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« Risposta #45 inserito:: Gennaio 06, 2011, 05:40:35 pm » |
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6/1/2011 Due visioni sul futuro degli Usa BORIS BIANCHERI Non è la prima volta che un Presidente americano vede, come Obama lo ha visto ieri, una maggioranza parlamentare del tutto diversa da quella che lo aveva accompagnato al potere due anni prima, salire le rampe di Capitol Hill e occupare il Congresso. Questa volta, però, il salto e particolarmente vistoso. Anzitutto per i numeri: i repubblicani hanno alla Camera 49 seggi più dei loro avversari, una maggioranza ampiamente sufficiente per tradurre in realtà un’agenda legislativa. Inoltre, c'è un buon numero di nuovi venuti che appartiene a una generazione ancora in parte sconosciuta di radicalconservatori rabbiosamente ostili a tutti i programmi che Obama ha realizzato o cercato di realizzare nel primo biennio del suo mandato. Più che a una correzione di rotta, ove la loro ottica dovesse prevalere, ci troveremmo di fronte a un’inversione di rotta nel corso politico di questa legislatura. Naturalmente esistono anche delle remore. Anzitutto nel Senato, dove la maggioranza è ancora marginalmente democratica. E poi, beninteso, nel diritto di veto, che il Presidente può sempre opporre in caso di necessità di fronte a una legge che contrasta apertamente con l’indirizzo politico della Casa Bianca. Un atto questo, però, che non può essere usato indiscriminatamentein quanto apre un contrasto esplicito tra governo e Parlamento.Comunque sia, spetta ora ai repubblicani dire cosa vogliono e come intendono impostare la legislatura. Va detto che, se il nuovo Congresso si è inaugurato come sempre a inizio d’anno, già da alcune settimane, dopo le infelici elezioni del 2 novembre, la Casa Bianca aveva incominciato a posizionarsi diversamente in vista dei nuovi equilibri: Obama 2, come alcuni commentatori lo hanno chiamato, è nato infatti due mesi prima di questo Congresso.Per esempio, sulla dibattuta questione della riduzione dei redditi fiscali più elevati ereditata dall’era Bush, che venivano a scadenza con il 2010, Obama è andato di sua iniziativa incontro ai repubblicani accordando una proroga ma barattandola astutamente con l’avallo repubblicano ad alcune voci di spesa per stimolare l’economia che hanno avuto il plauso del proprio partito. Spetta al nuovo speaker della Camera, il repubblicano John Boehner, tradurre in provvedimenti concreti anche le idee che la maggioranza si propone di portare avanti. Nel suo primo discorso tenuto ieri, si è attenuto soprattutto ai temi istituzionali che sono di sua diretta competenza e in particolare sulla necessità di chiarezza e trasparenza nelle procedure e negli atti del Congresso come nelle fasi che li precedono. Il lungo applauso sia dei repubblicani che dei democratici che lo ha accolto sul podio (e che ha destato in noi un triste senso di invidia) lascia bene a sperare. John Boehner è stato in passato un uomo d’affari che ha condotto al successo una media impresa commerciale prima di essere eletto alla Camera dei Rappresentanti nel 1990 e diventare il leader della minoranza repubblicana nel 2008. È un interprete fedele di ciò che è un dogma per tanti americani, vale a dire che compito dello Stato è fare solo ciò e tutto ciò che il privato non può fare e che il modo migliore di contenere il ruolo dello Stato è quello di ridurne il bilancio. Attorno a questo nodo, e al problema che ne costituisce in tempi di crisi come quelli che stiamo ancora vivendo esattamente l’opposto, cioè quello di sostenere e stimolare l’economia con interventi pubblici, si giocherà a Capitol Hill il biennio che abbiamo di fronte. Sarà dunque una battaglia giorno per giorno, legge per legge (e nelle leggi di spesa la Camera è davvero determinante), tra due visioni opposte, quella di Obama di uno Stato che deve essere generoso perché è necessario e quella di Boehner, e di tanti come lui, di uno Stato che va strettamente controllato perché tende ad invadere ciò che non gli appartiene. Se lo scorcio di legislatura passata dopo le elezioni di novembre può darci qualche indicazione in proposito, non sembra da escludere un patteggiamento continuo improntato a realismo: Obama, per parte sua, ha dimostrato finora di essere disponibile a scendere su questo terreno. Le cose diventerebbero evidentemente più difficili se, come l’ala estrema dei repubblicani chiede, la maggioranza si proponesse di abrogare la riforma sanitaria che costituisce forse il maggior risultato del primo biennio di Obama e certo il momento di più alto valore simbolico. Se così fosse, significherebbe che il partito repubblicano si accinge non tanto a portare avanti il lavoro da compiere per gestire il Paese e introdurre quelle correzioni all’impostazione precedente che ritiene necessarie, ma che guarda già alla scadenza del mandato dell’attuale Presidente e si predispone fin d’ora a una lunga campagna elettorale. In materia di relazioni internazionali, il fatto che la maggioranza sia mutata alla Camera non dovrebbe avere necessariamente una diretta influenza se