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« Risposta #15 inserito:: Agosto 04, 2009, 03:20:50 pm » |
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4/8/2009 Il Giappone si gioca il futuro
BORIS BIANCHERI Del Giappone si parla poco. I media di tutto il mondo lo menzionano di solito quando gli animalisti lo attaccano per la pesca alle balene o se c’è stato un terremoto. In Italia se ne è parlato recentemente in relazione a un calo dei visitatori giapponesi nel nostro Paese e ad un conto astronomico presentato a due ignari turisti in un noto ristorante romano. (Avendo vissuto per sei anni in Giappone, dirò tra parentesi che un conto di 1000 euro per due non è del tutto sorprendente in certi raffinatissimi ristoranti di Tokyo o di Kyoto). Comunque sia, è un fatto che quel che accade in Giappone, seconda potenza economica al mondo dopo gli Usa, sembra suscitare poco interesse. Si versano fiumi di parole e di inchiostro sulla Cina e sull’India, sull’impatto che l’evoluzione delle loro economie avrà a livello planetario, ma il Giappone, il cui prodotto lordo è più del doppio di quelli di Cina e India messe insieme, viene solitamente trascurato. Ed è ancor più strano in quanto esso si trova di fronte a una possibile rivoluzione copernicana, quella del possibile ritorno della politica nella vita pubblica del Paese.
Da più di 50 anni, un solo partito, il Partito Liberal Democratico (Pld), nato circa dieci anni dopo la guerra, ha costantemente dominato la vita giapponese. Questo monopolio di fatto di una sola parte politica, di orientamento moderato-conservatore che ricorda un poco la Democrazia cristiana in Italia tra gli Anni 50 e 80, non ha impedito tuttavia un corretto funzionamento degli strumenti democratici né ha creato tendenze dittatoriali nei suoi vari leader: altri partiti sono sorti, esistono ma non vincono; i primi ministri non diventano dittatori anche perché si alternano con ritmo vertiginoso e durano mediamente in carica un anno o poco più. Il Partito Liberal Democratico, in ogni caso, resta al potere.
Più che un partito, se vogliamo, il Pld è lo Stato stesso, fortissimamente radicato sul territorio attraverso i piccoli proprietari agricoli, strettamente connesso all’industria, alla finanza, al commercio e soprattutto alla burocrazia che gestisce di fatto, in luogo e per conto del governo, l’intero Paese. Quanto al capo del governo di turno, esso fa pensare a un monarca a tempo limitato, molto spesso con tradizioni politiche familiari: Taro Aso, l’attuale primo ministro, è nipote di un primo ministro, genero di un altro primo ministro e cognato di un principe della casa imperiale. Perché si pensa che questo gigantesco apparato, che ha permesso la creazione di un benessere diffuso e di una potenza industriale colossale, possa venir meno? Perché ci interroghiamo seriamente se il Pld resterà al potere anche dopo le prossime elezioni della Camera bassa, il 30 agosto?
Si pensa istintivamente alla recessione, che ha toccato naturalmente anche il Giappone, seppur non finora in modo devastante: le esportazioni hanno subìto una notevole flessione ma c’è qualche segno di ripresa, il sistema finanziario complessivamente ha retto, la disoccupazione è cresciuta ma resta a livelli tollerabili (5,6%), il mito giapponese del posto di lavoro a vita si è incrinato negli ultimi tempi e il precariato comprende quasi il 30% della forza lavoro, ma ciò risponde oltre che agli interessi degli imprenditori anche a certe aspirazioni giovanili verso prospettive di vita di maggiore mobilità e scelta. Forse è proprio in questo atteggiamento psicologico, che si estende a parte della borghesia, che sta il nodo del Giappone odierno. Esso vive da mezzo secolo una stagione prospera ma immobile, socialmente e costituzionalmente, sia sul piano interno sia su quello internazionale.
Il partito rivale, il Partito Democratico del Giappone (Pdj), che da cinquant’anni sta all’opposizione, prova a dare una scossa. I suoi leader, l’attivissimo Hatoyama, e il suo fantasioso braccio destro Ozawa, hanno lanciato un programma di riforme ambizioso che va dai sussidi alle famiglie numerose, alla diminuzione della fiscalità per la piccola impresa, all’abolizione dei pedaggi stradali e soprattutto all’impegno che a guidare il Paese sarà d’ora in poi non la burocrazia, ma la politica, non i funzionari (che si propone comunque di sfoltire), ma gli eletti dal popolo. Taro Aso ha risposto con un ironico manifesto in cui sfida il rivale a trovare i fondi necessari al suo programma e intanto ha anticipato le elezioni per evitare che l’opinione pubblica continui a scivolare verso chi promette il nuovo. Abbiamo dunque qualcosa che non si era visto prima, una vera lotta politica testa a testa tra due partiti, e una lotta, per di più, che i dati attuali sulle intenzioni di voto indicano come molto aperta. E la posta in gioco è questa: deve cambiare, il Giappone, o deve restare sostanzialmente ciò che è stato in tutti questi anni? Dobbiamo conservare il vecchio o scegliere il nuovo?
E’ un interrogativo che serpeggia anche in altre democrazie, per esempio in Europa dove le opinioni pubbliche si chiedono come restare al passo con i tempi ma dove lo spettro della recessione sembra piuttosto favorire chi conserva rispetto a chi innova. Quel che è sicuro è che non c’è posto al mondo dove il vecchio è più vecchio e il nuovo più nuovo che in Giappone.
da lastampa.it
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« Risposta #16 inserito:: Agosto 27, 2009, 04:16:21 pm » |
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27/8/2009 - ADDIO A TED. LA MORTE DEL PATRIARCA
Ted il principe del compromesso Ha scritto oltre 300 leggi. Il suo motto: mai rinunciare al buono per cercare il perfetto
BORIS BIANCHERI
Una carriera politica, quella di Ted Kennedy, che sfugge alle definizioni: fu allo stesso tempo gloriosa e tormentata, dominata da un senso di servizio allo Stato rigoroso e coerente, e tuttavia legata fin dall’origine alla straordinaria vicenda della famiglia e sua personale. Quando cominciò, l’apparizione sulla scena politica di un terzo Kennedy, accanto a un fratello Presidente degli Stati Uniti e a un altro Ministro della Giustizia, parve a molti - e forse anche un poco ai suoi fratelli - eccessiva. «Non credete che Ted sia un Kennedy di troppo?» Fu il commento del suo rivale McCormack nelle elezioni al seggio senatoriale del Massachusetts lasciato vacante dall’elezione del Presidente John Kennedy.
Ma Ted non si lasciò scomporre e la sua prima campagna elettorale, svolta casa per casa e strada per strada in leggera polemica con gli ambienti più sofisticati e intellettuali del partito, fu rapida ed efficace. Eletto senatore nel seggio del fratello nel novembre del 1962, mantenne quel seggio ininterrottamente per sette mandati sino alle ultime elezioni del 2006. Fu così non solo uno dei più longevi ma anche uno dei più influenti e autorevoli legislatori americani; una leggenda, in un certo senso, per ciò che durante mezzo secolo di vita politica egli fece e non solo per il nome che portava.
Dopo la duplice tragedia dell’assassinio di John e di quello, seguito a breve distanza, di Bob che sembrava a tutti esserne ormai l’erede, era inevitabile che Ted ritenesse di essere anch’egli investito dal soffio della gloria e si lasciasse tentare dall’avventura presidenziale. L’occasione parve presentarsi con le elezioni del 1980: dopo quattro anni di presidenza Carter il Partito Democratico appariva avviato su una strada di quieta e decorosa routine, ma il consenso popolare pareva sgretolarsi. Il temperamento e il nome dei Kennedy potevano iniettare nuova linfa nel corpo di un partito che molti ritenevano languente. Fu una decisione poco saggia. Scendere in campo nelle primarie contro un presidente del proprio partito che può essere rieletto è un’operazione sempre difficile che ha un vago odore di slealtà.
Su Ted pesava inoltre, nonostante fossero passati più di dieci anni, gli strascichi morali dell’incidente d’auto di Chappaquiddick e di un comportamento che se non fu scorretto fu da molti giudicato leggero. Il 1979, poi, era stato un anno internazionalmente difficile, la crisi degli ostaggi in Iran, l’invasione sovietica dell’Afghanistan inducevano molti democratici a diffidare di un cambio della guardia al vertice del paese. Ted fu sconfitto alle primarie, ma questo non portò fortuna a Carter che fu sconfitto anch’egli alle presidenziali e a tutti i democratici che dovettero attendere Clinton per tornare alla Casa Bianca.
La sconfitta fu però salutare per la carriera politica di Ted. Avendo capito di non avere il temperamento del vincitore, trovò la sua vera vocazione: che è stata quella non di vincere ma di mediare, non di imporsi ma di persuadere e di convincere.
La sua attività in questi cinquant’anni, malgrado vicende personali sempre intricate e complesse, è stata colossale. Più di cinquecento disegni di legge hanno portato il suo nome e più di trecento sono in effetti diventati legge. Una parte consistente della sua azione legislativa è stata dedicata al tema della Salute e della Previdenza anche perché fu per lungo tempo Presidente della Commissione del Senato responsabile, appunto, di questa materia.
