consumatori mancano all’appello della ripresa economica sia in Europa che negli Usa.

È una questione di tempo: se il settore pubblico farà la sua parte, «gli spiriti animali» di Keynes faranno la loro, spingendo gli imprenditori ad investire e rischiare capitali e i consumatori a comprare.

Come disse Churchill della democrazia, il capitalismo è il peggiore sistema che abbiamo, a parte tutti gli altri che abbiamo provato.


Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York

francesco.guerrera@wsj.com

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Titolo: FRANCESCO GUERRERA. Il salvagente che l'America sta cercando
Inserito da: Admin - Aprile 08, 2012, 05:19:29 pm
8/4/2012

Il salvagente che l'America sta cercando

FRANCESCO GUERRERA

All’inizio, il buio nel seminterrato del baretto di Tribeca, nel cuore «trendy» di New York, è totale. Ma, poco a poco, gli occhi si abituano e incominciano a distinguere le lucine bianche che illuminano piccoli lembi della stanza. Sono tutte a forma di mela mozzicata. Dietro di loro, delle persone, chine su computer sottili e raffinati, che battono freneticamente su tastiere soffici. Alcuni hanno delle cuffie, altri solo un’espressione intenta e concentrata. E’ la stanza dei puristi dell’Apple, dove gli aderenti al culto della semplicità tecnologica e del design accattivante vanno per stare soli con i loro Igadget.

Il locale di Tribeca è un microcosmo dell’economia americana in quest’epoca post-industriale e post-crisi finanziaria. Quando ho chiesto al padrone del bar come mai aveva deciso di creare la caverna per gli Apple-dipendenti, mi ha dato una risposta da professore di economia. «Domanda ed offerta», ha detto. La gente vuole la grotta per il Mac e l’Ipad e la grotta viene costruita. E la domanda non è solo nei bar di moda di New York, ma pure nelle casette a schiera un po’ squallide del Midwest rurale, nei loft di Los Angeles e San Francisco, nei grattacieli di Chicago e Boston, sulle metropolitane, gli autobus e persino nelle macchine.

Gli Stati Uniti di oggi sono un Paese in cerca d’autore, una superpotenza militare e finanziaria paralizzata dalla consapevolezza del suo declino e spaccata a metà da sperequazioni economiche e politiche faziose. L’Apple e i suoi prodotti sono uno dei pochi collanti per una società sfilacciata e tormentata. Ricchi e poveri, bianchi e neri, i ragazzi di Occupy Wall Street e i signori di mezza età del «Tea Party» di Sarah Palin, sono accomunati dalla lucina bianca a forma di mela. «Se Steve Jobs fosse vivo, sarebbe potuto diventare Presidente degli Stati Uniti. Io lo avrei votato», mi ha detto, senza traccia d’ironia, un banchiere di Wall Street che odia sia Obama e sia Romney ma che non riesce a staccarsi dal suo iPad, persino durante le interviste. Ma Jobs non c’è più.

E’ andato a disegnare computer in Paradiso (credo) da ormai sei mesi, lasciando dietro di sé un vuoto enorme sia per la sua società che per la società americana. Dicono che una mela al giorno tolga il medico di torno ma per gli Stati Uniti Apple potrebbe non bastare. Gli ottimisti – e negli Usa ce ne sono sempre molti - vedono nella compagnia californiana la parabola di un’economia che si trasforma e rigenera in continuazione, rimanendo sempre dinamica e all’avanguardia. Per i mercati e gli investitori, la Apple – che era quasi in bancarotta prima del ritorno trionfale di Jobs nel 1997 – è il segno che lo spirito imprenditoriale, la voglia di prendere rischi e di non guardare in faccia a nessuno permea ancora la classe dirigente del Paese. Dietro ad Apple, dicono i benpensanti di Silicon Valley, c’è una coda di giovani società che permetteranno all’America di rimanere al top dell’economia mondiale.

I cinesi, i vietnamiti e gli indiani producano pure quello che vogliono a basso prezzo, noi abbiamo Facebook, Twitter, Zynga, Pandora e chissà quant’altre belle idee che si trasformeranno in realtà ed utili. «Il fervore intellettuale e tecnologico di questo Paese è vivo e vegeto», mi ha detto uno dei venture capitalists della Costa Ovest, il cui lavoro è scoprire nuovi imprenditori e dargli soldi nella speranza che diventino gli Steve Jobs del futuro. Ma di Steve Jobs ce n’era uno solo e il cancro al pancreas se l’è portato via. E la Apple non può né sollevare, né stimolare un’intera economia nonostante la fenomenale crescita. Da mesi ormai, l’Apple è la compagnia più grande sui mercati azionari americani, avendo superato la Exxon, un gigante del petrolio i cui ricavi sono cinque volte più grandi e ha quasi il doppio dei dipendenti. Ma il valore dell’Apple va ben al di là dei 600 miliardi di dollari - più del Pil della Grecia e dell’Irlanda messi insieme – a cui è quotata. Senza la società di Jobs, i mercati sarebbero molto più depressi negli ultimi mesi.

E, stando alle previsioni degli analisti di Wall Street, la crescita esplosiva nelle vendite dell’Apple è l’unico motivo per cui il settore aziendale Usa riuscirà ad aumentare gli utili nei prossimi mesi. Il titano di Cupertino fa la differenza tra crescita e contrazione ma non ha la forza di Atlante per portare l’economia più grande del pianeta sulle sue spalle. La realtà è che l’Apple è eccezione e non regola. Per accelerare, il motore Usa ha bisogno di almeno due dei sue tre pistoni storici: i consumatori, l’industria manifatturiera e la finanza. Per ora, i primi mancano ancora all’appello. Spendono per Ipad e Iphone, questo è vero, ma non hanno soldi o prestiti per comprare le case, macchine e vacanze che servono per far ripartire l’economia. L’industria manifatturiera rimane boccheggiante nonostante il fatto che gli ultimi dati siano incoraggianti grazie al dollaro debole e al crollo nei prezzi dell’energia il settore sta ricominciando a crescere. Ma non velocemente e non come un tempo: nel 1947, il settore manifatturiero contribuiva un quarto del Pil americano.

Oggi è meno del 12%. Per anni, quella differenza è stata colmata dai servizi e soprattutto dall’alchimia di Wall Street, il laboratorio finanziario in cui denaro veniva trasformato in altro denaro. Purtroppo, anche lì le notizie non sono buone. Dopo la crisi sono arrivate nuove, dure regole e le banche hanno tagliato posti di lavoro, guadagnato meno soldi e prestato meno ad imprenditori e consumatori. Il ridimensionamento dell’industria finanziaria è probabilmente giusto ma in questo frangente delicato avrà ripercussioni sulla ripresa. Il che lascia l’America a guardare all’Apple, una società che produce poco negli Usa, come la Grande Salvatrice. Purtroppo, però, non di solo mele vive un’economia.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York.
francesco.guerrera@wsj.com

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Titolo: FRANCESCO GUERRERA. Wall Street, la mano visibile che avvelena
Inserito da: Admin - Aprile 22, 2012, 12:27:13 pm
22/4/2012

Wall Street, la mano visibile che avvelena

FRANCESCO GUERRERA


Il platano di fronte al numero 68 di Wall Street non c’è più. Ma lo spirito dei 24 pionieri che nel 1792 si riunirono sotto quell’albero e fondarono il primo mercato azionario di New York si respira ancora nelle anguste viuzze del Sud di Manhattan.
Basta fermarsi un momento ad un angolo di Wall Street ed alzare gli occhi dal Blackberry per osservare dal vivo la psiche dei mercati e del capitalismo americano.
Il flusso umano è rapido ed ininterrotto, quasi fosse diretto da un burattinaio con mille mani. La gente cammina con passo alacre, spinta dal desiderio di fare soldi e dalla paura di fallire – lo yin and yang della vita newyorchese.

E gli edifici torreggiano sulle strade, totem solenni pronti ad accogliere le migliaia di persone che hanno deciso di spendere gran parte della vita comprando e vendendo azioni.
«Il mercato è re, siamo noi sudditi che a volte sbagliamo», mi disse tanti anni fa un vecchio operatore di Borsa per spiegarmi in due parole l’essenza della finanza.
Negli ultimi anni, però, questa professione di fede laica è stata messa a dura prova. Il mito dell’infallibilità del mercato è stato sfatato dall’uno-due della crisi del 2007-2009 e dall’attuale disastro economico europeo.

Ed il credo nella «mano invisibile» di Adam Smith – un sistema di compravendita che, se lasciato operare in piena libertà, porta ad un risultato economico ottimale – è stato minato dagli interventi massicci dei governi nei sistemi finanziari di mezzo mondo.
E’ un’ironia pesante: a più di vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino che consacrò la vittoria della democrazia e del capitalismo sulla dittatura statale del comunismo, la libera economia di mercato occidentale ha bisogno di aiuti di Stato per non affondare.
Altro che mano invisibile, oggigiorno la lunga mano del governo è visibile dappertutto. In America, la Casa Bianca ed il Congresso sono stati costretti a farsi dare miliardi di dollari dai contribuenti per evitare il collasso del mercato immobiliare e delle grandi banche.

Il risultato è che nove mutui su dieci negli Usa oggi sono garantiti da entità statali, che la Federal Reserve ha comprato tonnellate di titoli «tossici» da banche ed investitori per purgare il sistema e che i tassi d’interesse rimarranno bassissimi per anni per tenere l’economia in vita.
L’Europa è in una situazione simile. Negli ultimi mesi, la Banca Centrale Europea si è dovuta sostituire al settore privato come principale mezzo di trasmissione del denaro nell’economia.
In tempi normali, le istituzioni finanziarie prendono soldi dai risparmiatori e li prestano ad aziende e consumatori. Ma con il sistema finanziario paralizzato dalla tragedia greca, la farsa italiana e i pasticci spagnoli e portoghesi, le banche hanno abbandonato le trincee e battuto in ritirata, spaventando gli investitori e facendo impazzire i mercati.
Mario Draghi e i suoi sono stati costretti a scendere in campo, dispensando un triliardo di euro alle banche del continente per incoraggiarle a fare il loro mestiere: dare soldi all’economia reale.

Per ora, l’intervento massiccio dei governi occidentali ha funzionato solo a metà. Ha evitato il peggio – un’altra Grande Depressione negli Usa, la dissoluzione della moneta unica in Europa –, ma non ha risolto i problemi di fondo di quelle economie.
Anzi. La dipendenza di mercati e del settore privato dall’elemosina dei governi sta provocando degli scompensi finanziari ed economici che potrebbero portare alla prossima crisi.

Uno dei capi delle banche di Wall Street ha paragonato gli aiuti statali alla morfina. «Servono ad alleviare il dolore, non a curare la malattia», mi ha detto.
L’iniezione di capitali a basso prezzo da parte di governi e banche centrali sta portando investitori a prendere rischi che non dovrebbero.
L’emissione di «junk bonds» – le obbligazioni «spazzatura» emesse da società non proprio affidabili dal punto di vista finanziario – è a livelli altissimi sia in America che in Europa.
E negli Usa c’è stato un ritorno di fiamma di «titoli esotici», obbligazioni legate a beni non ortodossi tipo gli utili di Domino’s Pizza o le vendite di dvd de «Il paziente inglese» (non sto scherzando…). Nei primi mesi del 2012, gli alchimisti di Wall Street hanno venduto più di 5 miliardi di dollari di questa roba, il doppio dell’anno scorso.

Il vantaggio di questi strani animali nello zoo della finanza è che hanno tassi d’interesse molto più alti dei beni «sicuri» quali le obbligazioni del Tesoro americano.
È un fenomeno darwiniano: come le giraffe che dovettero estendere il collo per raggiungere le foglie, così i fondi pensione, gli hedge funds e persino la gente comune deve spingersi su investimenti rischiosi per guadagnare qualche soldo.
Decisioni razionali e comprensibili, ma che aumentano il rischio di nuove bolle speculative e mettono pressione su un sistema che non si è ancora completamente ripreso dalla crisi di tre anni fa.

La realtà è che, prima o poi, governi e banche centrali dovranno cedere il palcoscenico al settore privato, l’attore principale di ogni economia. Ma nessuno sa quando e come.
Il dilemma di Ben Bernanke alla Fed e Draghi alla Bce è che se si ritirano troppo presto, l’economia potrebbe ricadere nel coma, ma se rimangono troppo a lungo rischiano di fare la fine di Alan Greenspan – condannato per aver causato la crisi dagli stessi mercati che lo avevano beatificato per aver pompato l’economia negli anni precedenti.
«Non possono vincere», mi ha detto uno dei capi delle banche d’affari americane la settimana scorsa. «Qualsiasi cosa facciano, saranno criticati».
Che è la verità, ma anche un peccato perché le banche centrali hanno fatto il loro dovere – sorreggere il sistema quando era sull’orlo del crollo.

In America ed Europa si parla tanto di cambiamenti «strutturali»: riforme radicali dello Stato sociale e della tassazione, austerità fiscale, riduzioni drastiche dei deficit. Sono discorsi nobili ma anche facili per politici e commentatori, perché i tempi per rivoluzioni di questo tipo sono biblici. Come disse John Maynard Keynes, che di aiuti statali all’economia se ne intendeva: «Nel lungo termine saremo tutti morti».

Purtroppo i mercati e le economie, come i lavoratori di Wall Street, di tempo non ne hanno. Da quando quei 24 proto-operatori di Borsa si riunirono sotto il platano, il capitalismo mondiale ha solo un tempo: il presente. E per il momento è un presente dominato dall’ombra ingombrante dello Stato.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario
del Wall Street Journal a New York.

francesco.guerrera@wsj.com

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10023


Titolo: FRANCESCO GUERRERA. Facebook, una risposta alla paura
Inserito da: Admin - Maggio 13, 2012, 05:58:12 pm
13/5/2012

Facebook, una risposta alla paura

FRANCESCO GUERRERA

Gli Stati Uniti sperano che Facebook sia loro amico.


Il sito-fenomeno creato da Mark Zuckerberg nella camerata di Harvard otto anni fa sta per diventare una società quotata in Borsa valutata a quasi 100 miliardi di dollari. Più della HewlettPackard, il gigante dei computer, o della McDonald’s, la multinazionale del panino, e della Amazon.com, il grande magazzino dell’Internet.

Ma Facebook vale molto di più della quotazione che il mercato gli darà la prossima settimana.

La società californiana è metafora di un’America che insiste a voler credere a se stessa nonostante i segni vistosi del declino economico e sociale.

La parabola di Facebook è segno tangibile che il capitalismo americano funziona ancora. Che il famoso spirito imprenditoriale degli Usa - quello che ha animato Thomas Edison, Bill Gates, Steve Jobs – è vivo e vegeto.

Il contrasto è nettissimo. Negli ultimi anni, mentre Facebook cresceva e Zuckerberg passava da sbarbatello con le felpe a guru dell’imprenditoria, l’America ha sofferto una crisi dopo l’altra.

Prima lo scoppio della bolla del mercato immobiliare, poi un dirompente terremoto finanziario con il collasso della Lehman Brothers e, adesso, una ripresa lenta e faticosa che si ostina a tenere milioni di persone fuori dal mercato del lavoro.

All’orizzonte, non c’è granché: una campagna elettorale prevedibile e populista tra un Obama che ha deluso molti ed un Romney che convince pochi; problemi annosi sul deficit e lo Stato sociale; ed un’insicurezza sempre più radicata sul ruolo di una strapotenza sempre più intimidita dalla crescita esponenziale della Cina.

Facebook è la risposta a molte di queste paure. Il successo di Zuckerberg dà speranza ad un Paese che di speranza vive: l’America è l’unica nazione al mondo ad avere prestato il suo nome ad un sogno.

Joe Sixpack – l’americano medio che si beve sei lattine di birra al giorno – avrà anche perso il posto di lavoro, la casa e la fiducia nel capitalismo made in Usa, ma ha guadagnato tanti «amici» su Facebook a cui raccontare vicissitudini e gioie quotidiane.

E mentre Joe creava relazioni virtuali con gente che non vede da anni, Facebook è diventato un prodigio globale con più di 900 milioni di utenti e quasi 4 miliardi di dollari di fatturato l’anno, quasi tutti dalla pubblicità.

La quotazione in Borsa – sul Nasdaq che già ospita i santoni della tecnologia Google e Microsoft – sarà la consacrazione del ruolo quasi mistico di Facebook nel Pantheon dell’economia americana.

Se riesce a vendere le azioni al prezzo più alto indicato dalle banche di Wall Street, Facebook avrà un valore di mercato di 96 miliardi di dollari. A quel prezzo, la partecipazione di Zuckerberg sarebbe valutata a quasi 19 miliardi di dollari, quasi quanto la valutazione di tutta Google quando fece la sua Opa nel 2004.

Ma il fattore forse più importante è che Facebook è nato dal nulla, un’intuizione geniale che il sistema economico americano è riuscito a trasformare in realtà.

L’idea-base, raccontata da Zuckerberg in un video per gli investitori, è di una semplicità disarmante. «Ho sempre pensato che Internet fosse una magnifica invenzione», ha detto il ventisettenne negletto, vestito in jeans e maglietta, «mancavano solo le persone».

E così lui ha portato quasi un miliardo di esseri umani a scoprirsi, specchiarsi e raccontarsi su un sito Internet, svelando dati importantissimi per le imprese che gli vogliono vendere prodotti.

È un successo tutto americano, «mi ha detto un banchiere di Wall Street con molto orgoglio. “Non sarebbe potuto succedere da nessun’altra parte”».

Su questo ha ragione. La voglia di prendere rischi per fare soldi, di sviluppare idee mai tentate in passato, di non avere paura di fallire, è una caratteristica importante della psiche imprenditoriale americana. Facebook ne è l’espressione più recente.

Basterà per rivitalizzare l’economia più grande del pianeta? Ne dubito. L’euforia che circonda Facebook è giustificata – anche se forse gli investitori sono un po’ troppo eccitati - ma nessuna società può essere una panacea per i malanni economici dell’ America.

Senza un’industria manifatturiera in buona salute, una riforma seria dello Stato sociale che riduca il deficit stratosferico dello Stato federale e, soprattutto, senza i consumatori, l’America non può tornare a tirare.

Gli Zuckerberg e i Jobs aiutano ma il vero sforzo deve venire da Washington e Joe Sixpack.

Le notizie dalla capitale non sono buone: i bene informati parlano d’impasse totale sino alle presidenziali di novembre. Dopo il voto, la situazione dipenderà da chi ha vinto ma quello che è certo è che ci sarà battaglia su tassazione e riduzione del deficit tra la Casa Bianca e Democratici e Repubblicani nel Congresso.

La realtà è che, come i suoi cittadini prima della crisi, lo Stato federale ha vissuto al di sopra dei propri mezzi per molto, troppo tempo. Washington è riuscita a finanziare le sue spese folli vendendo buoni del Tesoro agli stranieri, soprattutto i cinesi.

Ma ipotecare il proprio futuro e metterlo nelle mani di altri Paesi con diverse priorità economiche e geopolitiche non è una soluzione plausibile a lungo termine. Il nuovo Presidente ed il nuovo Congresso dovranno introdurre la stessa austerità che continuano a richiedere ai governi europei – tagli alle pensioni, riforme fiscali e della sanità – e fare fronte agli stessi problemi politici di Mario Monti, David Cameron e Lucas Papademos.

Misure di questo tipo avranno ripercussioni profonde sul portafogli di Joe e dei suoi amici, sia su Facebook che nella vita reale. Con un mercato delle case in crisi ormai da anni e un tasso di disoccupazione ancora altissimo, i consumatori americani sono squattrinati, stremati e disincantati. L’austerità non farà altro che esacerbare le difficoltà della gente comune, complicando ancora di più la ripresa economica.

L’America che si specchia su Facebook deve far fronte a questioni di fondo che non possono essere risolte da un giovanotto con la felpa.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York

francesco.guerrera@wsj.com

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10095


Titolo: FRANCESCO GUERRERA. A Wall Street non si impara dagli errori
Inserito da: Admin - Maggio 21, 2012, 05:48:57 pm
21/5/2012 - CASO J. P. MORGAN

A Wall Street non si impara dagli errori

FRANCESCO GUERRERA

La prima volta che incontrai Jamie Dimon, nel grattacielo della JP Morgan su Park Avenue, mi strinse la mano e, prima di liberarla dalla presa serrata, disse: «Benvenuto a Wall Street: d’ora in poi, la tua vita non sarà facile».

La settimana scorsa, Dimon e la più grande banca negli Stati Uniti hanno scoperto sulla propria pelle quanto sia difficile vivere a Wall Street.

Da giovedì 10 maggio, quando J.P. Morgan ha sorpreso i mercati con l’ammissione di aver perso 2 miliardi di dollari in meno di due mesi comprando e vendendo dei complicatissimi derivati, la finanza globale è sotto choc.

Mentre le perdite - causate in parte da un trader soprannominato «la balena di Londra» - continuano ad aumentare e sono già a quota 3 miliardi, la domanda nei palazzoni di New York, nella City ed ad Hong Kong, è una sola: «Ma com’è possibile?».

Com’è possibile che il «re di Wall Street», il grande Jamie Dimon, si sia fatto un autogol così clamoroso? (Dimon, capirebbe la metafora perché, da buon nipote d’immigranti greci, giocava a calcio e non a baseball da ragazzino).

Com’è possibile che un disastro di questo genere possa essere capitato alla J.P. Morgan, la banca che aveva vinto la crisi, comprando rivali in difficoltà e superando antagonisti agguerriti come la Goldman Sachs e la Morgan Stanley?

E com’è possibile che a pochi anni da una crisi finanziaria senza pari, la banca che era l’epitome della «Nuova Wall Street», sempre più supermercato finanziario e sempre meno casinò, abbia potuto fare un errore così clamoroso?

La risposta di Dimon che, a differenza dei tanti «Dottor Sottile» del mondo delle imprese è uno molto brusco, è stata di dare la colpa a se stesso e alla banca. «E’ un errore grossolano e stupido», ha detto. «Ce la siamo andata a cercare. Siamo stati disattenti». E così via.

Tutto vero ma, purtroppo per Dimon e gli azionisti della J.P. Morgan, non basta. Una volta aperto, il vaso di Pandora delle paure del mercato e dei regolatori non si può chiudere facilmente.

Lo spiaggiamento della «balena di Londra» – Bruno Iksil, un trader francese che aveva fatto un sacco di soldi scommettendo su derivati – non farà fallire la J.P. Morgan. Con più di due triliardi di dollari sul bilancio, la banca sopravviverà anche se le perdite arrivano a 5 miliardi, come ormai temono i luogotenenti di Dimon.

Il vero danno causato dal cetaceo è alla reputazione di Wall Street e, forse, alla carriera di Jamie Dimon.

Questo non è un buon momento per mostrare al mondo le debolezze del sistema finanziario e la fragilità dei suoi membri.

La crisi europea sta diventando sempre più un problema per le banche e l’economia reale – basta solo vedere l’assalto agli sportelli nel Paese avito di Dimon, mentre in America la ripresa è lentissima e le banche non hanno fatto granché per accelerarla.

Con una campagna elettorale per le presidenziali di novembre in corso e delle scadenze importanti per riscrivere le regole del gioco finanziario, Wall Street è vulnerabilissima.

Le perdite del signor Iksil e dei suoi colleghi negli uffici londinesi di J.P. Morgan hanno confermato ed amplificato le paure recondite di politici e gente comune.

Wall Street non impara mai. Dopo aver fatto mea culpa per gli errori del 2007-2009, le banche e i loro leader ci avevano promesso che avrebbero cambiato strategie e stili di vita. Che la «Nuova Wall Street» sarebbe stata più attenta ad aiutare società e risparmiatori che a imbottire i propri utili e le tasche dei banchieri.

Questa folgorazione – magari non proprio sulla via di Damasco ma certamente sulla via di Washington – era il motivo addotto da banche e lobbisti per persuadere regolatori e politici ad andarci piano con le riforme del dopocrisi. Se non state attenti, avevano detto, rischiate di restringere il flusso vitale dell’economia: il denaro pompato dalle banche a consumatori e imprenditori.

Il tonfo della balena cambia tutto. Grazie al lavoro di reportage di un paio di media, tra cui il «Wall Street Journal», abbiamo scoperto molto prima dell’ammissione di Dimon, che Iksil & co. non avevano nulla a che vedere con aziende, consumatori o altri clienti di cui le banche si riempivano la bocca nei colloqui con i politici.

L’obiettivo del Chief Investment Office, il gruppo in cui lavora Iksil, era di prendere i soldi di J.P. Morgan e investirli per aumentare gli utili della banca. In teoria, il cio avrebbe dovuto semplicemente ridurre i rischi della banca con degli «hedges», le «siepi» finanziarie che proteggono da repentini cambiamenti dei mercati.

Ma, grazie all’indifferenza più totale all’interno di J.P. Morgan – Dimon era troppo preso ad attaccare le nuove regole del gioco e il presidente Obama, per prestare attenzione – la balena e i suoi amici si sono messi a prendere rischi inconsulti invece di ridurli.

Quando, in aprile, Dimon disse che gli scoop della stampa sul cio erano «una tempesta in una tazzina di tè», Iksil e suoi avevano già preso posizioni gigantesche nel mercato dei derivati – più di 100 miliardi di dollari secondo una delle mie fonti.

Sembra difficile credere che dei traders esperti e stagionati possano comprare 100 miliardi di roba complicata e pericolosa non per speculare, ma per ridurre i rischi di una banca.

La verità di questo pasticcio verrà fuori alla fine – ora che l’Fbi e altre agenzie federali hanno aperto indagini – ma ormai il latte è stato versato.

I banchieri con cui ho parlato questa settimana già si aspettano il peggio: provvedimenti ancora più severi da Washington per limitare attività rischiose con i soldi delle banche; un’altra serie di attacchi da politici e consumatori; e la sensazione un po’ nauseante che la crisi del 2007-2009 non era un fatto isolato ma una tessera in un mosaico degli orrori della finanza.