non quando ricorrano leggi di spesa; ma senza dubbio essa avrà modo di infastidire l’Amministrazione - e ne ha manifestato l’intenzione -, per esempio con delle commissioni d’inchiesta sull’affare Wikileaks e sulla reazione avuta dal Dipartimento di Stato. Ma, anche in questo caso, è dubbio che ci si accinga a mettere a fondo il dito in una piaga che tocca anche principi e valori di interesse nazionale. Se queste riflessioni della prima ora si rivelassero esatte, potremmo attenderci due anni meno esaltanti (ma sotto certi aspetti anche meno deludenti) dei due anni appena trascorsi; potremmo vedere un Barack Obama meno generoso nel promuovere visioni di denuclearizzazione globale o di cambiamenti climatici perché più impegnato nella sopravvivenza quotidiana. Ma anche consapevole che il compito di ridare spinta propulsiva all’America nella trasformazione della propria società e nella progettazione di nuove strategie mondiali, dovrà attendere, per essere realisticamente affrontato, un suo eventuale futuro secondo mandato. http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8264&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #46 inserito:: Gennaio 11, 2011, 04:09:03 pm » |
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11/1/2011 - I LEGAMI ITALIA-AMERICA In diplomazia vince sempre la comunicazione BORIS BIANCHERI Se qualcuno dubita che la comunicazione sia diventata ormai il primo e fondamentale strumento di governo della politica estera e dei rapporti internazionali, mentre la diplomazia tradizionale ha spesso solo una funzione accessoria ad essa, la lunga intervista con l’ambasciatore degli Stati Uniti in Italia, David Thorne, apparsa ieri su queste pagine, dovrebbe aver fugato ogni dubbio. Avevamo tutti avuto una clamorosa dimostrazione della formidabile potenza della comunicazione quando è esploso l’affare Wikileaks: la maggior parte delle notizie diffuse da Wikileaks non ha avuto a tutt’oggi né un carattere dirompente né particolarmente innovativo. I giudizi formulati dai diplomatici americani su uomini di Stato e di governo stranieri e sulla loro politica erano spesso già cosa corrente tra gli addetti ai lavori e non di rado ripresa da pettegolezzi o da organi locali. Quel che ha avuto carattere dirompente è invece che quei giudizi siano diventati pubblici, che ciò che fino a quel momento dicevano tra loro pochi eletti sia diventato da un momento all’altro una cosa nota a centinaia di milioni, a miliardi di persone. Per quanto concerne i passaggi di Wikileaks che riguardano il nostro Paese - gli apprezzamenti dell’ambasciata di via Veneto nei confronti del presidente del Consiglio e delle sue «distrazioni», le riserve circa i suoi rapporti con Putin, certi giudizi sulla politica energetica italiana e così via - essi avevano già indotto la signora Clinton a incontrare separatamente Berlusconi nel Kazakhstan e ad affermare formalmente che i rapporti tra Stati Uniti e Italia erano e sono eccellenti. Sicuramente, da novembre in poi vi saranno stati altri discreti interventi con Palazzo Chigi, con la Farnesina, con altri membri del governo o con la nostra ambasciata a Washington per chiarire, appianare e cercare di rasserenare l’atmosfera. Ma anche questo non è parso sufficiente: non basta che si convinca la Farnesina o Palazzo Chigi, quel che è importante è che si convinca il pubblico. Ed ecco che scende in campo l’ambasciatore David Thorne e, da Washington, forse dopo essersi consultato con il Dipartimento di Stato, rilascia una inconsueta, franca ed esplicita intervista. I rapporti tra Stati Uniti e Italia, dice Thorne, non potrebbero essere migliori. Se essi hanno avuto un momento di appannamento è per un errore, è per colpa di Wikileaks e non perché ciò corrisponda o abbia mai corrisposto alle intenzioni dei due governi; per Berlusconi c’è grande apprezzamento e le sue relazioni amichevoli con Putin non destano più preoccupazione; anche l’Eni non costituisce un problema, ora che ipotizza convergenze tra gli oleodotti South Stream e Nabucco. In particolare sul ruolo italiano in Afghanistan l’ambasciatore è stato caloroso, quasi enfatico. Tutto questo, mi sembra, dimostra tre cose. Dimostra che una fase di appannamento nei rapporti Italia-Usa per certi aspetti c’era stata, che Wikileaks aveva in effetti lasciato molta amarezza nei nostri ambienti politici, ma che tale amarezza era dovuta non tanto ai giudizi in sé che erano stati formulati quanto alla strumentalizzazione che se ne era fatta nelle polemiche politiche di casa nostra. Dimostra anche, se ce n’era bisogno, che Wikileaks è stato davvero un brutto incidente nel tessuto di relazioni internazionali degli Stati Uniti. La diplomazia da sola fa fatica a sanarlo e l’opera di rammendo prende forma non nel negare ciò che è innegabile ma nell’assicurare all’esterno che le difficoltà sono ormai in via di essere superate. E infine dimostra, come si diceva all’inizio, che nel mondo di oggi, sia all’interno delle nostre democrazie sia nei rapporti tra loro, l’arma fatale, quella che può ferire o uccidere l’altro e che poi, all’occorrenza, si deve usare anche per guarirne le ferite, è costituita non da qualcosa di esclusivo o di remoto ma da ciò che è più vicino a tutti noi nella vita di ogni giorno: da ciò che chiamiamo, appunto, comunicazione. http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8282&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #47 inserito:: Febbraio 01, 2011, 04:46:59 pm » |