Ma altre leggi su temi anch’essi di grande attualità in America e altrove proprio in questi giorni, come le leggi sull’Immigrazione, portano il suo nome. Basta scorrere un elenco: Legge sulla nazionalità e l’immigrazione, Legge sulla salute mentale, Legge sulla condizione dei disabili, Legge sulle assicurazioni statali per la salute dei bambini, e così via dicendo. Ma ciò che sorprende è che una buona parte di questa attività sia stata portata avanti in collaborazione con i repubblicani, sia quando essi erano all’opposizione sia quando essi avevano la maggioranza. Con Bush, ad esempio Ted Kennedy ha avuto, anche sul piano personale, rapporti di stima e di rispetto, come ne aveva avuti e ne ebbe in seguito con altri eminenti repubblicani. Svolse anche delicate missioni internazionali, ad esempio in Unione Sovietica al tempo di Gorbaciov e in funzione della distensione. Ciò non significa che Ted Kennedy sia stato uomo di tutte le stagioni: significa che, come egli soleva dire, non si deve rinunciare al buono per cercare il perfetto.
da lastampa.it
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« Risposta #17 inserito:: Agosto 31, 2009, 11:15:59 am » |
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31/8/2009
Il Giappone cambia dopo 50 anni BORIS BIANCHERI
Gli incalzanti sondaggi pubblicati nelle ultime settimane dai grandi giornali di opinione dicevano dunque il vero; le previsioni degli osservatori politici rispondevano dunque alla realtà.
Ieri, ancor prima che cominciasse lo spoglio delle schede, i quotidiani giapponesi avevano pubblicato delle fotografie significative dei due leader rivali: quella di Taro Aso, il primo ministro liberaldemocratico uscente, con le labbra serrate e il viso aggrondato; quella di Yukio Hatoyama, il leader democratico, con un largo sorriso sul viso rassicurante e ottimista. Per la prima volta in più di cinquant’anni - con l’insignificante parentesi di un esperimento di coalizione durato pochi mesi - il Partito liberaldemocratico, che ha segnato la trasformazione del Giappone postbellico e la creazione di una potenza economica seconda solo a quella americana, esce di scena e l’opposizione storica prende il potere. Il margine della vittoria le assicura piena capacità di governare.
E’ naturale, di fronte a un capovolgimento politico di questa ampiezza, ricercarne le cause nella crisi economica e finanziaria che ha sconvolto il mondo da un anno a questa parte. E non c’è dubbio che la crisi, con le sue ripercussioni sull’economia reale, abbia creato nell’opinione pubblica giapponese, come altrove, un senso di inquietudine e di incertezza che non può non aver influito sulla scelta politica di ieri. Ma la volontà di cambiamento che accompagna la vittoria del Partito democratico del Giappone è più profonda e va più lontano. È vero che le esportazioni giapponesi, soprattutto quelle verso gli Stati Uniti, hanno subito una flessione, ma non in misura veramente drammatica. È vero che il tasso di disoccupazione è cresciuto, nell’arco di un anno, dal 3,8 al 5,4 per cento; tuttavia si tratta anche qui di cifre che non solo sono modeste rispetto a quelle di altri grandi Paesi industrializzati, ma che riguardano settori limitati della popolazione e non sembrano essere da sole la causa di una trasformazione politica radicale come quella che il Giappone si accinge ad attraversare.
Un mondo senz’anima Hatoyama, d’altronde, non ha rimproverato ad Aso e ai suoi predecessori (incluso quel Koizumi che anni fa si era rivelato così innovativo e popolare e che poi si è eclissato da solo) di aver gestito male l’economia: gli ha rimproverato e gli rimprovera di aver instaurato un sistema di gestione del Paese che è lontano dalle aspirazioni e dal modo di pensare dei giapponesi, di aver mantenuto il predominio di una cerchia imprenditoriale e di una burocrazia che opera nel contesto di oggi esattamente come operava venti o trenta anni fa. Ciò ha finito col creare negli elettori il sentimento che non vi sia comunque scelta, che il sistema-Giappone, anche perché ha in sé dinamiche obiettivamente positive, sia immutabile e destinato a restare tale perché incarna in qualche modo l’essenza stessa del Paese. A chi voglia trarre dalla letteratura qualche elemento di giudizio sul bivio di fronte al quale si trova il Giappone odierno, suggerirei di leggere non solo i tanti autori che ci dipingono il Giappone contemporaneo - anche di grande qualità come una Banana Yoshimoto o un Haruki Murakami - ma di ricorrere a un vecchio autore, Osamu Dazai, morto giovane e probabilmente suicida nel lontano 1948. Il suo Non più uomo è la storia di un ragazzo che vede attorno a sé un mondo di regole inviolabili, che nulla hanno a che vedere con le sfide che egli scorge nel futuro, nelle quali non si riconosce, e non sa come ribellarsi. Un mondo sperimentato, perfettamente funzionante e senza anima.
Nulla di rivoluzionario, molta gradualità Questa mi sembra sia stata la spinta che ha portato tanti giapponesi, soprattutto tra i giovani, a una scelta di cambiamento che a noi parrebbe quasi naturale ma che nella storia politica del Giappone ha un carattere epocale. Cosa dobbiamo aspettarci dal Giappone di Hatoyama e quali ripercussioni avremo nelle relazioni internazionali? Il Manifesto programmatico del Partito democratico non ha in sé nulla di rivoluzionario. Vi è un accenno di solidarietà sociale, vi è qualche riserva verso la globalizzazione e il libero mercato portato alle estreme conseguenze, vi si trova frequentemente e con diverse accentuazioni la parola fraternità. Una parola, tuttavia, alla quale sappiamo possono darsi diversi significati. Sul piano delle relazioni esterne si riafferma la solidità del rapporto nippo-americano, ma si mette l’accento sulla necessità di una maggiore integrazione asiatica, anche per ciò che riguarda la creazione di una futura moneta unica. Nel cautissimo linguaggio politico giapponese, queste parole sembrano indicare un’apertura verso nuovi equilibri nel continente, ma senza colpi di scena e con molta gradualità. Quanto al velo di socialdemocrazia di cui il Paese si ammanta, esso sembra leggero e trasparente. Ma lo abbiamo già detto: più dei contenuti che il cambiamento porterà con sé, è il cambiamento stesso che oggi celebriamo.
da lastampa.it
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« Risposta #18 inserito:: Settembre 09, 2009, 11:34:19 am » |
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9/9/2009
Perché la democrazia non sempre è esportabile BORIS BIANCHERI
Comunque si chiuda il conto elettorale, l’Afghanistan è un nuovo tentativo di costruire un paese su basi democratiche rimasto tuttora incompiuto. Che sia Karzai a restare in sella o, inaspettatamente, Abdullah a strappargli la vittoria, né l’uno né l’altro possono tenere il Paese sotto controllo. Continuerà ad essere necessario per un tempo imprecisato la presenza, e probabilmente l’aumento, delle forze della Nato prima che chi sta al governo abbia la possibilità di governare. Dopo sei anni di sforzi, il Paese è ancora da fare.
Dalla fine della Guerra fredda, siamo almeno al quarto tentativo dell’Occidente di rimettere in piedi una nazione che le vicende della storia hanno condotto allo sfacelo. Il primo fu quello della Somalia. Nell’inverno 1991-92 le opinioni pubbliche europee e americane videro con raccapriccio alla televisione un Paese in cui tutto, dall’alimentazione di base all’acqua, dalle strutture sanitarie all’ordine pubblico, era venuto meno dopo la scomparsa del dittatore Siad Barre. Il presidente Bush (padre), a mandato già scaduto, decise nell’interregno l’invio di un contingente militare per ristabilire l’ordine. Alcuni paesi, tra cui l’Italia, gli vennero appresso. Bastarono pochi mesi a Clinton per capire che l’America rischiava di impegolarsi in un’avventura senza uscita e ritirò le forze statunitensi dopo che i telespettatori avevano visto, anziché la rinascita della Somalia, dei marines fatti a pezzi e trascinati cadaveri per le vie di Mogadiscio. A 18 anni da allora, la Somalia è ancora un caos.
L’esperimento di fare ex novo uno stato democratico che la comunità internazionale abbia fatto più seriamente e con apparente successo è stato quello della Bosnia. Gli accordi di Dayton, negoziati con abilità da Richard Holbrooke con i riluttanti leader dei tre gruppi etnici che esistono nel paese, quello serbo, quello croato e quello musulmano, diedero alla futura Confederazione Bosniaca un assetto costituzionale macchinoso ma ordinato e accettato da tutti. L’impegno internazionale in Bosnia è stato, tenuto conto delle dimensioni del Paese e della sua popolazione, colossale. Dopo i massacri e le pulizie etniche che avevano seguito il collasso della ex Jugoslavia, l’intervento esterno riportò la pace. Una pace costata più di dieci anni di sforzi, con la partecipazione di 17 diversi Paesi, 18 Agenzie dell’Onu e 27 Organizzazioni intergovernative e con un costo complessivo di circa 17 miliardi di dollari (300 dollari all’anno per ogni singolo abitante). E tuttavia, se guardiamo allo sforzo compiuto, il risultato è deludente. L’attività del governo della Confederazione è continuamente paralizzata da qualcuna delle tre componenti etniche e l’amalgama delle popolazioni non si è realizzato: i serbi che stanno nella Repubblica Srpska continuano a volersi riunire alla Serbia, i bosniaci croati, per non essere da meno, vogliono riunirsi alla Croazia e i musulmani sono infelici perché non hanno nessuno cui riunirsi. La loro protezione è una delle poche ragioni dell’esistenza di una stato fittizio sulla cui permanenza nel tempo è lecito avere dei dubbi. Le istituzioni democratiche ci sono, una costituzione garantista esiste, ma non esiste una efficace capacità di governo.
