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Autore Discussione: BORIS BIANCHERI.  (Letto 27611 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Febbraio 16, 2010, 10:46:41 am »

16/2/2010

L'Italia deve scendere in campo
   
BORIS BIANCHERI

Probabilmente non sapremo mai con esattezza tutti i retroscena di questo nuovo scontro svizzero-libico che si sta trasformando in uno scontro tra Libia e Europa.

Un braccio di ferro dai contorni e dalle conseguenze imprevedibili. La notizia, data ieri dal quotidiano libico on line «Oea» è infatti di quelle alle quali a prima vista si stenta a credere: il governo libico rifiuterà d'ora in poi il visto di ingresso in Libia ai cittadini di tutti quei Paesi che appartengono alla cosiddetta «area Schengen» cioè di tutti quei Paesi in cui si circola liberamente in Europa senza necessità di esibire un passaporto. Si tratta, come sappiamo, di gran parte ma non di tutti i Paesi dell’Unione Europea; la Gran Bretagna, per esempio, non ne fa parte. E ciò vuol dire che un cittadino inglese potrebbe avere un visto di ingresso in Libia, ma non un francese, non un italiano, non un tedesco e così via. Un provvedimento, ha chiarito l'organo di informazione libico, preso come ritorsione alla disposizione che sarebbe stata adottata dalle autorità di Berna (ma che queste non confermano) di negare l'ingresso in Svizzera a circa 188 cittadini libici.

Le controversie tra Libia e Svizzera non nascono oggi. L'episodio più clamoroso si ebbe circa un anno e mezzo fa, quando il figlio di Gheddafi, Hannibal e sua moglie, furono arrestati dalla polizia elvetica in un grande albergo ginevrino a seguito di una denuncia per maltrattamenti presentata da due persone che erano al loro servizio. Dopo 48 ore la coppia fu liberata e poté lasciare il Paese. La cosa suscitò però una durissima reazione di Gheddafi che ritirò subito importanti somme depositate nelle banche svizzere - si parla di 5 miliardi di euro - e di fatto sequestrò con ragioni pretestuose due uomini d'affari elvetici che si trovavano a Tripoli. Lo stesso Presidente della Confederazione Elvetica fu costretto ad andare di persona a Tripoli per cercare di rimettere i rapporti tra i due Paesi sui binari della normalità ma riuscendovi solo in parte: quella singolare visita di scusa fu anzi vista con stupore dalla stampa e dall'opinione pubblica elvetica e fu giudicata una gratuita umiliazione del capo di Stato da parte di un bizzarro e intemperante dittatore.

Ora però questo contenzioso svizzero-libico fa un salto di qualità ed esce dall’ambito bilaterale per investire l'Europa. La giustificazione addotta dai libici è che i Paesi europei seguono criteri restrittivi nella concessione dei visti ai lori cittadini e che quindi, nella sostanza anche se non nella forma, finiscono con allinearsi alle discriminazioni operate dagli svizzeri. Difficile è dire come tutto questo andrà a finire, perché ciò che, da vicino o da lontano, riguarda Gheddafi ha un evidente carattere di imprevedibilità. Se il provvedimento verrà mantenuto e agli europei verrà effettivamente negato l'accesso, come sembra sia in parte già avvenuto all'aeroporto di Tripoli nella serata di domenica, la cosa non potrà non ripercuotersi molto negativamente sui rapporti economici e finanziari che l'Europa ha con la Libia.

La Farnesina ha intanto fatto sapere che intende investire della questione i ministri degli Esteri Europei quando si riuniranno la prossima settimana a Bruxelles. E non c'è dubbio che l'Italia sia tra tutti la più esposta in questa vicenda. Esposta perché i nostri interessi in Libia hanno dimensioni che superano quelle dei nostri maggiori partners, perché l'apporto libico nel controllo dell’emigrazione clandestina resta per noi essenziale ed è di appena pochi mesi fa la positiva definizione di una lunga controversia tra i nostri due Paesi con l'impegno, tra l'altro, della costruzione da parte italiana di una strada litoranea in Libia dalla frontiera tunisina a quella egiziana. Ma soprattutto esposta perché nella recente visita di Gheddafi a Roma, il presidente Berlusconi ha voluto anche personalmente dare una solennità e un calore quali si riservano solo ai veri amici. Trincerarsi dietro le future decisioni dell’Europa è formalmente corretto ma è difficile che ci si possa sottrarre, visti i precedenti, dall’esercitare un nostro specifico ruolo. Sappiamo per esperienza in che acque agitate ci si muove quando si tratta con la Libia: non è stato facile in passato sul piano bilaterale e ancor meno lo sarebbe con gli occhi della Svizzera e dell'Unione Europea puntati addosso. Questa improvvisa tegola libica potrebbe essere una notevole sfida per esercitare i talenti della nostra diplomazia.

da lastampa.it
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« Risposta #31 inserito:: Marzo 05, 2010, 10:15:45 am »

5/3/2010

Il Presidente e l'Europa dimenticata
   
BORIS BIANCHERI

Il chiasso prodotto dalle povere vicende di casa nostra finisce con l’assordarci a tal punto che non prestiamo quasi orecchio a quel che succede nel mondo.

Diamo ogni dovuta attenzione al lapidario commento lasciato cadere dal presidente della Repubblica Napolitano durante la sua visita a Bruxelles in merito al «pasticcio» Polverini - Formigoni.

Oppure restiamo colpiti dall’imbarazzato richiamo per consultazioni del nostro ambasciatore affinché chiarisca i suoi rapporti con l’ex senatore Di Girolamo. Ma finiamo col dare per scontato ciò che si è passato nei colloqui che il Presidente della Repubblica ha avuto con i vertici dell’Unione Europea, della Commissione e del Parlamento dove si giocano le sorti non di questa o quella candidatura regionale e provinciale ma del futuro dell’intera Europa. Eppure le parole pronunciate da Napolitano a Bruxelles sono di quelle che ormai si sentono raramente.

Che l’avvenire del nostro continente dipenda dalla capacità degli Stati europei di dotarsi di istituzioni comuni in grado di prendere decisioni di portata generale e che l’interesse di ogni singolo Paese vada visto attraverso quello dell’Unione nel suo complesso era, sino a qualche anno fa, quasi un luogo comune. Non sempre quelli che pronunciavano simili affermazioni ci credevano fino in fondo, molte riserve mentali, molti latenti scetticismi si nascondevano dietro la retorica europeista dei nostri politici e delle classi dirigenti. Ma, tutto sommato, quella retorica era anche il segno che gli ideali ispiratori della costruzione europea erano ormai talmente accettati che, a ribadirli, si dava prova, più che di talento politico, di buona educazione. Poi è successo quello che è successo. Prima sono stati i referendum in alcuni Paesi europei sul progetto di costituzione e sul Trattato di Lisbona che hanno rivelato la frattura esistente tra le ambizioni europeiste e il sentimento di certe opinioni pubbliche. Poi è sopravvenuta la crisi economica e finanziaria che ha indotto i governi a dare priorità agli affari di casa loro e se ne è vista una conseguenza quando quegli stessi governi hanno collocato ai vertici delle Istituzioni comuni, nella difficile fase in cui la nuova dirigenza si alterna a quella vecchia, delle personalità scelte forse più per i loro limiti che per le loro virtù, come il belga Von Rompuy (che sa bene come sopravvivere nel suo Paese tra etnie litigiose) o l’inglese Catherine Ashton che costituisce ancora un’incognita per tutti.

A loro, come al presidente della Commissione Barroso e al presidente del Parlamento Europeo Buzek, Napolitano ha ripetuto con forza che bisogna far funzionare le istituzioni quali esse sono, senza pensare a nuovi trattati o a modifiche che, anziché perfezionarle, rischierebbero di farle naufragare del tutto, ma ancor più senza permettere che esse vengano aggirate da intese dirette tra alcuni Stati nazionali che agiscono in base a loro logiche settoriali e contingenti. E l’allusione ai contatti riservati - ma neppur tanto - tra alcuni partner su come pilotare la barca europea tra le secche della crisi non poteva essere più evidente.

Mai come adesso, infatti, si ha la sensazione della scomparsa di un’Europa protagonista della scena politica ed economica mondiale, nel silenzio degli stessi europei e tra i sorrisi di chi, in America soprattutto ma anche altrove, all’Europa ha sempre voluto credere poco. Non si tratta solo della riluttanza ad assumere chiare posizioni di sostegno in ordine alla crisi della Grecia per timore delle reazioni che ciò può suscitare nella propria opinione pubblica, si tratta anche dell’assenza di una strategia e perfino dello studio di una possibile strategia nei confronti della Cina, o dei rapporti transatlantici, o della Russia, in un momento di incertezza e di riassetto globale dei rapporti internazionali. Sulla copertina dell’ultimo Time Magazine figura un globo terracqueo nel quale l’Europa addirittura non c’è e dove il mare ne ha preso il posto.