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1/2/2011 La retromarcia di Washington BORIS BIANCHERI Non poteva esserci prova più difficile per Obama di quella che gli impone oggi la situazione in Egitto. Ha appena finito di pronunciare un discorso sullo stato dell’Unione nel quale ha parlato molto di ciò che l’America deve fare per ritrovare se stessa e, non a caso, poco di ciò che sta avvenendo nel resto del mondo. Sugli avvenimenti di Tunisia si era espresso senza alzare i toni ma facendo intendere che la ventata di rinnovamento che ha percorso quel Paese non poteva non riscuotere simpatia anche a Washington. Dirlo, d’altronde, non gli costava gran che: Ben Ali non c’era già più, aveva già fatto le valigie e così anche tutti i suoi parenti ed amici che avevano avuto il tempo di seguirlo. Ma Mubarak è un’altra cosa. Mubarak è ancora lì e non pare finora avere l’intenzione di seguire l’esempio del suo collega tunisino. In Egitto, sembrava alcuni giorni fa che la designazione di Suleiman a vice-Presidente indicasse che le chiavi del potere erano passate all’esercito e che la transizione - cioè l’uscita di Mubarak dalla scena - fosse ormai in atto. E infatti, domenica scorsa, la signora Clinton ha auspicato pubblicamente che al Cairo si attuasse una transizione ordinata verso l’aspirazione popolare alla democrazia e a migliori condizioni economiche. Ma, per ora, la transizione, ordinata o no che sia, non c’è. Le manifestazioni popolari continuano, Suleiman è stato nominato vice-Presidente ma il Presidente è sempre Mubarak e non si muove. Si sono levate invece molte voci per consigliare alla Casa Bianca maggiore cautela di linguaggio. Le prime e le più esplicite sono state quelle israeliane. Mubarak ha rappresentato in effetti per dei decenni una garanzia di stabilità per l’intera regione e per Israele in particolare. All’interno ha tenuto sotto controllo il partito dei Fratelli Musulmani, che seppur costituisce il maggior nucleo di opposizione organizzata, è largamente minoritario. In seno alla Lega Araba, l’Egitto costituisce una voce moderata. E’ ovvio che a Gerusalemme si guardi con preoccupazione a improvvisi traumatici mutamenti in direzioni diverse, quali esse siano. Ci sono anche gli altri potentati arabi che, di fronte a una troppo liberale posizione di Washington, aggrottano le ciglia: un incoraggiamento degli Stati Uniti a chi rivendica democrazia e diritti umani e mira a rovesciare chi sta al potere negando quei diritti, non può che suscitare apprensione in buona parte del mondo arabo, dagli Emirati, all’Arabia Saudita alla Giordania stessa. Ci sono poi le voci dei repubblicani, che Obama non può ignorare. C’è lo spettro di ripercussioni gravi sul piano economico, conseguenti anche a una eventuale paralisi di quel punto cruciale dei traffici che è il Canale di Suez, ci sono le conseguenze sui rapporti economici bilaterali qualora la situazione degradasse ulteriormente. La realtà è che, quale che sia la posizione americana in ordine agli avvenimenti egiziani, Obama rischia di essere perdente. Se parte dal presupposto che l’era Mubarak è finita, affretta i tempi verso un pericoloso precipizio. Se invece prende le distanze dai movimenti popolari in atto in Egitto e altrove, rischia di riaccendere i sentimenti antiamericani che serpeggiano in tanta parte del mondo arabo anche non radicale o estremista. Se avalla i dittatori, contraddice clamorosamente se stesso, la sua visione del mondo e coloro che hanno creduto sinora nel suo messaggio di equità e di libertà. Nella loro inattesa e succinta dichiarazione «europea», inglesi, francesi e tedeschi se la sono cavata invitando entrambe le parti alle moderazione. Washington si era spinta più avanti, ma ci ha ripensato e sta tornando indietro. Una transizione vi sarà inevitabilmente e d’altronde era comunque prevista; ma è preferibile forse che non avvenga sotto la spinta della piazza. Una cosa è comunque sicura (e noi dovremmo essere i primi a saperlo): non serve a molto chiedere di dimettersi a chi ha il potere in mano se non si spiega cosa verrà dopo di lui. http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8360&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #48 inserito:: Marzo 16, 2011, 12:17:38 pm » |
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16/3/2011
Il codice morale che sorregge i giapponesi
BORIS BIANCHERI
L’emergenza della centrale atomica di Fukushima, causata da un terremoto di tale magnitudo da aver perfino spostato l’asse terrestre e da un’onda colossale, ha ridato vigore al dibattito tra fautori e detrattori dell’energia nucleare, con tutto il suo contorno di implicazioni politiche. Che è poi solo una parte del dibattito vecchio come il mondo dei benefici ma anche dei rischi del progresso e della possibilità di prevederli.