L’ultimo esempio è quello dell’Iraq e parla da solo. A sei anni dalla clamorosa vittoria militare e dalla liquidazione della dittatura di Saddam Hussein, il paese è dilaniato dalla rivalità tra sciiti e sunniti, per non parlare delle aspirazioni autonomistiche curde, e ampie porzioni del suo territorio si trovano in condizioni di sicurezza inaccettabili.
In nessuno di questi casi, dunque, l’impegno della comunità internazionale volto alla creazione di istituzioni democratiche sul modello dei Paesi occidentali, ha raggiunto il risultato prefisso né si è tradotto a tutt’oggi in situazioni concrete di stabilità e di ordine. Forse non è azzardato, forse è anzi realistico, trarne qualche amara lezione. Gli strumenti della democrazia, e in primo luogo il parlamento elettivo che ne costituisce l’asse portante, assolvono alla funzione di contemperare, equilibrare e assicurare il naturale avvicendamento tra le componenti politiche e ideologiche che coesistono all’interno di una stessa società. Quando il loro rapporto si modifica, l’esercizio della democrazia assicura che ciò si rifletta nell’esecutivo che dirige il Paese. Ma le istituzioni democratiche non esercitano la stessa funzione quando le divisioni che esistono all’interno di una società nazionale hanno natura etnica, o tribale, o religiosa. Perché queste ultime, al contrario degli orientamenti politico-ideologici che si modificano nel tempo, sono rigide e immutabili e l’equilibrio tra loro non si modifica se non con la forza o in tempi molto lunghi. Un tagiko non diventa pashtun a un certo momento della sua vita, un sunnita non passa al campo sciita, un bosniaco serbo non diventa croato anche se l’ultimo dirigente croato si è dimostrato abile ed efficiente.
L’idea che l’avvento della democrazia sia sufficiente a creare condizioni di convivenza civile in Paesi dove sussistono forti conflittualità di carattere etnico o religioso, come invece accade là dove i contrasti sono di ordine politico o ideologico, è probabilmente illusoria. Occorre esserne consapevoli e pensare forse anche, in futuro, a nuovi e diversi strumenti di conciliazione e compromesso.
da lastampa.it
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« Risposta #19 inserito:: Settembre 19, 2009, 10:37:59 am » |
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19/9/2009
Impossibile andarsene da soli BORIS BIANCHERI
Era inevitabile che l’attentato di Kabul, con la morte di sei e il ferimento di quattro valorosi militari italiani cui va l’omaggio e la riconoscenza di tutto il paese, suscitasse interrogativi e inquietudini nell’opinione pubblica italiana. È accaduto in Germania dopo le perdite subite nel contingente tedesco, era accaduto in Spagna, è accaduto in misura ancora maggiore in Gran Bretagna dove si è prodotto per qualche tempo un vero movimento popolare per il rimpatrio dei soldati. Che analoghi sentimenti siano nati anche da noi al primo annuncio della tragedia, anche in personalità con importanti responsabilità politiche, non mi scandalizza se è stata solo l’espressione passeggera di paterni sentimenti popolari.
Ragionando a mente fredda, credo però che ogni persona di buon senso e in buona fede converrà che nessuna decisione unilaterale circa la nostra presenza in Afghanistan può essere assunta dal governo italiano e tanto meno da questo governo in questo momento. Senza dubbio, la situazione in Afghanistan è grave e va deteriorandosi ancor più. L’attentato di giovedì non ha avuto luogo in qualche remota parte del paese ma nel suo centro.
A poca distanza dalla capitale, su un’arteria importante e di grande traffico. Il controllo del territorio è oggi ancora più precario di quanto lo fosse un anno fa. Le recenti elezioni lasciano poi una eredità di grande incertezza circa la possibilità che il vincitore, quale che sia l’esito finale degli accertamenti ancora in corso, abbia capacità effettive e realistiche di governare il suo paese. Una volta di più dobbiamo constatare come l’assunto che il mondo occidentale ha dato sempre per scontato, secondo cui l’instaurazione di un sistema democratico è in grado di assorbire conflittualità etniche, tribali e religiose così come assorbe quelle politiche nei nostri paesi, non ha finora avuto alcun riscontro nella realtà.
Una riconsiderazione delle finalità della presenza della Nato in Afghanistan e di quali prospettive di successo presenti la strada finora intrapresa, quindi, si impone. Può anche darsi che tale valutazione approfondita della situazione giunga un giorno alla conclusione che non vi è alternativa alla definizione di una strategia d’uscita meno gravosa possibile. Sarebbe certo una catastrofe per la Nato e per lo stesso Afghanistan, nonché un successo per il radicalismo islamico e l’oltranzismo anti-occidentale nel mondo. Altre prove dovremmo attraversare, altre sconfitte subire prima di giungere a questo. Ma è comunque impensabile che sia l’Italia per prima a dare simili segnali.
Il problema afghano riassume in sé alcuni punti centrali della nostra politica estera di questi ultimi tempi, sui quali maggioranze e opposizioni non hanno finora mai veramente dissentito. Uno è quello del nostro impegno nelle missioni internazionali umanitarie e di pace (e non vi è dubbio che l’Afghanistan sia una di queste), che ha fatto sì che il nostro paese sia, in questo campo, tra i massimi contributori al mondo. L’altro è costituito dalla lotta al terrorismo, che abbiamo forse dimenticato perché essa viene condotta ora più in Pakistan che in Afghanistan, ma che subirebbe un colpo grave da un abbandono affrettato della partita. Un altro è quello della lealtà alla Nato e dai rapporti con gli Stati Uniti d’America.
Obama ha fatto come ben sappiamo dell’Afghanistan un elemento centrale della sua politica internazionale: l’atteggiamento costruttivo e conciliante in altri settori critici, dalla Russia all’Iran, ha il suo contrappeso di forza e credibilità nella posizione che lui ha assunto in Afghanistan con la riaffermazione dell’impegno americano e con l’aumento delle forze militari. Proporre ora che l’Italia torni a casa, o è un’affermazione emotiva fatta per strappare qualche lacrima o è uno schiaffo pubblico a Obama e alla sua linea politica. Per di più, mettendo a rischio i buoni rapporti che Berlusconi ha sempre avuto cura di tenere con Washington e di cui mai come ora ha bisogno, sarebbe il suicidio politico del suo stesso governo.
da lastampa.it
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« Risposta #20 inserito:: Ottobre 02, 2009, 05:51:39 pm » |
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24/9/2009
Difficile cambiare il mondo BORIS BIANCHERI
Obama ha due agende da tenere in piedi: una è quella degli impegni presi con i suoi elettori, l’altra è quella degli impegni presi con il mondo. Queste convulse giornate newyorkesi sono la prima occasione per lui di immergersi nel turbinoso clima dell’Onu.
L’assemblea generale gli offre la possibilità di affrontare questi ultimi anche se non ha dimenticato di tenere conto dei primi. Al mondo Obama ha sempre presentato, durante e dopo la sua campagna presidenziale, una promessa di distensione e di pace, di passi avanti per realizzare un pianeta più equilibrato e felice in collaborazione e non in contrasto con gli altri protagonisti della vita internazionale. Ma i progressi che ha potuto presentare sino a questo momento, dopo nove mesi dalla sua ascesa al potere, non sono ancora esaltanti: l’Afghanistan è un problema drammatico e complesso (la democrazia non si può imporre, ha detto infatti ieri) sul quale non vi è una strategia universalmente accettata, un problema che comunque non si risolverà in tempi brevi e che forse esigerà altri nuovi sacrifici; l’incontro a tre sul conflitto israelo-palestinese con Netanyahu e Mahmud Abbas dischiude la prospettiva di una ripresa del dialogo ma nulla più di questo; l’Iran non lascia prevedere facili sviluppi; la Corea cavalca imperterrita il suo programma nucleare. Solo con la Russia il clima è migliorato, grazie però alla rinuncia dell’America a uno scudo spaziale che, se è piaciuta a Mosca, ha lasciato molto tiepidi altri, in particolare Varsavia.