Ha ragione il presidente Napolitano quando impiega un linguaggio che ricorda quello dei tempi eroici della costruzione dell’Unione. Egli ne conosce bene le possibilità e i meccanismi, anche per essere stato per cinque anni parlamentare europeo ed è proprio al Parlamento che con maggior vigore ha fatto appello perché reagisca al ritorno di striscianti nazionalismi e tragga dai poteri che gli sono propri quegli impulsi di innovazione e di progresso unitario e democratico che tutti i governi, non escluso il nostro, sembrano incapaci di produrre.

da lastampa.it
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« Risposta #32 inserito:: Marzo 09, 2010, 10:58:32 pm »

9/3/2010

Obama si dimentica il Giappone

   
BORIS BIANCHERI


Dei Paesi che sono stati i grandi protagonisti della scena mondiale nell’arco di più di mezzo secolo, il Giappone è per molti aspetti quello più singolare: la sua economia ha rivaleggiato per innovazione e ritmo di sviluppo con quella americana, i suoi prodotti tecnologici e le sue auto hanno cambiato il gusto e le abitudini dei consumatori, il sushi domina le mense dei giovani e perfino la letteratura giapponese moderna, da Kawabata a Banana Yoshimoto, ha invaso le vetrine delle librerie di ogni continente. Il Giappone ha avuto il più basso tasso di disoccupazione e il più alto livello di pace sociale del mondo industrializzato e il suo prodotto lordo è ancora, alla fine del 2009, il maggiore in assoluto dopo quello degli Stati Uniti.

Eppure, da qualche tempo in qua, sul Giappone sembrano essersi spenti i riflettori. Nei grandi disegni multipolari che Barack Obama ha proposto al mondo, il Giappone non sembra avere un posto particolare. Nei vertici politici ed economici internazionali, nei vari G8 e G20 che si susseguono, raramente la posizione giapponese si fa sentire e ancor più raramente i grandi mezzi di informazione sembrano interessati a farsene eco.

Quando Obama ha fatto il suo viaggio in Asia nello scorso autunno, ci siamo chiesti tutti se la sua visita in Cina avesse segnato un punto a suo favore o se fosse stata un'occasione perduta. Ma della visita fatta allora in Giappone non si è quasi parlato, se non per i dissensi sulla base americana di Okinawa e perché il Presidente americano, a differenza di suoi predecessori, non ha fatto una tappa di omaggio a Hiroshima. E neppure a Copenaghen, dove le posizioni americane, cinesi, russe ed europee si sono confrontate apertamente, è emersa una chiara posizione giapponese.

Sono passati 40 anni, ma sembrano passati secoli, da quando Kissinger intuì che se non si fosse associato più strettamente il Giappone al binomio America/Europa attuato con la Nato, la partita con l'Unione Sovietica non si sarebbe vinta. Fu creata allora, e Gianni Agnelli fu tra i fondatori, la Commissione Trilaterale, quella singolare istituzione, a lungo e ferocemente odiata dai no global, dove la politica, gli affari e la cultura di tre mondi si incontrano attraverso personalità di fama e di potere. Ma cosa fa sì che oggi, invece, del Giappone si parli poco quando si pensa agli equilibri globali, infinitamente meno che della Cina, non solo, ma meno anche dell'India o del Brasile, ai quali pure il Giappone è finanziariamente e industrialmente tanto superiore?

Forse la risposta è che, mentre in questi ultimi venti anni il mondo è venuto trasformandosi, il Giappone è rimasto simile a sé stesso. La globalizzazione gli ha offerto l'opportunità di moltiplicare la diffusione dei suoi prodotti e delle sue tecnologie, ma non ha cambiato il suo animo. Parve che la nuova maggioranza di governo, che dopo essere stata dei liberali per 40 anni è passata con le elezioni dell'estate 2009 al Partito Democratico, avrebbe segnato un rinnovamento complessivo del Paese. Ebbene, quella maggioranza è già in difficoltà. Vecchie abitudini e anche vecchi mali riappaiono, figure come quelle del premier Hatoyama o del brillante Segretario Generale del partito Ozawa, sino a poco fa estremamente popolari, già sembrano appannate, mentre la burocrazia resta fermamente in sella. Un certo nepotismo, certe connessioni tra affari e politica, antichi difetti del sistema, riemergono anche nel Partito Democratico ora al potere. E perfino l'inamovibilità del posto di lavoro, che è stata sempre la chiave del modello giapponese, rivela i suoi lati deboli perché lo rende impermeabile al ricambio e all'arrivo dall'esterno di forze fresche e innovative. La colossale disavventura della Toyota - un vero nome/simbolo dell'industria giapponese - costretta a richiamare più di due milioni di veicoli dal mercato americano per difetti ai freni e il modo incerto e goffo in cui quella disavventura è stata presentata al pubblico, sono il frutto anche di un apparato industriale che più che guardare a ciò che di nuovo succede in giro preferisce guardare al suo proprio ombelico. E se proprio deve guardar fuori, volge gli occhi verso la Cina.

Sono mali che affliggono anche altri Paesi e altri continenti. Così i vecchi rapporti privilegiati finiscono. Che la distrazione con cui Obama tratta il Giappone, quasi dimenticando di avere in lui un potenziale partner della sua politica asiatica, e la distrazione con cui salta i suoi appuntamenti europei abbiano qualcosa in comune?

da lastampa.it
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« Risposta #33 inserito:: Marzo 27, 2010, 04:56:51 pm »

27/3/2010

Ma Usa e Russia siglano il disarmo
   
BORIS BIANCHERI


Si chiude una lunga vicenda con l’annuncio dell’accordo raggiunto tra Stati Uniti e Russia per un’ulteriore riduzione delle armi strategiche. Da tempo l’accordo era scaduto: disciplinava questa materia e stabiliva in 2200 per parte le testate nucleari consentite.

E già prima della sua scadenza erano cominciati negoziati ufficiosi tra russi e americani per il suo rinnovo. Obama e Medvedev ne avevano parlato insieme a Londra esattamente un anno fa. Quel colloquio aveva fatto intravedere la possibilità che un nuovo accordo strategico si potesse raggiungere prima che quello vecchio giungesse alla scadenza nel novembre scorso. Poi le cose parvero complicarsi e il clima complessivo tra i due Paesi restò variabile, malgrado il noto gesto distensivo compiuto da Washington in materia di difesa antimissili che, nelle intenzioni, doveva essere il segnale di «reset» nelle relazioni russo-americane.

Ora, in un momento particolarmente significativo sul piano interno per il presidente Obama, le cose si sono sbloccate ed è stata perfino annunciata la data precisa della firma che avverrà a Praga l’8 aprile prossimo. L’intesa sulla data sembra esser stata raggiunta in una telefonata intercorsa direttamente ieri tra Obama e Medvedev. Non soltanto l’equilibrio delle armi strategiche viene prorogato, ma il numero delle testate è ulteriormente ridotto e portato da 2200 a circa 1500 per parte. Se si pensa che nella fase terminale della Guerra Fredda gli americani detenevano circa 12 mila testate nucleari e i russi un paio di migliaia di meno, si vede quali drastiche riduzioni siano state compiute negli arsenali strategici in questi vent’anni.

Val la pena di aggiungere che l’accordo annunciato ieri - al cui raggiungimento la signora Clinton non è probabilmente stata estranea, nella visita a Mosca di pochi giorni fa - pur avendo comportato sacrifici da parte americana soprattutto riguardo la regolamentazione dei controlli, con il tempo avrà delle ripercussioni positive per gli Stati Uniti. Si tratta del versante della spesa, che costituisce al momento una delle maggiori preoccupazioni della Casa Bianca. Quale ne sia l’incidenza effettiva sul bilancio, è un fatto che la riduzione negoziata con il solo altro grande Paese nucleare al mondo può produrre benefici, senza compromettere in alcun modo la sicurezza del Paese e dei suoi alleati.