Dal Giappone giungono immagini spaventose: città in pezzi, navi intere scagliate nelle strade e migliaia di automobili sommerse dal mare. Ma sui volti dei giapponesi si vede malgrado tutto calma e compostezza: coloro che potrebbero essere stati raggiunti da radiazioni fanno pazientemente la coda per farsi esaminare, la macchina dei soccorsi funziona e la gente si attiene scrupolosamente al consiglio di risparmiare energia e limitare i consumi. Né sembra che divampino furiose polemiche e recriminazioni. Non posso immaginare cosa sarebbe accaduto da noi. Negli Stati Uniti, mi basta ricordare la ventata di isteria che accompagnò il tifone Katrina, di portata infinitamente minore.
Quando il Giappone, all’indomani dell’ultimo conflitto, passò d’un tratto da un regime autocratico-feudale alla democrazia importata dagli Stati Uniti, tutti si sorpresero di come il passaggio si svolgesse in modo ordinato ed efficace. I giapponesi accolsero istituzioni e regole che erano loro sconosciute e le fecero funzionare. Poi la democrazia parlamentare e l’economia di mercato hanno attraversato anche in Giappone le vicende che altri Paesi hanno conosciuto. Non molto tempo fa, su queste stesse pagine, abbiamo avuto modo di ricordare che la vita politica del Paese del Sol Levante è stata afflitta ultimamente da scandali e comportamenti inappropriati, che quattro primi ministri si sono avvicendati in pochi anni, il debito pubblico ha raggiunto livelli record, la produzione ha rallentato mentre sono aumentate la spesa pensionistica e la disoccupazione. Il Giappone ha faticato a mantenere il livello di vita raggiunto in passato, ricalcando alcuni modelli di comportamento non molto dissimili da quelli italiani.
Da dove viene allora questa ordinata calma nel momento dell’emergenza? Come mai mentre i mercati crollano e le borse impazziscono, mentre il mondo commisera il Giappone e si interroga sul dilemma nucleare, i giapponesi riprendono il cammino con apparente fiduciosa determinazione e un primo ministro che fino a 10 giorni fa molti giudicavano quasi sul punto di cadere annuncia ora tranquillamente e senza sollevare proteste che la più grave crisi del dopoguerra sarà superata e il Giappone si ritroverà più compatto e forte di prima?
La risposta sta in un aspetto della cultura profonda del Paese e in un principio che sin dalla prima infanzia giunge nell’animo di ogni bambino. Il principio, cioè, che vi sono infinite cose desiderabili e anche importanti, come il denaro, il potere o il successo, che tutti cercano di raggiungere, che taluni raggiungono ma che possono poi abbandonarci a seconda della fortuna o delle circostanze senza che ciò muti la nostra vera natura. Che vi sono invece valori che ci appartengono indissolubilmente, senza i quali non saremmo quasi persone umane, certo non dei veri giapponesi. E’ difficile riassumere questi valori e anche più difficile tradurli in parole italiane appropriate. Si tratta, in sostanza, di una specie di codice morale dei cavalieri dell’età feudale che, non scritto ma passato di bocca in bocca, sopravvive nel mondo di oggi: vi si fondono i concetti di consapevolezza di sé, lealtà, rettitudine, dignità e rispetto. Importante - diceva un saggio - è sapere quando è tempo di colpire e quando è tempo di morire, e farlo con la stessa grazia. In Giappone, questo concetto viene talvolta riassunto nel termine «bushido», che ha peraltro un suono prevalentemente guerriero e maschile mentre l’idea è altrettanto maschile che femminile.