La conferenza sul clima convocata dal Segretario Generale Ban Ki-moon in concomitanza con questa sessione assembleare aveva permesso di dire al Presidente qualcosa che appartiene sia alla sua agenda internazionale che a quella interna: la maggioranza degli americani giudica questo un problema importante per sé e per i propri figli, ma non sembra nutrire la preoccupazione ansiosa con cui vi guardano molti europei. Obama ha fatto alla Conferenza sul clima un discorso forte, ha parlato di catastrofe possibile e ha invitato tutti, gli americani per primi, a dare il loro contributo. Ha profilato una posizione americana ben diversa dalla lunga disattenzione di Bush a questo argomento, ma non si è impegnato chiaramente su obiettivi concreti, rinviando soprattutto a scadenze future, soprattutto a quella cruciale di Copenaghen di fine anno: ha tenuto conto così dell’atmosfera difficile che circonda questo tema quando lo si affronta nel Congresso. Gli ha tenuto eco, d’altronde, il premier cinese Hu, sinora cautissimo, come ben sappiamo, sulla questione, che ha promesso una riduzione non indifferente del CO2 senza suffragarla da cifre impegnative.
Con questo scenario alle spalle, si sarebbe potuto pensare che Obama avrebbe colto l’occasione offertagli dalla tribuna del Palazzo di Vetro e dalla presenza a New York di 120 leader di tutto il mondo per valorizzare nel suo primo discorso all’Onu ciò che la diplomazia americana ha fatto da quando egli è al potere e precisarne alcuni obiettivi futuri. Si era anche prospettata la possibilità che fosse il momento per lui di accennare a qualche grande progetto di più ambiziosa e lontana scadenza, come quello di un disarmo nucleare generalizzato, che trova echi in tante parti del mondo e rafforzerebbe la sua mano nel trattare, come dovrà fare, le questioni iraniana e coreana.
Questo non è avvenuto. Obama ha tenuto un discorso perfettamente «obamiano»: elegante, articolato, coraggioso e onesto, fondato più sulle intenzioni che su obiettivi concreti, più su come si deve essere che su cosa in concreto si deve fare. Ha riconosciuto errori del passato e situazioni non accettabili, come l’uso della tortura e Guantanamo, alle quali ha posto rimedio. Ha ammesso che le azioni dell’America non sono sempre state all’altezza delle intenzioni e la sua affermazione che la democrazia non può essere importata da fuori è chiaramente polemica verso il suo predecessore. Siamo solo all’inizio del nostro lavoro, ha detto Obama, facendo comprendere che gli Stati Uniti non possono né vogliono cambiare il pianeta da soli. E’ questo un compito al quale tutti i popoli devono partecipare secondo la loro cultura. Cambiare il mondo è possibile, ma non è facile farlo.
Parole assennate. Se Obama avesse ascoltato il discorso pronunciato subito dopo di lui da Gheddafi, che ha accusato il Consiglio di Sicurezza dell’Onu di non gestire la sicurezza ma il terrore e l’Onu stessa di aver tollerato 65 guerre da quando fu creata, avrebbe pensato che cambiare il mondo è anche più difficile di quanto lui stesso non avesse appena detto.
da lastampa.it
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« Risposta #21 inserito:: Ottobre 06, 2009, 11:00:08 am » |
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6/10/2009
Svizzera, il tempo dell'inquietudine BORIS BIANCHERI
Quando si pensa alla Svizzera si pensa istintivamente a situazioni di pace, di sicurezza e di neutralità. Quasi tutte le maggiori città, da Losanna a Locarno e a Zurigo, per non parlare di Ginevra, hanno ospitato nel corso del tempo degli incontri che hanno messo fine alle guerre e ai conflitti di altre nazioni. Quando, dopo i massacri della prima guerra mondiale, i vincitori pensarono a una grande intesa internazionale che prevenisse nuovi disastri riunendo tutti gli Stati del mondo in una sola organizzazione e crearono così la Società delle Nazioni, parve naturale, anzi inevitabile, che la sede venisse posta in Svizzera. E ancora oggi, malgrado la seconda grande guerra del secolo abbia affermato la supremazia americana e l’Onu abbia preso piede a New York, è sempre Ginevra che ospita il maggior numero di organizzazioni internazionali. Per non parlare delle istituzioni umanitarie, prima tra tutte la Croce Rossa, nata in Svizzera per l’intuizione di uno svizzero, che vi conserva il suo quartier generale.
Tutto questo è accaduto perché, nella storia della Svizzera moderna, la vocazione alla neutralità è stata accompagnata da una rigorosa difesa della peculiarità e dell’indipendenza della Confederazione. Nei duri anni delle dittature del XX secolo, trovarono rifugio in Svizzera più di 150.000 esiliati, tedeschi, italiani, russi, ebrei, cristiani e oppositori di ogni tipo di regime. La diplomazia confederale riuscì con straordinaria abilità a resistere alle pressioni dei paesi vicini, dai quali pure non poteva isolarsi per evidenti necessità di approvvigionamento e di trasporti, e nessuno venne espatriato. Fu una specie di miracolo, che oggi tendiamo a dimenticare ma che ha contribuito a consolidare l’identità stessa della nazione elvetica.
Quello che le tempeste del secolo dei nazionalismi non fecero, rischia invece di avvenire nel mondo globalizzato di oggi. Questo, almeno, è ciò che teme una parte dell’opinione pubblica svizzera, quella più attenta alle vicende internazionali e più sensibile a una tradizione di inflessibile autonomia che, se da un lato ha permesso alla Confederazione di far dialogare tutti e di dialogare con tutti, non ha mai permesso a nessuno di interferire nelle sue scelte politiche, nel suo ordine interno e nella sua legislazione. Il timore è che, oggi, alcune decisioni importanti dell’esecutivo e dell’amministrazione che toccano i principi stessi della libertà e della sfera privata dell’individuo vengano assunte non già perché questo corrisponde alla volontà del popolo svizzero o di chi legittimamente lo rappresenta, ma per effetto di spinte, pressioni o minacce che giungono dall’esterno.
Il pensiero va subito, evidentemente, alla questione, di grande attualità in Italia in questi giorni, dei capitali depositati da privati e imprese straniere nelle banche svizzere, che hanno una storia di affidabilità e riservatezza, e del connesso problema dell’evasione fiscale. È da anni che istituzioni economiche come l’Ocse e singoli paesi esercitano pressioni sulla Svizzera su questo delicato argomento. E va detto che, gradualmente e con misura, alcuni passi avanti la Svizzera li ha fatti, sia assoggettando i redditi di quei capitali a un certo grado di fiscalità, sia ampliando la collaborazione con le autorità finanziarie straniere nelle ricerche sulla loro origine e sulla loro natura. Ma recentemente ha impressionato tutti il caso dell’Ubs, la maggiore banca svizzera, che ha una vasta rete di partecipazioni e interessi negli Stati Uniti, la quale, dietro insistenza americana, ha modificato i suoi contratti bancari e che addirittura, a seguito di un negoziato tra i due governi i cui termini sono rimasti segreti, ha comunicato i nomi di 4.500 supposti evasori fiscali tra i suoi clienti.
C’è stato poi il caso - di tutt’altra natura ma ancor più clamoroso - dello scontro con la Libia che ha fatto seguito all’arresto di un figlio di Gheddafi, avvenuto più di un anno fa in un albergo di lusso di Ginevra per supposti maltrattamenti nei confronti di personale dipendente da quest’ultimo. Il fatto ha provocato una durissima reazione del leader libico, sia sul piano economico-finanziario, sia sul piano umano, con il sequestro di fatto di due ingegneri svizzeri che si trovavano in quel momento in Libia. Vi è stato tra i due Paesi un lungo e umiliante negoziato, durante il quale lo stesso presidente della Confederazione elvetica, Merz, si è dovuto recare a Tripoli per chiedere scusa e per vedere poi liberati i suoi connazionali.
Nessuno contesta, né in Svizzera né altrove, che la Confederazione costituisca tuttora un modello esemplare e invidiabile di convivenza civile libera e ordinata. Ma simili cedimenti del governo a pressioni esterne, quale che ne sia il fondamento, vengono visti come il segno di una decadenza che rischia di trasformare la stessa natura del Paese. C’è ora il recentissimo caso dell’arresto di Roman Polanski, a proposito del quale pressioni dalla Francia e dalla Polonia si sono già fatte sentire. Un caso controverso, sul quale gli svizzeri sembrano attestarsi su posizioni strettamente giuridiche e sul quale è prematuro fare previsioni. Ma pare essere venuto apposta ad alimentare le inquietudini.
da lastampa.it
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« Risposta #22 inserito:: Ottobre 28, 2009, 05:03:53 pm » |
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28/10/2009
La globalizzazione dei kamikaze BORIS BIANCHERI
Tra le conseguenze più sorprendenti di ciò che noi comunemente chiamiamo globalizzazione - vale a dire la diffusione in ogni parte del mondo di fenomeni e attività che un tempo avevano un carattere raro e singolare - vi è la banalizzazione del suicidio. Non mi riferisco alla allarmante serie di suicidi tra i dipendenti di Telecom France sulla quale i media internazionali si sono recentemente soffermati, e neppure all’alta percentuale di suicidi che abbiamo visto verificarsi nella Francia intera e che sembra essere all’incirca doppia di quella che si registra in Italia o in Inghilterra e superiore del 40% a quella di Germania e Stati Uniti. Entrambe hanno apparentemente origine in circostanze specifiche, anche se tutt’altro che facili da identificare: Telecom France non è certo la sola grande impresa che passa attraverso fasi di ristrutturazione e privatizzazione parziale né la Francia sembra oggi trasformarsi in modo diverso da come cambiano i suoi vicini.
