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« inserito:: Agosto 30, 2008, 09:22:12 am » |
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30/8/2008 Sulla Georgia una colossale ipocrisia BORIS BIANCHERI Se non ci fossero state aggressioni, violenze e brutalità dall’una e dall’altra parte, se non ci fossero state vittime innocenti, famiglie in esilio e un senso generale di precarietà che grava sull’intera area, verrebbe cinicamente da dire che l’attuale crisi georgiana è il frutto di una finzione, anzi di una colossale ipocrisia. Quando si parla dell’Ossezia del Sud, essa viene definita una regione (o, se si è più scrupolosi, una repubblica) separatista della Georgia. Tutti, uomini di governo e mezzi di informazione, fingono di ignorare che l’Ossezia, come d’altronde l’Abhkazia, non è separatista ma è separata, che non aspira all’indipendenza ma che la ha dichiarata 16 anni fa, che si autogoverna pienamente e che se la Georgia, di cui solo nominalmente fa parte, vuole imporvi la propria autorità deve mandarci l’esercito, come il Presidente georgiano Saakashvili ha imprudentemente fatto l’8 agosto. In Ossezia si è tenuto alcuni anni fa un referendum per avere conferma che gli abitanti preferissero l’indipendenza alla sovranità georgiana; è risultato che il 98% di loro preferivano l’indipendenza, cioè in pratica che preferivano restare quello che erano già. E’ stato detto (anche dal Consiglio d'Europa) che quel referendum non aveva valore perché era ammesso al voto solo chi aveva il passaporto dell’Ossezia. Appunto: l’Ossezia era già allora tanto indipendente da rilasciare i suoi passaporti. Aveva anticipato ciò che giustamente l’On. Fassino ha ricordato recentemente, cioè che una nazione si basa non sull’etnia ma sulla cittadinanza. L’Abhkazia è sostanzialmente nella stessa situazione. Si autogoverna, ha il rublo come moneta e le residue forze georgiane che stazionavano nell’area meridionale del paese si sono ritirate poco tempo fa. Perché per quasi 20 anni nessuno, neppure la Russia che ne è sempre stata in qualche modo tutrice, ha affermato che Ossezia e Abhkazia sono di fatto indipendenti e le ha riconosciute come tali? Perché c’è voluta quasi una guerra perché il problema si ponesse sul piano internazionale? Vi sono, credo, almeno due ragioni. L’una è di carattere generale e corrisponde a un modo di sentire istintivo, e se vogliamo anche nobile, delle opinioni pubbliche delle democrazie occidentali che finisce per influenzare anche chi le governa: che è di prendere parte, in simili casi, per il piccolo rispetto al forte. Nel caso della piccola Cecenia, il separatismo ceceno, che si opponeva alla grande e potente Russia, ha avuto subito la solidarietà dei mass media e dei politologi, oltre che delle associazioni umanitarie. Ossezia e Abhkazia sono anch’esse piccole, ma hanno la Russia che le sostiene, e quindi si parteggia per la piccola Georgia contro il suo grande vicino. Se non ci fosse la Russia di mezzo, state sicuri che l’indipendentismo degli osseti e degli abhkazi riceverebbe il sostegno entusiastico di tutti i benpensanti e i neo-filosofi europei, a partire da quell’Henri-Bernard Levy che giudica invece innocente l’intervento georgiano dell’8 agosto perche ha fatto solo 47 morti. Il nome della Russia fa questo effetto. Venticinque anni di stalinismo e cinquanta di guerra fredda sono difficili da dimenticare. Chi ci dice che la Russia di oggi, come quella di ieri, non voglia inghiottire non solo Ossezia e Abhkazia ma anche la stessa Georgia, o magari la Transdnistria e l’Ucraina? I russi, si sa, sono cattivi. E che Stalin fosse un georgiano nessuno se lo ricorda più. L’altra ragione, più razionale e meno emotiva, che ha relegato sinora nel cassetto il destino di Ossezia e Abhkazia, sta nel fatto che mettersi a discutere uno dei confini dei quindici stati nati nel 1991 dal disfacimento dell’Urss, rischia di aprire problemi simili in chissà quanti altri. La Russia per prima non l’ha voluto fare finora, memore tra l’altro del separatismo ceceno. Un cattivo confine finisce così col rafforzarne altri. Ora però che il problema della Georgia mette in causa lo stato dei rapporti tra la Russia e la Nato, tra la Russia e l’Europa, sarebbe meglio che l’ipocrisia finisca e che si guardi alla sostanza delle cose senza far finta di non vedere che i confini della Georgia sono già cambiati. Chiedere il ritiro delle forze militari russe che sono entrate in Georgia durante questa crisi è sacrosanto. Ma limitarsi a condannare il riconoscimento unilaterale delle due repubbliche perché costituisce una violazione del diritto internazionale (come ha fatto abbastanza inutilmente il G8, ritornato per l’occasione a G7) non risolve un gran che e suona perfino un poco ipocrita nella bocca di chi ha riconosciuto unilateralmente il Kossovo. Il nostro governo, a dire il vero, ha tenuto sinora in questa spinosa vicenda e nella sagra di luoghi comuni che l’ha circondata, un atteggiamento più realistico e moderato di altri. La Farnesina aveva pensato, già prima dei fatti di agosto in Ossezia, a una conferenza sul Caucaso da tenersi in ottobre a Roma. Se questo progetto si manterrà, e quale valore una simile conferenza potrebbe assumere, è cosa da vedere. Intanto Sarkozy, come presidente di turno dell’Ue, ha riunito un summit europeo per lunedì prossimo. Tutti ci auguriamo che l'Unione Europea abbia una posizione unanime. Ma auguriamoci anche che non si mettano ancor più a rischio i rapporti con la Russia a causa di un problema che è più formale che reale e nel quale non sono certo solo i russi ad avere dei torti.
da lastampa.it
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« Risposta #1 inserito:: Agosto 30, 2008, 11:39:56 pm » |
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Georgia, Putin ammonisce la Ue e accusa gli Usa: «Conflitto provocato per favorire McCain»
Der Spiegel: l'Osce accusa Tbilisi di «comportamenti illeciti»
L'Iran agli Usa: non interferire nel Caucaso
MOSCA (30 agosto) - Il premier russo Vladimir Putin torna ad accusare gli Usa. In un'intervista alla tv tedesca Ard, ha rilanciato ancora più esplicitamente le accuse già fatte in un'intervista alla Cnn di aver armato Tbilisi e provocato il conflitto in Ossezia del sud per sostenere il candidato repubblicano alla presidenza, John McCain. Ieri la rottura delle relazioni diplomatiche della Georgia con Mosca e la decisione della Ue di non applicare sanzioni alla Russia. Tbilisi oggi ha anche introdotto restrizioni nelle procedure di concessione dei visti ai cittadini russi che intendono recarsi in Georgia.
Le accuse di Putin. Putin ha osservato che «è assai male armare una delle parti in un conflitto etnico e poi spingerla a risolvere il problema con la forza». Ricordando che gli «istruttori» americani erano in una «zona di guerra» invece che nelle basi militari georgiane quando Tbilisi ha sferrato l'attacco in Ossezia del sud, il premier ritiene che «questo porta a pensare che la direzione americana era al corrente dell'azione che si preparava e, molto probabilmente, vi ha preso parte». «Comincio a sospettare che tutto questo è stato fatto intenzionalmente per organizzare una piccola guerra vittoriosa - ha concluso Putin -. E, in caso di fallimento, fare della Russia un nemico per unire gli elettori intorno ad un candidato alla presidenza; di certo si tratta del candidato del partito al potere, perchè solo il partito al potere dispone di tali risorse».
Ammonimento alla Ue. Putin, inoltre, ha anche negato ogni disputa territoriale sulla Crimea e ammonito i Paesi della Ue a non «servire» Washington, altrimenti «non otterranno nulla».
Osservatori Osce accusano Tbilisi di «comportamenti illeciti» su larga scala che hanno contribuito alla crisi nel Caucaso. A riferirlo il settimanale tedesco Der Spiegel che si basa su rapporti Osce (organizzazione per la cooperazione e la sicurezza in Europa) fatti pervenire a varie agenzie governative di Berlino attraverso canali informali. Secondo gli osservatori, riporta lo Spiegel, la Georgia ha preparato con cura l'attacco contro l'Ossezia del Sud prima dell'arrivo dei carri armati russi. Nei rapporti si parla inoltre di possibili crimini di guerra commessi dalla Georgia. Tbilisi avrebbe lasciato che civili dell'Ossezia del Sud fossero attaccati di notte, durante il sonno.