Per Obama è senza dubbio un traguardo importante. Dall’inizio della sua presidenza, si tratta infatti del primo significativo successo ottenuto in materia di politica estera e del primo momento in cui la teoria del dialogo e dell’amicizia universale da lui persuasivamente annunciata trova una concreta realizzazione. La trova, per di più, su un tema - quello dell’armamento nucleare - che tocca corde sensibili nelle opinioni pubbliche in grandissima parte del globo e che ha dunque un carattere che va ben oltre il fatto bilaterale, pur tutt’altro che irrilevante. Assume un valore quasi simbolico e globale. E’ molto probabile che l’accordo che verrà firmato a Praga dia lo spunto a una enunciazione più ampia e completa della politica nucleare complessiva da parte di questa presidenza, di cui a Washington si parla già da qualche tempo. E’ infatti prassi usuale che un presidente americano, nel corso del suo mandato, si pronunci sui princìpi generali che regolano la strategia nucleare del Paese e su quali siano le circostanze nelle quali possa farsi ricorso all’impiego dell’arma nucleare. A questo riguardo si era espresso più volte e non sempre in modo lineare e coerente. Parrebbe del tutto in linea con la sua visione politica, se anche Obama tracciasse la filosofia che illustra e giustifica in termini globali il possesso di quest’arma e i criteri del suo impiego. Tanto più che il tema nucleare è al centro di quelli che, al momento attuale, sono forse i due problemi più caldi del pianeta, l’Iran e la Corea del Nord: sull’uno e sull’altro è necessaria una convergenza internazionale di cui anche la Russia è un elemento essenziale. Una solenne riunione internazionale, da tenersi su questa materia in un futuro non lontano a Washington, della quale qualcuno fa cenno, potrebbe avere proprio questo significato.

da lastampa.it
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« Risposta #34 inserito:: Aprile 09, 2010, 11:29:49 am »

9/4/2010

Francia e Italia convergenze possibili

BORIS BIANCHERI

Nelle dorate stanze dell’Eliseo si incontreranno oggi il presidente francese Sarkozy, il premier Berlusconi, un bel numero di ministri e molte alte personalità dell’industria e della finanza dei due Paesi, nel quadro dell’annuale incontro al vertice tra Italia e Francia.
Se, anziché ora, l’incontro si fosse tenuto qualche mese fa, si sarebbero seduti uno di fronte all’altro un Sarkozy ben saldo in sella e un Berlusconi in difficoltà, assediato da mille pettegolezzi sia di color giallo sia di color rosa. Oggi, dopo le elezioni regionali che si sono tenute in entrambi i Paesi, le posizioni sembrano essersi invertite. Il governo Berlusconi ha davanti a sé un triennio di relativa stabilità e si accinge ad affrontare con ottimismo le battaglie per le riforme. Il governo di Sarkozy non ha completato le sue e ha visto un forte calo di consensi nel suo elettorato. Quanto ai pettegolezzi che per molti mesi hanno assediato il nostro premier, ora è la volta della prima Signora di Francia e dell’intero Eliseo a essere investito da una piccola bufera gialla e rosa. Un punto di forza, tuttavia, accomuna i due presidenti: la confusione e l’assenza di una chiara leadership nelle opposizioni.

In questa fase di crisi e di equilibri in trasformazione su scala mondiale un incontro approfondito che porti a convergenza di vedute tra Italia e Francia è quanto mai opportuno. Il tema genericamente assegnato a questo vertice italo-francese è il tema della sicurezza; ma sicurezza è una parola che ha molte declinazioni: sicurezza vera e propria e politica europea di difesa, naturalmente, ma anche sicurezza economica, sicurezza energetica, sicurezza ambientale, e anche sicurezza a fronte delle sfide che ci confrontano sul piano del terrorismo e del radicalismo religioso. Sicurezza poi, o per meglio dire certezza, va cercata nel percorso politico dell’Europa. La crisi aperta dall’insolvenza greca ha posto, come si è visto, un problema finanziario che riguarda non solo la Grecia e gli altri Paesi maggiormente indebitati ma tutta Eurolandia. Il pacchetto di sostegno alla Grecia messo faticosamente insieme con molte riserve il 25 marzo scorso non pare aver persuaso i mercati, come l’ultima scivolata dell’euro sembra indicare. In più, ha portato allo scoperto un serio problema politico: l’intesa franco-tedesca, che è stata storicamente al centro della costruzione europea e che è restata sempre ben salda anche dopo la fine della guerra fredda, ha avuto, proprio sul tema della Grecia, dell’euro e della sottostante disciplina economica, una visibile incrinatura. Ha messo infatti in luce uno stato d’animo di sospetto da parte dell’opinione pubblica tedesca nei confronti dell’impegno europeo di cui non si aveva nessuna percezione e che potrebbe avere conseguenze non trascurabili in futuro. Sarkozy è stato il primo a registrarlo nei suoi ripetuti colloqui con la signora Merkel.

La ricerca di convergenze tra Italia e Francia sui temi europei diventa dunque ancor più necessaria, tanto più in previsione della possibile vittoria elettorale di David Cameron nelle future elezioni inglesi, che già suscita nei partner continentali il moderato allarme che si accompagna sempre all’insediamento di un governo conservatore nel parlamento di Westminster.

Sono realizzabili queste convergenze? Né Sarkozy né Berlusconi sono inclini all’astrazione e non possono non sentire l’importanza
dell’anello italo-francese in un’Europa in perdita di velocità e di coesione.

Che gli interessi che legano i due Paesi siano vicini sul piano concreto lo dimostra, oltre alla presenza di ben otto ministri per parte, il numero e il livello delle personalità del mondo economico che, anche quest’anno, si riuniscono nel Foro di Dialogo tra imprenditori che precede e si accompagna al vertice politico. Come si addice a questo genere di incontri, qui i temi sono settoriali e chiaramente indicati. Uno è quello attualissimo delle «tecnologie verdi», che mirano al miglioramento dell’efficienza energetica, alla de-carbonizzazione e allo sviluppo di nuove tecnologie: un campo in cui sono ipotizzabili intese regolatorie e industriali tra Italia e Francia che proseguano quelle già intervenute in materia nucleare. Un altro tema è quello del Mediterraneo, un tema giustamente caro ai francesi e particolarmente a Sarkozy che lanciò un paio d’anni fa una Unione Mediterranea, poi più appropriatamente chiamata Unione per il Mediterraneo, tra i 27 Paesi dell’Ue e 16 Paesi rivieraschi. E’ un fatto che, mentre i rapporti tra l’Europa storica e l’Europa orientale si sono sviluppati e poi concretizzati nell’allargamento, il rapporto privilegiato con l’area mediterranea lanciato quindici anni fa a Barcellona ha stentato a decollare. Saranno la collaborazione finanziaria e industriale e l’armonizzazione normativa, di cui si parlerà a Parigi, a riprenderne le fila.

Un incontro importante, dunque, quello di domani. Dato che tanto si cita da noi il «semi-presidenzialismo alla francese» come un possibile modello di riforma costituzionale, può darsi che Berlusconi sia più interessato di prima a vederlo alla prova nel suo interlocutore di Parigi: ma non deve illudersi, davanti a sé avrà Le Président e non un Semi-Presidente.

da lastampa.it
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« Risposta #35 inserito:: Maggio 11, 2010, 06:12:20 pm »

11/5/2010

Il terzo uomo? Che noia

BORIS BIANCHERI

Se c’è un’esigenza che si impone su tutte le altre nell’attuale momento politico inglese, è quella di far presto. Sono passati appena tre giorni da quando si è saputo il risultato delle elezioni tenute venerdì scorso.

Si tratta di un risultato, come sappiamo, che non soltanto ha messo fine alla supremazia laburista che durava da tredici anni ma che assegna al piccolo partito liberaldemocratico un ruolo chiave nella formazione di qualsiasi governo - e tutti i leader dei partiti in gioco hanno affermato che un accordo che permetta la formazione di una maggioranza va trovato immediatamente: se non nel giro di 24 ore, come aveva affermato ieri Nick Clegg, al massimo entro due o tre giorni. E va detto che è uno dei meriti della classe politica britannica, quando l’opinione pubblica interna e le circostanze esterne lo impongono, di saper agire rapidamente. Chi scrive ricorda per esserne stato direttamente testimone quando la signora Thatcher divenne improvvisamente impopolare per aver inventato una tassa di importo eguale per tutti i cittadini e fu destituita in una riunione durata poche ore dalla carica di presidente del suo partito e da quella di primo ministro che deteneva entrambe da dodici anni.

Oggi, sia il conservatore David Cameron che il liberaldemocratico Clegg hanno capito che gli inglesi sono già stanchi di politica: la campagna elettorale è stata lunga e, fino a un certo momento, perfino elettrizzante, con quel Nick Clegg così abile a spiazzare gli avversari nei confronti televisivi; ma alla fine inconcludente, perché invece di indicare un vincitore - come è avvenuto sempre in Gran Bretagna - ne ha indicato uno e mezzo. Ora è tempo di tornare a lavorare e, per il governo, quale esso sia, di mettersi a governare. Anche i mercati sono nervosi e la situazione economica e finanziaria del Paese non consente che si indugi ulteriormente.