Parlando di banalizzazione del suicidio, non mi riferisco all’atto di chi si toglie la vita in uno stato d’animo di carattere depressivo, ma a un tipo dilagante di suicidio di carattere, per così dire, affermativo.
Nelle aule scolastiche frequentate da un italiano della mia generazione alcuni decenni fa, l’episodio simbolico dell’eroismo, del sacrificio e del senso del dovere verso la propria patria era quello di Pietro Micca, il minatore piemontese che durante l’assedio di Torino da parte dei francesi nel 1706, per impedire l’irruzione dei soldati nemici nei corridoi sotterranei che davano accesso alla cittadella, fece saltare in aria se stesso assieme a un’enorme quantità di esplosivo. A Pietro Micca è stato dedicato un museo, vari monumenti e decine e decine di strade in tutta Italia. E tuttavia è probabile che ad un giovane di oggi quel nome riesca meno familiare di quanto non lo era un tempo.
Il gesto di togliersi la vita deliberatamente e consapevolmente in nome di un ideale superiore di natura patriottica, come fu il caso di Micca, o umanitaria, o religiosa, dovrebbe essere per definizione un fatto di natura eccezionale. Infatti non ha né in italiano né in altra lingua indo-europea un proprio nome. All’autore di un simile gesto diamo adesso l’appellativo di «kamikaze», prendendolo da quei piloti giapponesi che si scagliavano con i loro velivoli carichi di esplosivo sulle navi da guerra statunitensi. Nella tradizione giapponese esiste effettivamente il suicidio come monito o insegnamento. Tra i più spettacolari e famosi vi fu in tempi moderni il suicidio dello scrittore Mishima che, per protesta verso un’età e un Paese senza gloria, si diede pubblicamente la morte sul balcone di un edificio statale davanti a una folla radunata per l’occasione.
Ma oggi vi sono kamikaze ovunque e per i più diversi motivi: dagli attentatori delle torri gemelle ai giovani palestinesi, dai sunniti dell’Iraq ai taleban dell’Afghanistan o del Pakistan, dai curdi della Turchia ai ceceni della Russia o ad altri infiniti eroi del nulla. Migliaia e migliaia di Pietro Micca che si fanno saltare assieme a quintali di esplosivo per far sì che dei francesi immaginari non accedano a qualche immaginaria cittadella.
Credo che il limite estremo della banalizzazione del suicidio sia stato raggiunto con l’attentato compiuto giorni fa nel Belucistan e con le polemiche che vi hanno fatto seguito. Sulla finalità di questo nuovo episodio di morte vi sono, come sappiamo, interpretazioni diverse. Vi è chi lo mette a carico dell’oppressione che l’Iran eserciterebbe da tempo sulle popolazioni del Belucistan e sullo scoppio improvviso di un clamoroso atto di protesta; vi è chi vede in esso una fase del confronto politico in atto in Iran dopo le ultime elezioni parlamentari, dando così per scontato che un attentato suicida sia oggi una forma corrente di lotta politica. Ancor più sconcertante è la versione che ne danno le autorità iraniane, secondo cui l’attentato è il prodotto dell’azione dei servizi segreti americani (o forse pachistani su suggerimento americano) nel braccio di ferro che oppone l’Iran all’Occidente. L’attentatore sarebbe stato in questo caso reclutato per l’occasione, esattamente come si acquista un prodotto di cui si ha bisogno su un mercato di potenziali suicidi. Gli attentati terroristici e l’immenso fiume di sangue che essi generano sono la via che la modernità ha scelto per proseguire le guerre del passato ed esprimere il proprio bisogno di violenza. L’apparente facilità con cui si reclutano gli attentatori suicidi ne è l’aspetto più inspiegabile e più inquietante.
da lastampa.it
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« Risposta #23 inserito:: Novembre 05, 2009, 10:12:39 am » |
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5/11/2009
L'America è più lontana BORIS BIANCHERI
Che il Dipartimento di Stato esprima «disappunto» in ordine a una sentenza resa da un giudice italiano, è un fatto tutt'altro che banale. Nel linguaggio delle cancellerie, quello che un portavoce governativo usa in una dichiarazione che si riferisce a uno Stato straniero, il termine disappunto denota a dir poco una notevole irritazione.
E francamente, l’intera vicenda giudiziaria seguita al rapimento di Abu Omar e, soprattutto, la circostanza che gli imputati americani abbiano subito condanne rilevanti (fino ad otto anni di reclusione per Robert Seldon Lady, l’imputato maggiore ed ex capo della Cia di Milano) mentre i principali imputati italiani ne escono indenni grazie alla segretazione imposta dal governo italiano, è difficile da spiegare all’opinione pubblica americana. La sentenza pronunciata dal giudice italiano sarà perfettamente corretta ma a un americano appare tendenziosa, se non inverosimile. I commenti subito apparsi nei media d'Oltreoceano lo dimostrano d’altronde ampiamente.
Di questa prevedibile reazione dell’opinione pubblica il Dipartimento di Stato si fa dunque interprete. Ma va detto che l’irritazione di Washington ha origini più lontane e più profonde. Il sistema cosiddetto della «rendition», cioè la pratica di prelevare dovunque esse si trovino persone gravemente indiziate di essere in via di preparare atti terroristici e proteggere così la popolazione civile, è nata ed è stata teorizzata sotto l’amministrazione Bush nei momenti più drammatici della lotta al terrorismo. La reazione italiana a questa pratica è stata nel passato, come ben sappiamo, ambigua: di comprensione da parte degli organi preposti alla sicurezza, di rigetto da parte della maggioranza della classe politica e anche di buona parte dell’opinione pubblica e di silenzioso ma non esplicito assenso da parte del governo. La sentenza di Milano sancisce che, per l’ordinamento italiano, tale pratica è inammissibile, che era illegittima nel passato e che tale resterà nel futuro. Se tra gli organi preposti alla sicurezza dei due Paesi vi furono a suo tempo delle intese dirette a rendere possibile il sequestro di Abu Omar, esse - deducono gli americani - furono prese irresponsabilmente e senza avere la possibilità di garantire il segreto e l’incolumità di coloro che si trovarono a dover operare. Il fatto che solo gli agenti della Cia siano condannati aggrava le cose, ma al fondo della questione c’è la mancanza di volontà italiana di collaborare in un aspetto importante della lotta al terrorismo o quanto meno l’incapacità di attuare tale collaborazione.
Può darsi, anzi è probabile, che le conseguenze che ne trarrà l’amministrazione Obama sul piano politico e dei rapporti tra i due Paesi saranno meno severe di quelle che avrebbe tratto Bush. Ma resta un elemento di distanza tra le due parti. Il fatto che tre imputati americani siano poi stati assolti grazie all’immunità diplomatica, per quanto ineccepibile poiché l’immunità risale a una formale convenzione internazionale di cui Italia e Stati Uniti sono parti, aggiunge un elemento di irrealtà all’intera vicenda. E’ più importante proteggere un diplomatico - si chiede l’uomo della strada - che chi opera per la sicurezza comune?
C’è un aspetto rassicurante: nessuno dei 23 americani condannati si trova in Italia e certo si guarderà bene dal farvi ritorno. Vi sarebbe da sorprendersi, ma di sorprese ce ne sono già state parecchie, se dall’Italia si avviasse la procedura per chiederne l’estradizione.
da lastampa.it
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« Risposta #24 inserito:: Novembre 11, 2009, 10:18:15 am » |
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11/11/2009
Obama, primo presidente a Hiroshima BORIS BIANCHERI
Ci siamo chiesti qualche volta, in questi ultimi tempi, fino a che punto talune linee strategiche di politica interna e internazionale che Obama ha annunciato durante la sua campagna elettorale e nei primi mesi della sua presidenza trovino poi riscontro puntuale nell’azione. E, a dire il vero, continuiamo e continueremo per qualche tempo, a chiedercelo. Ma su un punto non abbiamo dubbi: che Obama sia il più abile ed efficace comunicatore che mai abbia varcato la porta della Casa Bianca dopo Kennedy e forse anche prima di lui.
Lo prova la dichiarazione fatta quasi casualmente nel corso di una trasmissione televisiva di ieri, alla vigilia del viaggio più importante che Obama abbia messo in programma finora e che lo porterà nei prossimi giorni in Giappone, in Cina, a Singapore e in Corea del Sud. Anche se la ristrettezza del tempo non gli consentirà di farlo subito - ha detto infatti Obama - si propone di includere Hiroshima e Nagasaki nel corso di una futura visita in Giappone che compirà prima che abbia termine il suo mandato.
