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Autore Discussione: Franco VENTURINI  (Letto 34238 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Dicembre 12, 2012, 06:03:45 pm »

NOI E GLI ALTRI

L'Europa (e la Germania) temono il vento populista che soffia dall'Italia

I vertici europei, durante il consiglio della Ue a Bruxelles, si sono informati ieri sul quadro politico in Italia. Vorrebbero capire. E dev’essere arduo, per chi ci osserva dalle altre capitali, comprendere la logica delle giravolte politiche di Silvio Berlusconi. E sprimiamo al ministro Enzo Moavero tutta la nostra solidarietà. I colleghi - ha dichiarato ieri a Bruxelles dove partecipava a un consiglio della Ue - si sono informati sul quadro politico in Italia, vorrebbero capire. Non è dato sapere cosa abbia risposto il ministro, ma di certo il suo è stato uno sforzo tanto faticoso quanto inutile. Dev'essere arduo, per chi ci osserva dalle altre capitali, comprendere la logica delle giravolte politiche di Silvio Berlusconi, l'ultima delle quali ha spinto Mario Monti ad annunciare le prossime dimissioni.

Dobbiamo prendere atto delle nostre originalità e nel contempo stare bene attenti a non farci mettere i piedi in testa di alcuno. Senza pensare di essere soli, però, perché in Europa soli non siamo. Abbiamo sottoscritto trattati vincolanti, abbiamo concluso accordi. L'ottocentesca sovranità nazionale si è diluita in una ambizione più grande e più complessa chiamata Europa, e nessuno in Italia dichiara di volerla silurare. Nemmeno Berlusconi. Ma come dovremmo allora interpretare il nazional-populismo che porta il Cavaliere a sottovalutare l'enorme prezzo che tutti gli italiani finiscono per pagare quando l'allargamento dello spread alza il costo del debito? E che dire dei marcati accenti anti-tedeschi adottati dall'ex premier, e subito rilanciati dalla solita truppa al seguito? Angela Merkel è stata rispettosa, ha espresso stima per l'operato del governo Monti e si è detta sicura che nelle urne gli italiani sapranno scegliere per il meglio. Una dichiarazione simile, nella sostanza, a quella precedente di François Hollande. Ma il ministro degli Esteri tedesco Westerwelle, da sempre poco diplomatico, ha preso la cosa di petto: «Non accetteremo che la Germania sia fatta oggetto di una campagna elettorale populista».

Spiacente, signor ministro, ma si prepari a quel che non vuole accettare. Cos'altro potrebbe voler dire Berlusconi, quando con particolare acume dietrologico afferma che fu Berlino a vendere tutti i titoli del Tesoro italiano che possedeva, innescando così la paura degli altri investitori i quali da allora non si fidano e fanno salire alle stelle gli interessi sui nostri bond? La descrizione è tanto rozza da essere evidentemente indirizzata a chi cerca un colpevole a tutti i costi: la Germania, appunto.

Chi scrive ha criticato più di una volta alcuni aspetti (ce ne sono altri assai positivi) della politica tedesca in Europa: la lentezza nell'applicare le decisioni comuni, per esempio, e la scarsa leadership esercitata sugli orientamenti dell'opinione pubblica. Ma demonizzare la Germania è cosa ben diversa. Dire che è stata Berlino a sabotare volontariamente l'equilibrio finanziario dell'Italia (che peraltro non esisteva, men che meno al momento delle dimissioni di Berlusconi), sostenere implicitamente che se in questo anno sul capo degli italiani sono piovuti sacrifici è colpa della Germania oltre che di Mario Monti, questo è davvero sabotaggio. Dell'Italia e dell'Europa, non certo della Germania. E non stupisce che il Ppe, al quale il Pdl aderisce, abbia osservato ieri per bocca del suo capogruppo al Parlamento europeo Joseph Daul che «non ci possiamo permettere questa politica spettacolo».

Ma non bisogna pensare che i nostri soci europei, quelli stessi che ieri chiedevano informazioni a Moavero, si interroghino soltanto sulla destra italiana. Il centro probabilmente non riescono ancora a decifrarlo. E poi c'è la sinistra, quella che secondo i sondaggi ha le maggiori probabilità di vincere le elezioni. Commenti dedicati a Pier Luigi Bersani dalle capitali europee non ne sono venuti, finora. Ma c'è un segnale, lanciato questa volta dai mercati e da quello spread che secondo il Cavaliere sarebbe «un imbroglio». Lunedì, quando tutti attendevano di verificare il doppio effetto del ritorno di Berlusconi e del ritiro di Monti, la borsa italiana è stata la peggiore d'Europa e lo spread è nettamente risalito. Poi giorno per giorno ci sono e ci saranno altre oscillazioni, come è normale. Ma il primo messaggio, quello politicamente più significativo, è stato chiaro: preoccupazione.