Se i conservatori, che hanno la maggioranza relativa, e i liberaldemocratici, che sono l’ago della bilancia, chiuderanno effettivamente il negoziato nel corso di una notte, o anche se ci vorrà una notte o due in più, non sarà stata cosa da poco. A noi del continente, abituati a negoziati che durano mesi perfino tra le correnti interne di uno stesso partito, sembra quasi inverosimile. Perché le divergenze dei programmi dei conservatori e dei lib-dem sono tutt’altro che irrilevanti. Intanto vi è l’esigenza, che per i lib-dem è in qualche modo esistenziale, di trovare un’intesa di massima su una modifica della legge elettorale attuale, che premia i due grandi partiti tradizionali, conservatori e laburisti, ciascuno fortemente radicato su specifiche aree del territorio, e punisce i liberali che hanno consensi trasversali diffusi un poco ovunque ma relativamente minoritari. Modificare in poche ore una legge elettorale non è cosa da nulla: si pensa quindi a qualche formula di compromesso, come quella del cosiddetto «voto alternativo» dove gli elettori potrebbero elencare più di un candidato in ordine di preferenza e vincerebbe chi ha più del 50% dei consensi. Ma i lib-dem mettono in discussione anche la facoltà del primo ministro, che è tradizionale nell’ordinamento britannico, di ricorrere a suo piacere a delle elezioni anticipate. E ci sono poi divergenze su una riforma dell’educazione e su modifiche del sistema di tassazione vigente. Come si vede, non cose da poco.

Su un punto che era stato ampiamente dibattuto in campagna elettorale, cioè quello dell’atteggiamento della Gran Bretagna verso l’Europa, un punto sul quale la posizione liberale si differenzia nettamente da quella storicamente scettica e negativa dei conservatori, a facilitare le cose è stato il laburista Gordon Brown. Pur essendo il suo un governo ormai in carica solo per gli affari correnti, Brown è stato costretto dal vorticoso negoziato finale sul piano anti-crisi europeo a prendere anch’esso posizione. Ed è stato come s’è visto nettamente negativo rispetto a qualsiasi intervento della sterlina a soccorso dell’euro. Cameron, consultato, si era espresso in questo senso. Clegg non si è rallegrato, ma per lui è un problema di meno.

Siamo dunque alle ultime battute. Colui che può negoziare su due fronti, come può fare Clegg, ha di solito interesse a prolungare il negoziato per accrescere il suo peso decisionale. Ma la situazione economica e gli umori dell’elettorato non consentono troppe dilazioni. Gli elettori, soprattutto, bisogna tenerseli buoni. Chissà che un governo come quello di coalizione ipotizzato, poco britannico di natura e poco omogeneo di sostanza, non finisca, magari tra un anno o giù di lì, con delle nuove elezioni.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7333&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #36 inserito:: Giugno 30, 2010, 10:19:16 pm »

30/6/2010

Kirghizistan, la democrazia all'esame delle etnie
   
BORIS BIANCHERI

Stalin, quei confini dei Paesi dell'Asia centrale, li aveva disegnati apposta in modo da non corrispondere a entità nazionali omogenee e unitarie. Aveva fatto la stessa cosa anche in Europa: nulla di meglio che mescolare etnie, lingue e culture in una singola repubblica per evitare che poi quella repubblica rivendichi la sovranità e l'indipendenza sfidando la compattezza e la solidità dell'intera Unione Sovietica. Aveva disegnato un'Ucraina dove nessun cittadino capiva allora (e non capisce ancora adesso) cosa esattamente «ucraino» voglia dire, o una Lettonia dove per confondere le idee ai suoi abitanti aveva forzosamente inserito centinaia di migliaia di russi che del lettone non avrebbero mai imparato neanche una parola. Poi l'Unione Sovietica è crollata e quei confini sono diventati confini di Stati veri e propri. E con la scomparsa di un regime totalitario centrale e la creazione di Stati indipendenti dove si affastellano culture diverse si affievolisce anche la capacità di mantenere l'ordine interno. Le repubbliche ex sovietiche dell'Asia centrale sono così in condizioni di irrequietudine semi-permanente.

L'ultimo esempio ci viene dai tragici avvenimenti del Kirghizistan, dove tra i cittadini di etnia uzbeka vi sono stati circa duecento morti mentre decine di migliaia di altri sono fuggiti nel vicino Uzbekistan per sottrarsi alle violenze inflitte loro dalla maggioranza kirghisa, al punto che lo stesso Uzbekistan ha deciso di chiudere le sue frontiere perché non è in grado di dare accoglienza a nuovi afflussi di rifugiati.

I russi, che un tempo erano i padroni, si sono guardati bene dall'intervenire per aiutare a sedare i disordini, ben sapendo che chi interviene una volta sarà costretto a intervenire di nuovo in futuro. Ed è sufficiente prendere in mano un atlante geopolitico per rendersi conto di quale mescolanza di etnie vi sia in quelle cinque Repubbliche, tra uzbeki, tagiki, turkmeni, kazaki e kirghisi, tra maggioranze di lingue altaiche e minoranze di lingue iraniche, tra popolazioni stanziali e popolazioni di tradizioni nomadi e quindi inclini alla mobilità. Ancor minore desiderio dei russi di mettere mano in quell'intrico inquieto hanno avuto gli occidentali, già sufficientemente impelagati in Afghanistan per cercare altri problemi da quelle parti.

Le violenze nel Kighizistan, a quanto sembra, si sono arrestate solo perché buona parte delle potenziali vittime è fuggita via e si accalca in baraccopoli provvisorie destinate a diventare definitive. Sul piano politico, il Kirghizistan non ha alle spalle degli anni tranquilli, come d'altronde non ne hanno avuti i suoi vicini. Due uomini imperiosi e autocratici si sono succeduti al comando nella capitale Bishkek: il primo, Askor Akayev, era un erede diretto della burocrazia sovietica e venne rovesciato nel 2005 da Bakiyev, che si rivelò tuttavia non meno nepotista e autoritario di lui. La costituzione dello Stato è stata modificata cinque volte in un ventennio e nell'aprile scorso, inopinatamente, in quel Paese di uomini forti una donna ha preso il potere. Roza Otumbayeva, già ministro degli Esteri nel governo del suo predecessore, è temporaneamente a capo di un governo di transizione che è al lavoro per modificare una volta di più la costituzione del Kirghizistan e di avvicinare il Paese ai modelli di una vera democrazia. Un passo storico è stato il referendum con cui il Kirghizistan ha approvato a schiacciante maggioranza (90,6% dei voti) la nuova costituzione che introduce il principio di democrazia parlamentare. C’erano dubbi sull’opportunità di tenere una consultazione popolare a breve distanza da disordini sanguinosi e in una situazione incerta di ordine pubblico, si temeva un boicottaggio delle urne e l’esito non era scontato invece è stato un successo personale per la Otumbayeva.

L'idea di introdurre in Asia Centrale una democrazia parlamentare si può solo condividere augurando buona fortuna. Purtroppo la storia recente ci dimostra che, mentre i principi della democrazia parlamentare possono regolare gli squilibri politici e assicurare l'alternanza tra le opinioni e le ideologie che coesistono in una comunità, non possono da soli comporre le rivalità e gli odi che dividono una etnia dall'altra o una fede religiosa dall'altra. Perché le idee politiche sono mutevoli e chi è in minoranza può domani diventare maggioranza. Ma le etnie e le fedi non lo sono e un kirghizo non diventa usbeko e uno sciita non diventa sunnita. Non bastano democratiche elezioni per assicurare tra etnie diverse l'equilibrio e la pacifica convivenza. Tra Uzbekistan e Kirghizistan vi sono state in venti anni tre modifiche di frontiera: evidentemente non sono bastate e non è detto che non ve ne saranno altre in futuro.

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« Risposta #37 inserito:: Luglio 20, 2010, 03:50:46 pm »

20/7/2010

Quale ruolo per la diplomazia Ue
   
BORIS BIANCHERI

Subito dopo l’estate - così ci viene assicurato - entrerà in funzione il nuovo servizio diplomatico europeo. Si chiamerà con un acronimo e ognuno lo pronuncerà nella propria lingua: in italiano Seae che sta per Servizio Europeo di Azione Esterna. Come suono non è particolarmente attraente, ma gli acronimi scorbutici nelle relazioni internazionali non mancano. Si è trattato di una decisione sofferta, giunta alla fine di un lungo negoziato tra la Commissione, il Consiglio europeo, il Parlamento di Strasburgo e, naturalmente, Lady Ashton, la baronessa britannica nominata Alto Rappresentante per la Politica Estera e di Sicurezza Comune dopo le ratifiche del trattato di Lisbona. Come sempre, la materia del contendere stava nella ripartizione dei poteri tra i vari soggetti, cioè tra i vari organi dell’Unione Europea: come si divideranno i compiti tra la Commissione e il nuovo servizio, soprattutto per quella importante parte di attività della Commissione che attiene allo sviluppo e agli aiuti umanitari? Quale controllo sull’Alto Rappresentante e sul servizio diplomatico compete al Parlamento? E da chi dipenderà il tutto sul piano amministrativo? Dietro la battaglia che ognuno fa per la difesa del proprio ruolo e del proprio potere ci sono anche questioni di principio: la Commissione è organo sovrannazionale e così è il Parlamento; il Consiglio, invece, al quale la Signora Ashton riferisce, è composto da Stati sovrani. È dunque in gioco, indirettamente, anche una posta della lunga partita europea tra integrazione e sovranità nazionale.