E’ cosa frequente che un’alta personalità straniera che si trova in Giappone nel corso di una visita ufficiale, un Capo di Stato in particolare, si rechi a Hiroshima a rendere omaggio alle 150.000 vittime della bomba atomica sganciata su quella città da un aereo americano il 6 agosto 1945, a porre una corona di fiori sul monumento alla pace e a percorrere le sale del commovente museo creato affinché non si perda, anche visivamente, la memoria di quella terribile tragedia. Lo fece anche Sandro Pertini quando si recò in Giappone nel 1982 nella prima visita di un Presidente della Repubblica italiano all’imperatore Hiro Hito; e lo ricorda bene chi scrive, perché fu lui ad accompagnarcelo. Ma nessun Presidente degli Stati Uniti, di tutti quelli che sono stati in Giappone dalla fine dell’ultima guerra a oggi, lo ha mai fatto.
Nella cultura contemporanea Hiroshima (con la meno ricordata Nagasaki dove la seconda atomica americana fece 75.000 vittime tre giorni dopo) costituisce di per sé il simbolo dell’orrore, del rifiuto della guerra, dell’invito alla pace e alla fraternità tra i popoli. Sono stati scritti su Hiroshima centinaia di libri, dal «Notes» del Premio Nobel Kenzaburo Oe a «Hiroshima mon amour» di Marguerite Duras, per citarne solo due famosi; sono stati realizzati infiniti film, documentari e opere teatrali, esistono intere raccolte di poesie dedicate a questo tema e le memorie dei sopravvissuti sono state tradotte ovunque. In qualche modo abbiamo sottratto Hiroshima al contesto della storia per collocarla in quello degli eventi planetari e dei sommi valori ai quali l’umanità deve attenersi.
Ma non è stato così per tutti, e in particolare non è così per tutti gli americani. Più del 60 per cento di loro, ha detto non molto tempo fa un autorevole sondaggio, ritiene che il lancio delle atomiche di Hiroshima e Nagasaki sia stato in certa misura giustificato; che, terminando istantaneamente la guerra, esso abbia risparmiato la vita di decine di migliaia di soldati americani; che, invece, l’attacco giapponese a Pearl Harbor del 1941, avvenuto senza dichiarazione di guerra, abbia dato luogo a un conflitto asiatico che ha creato infinitamente più vittime di quelle delle due città giapponesi. E, per venire a giorni più recenti, non è stato forse anche l’orrore suscitato da quelle due bombe a garantire, assieme all’armamento nucleare americano, la libertà durante mezzo secolo di Guerra Fredda?
Ecco perché i Presidenti degli Stati Uniti, che pure hanno tante volte visitato il Giappone da allora, non sono mai andati a Hiroshima a compiere un gesto che significherebbe anche rammarico e pentimento. Obama dice dunque di voler cambiare una prassi che ha carattere e motivazioni precisi e che la sua opinione pubblica ha mostrato finora di capire. E’, questo, un gesto che gli si addice. E’ un gesto che oltretutto appare quasi doveroso per chi ha ricevuto il Premio Nobel per la Pace. Prima che i pacifisti e i benpensanti di tutto il mondo gli rimproverino di dimenticare Hiroshima, Obama dice che stavolta non ha tempo ma che la ricorderà appena possibile. L’annuncio non dispiacerà ai governi degli altri paesi asiatici che egli si accinge a visitare e che della guerra giapponese ebbero allora a soffrire duramente. Né dispiacerà ai giapponesi stessi, con i quali, tra l’altro, Obama dovrà negoziare lo spinoso problema della permanenza della base americana a Okinawa. Quanto all’opinione pubblica del suo Paese, ai conservatori, ai militari e ai militaristi del suo Paese, Obama pensa che sia meglio procedere un passo alla volta. O meglio, una parola alla volta.
da lastampa.it
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« Risposta #25 inserito:: Novembre 17, 2009, 10:45:43 am » |
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17/11/2009
Europa-Turchia, la crisi dell'eterno fidanzamento BORIS BIANCHERI
Sono passati esattamente 22 anni da quando la Turchia ha presentato la prima domanda per entrare in Europa. A quel tempo non si chiamava ancora Unione Europea ma, più modestamente, Comunità Economica: ma era, comunque, l'Europa. Milioni di bambini turchi hanno avuto tempo di nascere e crescere, di andare a scuola e all'università e di entrare nel mondo del lavoro avendo davanti agli occhi la prospettiva che la domanda di adesione del loro Paese sarebbe stata accolta e sarebbero diventati anch'essi cittadini europei.
L'Europa, per parte sua, non ha mai detto di no. Come quelle dame che, senza accettarli apertamente, non respingono i corteggiamenti di un esotico giovanotto, l'Europa ha solo fatto capire che la strada sarebbe stata lunga. Bruxelles ha infatti indicato un processo di riforme strutturali necessarie ad adeguare le istituzioni turche ai canoni europei, sia sul piano economico e finanziario sia su quello delle libertà civili. Durante questa lunga attesa, come sempre succede, si sono confrontate visioni politiche e interessi molto diversi. Dapprima furono i greci a frenare, per sentimenti storici di ostilità e per meglio negoziare un contenzioso greco-turco sulle piattaforme continentali nell'intrico geografico dell'Egeo. Poi si è puntato il dito sull'annoso problema della presenza turca a Cipro. Poi, via via che l'Europa occidentale era oggetto di un flusso crescente di immigrati è nata, prima in Germania e poi altrove, la preoccupazione di quello che una estensione della libera circolazione avrebbe potuto significare, data la mole della Turchia, per gli equilibri etnici e linguistici delle rispettive popolazioni. Su tutto ha gravato poi la disposizione costituzionale francese, seppur modificata, che l'ingresso di nuovi membri nell’Unione Europea sia sottoposto a un referendum nazionale.
Sul fronte opposto si è addotta la portata storica dell’inclusione in Europa di una grande democrazia islamica e di una cultura che ha condiviso con l'Europa secoli di storia. La Turchia, si è detto, costituirebbe un ponte tra l'Oriente e l'Occidente, sarebbe l’espressione stessa di una volontà di dialogo e di collaborazione con altre civiltà e con quella islamica in particolare. In questo incrocio di interessi contrapposti, Bruxelles ha recentemente proposto alla Turchia, non già l'adesione ma un rapporto privilegiato con l'Europa, i cui contenuti, però, rimangono abbastanza oscuri.
Tutto lascerebbe dunque pensare a una schermaglia destinata a durare all'infinito, se non si intravedesse qualche segno che i primi a stancarsene potrebbero essere proprio i turchi. La Turchia di oggi è molto più robusta economicamente e socialmente di quella di vent’anni fa. Con la crescita civile si è però anche attenuato lo stampo rigidamente secolare che Atatürk impose quasi un secolo fa al Paese e di cui l'esercito è stato finora il primo garante. Attraverso il voto popolare, la crescita dell'Islam si è ripercossa nella vita politica. Ora vi sono segni che essa possa tradursi anche in inaspettati sviluppi di politica estera. Già a Davos, l'estate scorsa, si ebbe tra il presidente israeliano Peres e il premier turco Erdogan uno scontro plateale che stupì tutti coloro che ricordavano i rapporti eccellenti intercorsi tra i due Paesi negli ultimi decenni. Le congratulazioni di Erdogan all'iraniano Ahmadinejad dopo la sua discutibile elezione di agosto e un suo caloroso recente viaggio a Teheran fanno pensare a una accresciuta attenzione della Turchia ai suoi vicini orientali e forse all’ambizione di assumere una maggiore autonomia di azione nell’intera regione.
Le relazioni che durano troppo a lungo raramente finiscono con delle nozze e quelle che la Turchia sognava un tempo non faranno probabilmente eccezione. Il fatto che Obama non manchi occasione per auspicarle, non basta: forse produce, anzi, l'effetto opposto. Nel mondo multipolare di oggi, popolato di nuovi protagonisti soprattutto a Oriente, la dinamica Turchia di Erdogan e del suo combattivo ministro degli Esteri può permettersi di pensare a delle alternative ad un'Europa che ha dimostrato di aver poca fiducia in lei. E forse anche in se stessa.
da lastampa.it
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« Risposta #26 inserito:: Dicembre 08, 2009, 09:47:43 am » |
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8/12/2009
Amanda, la giustizia e la politica BORIS BIANCHIERI
Sospinto da una campagna mediatica affannosa, il processo di Perugia è arrivato fino ai piani alti dei palazzi del potere. Non accade certo tutti i giorni. Ma non è neppure eccezionale che un governo manifesti interessamento e all’occorrenza anche preoccupazione se un caso giudiziario che si svolge in un altro Paese e coinvolge un proprio cittadino solleva movimenti di opinione o forti reazioni di dissenso nella propria opinione pubblica.
E’ passato solo qualche mese dall’arresto di Roman Polanski da parte delle autorità svizzere, sulla base di un mandato di cattura spiccato dalle autorità americane per un delitto da lui commesso quaranta anni fa. La cosa ha fatto scorrere fiumi di inchiostro e ha dato luogo ad esternazioni di rammarico da parte di taluni membri di governo dettate, appunto, dalle reazioni che si sono avute nel Paese di origine del regista, la Polonia, o negli ambienti intellettuali di quello di residenza, la Francia. E non sono mancati, a quel che si sa, degli interventi da parte americana affinché a tali esternazioni gli svizzeri si guardino bene dal dare seguito.