Orbene, è normale che i mercati e gli investitori siano inquieti per il ritorno di Berlusconi e soprattutto per l'incerto futuro politico di Monti. Ma se la prospettiva di un governo Bersani fosse tale da calmare ogni agitazione e da garantire la stabilità dell'Italia sulla rotta intrapresa (anche mettendo in conto le «correzioni» promesse dal segretario del Pd), il contraccolpo sarebbe stato minore, o non ci sarebbe stato. La verità invece, e su questo la dirigenza del Partito democratico dovrebbe riflettere, è che Bersani non rassicura a causa della sua alleanza con le opinioni assolutamente rispettabili ma meno moderate di Nichi Vendola. Lo ha confermato ieri lo stesso Vendola: «Se c'è l'agenda Monti io non ci sono. Se c'è l'agenda Bersani io ci sono». Non sarebbe il caso di precisare quanto e in cosa siano le due agende? L'Europa che chiede chiarezza ne sarebbe contenta. E ancora di più lo sarebbero gli elettori italiani.

Franco Venturini
fr.venturini@yahoo.com

12 dicembre 2012 | 7:53© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_dicembre_12/il-perche-europa-teme-italia_684038ee-4426-11e2-a26e-c89e7517e938.shtml
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« Risposta #31 inserito:: Gennaio 24, 2013, 06:01:26 pm »

IL DIVORZIO A TEMPO DI LONDRA DALL'UE

L'impaziente inglese

Potremmo essere soddisfatti della preferenza europeista che David Cameron ha espresso ieri nel suo atteso discorso. Potremmo sentirci sollevati nell'apprendere che il referendum britannico sulla permanenza o l'uscita dall'Unione Europea slitterà forse sino alla fine del 2017, e che nel frattempo si negozierà. Ma così facendo nasconderemmo a noi stessi il vero e decisivo oggetto del contendere: che l'eurozona guidata dalla Germania vuole più integrazione, mentre la Gran Bretagna ne vuole di meno.

È questo contrasto più culturale che politico, più storico che elettoralistico, a fare dell'annuncio di Cameron una credibile minaccia di divorzio. Anche se lo stesso Cameron contro il divorzio ha promesso di lottare. Anche se tutte le grandi capitali europee dicono di volere Londra nella Ue e le tendono la mano. Perché alla fine saranno i cittadini britannici a decidere, e su di loro cultura e storia peseranno ben più delle indicazioni di Downing Street.

Il primo ministro britannico è stato chiarissimo sull'obbiettivo che intende raggiungere (se sarà rieletto nel 2015) e poi sottoporre a ratifica popolare: il «ritorno» di poteri da Bruxelles a Londra. Si trattasse di frenare l'invadenza della burocrazia comunitaria, saremmo tutti con lui. Ma nella Ue la Gran Bretagna vanta già una lunga serie di privilegiate esenzioni, usufruisce della «restituzione» finanziaria strappata a suo tempo da Margaret Thatcher, fa spesso valere la sua sensibilità sovranista (per esempio ha ottenuto di cancellare bandiera e inno dal Trattato di Lisbona).

Di ben altro si tratta, dunque. Per uscire dalla crisi l'eurozona, destinata a diventare nocciolo duro della Ue di domani, si muove verso l'unione bancaria, l'unione fiscale, l'unione politica. Vengono ipotizzati bilanci nazionali passati preventivamente al vaglio da una autorità centrale. Si discute sull'ampliamento dei poteri della Banca centrale europea. Il successo di un tale programma è lungi dall'essere garantito, come molti hanno ricordato celebrando l'anniversario di un patto franco-tedesco oggi pieno di crepe. Ma la Ue vuole almeno provarci, e in questo tentativo siamo impegnati anche noi italiani malgrado i desolanti silenzi della campagna elettorale. Per l'opinione pubblica britannica, invece, i progetti delineati equivalgono a vere e proprie bestemmie. Ulteriori cessioni di sovranità? Nuove emarginazioni dal ponte di comando? Anche se l'Inghilterra non è più quella della vecchia battuta «nebbia sulla Manica, il continente è isolato», la sfida delle urne sembra temeraria.

A raggiungere un compromesso anti-divorzio si proverà, naturalmente. Nell'interesse anche della Ue, se non altro per il ruolo che Londra avrebbe in una futuribile difesa comune. Ma cosa e quanto può ancora concedere l'Europa a Londra senza snaturare la sua già debole identità? Può forse capovolgere la sua strategia, diventare un club à la carte , adottare la filosofia delle ventisette velocità, rinunciare al tentativo di avere un posto nel mondo globalizzato? Entro limiti ragionevoli gli europei cercheranno l'accordo con Londra. Ma spetta proprio a Cameron, ora che la partita è cominciata, il compito di spiegare agli inglesi che con o senza nebbia resterebbero loro isolati (anche dagli Usa) se votassero fuori . De Gaulle è da qualche parte, osserva e aspetta.

Franco Venturini
fr.venturini@yahoo.com

24 gennaio 2013 | 13:55© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_gennaio_24/impaziente-inglese_a12a4ae8-65ee-11e2-a999-f4ff91782969.shtml
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« Risposta #32 inserito:: Agosto 19, 2013, 07:25:51 pm »

IL FIUME DI SANGUE IN EGITTO

Noi così Impotenti

 
Il fiume di sangue che scorre in Egitto approfondisce le lacerazioni del Mondo arabo, sottolinea l'indecisionismo (o è nuova impotenza?) dell'America, conferma quello dell'Europa, accende nel bel mezzo del Mediterraneo una miccia che può condurre a nuove deflagrazioni e innescare massicce correnti migratorie sull'uscio di casa nostra.