La decisione raggiunta è piuttosto tortuosa ed è il frutto di diversi compromessi: in linea di massima, gli aspetti politici dell’azione esterna spettano alla signora Ashton e alla sua diplomazia, mentre gli strumenti finanziari saranno gestiti dalla Commissione e al Seae spetterà solo la loro programmazione strategica, con l’eccezione, per di più, di quelli destinati all’aiuto allo sviluppo. Delle decisioni strategiche più importanti, poi, l’Alto Rappresentante informerà doverosamente il Parlamento.

Nessuno si aspettava che la creazione di una vera e propria diplomazia europea e una definizione dei suoi ruoli fosse cosa facile e può darsi che alla fine il compromesso funzioni. Certo, quando l’operazione sarà completata, non sarà piccola cosa. Tra 6000 e 7000 dipendenti, poco più di metà forniti dalle istituzioni comunitarie e il resto dai 27 Stati membri. Buona parte lavorerà a Bruxelles e il resto in 136 rappresentanze all’estero, con un bilancio complessivo di circa 3 miliardi di euro.

Se l’Europa deve avere una Politica Estera e di Sicurezza Comune, la creazione di un servizio diplomatico che la promuova e la sostenga ne è il naturale corollario. Nei mesi passati da quando è stata nominata Alto Rappresentante, la signora Ashton non si è occupata praticamente d’altro. Ma c’è da chiedersi se sia davvero necessario procedere immediatamente e con la massima urgenza alla messa a punto di una struttura così complessa e costosa in un momento in cui i bilanci nazionali sono sottoposti a tagli draconiani: i diplomatici italiani, come si sa, hanno già proclamato uno sciopero per denunciare le drammatiche riduzioni della nostra diplomazia in termini di organici e di risorse. Nel momento in cui le opinioni pubbliche vedono quanto sforzo sia costato all’Europa, di fronte alla crisi, conciliare degli interessi nazionali diversi solo al fine di difendere l’esistente, cioè l’euro e il patto di stabilità, lasciando ben poco spazio alle speranze di imminenti progressi di una politica estera integrata; nel momento in cui tutti vedono che sui grandi temi che l’Unione Europea ha di fronte, come la politica verso la Russia, la Turchia o gli stessi Stati Uniti d’America, sono più apparenti le divergenze che le sintonie tra i partner; in una fase, insomma, in cui per procedere nell’integrazione sarebbe più che mai necessario avere concretezza e senso della realtà, è davvero indispensabile mettere in moto un grande strumento prima che ne sia chiaramente visibile il ruolo e la funzione?

La macchina comunitaria non è stata immune in passato da gigantismi burocratici sui quali poi si scontrano il prestigio e le ambizioni nazionali: già si fanno scommesse su chi sarà il Segretario Generale della nuova diplomazia europea: probabilmente - udite! udite! - un francese, l’ambasciatore Vimont, affiancato non a caso da una tedesca. Sarebbe un errore se la prima creatura nata dal Trattato di Lisbona fosse non l’embrione di una reale, efficace e svelta azione esterna comune ma solo una pesante macchina amministrativa frutto di intese sottobanco e in cerca di una propria identità.

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« Risposta #38 inserito:: Luglio 30, 2010, 09:34:28 am »

30/7/2010

Cameron, la promessa che vince

BORIS BIANCHERI


Con poche eccezioni, i venti che soffiano sui governi delle democrazie che chiamavamo un tempo occidentali - dall’Europa all’America al Giappone - sembrano carichi di nuvole minacciose. La popolarità di Obama è ai minimi e lo spettro delle elezioni di mezzo termine a novembre toglie il sonno alla maggioranza; lo stato di salute del governo di Sarkozy non è migliore e, in Germania, la signora Merkel perde ogni giorno un altro sostenitore; in Giappone, il governo Hatoyama, nato la scorsa estate, è già caduto e il suo successore Kan stenta a decollare; perfino in Italia non sentiamo più le cifre dei sondaggi dei mesi scorsi e non c’è giorno che da qualche pulpito non si levi un nuovo avvertimento.

Ma un’eccezione c’è ed è quella dell’Inghilterra. Uscito vincitore di misura dalle elezioni di maggio, il conservatore David Cameron ha avuto bisogno di un alleato, il Partito Liberaldemocratico di Nick Clegg, per avere la maggioranza ai Comuni, cosa che non era accaduta da mezzo secolo. Ma, da quel momento, il più giovane primo ministro che l’Inghilterra abbia avuto da 200 anni non ha perso tempo. Due formazioni politiche che partivano da programmi elettorali molto diversi hanno concordato un programma comune nel giro di due notti: una operazione per la quale in Italia non sarebbero bastati forse due anni. Un programma, per di più, tutt’altro che banale. In un discorso tenuto recentemente, Cameron ha detto che il suo obiettivo è quello di ridurre l’invadenza dello Stato e di «operare una drammatica redistribuzione del potere, togliendolo alla capitale e alla burocrazia e dandolo all’uomo e alla donna della strada».

Costretto dalla crisi economico-finanziaria a ridurre drasticamente il disavanzo di bilancio e a operare severi tagli alla spesa in ogni comparto, Cameron presenta questa operazione alla nazione non tanto come un inevitabile sacrificio per far fronte all'emergenza, come fanno i suoi colleghi europei, ma come una scelta: una liberazione dall’oppressione dello Stato e un ritorno alla libertà dei cittadini e delle imprese. I tagli delle spese nelle singole amministrazioni (circa 300 miliardi di euro in cinque anni) vanno dal 25% al 40% e anche oltre, per compensare alcuni settori, come la difesa, che non ne subiranno alcuno. Anche il servizio sanitario nazionale, la grande conquista degli anni Settanta e Ottanta, verrà colpito con un travaso di compiti e responsabilità, a scapito dei medici pubblici e a vantaggio dei medici generici privati. Saranno questi ultimi, dice Cameron, e non dei burocrati, a dire come e dove i pazienti dovranno essere curati.

Per molti aspetti, le riforme di Cameron si presentano come una rivoluzione paragonabile a quella operata dalla Thatcher trent’anni fa. Sarà soprattutto il settore pubblico a subirne le conseguenze, sia in termini di attribuzioni che di risorse e di posti di lavoro. Ed è da lì che si annunciano le resistenze più forti. Cameron si prepara a presentare la battaglia contro il sindacato del pubblico impiego e contro la burocrazia come una battaglia per la sopravvivenza del Paese.

Anche in politica estera, Cameron si muove con decisione e si esprime senza peli sulla lingua. All’Europa ha parlato con il previsto scetticismo e si è capito che l’euro è più lontano che mai. Ha affrontato Obama, forte delle relazioni privilegiate Usa-Gran Bretagna, senza farsi intimidire dalle sventure della Bp. Va in India con sei ministri e decine di operatori con l’idea di recuperare parte del prestigio e dell’influenza che l’Inghilterra vi ha storicamente avuto. Qui dice pubblicamente che il Pakistan esporta il terrore, deliziando gli indiani e irritando Karachi, ma firma anche un contratto di export di materiale militare per un miliardo di dollari.

Non sarà facile per lui stare a pari delle promesse. I suoi alleati liberaldemocratici mostrano qualche nervosismo di fronte al suo radicalismo; ma, a giudicare dai sondaggi, se Nick Clegg ebbe un momento di grande popolarità durante la campagna elettorale, ora la sta perdendo e quel che Clegg perde è Cameron che lo guadagna. A differenza di altri governanti europei, Cameron non ha i suoi avversari nel proprio schieramento né in un’opposizione laburista logora e in cerca di identità. I suoi avversari sono quelli che si è scelto lui: un programma che vuole ribaltare il rapporto tra pubblico e privato, un linguaggio senza mezzi termini e una visione forse illusoria di maggiore dignità del cittadino. Se perderà la scommessa, e non è detto che la perda, non sarà a causa di beghe di partito, ma per aver messo la sua meta troppo lontana dai comuni mortali.