John Pierpont Morgan, il leggendario banchiere che precedette Dimon al timone di J.P. Morgan, una volta disse: «L’uomo ha sempre due ragioni per fare una cosa: una buona ed una vera». Per arpionare la balena del rischio una volta e per tutte, Dimon ed il resto di Wall Street dovranno rassicurare il mondo che l’epoca della distinzioni tra ragioni buone e ragioni vere è finita.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York
francesco.guerrera@wsj.com

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10128


Titolo: FRANCESCO GUERRERA. La domenica irrazionale di Wall Street
Inserito da: Admin - Giugno 17, 2012, 09:50:46 am

16/6/2012

La domenica irrazionale di Wall Street

FRANCESCO GUERRERA

L’ Europa è in bilico e l’America trema. La Grecia non era mai stata un pericolo per Wall Street. Un bel posto dove i banchieri potevano andare in vacanza ed immergersi nella storia millenaria che gli Stati Uniti non hanno, quello sì.

Ma non una piazza monetaria ed economica in grado di spaventare i signori del denaro, nemmeno quelli di origine greca come Jamie Dimon, capo della J.P. Morgan Chase. Ma negli ultimi due anni i brokers, i traders e i banchieri col gessato sono tutti diventati esperti di storia greca. Non quella di Pericle, Ettore ed Achille, ma quella recente di Papademos, Samaras e Syriza.

Per questo weekend di passione, alcune banche d’affari americani hanno addirittura cancellato le vacanze e chiesto agli operatori di presentarsi in ufficio domenica pomeriggio per essere pronti quando le Borse asiatiche reagiscono ai risultati dell’elezione greca.

A Wall Street vogliono tutti sapere, soprattutto da europei come me, se siamo all’inizio della fine: la morte dell’euro, l’implosione dell’Europa e la recessione globale. Il mondo della finanza americano non fa altro che chiedersi cosa succederà se i giochi di potere intraeuropei tra tedeschi sparagnini e mediterranei spendaccioni finiscono nel «game over» del più grande blocco economico del mondo.

In realtà, non siamo ai campionati europei dove chi perde adesso va a casa. L’elezione greca non darà risposte definitive, viste le mille permutazioni che potrebbero scaturire dai risultati. Le banche centrali, a cominciare dalla Bce di Draghi, hanno già il dito sul grilletto dello stimolo, pronte a sparare denaro nell’economia ai primi segni di panico. Ma i mercati non sono in condizione di ragionare pacatamente. I nervi sono tesi e i portafogli in perdita. In questi momenti, la razionalità non c’è e non si vede.

Nell’America tremebonda, però, diversi gruppi tremano in maniera diversa. Prima di tutto, c’è Wall Street. Le banche americane giurano di avere poco o nulla in Grecia nella speranza di rassicurare gli investitori. Ma le parole non bastano. Il rischio per le istituzioni finanziarie non sono gli investimenti diretti che hanno in Grecia (o in Italia e Spagna) ma la possibilità, ormai non tanto remota, del crollo dell’euro.

Il capo di uno dei giganti della finanza americana mi ha detto questa settimana che, secondo lui, c’è il 30% di probabilità di un collasso dell’euro. Il 30%. Non l’1% o il 5% ma il 30%. Se ciò accadesse, rivivremmo l’episodio Lehman – il momento di panico in cui il fallimento della banca d’affari fece fermare l’economia mondiale e causò una contrazione economica e finanziaria di enormi proporzioni. E quando chiedo che cosa le banche possano fare per prevenire o ridurre un rischio del genere, i padroni della finanza, di solito molto loquaci, tacciono e scrollano le spalle, ma senza sorridere.

Gli investitori non sono da meno. In molti sono usciti completamente dall’Europa, vendendo e svendendo azioni e Buoni del Tesoro per rifugiarsi in beni che hanno poco valore ma tanta sicurezza, quali le obbligazioni federali americane e tedesche. Ma nemmeno l’investitore più prudente si può completamente isolare dalla crisi europea.

Milioni di americani, per esempio, investono in «money market funds», fondi che di solito sono a basso rischio ma che sono spesso usati da banche europee, in particolare quelle francesi, per finanziare le loro operazioni negli Usa. Se una di queste banche fallisse, le ripercussioni si risentirebbero ad Orly come in Ohio, a Parigi come a Phoenix.

E poi c’è Washington. In pubblico, le parole del ministro del Tesoro Geithner sono melliflue – ha detto che gli europei sono determinati ad evitare il crollo dell’euro e a rimettere ordine nel caos delle loro finanze. Ma in privato, i suoi luogotenenti, e quelli del capo della Federal Reserve Ben Bernanke, sono molto preoccupati. La Fed ha promesso di offrire dollari alle banche europee (attraverso la Bce), se ne avessero bisogno, per fare in modo che abbiano abbastanza soldi anche se la situazione peggiora.

Ma al di là di ciò, non c’è molto che gli Usa possano fare per aiutare l’Europa. Di soldi, il governo Obama non ne ha, anzi. E i venti della politica, con un’elezione presidenziale a novembre, soffiano verso l’interno, non l’estero. L’America in questo momento si trova in una posizione inconsueta: impotente e dipendente. Una superpotenza politica ed economica senza artigli e in balia di eventi che non può né controllare né influenzare. Allacciate le cinture di sicurezza, la turbolenza è appena iniziata.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10234


Titolo: FRANCESCO GUERRERA. Ora c'è bisogno di tempo e politica
Inserito da: Admin - Luglio 01, 2012, 03:48:42 pm
30/6/2012

Ora c'è bisogno di tempo e politica

FRANCESCO GUERRERA

La storia non ha nascondigli/La storia non passa la mano». Non penso che Monti, Van Rompuy e Merkel siano fan di De Gregori (fattori generazionali e d’estrazione, credo).

Ma alla fine di un vertice europeo che ha sorpreso un po’ tutti per la qualità e quantità di decisioni prese, le parole del cantautore sembrano una colonna sonora adatta. L’incontro di Bruxelles sarebbe potuto finire come tanti altri incontri di Bruxelles: una serie di dichiarazioni magniloquenti che rimangono fini a stesse, prigioniere delle sabbie mobili della burocrazia europea e beghe politiche nazionali.
Ma la convergenza di una crisi sempre più acuta e la necessità di prendere misure drastiche prima che sia troppo tardi ha conferito al summit una patina storica.

Giovedì mattina, l’Unione Europea si trovava ad un bivio: da una parte, la strada verso un’unione fiscale e politica, dall’altra l’abisso della disintegrazione della moneta unica. Venerdì mattina, ha imboccato decisamente la prima strada. E’ ormai inutile discutere i dettagli di come il continente sia arrivato a tale punto di rottura. Il Bignami della crisi scriverà che incuria e pessima gestione della situazione avevano messo l’euro e i suoi membri con le spalle al muro.

Quel che conta, ora, sono i risultati. Diciamolo chiaramente: le proposte radicali per una «unione bancaria» pan-europea, la possibilità di usare fondi comunitari per immettere capitali nelle banche malate ed un’assicurazione comune per i depositi bancari del continente non sono particolari tecnici. Sono i primi passi verso gli Stati Uniti d’Europa.

A molti l’idea non piacerà, ma la finanza non è un’opinione, almeno in questo caso. Come posso essere così sicuro? La storia degli altri Stati Uniti, quelli d’America, è prova lampante che un’unione monetaria accompagnata da un’unione bancaria può esistere solo nel contesto di un governo federale. Uno dei capi di Wall Street me lo ha spiegato bene questa settimana: «Almeno», ha detto, «l’Europa sta arrivando ad un’unione politica senza la guerra civile per cui siamo dovuti passare noi».

Gli Usa del 1786 sono molto simili alla zona euro del 2012: un’accozzaglia di Stati con interessi diversi, grandi sperequazioni tra Nord e Sud, un’economia in difficoltà ed una diffidenza di fondo tra i vari membri dell’Unione. La differenza fondamentale tra gli Stati Uniti di ieri e
l’Europa di oggi è che i padri fondatori riuniti a Philadelphia crearono un’unione monetaria in concomitanza con un’unione politica. I pionieri di Maastricht non furono in grado di fare lo stesso e si dovettero «accontentare» della moneta unica.

Negli ultimi anni, però, l’Europa si è accorta che una moneta non può essere veramente «unica» se i sistemi bancari che le stanno dietro rimangono nazionali. La spaccatura tra nazioni deboli (Grecia, Spagna, Italia, Portogallo, Irlanda) e forti (in particolare la Germania e
l’Olanda) ha messo in discussione la premessa fondamentale dell’euro: che i governi dei Paesi hanno tutti la stessa identica capacità di sostenere e garantire le proprie banche. La fuga di capitali dalla Grecia alla Germania, la ricapitalizzazione con soldi «europei» delle cajas spagnole e le paure dei mercati sulla salute delle banche francesi hanno dimostrato che una delle travi portanti dell’euro ormai non tiene più.

L’unico modo per rimpiazzarla è trasferire l’onore e l’onere di salvaguardare il sistema finanziario del continente dai governi e dalle banche centrali nazionali ad un organo pan-europeo, come proposto da Mario Draghi, Jean-Claude Juncker e Van Rompuy prima del summit di Bruxelles.

La possibilità di ricapitalizzare banche in difficoltà con fondi Ue - invece di prestare soldi a governi nazionali - aiuta perché permette di salvare istituzioni finanziarie senza gonfiare i debiti dei Paesi membri. La prima frase del comunicato uscito all’alba di sabato da Bruxelles è stata chiara e tonda: «E’ indispensabile rompere il circolo vizioso tra settore bancario e settore statale», hanno scritto i leader europei.
L’esempio degli Stati Uniti è illuminante. Quando una banca fallisce nel Wyoming o nel Montana, a pagare non sono quegli Stati ma il governo federale. Se, nel 1982, l’Illinois avesse dovuto coprire il costo del crollo della Continental Illinois, all’epoca la settima banca negli Usa, lo Stato sarebbe probabilmente andato in bancarotta. Ma il problema non si pose: in una vera unione monetaria e bancaria quali gli Usa, i costi del sistema vengono divisi tra tutti i membri.

Purtroppo, come dicono gli inglesi, «Nessun pranzo è gratis». Lo scambio per la creazione di organismi e fondi pan-europei per salvaguardare il sistema bancario è la cessione della sovranità nazionale. In questo senso, le continue richieste da parte della Germania per una maggiore disciplina fiscale – un «patto di ferro» che punisca i Paesi goderecci e spendaccioni – sono comprensibili e condivisibili. Non si può chiedere alla signora Merkel di aprire i cordoni della borsa senza prometterle che d’ora in poi la smetteremo di fare i figlioli prodighi. Il corollario di tutto ciò, però, non può che essere un movimento inesorabile verso l’unione politica – un’idea che è indigesta a molti Paesi (la Gran Bretagna in primis) e porzioni importanti dell’opinione pubblica (basta chiedere a Beppe Grillo).

Per ora, i mercati hanno votato a favore di questo salto verso l’integrazione di sistemi bancari e fiscali, contenti del fatto che i potenti
d’Europa abbiano finalmente fatto qualcosa di concreto. Ma mettere in pratica le proposte del vertice di Bruxelles richiederà sia tempo sia la volontà politica di superare alti ostacoli – due cose che la zona euro non ha in grandi quantità. Dopo anni di tentennamenti e mezze misure, però, non ci sono tante alternative. L’Europa si deve incamminare su un percorso storico quasi suo malgrado. La storia non passa la mano.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York.

francesco.guerrera@wsj.com

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Titolo: FRANCESCO GUERRERA. Il vento della sfiducia
Inserito da: Admin - Luglio 17, 2012, 05:17:26 pm
15/7/2012

Il vento della sfiducia

FRANCESCO GUERRERA

Cedar Falls, un paesino sperduto tra le pianure dell’Iowa, è distante anni luce da Londra, l’epitome della metropoli sofisticata e cosmopolita. Ma una serie di eventi tragici, bizzarri ed inaspettati hanno trasformato due città, divise da un oceano e molto altro, in simboli gemelli della crisi di fiducia nella finanza moderna.

Gli avvenimenti londinesi sono più noti. Un paio di settimane fa, la più grande banca inglese, la Barclays, è stata la prima vittima del «Libor-gate» uno scandalo enorme in cui decine di istituzioni finanziarie sono accusate di aver manipolato tassi interbancari a loro favore. I fatti sono complicatissimi ma l’opinione pubblica è stata aiutata dalle rivelazioni di e-mail vergognose tra traders. Questi signori, senza pudore o auto-controllo, si scambiavano tranquillamente idee su come contraffare i tassi, promettendo bottiglie di Bollinger ai colleghi che truccavano l’importantissimo Libor - l’indice utilizzato per fissare il prezzo di circa 800 trilioni (sì, 8 milioni di miliardi…) di prestiti e obbligazioni dall’Alaska allo Zimbabwe. «Quando e come vuoi, ragazzone mio…», si legge in una delle e-mail mandata da uno dei manipolatori, e non bisogna essere George Soros per capirne l’importanza. Barclays ha pagato una multa abbastanza salata - circa 450 milioni di dollari - ma il putiferio politico scatenato dallo scandalo le è costato molto di più. Nello spazio di due giorni, la società ha perso il presidente, l’amministratore delegato e il capo della sua banca d’affari. La cacofonia d’inchieste parlamentari, attacchi del governo contro le banche e astrusità finanziarie ha lasciato il pubblico, e non solo quello inglese, in stato confusionale sulla solidità del sistema finanziario. Io in Inghilterra non vivo ormai da quasi dieci anni ma ho ricevuto e-mail da vecchi amici che, senza offrire bottiglie di champagne, mi chiedevano se dovessero chiudere il loro conto alla Barclays.

L’idea è ovviamente assurda, ma quando Mr. and Mrs. Smith sentono il cancelliere dello scacchiere George Osborne dire che lo scandalo-Libor è «l’epitaffio per un’era di irresponsabilità» delle banche, che cosa devono pensare? Che tutti i banchieri sono corrotti, che il sistema è marcio e non si salva più nessuno. A quel punto, il materasso diventa un’alternativa appetibile alla Barclays, la Lloyds e la Citibank. E se per caso gli Smiths si imbattessero in Joe e Jane Sixpack - gli americani medi che amano le sei lattine di birra - avrebbero molto di cui parlare.

Negli Usa della disoccupazione altissima, del mercato immobiliare allo sfascio e dell’economia in coma, la fiducia di investitori e risparmiatori nei confronti di Wall Street è sotto zero. In questo clima di paura e scetticismo, Cedar Falls non aiuta. La cittadina dell’Iowa è ormai famosa per la scena di un crimine finanziario quasi perfetto. E’ qui che Russell Wasendorf Senior, padre padrone di Peregrine Financial - società finanziaria specializzata nelle compravendite di valute - ha tentato il suicidio dopo aver rubato circa 200 milioni di dollari ai suoi clienti. Poco prima che morisse asfissiato nella sua Chevrolet Cavalier nel parcheggio di un asilo nido, Wasendorf è stato salvato da una delle mamme che era lì a prendere i bambini.

Wasendorf è sopravvissuto - anzi venerdì ha confessato una frode ventennale agli agenti dell’Fbi - ma Peregrine è deceduta, portandosi nella tomba le speranze e i risparmi di migliaia di persone. La società è in bancarotta ed i clienti - in gran parte agricoltori e piccoli imprenditori - non vedranno più i propri soldi. Il profilo becero del capitalismo anglosassone è in bella vista tra i cedri di Cedar Falls. Le recriminazioni e le inchieste sono già iniziate con le authority del settore sul banco degli accusati. Ma il danno più grave è stato fatto non ai conti in banca dei contadini dell’Iowa ma alla psiche già fragile degli investitori americani.

Dopo la crisi del 2007-2009, dopo il collasso di tre pilastri di Wall Street - la Bear Stearns, la Lehman Brothers e la Aig - dopo la frode da 50 miliardi di Bernie Madoff, questa proprio non ci voleva. I numeri sono incontrovertibili: Joe e Jane Sixpack hanno disertato i mercati. Dall’inizio della crisi, i piccoli investitori americani hanno venduto più di 450 miliardi di dollari di azioni e reinvestito gli utili in buoni del Tesoro o nei materassi. Il sogno americano di fare soldi con i soldi, di utilizzare le vaste risorse finanziarie del paese e i liquidissimi mercati per aumentare i propri standard di vita non funziona più, almeno per il momento. Tutti i sistemi di scambio - dai baratti della preistoria ai derivati di oggi, passando per eBay e Amazon - sono fondati sulla mutua fiducia tra compratori e venditori, su regole non scritte che dicono: «In generale, non penso che mi fregherai ed in cambio spero che tu non creda che io ti fregherò».

Gli eventi di Cedar Falls e di Londra mettono in dubbio il tacito contratto alla base della finanza mondiale. L’isteria dei politici - che in America raggiungerà livelli altissimi durante la campagna presidenziale tra il populista Obama e il super-capitalista Romney - non fa altro che amplificare la paura della gente, la sfiducia dei piccoli risparmiatori in un sistema troppo grande e complesso per essere comprensibile.

L’opinione pubblica vede solo nero. Non è incoraggiata dal fatto che, per esempio, in Inghilterra chi sbaglia paga, come è capitato ai capi della Barclays, o che i fallimenti stile-Peregrine sono tutto sommato abbastanza rari tra le migliaia di aziende finanziarie americane. L’aria che tira non è buona. Senza la fiducia, i mercati ed il capitalismo non possono funzionare: né a Londra né a Cedar Falls.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York. francesco.guerrera@wsj.com

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10333


Titolo: FRANCESCO GUERRERA. Non date per morta l'America
Inserito da: Admin - Luglio 30, 2012, 09:33:57 am
30/7/2012

Non date per morta l'America

FRANCESCO GUERRERA

La città si chiama Aurora ma da una settimana è il simbolo di un’America al tramonto.

La follia omicida di James Holmes, lo studente che ha ucciso 12 innocenti e ne ha feriti altri 58 alla prima di «Batman» in Colorado, ha sconvolto una nazione e accentuato la sua crisi di identità. I proiettili sparati dal 24enne con i capelli rossi e gli occhi da pazzo sono echeggiati nei televisori, case ed uffici di un paese che fa fatica a trovarsi ormai da anni. Non più superpotenza economica, senza un nemico chiaro con cui confrontarsi, e con il fiato della Cina sul collo, l’America è attanagliata dai dubbi.

L’atto barbarico di Holmes è un’altra batosta alla fragile psiche nazionale, la «prova» che nell’America di oggi nessuno è sicuro, nemmeno in un cinema di provincia del Colorado. Non se è possibile comprare 6000 pallottole per fucili e pistole su internet come fossero buoni del Tesoro.

L’ esortazione del presidente Obama - l’America deve far fronte al massacro di Aurora come «una grande famiglia» - è sintomatica del momento. Il carismatico «padre» del Paese, l’uomo più potente del mondo, non ha risposte, solo parole.

Con l’economia sull’orlo della recessione, il mondo della finanza alle corde e una quasi-guerra di classe tra i ricchi di Wall Street e i sempre più poveri che vogliono «occupare» il capitalismo, sembra naturale concludere che siamo ormai alla fine dell’impero americano. L’intelligencija fa la sua parte, riflettendo e fomentando l’idea che i giorni migliori del paese sono nello specchietto retrovisore.

Da ideologi di destra come Pat Buchanan - il consigliere di Nixon e Reagan che ha scritto un libro intitolato «Il suicidio di una superpotenza» - alla sinistra liberal di Thomas Friedman, il columnist del New York Times la cui ultima opera si intitola «That Used to Be Us» (Un tempo questi eravamo noi), il mormorio dei benpensanti è un coro di laudatores temporis acti.

Il parossismo, quasi parodico, di questa mentalità è esemplificato in un monologo nella nuova serie televisiva di Aaron Sorkin - il creatore della «West Wing» - ambientata in uno studio televisivo. Parlando ad un gruppo di studenti, il protagonista, un vecchio anchorman incarnato da Jeff Daniels, urla: «Quando dite che l’America è il migliore paese del mondo, non ho la più pallida idea di che cazzo parliate. Il parco di Yosemite?».

Ma siamo proprio sicuri che l’America sia in declino terminale? Aurora è un capitolo tragico e la congiuntura economica e finanziaria non è certo favorevole, ma pazzia e recessione non portano automaticamente alla decadenza di un paese come gli Stati Uniti.

I molti critici dell’America di oggi fanno un errore abbastanza basilare e ben noto a chi studia economia - confondendo fattori ciclici e fattori strutturali. Mi spiego. Non c’è dubbio che gli Stati Uniti siano in un momento di profonda crisi, economica e sociale. Ed è senz’altro possibile che l’economia Usa ricada nella recessione prima di essersi completamente ripresa dall’ ultima contrazione. I numeri sono deprimenti: dai dati sulla fiducia dei consumatori, al tasso di disoccupazione, al moribondo mercato immobiliare.

Persino il terziario, il settore dei servizi che ha tenuto l’economia a galla e dato posti di lavoro a milioni di persone per decenni, ha l’acqua alla gola. Basta guardare a Wall Street - che pochi anni fa era una fonte di orgoglio nazionale ed un’aspirazione per tanti giovani ed ora è diventata un sacco da pugile per politici, giornalisti e ragazzi del movimento «Occupy».

Attenzione, però, a sottovalutare gli Usa.

Chi li dà per morti deve prima considerare il contesto storico. Non è la prima volta che gli Stati Uniti hanno paura di essersi svegliati dal Sogno Americano. La Grande Depressione degli Anni 30, la crisi di fiducia scatenata dalla guerra in Vietnam e il senso d’impotenza rivelato dagli attacchi dell’11 settembre sono tre esempi di momenti critici nel passato di un paese ancora abbastanza giovane.

L’America è riuscita a superarli grazie alla flessibilità di un sistema politico - il federalismo - e di un’economia che, a differenza della rigidissima Europa, sono capaci di adattarsi ai tempi che corrono.

E’ possibile che la storia si ripeta in questo nuovo, difficilissimo, frangente. Un attento osservatore può già notare il cambiamento camelontico dell’economia americana, da gigante manifatturiero a mostro dei servizi, soprattutto finanziari, ed ora, campione di nuove tecnologie.

Non solo Facebook - una società che non esisteva nemmeno dieci anni fa ed Apple (e Google e Microsoft e Twitter etc etc). Ma anche esperimenti come Singularity, un’«università» non a scopo di lucro fondata da scienziati della Nasa, che è specializzata nello studio e nell’insegnamento di nuove tecnologie a gente in carriera.

O figure come Ray Kurzweil, l’inventore del software che permise ai computer di «ascoltare» voci umane e di tradurle sullo schermo. Ad una conferenza piena di manager d’impresa il mese scorso, ho sentito Kurzweil giurare di essere capace di «riprodurre» il cervello umano in un computer - una scoperta che, per esempio, potrebbe aiutare a debellare l’Alzheimer ed il morbo di Parkinson.

E se il futurismo non fa per voi, ci sono ragioni più concrete per temperare predizioni della fine dell’America. Il fatto, per esempio, che l’Unione Europea non sta proprio benissimo e che l’economia del Giappone è in stato semi-comatoso da decenni. Che persino la Cina ha bisogno dei consumatori americani per continuare a crescere. E che il dollaro rimane la moneta dominante ed il bene-rifugio più importante nell’economia mondiale - un ruolo fondamentale che aiuta l’economia Usa.

Senza considerare le ripercussioni sulla crescita economica di una possibile rivoluzione nel campo dell’energia made in Usa, soprattutto se le nuove scoperte di gas naturale e nuovi metodi di esplorazione mantengono le promesse.

Chi guarda ad Aurora e vede il tramonto dovrebbe prima darsi un’occhiata intorno.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10387


Titolo: FRANCESCO GUERRERA. Wall Street e City unite dai peccati
Inserito da: Admin - Agosto 12, 2012, 04:19:06 pm
12/8/2012

Wall Street e City unite dai peccati

FRANCESCO GUERRERA

Voi Americani del cavolo! Ma chi vi credete di essere per poterci dire di non trattare con l’Iran?». Queste parole di fuoco, urlate, secondo le autorità americane, da un dirigente della Standard Chartered - la banca inglese indagata per riciclaggio del denaro iraniano -, hanno innescato la miccia nella relazione-dinamite tra New York e Londra.
Le capitali del capitale sono ai ferri corti. Wall Street e la City – accomunate dalla passione per il denaro dei loro abitanti, ma sempre in lotta per diventare il centro internazionale della finanza – sono in rotta di collisione.

Il «casus belli» è inconsueto. Un’inchiesta a sorpresa di Ben Lawsky, un giovane procuratore di New York che questa settimana ha accusato Standard Chartered di aver «lavato» 200 miliardi di dollari iraniani in contravvenzione delle sanzioni Usa contro il regime di Teheran. La Standard Chartered nega tutto, ma la notizia ha scatenato un putiferio transatlantico. Boris Johnson, il popolarissimo sindaco di Londra, si è assentato dalle Olimpiadi per attaccare il «protezionismo finanziario» degli Usa. Alla sinistra di Boris, il parlamentare laburista John Mann ha accusato gli americani di «discriminazione anti-britannica». E persino Mervyn King, il pacato governatore della Banca d’Inghilterra, ha impersonato Tony Soprano, «consigliando» ai colleghi americani di andarci con i piedi di piombo nelle inchieste con le banche inglesi.

I britannici sono particolarmente sensibili in questo frangente perché altre due grandi banche – la Hsbc e la Barclays – sono state accusate dagli Usa di misfatti internazionali. Gli americani, dal canto loro, fanno finta di non capire le ramificazioni geopolitiche delle loro azioni, chiedendosi con falso stupore come mai gli inglesi abbiano reagito con tale virulenza ad inchieste di autorità giudiziarie indipendenti. Lawsky, in questo momento, è il nemico numero uno della City, ma le ragioni di fondo della tensione tra i due poli del sistema finanziario vanno ben al di là di un giovanotto che si crede Eliot Ness negli «Intoccabili».
Il bel Lawsky, con i suoi capelli alla Tom Cruise e i vestiti di ottimo taglio, è solo il simbolo della guerra fredda tra due città e due culture che sono con l’acqua alla gola sin dal terremoto finanziario del 2008.

Con i mercati allo sbaraglio, le economie in coma ed il settore bancario in ritirata, New York e Londra sono nel mezzo di una crisi d’identità. Disorientate e ferite, le due città si azzuffano per prendere quello che è rimasto del settore finanziario. «La recessione non ci si addice», mi ha detto un capo di Wall Street l’altro giorno. «Noi finanzieri siamo creature del boom. Quando la situazione peggiora non sappiamo più cosa fare».