Il terremoto e lo tsunami della scorsa settimana sono eventi della natura che si sono prodotti al di fuori e al di sopra della volontà degli uomini. Proprio per questo, a differenza delle oscillazioni di borsa e delle crisi economiche, hanno risvegliato nell’animo giapponese questo sentimento antico. Quando vedete la foto di una persona che guarda senza spavento e senza lacrime la sua casa distrutta in un luogo della costa vicino a Sendai e si appresta con grazia a ricostruirla, pensate che in quella persona il senso del presente è stato affiancato dal senso dell’antico e che c’è in lei o in lui l’eco del «bushido».
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« Risposta #49 inserito:: Marzo 22, 2011, 03:50:00 pm » |
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22/3/2011
L'alleanza dove ognuno va per sé
BORIS BIANCHERI
L’abbiamo salutata tutti come l’aspirazione di un mondo arabo nuovo verso traguardi di libertà e dignità della persona umana. E continuiamo a sperare che i germogli nati in Tunisia, in Egitto e altrove possano, col nostro aiuto, svilupparsi. Ma quello che vediamo accadere ora in Libia, questo vortice inquietante nel quale la megalomania di Gheddafi ha trascinato i cosiddetti «volenterosi» e noi con loro, non mi sembra essere la via che porta a traguardi ideali neppure nella mente dei Paesi che la stanno percorrendo.
Partiamo dalla rivolta di Bengasi che, l’abbiamo già detto, si è presentata subito come diversa da quanto era accaduto in altri Paesi nordafricani. L’insurrezione in Cirenaica contiene infatti in sé anche i germi di fratture che appartengono da sempre alla società libica ed è spinta da crescente insofferenza dell’Est verso il lungo dominio gheddafiano con le sue profonde radici nell’Ovest e nel Sud. Essa divide la Libia più per linee tribali e geografiche che per linee politiche e ideali. Del Consiglio rivoluzionario di Bengasi, dei suoi protagonisti (alcuni dei quali sono stati a lungo vicini al raiss) e dei suoi programmi sappiamo poco: sappiamo solo che Gheddafi è talmente autocratico e assoluto che è improbabile che lo siano più di lui.
Veniamo ora alla reazione degli occidentali. Il termine «occidentali» è appropriato dato che la sigla Nato non si può usare per il veto dei turchi e di altri, mentre termini più ampi non se ne possono inventare dato che Lega Araba e Unione Africana, dapprima cautamente favorevoli, si sono dissociate quando della nostra reazione hanno visto le conseguenze. Il motore principale dell’intervento in Libia è stato, come sappiamo, la Francia. Si è messa subito al lavoro per una risoluzione dell’Onu, ha quasi riconosciuto il regime di Bengasi, ha fatto capire di essere pronta ad agire anche da sola o con la sola Gran Bretagna e ha tenuto ad effettuare la prima vera operazione bellica. Il motivo di questo protagonismo sta nella necessità di Sarkozy di riabilitare la propria immagine presso la destra tradizionale che Marine Le Pen rischia di portargli via alle prossime elezioni. Si tratta di restituire alla Francia una posizione di leadership nel Mediterraneo dopo il suo maldestro tentativo di creare una Unione del Mediterraneo di ispirazione francese tra Europa e sponda Sud, tentativo che, pur ridimensionato nel nome e negli obiettivi, è rimasto in pratica lettera morta. In Libia la Francia non ha grandi interessi e quindi rischia poco; ha invece interessi storici in Tunisia, Algeria, Marocco e in Africa nera ed è qui che l’influenza di Parigi deve riprendere vitalità. L’operazione Libia serve anche a questo.
In simile situazione gli Stati Uniti non potevano restare indietro. Non poteva farlo Obama, che fin dalla campagna elettorale si era proclamato l’interlocutore di un mondo arabo moderno e dialogante; e comunque la prima potenza al mondo, che ha in Medio Oriente e Africa interessi politici ed economici ingenti, non poteva fingere di ignorare quel che accade in Libia soprattutto se è la Francia ad indicarglielo col dito. Le contraddizioni e le incertezze della diplomazia americana in questi giorni testimoniano che si è trattato di una decisione sofferta, di cui Washington intravedeva i rischi.
La Germania non ha dovuto fingere di perseguire traguardi ideali di libertà e di progresso in questa vicenda: i tedeschi attraversano una fase di ripiegamento su condizioni di relativo benessere, non aspirano a posizioni di preminenza se non in campo economico e guardano con distacco al Mediterraneo, memori anche di quanto gli squilibri di bilancio dei Paesi del Sud Europa siano costati ai loro risparmi. Coerentemente, hanno scelto di astenersi dall’intervenire.
