ADINOLFI -
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5 agosto 2008, 17.18.46
No, il ridicolo no (basta con gli ex Pci che litigano)
Io già ho esercitato la virtù della pazienza leggendo le cronache dei giornali sul derby YouDem contro Red Tv (che, lo ricordo ai distratti, per ora si chiama Nessuno Tv, non è la tv di D'Alema e lo stesso suo collaboratore che gioca a fare l'editore televisivo senza averne titolo, cioè il mio una volta collega-blogger Matteo Orfini, oggi sull'Unità dice che l'idea di Bersani che intervista Vasco "era solo una battuta", così come il mio direttore dice che la cosa di Samantha di Sex and the City era una boiata, ma allora ditelo prima pure a Goffredo De Marchis che su Repubblica con battute e boiate c'ha imbastito foto, titoli e quasi una paginata, più tutto quello che ne è seguito, inclusa la rincorsa di povero Veltroni).
Ma su Bassolino che dice "non firmo contro Berlusconi", seguito pure da Cacciari, tanto per fare un altro po' di casino da crisi isterica di post comunisti che non sanno più che cazzo fare se non litigare tra loro pure sul nulla, a me viene su di tutto insieme all'invocazione a evitarci il ridicolo.
Più una proposta da inserire nello statuto: chi ha occupato cariche istituzionali o di dirigenza nazionale di partito nel Pci non può fare il dirigente del Pd.
Codicillo che ci risolverebbe molti problemi, credo, che quel gruppo dirigente lì è allo sbando e noi dovremmo essere bravi a spiegarglielo.
dal blog di Mario Adinolfi
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17 agosto 2008, 13.43.21
Gli insopportabili
L'intervista di Claudio Sabelli Fioretti a Michele Serra mi ha ricordato perché la sinistra non vince più e non vincerà nei prossimi venti anni. Perché dice senza ridere che Carlin Petrini, quello dello slow food, è "uno dei pochi leader mondiali che abbiamo in questo paese" e a riprova porta il fatto che "frequenta Carlo d'Inghilterra".
Perché la colpa di tutto è sempre del Vaticano, nuovo sfogatoio per la frustrazione radical-chic, dunque il Pd non va votato perché "c'è una spina che non si può inghiottire: la Binetti".
Perché questi insopportabili maitre-à-penser ci rifilano sempre le loro belle serate atticiste: "Ogni tanto mi chiedo se non sto frequentando troppi giornalisti, professori, urbanisti, architetti, scrittori". Colpo finale, finto egualitarista, ancora più insopportabile: "Avrei bisogno di frequentare idraulici".
Non abbiamo proprio capito, noi democratici, che il problema non è frequentare idraulici o candidare singoli operai, ma esserlo davvero?
Tornare ad essere figli del popolo, mescolati ad esso, senza spocchia o senso di superiorità e anzi, con un pizzico di vergogna per essere arrivati fin qui senza mai lavorare sul serio. La nostra sconfitta ha questa radice: Veltroni e D'Alema non hanno neanche la laurea, eppure mai un giorno di lavoro vero, tonnellate di chiacchiere in Fgci e poi tutti dietro da più di trent'anni a battere loro le mani.
E Serra a dire che Veltroni è tanto bravo, D'Alema tanto intelligente (Bertinotti no perché frequenta i salotti e lì c'è il capolavoro dell'intellettuale organico), così il coro è sempre alimentato e parte un altro giro di giostra.
Dovremmo smontargliela davvero.
dal blog di Mario Adinolfi
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Ieri 21 agosto 2008, 12.14.44
La sinistra deve diventare di destra?
Grazie a Maurizio Molinari (via la Stampa e Dagospia) ho scoperto un articolo importante scritto da Michael Moore per Rolling Stone. Il mio sosia americano si dice preoccupato per le posizioni da "falco conservatore" adottate da Obama per sedurre l'elettorato moderato dell'America profonda e invita la convention democratica che si aprirà lunedì a varare una piattaforma realmente liberal, fondata su punti molto "de sinistra" such as "pro-ambiente, pro-diritti delle donne, pro-aborto, contro la guerra, per l’aumento del salario minimo e la creazione di un servizio sanitario pubblico universale". Cuore dell'articolo, l'invito di Moore a Obama di indicare per la vicepresidenza una donna molto leftish come Caroline Kennedy.