Lo stesso si può dire delle città che ospitano questa strana razza umana: gente di grandissima intelligenza e ambizione, ma motivata quasi esclusivamente dal fare soldi. Ho passato gli ultimi vent’anni in tre capitali del denaro – Londra, Hong Kong e New York (con un interludio a Bruxelles) – e il filo conduttore è molto chiaro: la classe finanziaria ha la capacità di dominare, influenzare e snaturare un’intera città. Dai ristoranti ai taxi, dai prezzi delle case alla prostituzione, il potere dei signori in giacca e cravatta (e delle poche signore in tailleur) è immenso. 200 sterline per una «Ferrari infuocata», un cocktail con rum, Grand Marnier e Chartreuse? Non c’e’ problema. Appartamenti per 60 milioni di dollari con il campo di basketball privato? Subito, sir. Cocaina come se piovesse? Ma certo.

Nei periodi di boom, gli altri vivono di luce riflessa, tentando di servire quest’aristocrazia del dollaro (e della sterlina) o di diventare uno di loro.
Durante le crisi, però, quest’economia dell’eccesso non funziona più: i banchieri e gli operatori vengono licenziati, i ristoranti chiudono e anche gli spacciatori hanno poco da fare. E le città soffrono.

L’anno scorso, il settore finanziario ha contribuito con il 14 per cento alle entrate fiscali dello stato di New York, molto meno del 2010, quando un dollaro di tasse statali su cinque veniva da un banchiere o operatore di Borsa.
Il sindaco di New York Michael Bloomberg, che da buon miliardario di soldi se ne intende, lo ha spiegato bene: «Non torneremo più ai bei tempi, quando le tasse pagate da una Wall Street in stato di grazia coprivano tutti i debiti». A Londra, la situazione è simile, visto che un settore che contribuisce a quasi il 10% del Pil è in crisi ormai da anni.
E allora le due città lottano per accaparrarsi quello che possono: posti di lavoro, quartier generali delle banche, tasse.

Non è solo orgoglio nazionale che ha portato l’establishment britannico ad esplodere quando Lawsky ha chiamato Standard Chartered – una banca antica e all’antica – un’«istituzione-canaglia».
E’ stata anche la paura di essere visti come un posto dove i servizi finanziari sono sporchi, dove anche i pilastri più solidi del sistema, quale Standard Chartered, si stanno decomponendo. «Non vogliamo diventare la Las Vegas della finanza», ha protestato un banchiere inglese.

La realtà è che sia New York sia Londra sono sempre state un po’ Las Vegas, soprattutto nei periodi di vacche grasse. Per anni, la City si è offerta a banche ed hedge funds come la campionessa della «light-touch regulation», il posto dove le autorità di settore non disturbano più di tanto. E Wall Street, nonostante procuratori aggressivi come Eliot Spitzer e Ben Lawsky, ha spesso chiuso uno o due occhi sugli scandali e i peccati dei suoi abitanti. Tra i casi di «insider trading», il macello dei mutui subprime e le varie truffe finanziarie degli ultimi anni, New York non può proprio scagliare la prima pietra.
Indispensabili per il funzionamento del capitalismo mondiale, Londra e New York hanno scoperto di avere un altro elemento in comune: nessuna delle due è senza peccato.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York
francesco.guerrera@wsj.com

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Titolo: FRANCESCO GUERRERA. Stupido, non è l'economia
Inserito da: Admin - Settembre 27, 2012, 02:32:10 pm
24/9/2012

Stupido, non è l'economia

FRANCESCO GUERRERA

«E’ l’economia, stupido». Lo slogan coniato da James Carville, il grande stratega del partito democratico, per un candidato presidenziale dal nome di William J. Clinton nel 1992 è una delle pietre miliari della politica americana.

Clinton fece il resto. Con l’economia Usa in grave crisi e la disoccupazione alle stelle, il giovane governatore dell’Arkansas combinò i suoi talenti oratori con l’intuizione di Carville per distruggere George Bush padre e conquistare la Casa Bianca.

Vent’anni dopo è il partito repubblicano a sperare che la storia si ripeta.

La crescita economica è anemica, la disoccupazione a livelli altissimi e salari, redditi e patrimoni della classe media sono al ristagno ormai da anni. Mitt Romney, il businessman diventato politico, si presenta agli elettori come un manager competente ed industrioso, capace di risolvere una situazione difficilissima meglio di Obama.

Per i fan di Romney, la prova c’è già: Mittpresidente farebbe al paese quello che fece nel 2002 quando salvò le Olimpiadi invernali di Salt Lake City dalla bancarotta e dal ridicolo.

«In questo frangente, chi volete: uno che il business l’ha vissuto in prima persona, o un professore di legge di Chicago?» e’ stata la domanda, retorica, di uno dei tanti capi di Wall Street che è passato dall’amore spassionato per Obama al sostegno, finanziario e politico, per Romney.

In teoria, Romney è in una situazione ideale per attaccare il Presidente.

Uno su dodici americani in cerca di lavoro è disoccupato: più di dodici milioni di persone. Ed ormai lo sanno pure i bambini dell’asilo che nessun Presidente americano del dopoguerra è stato rieletto con un tasso di disoccupazione così alto.

L’economia sta crescendo più di zone disastrate come l’Unione Europea, ma è lontanissima dai livelli di ripresa che ci si aspetta quattro anni dopo una recessione e crisi finanziaria. Ed i consumatori, il tradizionale polmone dell’economia americana, sono ancora in fase di choc dopo il crollo rovinoso del mercato immobiliare nel 2007-2009.

Le ultime statistiche hanno rivelato che, nel 2011, i redditi medi delle famiglie americane sono diminuiti o rimasti uguali in quasi tutti gli Stati dell’Unione. Il reddito di una famiglia «tipica» è intorno ai 50.000 dollari l’anno - un livello bassissimo che non si vedeva dalla metà degli Anni 90, proprio quando Clinton sconfisse Bush.

Perquellocheriguardaleimprese,adifferenza di altre fasi di crisi, questa volta gli imprenditori non possono contare su mercati esterni. Con l’Europa in crisi, la Cina in fase di rallentamento e il «miracolo economico» dell’America Latina sempre meno miracoloso, la domanda per le esportazioni made in Usa è flaccida.

Le società ne soffrono perché dopo anni di tagli di costi e diete drastiche, «corporate America» non ha più molto peso da perdere. Tra giugno e settembre, gli utili delle società Usa sono calati - la prima volta in tre anni che il grande motore dell’industria americana non è riuscito a fare più soldi che nei tre mesi precedenti.

«Se tagli e tagli, alla fine arrivi all’osso», mi ha detto, con una smorfia amara, l’amministratore delegato di una società manifatturiera la settimana scorsa.

Se fosse «l’economia, stupido», Romney dovrebbe vincere a mani basse. Ed invece è lì che arranca dietro ad Obama nei sondaggi d’opinione, nonostante i tentativi dei suoi consiglieri di portare il dibattito sullo stato di bilancio dell’impresa-Usa. «Sappiamo tutti quello che ha fatto Obama negli ultimi quattro anni», ha intonato Romney questa settimana in Florida. «Ha creato un’economia che è alla frutta».

Parole che, una volta purificate dalla retorica elettorale, dovrebbero essere musica per le orecchie delle classi medie americane.

Invece sembra quasi che gli elettori stiano guardando ad un’economia diversa da quella criticata da Romney.

Quando il Wall Street Journal e la Nbc hanno chiesto a cittadini di tre Stati chiave nelle elezioni del 6 novembre - il Colorado, il Wisconsin e l’Iowa - chi fosse il candidato migliore per l’economia, Obama ha «vinto» in tutti e tre. A livello nazionale, Obama e Romney sono testa a testa su chi sarebbe meglio per l’economia (43 per cento l’uno). Due mesi fa, Romney era preferito da quasi metà dell’elettorato.

Cosa sta succedendo? Il grande pubblico americano sembra convinto che la traiettoria dell’economia americana sia in crescita e ripresa, che la situazione sia in via di miglioramento, un miglioramento per cui il merito, al momento, va ad Obama.

La realtà è diversa: è vero che il mercato immobiliare sta dando segnali di vita ma il progresso del sistema-Usa è lento e quasi impercettibile ed, in ogni caso, il merito andrebbe non all’amministrazione ma alla Federal Reserve di Ben Bernanke che ha pompato miliardi di dollari nell’economia.

Ma, a meno di due mesi dalle elezioni, la verità conta poco. Come mi ha spiegato un consigliere di Obama, «la realtà è nella mente degli elettori». E la mente degli elettori pensa che siamo sulla via del recupero. Nello stesso sondaggio del Wsj e della Nbc, più del 40% dei votanti ha predetto che l’economia migliorerà, mentre solo il 18% ha detto che peggiorerà.

Sono numeri difficili da digerire per un candidato repubblicano che ha fatto della competenza economica la sua arma più potente.

Nelle prossime sette settimane - tra dibattiti presidenziali, spot pubblicitari e una campagna elettorale forsennata intorno agli Usa - tutto è possibile.

Ma se il manager Romney venisse sconfitto dal professor Obama, la lezione per candidati presenti e futuri sarà che non è tanto «l’economia, stupido», ma «la direzione dell’economia, stupido».

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York. francesco.guerrera@wsj.com

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10563


Titolo: FRANCESCO GUERRERA. Il 6 novembre deciderà il portafogli
Inserito da: Admin - Ottobre 23, 2012, 05:48:52 pm
editoriali
22/10/2012

Il 6 novembre deciderà il portafogli

 
Francesco Guerrera

Prendi un lunedì sera uggioso nella Grande Mela. 

Io seduto su una poltrona un po’ troppo comoda in un’aula della New York University. Accanto a me, Paul Volcker, il leggendario capo della Federal Reserve che sconfisse l’inflazione negli Anni 80. Davanti a noi, più di 400 persone venute a sentire l’eminenza grigia della politica economica americana degli ultimi quarant’anni.

Ad un certo punto chiedo a Volcker, «Mr. Chairman, secondo lei qual è il pericolo più grande per l’economia Usa in questo momento?». E’ una domanda retorica. La risposta che mi aspetto, che si aspettano un po’ tutti dal lucido e grintoso ottuagenario è un’invettiva contro l’inflazione, un monito alla Fed di oggi di stare attenta all’aumento dei prezzi.

Ed invece, Volcker mi guarda, fa un sorriso un po’ monello, si gira verso il pubblico e dice: «E’ semplice. Il problema più grande dell’economia americana è che il paese è spaccato a metà».

Il resto della risposta non contiene né numeri né complicati termini economici. Solo una diagnosi spassionata di come gli Usa di oggi siano divisi. Tra destra e sinistra, ricchi e poveri, giovani e vecchi, uomini e donne. Volcker, che si è sempre erto al di sopra della politica dei partiti, conclude con una nota d’ottimismo. «Spero che le elezioni ci aiutino a colmare le nostre differenze».

Meno di 24 ore dopo, i due uomini chiamati a colmare quelle differenze, Barack Obama e Mitt Romney, si sono scannati in diretta televisiva in un dibattito presidenziale che sembrava un match tra pesi massimi.

Sentire il presidente democratico e il pretendente repubblicano attaccare i valori e le politiche dell’altro è stata la dimostrazione più evidente di un’America in crisi d’identità. 

La scelta delle elezioni presidenziali del 6 novembre è netta su quasi tutti i temi: dalla politica estera all’aborto, passando per la sanità e la difesa. Il trucco della politica americana degli ultimi 50 anni, che le elezioni si vincono al centro, non sembra funzionare in questa campagna elettorale.

Ma la differenza più inequivocabile tra Obama e Romney è sull’economia. L’elettorato Usa dovrà scegliere tra l’interventismo populista del presidente e il «laissez-faire» individualista del candidato.

Chiunque vinca dovrà, comunque, salvare il paese dal «precipizio fiscale» prima della fine dell’anno, trovando un accordo con il Congresso per postporre gli aumenti di spesa e la fine di esenzioni fiscali che potrebbero causare un’altra recessione.

Ma anche se gli Usa non verranno trafitti da quella spada di Damocle, le conseguenze dell’elezione saranno profonde. Se Obama rimane alla Casa Bianca, «il segretario del Tesoro sarà John Maynard Keynes», si è lamentato uno scetticissimo banchiere di Wall Street.

Voleva dire che ci saranno aumenti di spesa pubblica e rincari delle tasse, soprattutto per i più ricchi (come lui). Sulla spesa il presidente non ha detto granché visto il deficit enorme degli Usa e la riluttanza storica dei politici americani a parlare di costi in campagna elettorale.

Ma sul secondo punto, Obama è stato chiarissimo, dicendo di voler imporre un’imposta del 30% su chi guadagna più di un milione di dollari l’anno. Il Presidente l’ha chiamata «la tassa Buffett», ricordando a tutti che il miliardario Warren Buffett - l’investitore più famoso del mondo - ha spiegato di recente come non sia giusto che lui paghi meno tasse della sua segretaria.

Se l’idea degli uomini del Presidente era quella di usare Buffett come scudo umano contro accuse di socialismo, non ha funzionato. Sono ormai mesi che i repubblicani accusano Obama di voler fare «la lotta di classe» per meschini fini politici. 

Per Romney - un milionario che ha fatto soldi a Wall Street e paga circa il 15% di tasse - le idee di Obama e Buffett distruggerebbero il sogno americano, asfissiando il fervore imprenditoriale che ha creato società quali Microsoft, Google ed Apple.

Nella tradizione della destra americana, Romney vuole che il governo si tolga di mezzo, lasciando gli individui a decidere da soli come diventare ricchi e contenti. Con Romney nell’ufficio ovale, la redistribuzione del reddito, lo stato sociale e la sanità, sarebbero delle Cenerentole da lasciare a sinistrorsi ed europei.

Mitt dice di voler essere un presidente alla Ronald Reagan, tutto sgravi fiscali e liberalizzazioni, mentre Barack promette un secondo quadriennio tra Bill Clinton e Franklin Delano Roosevelt.

Due filosofie politiche ed economiche in pieno conflitto con se stessi ma non con il paese. Uno dei motivi principali per cui la corsa alla presidenza è così in bilico è che le ricette proposte dai due candidati rispecchiano le divisioni dell’America. 

La dura recessione del dopo-crisi ha colpito le classi medie in maniera sproporzionata, perché gran parte del loro patrimonio è sparito con l’implosione del mercato immobiliare. Il risultato è stato un aumento nel divario tra classi sociali. Dal 2008, l’1% dei più ricchi ha ricevuto quasi un quarto del reddito Usa, una cifra enorme.

Se si passa dai salari al patrimonio, aggiungendo gli investimenti ed altre entrate, il divario diventa un baratro. L’1% in questo momento controlla un terzo del patrimonio nazionale statunitense.

Per Romney e i suoi, questo è un fenomeno naturale che dovrebbe spronare altri a lavorare di più e meglio per entrare nel Gotha della ricchezza. Il ruolo del governo, in questo caso, è di facilitare, ma non influenzare il processo.

Per Obama e la sua base, invece, la sperequazione tra ricchi e poveri è «ingiusta» e va rettificata con interventi statali sia sul fronte fiscale che su quello della spesa. Con buona pace di Aristotele e Confucio, in questa dialettica non c’è giusto mezzo. 

Le differenze sono ancora più lampanti per ch

i lascia i numeri a casa e scende nelle strade e nelle piazze. Un giro a New York, come anche a San Francisco e a Houston, dimostra che le grandi auto e le scarpe di pelle italiana dividono le strade con barboni senza tetto e mendicanti vestiti di stracci. 

Non è un caso che quest’economia Usa abbia prodotto due movimenti popolari e populisti - l’Occupy Wall Street a sinistra e il «Tea Party» a destra - che attaccano lo status quo e chiedono cambiamenti radicali (anche se opposti). Nelle urne del 6 novembre, gli americani sceglieranno il leader del mondo libero più con il portafogli che con il cuore.

 
Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New Yorkfrancesco.guerrera@wsj.com 

da - http://lastampa.it/2012/10/22/cultura/opinioni/editoriali/il-novembre-decidera-il-portafogli-pLbXGpI409nZEaWyoXny5I/pagina.html


Titolo: FRANCESCO GUERRERA. I mercati non vanno alla festa
Inserito da: Admin - Novembre 08, 2012, 11:28:55 pm
Editoriali
08/11/2012

I mercati non vanno alla festa

Francesco Guerrera


L’America che si è svegliata mercoledì mattina non è tanto diversa dall’America che era andata a letto martedì sera. Lo stesso inquilino della Casa Bianca, lo stesso Congresso spaccato a metà tra repubblicani e democratici, la stessa economia senza infamia e senza lode. 

 

Eppure... Eppure qualcosa è successo nel segreto dell’urna, tra i pensieri e le fatiche di milioni di cittadini che hanno vissuto la Grande Recessione del 2008-2009, tra le speranze di un Paese che ha fatto dell’ottimismo la sua ragione d’essere.

Il momento più importante della lunghissima nottata elettorale è stato, per me, quando i sondaggi della Cnn hanno rivelato che gli elettori in uscita dai seggi preferivano Barack Obama a Mitt Romney come «gestore» dell’economia. 

 

Quando ho visto gli exit polls ero seduto di fronte all’enorme schermo televisivo in redazione ed ho detto ad un collega, romniano di ferro: «E’ finita. Non ce la farà».

 

Gli americani non sono riusciti a fidarsi del businessman Romney nemmeno dopo quattro anni di recessione e ripresa anemica, con la disoccupazione quasi all’8% - un livello altissimo per gli Usa - e una montagna di debito che sembra il Mount Rushmore.

 

Ci sono, ovviamente, altre ragioni per la vittoria abbastanza facile di Obama - la grande partecipazione di ispanici, neri e donne; un partito repubblicano che ha preso posizioni troppo estreme su temi quali l’aborto e l’immigrazione, ed il «fattore umano» di un Presidente che sembra nato per fare campagna elettorale ed uno sfidante che sembra nato per stare nell’ufficio d’angolo con vista sui grattacieli.

 

Prima delle elezioni scrissi che gli americani avrebbero votato con il portafogli. Martedì, il Paese ha puntato il portafogli verso Obama e gli ha detto: «Hai quattro anni per riempirlo!».

 

Con il pallino dell’economia in mano, il Presidente uscente e rientrante ha il compito di fare meglio del primo quadriennio. 

 

Ce la farà? I mercati ieri non erano proprio ottimisti, con gli indici guida in crollo un po’ in tutto il mondo (bisogna dire che i venti gelidi di recessione provenienti dall’Europa e le immagini violente della Grecia non hanno aiutato il morale).

 

Ma gli investitori hanno la memoria corta e Obama II dovrà fargli dimenticare presto l’indigestione post-elettorale. 

 

Appena ritorna nell’ufficio Ovale, il Presidente si troverà a far fronte a tre questioni importantissime. Prima di tutto, la ripresa economica. A breve termine, la crescita dipende quasi tutta dal «burrone fiscale», il cocktail micidiale di rialzi di tasse e tagli di spesa che potrebbe far ricadere l’America nel baratro della recessione.

Le regole del gioco sono semplici: la Casa Bianca ed il Congresso devono trovare un accordo prima della fine dell’anno per non sprofondare nel burrone. Gli investitori e i banchieri pensano che un compromesso verrà raggiunto ma hanno paura che lo scontro d’interessi politici discordanti renda i negoziati lunghi ed incerti, innervosendo i mercati e invogliando le agenzie di rating a bocciare il debito Usa, come successe nell’agosto del 2010.

 

«Questo film già l’abbiamo visto e non c’è piaciuto per niente», mi ha detto il capo di un grande fondo d’investimento. «Non abbiamo nessuna intenzione di vederne la replica».

 

A lungo termine, però, la questione più importante sarà come stimolare un’economia che sta crescendo ma molto lentamente. Qui tutto dipende dalla Federal Reserve, che ha promesso di tenere i tassi d’interesse bassissimi fino almeno al 2015 e sta pompando miliardi di dollari nell’economia per aiutare sia il mercato del lavoro sia quello delle case. 

 

La ri-elezione di Obama in questo senso aiuta perché, a differenza di Romney, il presidente ha già detto di essere in favore di una politica monetaria espansionista. Anche se il team economico del Presidente cambierà, con l’uscita certa del Segretario del Tesoro Tim Geithner e quella quasi sicura del capo della Fed Ben Bernanke, le politiche di stimolo rimarranno le stesse.

 

Il secondo punto caldo sull’agenda di Obama è di colmare il divario gigante tra la Casa Bianca e Wall Street. Quasi tutti i grandi banchieri di New York si sono schierati con Romney, nella speranza che un Presidente repubblicano smantellasse il labirinto di regole costruito dall’amministrazione precedente.

La vittoria di Obama complica la situazione perché lo zoccolo duro dei fan del Presidente - i sindacati, i lavoratori e le minoranze etniche - vuole punire le banche che hanno contribuito alla crisi del 2007-2008. Allo stesso tempo, però, il Paese ha bisogno di istituzioni finanziarie che finanzino individui ed imprese ed accelerino la ripresa economica.

 

«In un modo o nell’altro, dovremo trovare del terreno comune. Conviene a noi e conviene a lui», mi ha detto uno dei grandi banchieri di Wall Street. Un sentimento nobile ma difficile da realizzare, soprattutto se il Presidente continua con la retorica anti-Wall Street che ha utilizzato spesso e volentieri durante la campagna.

E poi ci sono i mercati. Gli imprevedibili e spesso incomprensibili mercati che reagiscono in maniera rapida e violenta a notizie di tutti i tipi. In un certo senso, questo è il compito più difficile del Presidente in materie economico-finanziarie. Obama si trova di fronte un interlocutore irrazionale con cui non può negoziare.

A giudicare dalla reazione di ieri, gli investitori non hanno nessuna intenzione di lasciare un periodo di «luna di miele» al Presidente. Come il giocatore viziato di football americano di «Jerry Maguire» stanno chiedendo alla Casa Bianca di mostrargli i soldi.

 

Nella notte di martedì, sul podio del suo quartier generale a Chicago, il nuovo/vecchio Presidente ha promesso che «il meglio dell’America deve ancora venire». Prima di applaudire, i mercati, gli investitori e Wall Street vorranno vedere dei fatti. 

 

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York. Francesco.guerrera@wsj.com 

 da - http://www.lastampa.it/2012/11/08/cultura/opinioni/editoriali/ma-i-mercati-non-vanno-alla-festa-pjWW81G8YLzbg9HKUFhSxI/pagina.html


Titolo: FRANCESCO GUERRERA. L’addio ai bonus che spaventa Wall Street
Inserito da: Admin - Dicembre 03, 2012, 06:46:49 pm
Editoriali
03/12/2012

L’addio ai bonus che spaventa Wall Street

Francesco Guerrera*


«Forse è venuto il momento di vendere qualche pezzo della nostra collezione d’arte moderna». Per capire la psicologia di Wall Street, bisogna parlare con le mogli dei banchieri. Quella frase, uscita dalla bocca con molto rossetto ma senza ironia di una delle «first ladies» della finanza statunitense, incapsula il momento difficile dei piani alti del settore bancario. 

 

La collezione - che ho visto di persona ed è veramente ottima - è il frutto di decenni di bonus, il prodotto elegante e costoso di una carriera nella corsia di sorpasso del capitalismo.

 

Ora però il raffinato banchiere, la bella moglie, e molti altri come loro, sono al bivio: dopo la crisi finanziaria del 2008, le buste paga che permisero di comprare quadri di Miró e sculture di Henry Moore sono scomparse, ma lo stile di vita altissimo a cui sono abituati è difficile da abbandonare. Negli anni delle vacche grasse, novembre e dicembre erano mesi fantastici per New York, la City di Londra e le altre capitali della finanza: dopo un anno di duro lavoro, banchieri ed operatori di Borsa aspettavano con gioia, soddisfazione e trepidazione di intascare bonus principeschi. Per chi, come me, ha l’onore e l’onere di stare dietro ai grandi del denaro, il periodo pre-natalizio era passato a respingere inviti a bere un altro bicchiere di Dom Perignon in ristoranti d’alto rango. E a ripetere regole deontologiche su pagamenti di cene che sapevo avrebbero fatto rabbrividire i contabili del mio giornale. Non quest’anno: le scosse di assestamento del terremoto finanziario del 2008 stanno facendo tremare i portafogli di Wall Street. La regola semplice ed efficace alla base della finanza mondiale - un’industria dedicata a muovere denaro tra i vari agenti economici in cambio di una fetta sostanziosa dei ricavi - è stata compromessa, forse fatalmente, dal disastro di quattro anni fa.

 

Le previsioni variano ma anche le stime più conservatrici predicono che i bonus del 2012 caleranno del 30-40% dal livello, pure non elevatissimo, dell’anno scorso. E non tutti gli incentivi saranno in contanti. Le nuove regole del gioco del dopo-crisi, almeno in America, stipulano che due-terzi dei bonus siano pagati in azioni delle banche che non possono essere vendute per anni. In realtà, ricevere un bonus dovrebbe già essere un privilegio in un settore che ha perso più di 300.000 posti di lavoro negli ultimi anni. Da giganti americani come Citigroup e Goldman Sachs a rivali europee come Ubs e Deutsche Bank, le banche occidentali hanno buttato fuori dipendenti come fossero alberi di Natale il giorno dopo la Befana.

 

Per i ragazzi di Occupy, e gli altri critici di Wall Street, questa è la giusta fine per una classe dirigente grassa, avida ed arrogante. Perché preoccuparsi di un banchiere che è costretto a vendere un Miró per pagare il botox alla moglie quando ci sono milioni di senza-lavoro da Phoenix a Palermo? Invece di lavorare per dieci milioni l’anno, i signori e le signore nei gessati si dovranno «accontentare» di un milione o due. Sarà dura ma ce la faranno. Argomenti ragionevoli e forse anche «giusti» dal punto di vista etico ma che però dimenticano due fatti fondamentali della finanza: è un settore pressoché indispensabile per la crescita economica; ed è l’unica industria in cui la maggioranza dei lavoratori sono motivati esclusivamente dal denaro.

 

La prova del primo punto sta proprio negli effetti rovinosi della crisi del 2008. Il fallimento di una American Airlines - la più grande compagnia aerea americana - o della General Motors - il gigante automobilistico di Detroit - fa male ai dipendenti e a agli azionisti ma non ha la capacità di distruggere l’economia mondiale.