Non è un ritornello stanco, quello sull'importanza dell'Egitto. Restando ai tempi moderni è sempre dal Cairo che sono venuti i segnali di guerra o di pace, di stabilità offerta o di instabilità contagiosa, di svolte storiche (ricordiamo soltanto il viaggio di Sadat a Gerusalemme) o di storiche involuzioni. Per questo l'Egitto era - non osiamo dire è - il principale e decisivo laboratorio della «Primavera araba», di quella Primavera che ancora resiste, a malapena, nella sola Tunisia. E per questo ora il regolamento di conti tra militari e Fratelli musulmani non segna soltanto un esperimento fallito, quello di Morsi, ma autorizza anche interrogativi inquietanti sulle intenzioni della repressione in atto, quella di Al-Sisi.

Davanti alle stragi è sempre difficile disegnare una valutazione equilibrata, ma è anche necessario provarci senza farsi travolgere dall'orrore. Morsi presidente eletto è stato un disastro: incompetente, ambiguo, più impegnato a piazzare uomini della Fratellanza in posizioni di potere che a governare il Paese, cocciuto nel suo diniego quando da ogni parte del mondo gli veniva chiesto di creare un governo di unione nazionale, sordo fino all'inverosimile davanti agli avvertimenti dei militari.
Ma quando il neonasseriano Al-Sisi, generale pio e nazionalista, ha deciso di appellarsi al popolo e di far muovere i carri armati per quello che tecnicamente resta un golpe, si è scoperto che al vuoto rampante di Morsi corrispondeva una assenza progettuale dei militari. Che al Cairo i sit-in di massa della Fratellanza non potessero durare in eterno, tutti lo capivano. Ed è anche vero che la sicura presenza di gruppi armati dei Fratelli musulmani e gli assalti ai commissariati hanno dato una parte di ragione alle denunce dei generali, appesantendo il tragico bilancio degli scontri. Eppure sono stati i militari più dei Fratelli - secondo testimonianze credibili - a decretare con una certa fretta il fallimento degli sforzi di mediazione americani ed europei, come se una terribile lezione dovesse comunque essere impartita alla Fratellanza e alla sua sfida non più tollerabile.

Lì si è vista la sostanziale «impotenza da attendismo» dell'America di Obama, lì è emersa la conferma di un minore impegno statunitense nell'area mediterranea già palesatosi in occasione della guerra in Libia e poi, in una cornice strategica diversa, nella guerra civile siriana. Al-Sisi ci ha messo del suo, gridando alle «interferenze occidentali» forte dei denari provenienti dagli Emirati e dall'Arabia Saudita.

E così l'indecisionismo e l'imbarazzo americani sono continuati e continuano dopo le stragi con il risultato che le autorità del Cairo stigmatizzano apertamente le pur caute critiche di Obama, e che Washington scopre di non avere più amici in Egitto: non i Fratelli musulmani che l'accusano di aver favorito il golpe, non i moderati che le rimproverano di ondeggiare continuamente, non i militari scontenti dei suoi rimproveri anche se prontissimi a incassare il miliardo e mezzo di dollari che l'America fa giungere ogni anno in gran parte proprio per foraggiare le forze armate. Quanto all'Europa essa ha fatto quello che poteva, forse più di altre volte.
La signora Ashton si è fregiata della prima visita a Morsi in prigionia. Ma il peso dell'Europa (per sua colpa) è quello che è. Eppure America ed Europa, forse oggi più di ieri, possono svolgere un ruolo cruciale: quello di capire quale possa essere il futuro prossimo e di tentare, con maggiore convinzione, di influenzare chi mena le danze.

Il colpo durissimo alla Fratellanza musulmana è stato dato. Che intende fare ora Al-Sisi? Se al pugno di ferro non si affiancherà una mano tesa la radicalizzazione dei Fratelli proseguirà in un Paese che non è più quello di Mubarak, e invece di una finta stabilità avremo esplosioni ricorrenti di guerra civile. Con l'avanzata delle frange islamiste più radicali e nessun rafforzamento scontato per le forze democratiche. E con il proseguimento del martirio dei Copti.

Ora che il suo «lavoro sporco» è stato fatto almeno nella parte emergente, Al-Sisi sarà forse più disposto ad ascoltare. Perché una qualche forma di recupero della Fratellanza e lo spostamento delle priorità operative sull'economia restano necessità impellenti per chi non vuole il «contagio egiziano». Ma per giungere a tanto con i Fratelli bisognerà pur parlare nelle nuove ardue condizioni, e serviranno dei mediatori. Ammesso che dopo tanto sangue non sia già troppo tardi. Ammesso che quella del grilletto non sia già l'unica politica praticabile.
L'estate calda di Obama continua, e diventa anche la nostra.

17 agosto 2013 | 13:57
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Franco Venturini

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_agosto_17/noi-impotenti_5cbfb1c8-06f6-11e3-9c6f-1ce18bc58c39.shtml
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« Risposta #33 inserito:: Febbraio 11, 2014, 05:55:50 pm »

REPRESSIONE E SENSO DI ONNIPOTENZA
La roulette di Putin

A Sochi Vladimir Putin ha già vinto una medaglia d’oro: quella dell’arroganza. Sapevamo da tempo che le Olimpiadi sono inseparabili dalla politica. Così è stato a Berlino nel 1936, nella tragica Monaco del 1972, nella boicottata Mosca del 1980, nella esuberante Pechino del 2008. Ma a Putin non interessano le lezioni della storia, nemmeno quelle che colpirono l’Urss dopo l’invasione dell’Afghanistan. Piuttosto il capo del Cremlino vuole utilizzare i Giochi come emblema di un presunto nuovo status mondiale della sua Russia e per raggiungere l’obbiettivo ha scelto lo strumento che gli è più congeniale: la sfida.