La Russia ha chiesto un maggior numero di osservatori all'Osce nelle zone di sicurezza georgiane e per un controllo internazionale imparziale delle azioni della leadership georgiana e auspica di mantenere un dialogo costruttivo con la Ue. Il leader del Cremlino Dmitri Medvedev in una telefonata al premier britannico Gordon Brown ha anche spiegato i motivi del riconoscimento dell'Ossezia del sud e dell'Abkhazia e ha assicurato il pieno rispetto dei sei punti del piano di pace mediato dalla presidenza di turno francese della Ue.
L'Iran agli Usa: non interferire nel Caucaso. Nel dibattito sulla situazione in Georgia si inserisce anche l'Iran che, per voce del generale Jazayeri, vice capo di Stato Maggiore dell'esercito di Teheran, lancia un duro monito agli Stati Uniti accusando apertamente Washington di aver «aperto un nuovo fronte di crisi globale», dopo quelle di Afghanistan e Iraq. Il generale parla di «avidità della leadership americana» che sta «progressivamente spingendo il mondo intero sull'orlo del baratro». In tale situazione qualsiasi azione ostile nei confronti dell'Iran «potrebbe portare all'inizio di un conflitto mondiale». Nei giorni scorsi il ministro degli Esteri iraniano, Maouchehr Mottaki, ha esortato Washington a «non interferire nella crisi del Caucaso».
Ue, Barroso: la guerra può essere evitata. E' il monito del presidente della Commissione europea Jose Manuel Durao Barroso in un videomessaggio al Meeting di Cl a Rimini. Barroso ha aggiunto che è necessaria anche «un'unione più stretta fra i popoli di altre regioni del mondo» e che «l'Unione Europea e il suo sistema di cooperazione sopranazionale» servono come esempio per l'integrazione regionale in altre aree del mondo. Barroso invita a difendere i valori dell'Europa, sottolineando che «ci sono sfide che solo un'Europa unita può affrontare con efficacia: i cambiamenti climatici, la sicurezza dell'approvvigionamento energetico, lo sviluppo sostenibile». Barroso sottolinea, infine, la necessità di combattere la povertà in altre regioni del mondo, in particolare in Africa.
La Casa Bianca. Nessuna sorpresa da parte della Casa Bianca rottura delle relazioni diplomatiche tra la Georgia e la Russia, nè delle informazioni secondo cui Mosca avrebbe intenzione di installare basi militari nella regione separatista dell'Ossezia del Sud, riconosciuta dalla Russia come indipendente. La Casa Bianca ha ribadito di essere «nettamente contraria» al fatto che Mosca installi basi militari in Ossezia del Sud. «L'Ossezia del Sud e l'Abkhazia appartengono alla Georgia in virtù di ordinamenti riconosciuto dall'Onu, leggi e risoluzioni del Consiglio di Sicurezza che la Russia ha sostenuto» ha sottolineato Dana Perino. Per Washington, la situazione in Georgia deve tornare ad essere quella esistente prima del 6 agosto.
da ilmessaggero.it
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« Risposta #2 inserito:: Settembre 10, 2008, 04:32:49 pm » |
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10/9/2008 La pace dei sospetti BORIS BIANCHERI L a crisi in Georgia ha dimostrato quanto sia fragile oggi il tessuto che avvolge le relazioni tra l’Occidente e la Russia e quanto profonde siano le reciproche diffidenze. Una mossa azzardata del presidente georgiano Saakashvili e una risposta russa fuori misura hanno avuto l’effetto di produrre una serie di dichiarazioni americane e europee, e intimidazioni russe, di un’asprezza quale non si ricordava da tempo.
È vero che le parole hanno poi avuto seguito nei fatti solo in una direzione: Abkhazia e Sud Ossezia continueranno di fatto ad essere indipendenti come lo sono state per sedici anni, con l’aggiunta formale dell’apertura di sedi diplomatiche russe - annunciata ieri da Mosca - e forse protette da più consistenti schieramenti civili e militari di interposizione, così che l’Europa possa dire di aver dato un contributo decisivo alla pace, mentre la Georgia vedrà compensata la sua imprudenza con accresciuti aiuti umanitari americani.
Sta comunque di fatto che la crisi potrebbe riprendere o aggravarsi in qualsiasi momento perché non ha la sua causa in un preciso conflitto di interessi, sul quale si può sempre mediare e trovare soluzioni di compromesso, ma in sospetti e timori che hanno radici lontane nell’una e nell’altra parte e che persistono anche quando non vi sono immediate e concrete cause di attrito.
La Russia ha fatto chiaramente intendere da tempo che considera l’espandersi della Nato e dell’Unione Europea verso Est come una estensione dell’area di influenza dell’Occidente verso i propri confini e pretende di avere a sua volta una propria sfera di influenza da contrapporvi. L’Unione Europea, per parte sua, ha compiuto il suo affrettato allargamento a Est non, certamente, in funzione anti-russa, ma in coerenza con il suo più ampio ideale di integrazione continentale. E tuttavia, facendolo, ha importato al proprio interno gli inevitabili risentimenti e le preoccupazioni che i paesi dell’allargamento, dai baltici alla Romania, nutrono ancora nei confronti di una Russia che conoscono bene e che li aveva sino a vent’anni fa sotto il suo tallone.
Tocca ora agli europei decidere - ammesso che Mosca osservi le condizioni sul ritiro delle proprie forze dalla Georgia che le sono state richieste dal vertice tenuto a Bruxelles il 1° settembre - se riprendere il dialogo di partenariato Europa-Russia, che era già in programma per le prossime settimane, e quale contenuto darvi. Il partenariato euro-russo è un progetto dai confini piuttosto vaghi e flessibili, che vanno dall’energia alla sicurezza. Senza dubbio, è proprio all’energia che molti europei pensano prioritariamente, e tanto più vi pensano quanto più il loro paese è dipendente dalle importazioni e petrolio da e attraverso la Russia. Non è un caso che a far la voce più grossa contro la Russia sia stata a Bruxelles la Gran Bretagna, il paese che, avendo proprie fonti energetiche, non ha bisogno di importare gas russo.
Ma forse un dialogo circoscritto all’Unione Europea e alla Russia non basta. Avremo tra qualche mese a Washington un nuovo presidente degli Stati Uniti e non più l’anatra zoppa Bush, che manda in Georgia a fare discorsi bellicosi il suo vice Cheney, zoppo quanto lui. Quando il suo successore avrà preso il potere, potrebbe essere il momento di pensare a qualche iniziativa più vasta nella quale tutti gli interessati possano far sentire la loro voce per prevenire il ritorno a una guerra fredda di cui già si parla perfino con troppa facilità. Di pensare, cioè, a qualcosa come a una nuova Helsinki, la grande conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in cui europei, americani e russi gettarono insieme nel 1975 le basi della distensione.
Più che di promettere unilateralmente a questo o a quel paese l’ingresso oggi nella Nato o domani nella Ue, si tratta di far venire meno la maggior ragione che spinge quei paesi a chiederlo con tanta urgenza. Più che di reinventare una nuova distensione, si tratta di evitare che il tessuto delle relazioni si aggrovigli ancora di più. Il compito di oggi mi sembra più facile di quello di allora e certamente non è meno importante.
da lastampa.it
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« Risposta #3 inserito:: Novembre 04, 2008, 06:17:26 pm » |
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4/11/2008 Mr. President e il mondo BORIS BIANCHERI In ogni parte del mondo, dall’Asia all’America Latina, dall’Africa all’Europa, non c’è chi non trattenga il fiato in attesa del risultato delle elezioni presidenziali americane. Nel 2000 fu decisivo un migliaio di voti in Florida per dare a Bush la vittoria su Gore. Anche questa volta, quali che siano i sondaggi a livello nazionale, non è impossibile che sia il risultato magari di uno solo dei 50 Stati americani a determinare, nel complesso meccanismo elettorale, la vittoria dell’uno o dell’altro dei candidati.
Se queste elezioni si svolgessero nel mondo intero, Obama sarebbe già praticamente eletto. In Europa, i sondaggi Gallup lo danno preferito con larghissimo margine, con punte particolarmente elevate in Germania e in Italia. Giocano in questa scelta i fattori più diversi: l’antipatia per Bush, il carisma personale di Obama, l’avversione alla guerra in Iraq, la trasposizione in chiave americana dei paradigmi ideologici e politici europei, il mito della fine dei pregiudizi razziali (anche se un’inchiesta fatta in Germania rivela che quasi nessuno dei tedeschi che vorrebbe Obama presidente in America sarebbe pronto a scegliere un Cancelliere di colore in casa propria) e infine la certezza che la vittoria del candidato democratico sarebbe vantaggiosa per l’Europa, per il legame transatlantico e per una concezione multipolare del mondo.
Tutte queste considerazioni possono essere più o meno condivise ma sono perfettamente legittime. Sull’ultimo punto, tuttavia - cioè che il successo di Obama darebbe luogo a una politica estera americana più vicina alla nostra visione del mondo - credo sia utile introdurre una nota di cautela. Non certo perché io pensi il contrario, e cioè che siano invece McCain e la sua squadra a concepire i rapporti internazionali in modo più vicino ai nostri interessi, ma per una cautela di carattere più generale.