Bastò invece il collasso di una banca d’affari importante ma non grandissima come la Lehman Brothers per spingere il mondo intero nella recessione, scioccando i mercati e paralizzando il commercio mondiale. E’ una asserzione forse sgradevole ma vera: senza la finanza e i banchieri, l’economia non si può muovere, ma senza il denaro i banchieri non si muovono. Privati dell’incentivo monetario, gran parte di banchieri ed operatori utilizzerebbero la loro intelligenza e talento in maniera diversa. Ho perso ormai il conto dei mancati fisici, scienziati, maestri di scuola, scrittori e matematici che sono finiti in giacca e cravatta per via delle profumatissime ricompense offerte dalla finanza.

 

«E’ il dilemma di noi tutti - mi ha detto un signore di Wall Street -. Vale la pena lavorare come cani tutti i santi giorni se la remunerazione non è più la stessa?».

 

Il pericolo non è tanto che lui, o quelli come lui, lascino. Come i vecchi operai di fabbrica, i veterani della finanza non sanno fare altro e non sono tipi da pensionamento anticipato. Il vero problema è se i giovani di belle speranze di Harvard, Oxford e della Bocconi decidono in massa che la finanza non fa più per loro, perché la vedono come sporca, poco lucrativa od entrambe. O se le banche, incapaci di fare soldi come un tempo, smettono di assumere. Se ciò accadesse, il riflesso condizionato dell’opinione pubblica sarebbe quello di applaudire il ridimensionamento della finanza.

 

Attenzione, però, alle conseguenze a lungo termine. Un «drenaggio dei cervelli» in un settore così fondamentale potrebbe avere serie ripercussioni per il resto dell’economia. La storia del capitalismo insegna che, dopo questo periodo di tumulto e cambiamento radicale, raggiungeremo un «equilibrio», probabilmente con salari più bassi e banchieri diversi, motivati da fattori non solamente legati al soldo. Ma ci vorrà del tempo, forse una generazione intera, perché la manovalanza del denaro impari nuove regole e si adegui a stili di vita diversi e, diciamolo chiaramente, inferiori.

 

Nel frattempo, gli slogan di Occupy dovranno trovare modo di co-esistere con le collezioni d’arte moderna dei ricchi di Wall Street. Che ci piaccia o no.

 

*caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York 

francesco.guerrera@wsj.com 

Twitter: @guerreraf72 

da - http://lastampa.it/2012/12/03/cultura/opinioni/editoriali/l-addio-ai-bonus-che-spaventa-wall-street-Of5D3l88z01sVUalbOBFvN/pagina.html


Titolo: FRANCESCO GUERRERA. Tasse e politica l’America resta divisa
Inserito da: Admin - Gennaio 02, 2013, 05:22:34 pm
Editoriali
02/01/2013

Tasse e politica l’America resta divisa

Fancesco Guerrera*


«Il nostro problema», dice lo splendido Daniel Day-Lewis nel «Lincoln» di Steven Spielberg, «è l’incapacità a comunicare l’uno con l’altro». 

Il presidente americano si riferiva al dialogo tra sordi tra repubblicani e democratici sulla questione della schiavitù nel 19° secolo ma la frase funziona ancora nel 21° secolo. Anzi è lo slogan perfetto per descrivere gli interminabili negoziati tra gli stessi due partiti sul «burrone fiscale», la combinazione di tagli di spesa e aumenti di tasse che negli ultimi mesi ha paralizzato Washington e messo a rischio la ripresa dell’economia americana. 

 

Dopo aver portato gli Usa sull’orlo del «fiscal cliff», il precipizio fiscale, la Casa Bianca e i repubblicani al Congresso hanno trovato un accordo poco prima della fine del 2012, pieno di compromessi, mezze misure e decisioni rimandate.

 

Le imposte sui redditi verranno aumentate per la prima volta in vent’anni ma solo per i più ricchi: chi guadagna $ 400.000 l’anno, o coppie che insieme guadagnano $ 450.000; le stesse persone pagheranno tasse più alte sulle plusvalenze, dal 15% attuale al 20% che era in voga all’epoca di Clinton, mentre le tasse di successione saliranno dal 35% al 40% per eredità superiori ai 5 milioni di dollari.

 

Per quello che riguarda le riduzioni di spesa, invece, 110 miliardi di dollari di tagli già decisi sono stati rimandati di due mesi perché non c’era accordo sul come procedere. 

 

Tutto qui? Dopo settimane e settimane di logorroici dibattiti e accuse incrociate all’altro partito di non volere «mettere ordine nella casa fiscale degli Usa»? Il patto di capodanno evita il crollo nel burrone economico ed il ritorno della recessione ma non risolve nessuno dei problemi fiscali e di deficit che gli Usa si portano dietro ormai da anni.

 

E le incertezze non sono solo economiche. L’America che si è specchiata nei litigi dei partiti sul «fiscal cliff», si è trovata divisa, irritabile e polarizzata – un Paese non sereno e poco sicuro di sé che guarda con ansia al futuro.

«Come mai è così difficile trovare un accordo?» mi ha chiesto la settimana scorsa un vecchio lobbista di Washington, uno che di battaglie politiche ne ha viste e vissute eppure non riusciva a capire il nulla di fatto sul «fiscal cliff».

 

La realtà è che gli Stati Uniti si trovano in un momento particolare della loro storia. I due partiti condividono il potere (i democratici hanno la Casa Bianca e il Senato, i repubblicani la Casa dei Rappresentanti) ma sono nettamente distanziati sul piano ideologico e politico.

 

Entrambi sono stati messi sotto pressione da ali estreme: il «Tea Party» di Sarah Palin per i Repubblicani e la sinistra dei ragazzi di «Occupy» per i Democratici. Il risultato è un divario ideologico che i tradizionali giochi di potere di Washington non riescono a colmare.

 

Come mi ha detto un veterano dell’amministrazione di Bill Clinton l’altro giorno, «Washington non funziona più perché i due partiti sono stati costretti ad uscire da Washington».

 

Le discrepanze sul burrone fiscale sono solo un sintomo di un malessere ben più profondo: l’America è spaccata a metà – dal punto di vista economico, politico e sociale. La sperequazione tra ricchi e poveri è ai livelli più alti del dopoguerra e le difficoltà degli ultimi anni – il crollo del mercato immobiliare e gli altissimi livelli di disoccupazione – hanno esacerbato la divisione tra gli «haves» e gli «have nots», «chi ha» e «chi non ha».

 

Il welfare state, una delle pietre angolari della società americana ed uno strumento importante di ridistribuzione economica, è sull’orlo della bancarotta per motivi demografici – troppi vecchi che si prendono la pensione e le medicine a poco prezzo e non abbastanza giovani per pagare i conti – e politici: la riluttanza storica di Washington ad aumentare le tasse.

 

L’accordo sul «fiscal cliff» doveva essere l’inizio della soluzione ed invece è diventato l’ultimo problema. Le divisioni politiche e la litigiosità del sistema di governo Usa hanno fatto sì che nessuna delle questioni strutturali del debito pubblico e welfare state verrà affrontata.

Vi dò un esempio. Nel 1965, il debito pubblico degli Usa era pari al 38 per cento del prodotto interno lordo. Oggi è al 74 per cento. Tra un decennio sarà un insostenibile 90 per cento e arriverà al 247 per cento tra trent’anni. Nessun Paese può vivere con questi numeri, figuriamoci l’economia più grande del pianeta. 

Ma il patto tra la Casa Bianca ed i repubblicani non fa assolutamente nulla per ridurre quei numeri spaventosi perché rifiuta di far fronte alla scelta fondamentale, e difficilissima, che è di fronte agli Stati Uniti: ridurre le dimensioni del welfare state, tagliando servizi, o aumentare le tasse in maniera decisiva per pagarne le bollette.

Nessuno dei due ingredienti è nella ricetta utilizzata dal vice-presidente Joe Biden e i leader repubblicani per il patto di capodanno. Ed è per questo che l’accordo è rachitico. Un patto piccolo piccolo che permette di dire a Barack Obama e alla leadership repubblicana che l’intesa è stata trovata ma i cui effetti saranno effimeri, come i fuochi d’artificio di capodanno.

 

Dov’è Lincoln quando ne abbiamo bisogno?

 

* È il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York 

francesco.guerrera@wsj.com e su Twitter: @guerreraf72 

da - http://www.lastampa.it/2013/01/02/cultura/opinioni/editoriali/tasse-e-politica-l-america-resta-divisa-aQtwFqEXkzQwe4Iyai0DcO/pagina.html


Titolo: FRANCESCO GUERRERA. Wall Street, l’isola felice (che non c'è)
Inserito da: Admin - Marzo 10, 2013, 11:25:27 am
Editoriali
10/03/2013

Wall Street, l’isola felice (che non c'è)

Francesco Guerrera


Ci vorrebbe Edoardo Bennato per raccontare il nuovo record raggiunto dal mercato azionario americano questa settimana. L’isola felice della Borsa Usa è proprio l’isola che non c’è, un’utopia dei mercati che non riflette la situazione economica della gente comune, i malesseri politici in Europa, America e Cina, e nemmeno il punto di vista di aziende ed imprenditori. 

 

Ero al telefono con uno dei pochi traders che è ancora nella vecchia Borsa di New York - e non davanti ad un computer nel New Jersey o alle Hawaii - martedì mattina, quando l’indice guida dei mercati mondiali Usa, il Dow Jones, ha passato il record di 14164.63 punti . Mi aspettavo un’esplosione di gioia, con altri operatori che gli avrebbero strappato la cornetta per gridare la loro esultanza. Sotto sotto, speravo di essere invitato al party del record, con champagne e caviale per celebrare un momento storico. Ed invece c’è stato un lungo momento di silenzio e poi un sospiro, forse sollievo, forse noia. «Vabbe’… vedremo», mi ha detto il mio trader. «Vedremo». Né grida, né inviti, né caviale.
Un giorno qualunque nella vita dei mercati.

 

Una reazione così sarebbe stata incredibile nell’ottobre del 2007, quando il Dow Jones raggiunse il record precedente. Ma quello era prima. Prima della crisi finanziaria, prima della Grande Recessione che ha fatto perdere il lavoro e la casa a milioni di americani. Prima del crollo di un sistema finanziario che ha paralizzato l’economia mondiale. Prima. Gli eventi degli ultimi cinque anni e mezzo hanno reso mercati, investitori e risparmiatori più tristi e diffidenti, meno pronti a stappare lo champagne.

 

È un peccato perché la ripresa dei mercati azionari Usa è stata straordinaria. Il Dow Jones è più che raddoppiato dal marzo del 2009, subito dopo la crisi, ed è aumentato di più del 9% dall’inizio dell’anno. Ci sono voluti solo mille e quattro giorni lavorativi per battere il precedente primato - un passo velocissimo se si pensa che dopo la Grande Depressione, il Dow Jones andò dal 1929 al 1954 senza toccare un record. 

Le statistiche non sono fine a se stesse. In America e nel mondo, il valore dei mercati conta. Gran parte dei risparmiatori investono in azioni, sia direttamente sia attraverso fondi pensione. Quando i mercati aumentano, l’effetto è simile alle slot machines di Las Vegas: i giocatori diventato più ricchi nello spazio di pochi minuti senza veramente fare granché (purtroppo, il meccanismo funziona al contrario quando i mercati crollano). Gli economisti lo chiamano «effetto-ricchezza», un senso di benessere finanziario che aiuta la psicologia dei consumatori e la voglia di fare delle aziende.

 

Ma se l’effetto c’è, per ora non si vede. Le cicatrici della crisi sono ancora fresche nella mente e nel portafogli di Joe and Jane Blogg (i signori Rossi made-in-Usa) per farli ritornare a spendere e spandere quando vedono che il Dow Jones è ad un nuovo record. E non è solo un problema di psicologia di massa. Gli stessi fattori che hanno portato a questo ritorno di fiamma del mercato azionario sono anche alla base dello scetticismo di operatori ed investitori. C’è un solo grande deus ex machina nel miracolo del Dow Jones e si trova a Washington, dentro ad un palazzone grigio e pesante che sembra una fortezza medievale: la Federal Reserve.

 

Ben Bernanke e i suoi stanno facendo di tutto per rivitalizzare un’economia che era moribonda dopo la crisi. Le misure convenzionali - tenere tassi d’interesse bassissimi - sono ormai quasi inutili. Con i politici latitanti ed incapaci di riformare il sistema fiscale - che significherebbe alzare le tasse o ridurre pensioni e sanità - gli economisti di Ben si sono messi a pompare soldi nell’economia. Ogni mese, la Fed spende 85 miliardi di dollari per comprare i buoni del Tesoro emessi dal governo - il denaro passa da una parte di Washington all’altra. Ma il semplice fatto che la grande Fed sta comprando in massa ha depresso i tassi d’interesse sul debito americano, spingendo gli investitori a cercare investimenti più lucrativi. Il mercato azionario è stato uno dei principali destinatari del denaro stampato da Bernanke. Fondi pensione, hedge funds e persino piccoli investitori hanno comprato azioni, ma più turandosi il naso che per convinzione.

 

Il mondo delle aziende li ha aiutati, annunciando utili decenti e dimostrando che gli anni di austerità durante la crisi sono serviti a tagliare spese, ridurre debiti e scegliere strategie più sobrie della crescita a tutti i costi. Con bilanci che straripano di denaro ma senza grandi idee di come investirli, molte società hanno deciso di dare soldi indietro agli azionisti. I dividendi e i riscatti di azioni sono a livelli record - un altro motivo per cui vale la pena comprare le azioni anche se l’economia è ancora giù di corda.

 

Questi due fattori - i soldi della Fed e gli utili delle aziende - sono le due chiavi per capire il mistero dei mercati. Gli investitori sono come la moglie bella e giovane di un signore anziano e ricco: sono attratti dal mercato per i soldi - 85 miliardi di dollari al mese, 300 miliardi di dividendi l’anno, 117 miliardi di riscatti azionari nel 2013 - ma non c’è amore vero. 

 

Per gli ottimisti, questo è un buon segno. Immaginatevi, dicono, come saliranno i mercati quando l’economia ricomincerà veramente a tirare. Per loro, i robusti numeri sulla disoccupazione usciti venerdì sono il segno che la ripresa americana sta finalmente accelerando. Attenzione però all’altra faccia della medaglia: un mercato che ha raggiunto il record senza più tanta benzina nel serbatoio è un mercato fragilissimo. Basterà poco, un evento esterno - un lungo periodo d’instabilità politica in Italia, per dirne una - o dei dati non buoni per l’economia americana od europea per far correre gli investitori verso l’uscita di sicurezza. 

Buon viaggio verso l’isola che non c’è.

 

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York. francesco.guerrera@wsj.com e su Twitter: @guerreraf72. 

da - http://www.lastampa.it/2013/03/10/cultura/opinioni/editoriali/wall-street-l-isola-felice-che-non-c-e-h4gFsSQnp9FrvUs6W7FNoI/pagina.html


Titolo: FRANCESCO GUERRERA. E Wall Street scopre l’incubo di una nuova crisi
Inserito da: Admin - Marzo 25, 2013, 07:21:34 pm
Editoriali
25/03/2013

E Wall Street scopre l’incubo di una nuova crisi

Francesco Guerrera


«Ma Cipro è vicina alla Sicilia, vero?». La domanda dell’investitore newyorchese incapsula il momento di confusione dei mercati internazionali di fronte all’ultima crisi europea. Gli occhi di operatori e fund managers sarebbero tutti su Cipro se solo sapessero dov’è. Dopo le paure sull’Irlanda e il Portogallo, l’Italia e la Grecia, Wall Street non si aspettava certo che Cipro diventasse l’ago della bilancia dell’euro. 

 

Nel peggiore dei casi, Cipro potrebbe essere con l’acqua alla gola già oggi, perché la Banca centrale europea ha minacciato di tagliare aiuti al sistema finanziario del Paese. Il tragitto da lì all’uscita dall’euro è brevissimo, come andare dal bungalow a una delle spiagge di Limassol. 

 

Per gli investitori americani il fatto che fa molta paura è che un’isola la metà del Connecticut possa mettere a repentaglio l’integrità della moneta unica del più importante partner commerciale degli Usa. Un mio amico banchiere, fan delle commedie di «Austin Powers», ha ribattezzato Cipro «il Mini Me» della Grecia, molto più piccola ma non meno pericolosa. 

 

Non fatevi illudere dalla calma relativa dei mercati azionari. Le Borse non si sono mosse granché la settimana scorsa perché la situazione cipriota è complicata, fluida e spesso indecifrabile. Quando parlo con investitori e operatori, però, non li sento calmi per niente: sono quasi tutti col dito sul pulsante del «vendere» ma aspettano notizie chiare prima di premerlo.

 

I problemi di Cipro sono sintomatici degli squilibri, sfasature e imperfezioni di un’Europa che continua a chiamarsi unita ed è invece sempre più sfilacciata. Il peccato originale nel caos di Cipro è stato l’accordo tra il governo e l’Unione Europea che ha imposto una tassa sui depositi bancari.

 

Si credevano furbi i burocrati di Nicosia e Bruxelles, pensando che le vittime principali della tassa sarebbero stati i ricconi russi che per anni hanno evitato le tasse di Putin mettendo il denaro nella Banca Laiki e Bank of Cyprus. 

 

Ed invece si sono trovati con centinaia di persone normali in coda ai bancomat per riprendersi i loro soldi. Persino il governatore della banca centrale di Cipro Panicos Demetriades, il cui nome è tutto un programma, ha predetto che almeno il 10% dei depositi sarà scomparso se e quando le banche riapriranno questa settimana. Visto il frangente di quasi panico, la stima di Panicos sembra ottimista.

 

Tassare i depositi è stato un errore clamoroso. A Cipro, come a Wall Street, le banche sono sempre e comunque in competizione con i materassi.
Se i risparmiatori non credono che i soldi che depositano allo sportello oggi saranno ancora lì domani, li mettono sotto al letto.

 

La tassa di Nicosia ha creato un’economia del materasso dall’oggi al domani, distruggendo la seconda banca di Cipro - la Laiki che non riaprirà mai più e dovrà essere salvata dal governo - e creando un circolo vizioso da cui sarà difficilissimo uscire. 

 

La fiducia è l’ingrediente più importante per la stabilità del settore finanziario. Investitori, risparmiatori e contribuenti perdonano molto alle banche, basta pensare ai miliardi spesi dal governo americano per salvare le varie Citigroup, Aig e Bank of America durante la crisi del 2007-2009.

 

Ma la fede nella santità del sistema finanziario non è un bene rinnovabile. Una volta persa, non si recupera più. Ed è per questo che gente come Makis Adams, un impiegato della Banca Laiki, ha detto ai miei colleghi del Wall Street Journal che si prenderà tutti i suoi soldi ed emigrerà in Australia con moglie e due bambini. Non crede più nelle parole ormai vuote di governi e banchieri.

 

Cosa succederà ora? Dipende tutto da come i mercati interpretano il pasticciaccio di Cipro. La parola che nessuno vuole sentire è «contagio». 

 

È possibile che Cipro precipiti nel caos finanziario, rimanga senza banche ed esca dall’euro senza compromettere la stabilità della moneta unica, ma solo se gli investitori sono convinti che rimarrà un caso isolato.

Persino nei momenti più bui della crisi precedente, i mercati erano rassegnati all’uscita della Grecia ma non avevano mai veramente creduto che l’Italia o Spagna fossero in pericolo. Il miracolo dovrà ripetersi per evitare che Cipro diventi il casus belli della fine dell’euro.

 

I super-scettici come Mark Grant, uno degli investitori americani che di Europa sa davvero, non sono convinti. «Nello spazio di due settimane siamo passati da zero parole su Cipro alla Crisi di Cipro»; Grant, che lavora per la Southwest Securities, ha scritto ai suoi clienti venerdì mattina: «Se può succedere a Cipro, può succedere in qualsiasi altro Paese della zona-euro». 

 

Speriamo che si sbagli. Dopo il macello di Cipro, nessun governo sarà così stupido da contemplare una tassa sui depositi, questo è certo.
Ma il contagio finanziario, come la donna della canzone degli U2, si muove in maniera misteriosa. Il lato negativo dell’integrazione economica europea è che i flussi di denaro possono andare da un paese all’altro o fuoriuscire dall’Ue nel giro di pochi minuti.

 

I risparmiatori italiani e spagnoli, in teoria, potrebbero facilmente aprire un conto in Germania e mettere i soldi lì. Così se l’euro dovesse esplodere, almeno riceverebbero solidi marchi teutonici invece di svalutatissime lire e pesetas. E le società potrebbero non solo evitare
d’investire in Europa visto la totale incertezza economica e politica ma cominciare a chiudere fabbriche e uffici in molti Paesi.

 

Per ora in pochi sono ricorsi a questi estremi rimedi. La speranza, si dice, è l’ultima a morire e la speranza in questo caso è che l’alleanza Draghi-Merkel, possa mettere pezze alle falle europee fino a quando l’economia del continente si riprende.

 

Il bailamme di Cipro aggiunge un nuovo livello di difficoltà a questo atto di equilibrismo politico ed economico, e riporta in primo piano lo spettro del contagio. Da questa settimana, gli occhi del mondo sono su Italia e Spagna. Per fortuna, o purtroppo, quelle due gli investitori sanno dove trovarle sulla mappa.

 

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal. 

Francesco.guerrera@wsj.com e su Twitter:@guerreraf72 .

da - http://lastampa.it/2013/03/25/cultura/opinioni/editoriali/e-wall-street-scopre-l-incubo-di-una-nuova-crisi-ZztNqDPTL7RaykkcddJMjI/pagina.html


Titolo: FRANCESCO GUERRERA. Lo strappo dei banchieri centrali
Inserito da: Admin - Aprile 07, 2013, 06:33:59 pm
Editoriali
07/04/2013

Lo strappo dei banchieri centrali

Francesco Guerrera

«Tre uomini soli sono al comando». Le parole di Mario Ferretti, che lui usò al singolare per immortalare Fausto Coppi, tornano utili per descrivere il momento unico della finanza mondiale.

Tre uomini - Ben Bernanke, Mario Draghi e, da questa settimana, Haruhiko Kuroda - sono al comando dell’economia del pianeta. Dietro i tre banchieri centrali d’America, Europa e Giappone, un gruppone d’investitori che segue ogni loro movimento con un solo obiettivo: fare soldi nonostante le difficili condizioni dei tre grandi blocchi del cosiddetto mondo sviluppato.

Il frangente è quasi storico. Dopo la crisi finanziaria del 2008-2009, i grandi signori del capitalismo - le banche, le società e i fund managers - hanno abdicato la loro supremazia sui mercati. Al loro posto sono ascesi i burocrati di Washington, Bruxelles e Tokyo su un trono sorretto dalle pile di denaro stampate per resuscitare le economie di mezzo mondo.

 

La Federal Reserve, la Banca Centrale Europea e la Banca del Giappone hanno già iniettato 4700 miliardi di dollari nelle vene del capitalismo mondiale. Tanto per darvi un’idea, la somma è più del doppio del prodotto interno lordo dell’Italia. Le misure annunciate questa settimana da Kuroda per sconfiggere la depressione che affligge il Giappone da decenni, potrebbero aggiungere altri 1400 miliardi. 

Le dosi da cavallo sono giustificate. La crisi di cinque anni fa ha paralizzato mercati, consumatori ed aziende. Il crollo della Lehman Brothers, la recessione negli Usa ed in Europa, e l’incertezza sul futuro hanno forzato i tre attori principali a prendere decisioni razionali ma deleterie per l’economia mondiale. 

 

I mercati si sono buttati subito su beni-rifugio quali il dollaro e le obbligazioni del governo americano, lasciando società ed individui senza denaro per prestiti e mutui. I consumatori spaventati dalla crisi, hanno fatto catenaccio - ripagando debiti, risparmiando ogni spicciolo e riducendo consumi discrezionali come le cene al ristorante, la macchina nuova e le vacanze all’estero. E le aziende non sono state da meno, tagliando costi e posti di lavoro e rimandando grandi investimenti fino a quando la situazione non migliora. 

«Era l’economia del “non vale la pena”», mi ha detto un banchiere di Wall Street. «Nessuno voleva rischiare».

E allora a rischiare sono state le banche centrali. Il ragionamento di Draghi and company è stato: a mali estremi, estremi rimedi. Se i motori dell’economia hanno paura di spendere denaro, abbassiamo il costo del denaro. E diciamo ai mercati che le nostre misure continueranno fino a quando non vediamo risultati concreti. O, come disse proprio Draghi, «faremo tutto il possibile» per salvare l’economia europea. E quella americana. E quella giapponese.

 

E’ per questo che parlo di momento storico. Un intervento monetario così massiccio e co-ordinato dalle tre banche centrali più importanti del mondo (sorry, Banca d’Inghilterra…) non si era mai visto.

Anche i risultati sono senza precedenti. Dopo un primo periodo di assestamento, e con la pausa della crisi europea, i mercati hanno risposto con entusiasmo alle mosse dei banchieri.

Tra tassi d’interesse bassissimi, interventi nel mercato del reddito fisso e svalutazioni monetarie, gli ultimi anni sono stati un paradiso per gli speculatori. Bernanke e i suoi lo hanno detto ripetutamente: vogliamo che gli investitori rischino di più perché solo quando gli «spiriti animali» di Keynes governano i mercati, le economie possono ritornare a crescere.

 

Il gruppone degli investitori ha seguito gli uomini al comando. Più rischio? Ecco i mercati azionari in America toccare nuovi record. Più rischio? Ecco i buoni del tesoro italiani e spagnoli vendere come churros appena sfornati. Più rischio? Certe obbligazioni «esotiche» che pensavamo, e speravamo, dimenticate dopo la crisi sono di nuovo di moda tra investitori grandi e piccoli.

Il bello, per gli investitori, è che questa corsa verso le parti meno sicure dei mercati finanziari non è stata sanzionata, anzi perfino incoraggiata, da banche centrali alla disperata ricerca di crescita. E’ come se dei genitori dessero il permesso ai figli teenager di fare una festa con alcol e marijuana quando sono via per un paio di giorni.

 

Come finirà? Dipende tutto dal quando le banche centrali decideranno di mettere fine all’era del permissivismo. William McChesney Martin, Jr, che fu a capo della Fed dal 1951 al 1970, disse che il ruolo della banca centrale è di portare via la coppa del punch quando la festa incomincia a farsi interessante.

Per ora, Bernake, Draghi e Kuroda non fanno altro che ri-riempire la coppa. Prima o poi, però, ritorneranno in cucina e ritireranno i miliardi di stimolo, lasciando i mercati a cavarsela da soli.