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« Risposta #39 inserito:: Settembre 15, 2010, 09:11:31 am »

15/9/2010

Diplomazia europea la spartizione conta
   
BORIS BIANCHERI

La promessa che la Baronessa Ashton aveva fatto qualche mese fa, e cioè che il nuovo servizio diplomatico europeo creato dal Trattato di Lisbona, avrebbe cominciato ad entrare in funzione alla fine di questa estate, sta cominciando a prendere corpo malgrado gli inevitabili scetticismi e le rivalità che ne accompagnano la gestazione. Si era trattato in primo luogo di stabilire quali sarebbero stati i compiti precisi del Servizio, di cui l’Alto Rappresentante per la Politica Estera Europea è a capo, e un faticoso compromesso era stato raggiunto tra il Consiglio - vale a dire tra i paesi membri - la Commissione e il Parlamento di Strasburgo. Faticoso e, vorremmo aggiungere, anche un po’ precario, perché mentre il buon senso consiglia in genere di creare un organo solo quando sia ben chiara la funzione che esso deve svolgere, in questo caso l’organo, cioè il servizio diplomatico europeo, è stato definito in tutti i suoi dettagli, ma la funzione, cioè la politica estera che l’Unione europea intende realmente svolgere, deve ancora essere messa alla prova dei fatti. Come sappiamo, sotto l’impulso della crisi economica, l’Europa sta allargando le sue competenze istituzionali nell’area economico-finanziaria, soprattutto sotto il profilo della prevenzione e della vigilanza. C’è da sperare che altrettanto avvenga in ambito politico, preferibilmente senza che una grave crisi politica ne solleciti l’urgenza.

Ma una cosa è definire i dettagli di un organico della diplomazia europea e un’altra cosa è mettere i nomi sui singoli incarichi che quell’organico prevede. Perché si tratta non solo di trovare le persone che abbiano la capacità necessaria ma anche di spartire i posti tra funzionari che già lavorano nella Commissione e che passeranno nel nuovo Servizio e funzionari che giungono per l’occasione dai singoli paesi dell’Unione. E qui, come è facile immaginare, si scatena la battaglia tra Paesi membri, che ogni organizzazione multilaterale conosce, in cui ognuno cerca di far sì che delle posizioni di rilievo e di prestigio vengano assegnate a propri connazionali.

Il processo è ora in pieno svolgimento ed è prematuro fare un bilancio tra chi vince e chi perde; si possono, tutt’al più, azzardare alcune previsioni. Oltretutto, la Signora Ashton è un personaggio difficile e non sembra nutrire particolarissime simpatie per l’Europa meridionale. Il problema, al momento, è quello di spartire una diecina di posti dirigenziali nel servizio centrale, quelli di Segretario Generale, dei suoi Aggiunti e di sei Direttori Generali nonché di una trentina di posti di Capo Delegazione (per non dire ambasciatori) nelle capitali dei paesi non membri. A quel che si sente dire, all’italiano Ambasciatore Sequi potrebbe essere affidata la rappresentanza dell’Ue a Tirana. Sequi è un funzionario di prim’ordine che sino a poco tempo fa era inviato dell’Unione europea in Afghanistan, un incarico difficile che ha svolto egregiamente. Senza dubbio Tirana è un posto di rispetto per l’Italia, ma evidentemente non è Washington né Pechino e neppure Mosca o New Delhi. Se dovesse essere questa l’unica assegnazione all’Italia sarebbe francamente deludente. E anche per gli alti posti dirigenziali, molti scommettono su un Segretario Generale francese, l’Ambasciatore Vimont, su un Aggiunto tedesco e su un altro polacco. Con l’inglese Lady Ashton a capo dell’intero Servizio, la diplomazia europea verrebbe così in mano saldamente ai grandi paesi del Nord e del Centro Europa.

Si vedrà solo alla fine chi vince e chi perde a questo gioco di bussolotti, né vogliamo qui ingigantirne l’importanza. Ma se la politica estera europea prenderà davvero forma, sarà il Servizio di Azione Esterna a farsene carico. Una volta designata la struttura, essa si tramanderà nel tempo. Vorremmo essere certi che non solo i diplomatici della Farnesina ma anche la dirigenza politica italiana, che è sempre e in ogni occasione così sensibile alle spartizioni di potere sul piano interno, lo sia altrettanto anche sul piano internazionale e faccia quanto necessario per tutelare gli interessi del nostro Paese.

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« Risposta #40 inserito:: Settembre 27, 2010, 09:28:13 am »

27/9/2010

La crisi di chi governa non ha colore
   
BORIS BIANCHERI

Basta un rapido sguardo a quanto avviene nelle capitali di quella parte del mondo che per abitudine chiamiamo ancora «occidentale» - quello, per intenderci, che unisce il Nord America all’Europa e include il Giappone - per constatare che, ovunque, le forze politiche che si trovano da qualche tempo al potere sono ora in difficoltà e che il consenso interno che avevano nel 2009 si è molto ridotto o è scomparso del tutto nel 2010.

Il caso più evidente e più inquietante è quello degli Stati Uniti, dove un presidente eletto su un’onda di popolarità interna e internazionale straordinaria si accinge ad affrontare il 2 di novembre le elezioni di mezzo termine con il rischio tutt’altro che remoto di perdere la sua maggioranza in Congresso. E non parliamo del Giappone o della Gran Bretagna, dove coloro che governavano l’anno scorso sono già stati mandati a casa: a Tokyo siamo al terzo primo ministro in quindici mesi e, a Londra, il premier attuale non potrebbe essere più diverso, come personalità e come progetto politico, da quel Gordon Brown che occupava Downing Street fino a sei mesi fa.

Ma neanche Sarkozy può stare tranquillo: i sondaggi lo danno in continuo calo di consensi ed è visibile il suo affanno nel cercare di recuperarne una parte attraverso un mix politico di populismo all’interno, per venire incontro all’elettorato borghese (vedi le espulsioni dei rom), e di grandeur all’esterno (vedi il suo discorso alle Nazioni Unite), con un occhio particolare all’Africa francofona. Non è detto che la perdita di voti subita nelle regionali sia recuperabile con questi mezzi; e infatti l’opposizione socialista si rimbocca già le maniche. La stessa signora Merkel, che pure ha pilotato il suo Paese attraverso la crisi economica con più fermezza di altri, fa fatica a conservare unita la sua coalizione e anche per lei le elezioni del maggio scorso nel Nord Reno-Westfalia sono state un severo avvertimento.

E’ un panorama che ritroviamo quasi ovunque, nel Nord come nell’Est e nel Sud dell’Europa. Là dove è meno avvertibile, ciò è soprattutto perché non vi sono state elezioni nazionali o locali a metterlo in evidenza. Tale è il caso, per esempio, della Spagna o della Grecia, dove il calo di sostegno ai governi in carica è denunciato da uno stato di disagio generale dell’elettorato e dai sondaggi.

Il crescente scontento nei confronti di chi sta al potere non prende dovunque lo stesso colore: prende una tinta rossa o rosata in Francia ma prende il colore della destra xenofoba altrove, anche in paesi come la Svezia o l’Olanda che storicamente non avevano la xenofobia nel loro Dna. Quel che caratterizza questa tendenza è più la sfiducia nel presente che non una aspirazione progettuale futura. Tutto questo, d’altronde, si spiega. La crisi economica ha colpito soprattutto i Paesi dell’area c.d. occidentale dove ogni governo è stato costretto a prendere misure che colpiscono la spesa pubblica, le pensioni o i redditi individuali. Ed è qui che l’occupazione e la produzione hanno subito le flessioni più rilevanti. Che ciò crei uno stato diffuso di scontento non sorprende e che questo scontento prenda forme politiche non omogenee da un Paese all’altro è cosa anch’essa comprensibile.

C’era tuttavia, sino a non molto tempo fa, un’eccezione costituita dall’Italia. Fino all’inizio dell’estate, il governo Berlusconi, che pure al pari degli altri aveva dovuto reagire alla crisi e farne subire ai suoi elettori le conseguenze, non aveva registrato, né nelle prove elettorali né nei sondaggi, dei cali di popolarità realmente rilevanti. Era questa, e lo è ancora, una singolarità sulle cui cause profonde è più che legittimo interrogarsi. Tanto più che non può certo dirsi che essa sia dovuta all’inerzia dell’opposizione che invece, come ben sappiamo, ha sempre denunciato impetuosamente le fragilità politiche ed etiche del governo.

Tale anomalia si è comunque adesso inaspettatamente dissolta e anche il governo italiano, al pari degli altri, è entrato in una evidente fase di debolezza e forse di crisi. Se però siamo rientrati anche noi nella norma «occidentale» e abbiamo un governo in sofferenza, ciò è dovuto non già a una naturale reazione popolare quanto ad una diversa e tutt’altro che gloriosa specialità italiana: quella che raramente, dai tempi di Giulio Cesare fino a quelli di Prodi e di Berlusconi, in Italia i Capi vengono sconfitti dai loro nemici perché prima che ciò accada vengono traditi dai loro amici.