Nessuno dei due candidati è stato particolarmente esplicito su come intende affrontare i vari temi internazionali che sono attualmente sul tappeto: i rapporti euro-americani, il clima, le relazioni con la Russia, l’incognita iraniana, la lotta ai talebani in Afghanistan e in Pakistan, e così via. Semmai, a sbilanciarsi di più, durante le primarie democratiche, era stata Hillary Clinton, che aveva elencato minuziosamente il suo punto di vista sui vari problemi del mondo, ma la cosa, come sappiamo, non le è servita a vincere. McCain e Obama sono stati più vaghi e prudenti, anche perché i singoli temi di politica estera interessano solo marginalmente gli elettori, in America come altrove.
La realtà è che la politica estera, anche se si tratta di una potenza globale come lo sono gli Stati Uniti, non può essere programmata in anticipo se non in termini tanto generali che non significano quasi più nulla. La guerra al terrorismo e l’intervento militare in Iraq non erano nei programmi di Bush più di quanto la guerra del Kosovo lo fosse in quelli di Bill Clinton. Bush, anzi, iniziò il suo mandato concentrandosi su problemi interni e mantenendo, sul piano internazionale, le iniziative dell’amministrazione precedente. Poi giunse l’11 settembre a sconvolgere gli Stati Uniti e il mondo e a dare della guerra al terrorismo un ruolo centrale condiviso da tutti. Ricordate il «siamo tutti americani» di quei momenti? Da lì nacque l’azione militare in Afghanistan e, dal successo di quella, l’operazione Iraq, fallimentare nella gestione della pace ancor più che della guerra.
Un governo può avere un programma di politica fiscale, di politica sanitaria, di espansione dell’economia o di riduzione della spesa pubblica perché sa di poter perseguire i suoi programmi presentando al proprio Parlamento delle leggi che, se approvate, conducono a questi risultati. Non è in suo potere programmare in termini altrettanto precisi la politica estera che è quasi sempre il frutto di una reazione ad avvenimenti estranei alla volontà di chi governa, di cui non si possono scegliere i tempi né, di solito, prevedere tutte le conseguenze, e di fronte ai quali occorre spesso fare scelte di intuito e improvvisazione.
La stessa dissoluzione dell’Unione Sovietica nel 1991, la scomparsa di un universo contro il quale l’America aveva lottato per decenni, colse il mondo di sorpresa e trovò gli Stati Uniti incapaci di contribuire a guidarla. La crisi in Georgia nello scorso agosto ha rischiato, per un eccesso di reazione da parte americana, di sconvolgere i propositi europei di pianificare laboriosamente dei nuovi rapporti con la Russia. Il Presidente degli Stati Uniti ha, in materia di politica estera, una grande autonomia. Il nostro futuro dipenderà più dalle sue doti di carattere che dalla bontà dei suoi programmi, più dal temperamento o dall’equilibrio che dalla forza della ragione, più dal caso che dalla ideologia. Speriamo bene. da lastampa.it
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« Risposta #4 inserito:: Novembre 06, 2008, 08:47:34 am » |
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6/11/2008 L'agenda del mondo e i 70 giorni di Bush BORIS BIANCHERI
Il primo grande impegno internazionale dell’era del dopo Bush non sarà Obama a gestirlo ma lo stesso Bush. La prassi americana vuole infatti che un nuovo presidente eletto a novembre prenda il potere solo nel gennaio dell’anno seguente: passano così settanta spesso difficili e imbarazzanti giorni in cui tutti guardano al nuovo mentre ha il bastone di comando in mano ancora il vecchio. Si terrà tra poco negli Stati Uniti un G20 a livello di capi di Stato e di governo per un coordinamento globale sulla governance della finanza e del sistema monetario internazionale. A prescindere dal contenuto che l’incontro avrà e dalle opzioni che vi saranno presentate, qualora fosse già stato Obama ad alzare al più alto livello politico quello che sinora era stato un quadro prevalentemente tecnico, forse lo avremmo interpretato come il segno di un nuovo multilateralismo. In realtà è il frutto di una giustificata convinzione che gli interessi di tutti, e degli americani stessi in primo luogo, esigono su questo tema la più larga convergenza possibile. È verosimile e auspicabile che Bush associ Obama strettamente nel predisporre la posizione degli Stati Uniti. L’iniziativa, comunque, è stata sua e sarà lui a gestirla.
Ho avuto recentemente occasione di ricordare come l’agenda della politica estera dipende non tanto dalla volontà dei governi che debbono trattarla (fosse anche quello della sola superpotenza mondiale) quanto da avvenimenti imprevedibili o dagli sviluppi di crisi preesistenti ancora irrisolte. Sono soprattutto queste ultime quelle che Obama, quando entrerà alla Casa Bianca, si troverà di fronte.
La più drammatica di queste crisi, quella che più ha influito sui sentimenti dell’opinione pubblica americana contribuendo a orientarne il voto, è quella irachena. Che le forze americane siano destinate a lasciare il Paese in un futuro che si approssima, è ormai sicuro. Obama non ha indicato date certe. Se ciò sarà nel 2010 o dopo dipenderà dagli accordi che Washington negozierà con Al Maliki. La vittoria di Obama indurrà forse il governo iracheno a maggiore flessibilità o forse anche a stringere i tempi per condurre in porto il negoziato con Bush. Ma probabilmente, a dare una spinta al ritiro della costosissima e massiccia presenza militare americana saranno anche esigenze di bilancio in un difficile momento e con un impegnativo programma fiscale e di sostegno economico che Obama si accinge a perseguire.
È poi legittimo chiedersi quale influenza avrà il voto del 4 novembre sui rapporti russo americani, messi in difficoltà dalla crisi georgiana, dal sostegno dell’amministrazione Bush all’allargamento della Nato nel Caucaso e ancor più dall’installazione del sistema antimissilistico americano in Polonia. Chi si fosse aspettato una reazione di calore da parte di Mosca verso un futuro presidente di stampo potenzialmente più incline al dialogo, sarà stato sorpreso nel vedere che il presidente Medvedev ha scelto la giornata delle congratulazioni e degli auguri a Obama per lanciare un messaggio minaccioso in cui anticipa l’intenzione di installare apparati di disturbo radio sugli impianti americani. Come già in passato i russi credono che ai muscoli occorra reagire con i muscoli, quale che sia - democratico o repubblicano - il Dna dell’interlocutore. La vertenza sui missili resterà dunque per Obama, secondo ogni apparenza, un difficile banco di prova.
Sull’Iran, Obama ha parlato di disponibilità al dialogo, ma neppur questo è nuovo. Non è forse dialogo quello che si protrae ormai da tempo, senza successo, tra il gruppo cosiddetto 3 più 1 e le autorità di Teheran? Nessun’area, come questa, può infiammarsi per circostanze di cui è difficile valutare oggi la probabilità, perfino al di fuori della volontà dei protagonisti.
È possibile dunque che su molti temi caldi dei rapporti tra Stati non si verifichino nell’immediato degli sviluppi clamorosi. Questo non significa però che l’elezione di Obama, che questa giornata «storica» sotto il profilo interno, come lo stesso McCain l’ha definita, non rivesta un’altrettanto storica importanza nelle relazioni internazionali. In primo luogo per la straordinaria partecipazione che le elezioni del 4 novembre hanno avuto in ogni continente e in Europa in particolare, e per il grandissimo consenso che il successo di Obama sembra riscuotere. Esso viene interpretato come il segno di un mutamento profondo, di cui si aveva bisogno in un mondo incerto e pericolante. Può essere il punto di partenza per passare da una crescente diffidenza a una rinnovata fiducia nell’America, nella sua sorprendente forza di trasformazione e nella sua capacità di esercitare il ruolo che le compete nel mondo. Se così fosse, sarà stato davvero un giorno decisivo per il nostro avvenire. da lastampa.it
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« Risposta #5 inserito:: Novembre 08, 2008, 09:09:58 am » |
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8/11/2008 Pronto, parla Barack BORIS BIANCHERI
Dobbiamo abituarci all’idea che, almeno per qualche mese, se non più, ogni cosa che Obama dica o faccia, o qualunque cosa si faccia o si dica di lui, finirà nella prima pagina di ogni giornale del mondo e nell’apertura di ogni notiziario televisivo. Non si è ancora calmato il chiasso suscitato dalla poco felice battuta di Berlusconi su un nuovo presidente americano giovane, bello e abbronzato (poco felice, a mio avviso, non tanto per le reazioni che può aver suscitato in America quanto per il baccano che era fatalmente destinata a suscitare in Italia) ed ecco che le telefonate fatte da Obama a vari leader mondiali tra mercoledì e giovedì danno luogo a mille congetture e maldicenze.