I banchieri centrali giurano che quel momento è molto lontano, che le economie sono ancora troppo deboli, lo spettro dell’inflazione inesistente. I mercati per ora ci credono ma gli investitori più intelligenti sanno che stanno giocando alla roulette russa con le banche centrali.

 

«E’ tutta una questione di tempo», mi ha detto il capo di uno dei più grandi fondi d’investimento americani questa settimana. «Quando la musica smette, in molti si troveranno senza sedia».

Il problema più serio, però, è che tutto questo stimolo sembra solo aiutare gli speculatori. L’economia reale rimane debole, sia in Europa, sia in America - basta guardare ai dati sul mercato del lavoro Usa usciti venerdì.

Vista la latitanza delle forze politiche, che non vogliono assolutamente rischiare l’impopolarità con misure di austerità o aumenti di tasse, i tre banchieri non hanno scelta: devono continuare a pompare denaro fino a quando l’economia non si riprende. Anche se stanno creando bolle speculative. Anche se qualche investitore ci perderà la camicia e forse anche di più.

Il vero pericolo per i tre uomini al comando è che la loro fuga si riveli una corsa verso il nulla.

 

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York 

francesco.guerrera@wsj.com 

e su Twitter: @guerreraf72 

da - http://lastampa.it/2013/04/07/cultura/opinioni/editoriali/lo-strappo-dei-banchieri-centrali-hkd7SZ1CAxq5FQxUxwSwkO/pagina.html


Titolo: FRANCESCO GUERRERA. Wall Street il malato è guarito
Inserito da: Admin - Maggio 21, 2013, 07:05:23 pm
Editoriali
20/05/2013 - la finanza USA

Wall Street il malato è guarito

Francesco Guerrera


Il toro di Wall Street è pronto a caricare. Dopo anni di vacche magre, le banche americane sono di nuovo all’attacco, decise a recuperare il tempo, e i soldi, perduti durante la crisi finanziaria. 

Me l’ha spiegato l’altro giorno uno dei signori della finanza americana, mentre approfittavamo della prima giornata primaverile a New York per fare una passeggiata nel Financial District.

Quando siamo arrivati al toro – la famosissima scultura in bronzo di Arturo Di Modica – mi ha detto: «Finalmente ci sentiamo così». E ha puntato alla massa bronzea dell’animale, con le narici dilatate, i muscoli tesi e gli occhi a palla. Pronti all’assalto.

Se la mia fonte ha ragione, la rinascita di Wall Street sarà un cambiamento importante con conseguenze sia per l’economia mondiale che per il tessuto sociale americano. 

Dopo la crisi del 2007-2008, l’industria finanziaria si è ristretta e non solo nei numeri. Con politici e opinione pubblica contro, gli utili a picco e i licenziamenti a migliaia, Wall Street era come un super-eroe che aveva perso i suoi poteri. 

Fiacca, debole e depressa.

Chi i soldi li aveva fatti – i banchieri 50enni che si erano arricchiti durante il boom che ha preceduto il crac del 2007 – se n’è andato in pensione. Chi ancora i soldi li voleva fare, se n’è andato in un hedge fund; e chi una volta sarebbe stato attirato dalla finanza come gli orsi dal miele – i giovani laureati di Harvard, Yale e Mit – se n’è andato da Google, Twitter o da qualche startup di belle speranze. 

Su scala globale, le banche del 2013 guadagnano circa 100 miliardi di dollari all’anno meno delle banche nel 2006 – un crollo nei ricavi di quasi un terzo. Il calo nelle entrate si è ripercosso sull’occupazione. Oggi ci sono più di 200.000 persone al mondo con lo sfortunato titolo di «disoccupati della finanza». 

Negli ultimi sei anni, le capitali dei capitali – New York, Londra, Francoforte, Milano – hanno dovuto far fronte alla drastica contrazione di una delle più grandi fonti di crescita per l’economia locale: i banchieri e gli operatori di Borsa che spendevano e spandevano su case, ristoranti e Dom Perignon.
 
I politici hanno preso la palla al balzo. Spinti da fatti incontrovertibili – le responsabilità delle banche durante la crisi – e opportunismo populista – un’opinione pubblica spronata dai ragazzi di «Occupy» che voleva dei colpevoli per il disastro economico del 2007-2009 – il Congresso, la Commissione Europea e le autorithy nazionali hanno creato il più complesso e duro quadro normativo dai tempi della Grande Depressione degli Anni 30.

Il che non vuol dire che le banche siano delle vittime innocenti. Diciamolo chiaro e tondo: Wall Street andava ridimensionata. Gli eccessi del pre-crisi – i bonus assurdi, il dimenticarsi dei clienti per fare soldi in proprio, l’arroganza rozza e insopportabile – avevano fatto sì che in pochi abbiano rimpianto le batoste prese dal toro durante la corrida degli ultimi anni.

Ma quel ciclo sta ormai per finire per due ragioni: perché le banche sono cambiate, sia dal punto di vista del business che, si spera, da quello della morale; e perché la società, la politica e persino la gente comune ha bisogno di loro, anche se non lo ammettono. 

«È come una persona che mangia male e non si riguarda e viene colta da un infarto», mi ha detto il capo di una banca d’affari americana. «Ti dà una scossa che ti fa riconsiderare tutto».

La Wall Street in convalescenza è certo diversa dalla Wall Street grassa e arrogante di prima del crollo. Gente come Jamie Dimon, capo dell’enorme J.P.Morgan, o Lloyd Blankfein, chief executive di Goldman Sachs, un tempo ammirata e ora vituperata, parlano di responsabilità sociale, di rispetto per le regole e di onestà verso i clienti – concetti nuovi ma encomiabili, soprattutto se sinceri.

Ed è anche vero che le fonti di reddito per la finanza del futuro saranno molto diverse, e meno lucrose, che in passato. Le nuove regole non permettono più alle banche di caricarsi di debito come un ciclista con gli steroidi e di scommettere con il proprio denaro. Attività che un tempo erano molto redditizie – come la vendita di prodotti esotici che nessuno mai capiva – sembrano essere state consegnate ai libri di storia. 

Come mi ricorda sempre una delle mie fonti: «Ma dai, vai a scrivere di qualcos’altro che non c’è niente di sexy qui». La nuova finanza è «boring», noiosa e banale.

Forse ha ragione. Ma per il momento, io un occhio sulla finanza ce lo terrei. Zitta, zitta, Wall Street si è ricostruita. Gli utili sono in salita – la JP Morgan l’anno scorso ha registrato un record di profitti – i mercati sono in rialzo e le regole o sono già note (e quindi «fatta la legge, trovato l’inganno») o in grave ritardo.

La verità e che, in un sistema capitalista, le banche svolgono funzioni fondamentali che non possono essere sostituite. «Trasformare» i depositi dei risparmiatori in prestiti a società, compratori di case e imprenditori è la linfa vitale di ogni economia di mercato.

Gli uomini e le donne della finanza questo lo sanno ed è per questo che si sentono pronti all’assalto: l’economia lo richiede, la società ne ha bisogno e né politici, né Occupy possono impedirlo.

«O con noi o niente», è la visione, forse un po’ manichea, di uno dei giovani manager che stanno prendendo potere nella nuova Wall Street. 

Ma la fortuna della finanza – non c’è altra industria che sia così indispensabile – è anche il suo più grande test: avere un ritorno di fiamma che non bruci il resto dell’economia mondiale come in passato.

Il toro di Wall Street possiede una forza immensa. Ma se non viene indirizzata verso il bene pubblico, quel povero animale finirà come tanti altri tori con troppa energia e non molta intelligenza.


Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal. 

francesco.guerrera@wsj.com e su Twitter @guerreraf72 

da - http://lastampa.it/2013/05/20/cultura/opinioni/editoriali/wall-street-il-malato-e-guarito-P5vwR2LxYVWlmxbR9A9xBO/pagina.html


Titolo: FRANCESCO GUERRERA. Le tre malattie che fiaccano mr. mercato
Inserito da: Admin - Giugno 22, 2013, 05:52:25 pm
Editoriali
22/06/2013

Le tre malattie che fiaccano mr. mercato


Francesco Guerrera

Mr. Market sta male.


I vecchi marpioni di Wall Street si riferiscono al mercato come se fosse una vecchia conoscenza e lo chiamano «il Signor Mercato». 

Negli ultimi giorni, questo signore di bella presenza ma di una certa età ha avuto problemi di salute che potrebbero presagire un crollo più serio. Dopo anni in cui era stato trattato con i guanti bianchi, Mr. Market è stato malmenato in tre continenti: dagli Usa alla Cina e persino in Europa. 

In America, le parole chiare ma preoccupanti di Ben Bernanke – un altro signore di bella presenza – questa settimana hanno fatto calare la pressione a Mr. Market.

Il capo della Federal Reserve ha detto che, tra pochi mesi, la banca centrale americana incomincerà a tagliare lo stimolo che sta pompando nei mercati dai tempi della crisi finanziaria. 

Bernanke ha pure aggiunto che la Fed vorrebbe chiudere il rubinetto degli aiuti l’anno prossimo perché l’economia americana sta finalmente raggiungendo velocità di crociera.

In teoria, il messaggio dovrebbe essere stato positivo. Una di quelle scene hollywoodiane in cui il paziente – in questo caso il prodotto interno lordo Usa – si sveglia dal coma, abbraccia la famiglia, ed esce dall’ ospedale piangendo lacrime di gioia.

Ma il signor Mercato, ed i signori del mercato, non l’hanno presa così. Il Dow Jones Industrial Average è crollato di 500 punti mercoledì e giovedì. In meno di un mese, questo barometro delle borse mondiali ha perso più del 4%, trascinandosi dietro indici di mezzo mondo – dall’ Hang Seng di Hong Kong al MIB di Milano, che è calato di quasi l’8% dall’inizio dell’ anno.

«Mr. Market ci sta dicendo che non crede che l’economia americana può continuare a marciare senza la spinta della Fed», mi ha detto uno dei veterani della borsa di New York. 

Fino a qui, il ragionamento non fa una grinza: la ripresa americana è lentissima in gran parte perché i consumatori ed il mercato immobiliare, i grandi motori dell’ economia Usa, stanno mancando all’appello.

Ma il ritiro degli aiuti Fed presagito da Bernanke – il famoso «tapering» di cui parlai due settimane fa – sta avendo degli effetti sui mercati che non hanno quasi niente a che fare con l’economia reale. 

Uno dei risultati meno appetibili delle politiche di stimolo della banca centrale americana è stato quello di scatenare un’onda di speculazione. Non contenti dei tassi d’interesse bassissimi offerti dai beni del tesoro, e aiutati dal costo stracciato del debito, investitori di tutti i tipi si sono buttati su beni ad alto rischio. 

D’improvviso, le obbligazioni «spazzatura» (il nome è tutto un programma…) emesse da aziende con bilanci ballerini sono diventate super-popolari. Lo stesso è valso per le azioni di mercati emergenti come il Brasile e la Tailandia e le divise di paesi ad alta crescita ma con tanti pericoli, quali le Filippine e l’India.

L’ intervento di Bernanke ha cambiato le carte in tavola. «E’ stato come se uno avesse gridato “fuoco” in un cinema pieno di persone», è stato il commento, un po’ esagerato, di un banchiere mio amico. Gli investitori sono corsi tutti verso l’uscita di sicurezza riscoprendo beni-rifugio come il dollaro.

L’America non è più amica di Mr. Market ma il signore azzimato non ha tante alternative in Asia o in Europa. 

La Cina è in crisi per la prima volta in almeno un decennio. Un Paese che nell’ economia globale ha ricoperto il ruolo che Andrea Pirlo ricopre nella Nazionale – una certezza di cui non ti devi mai preoccupare - sta diventando un’ incognita che può essere o spettacolare o pericolosa, tipo Mario Balotelli.

La combinazione di un rallentamento economico e inflazione che sale è una miccia accesa che il nuovo regime di Pechino sta facendo fatica a spegnere. 

Le voci dall’ interno parlano di un Pil che sta crescendo «solo» del 5-6%, meno delle stime ufficiali e, soprattutto, molto meno del 9-10% a cui la Cina ed il resto del mondo si erano abituati. Ma con l’inflazione in agguato, le autorità cinesi non possono usare il manuale degli anni passati che prevedeva aiuti enormi da parte del governo e delle banche statali. 

Anzi, la banca centrale cinese sta strizzando le banche per evitare che prestino soldi in maniera inconsulta. Nel frattempo, però, le imprese ed i consumatori made-in-China sono a corto di denaro per investire e spendere – una situazione che esacerba il rallentamento economico. E’ un circolo vizioso che potrebbe portare a cambiamenti fondamentali e conseguenze geopolitiche di enorme importanza.

E poi c’è l’Europa. E’ estate e Mr. Market, che è americano doc, con le scarpe da tennis bianche e i pantaloncini bermuda un po’ stretti, potrebbe pensare a rilassarsi nel vecchio continente, magari nel Mediterraneo. 

Dunque vediamo un attimo: la Grecia è di nuovo nella crisi totale e la comunità internazionale ha persino minacciato di tagliare gli aiuti se il governo di Atene non manterrà le sue promesse di austerità. 

La Spagna, magari? Be’ lì la disoccupazione è a livelli da terzo mondo, molte banche sono tra la vita e la morte e la crescita è anemica. «What about Italy?», potrebbe chiedere Mr. Market. Sta meglio delle prime due ma, diciamoci la verità, tra incertezze politiche ed un’ economia in retromarcia non sembra proprio un’isola felice.

C’è sempre la Germania, no? L’efficienza teutonica ecc. ecc. Non c’è dubbio che la Germania è il proverbiale monocolo nella terra dei ciechi. Ma negli ultimi mesi persino la locomotiva tedesca è stata rallentata dalla crescita nell’ euro che rende più care le esportazioni dei beni «in Deutschland hergestellt».

Povero Mr Market, con questi chiari di luna, sarà difficile dormire sonni tranquilli.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal. 

Francesco.guerrera@wsj.com 

e su Twitter:@guerreraf72. 

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Titolo: FRANCESCO GUERRERA. Wall Street crimini senza colpevoli
Inserito da: Admin - Agosto 25, 2013, 05:06:14 pm
Editoriali
25/08/2013

Wall Street crimini senza colpevoli

Francesco Guerrera


Il capro espiatorio della crisi finanziaria ha il volto angelico e l’accento francese di Fabrice Tourre, un giovane ex trader di Goldman Sachs. 

Un paio di settimane fa, una giuria riunita nella corte federale di Manhattan ha deciso che Tourre aveva defraudato gli investitori con una delle obbligazioni «tossiche» vendute da Goldman poco prima del crollo del mercato delle case americano.

Tourre, che a Wall Street è famoso per un’email a una fidanzata in cui si ribattezzò «il favoloso Fab», non andrà in prigione perché il processo era civile. Ma questo ragazzotto cresciuto nei sobborghi di Parigi potrebbe passare alla storia come il più grande scalpo preso da giudici e procuratori per infrazioni commesse durante la Grande Recessione del 2008-2009.

Il fatto che un trader sconosciuto e senza tante responsabilità possa diventare il nemico pubblico numero uno per una crisi che ha messo in ginocchio l’economia mondiale è sconcertante.

A cinque anni dagli eventi storici del 2008 – il crollo di Lehman Brothers, la paralisi del commercio internazionale e una lunga, gelida recessione negli Usa e in Europa – non ci sono colpevoli di rango.

Banche e individui hanno pagato centinaia di miliardi di dollari per risarcire le vittime di una bolla immobiliare e finanziaria senza precedenti.

Ma, per ora almeno, il favoloso Fab è l’unico a essersi alzato dal banco degli imputati dopo essere stato giudicato colpevole.

Questa mancanza di condanne e condannati è forse uno dei motivi per cui la crisi sembra ancora così vicina e fa ancora paura: senza capri espiatori, la catarsi è più difficile. Con un’economia americana che, come ha confermato la Federal Reserve questa settimana, è senza infamia e senza lode, recuperare dal trauma di mezzo decennio fa è ancora più complicato.

Ma la domanda vera è se la scarsità di rei sia il prodotto della scarsità di reati. Se, nonostante tutto, la crisi sia stata causata non da crimini ma da errori, enormi ma commessi in buona fede. 

È una questione che divide l’opinione pubblica americana e il mondo finanziario e che diventerà ancora più importante mentre ci si prepara a commemorare il 15 settembre, l’anniversario del collasso di Lehman.

Un bel pezzo del ceto politico – soprattutto tra i democratici di sinistra – e della «gente comune» – chi scrive lettere ai giornali (e ai giornalisti, a giudicare dal mio inbox…), i blog, gli attivisti che proteggono risparmiatori e consumatori etc. – si sta strappando i capelli.

In America si dice spesso che la frode fiscale è un crimine «senza vittime», nel senso che ne risente solo il governo, ma per i critici di Wall Street, la crisi finanziaria sembra essere un crimine senza colpevoli.

Com’è possibile – si chiede gente come Sheila Bair, che era a capo di una delle authority di settore durante il periodo caldo del 2008-2009 – che un’enorme parte dell’economia crolli sotto il peso di strumenti finanziari di dubbio uso e che nessuno ne paghi le conseguenze?

Il corollario è che regolatori e procuratori non hanno fatto il proprio mestiere, incapaci di trovare le prove per mettere in galera nomi importanti.

La risposta ufficiale a queste invettive è arrivata questa settimana dal ministro della Giustizia dell’amministrazione Obama. In un’intervista con il Wall Street Journal, Eric Holder ha detto che il suo ministero sta preparando una serie di processi contro i responsabili della crisi. Non ha dato dettagli ma ha aggiunto, con toni minacciosi, che chi «ha inflitto danni al sistema finanziario americano non si deve sentire al sicuro solo perché è passato un po’ di tempo».

Un messaggio duro ma che dovrà essere provato in Corte, di fronte a giurie che spesso non sono d’accordo con chi vuole incarcerare Wall Street. Nel 2009, pochi mesi dopo l’arrivo di Holder, fu proprio il suo ministero a prendere una batosta clamorosa, perdendo uno dei primi casi importanti della crisi, contro due ex funzionari della Bear Stearns, la banca che crollò quattro mesi prima di Lehman.

Il problema – emerso nel processo Bear Stearns e in altri casi seguenti – è che è estremamente difficile provare che Wall Street ha commesso dei crimini in un periodo in cui un’intera economia si è sbriciolata. Basta solo pensare alle condizioni del pre-crisi: né le banche centrali, né gli «esperti» (e tra loro ci metto la stampa), né tantomeno i consumatori riuscirono ad anticipare lo scoppio della bolla immobiliare Usa e i suoi effetti devastanti sul resto del pianeta. 

È un vecchio adagio della giustizia: se sono colpevoli tutti, non è colpevole nessuno. O, come mi ha detto questa settimana uno che era a capo di una delle grandi banche nel 2008, «essere un cattivo manager non è un crimine». Fino a quando mastini come Holder non riescono a provare il contrario, la mia fonte ha ragione. Di incompetenza ce n’è stata tanta, di criminalità poco o nulla.

Il che significa che per dimenticare i dolori della crisi, per ritornare a sperare e a spendere, i consumatori americani non potranno contare sull’effetto depurativo che potrebbe dare la vista di un paio di banchieri finiti dietro le sbarre dopo una condanna.

Per il male di cuore, si dice che il tempo aiuta, ma per i malanni finanziari l’unica cura è la crescita economica. I guadagni di oggi fanno dimenticare le perdite di ieri. Ma l’economia Usa non sta cooperando. Vivacchia e non sembra innestare la marcia giusta. Dà barlumi di luce, ma non la ancora grande energia di cui ci sarebbe bisogno.

Persino la Fed non sa cosa fare. I dettagli dell’ultimo incontro – rilasciati questa settimana – hanno rivelato una banca centrale spaccata a metà, divisa tra il desiderio di smettere di pompare denaro gratis nell’economia e il terrore di far ricadere il Paese nella recessione. La Fed è lo specchio dell’America di oggi. Vogliosa di cambiamento, pronta a sperare in un futuro migliore ma frustrata da una realtà che non sembra migliorare. In un frangente così, attaccare un povero francesino dall’email facile non è una soluzione accettabile.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal. francesco.guerrera@wsj.com

twitter@guerreraf72


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Titolo: FRANCESCO GUERRERA. La paralisi che peggiora i conti
Inserito da: Admin - Settembre 08, 2013, 04:22:59 pm
Editoriali
08/09/2013

La paralisi che peggiora i conti

Francesco Guerrera


Tra Manzoni e Clooney, Cernobbio è il posto perfetto per raccontare tragedie e commedie dell’Europa di oggi.

La splendida Villa d’Este si affaccia sul ramo del Lago di Como tanto caro all’autore dei Promessi Sposi ed è a pochi minuti in barca dalla villa della star di Hollywood (dall’acqua non si vede quasi niente: George ama la privacy). 

Ma questo weekend, l’aristocratica dimora che ospita il summit annuale dell’Ambrosetti House è il palcoscenico di lusso per uno show che sta toccando milioni di cittadini ed imprenditori europei. 

Lo si potrebbe chiamare: «OK, il prezzo non è giusto». Il prezzo è il costo della stasi politica ed istituzionale che sta attanagliando l’Unione Europea, facendo soffrire società ed individui, preoccupare gli investitori e innervosire partner commerciali come gli Usa. (C’è anche un’attrazione prettamente nazionale: il tormentone sul futuro del governo Letta). 

Alcuni dei grandi del pianeta riuniti a Cernobbio l’hanno buttata sull’ottimismo. Nelle sale cinquecentesche, politici e banchieri centrali hanno sfoderato un sorriso vincente alla Clooney e ricordato che un anno fa stavamo peggio, con l’euro sul baratro e gli spread alle stelle. 

Che bello – dicono – che alla riunione del Gruppo dei 20 di San Pietroburgo non si sia quasi parlato di Europa. Che «il sorvegliato speciale» - come ha detto il primo ministro italiano – non sia più l’Italia e nemmeno la moneta unica ma la catastrofe siriana, i dilemmi bellici degli Usa e i problemi economici dei Paesi emergenti. Che l’euro-crisi che ci portiamo dietro da almeno tre anni sia finita. 

«Qui - scrisse Stendhal del Lago di Como – tutto è nobile e commovente, e tutto parla d’amore». Ma i numeri non parlano d’amore per l’economia europea. Sì, il peggio della crisi è passato – grazie soprattutto alle mosse coraggiose, e rischiose, della Banca Centrale Europea. Ma, come mi ha detto il dirigente di una multinazionale dell’industria, «il paziente è fuori dalla terapia intensiva ma sta ancora in ospedale». 

Quest’anno, l’economia della zona-euro calerà dello 0.6%, secondo un sondaggio di economisti condotto dalla Ambrosetti. Nel 2014, se va bene, crescerà ma meno dell’ 1%. Persino il moribondo Giappone fara’ di meglio (1.7% quest’anno e 1.4% l’anno prossimo). Per non parlare degli Usa che nel 2014 dovrebbero essere a quota +2.8%, o la Cina che sta «rallentando» verso il 7.6%.

Nemmeno l’Azzeccagarbugli di Manzoni riuscirebbe a far passare questi dati come una buona notizia per l’Europa. Soprattutto perché ogni 8 abitanti della zona euro c’è un disoccupato. E quella è la media: in Spagna siamo a uno su quattro.

Fa bene Jean-Claude Trichet – anche lui a Villa d’Este - a prendere una posizione opposta a quella del connazionale Stendhal. «Questo non è il momento per compiacersi», ha detto il predecessore di Draghi ad un dibattito organizzato dalla Cnn. «Abbiamo molto lavoro da fare».

La diagnosi è giusta ma la prognosi è riservata. Dopo un triennio di crisi, le soluzioni più facili sono state prese - gli americani le chiamano «low-hanging fruits», i frutti alla base dell’albero. Ora bisogna fare sforzi molto più significativi per salire sui rami più alti. 

Mario Draghi non sembra voglia fare la scaletta. Dopo aver utilizzato le politiche monetarie in maniera aggressiva e non ortodossa per mantenere l’euro intatto, gli uomini del presidente della Bce sono ai limiti dei loro poteri. Il presidente sarà anche stato ribattezzato «SuperMario» ma si sta scontrando con una kryptonite di interessi politici contrastanti.

I tedeschi – con un’elezione alle porte e gran parte dell’elettorato d’umore euroscettico – non vogliono che la banca di Francoforte faccia più granché. Per non fare un assist d’oro ai partiti di protesta, Angela Merkel e il resto dell’establishment teutonico devono cancellare l’impressione che la Germania paghera sempre e comunque il conto salato degli errori europei. 

I governi di mezza Europa, dal canto loro, non hanno nessuna intenzione di proseguire con l’austerità che la cancelliera vorrebbe come quid pro quo per eventuali aiuti. Con la recessione ancora presente, solo politici masochisti vorrebbero infliggere dolore a corto termine ai propri cittadini nel nome di vaghi benefici a lungo termine. 

L’Italia è un caso classico. Le imposte sulle imprese sono al 68% - il più alto tasso unione e 21 punti percentuali più che negli Usa. La pressione fiscale sui lavoratori è altrettanto pesante - 42%, il doppio dell’Inghilterra. Il risultato? Le imprese non assumono, le banche non prestano, i piccoli imprenditori soffrono e l’economia è ancora in recessione. Altri Paesi come la Spagna e il Portogallo sono in simili condizioni penose. 

Il contesto non si presta ad un altro giro sulle montagne russe dell’austerità.

Né i politici né la commissione Europa, né la Bce sanno come uscirne e allora fanno l’imitazione del Manzoniano Ferrer. Circondato da una folla irata, il cancelliere spagnolo fa promesse populiste e chiede al cocchiere: «Pedro, adelante con juicio». 

Ovvero la paralisi politica che aumenta i costi economici. 

Il calendario non aiuta. Tra il ballottaggio tedesco, il voto per il Parlamento europeo – seguito dalla scelta di una nuova Commissione – e, chissà, forse elezioni e anatre zoppe in Italia, il momento ricorda il «Batman» di Clooney – un film d’azione senza tanta azione. 

Star fermi, in questo caso, non fa guadagnare tempo, ma lo fa perdere. Prima o poi, le riforme (delle pensioni, della sanità, del settore pubblico, delle tasse etc.) dovranno essere fatte. Decisioni difficili e impopolari, soprattutto da parte della Germania, dovranno essere prese. 