Casi in qualche modo simili non sono mancati nei rapporti tra l’Italia e gli Stati Uniti negli ultimi decenni. Il caso più celebre di tutti, quello che ha occupato più a lungo le rispettive diplomazie e che venne risolto, per così dire, d’autorità dai due governi, è quello di Silvia Baraldini. Come si ricorderà, l’attivista italiana (così era definita dalla stampa in America) aveva fatto parte negli Anni Settanta negli Stati Uniti di movimenti insurrezionali connessi con i famosi «Black Panthers». Fu condannata nel 1983 da una corte americana a 20 anni di reclusione per concorso nell’evasione di una terrorista che si trovava in prigione, ad altri 20 per appartenenza ad associazione sovversiva e infine ad altri 3 per essersi rifiutata di rispondere alle domande dei giudici durante il dibattito. In tutto 43 anni di carcere.
Innumerevoli passi diplomatici furono compiuti dal nostro ambasciatore presso il ministro della Giustizia a Washington e poi dall’allora ministro italiano Diliberto, affinché la Baraldini fosse oggetto di indulto o di riduzioni di pena e comunque di migliore trattamento nella sua reclusione. La sproporzione tra la gravità della pena inflittale e i reati di cui era colpevole - nessun omicidio era tra questi - avevano sollevato in Italia una forte reazione dell’opinione pubblica e la costituzione di un vero e proprio movimento per la sua liberazione. La soluzione fu trovata attraverso una convenzione, detta «di Strasburgo», che prevede che due governi possono concordare tra loro che a un cittadino condannato dalla Corte di uno dei due Paesi sia consentito di scontare la pena prevista in patria anziché all’estero. Quando tale soluzione venne inizialmente proposta, gli americani rifiutavano adducendo che l’Italia avrebbe prima o poi finito con lasciare la Baraldini in libertà, violando così l’accordo e creando un incidente politico tra due Paesi amici. E tuttavia le pressioni si moltiplicarono, gli americani alla fine cedettero e la Baraldini fu consegnata all’Italia nel 1999, dopo aver trascorso quasi venti anni in varie carceri d’oltre Atlantico.
Il caso Baraldini aveva, per sua natura, carattere politico. Ma anche casi ben diversi, e quello di Amanda Knox non fa eccezione, rischiano di prendere carattere politico quando sui blog, sulla stampa e perfino da autorevoli membri della maggioranza del Congresso si attribuisce una sentenza come quella di Perugia ai sentimenti anti-americani dei giudici o all’intimidazione dei media o, peggio ancora, alle condizioni di sfacelo e di corruzione in cui verserebbe l’intera magistratura del nostro Paese. Nulla di sorprendente, dunque, che, qualora le pressioni dell’opinione pubblica americana persistano, della cosa si possa venire a parlare, in modo più o meno confidenziale, tra i due governi. Tenendo conto dello stato d’animo prevalente negli Stati Uniti, Hillary Clinton si è detta disponibile ad ascoltare chi pensa che nella sentenza di Perugia «vi sia qualcosa che non va»; ha fatto così, seppur con una certa prudenza, un passo in questa direzione.
C’è tuttavia un rischio da non sottovalutare: quando uno stato d’animo che si è prodotto a livello popolare viene implicitamente fatto suo dal proprio governo, spesso le divergenze si accrescono anziché attenuarsi e le posizioni rispettive tendono ad assumere un carattere dichiaratamente nazionalistico. Un fatto di carattere episodico, anche se doloroso, finisce così col lasciare tracce nella memoria storica dell’una e dell’altra parte. Ciò renderebbe in questo caso oltretutto più difficile la necessaria serenità di giudizio quando la sentenza di condanna di Amanda Knox sarà oggetto - e possiamo solo sperare che ciò avvenga al più presto - di riesame in sede di appello.
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« Risposta #27 inserito:: Gennaio 03, 2010, 09:58:33 pm » |
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3/1/2010
L'Europa deve dargli una mano BORIS BIANCHERI
Terminate le cene natalizie, spenti i fuochi d’artificio, ascoltati con rispetto gli appelli alla ragione e alla concordia, ci accingevamo ad affrontare il nuovo anno nella convinzione che la massima priorità nostra e di coloro che ci governano sia ora la ripresa del ciclo produttivo e dell’occupazione, soprattutto quella giovanile. E così, senza dubbio, deve essere.
Ma improvvisamente, come un colpo di vento furioso che d’un tratto si abbatta su chi si accingeva a riprendere di buon mattino il lavoro, siamo stati trasportati nel clima in cui l’America, l’Europa e altre parti del mondo si erano trovate all’inizio della prima decade di questo secolo, quando lo spettro del terrorismo internazionale si era affacciato brutalmente all’orizzonte. Non vi è stato nei giorni scorsi, per un fortuito caso, un disastro aereo di prima grandezza. Ma la sequenza di episodi, diversi nella loro origine e nella loro natura e che portano tutti il segno del terrorismo internazionale, verificatisi tra la fine dell’anno passato e l’inizio di questo, ridanno al tema del terrorismo e della necessità di contrastarlo un carattere di attualità che, con la fine dell’era Bush e con la speranza di un’era Obama di pace e di dialogo, avevamo quasi dimenticato.
In un piccolo villaggio del Pakistan nord-occidentale un attentato suicida provoca l’1 gennaio 95 morti tra gli spettatori di una partita di volley, in gran parte ragazzi; l’attentato, rivendicato dai taleban, è solo l’ultimo di una serie che ha colpito recentemente sia villaggi sia grandi città come Karachi, Peshawar e Rawalpindi. Un giovane nigeriano istruito, che vive agiatamente in Inghilterra ed è affiliato ad Al Qaeda, sale su un aereo ad Amsterdam per farsi saltare con altre trecento persone e manca solo per caso l'obiettivo. Un somalo di 28 anni entra con ascia e coltello nella casa di un vignettista danese che, buon per lui, riesce a sfuggire, e il gesto viene salutato con entusiasmo dai gruppi islamici integralisti somali. Alla lista di paesi che ospitano basi di Al Qaeda e che conoscevamo, come l’Afghanistan e il Pakistan, se ne aggiungono ogni giorno di nuovi, come la Somalia o lo Yemen, dove i governi non esistono o non riescono a controllare tutto il territorio. Altre cellule terroristiche nascono nel Golfo Persico e nell’Asia Sud-orientale. Ci troviamo insomma di fronte a uno scenario geograficamente più vasto, politicamente più aggressivo e a una più capillare infiltrazione del radicalismo nelle popolazioni islamiche del mondo occidentale.
Obama, dopo l’indagine promossa sul caso Delta nei giorni scorsi, ha messo l’accento sulla sicurezza nel suo discorso di Capodanno e ha tenuto ad assicurare gli americani che strutture e forze di sicurezza saranno efficacemente coordinate d’ora in poi. Provvedimenti certo indispensabili, in America come altrove. Ma è ovvio che una applicazione passiva della sicurezza non fa fronte alla minaccia terroristica. Se anche spogliassimo ogni passeggero che sale su un aereo ed esaminassimo con la lente tutto ciò che possiede, chi potrebbe farlo sui treni, sulle metropolitane o sugli autobus, se i terroristi cambiassero i loro obiettivi? La lotta al terrorismo va combattuta sul piano nazionale e con la collaborazione dei servizi informativi. Ma è anche sul piano politico internazionale che occorre cercare una collaborazione, e qui gli sforzi sono stati minori e si sono presto arenati. Facendo un paragone con cose a noi familiari, limitarsi alla sicurezza sarebbe come fare la lotta alla mafia solo con l’azione sacrosanta della polizia e della finanza: sappiamo bene che è solo con un’azione generale, del governo delle regioni, dei comuni e della società civile che si può pensare di vincerla. Sul piano internazionale, finora non si è riusciti neppure a trovare una definizione di terrorismo che sia accettabile a tutti. Per alcuni paesi, infatti, il principio della liberazione nazionale prevale sul principio di divieto di violenza sui civili a fini politici.
Non c’è da farsi illusioni. Una mobilitazione internazionale contro il terrorismo che coinvolga davvero tutti i paesi, anche al di fuori della cerchia occidentale, è opera ardua e di lungo periodo. Ma vale la pena di riprendere i tentativi; anzi, è necessario farlo. Si dice che la Spagna, che ha ora la presidenza di turno dell’Unione Europea, abbia in animo di rafforzare intanto il coordinamento favorendo la creazione di un Comitato Europeo antiterrorismo e che il governo italiano veda questo con favore. Può essere un buon inizio: il terrorismo è una mostruosità, sia sul piano sociale che su quello etico. Che l’Europa si metta in prima fila per combatterlo sarebbe un buon segno: un buon segno per la nostra sicurezza e un buon segno per ciò che è, o che potrebbe essere domani, l’Europa.
da lastampa.it
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« Risposta #28 inserito:: Gennaio 28, 2010, 08:43:05 pm » |
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27/1/2010
Disastro diplomatico BORIS BIANCHERI
Più che una gaffe, è stato proprio un piccolo disastro. Cosa abbia indotto un uomo lucido ed esperto come Bertolaso, che ha delle situazioni di emergenza e dei modi di affrontarle una esperienza impareggiabile e che conosce anche bene il mondo della politica e le sue esigenze.