I primi sono stati i francesi ad annunciare che Obama aveva avuto un colloquio attorno a mezzanotte con il presidente Sarkozy. Poi si sono susseguiti i vari portavoce: anche la signora Merkel ha ricevuto una telefonata, si affrettano a dire a Berlino; e anche Gordon Brown, aggiungono da Londra. Veniamo a sapere così, man mano che il fuso orario lo permette, che Obama ha telefonato ai leader di Francia, Germania, Gran Bretagna, Israele, Giappone, Corea, Canada, Messico e Australia.
La Casa Bianca lo conferma e aggiunge, come per rassicurare gli assenti, che il neo-eletto presidente americano si riserva di incontrare altre personalità in occasione del vertice del G20 il 15 novembre.
Quale criterio ha seguito Obama con le sue telefonate? Evidentemente non ama le formule standard. Non ha incluso infatti tutti i Paesi del G8 e ha lasciato fuori la Russia e, sino a ieri sera, anche l’Italia. In Europa, ha dato la priorità al classico terzetto che, per esempio, conduce il dialogo con l’Iran, di Francia, Germania e Gran Bretagna. L’Italia - rassegniamoci - sta un gradino più sotto e non avrà contribuito ad alzarne le quotazioni presso Obama il fatto che il nostro presidente del Consiglio si trovasse a Mosca proprio nel giorno del suo trionfo, quasi nello stesso tempo in cui Medvedev pronunciava un discorso sullo stato della Federazione Russa e sulla sua politica estera, molto duro nei confronti dell’America e carico di minacce.
Dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, Obama ha lasciato fuori la Russia e non si è affrettato a chiamare Pechino. E questo è più inatteso, data la statura che ha oggi il grande Paese asiatico nei rapporti internazionali. Ma ricordiamoci che una politica di collaborazione con la Cina, da Nixon a George Bush, è stata inventata e perseguita soprattutto da parte repubblicana. Ha telefonato invece in Giappone, cosa naturale data l’importanza dei rapporti nippo-americani sia in campo strategico che in campo commerciale e finanziario, e vi ha associato la Corea, cosa che ci induce a riflettere una volta di più sullo straordinario progresso compiuto negli ultimi due decenni da questo Paese che molti sono abituati a considerare ancora come una promessa mentre supera, per prodotto interno e peso nel commercio internazionale, molti grandi Paesi europei.
Obama ha incluso, tra le sue, una telefonata a Shimon Peres: non ricordare Israele sarebbe stato una gaffe imperdonabile sul piano interno e si sarebbe prestato a pericolose interpretazioni su quello internazionale. Ha anche incluso saggiamente i due Paesi con cui gli Stati Uniti confinano, il Messico e il Canada, e l’anglofona Australia, con cui condivide nell’Oceano Pacifico notevoli interessi e che vi esercita un importante ruolo di equilibrio. Non risulta abbia telefonato in India e neppure in Brasile, ricordando forse che, quando Clinton citò una volta alcuni Paesi sudamericani tra i maggiori amici dell’America, sollevò in altri un putiferio.
Forse a questa lista, mentre scriviamo, si sono aggiunti altri Paesi. Forse non conviene darvi, comunque, più importanza di quanta ne meriti. Ci dice in ogni caso che Obama non si assoggetta volentieri a delle regole, né a quelle del protocollo né a quelle della politica estera istituzionalizzata. La quale, anche nella sua concezione del mondo, come in molte altre cose, è portatrice di qualche novità. da lastampa.it
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« Risposta #6 inserito:: Dicembre 29, 2008, 11:17:36 am » |
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29/12/2008 La novità può venire dal Cairo BORIS BIANCHERI Siamo talmente abituati all’insorgenza inaspettata di una crisi nella precaria convivenza tra israeliani e palestinesi, di un gesto che spazza via le laboriose speranze di dialogo e di pace o di un evento che fa temere di essere giunti ormai alle soglie di una guerra guerreggiata, che gli sviluppi drammatici di questi giorni, la ripresa dei lanci dei razzi Qassam contro Israele e la durissima reazione militare che ne è seguita, sembrano in fondo una ripetizione di quanto è già avvenuto in passato. Viene da pensare che a questa ennesima crisi farà seguito un ennesimo ritorno indietro. Tutte le diplomazie dei Paesi non direttamente coinvolti (e anche quelle di alcuni Paesi che si considerano coinvolti) invocano come prima cosa l’arresto della spirale di azioni e reazioni e il ritorno allo statu quo, per fragile che fosse. E forse sarà così.
Ma può darsi invece che questa crisi sia diversa e che allo statu quo, per un verso o per l’altro, non si torni. Intanto, è da dire che tre protagonisti di questo gioco sanguinoso sono alle soglie di una prova elettorale che dovrà confermare o rigettare la loro posizione al potere. Così è per Israele, dove la successione di Olmert apre prospettive incerte nel complicato schieramento delle forze politiche israeliane.
Il governo attuale non è responsabile della rottura della tregua, ma si è assunto la responsabilità di una reazione durissima. Le parole del bellicoso ministro Barak - «Siamo solo agli inizi» - sembrano destinate a mobilitare l’opinione pubblica interna, non certo a piacere a quella internazionale. I razzi Qassam, ancor più degli attacchi suicidi, sono la sola arma che eluda l’efficienza del sistema difensivo di Gerusalemme: Gaza in mano a Hamas è un rischio permanente, tregua o non tregua, per Israele meridionale; i conservatori, oggi ancor più di ieri, appoggiano chi fa di tutto per prevenirlo.
Anche Abu Mazen è alle soglie di una prova elettorale. Abbiamo visto negli ultimi tempi come, nella Cisgiordania sotto il suo controllo, le condizioni generali di vita della popolazione siano migliorate, grazie anche a un clima più costruttivo e ad aiuti internazionali. Il contrasto con la miseria di Gaza sovraffollata, retta da Hamas senza ordine e senza risorse, salta agli occhi di ogni palestinese. Che Hamas cerchi di contrastare i relativi successi di Abu Mazen in Cisgiordania e che, per farlo, sia disposto a rischiare perfino un ritorno degli israeliani nella Striscia di Gaza, non può sorprendere. Il terrorismo sa bene come sopravvivere anche alle occupazioni militari.
Infine, anche Ahmadinejad ha, a scadenza più lontana, un test elettorale che non può darsi per scontato. Per lui, profeta non della sconfitta ma della distruzione di Israele, ogni soluzione pacifica è inaccettabile. Una situazione di conflitto permanente, quale si è avuta per decenni, congiunta agli errori americani in Iraq, ha permesso all’Iran di essere sinora il solo vincente in questa eterna crisi mediorientale. Che la Palestina vada a ferro e fuoco non lo danneggerebbe e certo non smentirebbe le sue apocalittiche previsioni. Abbiamo così tre parti, ognuna delle quali, oltre a cercare di vincere la posta con gli avversari, deve difendersi alle spalle. Non certo le condizioni ideali per qualsiasi forma di compromesso.
C’è però un elemento di relativa novità, che sembra trapelare dalle dichiarazioni di taluni leader arabi, che suonano meno violente nei confronti di Israele di quanto i duecento morti e i quasi mille feriti dei raid delle forze israeliane potrebbero giustificare. Le riserve di alcuni governi islamici, soprattutto dell’Egitto, nei confronti di Hamas non sono beninteso cosa nuova. In più di una occasione Il Cairo aveva mostrato, anche recentemente, una tendenza a cercare soluzioni realistiche, di allargare, per esempio, i termini della tregua, di risollevare l’argomento del dialogo di pace, di comporre i dissidi interni tra palestinesi convocandone tutte le componenti politiche, senza peraltro ottenere la partecipazione di Hamas. Anche la conferenza stampa congiunta di ieri di Abu Mazen con il ministro degli Esteri egiziano è parsa meno dura nei confronti di Israele di quanto ci si sarebbe potuti attendere.
È presto per dire se i vertici dei Paesi arabi moderati intendono realmente fare un passo avanti verso una soluzione duratura del problema israelo-palestinese. La prossima riunione della Lega Araba darà forse indicazioni a questo riguardo. Intanto ce ne vengono da Gheddafi, il solo che minaccia fin da ora, senza sorprendere nessuno, il ferro e il fuoco delle sue parole. Certo, in questi giorni in cui le piazze islamiche si riempiono di manifestanti contro Israele, alcuni portaparola ufficiali del Cairo e del Golfo sono apparsi molto cauti. E non è un caso che un sondaggio popolare, fatto da Al Jazeera tra i suoi ascoltatori islamici, riveli una diffusa convinzione che la dura reazione israeliana sia stata incoraggiata sotto banco proprio da quei governi che avrebbero dovuto osteggiarla.