Quanto all’Italia, il suo governo è partito con la palla al piede di un trattato italo-libico, legittimo e anzi positivo nella sostanza ma macchiato da goffaggini di immagine che hanno fatto il giro del mondo. Si è associato ai «volenterosi» soprattutto per non passare da filo gheddafiano e per stare con coloro che contano. Ma l’attivismo dei francesi e i ripensamenti della Lega Araba (nonché quelli della Lega nostrana) hanno accresciuto lo scetticismo. L’affermazione di Frattini ieri a Bruxelles secondo cui potremmo riappropriarci delle basi se l’operazione non passasse sotto il comando Nato, il che sembra da escludere, non fa una grinza nella sostanza: come si conduce una difficile operazione militare multilaterale se non c’è un unico comando? Ma è anche una via d’uscita. Per ragioni pratiche e contingenti: ognuno, d’altronde, deve badare ai fatti suoi. Quelle motivazioni ideali di libertà e progresso da cui tutto è partito sembrano un lontano ricordo.
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« Risposta #50 inserito:: Aprile 12, 2011, 06:35:27 pm » |
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12/4/2011
Il ritorno all'Europa delle nazioni
BORIS BIANCHERI
Il nulla di fatto con cui si è concluso il Consiglio dei ministri dell’Interno europei a Lussemburgo e il «no» opposto dagli Stati membri alle richieste italiane di collaborazione nelle attività di prevenzione e di assorbimento dell’immigrazione clandestina non è cosa che potrà essere facilmente dimenticata. Raramente abbiamo chiesto all’Europa qualcosa con tanta insistenza. E ancor più raro che gli altri abbiano risposto seccamente di no, malgrado una certa comprensione dimostrata verso la posizione italiana da parte della Commissione europea.
Il problema è che, in un certo senso, tutti hanno ragione. Ha ragione il governo italiano quando dice che l’afflusso sulle nostre coste di 25.000 clandestini che non possono essere lasciati affogare, e soprattutto delle centinaia di migliaia che potrebbero seguirli, costituisce per noi una vera emergenza. Lo dice perché così l’ha giudicata senza esitazione l’opinione pubblica italiana, a Roma, a Lampedusa, nei Comuni e nelle Province del Sud come in quelli del Nord, e tutta la televisione e la stampa italiana si sono fatte coralmente interpreti di questa emergenza. Ha anche ragione il governo italiano quando dice che il Trattato di Schengen non è stato concepito unicamente allo scopo di evitare ai viaggiatori europei di fare la coda alle frontiere, ma è stato concepito per fare dell’Europa uno spazio territoriale omogeneo dove si circola, si lavora e si vive liberamente. I francesi che respingono, o i tedeschi che minacciano di respingere, le persone di pelle un po’ scura alle quali l’Italia dà un permesso di soggiorno temporaneo, sono forse in regola con la lettera ma non interpretano lo spirito del trattato.
Ma hanno anche ragione coloro che ribattono che, per una nazione come l’Italia di 57 milioni di abitanti, 25.000 rifugiati sono poca cosa e che al tempo delle guerre balcaniche loro ne hanno accolti ben di più. E che non è colpa loro se l’Italia possiede delle isole così vicine alle coste africane che si possono quasi raggiungere a nuoto. Tutti hanno ragione, dunque. Ma siccome ieri a chiedere c’era uno solo e a dir di no erano in tanti, il risultato è stato quello che sappiamo. Ci si può chiedere: si doveva agire diversamente? E’ la nostra politica estera, la nostra diplomazia che ha fatto fallimento?
Certe frasi forti pronunciate dal nostro presidente del Consiglio o dai suoi ministri forse non hanno aiutato. Ma con ogni probabilità, quale che fosse stata la strategia, il risultato sarebbe stato lo stesso. Il controllo dell’immigrazione costituisce oggi uno dei temi politicamente più sensibili per tutti: per noi per primi, come la Lega sottolinea ogni giorno e come gli italiani confermano giudicando 25.000 immigrati un’emergenza; ma anche per Sarkozy che ha fatto al riguardo rigorose promesse al suo elettorato; o per Angela Merkel che dichiara che il multiculturalismo è ormai finito. L’immigrazione è allo stesso tempo il sintomo e la causa di una ri-nazionalizzazione dell’Europa fin troppo evidente.
Quale che sia la delusione, parlare di uscire da Schengen (per non dire di uscire dall’Europa) non ha evidentemente alcun senso. Intanto nessuno ci crederebbe. I 25.000 che sono entrati finiranno alla lunga con l’andarsene in buona parte altrove, in Francia speriamo per loro. Questo, a dire il vero, rischia poi di attirarne altri. Ma soprattutto è bene tener presente che, ove i flussi di immigrazione clandestina dovessero moltiplicarsi, ci toccherà farvi fronte da soli e cercare di controllarli con azioni o accordi bilaterali come quelli che a suo tempo facemmo con Gheddafi e che ora cerchiamo di fare con la Tunisia. Senza illusioni che altri intervenga per farlo in vece nostra. Quanto a una certa debolezza della nostra politica estera e a un atteggiamento di alcuni nostri partners europei che tendono a sottovalutare le nostre esigenze e il nostro ruolo internazionale, tutto ciò che si può dire è che non potrebbe essere diversamente dato che hanno sotto gli occhi i girotondi, le risse, gli insulti che caratterizzano ogni aspetto e ogni giorno della vita politica italiana e ai quali la triste giornata di ieri fornirà sicuramente nuovi spunti.