Nella rutilante (e bella) cerimonia di apertura di ieri l’assenza dei quattro principali leader delle democrazie occidentali è stata bilanciata dalla presenza di altri, come il premier italiano che ha spiegato venerdì sul Corriere le sue ragioni per esserci. Ma è prima di ieri, è ben prima di ieri che Vladimir Putin ha scelto sulla via per Sochi una strategia offensiva. Le leggi contro il dissenso, il controllo dei tribunali e quello dei media, le violazioni dei diritti umani. E poi, più di recente, una serie di provocazioni come se il tenebroso sovrano di Mosca avesse davvero deciso di prendere di petto il «decadente modello occidentale». La legislazione contro i gay, cui hanno dato l’impressione di voler rispondere ieri gli atleti tedeschi sfilando in tenuta stile arcobaleno. Ma anche l’iniziale fermo degli ecologisti di Greenpeace. Il disprezzo verso il mondo dello spettacolo che solidarizzava con le Pussy Riot ancora in galera. I frequenti riferimenti alla «superiorità morale» della Russia, approdati persino sul New York Times. E infine, alla vigilia di Sochi, come se si trattasse di lanciare qualche tozzo di pane alle inquietudini dell’Occidente, la grazia a Khodorkovsky, la liberazione degli ecologisti e delle Pussy Riot.

È vero che il 2013 ha portato a Putin qualche robusta soddisfazione (sulla Siria e le indecisioni di Obama, sull’ospitalità galeotta a Edward Snowden), ma la sua marcia di avvicinamento ai Giochi fa pensare a uno zar troppo propenso a credersi onnipotente. E quando si gioca alla roulette si rischia di perdere. Non auspichiamo certo che a Sochi o altrove in Russia si verifichino attacchi terroristici, ma l’insidia esiste. Così come sono possibili proteste civili clamorose, capaci di rovinare la festa. E poi, lontano dalle piste innevate, il braccio di ferro sull’Ucraina non segnala più un successo sicuro per il Cremlino. Così come il «ritrovato status di potenza» della Russia ha le gambe corte, non soltanto perché all’interno matura una classe media che chiede cambiamenti, ma anche e soprattutto perché l’economia che ha finanziato i Giochi più dispendiosi della storia marcia diritta verso la stagnazione, con una crescita debole, la mancanza di investimenti e di tecnologie avanzate, l’arrivo del gas ricavato da argille, la persistente crisi demografica. Era il caso, allora, di lanciare a raffica moniti e proclami di superiorità per poi arrivare a Sochi con troppe assenze e vulnerabilità sempre vive? Putin ha scommesso più del necessario e, se anche dovesse vincere (ma intanto ha già subito le prime sconfitte), Sochi non offrirebbe una positiva anticipazione dei suoi comportamenti futuri.

Forse la vera fortuna dello zar è di non essere l’unico fuori misura, perché nei confronti della Russia gli europei continuano a dividersi e Victoria Nuland si è resa colpevole non tanto di aver espresso un duro giudizio sulla Ue quanto di aver dimenticato, proprio lei americana, quanto sia facile intercettare una telefonata. Putin ne avrà riso, gingillandosi con il suo oro.
10 febbraio 2014
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Franco Venturini

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_febbraio_08/roulette-putin-a765f5e2-9086-11e3-85e8-2472e0e02aea.shtml
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« Risposta #34 inserito:: Marzo 02, 2014, 11:26:53 am »

Il bastone dello zar

Ora lo riconosciamo, Vladimir Putin. Non è più quello edulcorato che voleva a tutti i costi chiudere in bellezza i Giochi di Sochi. Non è più nemmeno quello silenzioso dei giorni seguenti. Ora la pianificazione è finita, e il giocatore di scacchi che è in lui ha elaborato una strategia consona alle tradizioni russe: sarà l’uso della forza a raccogliere la sfida ucraina e a far sapere, a Kiev come alle capitali d’Occidente, che nulla può essere fatto in Ucraina senza tener conto degli interessi della Russia.

In verità questo ben pochi lo ignoravano, e può far testo l’insistenza con la quale Angela Merkel ha tentato di coinvolgere il Cremlino nella mediazione condotta con poca fortuna dagli europei. Ma una mano tesa per riparare alla micidiale sconfitta di piazza Maidan a Putin non poteva bastare. E allora ecco che soldati senza insegne ma troppo disciplinati e ben equipaggiati per non essere russi si impadroniscono delle infrastrutture strategiche della Crimea. Sono usciti dalla base navale di Sebastopoli, oppure sono giunti dalla Russia mentre Putin concordava con i suoi interlocutori occidentali che l’integrità territoriale dell’Ucraina va salvaguardata? Ormai poco importa, perché Putin ha impugnato un bastone più grosso: si è fatto autorizzare dal Senato di Mosca l’invio in Crimea di altri soldati, senza tuttavia decidere subito il loro trasferimento.