Che gli Stati Uniti siano temporaneamente assenti aggiunge un ulteriore elemento di incertezza, ma non cambia oggi la sostanza del gioco diplomatico. Siamo, in fondo, a una specie di prova generale in attesa che Obama prenda il comando. Ognuno cerca di indossare l’abito più appropriato: i duri fanno i duri, i moderati mostrano moderazione. Sperano, questi ultimi, che Obama non li smentisca. da lastampa.it
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« Risposta #7 inserito:: Gennaio 31, 2009, 11:39:31 am » |
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31/1/2009 Obama-Iran la prossima mossa BORIS BIANCHERI
Obama ha dato un segnale di apertura e buona volontà all’Iran in termini molto equilibrati. Ha scelto un’emittente araba per lanciare un messaggio che auspica «vie di progresso» nei rapporti, con l’augurio che alla mano tesa di Washington Teheran non risponda con il pugno chiuso: un’espressione elegante, significativa e comprensibile dal pubblico islamico oltre che dal governo iraniano. La risposta che il presidente Ahmadinejad gli ha dato ventiquattr’ore dopo, in occasione di un discorso a Kermanshah, è stata più articolata. La stampa americana l’ha giudicata piuttosto deludente, anche se prevedibile.
Del suo programma nucleare - la causa più diretta di contenzioso che l’Iran abbia con la comunità internazionale e al primissimo posto delle preoccupazioni occidentali - il premier iraniano non ha detto nulla di nuovo. Ha fatto una lunga lista dei misfatti americani dal tempo dello Scià a oggi, per i quali si attende esplicite scuse, e ha aggiunto che aspetterà pazientemente di vedere se i propositi di cambiamento di Obama sono tattici o sostanziali. Naturalmente, ha ricordato che tra i crimini americani c’è il continuato appoggio alla causa sionista.
Che prospettive concrete si aprono nei rapporti internazionali con questo scambio di battute? Non molte, almeno nell’immediato. Per la ragione assai semplice che quanto è avvenuto nell’area mediorientale e centroasiatica negli ultimi anni dimostra che gli Stati Uniti hanno molto più bisogno dell’Iran di quanto l’Iran non abbia bisogno degli Stati Uniti. Sul tema nucleare, si chiedono all’Iran garanzie che i suoi programmi restino confinati all’ambito civile, ma non si hanno mezzi di pressione per imporlo. Le sanzioni, lo vediamo, sono poco efficaci: vari Paesi appaiono restii a renderle più severe e l’operazione esigerebbe comunque un vasto consenso internazionale difficile da raggiungere. Di azioni coercitive, neppure l’amministrazione Bush osava mai parlare ad alta voce e non è probabile che quella di Obama le prenda neppure in esame.
Ma c’è soprattutto la considerazione che, proprio in questi anni in cui l’Iran ha preso posizioni in contrasto con gli Stati Uniti, esso è diventato, per demerito degli altri protagonisti, una forza politica preminente e l’elemento chiave degli equilibri regionali. Attraverso Hezbollah ha acquistato una posizione di prima grandezza in Libano. Attraverso Hamas l’ha acquistata nel conflitto israelo-palestinese. La prossimità con l’Afghanistan gli ha attribuito un peso di rilievo nella soluzione del problema più grave e urgente della politica americana ed europea in Asia. Mentre gli Stati Uniti perdevano prestigio internazionale e si dissanguavano umanamente e finanziariamente in Iraq, l’Iran riacquistava peso politico in quel Paese attraverso la componente sciita e vedeva intanto il suo vicino-rivale indebolirsi. Nessun altro ha guadagnato qualcosa nella roulette mediorientale dall’11 settembre a oggi. Israele non ha guadagnato sicurezza, malgrado l’abbandono di Gaza, e ne abbiamo ogni giorno la prova. Il Libano non ha guadagnato in coesione. I palestinesi non hanno certo migliorato le loro condizioni di vita e la prospettiva di uno Stato palestinese non si è avvicinata malgrado il tempo trascorso. L’Iraq è nello stato che sappiamo. L’America non ha guadagnato in prestigio e l’Europa non ha guadagnato in credibilità. Solo l’Iran, quasi senza muoversi, ha incassato le poste degli altri. Non c’è da stupirsi che Ahmadinejad dica che aspetta con pazienza di vedere quel che gli Stati Uniti faranno in futuro. Può permettersi di aspettare perché il tempo ha lavorato per lui.
da lastampa.it
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« Risposta #8 inserito:: Marzo 12, 2009, 11:09:31 am » |
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12/3/2009 - NATO Sarkò cancella De Gaulle BORIS BIANCHERI Da alcune settimane, l’opinione pubblica francese - politici, giornalisti e intellettuali in testa - si è appassionata ad un dibattito che, ai nostri occhi, sembra un po’ remoto: se la Francia debba invertire la decisione presa dal generale De Gaulle nel 1966 tornando a far parte della struttura militare della Nato dalla quale, a partire da quell’anno lontano, si è dissociata. Il presidente Sarkozy, infatti, aveva da qualche tempo fatto trasparire l’intenzione di invertire quella scelta di allora, che fu clamorosa perché sanzionò, assieme alla creazione del deterrente nucleare, la cosiddetta «Force de frappe», l’autonomia della Francia rispetto alla supremazia militare americana.
Il rientro nella struttura militare integrata - facevano capire all’Eliseo negli scorsi giorni - si formalizzerà solennemente il 4 e 5 aprile, quando tutti i Paesi della Nato celebreranno insieme il sessantesimo anniversario dell’Alleanza Atlantica. E ieri sera Sarkozy ha confermato, in un discorso pronunciato alla storica Scuola Militare di Parigi, tale proposito che dovrà essere sanzionato da un voto del Parlamento nei prossimi giorni.
Non tutti in Francia si erano detti d’accordo. Alcuni, paradossalmente soprattutto a sinistra, considerano inutile, e perfino disdicevole, l’abbandono della linea gollista. Sono stati fatti anche dei sondaggi popolari che hanno indicato però un vasto consenso, soprattutto tra i giovani, sulla posizione di Sarkozy. Un ultimo sondaggio, sul quale si hanno per ora solo delle anticipazioni, dovrebbe rivelare un ancor più largo favore dei francesi all’abbandono della linea di gloriosa solitudine preconizzata un tempo da De Gaulle.
In Italia, dove più che delle glorie del passato si ama discutere delle colpe del presente, un simile dibattito appare scarsamente comprensibile, e comunque molto astratto. Probabilmente non a torto. Perché, a pensarci bene, che la Francia rientri o no nella struttura integrata della Nato, che il Sarkozy di oggi prevalga sul De Gaulle di ieri, non cambia in realtà nulla.
Non cambia sul piano del principio della sovranità nazionale, perché le decisioni nella Nato sono prese comunque all’unanimità e l’invio di contingenti di truppe avviene, anche per gli altri Paesi, solo su base volontaria.
Non cambia sul piano dell’efficienza militare operativa, dato che la Francia ha partecipato a tutte le iniziative militari svolte dall’Alleanza negli ultimi tempi, dalla Bosnia, al Kosovo, all’Afghanistan, indipendentemente dalla sua partecipazione ai comandi integrati.
Non cambia nulla, in realtà, neppure sul piano politico. Il gesto di De Gaulle ebbe a suo tempo un significato molto chiaro di presa di distanza dalla supremazia politico-militare americana. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti e i rapporti franco-americani si misurano oggi su terreni che poco hanno a che vedere con la Nato, come è stato il caso della guerra in Iraq, o di tanti aspetti della questione mediorientale, o delle relazioni con la Russia, o della crisi georgiana.
Sussiste, evidentemente, un certo valore simbolico nell’essere o meno membri di una struttura militare integrata e di accettare o meno di prendere, se del caso, ordini da un generale americano o di qualche altro paese dell’Alleanza. Ma, come abbiamo visto, le giovani generazioni danno a tutto questo poca importanza, forse anche perché cosa esattamente sia la Nato e a cosa serva, lo sanno meno da quando l’Unione Sovietica non c’è più.
Ma allora, se tutto sommato la «storica» decisione di tornare a pieno titolo nella Nato non cambia nulla, perché tanto chiasso in Francia? E perché Sarkozy vi dà tanto rilievo? Si possono dare due interpretazioni. L’una, pragmatica, è che il rientro nella struttura integrata darà alla Francia in po’ più di voce in capitolo e le frutterà qualche alto posto di comando, che già si sta negoziando sotto banco con gli americani. L’altra, psicologica, è che il presidente Sarkozy, a differenza di De Gaulle che occupava tutta la scena mediatica con la sua grande figura immobile, ama occupare la scena muovendosi in continuazione. La Nato, assieme a tante iniziative mediatiche prese all’interno e all’estero, gliene fornisce una nuova favorevole occasione. da lastampa.it
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« Risposta #9 inserito:: Maggio 26, 2009, 03:26:30 pm » |
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26/5/2009 Un test per Obama BORIS BIANCHERI Lì per lì i sismografi l’avevano scambiata per una scossa di terremoto di medio-alta potenza avvenuta in qualche inospitale landa dell’Estremo Oriente: 4,5 gradi della scala Richter.