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« Risposta #51 inserito:: Maggio 23, 2011, 04:57:50 pm » |
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23/5/2011
Rotta da cambiare
BORIS BIANCHERI
Come in Italia così in Spagna, sono le elezioni amministrative che si tengono in questa precoce stagione estiva che ci proiettano sul futuro e anticipano in qualche modo l’avvenire politico e sociale dei rispettivi Paesi.
Gli spagnoli, in realtà, fanno più in fretta di noi: i seggi elettorali aperti ieri in mattinata si sono già chiusi in serata e i risultati possono cominciare a interpretarsi subito, senza attendere il lunedì o eventuali angosciosi ballottaggi. Ora, stando ai primi dati e a meno di sorprese che al momento di andare in stampa non appaiono molto probabili, sembra che la Spagna abbia affidato alle urne comunali e regionali un messaggio non molto diverso da quello emerso sette giorni fa in Italia: è ora di cambiar rotta ma non è molto chiaro in quale direzione andare.
Occorre dir subito che questa tornata elettorale ha preso un carattere eccezionale anche per le prolungate e colorite manifestazioni di protesta degli «indignados» che per giorni hanno bivaccato occupando le piazze di Madrid e l’hanno accompagnata, senza però turbarla, nella intera giornata di ieri. E’ stata, come sappiamo, una protesta giovanile indirizzata genericamente contro tutto e contro tutti - politici, imprenditori, banchieri e quant’altro - nata dalla legittima convinzione che chi aveva del denaro o del potere è riuscito in qualche modo a superare la congiuntura e a difendersi dalla crisi mentre le vere vittime sono coloro, in primo luogo i giovani, che non avevano né una cosa né l’altra e sono oggi al 50% senza lavoro. Si era temuto che il nichilismo giovanile fosse contagioso e si traducesse in un’astensione dal voto, ma così non è stato.
I risultati confermano le previsioni della vigilia e segnano una sconfitta (c’è chi parla di disfatta) di Zapatero e del Partito Socialista Psoe, che perde città e regioni che passano nelle mani del Partito Popolare di Mariano Rajoy che aggiunge così ai suoi feudi tradizionali di Madrid e Valencia un numero cospicuo di regioni del Paese. Non è cosa che possa sorprendere. Come tutti i leader europei che erano già al potere allo scoppio della crisi economica (sino a qualche tempo fa si poteva pensare che Berlusconi fosse un’eccezione) Zapatero ha perduto costantemente smalto e sostegno popolare e il suo partito socialista Psoe lo ha seguito nel declino. La Spagna è obiettivamente in condizioni difficili, con un altissimo livello di disoccupazione e un debito pubblico che resta allarmante malgrado tutti i sacrifici fatti. Le elezioni di ieri confermano questo declino e il fatto che Zapatero già alcuni giorni fa avesse annunciato che non si ripresenterà alle prossime elezioni nazionali nel 2012 è stato letto come un gesto di signorilità ma non ha cambiato le cose. E’ una brutta notte per il Psoe, ha detto con franchezza la portavoce socialista commentando i primi risultati elettorali.
Ma se la stagione socialista sembra decisamente al declino, non è detto che per i Popolari di Rajoy si spalanchi una strada aperta. Non solo perché non tutte le perdite socialiste vanno a vantaggio loro. Anche in Spagna (come in Italia d’altronde) partiti minori o locali o di impronta nazionalista sembrano guadagnare consensi: a Barcellona, che per 30 anni è stata un feudo socialista, a notte avanzata lo spoglio dava in netto vantaggio il candidato sindaco della coalizione nazionalista. Ma ancor più perché il voto di ieri è piuttosto un voto di sfiducia nei confronti di chi ha governato in questi anni che un voto di fiducia verso chi dovrà governare in futuro. Le politiche che Rajoy dovrà mettere in atto quando andrà al potere non possono che essere altrettanto se non più severe di quelle tentate dal suo predecessore... Le politiche reali, quelle che toccano i cittadini, sono dettate oggi dalla congiuntura e ai cittadini tocca solo stringere la corda. E’ quello che ci dicono queste elezioni, accompagnate dalla voce degli «indignados». C’è il rischio che lo si dica anche altrove.