Pare seguire una tattica da manuale, Vladimir Putin. Mostrarsi duro nella tutela dei compatrioti e della flotta di Crimea perché l’opinione interna russa non gli perdonerebbe una esibizione di debolezza, tanto meno in Ucraina. Lasciare però in sospeso il secondo intervento tenendolo a disposizione (per poco) come carta negoziale. E nel frattempo mobilitare le popolazioni russofile dell’est e del sudest dell’Ucraina, come difatti è accaduto ieri, in modo da poter sostenere che gli «estremisti» di Kiev sono isolati.

Ma il punto è che le acrobazie di Putin, per quanto brillanti, non possono nascondere la distanza che separa una rivolta popolare da un intervento armato. Non possono mascherare quella che da parte russa è una reazione ampiamente prevedibile, ma non per questo meno inaccettabile. Putin pensa di ripetere la Georgia del 2008, di mandare le sue forze oltre la Crimea? Sarebbe un temerario se lo facesse, scatenerebbe una guerra civile dalla quale dovrebbe poi districarsi. Favorirà l’indipendenza della Crimea, la sua secessione? È possibile. Ma è più probabile che mentre muove le truppe aspetti al varco una Ucraina sull’orlo del default, alla quale Mosca può ritirare aiuti e sconti sul gas. Nessuno in Occidente, pensa Mosca, vorrà pagare un conto di 35-40 miliardi di dollari nei prossimi due anni. Questa è la vera, la più potente arma di Putin. Ora tocca all’Occidente raccogliere la sfida.

02 marzo 2014
© RIPRODUZIONE RISERVATA
FRANCO VENTURINI

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_marzo_02/baston-zar-editoriale-0619d974-a1d9-11e3-adcb-9ee016b80fee.shtml
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« Risposta #35 inserito:: Maggio 22, 2014, 05:17:02 pm »

Il Caos di Tripoli riguarda anche noi
Milizie libiche, miopia italiana

di Franco Venturini

Con il suo gusto della provocazione Stalin chiedeva quante divisioni avesse il Papa, ma oggi, nel caos libico che è tornato ad infiammarsi, non è per nulla retorico domandarsi quante milizie abbia il generale Khalifa Haftar.

In Libia è facile conquistare la ribalta del grilletto, non esiste il monopolio della forza perché non esiste lo Stato. Ma poi, fatalmente, giunge il momento di fare la conta: chi appoggia Haftar, quanti uomini ha, e quali mezzi? Nel puzzle di armi e petrolio che è oggi la Libia non vai lontano se non vinci questa gara a chi è più forte. Per questo è importante che la base aerea di Tobruk e le truppe speciali di stanza a Bengasi si siano schierate con Haftar. Per questo è un segnale che la milizia di Zindan (la più numerosa dopo quella di Misurata) si stia coordinando con il generale. E per questo contano gli appoggi che Khalifa Haftar dovrebbe aver maturato negli Usa e in Egitto: negli Usa vivendoci a lungo dopo aver rotto con Gheddafi, in Egitto perché il maresciallo Fattah al Sisi, che sarà eletto presidente tra una settimana, dopo Morsi vuole colpire tutti i Fratelli Musulmani, compresi quelli che crescono al di là del confine libico.

Forse è proprio pensando all’Egitto e agli Usa che Khalifa Haftar ripete ad ogni occasione di «voler liberare la Libia dagli islamisti». Ma gli ostacoli restano formidabili. L’Algeria ha fatto sapere che interverrà qualora forze egiziane superassero il confine. Il sud della Libia è popolato da guerriglieri qaedisti che combattono nel Sahel. Alcune autorità di Tripoli hanno chiesto proprio agli islamisti di difendere la capitale. E un fantomatico governo ha sospeso il primo ministro appena designato e sciolto il Parlamento. Davanti a un simile rompicapo Haftar avrà i mezzi per prevalere, oppure sarà guerra civile su larga scala?

Visto dall’Italia l’ennesimo terremoto libico può soltanto far crescere un allarme ormai permanente. È facile immaginare quale accelerazione imprimerebbe una guerra generalizzata al macabro business dei migranti che aspettano di rischiare la vita per giungere da noi. E sebbene l’Eni sia riuscita finora a limitare i danni, non è difficile prevedere che gas e petrolio diretti in Italia ne soffrirebbero ulteriormente.

È ora che il governo italiano, mentre sollecita la solidarietà europea in tema di immigrazione, chieda anche la definizione di una strategia nei confronti della Libia. Non ha più molto senso invocare una illusoria «transizione democratica». Non basta che l’America affidi l’addestramento di soldati libici all’Italia (che lo sta facendo) e a qualche altro Paese europeo. Serve il coraggio di scegliere. Siamo per la Cirenaica autonoma o per il centralismo di Tripoli? Siamo con o contro, come si dovrebbe presumere, gli islamisti? Con o contro gli Haftar del momento? A favore o contro interventi senza «scarponi sulla sabbia» ma capaci di correggere almeno una parte degli errori commessi nel 2011 abbattendo Gheddafi senza pensare al domani?

La bussola libica è impazzita, d’accordo. Ma prima o poi bisognerà aggiustarla, se non vogliamo che qualcuno chieda quante divisioni ha l’Occidente.