Più di un punto al di sotto di quella che ha devastato l’Abruzzo. Poi si è capito che non si trattava di una scossa ma di un’esplosione e se ne è avuta conferma quando l’agenzia di stampa di Pyongyang, Kcna, ha diffuso ufficialmente la notizia che un test atomico sotterraneo era stato eseguito da parte della Corea del Nord alle 10 ora locale mentre a Washington ci si apprestava al sonno e in California era pomeriggio. Un ordigno considerevole, di forza stimabile tra 10 e 20 chilotoni, superiore, per intenderci, alla bomba atomica che nel 1945 distrusse la città di Hiroshima.
Non è cosa nuova, naturalmente. Da anni la Corea del Nord tiene in agitazione i governi di buona parte del mondo e soprattutto quelli di Washington e di Tokyo con un progressivo aumento della propria capacità nucleare. Il Paese ha da tempo superato la fase di produzione del materiale fissile e ha tradotto questa capacità in un primo test sotterraneo di alcuni anni fa, cui hanno fatto seguito riuscite prove di lancio di missili a corto e medio raggio, l’ultima delle quali recentissima, al principio di aprile.
A dire il vero, anche questa volta come nel passato alcuni Paesi - Stati Uniti, Cina, Corea del Sud - erano stati avvertiti dell’esplosione con un’ora di anticipo: non si tratta beninteso di una questione di buone maniere. I nordcoreani si sono premuniti di non far scattare in America uno stato di allarme nucleare con le ripercussioni che ciò potrebbe comportare sia sul piano interno che su quello internazionale.
Le reazioni della comunità internazionale all’avvenimento sono state, come prevedibile, di riprovazione e di allarme, con alcune sfumature. Vi è stata la rituale richiesta di convocazione d’urgenza del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite affinché emani una non meno rituale risoluzione di condanna. Il segretario generale dell’Onu ha espresso preoccupazione e altrettanto hanno fatto i singoli governi, chi - come il ministro Frattini - definendola una minaccia alla pace, e chi - come Solana - parlando di atti irresponsabili. Se i nordcoreani volevano saggiare i tempi di reazione di Obama a questa provocazione, hanno riscontrato che essi sono stati immediati: il Presidente americano ha fatto capire che Pyongyang sta sfidando in modo sconsiderato il mondo e che il mondo è legittimamente autorizzato a reagire. Di quale reazione possa trattarsi, tuttavia, non si è parlato.
Tutto ciò era, alla fin fine, prevedibile. Non si investe quel che la Corea del Nord - che non abbonda né di capitali né di ricchezze del suolo - ha investito nel proprio programma nucleare e missilistico senza spingere fino in fondo la propria azione. L’Iran, che è il solo Paese che non si sia finora associato alla riprovazione generale, sfida da anni il mondo su questo stesso terreno riscuotendo se non l’assenso quantomeno solo un modesto dissenso da parte di Russia e di Cina, la reprimenda dell’Agenzia internazionale dell’energia atomica e incassando una sull’altra cinque risoluzioni negative del Consiglio di Sicurezza dell’Onu senza battere ciglio.
Quel che è più difficile capire è perché, dopo essersi pochi anni fa dichiarata disposta a rinunciare al programma nucleare in cambio di aiuti e garanzie di sicurezza, la Corea del Nord abbia contraddetto tali intenzioni riprendendo il suo programma e abbia scelto una stagione internazionale ricca di speranze di pacificazione e dialogo come quella inaugurata dalla presidenza Obama per dare a tale programma una clamorosa e minacciosa visibilità. Può darsi che proprio questo, oltre alla ben nota imprevedibilità delle dittature, sia stato l’elemento che ha dettato il gesto nordcoreano: la condizione che l’amministrazione Obama e il nuovo corso più multilaterale e meno decisionista inaugurato a Washington assicuri perfino ai reprobi maggiore immunità.
A fronte del benessere crescente che ha segnato a lungo l’esistenza dei Paesi dell’Asia orientale, la Corea del Nord, arroccata nel proprio isolamento, vive una vita di miti illusori. La forza militare e l’appartenenza al club esclusivo dei detentori di armi nucleari è uno di questi miti. Ora non sarà facile dare una risposta al comportamento di Pyongyang che vada al di là delle espressioni di preoccupazione e di condanna. Ci accorgeremo sempre più che il superamento dell’unilateralismo americano dell’era Bush richiede una volontà di collaborazione da parte di tutti nel far osservare quelle regole di comportamento internazionale che da troppo tempo le Nazioni Unite non sembrano più in grado di far rispettare. da lastampa.it
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« Risposta #10 inserito:: Giugno 06, 2009, 05:41:46 pm » |
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4/6/2009 La crisi oscura l'Europa BORIS BIANCHERI Siamo dunque giunti alla vigilia delle elezioni europee dopo una delle più deprimenti campagne elettorali che la storia del nostro Paese ricordi. E, oltretutto, non siamo i soli. Anche a risalire fino al lontano 1979, quando si tennero le prime elezioni per un Parlamento europeo, che pure non aveva allora alcun potere reale e che fu eletto entusiasticamente con una percentuale di voti mai eguagliata nei trent’anni successivi.
In questa nostra ultima campagna elettorale si è parlato di tutto e del contrario di tutto, anzi forse più del contrario che del tutto. Ma la parola Europa si è sentita poco: anche quando i candidati sono scesi sul terreno dei fatti e dei programmi hanno parlato soprattutto di problemi di carattere interno - sicurezza, immigrazione, riforme costituzionali, interventi diretti dello Stato a sostegno di imprese - su cui il Parlamento da eleggere avrebbe solo poca diretta influenza. Come il presidente Napolitano ha fatto osservare, di Europa si è dibattuto poco.
Enon si è fatto uno sforzo per spiegare come e quanto le delibere del Parlamento di Strasburgo incidano invece sulla vita quotidiana dei cittadini.
Eppure, si può dire approssimativamente che più della metà della legislazione nazionale risente oggi di decisioni prese in ambito europeo. Come mai allora tanta indifferenza non solo nei singoli elettori ma anche nelle organizzazioni sindacali, nelle associazioni di categoria o in quelle dei consumatori? Va detto che la comunicazione sui problemi europei sul piano nazionale è stata spesso più di tipo generico/retorico che rivolta all’attualità. Quella proveniente da Bruxelles, poi, soprattutto in questi ultimi tempi, con una presidenza della Commissione fiacca e una presidenza del Consiglio europeo a dir poco fredda, non ha certo aiutato. Il risultato è che i sondaggi sembrano indicare che su 380 milioni di elettori in tutta Europa, meno del 40 per cento andrà effettivamente alle urne.
Il fatto è che se noi abbiamo i nostri mali gli altri non sono da meno. È evidente che la crisi economica in atto, la preoccupazione che alla fase dei dissesti bancari segua una fase di disoccupazione crescente e di perdita di potere d’acquisto delle famiglie a reddito basso, prevale in questo momento sull’obiettivo di una maggiore coesione e integrazione europea, che richiede invece coraggio e ottimismo. In Inghilterra, il dibattito elettorale, che in Italia è stato monopolizzato da scandali e pettegolezzi, è stato ugualmente influenzato da scandali di diversa natura, come quello dei rimborsi-spese dei parlamentari, meno piccanti forse ma non meno inquietanti.
In Francia, anche esponenti di antica fede europea come Bayrou hanno condotto una campagna elettorale di ordine domestico sul filo del pro o contro Sarkozy. Ed è significativo che lo stesso ministro degli Esteri Kouchner abbia dichiarato - e la stampa anglosassone si è affrettata a sottolinearlo - che non sa bene per chi votare. In Germania si è pensato soprattutto alle elezioni nazionali del prossimo autunno e, negli ultimi tempi, alla Opel.
A parlare forte di Europa sono stati invece soprattutto coloro che la respingono: i conservatori radicali in Gran Bretagna, gli estremisti di destra in Olanda e in Francia, tutti coloro che guardano all’immigrazione, per non parlare di ulteriore allargamento, come a una incombente minaccia.
Non c’è dubbio: l’ombra che passa sull’Europa ha la sua origine anche nella congiuntura economica, che fa sì che ognuno pensi soprattutto a sé, al suo villaggio, al suo borsellino. Ma mancano spiriti che guardino lontano e che sappiano sfidare i tempi: la nostra generazione sembra fatta di uccelli notturni che hanno paura di annunciare il giorno. Quando verranno animi più arditi e spiriti visionari? da lastampa.it
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« Risposta #11 inserito:: Giugno 13, 2009, 09:28:09 am » |
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13/6/2009 Ingenui con il rais BORIS BIANCHERI Che si debba avere con la Libia un rapporto cordiale, amichevole e costruttivo non lo può mettere in dubbio nessuno. La Libia è un paese vicino, si può dire addirittura confinante, data la facilità con cui dalle sue coste si raggiungono quelle dell'Italia e delle nostre isole. Appartiene a quell'area mediterranea dove abbiamo infiniti interessi economici e politici che hanno carattere per noi prioritario e che meritano di essere tutelati e coltivati.