Inutile ora star qui a dire se ci convince più l'approccio identitario di Michael Moore o quello realista di Barack Obama. L'articolo del regista americano è importante perché pone al campo progressista la domanda delle domande: la sinistra, per vincere, deve diventare di destra?
In effetti, al di là dei toni, la piattaforma politica di Obama (come in passato quella vincente di Blair) suona molto familiare agli elettori conservatori: Dio, patria e famiglia sparsi ovunque a piene mani, durezza estrema contro l'Iran, più truppe da inviare in Afghanistan, tentennamenti persino riguardo al ritiro dall'Iraq, nessuna idea di servizio sanitario nazionale gratuito, vera e propria colonna infame del sistema sociale americano.
I temi dell'uguaglianza e del solidarismo, core business delle sinistre di tutto il mondo, sono ormai da abbandonare perché "perdenti" in un contesto dove vince Hobbes anche se tutti citano Gesù?
Io continuo a ritenere che questa svalutazione dei nostri valori cardine derivi dalla svalutazione del valore cardine assoluto, quello della democrazia, in cui sostanzialmente crediamo sempre meno. Le Olimpiadi cinesi sono lo specchio di questa crisi, si moltiplicano i commenti di chi plaude alla Cina come modello (ricchezza promessa al popolo in cambio di rinuncia ai diritti, Stato totalitario fondato sul capitalismo senza democrazia) e non c'è stato manco un atleta disposto a mettere a rischio un'unghia del proprio per far soffiare almeno una bava di vento contro i diritti negati da Pechino non solo al Tibet, ma all'intero proprio popolo.
In questo contesto di svalutazione dell'idea di democrazia, ormai resa come un simulacro e un'ipocrisia "tanto è tutto un magna magna", come si devono comportare i partiti che persino nell'insegna portano la parola "democratico"? Negli Usa come in Italia si è scelto di portare avanti l'opzione leaderistica: ci si affida al numero uno, gli si delega tutto, chi discute è fuori, chi vuole dibattere è silenziato, chi ha dubbi porta sfiga.
L'opzione leaderistica è la deriva estrema delle destre, che l'hanno nel loro dna. E' la vittoria loro, triste, solitaria y final.
La nostra battaglia dovrebbe invece essere quella della dilatazione degli spazi della democrazia, della declinazione in forma diretta degli stessi, riscoprendo in questo la ragione dell'essere progressisti. Noi vogliamo una società palesemente più democratica di quella in cui ci ritroviamo a vivere, crediamo che la democrazia sia la nostra ragione fondante del patto sociale e non un impaccio di cui liberarci, siamo disposti a mettere a rischio persino le incrostate posizioni di potere (che peraltro sono sempre meno e di sempre minore potere) per ottenere questo risultato.
Vogliamo la democrazia diretta, la indichiamo come traguardo al nostro popolo, di cui siamo parte e non leader-pifferai. Per questo obiettivo siamo disposti a spendere una vita, per restituire al cittadino quella porzione di potere che gli spetta e che gli è stata scippata, trasformandolo in suddito rassegnato e stanco.
Vogliamo ridargli l'entusiasmo di essere decisivo, ri-partendo dal principio di uguaglianza coniugato a quello di sussidiarietà, mix vincente per una possibile nuova sinistra. Che non dovrà essere di destra, altrimenti vinceranno sempre gli originali, il nostro sforzarci ad essere fotocopia non sarà mai sufficiente.
Vedrete che Obama alla convention democratica di Denver coglierà questa necessità e saremo tutti, Moore compreso, ancora una volta piacevolmente stupiti da questa nostra ultima bandiera rimasta in campo. Poi, bisognerà ricominciare a sperare anche qui da noi.
dal blog di Mario Adinolfi
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30 agosto 2008, 18 ore fa
Obama e i democratici italiani
Dopo aver commentato per quattro faticosissime e divertentissime notti la convention di Denver, ho avuto l'opportunità di trarre le mie conclusioni sulla kermesse democratica scrivendo una paginata per il Tempo, rinnovato dalla direzione di Roberto Arditti. La trovate oggi richiamata in prima sul quotidiano ed ecco il testo integrale. Un testo a cui tengo molto e che spero faccia riflettere anche coloro che farà incazzare.