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« Risposta #52 inserito:: Luglio 19, 2011, 06:38:31 pm » |
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Addio a Boris Biancheri Diplomatico, ambasciatore italiano a Tokio, Washington e Londra, è stato anche presidente dell'Ansa e della Fieg ROMA - È morto a Roma Boris Biancheri. Lunga la sua carriera diplomatica, cominciata nella seconda metà degli anni '50, durante la quale è stato ambasciatore italiano a Tokyo, a Londra e a Washington. Per il ministero degli Esteri, Biancheri ha ricoperto l'incarico di direttore generale del personale e di direttore generale degli Affari politici. Tra il 1995 e il 1997 è stato segretario generale del Ministero. Dopo la fine della carriera diplomatica, Biancheri è stato presidente dell'Ispi, Istituto per gli studi di politica internazionale di Milano. Dal 1997 al 2009 ha ricoperto l'incarico di presidente dell'Ansa e, dal 2004 al 2008 è stato presidente della Federazione italiana editori giornali. È stato anche editorialista del quotidiano La Stampa e membro della Fondazione Italia Usa. Aveva 80 anni. IL CORDOGLIO DI FRATTINI - «Apprendo con sincero cordoglio e grande tristezza della scomparsa dell'Ambasciatore a riposo Boris Biancheri. Perdiamo una figura di grande valore che abbiamo stimato come servitore dello Stato, studioso, e uomo di lettere», ha affermato il Ministro degli Esteri, Franco Frattini. «Biancheri - prosegue il ministro - è stato uno dei più brillanti diplomatici degli ultimi decenni, coniugando il suo altissimo spessore culturale e la sua solida competenza su ogni aspetto della realtà internazionale con una profonda sensibilità istituzionale. Anche negli importanti incarichi seguiti alla conclusione della sua carriera in diplomazia, Biancheri ha continuato ad essere un lucido, autorevole, stimato punto di riferimento per l'intera comunità di professionisti e studiosi che si dedica alla promozione del ruolo dell'Italia nello scenario internazionale, e ha mantenuto legami stretti e fecondi con l'Amministrazione cui si era dedicato con passione. Ai familiari di Boris Biancheri vanno le mie condoglianze più affettuose». Redazione online 19 luglio 2011 13:01© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://roma.corriere.it/roma/notizie/cronaca/11_luglio_19/motro-boris-biancheri-1901122001385.shtml
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« Risposta #53 inserito:: Luglio 21, 2011, 05:53:47 pm » |
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21/7/2011 Biancheri, un ironico sguardo sul mondo ANTONIO ZANARDI LANDI* «Boris non avrebbe fatto così» Questa è la critica più severa e radicale che mia moglie, donna buona ma anche acuta e attenta, mi ha riservato dal 1989 ad oggi quando ho clamorosamente fallito nel valutare, nel condurre rapporti umani, nel non saper cogliere gli aspetti positivi nascosti in certe situazioni. Ventidue anni fa lasciavo infatti l’Ambasciata a Londra per rientrare alla Farnesina e lasciavo quel personaggio eccezionale per levatura, per cultura, per umana simpatia che è stato Boris Biancheri, di cui per due anni ero stato segretario e collaboratore. Un grande, grandissimo Ambasciatore. Ma, come ha lasciato trasparire Marta Dassù nel suo ricordo di Boris pubblicato da «La Stampa» ieri, definirlo così è riduttivo e parziale. Boris è stato qualcos’altro, qualcosa di più. Per il suo modo di essere, di sorridere, di stabilire un rapporto che non era mai di sola cordialità o di anche sincera amicizia, ma che trasmetteva sempre un’idea, uno spunto di riflessione, una chiave di lettura di realtà complesse come quelle dell’Europa, dell’Oriente, degli Stati Uniti, di questa nostra Italia. La sua straordinaria capacità di comprendere, di cogliere le sfumature più lievi, di collegare mondi culturali diversi ne hanno fatto un grande Ambasciatore. Quasi come una conseguenza ovvia, ma non ricercata. E’ stato Ambasciatore d’Italia a Tokyo, a Londra, a Washington. Ha fatto tutto questo rappresentando il Paese con grande dignità, grande efficacia, grande autorevolezza. Ma è rimasto fondamentalmente un uomo di cultura e il suo successo è stato aiutato dalla levità, dal distacco e dall’ironia sottile e buona con cui ha affrontato il mondo. Dagli anni di Londra, dal primo libro fatto insieme su Grosvernor House, dalle situazioni curiose vissute insieme era rimasta una consuetudine para-familiare. Pochi incontri all’anno, ma carichi di affetto, di idee, di sorriso. Qualche giorno fa l’ultima conversazione telefonica e la promessa di rivederci la settimana prossima, nonostante la fatica che lo opprimeva. Serenità, come sempre. E la preghiera: «Cerca di voler bene alla mia Russia. Se lo merita»! E la mia risposta banale: «Speriamo che qualcuno ci ascolti». Sarebbe stato positivo per la mia missione a Mosca il vademecum così sincero di chi ha dato tanto di suo alla politica estera italiana. Un suo ultimo sorriso telefonico. *Ambasciatore d'Italia a Mosca da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9001
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