In nome di tali interessi, con molta pazienza, per circa dodici anni abbiamo intessuto un lungo negoziato al fine di comporre un contenzioso tra i due paesi lasciato dalla storia e dall'eredità coloniale, reso ancor più difficile dal carattere stizzoso e imprevedibile di chi da quaranta anni governa a Tripoli. Tutte le potenze coloniali hanno conosciuto simili difficoltà con le loro ex colonie, ma poche hanno avuto problemi così complessi come quello che abbiamo incontrato noi nel tentativo di mettere ordine nei rapporti italo-libici. Chi scrive ha avuto occasione di partecipare a questo processo e perfino di predisporre una primissima ipotesi di intesa con l’allora Vice Ministro degli Esteri libico Al Obeidi, al tempo del governo Prodi nei tardi Anni Novanta e ne conserva ben vivo il ricordo.
Bene abbiamo fatto a proseguire su questa strada senza farci scoraggiare dalle richieste finanziarie libiche e dagli oscillanti umori della controparte. La necessità che la Libia collabori attivamente nel controllo dell'immigrazione clandestina e i nostri interessi economici soprattutto, ma non solo, nel settore energetico, hanno giustamente prevalso. Ed era anche giusto secondo il protocollo ricambiare l'invito fatto da Gheddafi al nostro presidente del Consiglio, invitandolo a venire a Roma. Ma qui sarebbe stato bene fermarsi. Non parlo delle manifestazioni di colore come la tenda alzata a Villa Doria Pamphili e non penso neppure alla fotografia collocata sulla sua vistosa uniforme. Ma non c'era nessun bisogno di invitarlo a parlare sia al Senato che alla Camera dei Deputati, offrendogli il destro di una monumentale scortesia ed obbligando il Presidente Fini a cancellare l'incontro perché l'ospite non si era ancora presentato due ore dopo. E poi di proporgli un intervento all'Università. E poi di offrirgli altre occasioni di allocuzioni pubbliche senza prendere la precauzione di mettere qualche paletto al suo linguaggio, soprattutto quello usato verso paesi che sono nostri amici ed alleati. Quel che Gheddafi ha detto degli Stati Uniti e del terrorismo è francamente, oltre che insulso, offensivo.
Vero è che il mondo è da tempo abituato alle intemperanze di Gheddafi e che lui è il solo responsabile delle sue parole. Vero è anche che il nostro Ministro degli Esteri ha preso con garbo qualche distanza. Ma, ricordiamoci come non tanto tempo fa molti hanno rimproverato all'Alto Commissario per i Diritti Umani di aver offerto ad Ahmadinedjad, durante la conferenza di Ginevra sul razzismo, una platea di massima risonanza a delle espressioni inammissibili nei confronti di Israele e del suo popolo, al punto che i delegati europei si sono alzati e se ne sono andati. Non possiamo stupirci se oggi qualcuno rimprovera all'Italia, nella stampa e anche nelle cancellerie, di aver ingenuamente offerto a Gheddafi un troppo nobile palcoscenico per la sua commedia.
Peccato. Perché se i buoni rapporti con la Libia sono importanti sotto tanti punti di vista, ci sono altri rapporti che dobbiamo guardarci bene dal mettere a rischio e suscettibilità che non dobbiamo sottovalutare. Secondo i programmi, sinora ufficiosi, Gheddafi dovrebbe tornare nel nostro paese in occasione del G8 dell'Aquila: non come capo dello stato libico, stavolta, ma come presidente di turno dell'Unione Africana. Una platea ancora più spettacolare per chi manifestamente ama dare spettacolo. Siamo ben certi che questa volta tutti i possibili paletti siano stati messi e tutte le possibili precauzioni siano state prese? Siamo certi di non offrire al leader libico l'occasione di qualche nuova trovata e alla comunità internazionale il pretesto di qualche sopracciglio alzato per una leggerezza all'italiana? da lastampa.it
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« Risposta #12 inserito:: Luglio 04, 2009, 12:23:06 pm » |
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4/7/2009 Obama provoca il Cremlino BORIS BIANCHIERI C’è un passaggio dell’intervista concessa da Obama all’Associated Press, alla vigilia della partenza per Mosca, che ha fatto sobbalzare più di un lettore sulla sedia. Parlando dei suoi futuri interlocutori a Mosca, il presidente degli Stati Uniti ha osservato come il primo ministro Putin abbia ancora influenza nella gestione degli affari correnti ma come la sua visione conservi anche tracce di una impostazione ormai superata. Per contrasto, ha fatto un elogio del presidente Medvedev con il quale, ha rilevato, intrattiene rapporti eccellenti. È, a dir poco, del tutto inusuale che alla vigilia di un importante incontro internazionale - tra i più delicati e difficili sinora avuti da Obama, per il numero di problemi sul tavolo e per l’eredità storica dei rapporti tra i due Paesi - il presidente Usa faccia distinzione tra le massime cariche dello Stato che si accinge a visitare, accordando all’una, il Presidente, una buona pagella e all’altro, il primo ministro, un voto che non raggiunge la sufficienza.
Cosa può aver indotto Obama a un simile linguaggio? Negli ambienti più liberali e intellettuali russi, senza dubbio si spera in una evoluzione in senso maggiormente liberale dell’intera società russa e si fa assegnamento su Medvedev perché ciò si realizzi: la loro voce raggiunge certo alla Casa Bianca anche orecchie vicine a quelle di Obama. C’è poi da dire che in politica estera, e cioè sui grandi argomenti che verranno discussi a Mosca oggi, è il presidente Medvedev che ha voce in capitolo, e non il primo ministro Putin: la costituzione russa non lascia dubbi in proposito e sarà dunque Medvedev il primo e vero interlocutore di Obama. Infine, il presidente americano ha sicuramente inteso dare così al suo viaggio una nota di ottimismo, come ha fatto già in passato e come è nel suo carattere, dicendo in sostanza: la mia è una politica di pace e di distensione nel mondo e ho fiducia di avere i migliori interlocutori per attuarla.
Tutto ciò detto, non si può ignorare che Medvedev è uomo di Putin, che si trova al potere grazie a lui e che la popolarità di Putin è tuttora, nella grande maggioranza della popolazione russa, infinitamente superiore a quella di chi, fino allo scorso anno, era un abile e intelligente burocrate che poi ha preso il suo posto. C’è anche da dire che al fondo dei rapporti russo-americani (come anche di quelli con l’Europa) sta l’eterna questione dell’influenza della Russia nei Paesi dell’area che direttamente la circonda e che essa considera di suo strategico interesse, dall’Ucraina, alla Bielorussia, alla Moldova, alla Georgia e agli altri Paesi del Caucaso e dell’Asia Centrale. È qui che la Russia viene sfidata da alcuni di questi stessi Paesi nonché dall’Occidente, quando si parla di estendere la Nato (o l’Unione Europea) ai suoi confini, subentrando così in ciò che a Mosca si considera una specie di dominio riservato, come il caso della Georgia insegna. Ora, questo non è un tema sul quale si può finora intravedere qualche divaricazione tra Putin e Medvedev: è un tema al quale si riconnettono l’anima russa e l’intera storia russa; è un tema profondamente sentito a livello popolare, una sembianza di grandezza che sopravvive al trauma del collasso dell’antico impero zarista e poi sovietico e alla frantumazione dell’ex Urss in quindici diverse repubbliche.