OBAMA E LA SINISTRA
di Mario Adinolfi per il Tempo
Quale uomo politico non sognerebbe un'investitura così dopo una corsa estenuante come le elezioni primarie? Io, che le primarie da candidato le ho vissute meno di un anno fa nel contesto minore del Partito democratico italiano, posso ammettere d'aver provato per Barack Obama un istintivo sentimento di invidia. Apparire in scena accompagnato da quella straordinaria canzone degli U2 che è "The city of blinding lights", trovarsi davanti uno stadio pieno in delirio, avere le movenze più della rockstar che del politicante, azzeccare un discorso a tratti durissimo "senza mai perdere la tenerezza": chi avrebbe saputo fare meglio? Insomma, ieri notte nello stadio dei Denver Broncos non è solo nato un possibile presidente degli Stati Uniti, ma è stata immortalata la prima vera icona politica del terzo millennio: il figlio di un keniota (che s'è subito dimenticato di essere padre) e di una ragazza del Kansas morta troppo presto di cancro. Un messaggio di speranza per tutti, inciso prima di tutto nella biografia del nuovo capo dei democratici americani.
Questa icona nasce rendendo imbarazzanti le immaginette dei democrats italiani: i leader del Pd italiano che si sono precipitati a Denver speranzosi di rimediare almeno una foto con dedica (speranza delusa, niente photo opportunity) sono tutti over fifty e sono lo specchio di un'incapacità di rinnovamento. Voglio bene a Veltroni, Rutelli e Fassino, sono i leader del partito per cui ho votato qualche mese fa, ma ieri davanti al discorso di Obama devono essersi sentiti orribilmente vecchi. Perché non è stato tutto e solo iconografia, tutto e solo musica, tutto e solo fuochi d'artificio e stelle filanti. Di mezzo c'è stato un discorso che, ascoltato con animo attento come dovrebbero fare tutti i democratici italiani, segnala un orizzonte che dovrà essere perseguito inevitabilmente dal mondo progressista europeo.
La parola chiave del discorso di Obama è stata: cambiamento ("change"). La sinistra italiana ed europea fa una fatica boia ad accettarne il significato: cincischia attorno ai Veltroni e ai D'Alema, ai Gordon Brown e alle Ségolène Royal, la Spd tedesca è addirittura tentata d'andare a recuperare il rapporto con il partito dell'estrema sinistra. Gioca a riproporre eternamente modelli e personaggi sconfitti, si attarda in dibattiti incredibili sul valore della parola "socialismo" e sulla disposizione da far assumere agli eletti nel prossimo Parlamento europeo. Obama ieri ha giocato la carta della concretezza: sanità, istruzione, famiglia, casa, diritti, pace, difesa e, soprattutto, ambiente ed energia rompendo anche il tabù del nucleare. Ha indicato la nuova frontiera di un'America libera dal fabbisogno del petrolio mediorientale entro dieci anni: un impegno coraggioso ai limiti dell'incredibile, seguendo le cronache dai mercati di questi mesi. In pochi minuti ha saltato di netto annate interne di dibattito sulla "new left" europea, sulla dicotomia tra riformisti e massimalisti, unendo pragmatismo e radicalità in un unico originale impasto. E il discorso di Denver è diventato un discorso storico, in quarantacinque minuti.
Certo, ci sono stati gli attacchi a McCain, durissimi, tanto da trasformare (almeno nei toni) Obama in una sorta di dipietrista in salsa stars and stripes. Ma non è questo quel che resterà negli occhi e nelle orecchie di questa serata di Denver. Quello che ricorderemo è il cambiamento farsi persona e farsi leader, come in Europa e in Italia la sinistra non riesce più a fare né a essere. Quello che ricorderemo è anche il nascere di un popolo "new democrat" composto da moltissimi giovani, da una maggioranza femminile (57% dell'elettorato di Obama), dove i bianchi sono una minoranza e prevale il miscuglio delle radici, il melting pot senza paura del diverso che è il vero brodo di coltura dell'obamismo. E' anche un popolo destinato a vincere?
Nella notte di Denver ci sarebbe da scommettere sul sì, ma forse qui si scrive sull'onda di un'emotività. Quel che è certo è che i nostri Qui, Quo e Qua (come con felice intuizione Giuliano Ferrara ha definito Veltroni, Rutelli e Fassino in visita alla convention democratica) tornano in Italia avendo chiara l'idea che loro non sono Obama e non potranno mai esserlo: questo outsider figlio di nessuno, che partiva alle primarie sfavorito contro la macchina da guerra del clan dei Clinton, ha stravinto una corsa che in Italia nessun outsider avrebbe mai vinto perché il paese non concede strada a chi parte dietro e a sinistra questi canali stretti lo sono ancora di più. Spero che, avendo capito che sono lontani anni luce dal poter toccare anche solo minimamente la dimensione emotiva attinta da Obama, capiscano che è l'ora di avviare i meccanismi del ricambio.