20 maggio 2014 | 08:44
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_maggio_20/milizie-libiche-miopia-italiana-9d6b284e-dfde-11e3-a33f-94f3ff75232d.shtml
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« Risposta #36 inserito:: Maggio 29, 2014, 11:03:34 pm »

Le poltrone non fanno la crescita
Gli indifferenti di Bruxelles

Di Franco Venturini

L’immagine di una Europa che discute di poltrone all’indomani di elezioni che avrebbero dovuto scuoterla su ben altri temi è un’immagine vecchia: quella della solita Europa elitaria e burocratica, lontana dai popoli, immersa nei suoi nazionalismi. Ma la paralisi è soltanto apparente, perché dietro gli obblighi di calendario (la definizione degli equilibri parlamentari, il rinnovo della Commissione) esiste già nella Ue una generale consapevolezza sulla necessità di aggiustare la rotta. Non sarà facile.

Se ci accontentassimo della formula del trionfatore Matteo Renzi («cambiare l’Europa per salvarla») potremmo dormire sonni tranquilli. Ma, e lo sa bene anche Renzi, in un’Unione Europea sempre più intergovernativa ogni accordo sarà difficile da raggiungere, ogni concessione richiederà un braccio di ferro, ogni concetto davvero unitario si urterà al muro degli egoismi nazionali. Più che mai dopo il responso elettorale. Il Front National primo partito in Francia è anche un grande punto interrogativo sul futuro dei cruciali rapporti con la Germania. Lo Ukip primo partito in Gran Bretagna è anche una risposta anticipata al referendum promesso da Cameron, ammesso che il premier britannico non provveda di persona a smembrare la Ue cercando alleati «sovranisti» tra gli altri soci. E in Italia non dovremmo perdere di vista che Grillo e la Lega, sicuramente anti-euro, hanno ottenuto insieme una percentuale più alta di quella di Marine Le Pen in Francia.

Eppure siamo soltanto al campanello d’allarme, tant’è che il Parlamento e l’insieme della Ue resteranno perfettamente governabili. Ma non sarebbe sciocco, e forse suicida, ignorare la contenibile protesta di oggi e lasciare che domani si trasformi in tsunami? Gli acceleratori sui quali premere li conoscono tutti: la crescita da incoraggiare, i ventisette milioni di disoccupati nella Ue da riportare a numeri meno scandalosi (e in maggioranza sono giovani, che ricorderanno e voteranno), le riforme da attuare all’interno di ogni Paese non «contro» l’indispensabile rigore ma introducendo spazi di flessibilità per i grandi investimenti, il sostegno delle piccole e medie imprese, la tecnologia e la ricerca, l’istruzione. E ancora: l’Europa deve imparare a comunicare, a spiegare ai suoi popoli perché ha vinto un Nobel e perché nessuno dei suoi membri ha le dimensioni per affrontare da solo il mondo globalizzato. L’Europa deve elaborare quelle politiche comuni che gravemente le mancano e che vengono imposte dalle crisi in corso alle sue porte, in Libia (l’immigrazione) e in Ucraina (l’energia). In definitiva l’Europa deve tornare ad autorizzare la speranza dopo cinque anni di pesanti difficoltà, deve essere grata all’opera svolta dalla Bce nei momenti peggiori e deve soprattutto evitare che la contraddittoria galassia dei sentimenti anti-europei di destra e di sinistra finisca col creare una rotta di collisione tra l’europeismo e la democrazia elettorale.

Per fare tutto ciò, o almeno per provarci, la disponibilità della Germania sarà come sempre decisiva. Nessuno crede che Berlino cambierà radicalmente il suo approccio rigorista. E sarebbe miope, oltre che inutile, pensare a un asse anti-tedesco. Ma esistono strumenti da mettere a punto, come i «contratti» che prevedrebbero riforme garantite contro flessibilità garantite (un’idea tedesca), capaci di rendere più sopportabile per tutti il fardello di un risanamento ancora da completare. La prossima presidenza italiana della Ue, sebbene abbreviata dagli adempimenti istituzionali, potrebbe e dovrebbe occuparsene.

29 maggio 2014 | 08:03
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_maggio_29/gli-indifferenti-bruxelles-3415fb24-e6ed-11e3-891a-a65af8809a36.shtml
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« Risposta #37 inserito:: Giugno 24, 2014, 05:28:46 pm »

Islam politico, corsa alle armi
Il disordine che ignoriamo

Di FRANCO VENTURINI

È perfettamente comprensibile che le nostre priorità siano la politica interna, la congiuntura economica, l’Europa, insomma tutto quel che ci tocca direttamente. Ma in questa logica selezione d’interessi, che non è soltanto italiana, rischiamo di non accorgerci che nel mondo esterno la classifica sta cambiando con una velocità mai vista dopo la fine della Guerra fredda. Si diffonde ovunque un disordine sempre più pericoloso anche per noi, torna alla ribalta il tema della guerra e della pace che credevamo sepolto sotto le macerie del Muro di Berlino, le aree più instabili del mondo si armano fino ai denti con sommo disprezzo dei buoni propositi sottoscritti all’Onu. E allora diventa opportuno allungare lo sguardo.