Cosa lo abbia spinto a rilasciare quelle dichiarazioni critiche sul modo in cui viene condotta l'assistenza a Haiti e a riferirsi in particolare in modo leggermente beffardo a un eccesso di graduati americani, non credo che lo capiremo mai. A caldo, il Segretario di Stato americano Clinton aveva reagito con un po' di ironia qualificandole con una espressione tipicamente americana come «chiacchiere da dopo partita». Sperava probabilmente che la cosa sarebbe finita lì. Ma così naturalmente non è stato e il battibecco ha fatto presto il giro del mondo.
La Clinton ha detto successivamente di essere stata profondamente ferita da queste critiche, un'espressione davvero inconsueta nel linguaggio diplomatico. E' dovuto dunque intervenire con fermezza prima il nostro ministro degli Esteri, poi, con ancora maggior autorevolezza, il presidente Berlusconi, per smentire le affermazioni del Sottosegretario Bertolaso e affermare senza mezzi termini che la risposta internazionale al tragico sisma di Haiti è stata rapida e l'intervento americano particolarmente generoso e significativo.
Che la cosa abbia molto irritato gli americani, non sorprende. Nessuno ama essere criticato in pubblico, soprattutto quando le critiche si riferiscono al modo in cui si cerca di fare un'opera umanitaria in condizioni obiettivamente difficili e ancor più se chi critica ha fatto, per parte sua, ben poco. In questa operazione, poi, gli americani si erano veramente impegnati a fondo e continueranno ad esserlo in futuro. Il presidente Obama ne aveva fatto subito, molto esplicitamente, un impegno suo personale e di tutto il Paese: lo richiedeva infatti l'opinione pubblica, lo richiedevano evidenti ragioni di prossimità geografica e il ruolo generale che gli Stati Uniti hanno in quella regione. Forse Obama si è anche ricordato delle critiche piovute a suo tempo sul capo del suo predecessore George Bush per l'insufficienza e i ritardi degli aiuti alle popolazioni colpite dal tifone Katrina e gli strascichi polemici che a lungo sono seguiti. Fatto è che stavolta l'intervento americano è stato davvero pronto e massiccio, anche, ma non solo, al fine di mantenere una parvenza di ordine pubblico in un Paese privo di qualsiasi struttura funzionante, un problema questo che era stato avvertito subito come altrettanto impellente quanto quello di prestare soccorso a chi era restato sotto le macerie. A dire il vero, l'entità della presenza americana aveva fatto alzare un poco le sopracciglia anche a qualche commentatore d'oltralpe: ma i francesi, si sa, sono fatti così e si era trattato solo di riferimenti indiretti e non certo di fonte ufficiale.
Le dichiarazioni di Bertolaso, tra l'altro, hanno suscitato la reazione non solo degli americani ma anche dell'Onu, che si è sentita tirata in causa come diretto responsabile del coordinamento degli aiuti internazionali. In un incontro tenuto ieri a Montreal tra i maggiori donatori per preparare una prossima conferenza per gli aiuti a Haiti, il portavoce delle Nazioni Unite ha detto infatti ai giornalisti che, dopo le dichiarazioni del presidente del Consiglio Italiano, non c'era più ragione di commentare le critiche fatte da Bertolaso.
Si è trattato dunque di una tempesta in un bicchier d'acqua? Non è stata una tempesta, forse, ma un po' d'acqua fuori dal bicchiere ne è caduta. Degli apprezzamenti critici rilasciati da un membro di governo straniero, che oltretutto ha una competenza specifica nella materia di cui parla e che quindi suonano verosimili, qualche segno lo lasciano. In questo caso si trattava di un tema particolarmente delicato e in un momento sensibile per l'amministrazione Obama. Il caso ha voluto poi che quelle dichiarazioni siano venute a coincidere con una visita del ministro Frattini a Hillary Clinton con un'agenda densa di temi significativi e importanti per entrambi i Paesi, come la preparazione della prossima conferenza di Londra sull'Afghanistan, gli sviluppi della situazione in Iran e le possibili sanzioni, le conseguenze sul piano energetico e via dicendo. Non hanno turbato né turberanno i nostri rapporti con gli Stati Uniti, e l'incontro, a quanto si sa, non ne ha risentito, ma si è creato un circo mediatico che tutti avrebbero preferito evitare.
Se Bertolaso si fosse imbarcato sulla nostra portaerei Cavour con le duecento tonnellate di aiuti italiani, sarebbe arrivato a Haiti tra 10 giorni e forse, a freddo, ai suoi commenti nessuno avrebbe fatto attenzione.
da lastampa.it
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« Risposta #29 inserito:: Febbraio 09, 2010, 09:35:32 am » |
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9/2/2010
Alla Farnesina si torna all'antico BORIS BIANCHERI
Sino a una ventina d’anni fa, nel nostro ministero degli Esteri i problemi internazionali venivano assegnati tra le varie Direzioni a seconda della loro natura: esisteva una Direzione degli Affari Politici, una Direzione Affari Economici, una degli Affari Culturali e così via. Il tutto coordinato dalla Segreteria Generale e, beninteso, sotto la direzione e la responsabilità politica del ministro e dei suoi sottosegretari. Questo schema dava al «che cosa?» preminenza sul «dove?», cioè dava priorità alla natura di un problema rispetto al Paese o gruppo di Paesi nei cui confronti il problema si poneva.
Tale criterio contrastava però con quanto si faceva in alcuni grandi Paesi europei, in Gran Bretagna e in Francia in particolare, dove invece la priorità era data alla geografia, con dipartimenti suddivisi, appunto, in aree geografiche: Europa, Americhe, Asia e via dicendo. In una fase della politica estera comune dell’Unione Europea che richiedeva continue riunioni di coordinamento tra dirigenti dei vari ministeri degli Esteri, parve utile dare alle nostre strutture un assetto che rispecchiasse più da vicino quello di nostri autorevoli partner e si passò a una formula mista, ma prevalentemente geografica, di ripartizione interna.
Non si tratta di un problema puramente organizzativo: esso riflette delle scelte nel ruolo che la politica estera assume nello sviluppo del proprio Paese e del modo in cui si vuole tenere il passo con le trasformazioni in atto nello scenario mondiale. Accadde però che quella riforma di una decina d’anni fa venisse attuata quando era già superata e quando gli stessi Paesi il cui assetto l’Italia aveva preso a modello si accingevano a cambiarlo. Gli ultimi decenni hanno infatti segnato un continuo processo di erosione delle realtà geografiche storiche e la crescente internazionalizzazione della vita della società civile. Cento anni fa, il rapporto tra due Paesi aveva un fondamento politico-geografico che si proiettava anche sull’interscambio, sulla finanza o sulla cultura. Oggi, tutte le attività di una società evoluta hanno delle dimensioni internazionali - l’educazione, l’ambiente, la sanità, il lavoro, la scienza, le comunicazioni e via dicendo - e sono queste ultime che condizionano il più delle volte anche il rapporto politico sottostante. Ecco dunque che la Farnesina si propone di tornare all’antico schema di una ripartizione delle competenze interne fondata su base tematica, seppur largamente aggiornata e corretta. E non a caso altri Paesi europei hanno nel frattempo già fatto riforme simili. Avremo dunque una Direzione per la Mondializzazione, dove trovano posto non solo le grandi organizzazioni internazionali e i processi di governance come il G8 o il G20, ma anche tutti i rapporti bilaterali con i singoli Paesi del mondo. Solo l’Europa avrà una sua Direzione per l’Unione Europea, mirata soprattutto al processo di integrazione e ai rapporti con la Commissione e le altre istituzioni dell’Unione. Dovrà esservi poi una Direzione per gli Affari Politici e di Sicurezza, una Direzione per la Promozione del Sistema Paese, che va dalla cultura all’attività delle imprese all’estero, una Direzione per la Cooperazione allo sviluppo e una per gli Italiani all’estero.
È un progetto che presuppone evidentemente una stretta e coerente attività di coordinamento con la presidenza del Consiglio e con tutti gli altri ministeri, un problema questo che si è posto da tempo e che è stato affrontato anche attraverso una sempre più frequente presenza di funzionari diplomatici presso le altre amministrazioni. Sul suo progetto il ministero degli Esteri apre giustamente un dibattito nei prossimi giorni. Tutto è perfezionabile, ma non c’è dubbio che esso risponda, assai meglio del modello attuale, alle esigenze poste dalla globalizzazione e da processi economici e politici che trascendono i confini della geografia. Ha anche il merito di ridurre il numero delle grandi unità operative della Farnesina. Auguriamoci soltanto, guardando alle crisi in atto, a talune tentazioni protezionistiche, a striscianti nazionalismi e allo scetticismo che si accompagna in questi ultimi tempi alla visione universalistica di Barack Obama, che anche questa volta esso non entri in vigore quando il mondo sta di nuovo cambiando.
da lastampa.it
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