Purtroppo, come disse Don Abbondio di se stesso: «Il coraggio uno non se lo può dare». 

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York. francesco.guerrera@wsj.com e su Twitter:@guerreraf72. 

da - http://lastampa.it/2013/09/08/cultura/opinioni/editoriali/la-paralisi-che-peggiora-i-conti-YmuetbNTLX8rcqHpHJS4gK/pagina.html


Titolo: FRANCESCO GUERRERA. Se l’America va avanti senza governo
Inserito da: Admin - Ottobre 06, 2013, 07:40:18 pm
EDITORIALI
06/10/2013

Se l’America va avanti senza governo

FRANCESCO GUERRERA

La Statua della Libertà è in cattività. Da quando il governo americano ha chiuso i battenti martedì, la “Lady Liberty” – il nomignolo affettuoso datole dai newyorchesi – è in isolamento nella baia di Manhattan. Senza fondi federali, né turisti né impiegati dei parchi nazionali la possono visitare.
Il simbolo della democrazia americana, del «governo della gente per la gente», come disse Abraham Lincoln, è stata abbandonata a se stessa da un Congresso impelagato in squallide beghe politiche e da un Presidente che non le sa risolvere. 
Tesori nazionali come la Statua della Libertà – e il parco di Yellowstone, il fantastico museo dello Smithsonian a Washington e il Mount Rushmore con le facce dei Presidenti scolpite nella pietra – sono chiusi come se fossero una pompa di benzina fuori turno o un negozietto di periferia: «Torno subito. O quando i repubblicani e i democratici si mettono d’accordo». 
La politica con la «p» minuscola non è prerogativa esclusiva degli Usa – basta guardare alla settimana del brivido che ha passato il governo italiano. Ma il gioco delle tre carte a Montecitorio è cosa normale e ricorrente. Lo «shutdown», la serrata forzata del governo Usa, non si vedeva da 17 anni quando alla Casa Bianca c’era Bill Clinton e al Congresso Newt Gingrich.
In quest’occasione storica, vale la pena andare al di là dei potenti simboli dell’impotenza del governo americano e guardare all’economia reale, all’America degli investitori e del lavoro, al settore privato che non chiude mai i battenti.
Come spesso accade, i mercati sono lo specchio, un po’ distorto ma non completamente sballato, dell’economia americana. Parlando con operatori e banchieri, le storie che si sentono sono abbastanza sorprendenti. Per il momento, ai mercati lo «shutdown» interessa poco. Qualcuno teme che il governo americano possa smettere di pagare i suoi (enormi) debiti. Ma sono paure a lungo termine temperate dal fatto che sembra impensabile che il Congresso, persino questo Congresso, sia così stupido da far fallire l’America.
Ed è vero che la latitanza del governo priverà gli investitori di dati economici quali i numeri sulla disoccupazione, che dovevano uscire venerdì ma sono stati ritardati dalle vacanze forzate degli statistici del Tesoro.
Ma quando ho chiesto ad un signore di Wall Street quale fosse la sua principale preoccupazione questa settimana mi ha risposto con una parola sola: «Twitter». E’ una parola che non esisteva nemmeno l’ultima volta che il governo americano ha chiuso ma che ora è sulla bocca di tutti.
Per il mio interlocutore, la cosa più importante è lavorare sull’offerta pubblica di acquisto del «social network» che sta rivoluzionando il mondo della comunicazione e della pubblicità. Non i casini di Washington, i dati sulla disoccupazione o la chiusura di Yellowstone. Come mi ha detto un altro finanziere: «Se non lo riesci a dire in 140 caratteri, non mi interessa» (il che, diciamolo chiaramente, è po’ un problema per un giornalista…). 
Per il mondo della finanza e, forse anche dell’economia reale, l’imminente arrivo di Twitter, con i suoi 220 milioni di utenti, sul mercato azionario è un momento più storico della paralisi governativa. Giovedì sera, quando Twitter ha rilasciato i suoi dati finanziari, i mercati erano in brodo di giuggiole.
L’isteria di investitori e banchieri sull’Opa da un miliardo di dollari di Twitter non è, ovviamente, una rappresentazione completa dell’umore del grande pubblico americano. 
Ma è un simbolo da contrapporre alla solitudine malinconica di Lady Liberty. Il governo chiude, la vita continua. E continua nelle autostrade digitali di un’economia che si sa reinventare ed adattare con incredibile facilità. Twitter è nato nel 2006, Facebook due anni prima. Persino Google, che sembra essere stato con noi da sempre, non esisteva quando Bill e Newt litigavano sul budget nel 1996. 
Le beghe washingtoniane hanno spinto editorialisti e bloggers a scrivere necrologi del sogno americano. Ma le Cassandre stanno guardando nel posto sbagliato. Sono decenni che il sogno americano non vive nella capitale ma a Silicon Valley, nei dormitori universitari e nelle menti fervide e fameliche degli immigranti messicani, cinesi ed indiani, con o senza dottorato, che ancora vedono l’America come la terra promessa.
La vera rivelazione dello «shutdown» è che non è tanto importante. Che il governo federale – un’istituzione che molti americani vedono con sospetto e diffidenza – non è fondamentale al funzionamento del paese.
Lo zio Sam deve preoccuparsi dei servizi essenziali – aeroporti ed ospedali, tasse e polizia – ma al resto ci pensa l’individualismo, determinazione ed egoismo di un paese il cui motto è «e pluribus unum» – da molti, uno. 
Si può discutere se di solo Twitter vive l’uomo (e la donna). Se l’economia più grande del pianeta può sorreggersi su pilastri virtuali, sempre più servizi e sempre meno industrie pesanti. Ma anche quello è un dibattito falso. Proprio questa settimana, il Wall Street Journal ha calcolato che gli Stati Uniti sono diventati il più grande produttore al mondo di petrolio e gas naturale, superando la Russia.
Il boom dell’olio e gas di scisto sta trasformando e rivitalizzando settori industriali che avevamo dichiarato morti anni fa. A migliaia di chilometri da Silicon Valley – in aree che erano state depresse da anni - ingegneri, operai ed imprenditori sono nel mezzo di una nuova rivoluzione industriale che non ha limiti di caratteri.
L’America di oggi assomiglia molto all’Italia di sempre. Un paese pieno di risorse, problemi e contraddizioni che tenta di funzionare non attraverso il governo ma a dispetto del governo. Il Presidente e i leader del Congresso dovrebbero riflettere su ciò, almeno fino a quando non riaprono la Statua della Libertà.
 
Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal. 
Francesco.guerrera@wsj.com 
e su Twitter:@guerreraf72 
http://www.corriere.it/13_ottobre_05/lizzani-come-monicelli-si-buttato-finestra-d61d9d9c-2dc4-11e3-89d5-cdac03f987bf.shtml


Titolo: FRANCESCO GUERRERA. L’ottimismo a Davos l’incertezza nel mondo
Inserito da: Admin - Gennaio 27, 2014, 04:35:38 pm
Editoriali
27/01/2014

L’ottimismo a Davos l’incertezza nel mondo

Francesco Guerrera

A Davos, quest’anno, l’élite mondiale non è scivolata. Le Alpi svizzere sono state innevate come da cartolina, la temperatura è rimasta ostinatamente polare e i marciapiedi si sono ghiacciati come sempre. 

Ma ministri, banchieri e capitani d’industria hanno levitato su una nuvoletta di ottimismo. Non che i risultati del rito annuale del World Economic Forum siano stati diversi dal passato: tanti incontri, molte parole e qualche promessa ma tutto sommato poco di fatto. Nonostante ciò, i potenti rintanati in questo paesino ormai troppo piccolo erano di buon umore. 

«E cosa temi?» mi ha detto un banchiere tedesco mentre sorseggiavamo un liquore verde non ben identificato a uno dei tanti ricevimenti. Per lui, il bicchiere era mezzo pieno. «I grandi pericoli si sono dissipati. Da qui in poi, la situazione migliorerà», ha proclamato. Banchieri tedeschi e ottimismo non sono compagni di viaggio abituali, quindi gli ho chiesto di spiegarsi. Con logica teutonica ha elencato le tre grandi paure degli ultimi anni che ora stanno battendo la ritirata: la disintegrazione dell’euro; un rallentamento dell’economia cinese; e un’esplosione medio-orientale con ripercussioni internazionali. 

Sulla scomparsa della prima non ci sono dubbi. Basta guardare alla vera star del Wef. Non Bono, Matt Damon o la Sheryl Sandberg di Facebook ma Mario Draghi e la politica monetaria che ha salvato la moneta unica.

«Sei fiero di essere italiano come Super-Mario?», mi ha chiesto un investitore americano che di solito si specializza in battute sull’ incapacità economica dei nostri compatrioti. Mi ha pure suggerito il titolo per un articolo: «Draghi sconfigge il dragone della crisi».

Con la zona-euro sotto i riflettori, la Cina è rimasta dietro le quinte. Pochi delegati, com’è tradizione per un governo che non ama il forum, ma molte certezze. Il consenso di Davos è che i nuovi leader di Pechino riusciranno a far crescere l’economia di più del 7% quest’ anno – una velocità di crociera accettabile sia per i cittadini cinesi che per il resto del mondo.

E il Medio Oriente? E’ strano pensare che i politici e gli esperti riuniti a Davos possano avere speranze per una regione che ospita la Siria, l’Iran e Israele. A Davos, la tensione tra gli ultimi due Paesi è stata palpabile. Ci è voluta tutta l’efficienza svizzera per non far incontrare, o scontrare, la delegazione iraniana guidata dal presidente Hassan Rouhani e politici israeliani tra cui Shimon Peres e «Bibi» Netanyahu.

Ma anche su questo punto, l’opinione dei leader del Wef era che nessuno ha intenzione di trasformare conflitti regionali in guerre mondiali. Fin qui, tutto bene. Anzi benissimo. Giovedì – dopo due giorni passati ad ascoltare le opinioni positive che riecheggiavano nelle caverne del centro congressi - ho pensato: magari ci possiamo rilassare, goderci le montagne che tanto piacevano a Thomas Mann e tornare a casa ristorati e speranzosi.

Ma prima di mettere via il taccuino e andare a sciare con Matt Damon o farmi un Irish coffee con Bono, sono uscito dalla zona blindata del centro congressi per incontrarmi con dei signori del denaro. Volevo capire se anche loro – investitori e banchieri che scommettono miliardi di dollari sul futuro – fossero saliti a bordo della nuvoletta rosea di Davos.

Ed è qui che la storia si complica. «Non confondere il sollievo con la fine dei problemi», ha ammonito il capo di un’azienda d’investimenti americana a colazione. Tra cucchiaioni di muesli, mi ha convinto che l’economia europea è ancora a rischio di recessione anche se la moneta unica è intatta. A suo avviso, tre ingredienti rendono la situazione precaria: i tassi di disoccupazione in Spagna, Italia e Portogallo sono altissimi, soprattutto tra i giovani; investimenti, mutui e prestiti a imprese rimangono a livelli anemici; e i consumatori non sembrano volere, o potere, spendere.

A guardar bene, anche la situazione geopolitica non è granché. Magari il Medio Oriente non esplode ma l’Asia sta dando nuovi grattacapi. Il primo ministro giapponese Shinzo Abe ha scioccato il Wef quando ha detto che le relazioni tra Tokyo e Pechino ricordano la tensione tra la Germania e la Gran Bretagna alla vigilia della prima guerra mondiale. E anche se un conflitto tra Cina e Giappone è impensabile, le schermaglie tra i due Paesi destabilizzano una regione che ha tante altre ferite aperte dalla Corea del Nord a Taiwan. 

Persino i mercati non sono più una strada a senso unico. Dopo essere cresciute di più del 30% l’anno scorso, le azioni americane hanno iniziato il 2014 come la mia Inter: facendo fatica a vincere. E proprio mentre i grilli parlanti del Wef lodavano la stabilità del mondo finanziario, i mercati emergenti sono crollati, spinti da una nuova crisi monetaria ed economica nella recidiva Argentina.

La nebbia che mi ha accompagnato nella mia discesa dalle Alpi sabato è un’ottima metafora per il momento attuale. Potremmo essere all’inizio di un periodo di crisi o all’inizio della sua fine, ma la visibilità è limitata. Viste le condizioni è prudente uscire dal mucchio e scendere dalla nuvoletta di Davos. Anche se c’è il rischio di scivolare. 

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York. Francesco.guerrera@wsj.com e su Twitter:@guerreraf72 

Da - http://lastampa.it/2014/01/27/cultura/opinioni/editoriali/lottimismo-a-davos-lincertezza-nel-mondo-ObgXLhIQEUint1MPHt6MwN/pagina.html


Titolo: FRANCESCO GUERRERA. Tra Cina e Usa il gioco sottile di due giganti
Inserito da: Admin - Maggio 15, 2014, 04:34:30 pm
Editoriali
15/05/2014 - economia

Tra Cina e Usa il gioco sottile di due giganti

Francesco Guerrera

Fu in un taxi, dieci anni fa a Pechino, che capii veramente quanto è grande la Cina. 

Stavo parlando di calcio col tassista in un misto orripilante di cinese e inglese - «Baggio…ting hao…very good!» - quando imboccò un’autostrada enorme che sembrava fosse stata aperta il giorno prima. 

«La quarta tangenziale», mi disse molto fiero. «Pechino è l’unica città al mondo con quattro tangenziali». 

Oggi, di tangenziali a Pechino ce ne sono sette, monumenti d’asfalto che celebrano la voglia di crescere della Cina moderna. 

Sono anni che il Paese continua a spingere sull’acceleratore e i risultati sono eccezionali.

La Cina sta per superare gli Stati Uniti per diventare l’economia più grande del mondo. Questo, almeno, è quanto ha detto l’International Comparison Program, un progetto della Banca Mondiale, un paio di settimane fa. 

La notizia ha fatto scalpore, soprattutto in America e Cina. 

Se l’Icp ha ragione, saremmo di fronte ad un momento storico, un passaggio di consegne dall’Ovest all’Est che confermerebbe il declino degli Usa e l’ascesa ormai inesorabile della Cina come strapotenza economica.

I numeri, però, non sono chiari. Se si guarda solo il prodotto interno lordo, l’economia Usa vale più o meno il doppio di quella cinese (l’Italia è all’ottavo posto). Il sorpasso non è previsto prima del 2020.

Ma l’Icp e la Banca Mondiale tentano di misurare le «vere» dimensioni delle economie del pianeta. Non solo il valore nominale del Pil ma anche il potere di acquisto delle monete. 

 L’idea è ovvia per chiunque abbia viaggiato all’estero: nei Paesi in via di sviluppo, come la Cina, il denaro «compra» di più perché beni e servizi costano meno che nel primo mondo. In questo senso - e solo in questo senso - l’Icp ha detto che la Cina sta per superare gli Stati Uniti.

La metodologia è legittima ma i risultati sono discutibili. E’ vero che a Shanghai uno yuan compra più di un dollaro a New York, ma un Paese come la Cina deve usare la propria divisa per importare beni dall’estero. Quando comprano missili e navi da guerra, gli iPhone o le Bmw, i cinesi devono pagare il prezzo dettato dai mercati internazionali. 

Ma anche se la Cina non è ancora l’unica superpotenza dell’economia mondiale, il fiato del dragone cinese è sul collo dello zio Sam e gli Usa lo sentono.

Le reazioni dei due Paesi ai calcoli della Banca Mondiale la dicono lunga sulla precaria posizione dell’economia mondiale. Negli Stati Uniti, media ed esperti hanno tentato o di ignorare i numeri dell’Icp o di spiegare perché fossero sbagliati. In Cina, il governo ha fatto lo stesso. L’Istat cinese ha detto che non «riconosce i risultati come statistiche ufficiali» e gli organi di stampa governativi hanno detto chiaramente di non credere ai numeri.

E’ un sottile gioco politico, tra due Paesi che hanno molto da perdere da un confronto aperto sia sul piano economico.

Gli Usa - soprattutto la debole amministrazione Obama - non vogliono sentire parlare di declino terminale, a pochi anni da una crisi finanziaria durissima e da una recessione devastante. 

E la Cina fa la classica pretattica: non ha nessuna intenzione di spaventare il mondo né di aumentare le aspettative di una popolazione locale che, in generale, non vede molti frutti di questa crescita mozzafiato. La verità è che la Cina rimane un Paese povero perché ha quasi un miliardo e mezzo di abitanti: il Pil pro capite è il 99esimo al mondo, anche tenendo conto del valore d’acquisto della moneta.

«La Cina è grande ma non è forte», ha detto il guru dell’economia cinese Mao Yushi al Financial Times. E’ un aforisma applicabile a tanti aspetti della crescita di un Paese che mezzo secolo fa era ancora nel medioevo di Mao Zedong.

Per ora, gli Stati Uniti e la Cina sono alleati nel non voler cambiare lo status quo economico. Ma è una pace fragile, destinata ad essere interrotta dalle correnti inarrestabili di commercio, capitali e crescita. 

La Cina già controlla aspetti fondamentali dell’economia del pianeta. Il suo appetito insaziabile per materie prime sta trasformando (in meglio) Paesi quali l’Australia e il Brasile, la Mongolia e l’Angola. Gli investimenti di aziende e banche cinesi stanno aiutando l’Africa a combattere secoli di oppressione e problemi economici. Non ci sono molti paralleli storici per l’impatto della Cina sul resto del mondo: un Paese in via di sviluppo che muove mercati mondiali e cambia la realtà economica di interi continenti. 


Non è un caso che il successo di Pechino stia creando tensioni politiche, soprattutto con il Giappone, un’altra potenza economica in declino che un tempo aveva ambizioni di egemonia regionale in Asia. 

Ma sarebbe un errore dare gli Usa per spacciati. Nonostante i fallimenti degli ultimi anni e una seria crisi di leadership politica nella Casa Bianca e nel Congresso, l’America possiede risorse uniche. E non parlo solo di petrolio e gas a fratturazione idraulica che stanno alimentando una nuova rivoluzione industriale in parti del Paese.

Mi riferisco più alle «energie capitaliste» di un Paese che ha fatto del rinnovo la sua raison d’être. La lista dei vantaggi dell’America sul resto del mondo è lunga: dai mercati finanziari all’industria dell’intrattenimento di Hollywood, dagli imprenditori della tecnologia all’esercito di immigrati pronti a tutto per prendersi un pezzetto del sogno americano.

L’influenza degli Stati Uniti sul resto del mondo è più grande persino dell’economia Usa e né la Cina, né l’Europa possono pensare di contrastarla nei prossimi anni.

Nell’autostrada dell’economia, i sorpassi sono più difficili che nelle ampie tangenziali di Pechino. 

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York. 

francesco.guerrera@wsj.com e su Twitter: @guerreraf72 

da - http://lastampa.it/2014/05/15/cultura/opinioni/editoriali/tra-cina-e-usa-il-gioco-sottile-di-due-giganti-v9Oqov4DwElrbDz1wTOZTM/pagina.html


Titolo: FRANCESCO GUERRERA. A Wall Street torna di moda il rischio
Inserito da: Admin - Giugno 02, 2014, 04:52:53 pm
Editoriali
02/06/2014

A Wall Street torna di moda il rischio
Francesco Guerrera

Ci risiamo. Quasi fossero lo specchio di una cultura popolare che ama il retrò, il vintage e il déjà-vu, i mercati finanziari stanno ripetendo gli errori del passato.

Se una casa discografica può vendere un «nuovo» album di Michael Jackson; se a New York e a Los Angeles le ragazze scimmiottano i look Anni 60 di Elizabeth Taylor; e se una pellicola all’antica come La grande bellezza («Grazie a Fellini» ha detto Paolo Sorrentino agli Oscar) fa così tanto successo, non c’è da stupirsi se Wall Street ha voglia di rivivere gli anni che precedettero la crisi finanziaria. 

Con tipica memoria troppo corta, gli investitori stanno comprando beni sempre più rischiosi. Dalle «obbligazioni-spazzatura» ai mercati azionari in Paesi difficili come la Nigeria, l’Argentina e il Vietnam; dalle case costruite per pura speculazione edilizia agli incomprensibili derivati, questo è un film che abbiamo già visto, un po’ come la Grande bellezza.

Negli anni del boom del 2005-2007, l’ottimismo dei mercati aveva gonfiato un’enorme bolla in investimenti simili: roba da amici del brivido che però offriva la promessa di guadagni più alti dei conti in banca o dei Bot. 

Il resto, come dicono in America, è passato alla storia. Una storia dolorosa che parla del crollo di Lehman Brothers, di una disoccupazione lancinante negli Stati Uniti e di una lunghissima recessione in due continenti.

Per ora però il passato non importa. Si guarda avanti, anche se il futuro potrebbe essere un miraggio.

Wall Street ha coniato una frase per spiegare questo ritorno di fiamma del rischio: «search for yield», la caccia al rendimento – un eufemismo tecnico, un po’ professorale, un po’ Indiana Jones, che punta a rassicurare sia chi compra sia chi vende. 

Ma le parole melliflue non possono mascherare la realtà di un sistema finanziario che sembra in fila dietro il pifferaio di Hamelin.

 

Per capire la psicologia, o la follia, dei mercati attuali bisogna partire dall’immediato dopo-crisi, da quei giorni bui in cui l’economia mondiale era sull’orlo di una Depressione stile Anni 30. In quel momento, le banche centrali fecero l’unica cosa che potevano fare: abbassare i tassi d’interesse, iniettando denaro a poco prezzo nell’economia e ricapitalizzando il sistema finanziario nella speranza che imprese, banche, consumatori ricominciassero a fare quello che sanno.

La strategia ha funzionato solo in parte. Le politiche monetarie della Federal Reserve, la Banca Centrale Europea e la Banca d’Inghilterra (il Giappone arrivò dopo), riuscirono ad evitare che la Grande Recessione si trasformasse nella Grande Depressione. «E’ la differenza tra risparmiare sulle cene al ristorante e vivere sotto i ponti», mi ha detto uno dei funzionari della Fed che era nella stanza dei bottoni nel 2008.

Ha ragione. Il dopo-crisi sarebbe potuto andare molto, molto peggio. Ma il piano a lungo termine delle banche centrali è fallito. L’idea era quella di amministrare dosi da cavallo di stimolo per un breve periodo e lasciare che gli «spiriti animali» di Keynes – la voglia di fare congenita a produttori e consumatori – spingessero sull’acceleratore del capitalismo. 

Ma a quasi sei anni dalla crisi, le economie dei Paesi occidentali sono ancora in folle. In America, la crescita è minuscola, la disoccupazione ancora alta, il mercato immobiliare non in buona salute. In Europa, la situazione è ancora peggio, con lo spettro della deflazione che aleggia sulla zona-euro.

E allora i tassi d’interesse devono rimanere bassi, la Bce deve pensare a misure di stimolo simili a quelle della Fed e dei colleghi giapponesi.

Ma se i tassi rimangono dove sono, beni «sicuri» come le obbligazioni del Tesoro americane e il dollaro, non rendono granché. L’unica soluzione per gli investitori è spostarsi su beni più rischiosi perché offrono rendimenti più alti. «Cherchez la femme», dicono i francesi per spiegare comportamenti strani da parte degli uomini. Per gli investitori la frase è: «search for yield».

 

Viste attraverso questo prisma, le scelte dei signori del denaro sembrano razionali. Ford O’Neil, che è responsabile per circa 14 miliardi di dollari d’investimento al gigante del risparmio Fidelity, lo ha spiegato bene al Wall Street Journal. «I tassi d’interesse bassi – ha detto – stanno spingendo la gente verso beni più rischiosi dove pensano di guadagnare di più».

Quali sono i rischi di questo ritorno del rischio? Due in particolare: una ricaduta nella recessione da parte di un’economia-guida come gli Usa o l’Europa; e un aumento dei tassi d’interesse non anticipato dai mercati.

Per ora, nessuna delle due situazioni è probabile. E’ vero che la crescita economica sulle due sponde dell’Atlantico lascia molto a desiderare ma le chances di un rallentamento non sono alte, soprattutto con le banche centrali in stato d’allerta. Anche il rischio di una rapida salita dei tassi è basso, un po’ perché non avrebbe alcun senso nel frangente economico attuale e un po’ perché la Fed e la Bce hanno ormai imparato a telegrafare le proprie decisioni senza scioccare i mercati. 

La bolla finanziaria c’è ma siamo solo all’inizio del gonfiaggio – un periodo in cui i guadagni possono giustificare i rischi. In momenti come questo, è possibile fare soldi, anche molti soldi, se si azzeccano gli investimenti giusti. 

La salita vertiginosa dei mercati azionari americani l’anno scorso ne è la prova. La ricaduta degli stessi mercati quest’anno – soprattutto le azioni del settore della tecnologia e della biotecnologia – sono la contro-prova dei pericoli di un periodo incerto in cui i prezzi salgono ma la macro-economia ristagna.

Prima o poi, i tassi d’interesse saliranno, la psicologia degli investitori diventerà più conservatrice e la bolla si sgonfierà.

Ma per ora, come disse il vecchio capo di Citigroup Chuck Prince, «bisogna ballare fino a quando la musica smette». Attenzione, però, a dove sono le sedie…

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario 
del Wall Street Journal a New York. francesco.guerrera@wsj.com 
e su Twitter @guerreraf72. 

Da - http://www.lastampa.it/2014/06/02/cultura/opinioni/editoriali/a-wall-street-torna-di-moda-il-rischio-y6DzF8EUocEi7UanZ6qLpM/pagina.html


Titolo: FRANCESCO GUERRERA. I rischi di investitori troppo cinici
Inserito da: Admin - Luglio 03, 2014, 07:03:34 pm
Editoriali
30/06/2014

I rischi di investitori troppo cinici

Francesco Guerrera

«I mercati trasferiscono soldi da chi è attivo a chi è paziente». Le famose parole di Warren Buffett, che di pazienza e di mercati qualcosina ne sa, sono la chiosa ideale alla prima metà del 2014. 

Chi è stato paziente in questo periodo è diventato più ricco. Magari non ricco come Buffett, il cui genio per gli investimenti vale circa 65 miliardi di dollari, ma certo più ricco di come aveva incominciato l’anno. Il bello di questi sei mesi di grazia è che quasi tutti i tipi di investimenti sono all’attivo: dalle azioni - sia in Paesi sviluppati che in mercati emergenti - alle obbligazioni e perfino l’oro.