Cominciamo da vicino casa. Sul caos libico il Corriere ha da tempo lanciato l’allarme, e gli avvenimenti continuano a dargli ragione. La diplomazia appare impotente davanti alle milizie e ai loro ricatti energetici, alla guerra civile strisciante, alle masse di profughi provenienti da altre crisi che dalle coste libiche partono nella speranza di raggiungere l’Italia. Quanto potrà durare? E poi ci sono i depositi di armi dell’era Gheddafi: lì si riforniscono combattenti d’ogni dove, qaedisti del Sahel, massacratori delle guerre africane, contendenti siriani, terroristi ben finanziati e fanatici islamisti dell’Isis (sigla per «Stato islamico dell’Iraq e del Levante») che sta mettendo a soqquadro l’Iraq.

A ben vedere è proprio l’Isis il simbolo più rivelatore dei nuovi tempi. Sunniti come tutti i qaedisti ma scomunicati dalla vecchia Al Qaeda per eccesso di crudeltà (e ce ne vuole...), gli uomini dell’Isis vogliono ridisegnare quei confini che britannici e francesi imposero quasi un secolo fa con la ben nota lungimiranza delle potenze coloniali. Non soltanto per far nascere il loro Califfato, ma per affermare una dinamica eversiva e rigidamente settaria che è già la regola nella Siria che gronda sangue, che allarma già gli sciiti iraniani e ottiene invece una tacita comprensione dai sunniti sauditi. Davvero crediamo che la grande guerra inter-islamica non ci riguardi, e non riguardi il prezzo o le forniture di greggio? Che la mattanza siriana possa continuare a piacimento, che non possano saltare all’improvviso il Libano e la Giordania, che domani in Afghanistan non possa andare come oggi in Iraq, magari trascinando nella mischia anche il Pakistan e la sua atomica? E le molte centinaia, forse le migliaia di giovani europei che vanno a combattere con l’Isis e poi rientrano nei nostri tranquilli rifugi europei addestrati e fanatizzati, anonimi fino a quando decideranno di colpire?

In Asia è tutto più chiaro. La Cina superpotenza economica investe nella marina per controllare il Mar Cinese meridionale alla faccia degli americani, il Giappone si appresta a reagire, gli Stati Uniti lo fanno già. Qui gli stanziamenti militari sono ufficiali, ma non per questo inquietano di meno. E sulla marina punta anche la Russia (settecento miliardi di dollari nei prossimi vent’anni), il che aiuta forse a capire il ratto della Crimea con il porto di Sebastopoli. Eccoci tornati vicino casa. In Ucraina si spara ancora, ma l’unica cosa sicura sembra essere che servirà un riarmo dell’esercito di Kiev.

Il mondo ha il dito sul grilletto. Il multipolarismo che abbiamo voluto è diventato disordine multipolare con esplosioni regionali. Ma la violenza si muove, e proprio come l’Isis non conosce confini. Forse dovremmo aggiornare le nostre priorità, e anche le nostre politiche.

24 giugno 2014 | 08:34
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_giugno_24/disordine-che-ignoriamo-0b889dcc-fb5d-11e3-9def-b77a0fc0e6da.shtml
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« Risposta #38 inserito:: Luglio 11, 2014, 11:43:52 pm »

La scomparsa dei mediatori

Di Franco Venturini

Razzi e missili di Hamas piovono sulle ben protette città israeliane, bombe israeliane piovono sulla Striscia di Gaza controllata da Hamas, e ogni giorno, quasi ogni ora, la spirale che porta a una azione terrestre delle forze di Gerusalemme appare più inarrestabile. Eppure non è trascorso tanto tempo da quel novembre del 2012 in cui la mediazione egiziana e il fiume di sangue già versato consigliarono ai contendenti una tregua priva di garanzie. Perché non riprovarci, perché non arrestare in tempo una tragedia annunciata e conosciuta? Perché in realtà, nel tempo trascorso dal novembre del 2012, è cambiata buona parte del mondo e soprattutto è radicalmente cambiato il Medio Oriente. Diversi sono gli equilibri geopolitici, nuove sono le minacce, e non esistono più mediatori credibili. Per questo, se la guerra terrestre alla fine ci sarà, avrà tutto l’impeto di una guerra «nuova», non di una semplice ripetizione del dramma. E fermarla sarà molto più difficile.

Nel 2012 la mediazione egiziana usufruì del rapporto privilegiato tra Hamas e i Fratelli musulmani del Cairo. Ma oggi, con i Fratelli in galera e i generali al potere, sono credibili i buoni uffici che pure l’Egitto tenta di offrire alle parti?
Dietro gli egiziani, comunque, c’era sempre stata l’America e tutti lo sapevano. Ma quale vera influenza ha oggi l’America di Obama nella regione mediorientale e tra israeliani e palestinesi in particolare? La spola screditante di Kerry, il convincimento della Casa Bianca che un accordo debba essere deciso dalle parti con la sola assistenza diplomatica degli Usa, le voglie neo-isolazioniste dell’opinione statunitense, tutto contribuisce a ridurre in maniera consistente il peso di Washington.

Ai capi di Hamas, che è sempre stata un ombrello di diverse organizzazioni estremiste, restano soltanto gli aiuti finanziari dal Qatar. Si vede in queste ore che malgrado il suo isolamento ha ricevuto missili più moderni e a più lunga gittata, provenienti forse dall’Iran, ma di sicuro non attraverso la vecchia rotta siriana in fiamme da tre anni. L’Egitto è diventato nemico, Damasco lotta per sopravvivere, Hezbollah è impegnato a sostenere Assad, con i tagliagole dell’Isis si potrebbe parlare ma il loro Califfato non è ancora maturo. Davvero stupisce che Hamas abbia tentato un governo di unione con il frustrato Mahmoud Abbas e la Cisgiordania, che le divisioni interne si siano moltiplicate e che la violenza sia riesplosa, prima con il sequestro e l’uccisione dei tre studenti israeliani cui ha fatto da contraltare l’orrendo assassinio di un adolescente palestinese, poi con la ripresa dei lanci di razzi e missili contro Israele?