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« Risposta #41 inserito:: Ottobre 09, 2010, 03:54:38 pm »

9/10/2010

Ma Obama ha deluso
   
BORIS BIANCHERI

I giurati di Stoccolma hanno assegnato il Premio Nobel per la pace 2010 all’intellettuale cinese Liu Xiaobo, un reduce di Tienanmen, un attivista democratico che il governo del suo Paese ha condannato come sovversivo. Viene da ricordare la diversa scelta operata un anno fa, quando fu dato il Nobel per la pace a Barack Obama, premiando così qualcuno non per il suo passato ma per il suo futuro.

Non per un’azione svolta in favore della pace e della libertà ma per le sue intenzioni, nella speranza che il premiato la svolga in avvenire. E viene anche da chiedersi, a un anno di distanza da quel premio, se le aspettative siano state mantenute, quanto Obama sia effettivamente riuscito a fare per il dialogo, la sicurezza e la pace nel mondo.

Premesso che è meglio comunque premiare le buone intenzioni anziché quelle cattive, e senza tornare adesso su un dibattito che fece allora scorrere molto inchiostro, credo che sia difficile sostenere che qualcosa di profondamente significativo sia avvenuto nelle relazioni internazionali nel corso dell’ultimo anno e che la distensione e la pace tra i popoli abbiano fatto ultimamente grandi progressi. Soprattutto se si ricorda il consenso che la nomina di Obama suscitò nel novembre del 2008 negli Stati Uniti e lo straordinario entusiasmo che essa destò in ogni parte del mondo, le lacrime di gioia che sgorgarono allora dagli occhi di coloro che credevano che una nuova era di collaborazione e di dialogo stesse per aprirsi sulla terra.

Dobbiamo ammettere infatti che nelle principali aree di crisi internazionali, come la guerra in Afghanistan, il conflitto israelo-palestinese, il rischio nucleare iraniano, i massacri nel Darfur, la politica estera di Obama non ha sinora condotto a progressi decisivi. In Iraq, in realtà, si è avuto uno sviluppo positivo, non tanto nel grado di conflittualità interna quanto nel fatto che il controllo della sicurezza del territorio è passato dalle mani americane a quelle locali; ma va aggiunto che questa era una scadenza fissata da Bush e Obama si è limitato a mantenerla e rispettarla. Quanto al problema palestinese, abbiamo tutti visto con attenzione e rispetto l’impegno preso personalmente da Obama nel riaprire il tavolo negoziale tra Abu Mazen e Netanyahu, ma è prematuro azzardare previsioni circa il suo proseguimento e ancor più circa le sue conclusioni.

Se dai problemi settoriali passiamo a quelli generali, la speranza che l’età di Obama coincida con un salto di qualità sul tema del riscaldamento globale è a dir poco sospesa, da quanto abbiamo constatato a Copenhagen. Sul rischio nucleare, abbiamo visto l’accordo sulla riduzione delle testate tra Usa e Russia ma non l’avvio di un grande processo di denuclearizzazione generale. Cosa è accaduto dunque? Come mai la meravigliosa abilità dialettica di Obama si è poco tradotta in realtà a dispetto delle sue intenzioni?

Anzitutto perché è più facile enunciare intenzioni che dar loro forma concreta: lo vediamo ogni giorno dovunque. Ma c’è di più. C’è che la crisi economico-finanziaria che ha sconvolto il mondo ha prodotto conseguenze che colpiscono più duramente i Paesi ricchi, e gli Stati Uniti tra questi. L’azione di Washington si è dunque rivolta soprattutto ai problemi interni, nell’obiettivo di tenere attorno a sé il consenso necessario a continuare l’azione di governo.

C’è anche il fatto che la stessa crisi ha formato nelle opinioni pubbliche di molti Paesi la tendenza a difendersi dall’esterno e a dividersi al proprio interno, cioè esattamente l’opposto del sogno unitario e internazionalistico di cui Obama era il simbolo. Ne sono espressione i Tea Party in America, le spaccature in Belgio, i nuovi populismi in regioni che sembravano esserne immuni e via dicendo. Quando i cordoni della borsa si stringono ognuno guarda con più sospetto al suo vicino. C’è, a dirla in breve, il fatto che a Washington come anche altrove l’economia ha clamorosamente battuto negli ultimi tempi la politica.

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« Risposta #42 inserito:: Novembre 09, 2010, 06:08:35 pm »

9/11/2010

Obama, i motivi di un flop
   
BORIS BIANCHERI

L’infelice risultato ottenuto da Obama nel primo confronto elettorale dopo la grande vittoria del 2008 si presta ad infinite interpretazioni. E, senza dubbio, vi sono anche infinite ragioni alla base dell’insuccesso. Vi sono cause di carattere contingente e specifico, come il livello di disoccupazione, la gestione improvvisata delle prime fasi dell’inquinamento petrolifero del Golfo del Messico, una legge sanitaria percepita come costosa rispetto ai benefici che produce, solo per citarne alcune. Ve ne sono altre più profonde, che risalgono alla immensa attesa suscitata dalla figura e dalla personalità di Obama, assurte nell’immaginario popolare a una dimensione quasi miracolistica di fronte alla quale i risultati raggiunti sia nella gestione della crisi economica sia in quella degli affari internazionali, non possono che apparire deludenti. Quanto maggiore è l’aspettativa tanto maggiore è la delusione quando la si confronta con la realtà.

Nella conferenza stampa tenuta mercoledì nella East Room della Casa Bianca, Obama ha preso su di sé la responsabilità della pochezza dei risultati raggiunti e ha detto di voler far meglio in avvenire. Il meglio, ha lasciato intendere, significa instaurare un rapporto meno conflittuale con l’opposizione repubblicana. Ed è cosa evidente. Ma viene il dubbio che vi sia stata spesso già la premessa di una delusione nel modo in cui Obama e il suo staff hanno affrontato le difficili sfide che avevano dinanzi. Perché nel momento stesso in cui si poneva davanti a un problema, Obama lasciava intendere che non aveva difficoltà a risolverlo. Era la trasposizione nei fatti della formula «yes, we can», «sì, possiamo» che ha avuto nella campagna elettorale il successo che tutti sanno.

Si può prendere un esempio che non è forse significativo rispetto ai risultati del 2 novembre, perché non è tra i temi che hanno influenzato in modo decisivo i votanti, ma che sembra indicativo di una certa approssimazione con cui taluni problemi complessi sono stati affrontati da questa amministrazione. Penso al solenne avvio a Washington il 31 agosto scorso del negoziato per la composizione del conflitto israelo-palestinese. Obama ha voluto dare all’occasione la massima solennità: ha riunito i due principali interlocutori, Abu Mazen per i palestinesi e il primo ministro israeliano Netanyahu, si è fatto affiancare nella seduta inaugurale dal Re di Giordania e dal Presidente dell’Egitto per avvalorare con la loro autorevolezza l’importanza del negoziato, si è seduto al centro della tavola e ha dato avvio alle trattative. Non poteva ignorare la complessità del compito: è una questione su cui da 50 anni si tengono negoziati che restano senza conclusione o la cui conclusione resta disattesa. Stavolta, oltre ai problemi irrisolti del passato - la delimitazione dei confini di uno stato palestinese, il problema di Gerusalemme, la sorte dei rifugiati - c’era il problema specifico della scadenza del 26 settembre, termine della moratoria israeliana sulla costruzione di nuovi insediamenti nel West Bank, con l’esplicito rifiuto palestinese di negoziare alcunché ove tale moratoria non venisse prorogata. Tutti hanno pensato che almeno su questo punto pregiudiziale Obama avesse delineato un’ipotesi di compromesso. Non era così e infatti i negoziati si sono interrotti.

Non è la prima volta che ciò accade e non sarà l’ultima. Ma iniziare un processo che ha già un primo ostacolo così immediato e così visibile senza porsi l’interrogativo di come superarlo indica una fiducia e un ottimismo nella buona sorte che la realtà raramente giustifica.

Forse, su questo tema - come anche su altri - Obama dovrà ridimensionare le sue ambizioni. Anziché a una pace veloce definitiva e solenne, dovrà pensare a una pace lenta per gradi e per tappe, a uno status quo che si prolunga e migliora poco a poco nel tempo. Anziché «sì, possiamo» sarà costretto a dire «sì, proviamo». Quanto alla soluzione finale di questa lunga tragedia, ne ha detto bene i termini lo scrittore israeliano Amos Oz in un suo recente intervento pubblico a Roma; vi sono due modi di far finire una tragedia: quello di Shakespeare, dove il male è sconfitto, il bene trionfa ma la scena è coperta di sangue e tutti i personaggi sono morti; e invece quello di Cechov, dove i personaggi sono frustrati, sono arrabbiati e con il cuore a pezzi ma sono vivi. Potendo scegliere, ha detto, preferisce Cechov.