Non è assolutamente normale: di solito, se le azioni salgono perché i mercati si aspettano una ripresa economica, le obbligazioni e l’oro calano per paura dell’inflazione e di un rialzo dei tassi d’interesse. Questa volta no. Gli indicatori sono al verde tutti insieme appassionatamente per la prima volta in più di vent’anni. E come se ciò non bastasse, i mercati sono calmissimi. Guardatevi intorno: c’e un conflitto in Iraq che potrebbe fomentare venti di guerra nel Medio Oriente e far aumentare il prezzo del petrolio; una nuova dittatura militare in Tailandia, uno dei più grandi produttori di riso del mondo; e Putin si è annesso la Crimea, aumentando tensioni geopolitiche sulla soglia dell’Europa. 

E i mercati? «I mercati se ne fregano», mi ha detto un capo di una banca di Wall Street l’altro giorno, con un’espressione tra il sorpreso e il preoccupato. Poi ha alzato il suo bicchiere di vino e mi ha detto: «Beviamo per non dimenticare questo grande momento».

Il momento sarà anche grande ma fa un po’ paura. Un mercato menefreghista è un mercato vulnerabile al ritorno di realtà politiche ed economiche che rimangono molto poco rassicuranti.

Un’altra fase famosa di Buffett è: «Abbi paura quando gli altri sono avidi e sii avido quando gli altri hanno paura».

I numeri che vengono dall’America, l’Europa e la Cina non sono granché. 

Proprio questa settimana, le stime ufficiali hanno dichiarato che il prodotto interno lordo Usa è calato di quasi il 3% nei primi tre mesi dell’anno – un risultato choccante per un’economia che, in teoria, dovrebbe essere in piena ripresa. I mercati azionari sono saliti, ragionando che un’economia anemica costringerà la Federal Reserve a tenere aperti i cordoni dello stimolo ancora per un po’. 


Ma la realtà è che il primo trimestre ha segnato il più grande tonfo dell’economia Usa in cinque anni, un dato molto allarmante che non dovrebbe essere ignorato. La povera Europa è in condizioni simili ai giocatori azzurri in Brasile: vecchia, lenta e senza fiato. E persino il dragone cinese non è più capace di crescere a scavezzacollo come un tempo. 

I banchieri centrali sono preoccupati. «Gli investitori sono troppo compiaciuti di se stessi», mi ha detto un alto ufficiale della Fed l’altro giorno. Quando gli ho chiesto se la banca centrale potesse fare qualcosa per instillare un po’ più di realismo nei mercati ha allargato le braccia e sorriso, senza dire nulla.

Diciamocelo chiaramente: l’unico motivo per cui investitori grandi e piccoli comprano beni e azioni è la presenza delle banche centrali. I tassi bassi, le misure di stimolo e le parole melliflue da parte di Janet Yellen, Mario Draghi e Haruhiko Kuroda curano tutti i mali dei mercati in questo momento.

I «fondamentali» – gli utili delle aziende, la crescita economica e il quadro geopolitico – mancano ma in un periodo in cui ci sono poche alternative allo stimolo delle banche centrali, la fortuna aiuta i pazienti. 

Durerà? Certo non così. I prossimi sei mesi saranno un periodo di scelte difficili per investitori, imprenditori e banchieri. 

La dicotomia tra azioni e obbligazioni ritornerà. O le economie ricominciano a tirare, aiutando i mercati azionari e danneggiando beni del tesoro e debito aziendale; o si cade verso la crescita-zero, uno scenario che decimerebbe gli utili, i posti di lavoro e le azioni delle aziende.

La ripresa rimane il caso più probabile ma anche lì i rischi abbondano. Un ritorno di fiamma dell’economia, soprattutto in America, risveglierebbe lo spettro dell’inflazione. Dopo sei anni di vacche magre in pochi si ricordano che la Fed ha una visione apocalittica dell’inflazione. Al primo segno di rialzo nei prezzi al consumo e dei salari, la Yellen e i suoi potrebbero aumentare i tassi, una mossa che gli investitori odiano e non si aspettano.

Vista la situazione, la calma olimpica dei mercati fa paura. Conosco investitori di rango che già stanno uscendo dai mercati, contenti dei primi sei mesi e preoccupati del futuro incerto e, forse, cinico e baro che li attende. 

Ma sono in minoranza. Come spesso accade, gran parte dei signori del denaro e i loro discepoli sono convinti che il bicchiere è mezzo pieno. Nei primi sei mesi del 2014 hanno avuto ragione. 

Per ora, le parole di Buffett vanno accompagnate a quelle di George Bernard Shaw: «La regola d’oro è che non ci sono regole d’oro».

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York. francesco.guerrera@wsj.com. 

Su Twitter: @guerreraf72. 

Da - http://www.lastampa.it/2014/06/30/cultura/opinioni/editoriali/i-rischi-di-investitori-troppo-cinici-IKdiNDYbMflyMNYLZxdwfL/pagina.html


Titolo: FRANCESCO GUERRERA. Un rischioso senso di impotenza
Inserito da: Admin - Settembre 07, 2014, 05:12:43 pm
Un rischioso senso di impotenza
07/09/2014

Francesco Guerrera

A prima vista, la differenza non si vede. Come sempre, il lago di Como risplende nel sole autunnale, Villa d’Este pullula di potenti italiani e stranieri e i dibattiti vertono su argomenti profondi, seri e ambiziosi («Agenda per cambiare l’Europa»; «Oggi il mondo di domani»; «Un’alternativa per l’Italia» e così via). 

Ma a ben guardare c’è qualcosa di strano al forum economico Ambrosetti versione 2014. L’élite di politici, economisti e scienziati vede riflessa nelle acque cristalline del lago l’immagine della propria impotenza.

Dai conflitti dell’Est-Europa alle barbare decapitazioni nel Medio Oriente, dall’anemia economica che affligge l’Europa alla riluttanza a investire da parte d’imprenditori e aziende, i più importanti esponenti della politica e della finanza mondiale poco possono.

Se ne parla, dei problemi annosi e di quelli più recenti, si cercano di mandare messaggi a Putin, a Draghi, a Renzi; si critica la leadership di Obama e la strategia pappamolla dell’Unione Europea nei confronti della Russia. Ma sembra un copione un po’ stanco. Un dovere più che un desiderio vero di affrontare le sfide enormi che la geopolitica e i mercati stanno ponendo alla classe dirigente del pianeta. 

«Nell’era del terrore, non ci sono vittorie, solo successi temporanei», ha detto uno dei partecipanti alla platea. Si riferiva al terrorismo che sta sconvolgendo il Medio Oriente, ma è una frase che si addice anche ad altre questioni.

Il simposio della Ambrosetti stava per iniziare giovedì quando la Banca Centrale Europea ha sorpreso i mercati con un nuovo taglio ai tassi d’interesse e l’inizio di una manovra di stimolo enorme. Gli investitori hanno applaudito, gli imprenditori, soprattutto quelli che esportano, si sono preparati a godersi un euro in ribasso e le banche hanno promesso di prestare di più.

Ma il «magic moment» non è durato nemmeno ventiquattr’ore. Venerdì mattina, è arrivato Peter Praet, uno dei luogotenenti di Mario Draghi, a stemperare gli entusiasmi. «Le politiche monetarie possono solo comprare del tempo e non risolvere i problemi strutturali delle nostre società», ha spiegato il barbuto belga, che siede nel comitato esecutivo della Bce.

Traduzione: noi banchieri centrali abbiamo fatto tutto il possibile e forse di più, se i politici non ci aiutano, la ripresa economica ve la scordate e i miliardi di stimolo staranno buttati al vento. 

I mercati questo lo sanno e hanno già ripreso il tran-tran di prima del taglio dei tassi. 

La differenza cruciale con l’America, dove queste dosi da cavallo di stimolo hanno evitato la depressione e rilanciato l’economia, è che l’economia Usa è più flessibile. Lascio ad altri i giudizi politici e morali sui diritti dei lavoratori e i costi della sanità e altri servizi, ma non c’è dubbio che gli Stati Uniti sono un atleta più agile: quando cadono al tappeto si rialzano più velocemente della vecchia Europa. 

Gli investitori se sono accorti e stanno spingendo le Borse americane da record a record, nonostante i venti di guerra provenienti dall’Est e dal Sud del mondo. 

Non è che la mossa di Draghi non avrà effetti positivi: l’euro scenderà aiutando i produttori europei che vogliono vendere all’estero. E anche gli spread sui buoni del Tesoro andranno giù, consentendo a debitori cronici come l’Italia di respirare un pochino.

Ma non sono vittorie definitive, solo successi di tappa, traguardi della montagna in una corsa in cui non si sono ancora affrontati né le Alpi, né i Pirenei.

Quando ho chiesto a un imprenditore straniero perché non investisse di più in Italia, ha guardato per un po’ il lago, forse cercando di non offendermi con la sua risposta. «Che le devo dire?» ha sospirato. «Qui ci vogliono mesi per ottenere permessi e il mercato del lavoro è ossificato». 

«Però il posto è stupendo», ha aggiunto, quasi scusandosi per le parole sincere e crudeli .

Non è il solo. Quando i partecipanti del forum hanno dovuto indicare il loro livello di fiducia nelle sorti economiche dell’Ue, quasi la metà ha risposto «basso» o «molto basso». E’ una statistica preoccupante, soprattutto perché rilevata a meno di due giorni dall’annuncio dello stimolo massiccio della Bce.

La realtà è che le fantomatiche «riforme strutturali» – il mercato del lavoro, le pensioni, la sanità, le tasse ecc. ecc. – non le fa o non le vuole fare nessuno. Non i politici, né tantomeno l’elettorato. Forse l’attuale governo italiano sarà un’eccezione, ma per ora quasi tutta l’Europa è afflitta dalla sindrome «nimby», l’acronimo inglese per «Not In My Back Yard»: fate pure qualsiasi riforma, ma non nel mio cortile di casa. 

L’impotenza dell’economia fa da contrappunto alla debolezza della politica estera dei blocchi occidentali. Dietro le quinte settecentesche di Villa d’Este il dialogo su l’Ucraina e il terrorismo islamico è stato un misto deprimente di dichiarazioni aggressive e ammicchi al compromesso, con l’Europa e l’America impegnati in un gioco transatlantico di scaricabarile.

«Putin non ha niente di cui temere da questi qui», mi ha detto un esperto di politica estera dopo l’ennesimo briefing fine a se stesso.

Niente è ancora perduto perché l’economia e la politica offrono spesso un’altra chance, ma sprecare giorni, settimane e mesi non facilita la situazione. I terroristi si sentono più forti, i nemici ai confini osano di più e i cervelli e gli investitori vanno altrove.

Forse il problema è l’esistenza del salotto buono, come crede il primo ministro. Oppure il fatto che quelli seduti sui divani si ostinano a passare il tempo tra il futile e il dilettevole.


Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del «Wall Street Journal» a New York. francesco.guerrera@wsj.com e su Twitter @guerreraf72

Da - http://lastampa.it/2014/09/07/cultura/opinioni/editoriali/un-rischioso-senso-di-impotenza-lByI06uurYr097gohY4z2L/pagina.html


Titolo: FRANCESCO GUERRERA. Se il football americano non fa scandalo
Inserito da: Admin - Settembre 22, 2014, 04:06:36 pm
Se il football americano non fa scandalo
22/09/2014

Francesco Guerrera

Quando l’America si guarda allo specchio, l’immagine riflessa fa spesso paura.

Una società non naturalmente portata all’introspezione ha bisogno di scandali o di avvenimenti eccezionali - dallo sbarco sulla luna all’ assassinio di Kennedy all’attacco alle torri gemelle - per guardare a se stessa.

Nelle ultime settimane, il football Americano, lo sport nazionale, ha fornito una sequela di notizie talmente choccanti da provocare un nuovo esame di coscienza.

È un esame che passa per una telecamera a circuito chiuso in un ascensore di un casino di Atlantic City. Le immagini sono un po’ sfuocate ma non abbastanza da nascondere il pugno codardo e devastante di Ray Rice, una superstar del football, che manda la fidanzata contro la parete e poi al tappeto con un tonfo. Non abbastanza da nascondere il corpo tozzo e muscoloso di Rice mentre trascina la ragazza (che ora, incredibilmente, è sua moglie) fuori dall’ascensore. 

L’esame continua con Adrian Peterson dei Minnesota Vikings, un altro eroe del football, che è stato accusato di aver picchiato il figlio di quattro anni con un ramo d’albero, lacerandogli le gambe. Le foto, che ora per fortuna su Internet non si trovano più, fanno venire le lacrime agli occhi.

Gli scandali sono raccapriccianti: giganti umani costruiti per giocare in uno degli sport più violenti del pianeta che si accaniscono su donne e bambini. Ma l’establishment di sponsor, televisioni e persino fans, non ha voglia di uccidere la gallina dalle uova d’oro. 

Il football Americano è un big business. In un’era in cui non esistono quasi più eventi di massa, dove la proliferazione di Internet, telefoni «intelligenti» e video-registratori elettronici consente a chiunque di guardare quello che vuole quando vuole, le partite della National Football League - la Serie A del football - sono uno dei pochi momenti in cui l’America si raduna davanti alla televisione senza tante distrazioni.

Lo slogan della Nfl - «Together We Make Football», il football lo facciamo insieme - è un inno allo sport come simbolo unificante di una nazione enorme, eclettica e eterogenea. «C’è una sola sicurezza nella televisione di oggi: la Nfl», mi ha detto di recente un veterano della pubblicità, che di solito si lamenta di come sia difficile raggiungere un pubblico sempre più inafferrabile.

Domenica scorsa, più di ventidue milioni di americani si sono seduti a guardare un match tra i San Francisco 49ers e i Chicago Bears. Quelle tre ore di mischie, passaggi e touchdowns sono state il programma televisivo più visto della settimana. 

È per questo che i networks americani pagano centinaia di milioni di dollari per diritti televisivi e gli sponsor aggiungono miliardi per mettere le facce e i muscoli dei vari Rice e Peterson vicino alla Pepsi Cola, al Gatorade e alle scarpe della Nike.

Non è un caso che il fatturato annuale della Nfl sia quasi dieci miliardi di dollari, più di Facebook e Twitter messi insieme.

E non è un caso che di fronte agli orrori degli ultimi giorni, la risposta degli sponsor sia stata patetica. Alcuni, ovviamente hanno deplorato gli attacchi. Indra Nooyi, la signora che è a capo della Pepsi, ha detto parole importanti sulla violenza contro le donne, condannando «il comportamento rivoltante» di alcuni atleti.

Ma solo un’azienda - gli hotels Radisson - ha fatto qualcosa di concreto, cancellando il contratto con i Vikings. Gli altri si sono nascosti dietro ragioni legali e discorsi di circostanza, sperando che la tempesta passi e che il pubblico ritorni a occuparsi di statistiche, di quale allenatore verrà silurato prima di Natale e di chi vincerà il Super Bowl.

È facile dire che le botte di Rice e Peterson non sono indicative di un malessere più grande nella società americana. Basta sostenere, come hanno fatto in tanti, che il football è uno sport basato sulla violenza, dove il contatto fisico è obbligatorio e fondamentale. Non c’è da sorprendersi - dicono gli amanti della Nfl - se qualche volta i campioni si portano il lavoro a casa.

Ma la risposta agli obbrobri recenti nasconde tensioni e problemi più gravi. Nessuno sport è senza peccato e non sarà certo l’Europa, con i suoi calcioscommesse e ciclisti dopati, a scagliare la prima pietra. 

Noi patiti dello sport accettiamo implicitamente che i nostri eroi della domenica non siano sempre degli stinchi di santi. Quello che non è accettabile, però, è che una società intera si rifuti di prendere atto delle sue debolezze per motivi economico-finanziari. In questo senso, l’America è peggio dell’Europa.

Se gli sponsor avessero condannato Rice e Peterson immediatamente, se la Nfl non avesse sospeso Rice per solo due partite (prima di vergognarsi e di sospenderlo a tempo indeterminato), se i Ravens di Baltimora non avessero aspettato mesi prima di licenziare Rice, e se i fan avessero smesso di guardare le partite, il messaggio sarebbe stato chiaro: in America, nel 2014, nessuno, nemmeno i semidei del football, può picchiare donne e bambini con impunità.

Vi risparmio prediche sul consumismo americano perché sono convinto che non sia un fenomeno nefasto, ma in questo caso, la voglia di consumare «prodotti», dalle partite della Nfl agli articoli offerti dagli sponsor, ha mandato in tilt il compasso morale degli Stati Uniti.

L’unica cosa buona è che in questo momento in America non si parla d’altro. Il silenzio dei potenti ha acceso un dibattito vigoroso in fori informali ma efficaci: blog, Twitter, luoghi di lavoro, i bar dello sport.

Per ora sono solo parole. Non ci sono boicottaggi né delle partite né delle Nike. Ma è un segno che la cosiddetta «gente comune» ha più buon senso di chi tiene i cordoni della borsa.

Nei prossimi settimane e mesi, qualcosa cambierà. Forse licenzieranno i capi della Nfl. Forse gli sponsor si renderanno conto che la loro posizione è insostenibile. Forse gli atleti finalmente capiranno che devono essere esempi anche fuori dal campo.

Ma per ora, quando l’America si guarda allo specchio, l’immagine riflessa è quella della signora Rice e del piccolo Peterson.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York. 
francesco.guerrera@wsj.com e su Twitter: @guerreraf72 

da - http://lastampa.it/2014/09/22/cultura/opinioni/editoriali/se-il-football-americano-non-fa-scandalo-RGHbLDhGLzatSK283oTrZL/pagina.html


Titolo: FRANCESCO GUERRERA. L’America ferita tra Isis, Ebola e la debolezza dei mercati
Inserito da: Admin - Ottobre 21, 2014, 05:41:13 pm
L’America ferita tra Isis, Ebola e la debolezza dei mercati

21/10/2014
Francesco Guerrera

La scorsa settimana ero tra le pietre immortali del Grand Canyon, in vacanza, quando Ebola è passato da virus sconosciuto a pericolo vero per milioni di americani. Ammiravo le cime della Monument Valley rese famose dai film western di John Wayne quando i mercati sono colati a picco, spaventati dal pericolo di una recessione globale. E passavo tra paesi sperduti dai nomi poetici – Tuba City, Springdale, Hurricane, l’«america» con la A minuscola – mentre l’America, quella grande, si barcamenava tra una guerra calda in Medio Oriente e una fredda con la Russia di Putin. 

La televisione e le e-mail raccontavano la storia di un Paese confuso e impaurito. Di un Presidente in difficoltà, incapace di calmare una nazione che non ha bisogno di uno «zar» anti-Ebola o di discorsi retorici, ma di una pacca sulla spalla dopo il bombardamento giornaliero di news cupe e preoccupanti.

Se c’è un filo conduttore tra una malattia devastante (ma rara), il malessere dei mercati e la follia omicida degli estremisti cacciatori di teste è la vulnerabilità di un’America che si trova sola, o poco accompagnata, a far fronte ai problemi del mondo.

Un Paese che ha fatto dell’ottimismo la sua ragione d’essere sta dubitando di se stesso. «Non ci sono più certezze, nessuno è sicuro», mi ha scritto un investitore che di solito non ama l’iperbole.

Stava cercando di spiegare la caduta a picco delle Borse mondiali, ma la frase descrive bene la condizione attuale degli Stati Uniti: quando gli americani alzano gli occhi dalla loro vita quotidiana, hanno paura. 

E’ un paradosso raro nella storia recente degli Usa: la situazione interna è abbastanza positiva, ma i pericoli esterni sono minacciosi e in aumento.

Vista dal Grand Canyon, con le sue orde di turisti benestanti e tutto sommato ben educati (guidano piano, non danno da mangiare agli animali e buttano le bottiglie nell’apposito contenitore), l’America sembra in buona salute. 

 

L’economia sta ricominciando a tirare, la disoccupazione è al livello più basso dai tempi della crisi finanziaria e il mercato dei consumi è in netta ripresa. Basta pensare a quanti americani viaggiano, mangiano al ristorante e attendono con ansia il lancio del nuovo gadget per i pagamenti firmato Apple per avere un’altra scusa per spendere di più.

Gli Usa stanno molto meglio dell’Europa, dove la recessione si tocca con mano, e persino della Cina, che sta rallentando più del previsto e deve affrontare l’attacco al suo regime da parte dei ragazzi di Hong Kong.

Ma nel mondo globalizzato di oggi, il benessere interno non basta. Se sei l’ultima superpotenza rimasta, a te spettano tutti i grattacapi del pianeta. L’Europa guarda verso l’Atlantico per difendersi da Putin e far ripartire un’economia in panne. L’Africa malata chiede agli Usa di creare un sistema sanitario quasi dal nulla perché i tremila morti di Ebola non diventino trecentomila o tre milioni.

E anche se Pechino non lo dice, la Cina ha bisogno degli Usa sia per stimolare la propria economia – tocca agli americani comprare i prodotti cinesi – sia per evitare una nuova Tiananmen tra i grattacieli di Hong Kong.

Di fronte a sfide così grandi, gli Usa di oggi, ridimensionati sul piano internazionale e ancora non al top nel campo economico, fanno fatica. Non è un caso che i mercati – un barometro cinico, spassionato e crudele – siano scombussolati da tutte queste incertezze.

Attenzione però a dipingere il quadro con colori troppo scuri. Le trappole ci sono ma, come spesso accade, i mercati e le Cassandre esagerano. Prendiamo, per esempio, il citatissimo rischio di deflazione, l’Ebola dell’economia, che tutto d’un tratto è diventato un habitué sui titoli dei giornali e le bocche degli «esperti».

E’ vero che l’Europa rallenta, la Cina cresce meno e gli Usa non sono una locomotiva velocissima. Ma ciò non vuol dire che siamo sull’orlo di deflazione e recessione – un calo dei prezzi accompagnato da crescita economica negativa. Con l’America in ripresa, spinta da consumatori più in salute e prezzo stracciato del petrolio, l’euro basso che aiuterà economie legate alle esportazioni come la Germania e l’Italia, e la Cina che, se va male, crescerà del 7% annuo, siamo molto lontani da una nuova crisi. 

Chi si butta sui beni rifugio, come le obbligazioni del governo e l’oro, deve ricordarsi che riceverà un reddito bassissimo in cambio: è una polizza salata per assicurarsi contro un’eventualità remota.

Lo stesso vale per l’Ebola. E’ una tragedia in Africa, ma per ora non ci sono le condizioni per trasformarla in pandemia. A differenza di virus più resistenti quale la Sars, l’Ebola si trasmette con difficoltà. I portatori sono contagiosi solo quando hanno la febbre alta e anche in quel caso, ci vuole contatto prolungato e diretto tra persone.

 

Gli errori del governo americano con i primi pazienti faranno sì che i controlli saranno molto più stretti sia negli aeroporti che negli ospedali. La Cnn non lo dice, ma quest’ anno (e l’anno prossimo e quello dopo ancora) molti più americani moriranno in incidenti di macchina che di Ebola. 

Rimangono le guerre, calde e fredde. Non scompariranno, ma i conflitti sono ormai parte della vita moderna. Prima di quest’ultimo momento di panico, i mercati, le economie e la gente comune erano riusciti a proseguire per le loro strade nonostante le molte conflagrazioni in Siria, Iraq e Ucraina.

Forse risciacquare i panni nell’America più semplice ed ottimista del «motherhood and apple pie» – della mamma e della torta di mele – mi ha reso meno attento ai problemi del mondo. Forse il ritorno a New York mi farà capire la gravità della situazione.

Ma da qui, mentre sorvolo le grandi praterie che dividono questo Paese immenso, l’America sembra debole, fragile e vulnerabile, ma non sconfitta.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal 
A New York. Email: francesco.guerrera@wsj.com e su Twitter: @guerreraf72. 

Da - http://www.lastampa.it/2014/10/21/cultura/opinioni/editoriali/lamerica-ferita-tra-isis-ebola-e-la-debolezza-dei-mercati-zoqCIjqxiwO0fu8SFgL4dO/pagina.html


Titolo: FRANCESCO GUERRERA. La scommessa dei nuovi ricchi di Wall Street
Inserito da: Admin - Novembre 17, 2014, 05:14:25 pm
La scommessa dei nuovi ricchi di Wall Street
17/11/2014

Francesco Guerrera

Com’è andata la settimana? Per quasi tutti noi, la risposta è: senza infamia e senza lode. I miei ultimi sette giorni, per esempio, sono stati occupati da beghe, piccole vittorie quotidiane e il sollievo di qualche progetto a più lungo respiro. 

Ma per 78 uomini e donne, la settimana scorsa è stata l’inizio di un’ altra vita. Mi riferisco al piccolo plotone di banchieri, traders e specialisti della finanza che è stato promosso al rango di «partner» a Goldman Sachs, la posizione più alta nella banca d’affari.

Ai magnifici 78, buona fortuna, o come dicono ai nuovi assunti a Goldman: «Don’t screw it up», «Non rovinate tutto». Al resto di noi, soprattutto quelli che hanno avuto una settimana così così, spetta riflettere sul simbolismo e la sostanza della decisione. Come spesso accade, il mondo della finanza guarda a Goldman per prendere atto del suo stato di salute, prestigio e valore sociale. 

La scelta dei nuovi partner non è un’eccezione. La Wall Street che si specchia nei 67 uomini e 11 donne ha le rughe della crisi finanziaria, problemi economici creati da nuove regole e patemi d’animo per il suo ruolo in una società americana sempre più in tumulto. 

Incominciamo, però, con le buone notizie. Diventare partner a Goldman significa far parte di un club esclusivo - il titolo è conferito a meno del 2 per cento degli impiegati, e solo ogni due anni -, con la responsabilità di guidare la banca più famosa, invidiata e copiata del mondo. Ma è anche un biglietto solo andata verso soldi, fama e prestigio. 

I partner di Goldman guadagnano un salario annuo di almeno 900.000 dollari ingigantito da bonus principeschi. E avere il famoso rango sul curriculum è una garanzia di futuro impiego in altre banche, hedge funds e persino nel governo degli Stati Uniti (che i critici di sinistra spesso chiamano «Government Sachs» per la presenza pesante di ex partner). 