È quindi legittimo il dubbio che la sottigliezza di Obama nel distinguere tra Putin e Medvedev prima di incontrarli sia, da questo punto di vista, molto lungimirante. Putin ha replicato a Obama, abbastanza seccamente, che lui ha i piedi ben piantati nel presente. Il portavoce del Cremlino, invece, ha dato al Presidente americano una risposta ineccepibile: Obama non è evidentemente in possesso di tutte le informazioni necessarie su ciò che accade in Russia. Ancora più utile, quindi, è la sua visita, così che possa constatare che tra il presidente Medvedev e il primo ministro Putin non vi è nessuna divergenza di posizioni. Se tutto questo fosse solo un gioco diplomatico, direi che finora i russi sono in vantaggio di 2 a 1.
da lastampa.it
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« Risposta #13 inserito:: Luglio 07, 2009, 11:13:02 pm » |
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7/7/2009 Sindrome Onu per i grandi BORIS BIANCHERI Quando nacque, nei lontani Anni Settanta, era molto diverso. Si erano incontrati una volta in un’isola dei Caraibi i leader di Stati Uniti, Giappone, Francia, Germania e Gran Bretagna e crearono il G5. Venne aggiunta l’Italia e diventò il G6. Poi, l’anno dopo, il Canada e fu il G7. E tale restò per lungo tempo. Non era tanto nel numero dei partecipanti che era diverso, quanto proprio nella sostanza. Era, quello, un incontro riservato e confidenziale dei massimi dirigenti di un gruppo di Paesi che avevano gli stessi principi, credevano negli stessi ideali e volevano coordinarsi tra loro per far prevalere la loro visione nell’ordine internazionale. Sette paesi con «menti simili», o «like minded», come dicono con un’espressione felice gli anglosassoni. Per operare efficacemente, pensavano i leader di allora, occorre anzitutto essere pochi: l’ingresso dell’Italia fu dovuto in parte all’abilità di un nostro diplomatico che non ha mai voluto mettersi sotto i riflettori e soprattutto alla volontà di inglesi e americani di ancorare all’Occidente un’Italia tentata dal compromesso storico. Il Canada fu aggiunto per riequilibrare il peso tra le due sponde dell’Atlantico. E a quel punto basta. Pochi i Paesi e pochissimi i collaboratori. L’ideale, diceva il primo ministro britannico di allora, sarebbe stato un incontro limitato ai soli sette Capi di Stato o di Governo. Fu poi aggiunto un collaboratore per ciascuno, che venne chiamato «sherpa» come le guide himalayane, nella convinzione che se una vetta da scalare è alta, una guida può essere utile, ma è meglio che sia uno del luogo e meglio ancora se parla male la nostra lingua.
I risultati dei G7 di allora non richiedevano laboriosi testi scritti o decisioni pubbliche formali. Erano un confronto di posizioni, una ricerca di linee di indirizzo per affrontare in modo coordinato alcuni dei grandi problemi internazionali del momento. Come è accaduto che un simile strumento pragmatico e snello si sia trasformato nella immensa macchina politica e mediatica dei vari G attuali, che si muove in ogni dimensione, con diversi formati e con tutta una galassia di inviti e convocazioni accessorie? Un poco hanno contribuito i no global, inventando per i G7 un ruolo decisionale che non avevano. In parte, evidentemente, è il frutto inevitabile della globalizzazione e del policentrismo mondiale. Ma è soprattutto il frutto di un equivoco, che si è prodotto quando il G7 è stato allargato alla Russia nel presupposto che con il dissolvimento dell’Urss la Confederazione Russa avrebbe condiviso al 100 per cento tutte le posizioni e i valori del mondo occidentale. Così non è. La Russia è un partner indispensabile e prezioso con il quale, come vediamo in questi giorni, si negozia, ma con il quale sussistono anche posizioni di fondo che sono molto distanti. Da strumento di concertazione e raccordo, il pianeta del G8, che dopo la Russia ha inglobato altri paesi, anzi interi altri continenti, è diventato un foro di negoziazione globale che in teoria aspira a disciplinare l’intero stato del mondo. Cioè una specie di Onu senza regole scritte dove si parla e si discute di tutto, dall’ambiente (forse il tema più arduo in assoluto), alla finanza, alle crisi regionali, partendo quasi sempre da punti di vista opposti. Questo spiega come mai al G8 dei ministri degli Esteri di Trieste fossero giunte - lo dice chi le ha contate - qualcosa come quaranta delegazioni. Questo spiega anche come mai gli ordini del giorno delle riunioni si allunghino all’infinito mentre poi l’unanimità, malgrado gli sforzi della presidenza (e da parte italiana l’impegno non manca), si trova più che altro su affermazioni di carattere generale.
Nulla di male, in fondo. Parlarsi, anche quando non si conclude, è sempre meglio che combattersi. Ma siamo certi che il vecchio G7, che metteva insieme alcuni Paesi realmente vicini nella ispirazione di fondo e nella gran parte dei loro interessi, non possa tornare ad essere utile? Lasciando che il G8, o comunque si chiami, continui ad allungarsi all’infinito?
da lastampa.it
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« Risposta #14 inserito:: Luglio 24, 2009, 11:05:42 pm » |
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24/7/2009 Sanità lo stallo di Obama BORIS BIANCHERI Succede spesso nelle democrazie che gli ultimi giorni prima delle vacanze estive, quando i lavori parlamentari si accelerano e il caldo rende bollenti gli spiriti, siano anche quelli più spinosi per chi governa.
Questo è quanto accade a Barack Obama che, a nove mesi dalla sua strepitosa vittoria elettorale e dal consenso planetario allora raccolto, si accorge adesso quanto gestire il potere sia più difficile che raggiungerlo. Lo scoglio maggiore che ha davanti è il piano sanitario, o meglio l’estensione dell’assistenza sanitaria dello Stato ai circa 46 milioni di cittadini americani che attualmente vi provvedono attraverso il sistema privato o non vi provvedono affatto. Che fosse un’impresa difficile Obama lo sapeva: altri presidenti avevano provato prima di lui, ultimo di questi Clinton - che aveva poi affidato cavallerescamente il compito alla moglie! - e tutti, inclusi i Clinton, erano falliti. E tuttavia Obama ne ha fatto una bandiera che ha agitato ininterrottamente fino alla conferenza stampa di ieri l’altro.
Il Presidente ha dalla sua parte la vasta aspettativa creata da un progetto di cui si parla da decenni, la sua grande popolarità personale, la comoda maggioranza democratica in parlamento. E ha infatti affidato a Camera e Senato il compito di elaborare dei progetti, non sugli aspetti tecnici della legge ma su quello che il parlamento americano dovrà a suo tempo approvare, e cioè la spesa. Ma è qui che le cose si complicano, perché le stime sono che la legge costerà tra i 1000 e i 1500 miliardi di dollari. Ora, una somma simile non si trova in qualche anfratto del bilancio: o si fanno grandi economie in altri settori e magari in quello stesso della sanità, o si mettono nuove tasse. A quest’ultima soluzione hanno pensato i democratici, sollevando la scontata opposizione dei repubblicani ma anche quella di molti di loro, soprattutto se eletti negli Stati più conservatori.
Perché - dicono costoro - saranno sempre i cittadini a pagare, ma chi ci dice che l’assistenza dello Stato sarà gestita meglio e a minor costo di quella privata? Obama ha pensato allora che le nuove tasse gravino solo sui più ricchi, cioè che una parte del Paese si faccia carico del costo dell’altra. Una soluzione coerente con i suoi principi e la sua filosofia politica, ma non con quella di molti americani che al solo sentore di socialismo strisciante sussultano: che chi ha di più paghi di più è giusto; ma quel di più che paga deve andare a tutti e non solo a taluni.
È una secca pericolosa, questa, che la nave di Obama dovrebbe oltrepassare entro i primi d’agosto, perché cambiare ora la rotta è difficile. Forse proverà a ritardare, e già la promessa di varare la legge entro ottobre è slittata a fine anno.
Qualche battuta d’arresto, d’altronde, c’è stata anche sul fronte internazionale. La mano tesa verso l’Iran non è stata ricambiata con il calore previsto e ora, dopo quel che è successo là, appare anche intempestiva. Alla sfida nucleare iraniana si è aggiunta, ben visibile e tracotante, quella del Nord Corea. I rischi di ulteriori proliferazioni sembrano oggi più realistici dei sogni di denuclearizzazione generale.
Infine, oltre all’Afghanistan, un vero banco di prova che sembra però diventare l’Iraq di qualche anno fa, c’è la Russia. Il viaggio di questi giorni del vice presidente Biden in Ucraina e Georgia è l’altra faccia della visita fatta da Obama a Mosca poco tempo fa. Presidente e vice presidente sono d’altronde le due facce di una linea politica: quella di Obama innovativa, decisionale e altamente mediatica, quella di Biden più tradizionale e conservatrice. E così è stato il loro linguaggio. Obama ha parlato ai russi dell’avvenire e Biden ad ucraini e georgiani del passato, rassicurandoli che gli Stati Uniti non hanno cambiato idea su un loro eventuale ingresso nella Nato.
Il problema è che Obama ha bisogno della collaborazione della Russia su tutti i grandi temi del momento, che sia il nucleare, l’energia, l’ambiente, l’economia, le crisi regionali o i loro stessi rapporti bilaterali. Ma anche che è sempre più chiaro che per i russi questi passano attraverso qualche forma di accettazione di un principio di non ingerenza, e la Nato lo sarebbe, nell’equilibrio della «loro» area. C’è dunque uno stallo, interno ed esterno. Obama ha tutto il consenso, la forza e la capacità di superarlo, ma non sarà con una conferenza stampa, né con un solo colpo d’ingegno. I nodi sono molti e scioglierli richiede pazienza: una dote che Obama non ha dovuto sinora mettere alla prova.
da lastampa.it
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