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« Risposta #43 inserito:: Novembre 18, 2010, 12:35:05 pm »

18/11/2010

Uno schiaffo a Obama sulle atomiche
   
BORIS BIANCHERI

E’ molto possibile che questo mese di novembre, che per Obama è cominciato con la dura sconfitta delle elezioni di mezzo termine ed è proseguito con una tournée asiatica in cui cinesi, coreani e perfino europei gli hanno dimostrato assai poca simpatia, finisca per lui anche peggio di come è cominciato. L’altolà che il senatore repubblicano Jon Kyl gli ha dato in merito alla ratifica del trattato Start firmato solennemente tra Stati Uniti e Russia a Praga nello scorso aprile non costituisce solo uno scacco diplomatico per il Presidente americano, dato che lui stesso aveva indicato tale ratifica come una priorità della sua agenda internazionale, ma lascia presagire quanto dura sarà la vita alla Casa Bianca nei mesi a venire. D’altronde, il futuro speaker repubblicano della Camera dei Rappresentanti, John Boehner, commentando con lacrime di gioia il risultato delle passate elezioni, lo aveva detto: questo non è un momento di festeggiare, è il momento di rimboccarsi le maniche e cominciare a lavorare seriamente. E il senatore Kyl si è rimboccato le maniche e ha fatto intendere che per ora di ratificare questo trattato non se ne parla e che se l’Amministrazione vuole avere il voto dei repubblicani, che è essenziale perché la maggioranza richiesta per la ratifica di un trattato è di due terzi, deve guadagnarsela dando delle contropartite.

Riassumiamo brevemente come stanno le cose. Il rinnovo del trattato Start che disciplina l’equilibrio delle armi strategiche tra Stati Uniti e Russia è stato tra i punti fermi della politica estera di Obama fin dall’inizio della sua presidenza.

Egli ne parlò con il presidente russo Medvedev a Londra pochi mesi dopo essere stato eletto, poi vi furono negoziati che proseguirono tra alti e bassi, fin quando nel marzo di quest’anno e prima che il vecchio trattato venisse a scadere le due parti annunciarono che avrebbero firmato un nuovo trattato che non solo prorogava il vecchio ma che riduceva ulteriormente le testate nucleari a 1500 per parte (ai tempi duri della Guerra fredda erano più di diecimila in ciascuno dei due Paesi).

Si trattava comunque, nella visione di Obama, solo di un altro passo su una lunga via destinata a portare a ulteriori riduzioni delle armi strategiche sia sul piano bilaterale sia sul piano mondiale, come poi si affermò con enfasi e solennità nella grande conferenza tenuta su questo tema a Washington nel maggio successivo. Una riduzione bilanciata e progressiva delle armi nucleari risponde infatti non soltanto alla visione globale che Obama ha sempre disegnato fin dalla sua campagna elettorale, ma risponde a quelle esigenze di contenimento della spesa che si sono fatte pressanti in questa fase della congiuntura economica e finanziaria mondiale.

Anche il trattato Start firmato a Praga conduce a economie sempre più rilevanti nel tempo. Il partito repubblicano non vi si è mai opposto pregiudizialmente. Ha tuttavia subordinato l’assenso alla sua ratifica all’accordo dell’Amministrazione democratica a destinare parte delle economie prodotte a un progressivo ammodernamento dell’apparato nucleare americano. Tutto ciò ha dato luogo a trattative di cui il senatore Kyl è stato il capofila e durante le quali sembra che l’amministrazione di Obama si sia spinta sino a concedere che una cifra supplementare dell’ordine di 80 miliardi di dollari possa essere destinata al settore della difesa nell’arco dei prossimi dieci anni.

La dichiarazione di Kyl secondo cui il nuovo trattato non può essere ratificato da un Senato ormai azzoppato e che se ne parlerà con calma a partire dall’anno venturo, può sembrare a prima vista solo una ulteriore forzatura in un lungo e aspro negoziato con il governo di Obama. E può darsi che in parte lo sia. Ma è anche un visibile schiaffo a Barack Obama, soprattutto perché fatta alla vigilia del vertice Nato che si terrà a Lisbona venerdì e sabato prossimi. Dopo non poche esitazioni, il presidente russo Medvedev aveva accettato l’invito a intervenire a quest’incontro proprio per aver modo di scambiare con Obama e con gli alleati europei delle idee su come allargare l’equilibrio strategico globale nel futuro. Apprende invece che, anziché andare avanti, c’è il rischio che l’America voglia andare indietro. E ha fatto sapere che il nuovo Start dovrà essere ratificato entro l’anno.

Gli ottimisti soffrono e i duri gongolano: sia i repubblicani a Washington sia anche coloro che a Mosca guardano con sospetto all’immagine del mondo amabile e sorridente disegnata da Obama. Un brutto novembre davvero, per lui.

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« Risposta #44 inserito:: Gennaio 04, 2011, 04:10:45 pm »

4/1/2011

Giappone, una crisi formato Italia

BORIS BIANCHERI


Una notizia che viene anticipata ripetutamente nel corso di vari mesi non è più una notizia: ma sta di fatto che con l’annuncio formale dei dati economici del terzo trimestre di quest’anno, la Cina ha superato il prodotto interno lordo del Giappone ed è ufficialmente la seconda potenza economica al mondo. La mente corre subito a questo nuovo gigante che pesa sull’economia, sugli equilibri internazionali e sulla nostra stessa vita. Pochi si chiedono invece cosa è accaduto al Giappone, che fu a lungo la vera sorpresa del pianeta, e sulle cause del suo relativo declino. Vale la pena però di farci un pensiero, perché vi sono in questo interrogativo degli aspetti che ci sono familiari.

Anzitutto sul piano politico. Senza tornare a paragoni già fatti tra il partito liberaldemocratico giapponese, che ha governato con mille alleanze per vari decenni, e la nostra vecchia democrazia cristiana, è indubbio che oggi la politica in Giappone vive più sul piano delle contrapposizioni e dei legami personali che non su quello del dibattito programmatico. L’elettorato si divide fondamentalmente tra il partito liberaldemocratico di centro-destra e il partito democratico del Giappone che potremmo dire di centro-sinistra. Dopo una lunghissima astinenza, i democratici sono andati al potere con buona maggioranza circa un anno e mezzo fa, ma già due primi ministri si sono avvicendati, il partito è diviso in varie correnti ed è stato indebolito da scandali e comportamenti inappropriati largamente pubblicizzati dai media. L’attuale capo del governo, Naoto Kan, e riuscito a stare in sella, ma spesso se ne chiedono le dimissioni (senti, senti!) così da portare aria nuova e stabilità al Paese. L’opposizione non gode di salute molto migliore, manca di un leader condiviso ed è percorsa da lotte interne. È accaduto così che in questi anni il potere spicciolo venisse esercitato dalla burocrazia e dal mondo degli affari altrettanto se non più che dalle istituzioni democraticamente elette.

I giapponesi, come anche gli italiani, vivono a lungo. Hanno anzi il primato mondiale di longevità. È questo, evidentemente, un dato positivo che ha però riflessi negativi sulla spesa pensionistica e sul bilancio e che, in linea generale non accresce il ricambio e la mobilità. Il tasso di natalità è basso e le carenti forze giovanili non vengono sostituite dall’immigrazione che incontra in Giappone storiche limitazioni e resistenze. Sul piano economico, il debito pubblico ha raggiunto livelli record e potrebbe sfiorare nel 2015, secondo una stima del Fondo Monetario Internazionale, il 250% del Pil. La crescita, dopo la fase prodigiosa dei decenni postbellici, è rallentata a partire dagli Anni Novanta, ha avuto una ripresa nei primi Anni Duemila ma con la crisi si è nuovamente indebolita, a differenza degli altri Paesi asiatici, ed è stata nel 2008 di appena il 1,1% e poco superiore nell’anno successivo. È anche cresciuta la tendenza di molte imprese giapponesi, tanto rivolte all’esportazione quanto orientate al mercato interno, a de-localizzare l’attività produttiva all’estero, dove è minore il costo del lavoro e maggiore la flessibilità; con la conseguenza di un forte aumento della disoccupazione soprattutto nelle fasce medie d’età. Se si aggiunge, a questi sommari dati, la considerazione che il livello della tassazione interna è in Giappone tra i più alti in assoluto, si avrà l’immagine di un paese che fatica a conservare il grado di benessere raggiunto nel passato, dove alle classi dirigenti sembra mancare il coraggio di imboccare strade nuove mentre le classi politiche imboccano decisamente strade vecchie e dove maggioranza e opposizione si assomigliano.

Sarebbe arbitrario spingere oltre i paragoni con l’Italia. Si tratta di due società profondamente diverse per dimensione, storia e cultura. Ma si tratta anche di due grandi Paesi, due democrazie che hanno raggiunto traguardi importanti e dove vivere può essere infinitamente gradevole, che sembrano riluttanti a rinunciare a inveterate abitudini per confrontarsi con un mondo che cambia.

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