Change. E' la parola che risuona da Denver. E per i democratici italiani, rimbomba.
dal blog di Mario Adinolfi
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Ieri 31 agosto 2008, 13.54.00
Che dite, vado al reality di Mediaset?
Il giornale per cui scrivo quotidianamente da anni una rubrica che forse qualcuno di voi segue, ha accettato di pubblicare in prima questo mio appello al dibattito attorno all'idea che io partecipi alla prossima edizione de La Talpa, reality show in onda su Italia 1 dal prossimo 9 ottobre. I quesiti sono validi anche per voi, democratici o no che siate, perché in fondo fondo noi narcisisti morettiani "de sinistra" stiamo sempre lì a chiedere: Che dici vengo? Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?
Ora a voi la parola e provate a non fare solo casino.
CHE DITE, VADO AL REALITY?
di Mario Adinolfi per Europa
Cari lettori, ferie concluse? Andato tutto bene? Divertiti? Sì, grazie, divertito anche io. Adesso che siete freschi e riposati, aiutatemi a prendere una decisione. È una decisione importante, ne va del rapporto con voi che mi leggete tutti i giorni, di quel poco di stima che magari mi regalate.
Insomma, facciamola breve: mi hanno proposto di partecipare a un reality show che partirà in autunno su Mediaset.
Vado o non vado? Ditemelo, alla maniera che conoscete: email, commenti sul blog, lettere a Europa. Gli autori di questo reality hanno puntato gli occhi su di me, ragazzone oversize con il gusto per la polemica e per il gioco, capace forse di qualche pensierino fuori schema. Premessa d’obbligo: li ringrazio per la loro attenzione e per la professionalità con cui mi hanno condotto all’interno di un mondo che non conoscevo, lasciandomi una sensazione di riposante leggerezza. Io alla proposta ho reagito istintivamente chiudendomi a riccio, dicendo un bel no rotondo alla fine della prima fase della trattativa, finendo invece ammorbidito da un loro corteggiamento serrato.
Questione di soldi? Sì, l’offerta economica è buona: niente di trascendentale, non cambia la vita, ma è buona. Ora ci sarebbe da andare a firmare il contratto, tornano tutti dalle vacanze e mica si può star lì a cincischiare, a ottobre bisogna andare in Sud Africa e a Mediaset vogliono chiudere tutte le carte e partire con la fase di pre-produzione. E prima di andare negli uffici della casa madre del “nemico” vorrei sapere che ne pensate voi, perché io un’idea me la sono fatta, ma ho questo gusto maledetto per il confronto con tutti e allora torno alla domanda: voi, cari (e)lettori democratici, andreste mai a un reality show prodotto da Mediaset? Io sono orientato verso il sì perché mi sono rotto le scatole di pensare che il nostro dialogo con i cittadini si limiti al dibattito attorno all’arguzia dei calembour di Michele Serra, a quanto sarà fico il nuovo programma di Serena Dandini, a quando Nanni Moretti finirà di scrivere il prossimo film. Io sono orientato verso il sì perché mi spunta il gusto di fare qualcosa che la stragrande maggioranza del popolo di centrosinistra considererà un tradimento, mentre secondo me “traditore” è spesso l’epiteto con cui i pavidi etichettano il semplice desiderio di esplorazione di un territorio nuovo. Io sarei orientato per il sì perché le sfide mi tentano sempre, quelle controverse e che espongono al rischio oggettivo di irritare i benpensanti, ancora di più.
Io sarei orientato per il sì perché mi pagano bene ma, vi giuro, non è il principale dei motivi.
Vorrei conoscere l’opinione dei lettori e non siate banali, che io provo a non esserlo mai e in questo tempo in cui dobbiamo inventarci un modo nuovo per esistere da Democratici nella società, la puzza sotto al naso proprio non possiamo permettercela. Ma forse sbaglio e se mi spiegate bene il perché vi assicuro che mi metterò lì a pensare alle vostre parole. Voi, intanto, riflettete un po’ anche sulle mie, magari non avete molto di meglio da fare.
dal blog di Mario Adinolfi
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