Il bello, per i nuovi arrivati, è che la promozione non porta con sé i pericoli di una volta. Quando Goldman era una «partnership», una società a nome collettivo, i partner mettevano a rischio il proprio capitale: se la banca perdeva soldi, i partner erano i primi a rimetterci. Ma dal 1999 quando Goldman si fece quotare in Borsa, gli azionisti e i creditori hanno assunto il ruolo di rete di sicurezza dalla società. 

Goldman mantiene il titolo come status symbol, un marchio Doc di appartenenza all’élite della finanza. Ho parlato con uno dei 78 mercoledì sera, a poche ore dall’annuncio, e mi ha detto di essere stato sommerso da email di congratulazioni: centinaia di missive elettroniche nello spazio di pochi minuti, molte da gente che non sentiva da anni. Quando gli ho chiesto se si sentiva diverso, ha scosso la testa dicendo che poco o niente sarebbe cambiato nella vita e nel lavoro da giovedì mattina.

Fa bene a tenere i piedi per terra. La crisi finanziaria è a soli sei anni di distanza e sono ancora presenti molti dei problemi che fecero delle banche in generale, e di Goldman in particolare, il nemico pubblico numero uno. 

Per ora, l’astio nei confronti dei professionisti della finanza - quell’astio che portò il Congresso a passare regole dure e spinse ragazzi arrabbiati a creare Occupy Wall Street - è stato placato da un’economia in ripresa, un mercato azionario in grande spolvero e riforme serie portate avanti dalle banche.

Gli eccessi, se ci sono, si vedono meno. Anche a New York, la ricchezza non è più ostentata come una volta. Meno bottiglie di Krug, meno Bentley parcheggiate fuori dalle discoteche, meno feste di compleanno stile Versailles. E quasi tutti i banchieri con cui parlo premettono che non ci deve lamentare perché nel loro mestiere si guadagna più che in altre industrie. 

I regolatori ci hanno messo del loro, impedendo alle banche di prendere parte in attività che in passato avevano portato a problemi sia finanziari sia sociali: grandi rischi ricompensati da grandi bonus che spesso incoraggiavano i traders a prendere rischi ancora più grandi, mettendo a repentaglio miliardi di dollari (vedi alla voce: Kerviel, Jerome).

E’ per questo che Zuccotti Park - il quartiere generale di Occupy a pochi passi dal quartier generale di Goldman - non è più occupato, che la gente comune si sta preoccupando di altro (il virus Ebola, l’arrivo di Bradley Cooper sul palcoscenico di Broadway; la forma penosa dei New York Knicks ecc.) e che i banchieri stanno vivendo sonni abbastanza tranquilli.

Ma attenzione a dare per scontato questo momento di pace. Sotto la superficie, Wall Street è tutt’altro che tranquilla. Le nuove regole del gioco del dopo-crisi stanno creando difficoltà enormi per le banche. Senza la possibilità di prendere rischi con i propri soldi - e di amplificarne i guadagni usando enormi quantità di debito - gli utili delle banche stanno soffrendo e gli investitori se ne sono accorti. 

Le azioni di Goldman valgono quasi il 20% di meno di prima della crisi. E anzi, Goldman sta andando meglio di molti altri rivali. Le azioni di Citigroup valgono un decimo di prima della crisi. Le banche stanno tagliando i costi come e quando possono - impiegati, uffici, viaggi - e non è un caso che Goldman abbia promosso solo 78 partner, una delle classi più piccole dal 1999. Ma i mercati finanziari non sono sicuri che basterà. 

Non sono convinti che Goldman e compagnia abbiano delle strategie che gli permetteranno di fare soldi a lungo termine e sopravvivere in una giungla finanziaria che è stata completamente trasformata negli ultimi sei anni.

Quando brindano, discretamente, alla loro nuova vita, i 78 partner di Goldman dovranno sperare di non essere tra gli ultimi membri di una specie in via d’estinzione.

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York. 
francesco.guerrera@wsj.com 
su Twitter: @guerreraf72 

da - http://www.lastampa.it/2014/11/17/cultura/opinioni/editoriali/la-scommessa-dei-nuovi-ricchi-di-wall-street-AUpiyCPpAe55eVNBuXz84L/pagina.html


Titolo: Francesco GUERRERA L’Europa perde Londra, il mondo ora è in bilico
Inserito da: Arlecchino - Giugno 26, 2016, 12:13:34 pm
L’Europa perde Londra, il mondo ora è in bilico
Arginare il contagio diventa la priorità di Bruxelles.
Intanto il Regno Unito cerca una nuova identità, tra la relazione con gli Usa e i rischi finanziari

25/06/2016
Francesco Guerrera

Si dice che nei giorni prima dello storico referendum britannico, la regina Elisabetta chiedesse a tutti gli invitati a Buckingham Palace: «Mi dia tre ragioni perché la Gran Bretagna deve rimanere in Europa». 

Ma nel segreto dell’urna, di ragioni i sudditi della regina non ne hanno volute sentire. Hanno votato con la pancia e non con la testa, scioccando il mondo, sconvolgendo i mercati e rivoluzionando il sistema politico britannico.

«Non posso credere che l’abbiano fatto. Non posso credere che l’abbiano fatto», continuava a ripetere un amico banchiere alle quattro e mezzo di mattina di ieri, quando è diventato chiaro che la Brexit aveva vinto non solo su chi voleva rimanere in Europa ma anche sui sondaggi, gli scommettitori e gli strapagati trader della City.

«All change», come si dice sui treni inglesi arrivati al capolinea. Scendete tutti, qui si cambia. Il mondo non sarà più lo stesso. Lo ha detto Angela Merkel con tipica sincerità: «Non ci stiamo a raccontare storie: il voto inglese è uno spartiacque per l’Europa». E non solo per l’Europa. Le scosse del terremoto innescato dal fuggi fuggi di milioni di britannici dall’Unione Europea si risentiranno a Washington e New York a Pechino e in Australia.

Ma incominciamo da Bruxelles e le grandi capitali europee, che nelle prossime ore dovranno decidere come reagire a questo schiaffo pesante da parte della Gran Bretagna. 

Porgere l’altra guancia, in questo caso, non sembra un’opzione. Nei corridoi del potere europeo la più grande preoccupazione in questo momento è evitare il contagio di Brexit. E il modo migliore per farlo è far vedere che chi esce dall’Ue soffre. Che la Gran Bretagna non si merita nessuna concessione speciale.

 
Già Marine Le Pen ha chiesto un referendum su «Frexit». In paesi come l’Italia, la Spagna che va alle urne domenica, e la stessa Germania, si respira un tossico mix di rabbia delle classi medie che si sentono «derubate» dalla crisi economica, paura dell’immigrazione, e profondo malcontento nei confronti di un’élite politica considerata incapace, insensibile o corrotta (o tutte e tre).

Il problema per Bruxelles e la Merkel, per Renzi e Rajoy è che le strutture istituzionali europee sono così distanti dai cittadini che sarà difficilissimo cambiare le opinioni della gente. Quando i richiami alla democrazia e al «sogno» di una federazione europea vengono dai palazzoni del quartiere europeo di Bruxelles, dai ministeri di Roma o dalle cancellerie federali tedesche, non è sorprendente che la gente guardi altrove.

«I burocrati e i leader politici sanno quello che devono fare ma non riescono a farlo. Non sono in contatto con la popolazione», mi ha detto un diplomatico britannico ieri. 

Almeno da oggi i politici europei ormai sanno la fine che faranno se continuano a ignorare le proteste che vengono dalle strade delle città più povere, dalle periferie delle metropoli e dalle fabbriche in crisi.

Faranno la fine di David Cameron, il primo ministro britannico, anzi, ex primo ministro britannico, il cui mandato è finito di fronte al Numero 10 di Downing Street in un bagno d’ignominia. Alla fine la colpa è sua, per aver scommesso sul referendum e perso. Per non aver capito da che parte tirava il vento politico del suo paese.

UN PAESE ALLA DERIVA 

Cameron se n’è andato lasciando il galeone britannico senza timoniere. Per i prossimi tre mesi, assisteremo a uno scontro feroce tra varie fazioni del partito conservatore per prendere il comando del partito e del Paese. 

E mentre le «grandi belve» del partito conservatore, come i vari Boris Johnson, Theresa May e Michael Gove amano chiamarsi, si scannano, il paese andrà alla deriva. «L’evento più disastroso nella storia della Gran Bretagna dalla fine della seconda guerra mondiale», lo ha chiamato il mio vecchio collega Martin Wolf, di solito un pacato commentatore economico per il Financial Times.

 UN NUOVO RUOLO 

La posizione della Gran Bretagna nel mondo cambierà. Per secoli, il paese è stato ancorato a qualcosa di molto concreto: prima l’Impero, poi il Commonwealth delle colonie e, più di recente, l’Ue. Ora è in balia di se stesso. Ammiccherà agli Stati Uniti ma Obama ha già detto che la famosa «relazione speciale» non si estende a preferenze tariffarie o di commercio. E non credo che una presidente Clinton, e nemmeno un presidente Trump, possa cambiare idea, soprattutto se gli europei mettono pressione.

Per non scivolare in un circolo vizioso di protezionismo la Gran Bretagna potrebbe appoggiarsi alle vecchie colonie del Commonwealth ma l’India, l’Australia e compagnia vogliono esportare prodotti e persone nel Regno Unito, non certo rimpiazzare il mercato unico europeo, quel mare di 500 milioni di persone e 19 triliardi di dollari di Pil pronto a comprare beni e, soprattutto, servizi dai britannici.

Già, la grande economia britannica fondata sui servizi, un epitome del capitalismo moderno, digitale e non «appesantito» da industrie vecchio-stampo. Che succederà a questi venditori di servizi una volta che l’Europa erige barriere economiche e tariffarie? Bastava farsi un giro nella City, il fornitore principale dei servizi made in Britain, ieri per toccare con mano la paura. 

Gli alti funzionari delle banche già sussurrano che dovranno spostare migliaia di posti di lavoro da Londra a Dublino, Francoforte o Parigi perché l’Ue non gli permetterà di operare in Europa se non sono nell’Ue. Il ragionamento non fa una grinza ma farà malissimo a un’economia inglese che deriva quasi il 10% del Pil dai signori e dalle signore del denaro. Un amico banchiere a New York già pronosticava ieri, a meno di 12 ore dai risultati del voto, che la Grande Mela avrebbe fregato a Londra «la corona di capitale mondiale della finanza».

Parlando di mele, però, attenzione perché l’America non è senza peccato. Il successore di Obama dovrà prendere una decisione che nessun Presidente americano ha dovuto prendere nell’era moderna: scegliere tra l’Europa e la Gran Bretagna come «alleato favorito». Da una parte c’è la relazione militare con uno dei pochi paesi che ha un esercito forte e la voglia di usarlo. Che è stato a fianco degli americani in tutte le guerre e gli interventi esteri del passato recente, anche quando ne ha pagato molto in termini di vite umane e carriere politiche (basta chiedere a Tony Blair sull’Iraq). 

Nell’altro angolo, c’è il partner commerciale più importante per gli Usa, un’Unione Europea che ha il potere economico per trainare l’economia mondiale e un mercato per assorbire prodotti e servizi fatti negli Stati Uniti: dalla tecnologia di Google alle turbine nucleari della General Electric.

 
Alla fine, e lì che si giocherà la partita: sulla relazione di amore e odio tra l’Ue che è stata snobbata e la «nuova» Gran Bretagna in cerca d’identità e amici nel mondo. Gli Azzeccagarbugli della burocrazia di Bruxelles dicono che ci vorranno almeno due anni per negoziare i dettagli della Brexit. Per scrivere da capo una nuova storia economica, geopolitica e sociale tra 27 paesi che tenteranno di stare insieme e un’isola che ha deciso di andarsene per conto suo senza pensare tanto alle conseguenze.

IN CERCA DEL LIETO FINE 

Saranno mesi e anni di passione. La storia potrebbe avere un lieto fine: un mondo «multipolare» in cui l’«Anglosfera» Gran Bretagna-Usa convive in maniera proficua con una rinvigorita Ue e le forze emergenti dell’Est e del Sud del mondo.

Ma potrebbe anche finire male. «Io e te vedremo la guerra durante le nostre vite», mi ha detto il mio amico banchiere ieri mattina dopo essere atterrato alla fine di un lungo volo. Al momento, ho attribuito il commento al fuso orario, alla confusione del dopo-voto, alle emozioni di una notte referendaria incredibile. Ma dopo Brexit, il mondo è in bilico.

 La mappa del Telegraph che mostra la spaccatura del voto: nelle zone blu ha vinto il “remain”, in quelle rosse il “leave” 

Francesco Guerrera è il condirettore e caporedattore finanziario di Politico Europe 

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Da - http://www.lastampa.it/2016/06/25/esteri/leuropa-perde-londra-il-mondo-ora-in-bilico-fzLuTgTaCKVXy53XmIZzHM/pagina.html


Titolo: Francesco GUERRERA - Il boomerang della sterlina sulla Brexit
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 15, 2016, 07:21:22 pm
Il boomerang della sterlina sulla Brexit

13/10/2016
Francesco Guerrera

«Le possibilità di sconfitta non ci interessano affatto. Per noi, non esistono». Servirebbero le parole della Regina Vittoria per aiutare la povera sterlina durante il divorzio in corso tra Regno Unito ed Europa.  

Era dai tempi proprio della vecchia regina che la moneta inglese non era caduta così in basso nei confronti delle valute dei partner commerciali britannici. Dal 1848, per essere precisi.  

E ci vorrà tutto la «stiff upper lip», il labbro rigido simboleggiato dalle parole di Vittoria, per superare la bufera economica scatenata dall’addio britannico all’Unione Europea.  

Le monete sono un po’ come le linee aeree nazionali. Non è obbligatorio che siano forti ma quando lo sono, l’orgoglio nazionale ci guadagna. E in questo momento, la sterlina è in caduta libera. È già ai livelli più bassi in più di trent’anni nei confronti del dollaro, vale meno di un euro in molti sportelli di cambio della Gran Bretagna (anche se il cambio ufficiale è ancora intorno a un euro e undici centesimi), e i trader continuano a dire che la valuta britannica continuerà a scendere.  

Il motivo è chiaro. Le parole dure della prima ministra Theresa May («La Brexit vuol dire Brexit», dice sempre la nuova dama di ferro) fanno pensare ai mercati che la rottura con l’Ue sarà netta, senza accesso al famoso mercato unico e con conseguenze pesanti per l’economia britannica.  

A dire il vero, c’è a chi un po’ di svalutazione non dispiace. Le società che esportano per esempio - ed è per questo che l’indice azionario-guida Ftse 100 sta andando bene - quelle che si fanno pagare in euro e dollari e, ovviamente, i turisti europei, asiatici e americani.  

Sono stato ad Harrods di recente e il lussuoso grande magazzino di Londra sembrava il Maracanà quando gioca il Brasile. Ma invece dei tifosi un po’ trasandati carioca, nello stadio dello shopping c’erano le signore francesi stile Catherine Deneuve, le ragazze giapponesi che non riescono a non ridere, e le mogli di petrolieri arabi nascoste dietro a veli impenetrabili. Tutte pronte a usare le loro potenti divise per comprare vestiti, profumi e gioielli quotati in tartassati pound.

 
I fautori del Brexit amano sentire storie di shopping e di stranieri e hanno ragione: le spese dei turisti, i loro pasti e notti alberghiere aiuteranno l’economia britannica. Ed è senz’altro vero che le esportazioni saliranno grazie alla sterlina debole.  

 Ma non sarà abbastanza. I numeri non mentono: il Regno Unito ha un disavanzo commerciale notevole, ovverosia, importa più di quello che esporta.  

 Una moneta debole non è una buona cosa in queste condizioni perché aumenta i prezzi delle importazioni, gonfia l’inflazione e riduce il potere di acquisto dei consumatori. E le esportazioni non possono colmare il margine perché sono meno di un terzo del prodotto interno lordo inglese, il resto è consumo, investimenti e altre attività che non sono aiutate da una moneta debole.

Mark Carney il capo della Banca d’Inghilterra ha più volte ammonito, con una bella citazione di Tennesse Williams, che un’economia che dipende dalla «gentilezza degli altri» è sempre a rischio.  

 Per ora, i rischi sono contenuti perché i flussi di capitale verso il Regno Unito sono molto forti, grazie al fatto che Londra è un centro mondiale della finanza. Ma cosa succederà dopo la Brexit, soprattutto se sarà una «Hard Brexit», la Brexit dura preferita dalla May?  

 La banca centrale e il Tesoro britannico sono molto preoccupati anche perché non hanno lo strumento fondamentale per combattere speculatori e fautori della sterlina debole: i tassi d’interesse devono rimanere bassi per stimolare l’economia britannica.

 Si dice che Winston Churchill avesse scritto le parole immortali della Regina Vittoria su un pezzo di carta che consultava spesso nelle ore più buie della Seconda guerra mondiale. Carney e May si dovrebbero far portare carta e penna.  

 Francesco Guerrera è condirettore e caporedattore finanziario di Politico Europe.  
fguerrera@politico.eu e su Twitter: @guerreraf72.  

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Da - http://www.lastampa.it/2016/10/13/cultura/opinioni/editoriali/il-boomerang-della-sterlina-sulla-brexit-0qlo5dshVvn41NC9XPUjbP/pagina.html


Titolo: FRANCESCO GUERRERA. Dallo stallo tedesco all’Ungheria xenofoba.
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 23, 2018, 12:48:26 pm
Dallo stallo tedesco all’Ungheria xenofoba.
Tutte le crepe Ue che spaventano i mercati

La crescente instabilità rischia di allontanare gli investitori

Pubblicato il 23/02/2018

FRANCESCO GUERRERA
LONDRA

Il pericolo-Italia ritorna a spaventare l’Europa. A lanciare l’allarme è stato Jean-Claude Juncker in un’esternazione che ha fatto scalpore a Roma, innervosito Bruxelles e fatto paura ai mercati. 

Il presidente della Commissione europea si è detto preoccupato dello «scenario peggiore» nel dopo-elezioni, «cioè un governo non operativo in Italia». È un bell’eufemismo per spiegare la paura che aleggia nei corridoi del potere dell’Unione Europea e tra i trader delle banche d’affari. Dopo mesi in cui le varie, troppe, fazioni politiche avevano rassicurato alleati, investitori e connazionali che il 4 marzo non avrebbe portato al caos, è arrivato Juncker a guastare la festa. 

Ma l’Italia non è l’unica mina vagante nel panorama politico europeo. Il Vecchio Continente è pieno zeppo di governi, Paesi e partiti «non operativi», a dirla con Juncker. Facciamo due passi in Europa: Polonia e Ungheria sono in mano a regimi reazionari e beceri che trattano l’Ue come uno zerbino; il governo austriaco è puntellato dai militanti di estrema destra del Partito della Libertà, grande fautore di Vladimir Putin.

Nel Regno Unito, Theresa May traballa sul ponte del Titanic targato Brexit, mentre in Spagna Mariano Rajoy sta facendo l’impossibile per non soccombere alla forza centrifuga della Catalogna. Per fortuna che c’è la Germania. No, un momento. La locomotiva storica dell’Ue è paralizzata dal voto dei social-democratici su una «Grande Coalizione» che non sembra grande a nessuno. 

Una sfortunata coincidenza storica vuole che i risultati di quel plebiscito verranno rivelati poco prima delle elezioni italiane, creando un mix potenzialmente esplosivo per politica e mercati. Persino in Francia, la luna di miele dell’enfant prodige Macron sta per finire. 

La buona notizia, per il momento, è che l’economia dell’Ue è in condizioni decenti – thank you, Mr Draghi – e che gli altri grandi blocchi non stanno proprio benissimo, certo non gli Usa dilaniati dal trumpismo. Ma siamo ormai alla fine di un periodo di (relativa) tranquillità europea che dura da anni – dalla fine della crisi dell’euro nel 2012, passando per l’inizio dell’enorme stimolo della Banca centrale europea tre anni fa, fino alla rispettabile crescita economica attuale. Checché succeda nelle urne italiane, nel ballottaggio tedesco o nel ventre del partito conservatore inglese, stiamo per entrare in un periodo di turbolenza: l’intervento di Juncker è l’avviso del pilota ad allacciare le cinture di sicurezza. Come spesso accade, saranno i mercati a decidere se questo sia l’inizio di una nuova crisi europea o un semplice momento-no in un’Unione che fa dell’inquietudine la sua ragione d’esistere.
La dicotomia è ovvia e preoccupante: i politici amano l’incertezza perché è solo negli interstizi dell’incertezza che trovano lo spazio per compromessi e accordi. Gli investitori odiano l’incertezza perché non gli permette di calcolare con precisione i propri ritorni. E quando gli investitori non possono divinare il futuro, vendono. Basta guardare allo spread tra obbligazioni italiane e tedesche: dopo i commenti di Juncker, è salito di quasi il 4 per cento, un rialzo allarmante, soprattutto perché la Germania non è in salute perfetta. 

Gli ottimisti dicono che Juncker e i mercati stanno esagerando. Anzi, sostengono che sia positivo che le paure escano fuori adesso. Se i vari risultati sono migliori delle aspettative, gli investitori ritorneranno in massa a comprare beni ed obbligazioni dell’Ue. Non è certo impossibile. Warren Buffett, il più grande investitore del mondo, consiglia sempre di essere «avidi quando gli altri sono timorosi e timorosi quando gli altri sono avidi». E so di un gestore di hedge fund che sta comprando un po’ di tutto, allettato dai prezzi bassi e dalla convinzione che le cose miglioreranno sia in Italia sia in Germania.

Un banchiere della City mi ha persino detto che le parole di Juncker sono un classico caso di psicologia dei contrari: parlare del peggio per farsi sorprendere dalla realtà. Speriamo abbia ragione. Per il momento, chi guarda verso l’orizzonte europeo vede una nuvola a forma di stivale.

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Da - http://www.lastampa.it/2018/02/23/esteri/dallo-stallo-tedesco-allungheria-xenofoba-tutte-le-crepe-ue-che-spaventano-i-mercati-rXyXkg8iu9EH4UKjVpH1dM/pagina.html


Titolo: Francesco Guerrera Quei timori che insidiano i risparmi
Inserito da: Arlecchino - Maggio 26, 2018, 06:06:36 pm
Quei timori che insidiano i risparmi

Pubblicato il 23/05/2018

Francesco Guerrera

«Giuseppe who?» «E chi è questo Giuseppe?» Lo stato di allerta dei mercati sull’Italia inizia dalla domanda fatta da banchieri, operatori e azionisti. Il nome di Giuseppe Conte è sulla bocca di tutti ma sempre con il punto interrogativo alla fine. 

Noi emigranti a Londra o New York ci barcameniamo, rispondendo che no, non è parente dell’allenatore del Chelsea, che, anzi, è un giurista abbastanza di spicco e che già in passato ci sono stati primi ministri tecnocratici (Lamberto Dini, Carlo Azeglio Ciampi, Mario Monti). Ma, in realtà, nemmeno noi «addetti ai lavori» sappiamo granché sul probabile inquilino di Palazzo Chigi. 

La nuova coalizione del populismo ha già ottenuto un risultato: i mercati che avevano imparato ad ignorare il costante turnover di governi nostrani, ora sono ossessionati dalle nuove, sconosciute, figure nella stanza dei bottoni.

Non è solo questione di misteriose personalità. Il vecchio adagio è che le Borse odiano l’incertezza più delle cattive notizie. In questo momento, l’Italia sta somministrando entrambe ai mercati.

Partiamo dall’incertezza. Donald Rumsfeld, vecchio marpione della politica americana, amava parlare di «known unknows», le cose che sappiamo di non sapere. 

Nel caso dell’Italia, tali cose includono: la filosofia del candidato primo ministro, l’identità del ministro dell’Economia, i posti ministeriali dei due leader della coalizione e il livello di competenza di due partiti che non hanno mai governato assieme.

Non male per un Paese che ha un’economia traballante, un sistema bancario «reggimi che ti reggo», e il problema-immigrazione più’ grande d’Europa. «La risposta può essere una sola: vendo», mi ha detto un operatore di Borsa, echeggiando le parole di molti altri.

Non tutto è ignoto. Sappiamo, per esempio, il programma di governo, ora chiamato «contratto» per essere trendy. Ed è qui che all’incertezza si aggiungono le cattive notizie. 

«Con grande originalità, il programma combina le ambizioni di grande spesa della sinistra con i desideri di bassa tassazione della destra», ha tuonato Clive Crook, commentatore di Bloomberg.   

Non è un complimento. In un Paese in cui il debito pubblico è già al 130 per cento del Pil, mantenere le promesse di Lega e Cinque Stelle porterebbe a una conflagrazione economica simile ai vulcani delle Hawaii. 

E’ quel timore che ha provocato il crollo delle obbligazioni governative italiane di questa settimana (anche se ieri la situazione è migliorata un pochino). La vera paura degli investitori è la fine di un altro «contratto»: quello tra l’Italia, l’Unione Europea e la Banca Centrale Europea.

Il motivo per cui il famigerato spread è rimasto abbastanza tranquillo negli ultimi mesi, nonostante le tempeste politiche nostrane, è che il mercato considerava i politici italiani come teenager irresponsabili supervisionati da due genitori assennati: Bruxelles e Francoforte.

Le beghe italiane potevano essere ignorate perché, alla fine, c’era papà Mario Draghi ad aprire il portafogli, mamma Commissione Europea a tenere d’occhio i fondamentali economici e la governante Angela Merkel a fare una strillata quando era necessaria. Insieme, questo trio ha pure «salvato» un po’ di banche italiane da rottamare. Il soccorso ha infranto regole europee ma si sa che in famiglia a volte qualche strappo bisogna farlo.

Ora, la retorica della coalizione parla di separazione dall’ Europa, magari non nel senso di «Italexit», ma alla greca: Bruxelles dà ordini e noi li ignoriamo fino a quando non sarà troppo tardi. Ed è questo l’incubo degli investitori: che l’Italia esca da una tutela europea che ha garantito una (relativa) stabilità economica a dispetto della perenne instabilità politica.

Gli ottimisti rispondono che il nuovo governo non farà nulla di drastico, un cane che abbaia ma non morde. Per il momento, però, i mercati non vogliono scommettere su «Giuseppe who?».

*Direttore di Dow Jones Media Group a Londra 

Francesco.guerrera@dowjones.com  - Twitter:@guerreraf72 
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Da - http://www.lastampa.it/2018/05/23/cultura/quei-timori-che-insidiano-i-risparmi-u0WwvyHnCADFdA0vF8kDIK/pagina.html