E poi c’è Israele, appunto. Irritato per l’atteggiamento occidentale verso l’Iran. Disorientato e anche impaurito dagli sconvolgimenti che rischiano di creare roccaforti jihadiste in Siria e in Iraq mentre anche la Giordania è vicina all’esplosione. Deciso ad escludere ogni dialogo con un governo palestinese che comprendesse Hamas (la cui leadership, è giusto ricordarlo, continua a rifiutare ogni riconoscimento dello Stato ebraico). Tentato in definitiva di dare il colpo di grazia al nemico in difficoltà, ma più insicuro di altre volte in un contesto regionale che non lo favorisce.
Troppe debolezze perché non ci sia una guerra.
fventurini500@gmail.com

10 luglio 2014 | 07:20
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_luglio_10/scomparsa-mediatori-b7b55004-07f1-11e4-9d3c-e15131ae88f3.shtml
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« Risposta #39 inserito:: Agosto 26, 2014, 06:36:23 pm »

LA SICUREZZA FERMA AL MURO DI BERLINO
Il grande caos e l’Onu assente

di Franco Venturini

Il tempo dell’orrore non ci ha raggiunti all’improvviso. I tagliagole dell’Isis che oggi massacrano le minoranze religiose in Iraq si esercitano da più di tre anni nella confinante Siria, dove combattono contemporaneamente contro l’esercito di Assad e contro una resistenza islamica meno assetata di stragi. Duecentomila morti, sei milioni di profughi: questo è il biglietto da visita (provvisorio) della guerra civile in Siria. E noi, l’Occidente civile e potente, cosa abbiamo fatto per mettere fine allo scempio? Con tempi e modalità diversi, perché non ricordare che oggi si uccide anche in Libia, anche nel Sahel, anche in Somalia, anche in Afghanistan, anche nell’Africa centrale, anche a Gaza e in Israele, anche in Ucraina, mentre si teme il peggio nel Mar cinese meridionale?

Ora Barack Obama estenderà forse i suoi bombardamenti al territorio siriano. Per indebolire l’Isis, per colpirlo meglio in Iraq, per difendere certo le minoranze ma anche per tutelare i lucrosi accordi petroliferi conclusi con i curdi. E per evitare lo spauracchio peggiore, il rischio di una caduta di Bagdad che domani potrebbe costringerlo a ben altri interventi. Obama per tre anni non si è mosso (armi chimiche a parte, e fu Putin a farci miglior figura). Adesso esita, e proietta una confusione peraltro comprensibile: pur di colpire l’Isis, gli Usa possono schierarsi oggettivamente con Assad? E che dire all’opinione pubblica, che da un lato lo critica perché è debole ma dall’altro non vuole più soldati americani impegnati all’estero?

In democrazia non è possibile ignorare l’opinione pubblica. Bisogna semmai guidarla, quando si ha il peso necessario per farlo. Ed è un segno dei tempi che questo peso a sostegno del messaggio giusto lo abbia mostrato sin qui, in ben altra sfera, soltanto papa Francesco. Prima con una sintesi di assoluta esattezza: «siamo alla terza guerra mondiale spezzettata». Così è, dal momento che non esiste più un ordine globale, che il sangue scorre all’interno di cornici regionali, che le componenti religiose, etniche e tribali si confondono con interessi geostrategici soprattutto energetici, che l’Occidente è un concetto in oggettivo ripiegamento (persino la Nato spera nell’Ucraina per tornare alle origini e così sopravvivere all’Afghanistan).

Ma del messaggio di papa Francesco una parte sembra essere andata perduta. Lui, capo della Chiesa, non può invocare in proprio bombardamenti o guerra. Sia l’Onu a stabilire il modo per fermare l’aggressore, ha detto. Ancora parole cruciali, per chi vuole capirle. Il sistema internazionale ha regole tanto antiche (il dopoguerra) da risultare privo di regole. Eppure la stessa Onu aveva affermato la «responsabilità di proteggere» proprio per affrontare le crisi militar-umanitarie. Nella pratica non se ne è fatto nulla. Il fatto è che nel mondo del grande disordine l’Onu va cambiata ben oltre la riforma del Consiglio di sicurezza. Che deve esistere un esercito vero alle dipendenze di un Segretario generale vero.


Che le potenze devono contribuire a questa evoluzione malgrado le attuali ostilità culturali e i contrasti d’interesse. Che l’Europa deve fare la sua parte non alimentando la retorica su una politica estera comune che non può esistere senza una forte avanzata integrazionista (con o senza Ashton, con o senza Mogherini) ma piuttosto promuovendo questa avanzata.
Il mondo è cambiato, eppure sul tema della sicurezza collettiva è fermo alla caduta del Muro di Berlino. Che ce lo debba ricordare papa Francesco è una dura lezione, ed è anche un monito.

( fventurini500@gmail.com)

25 agosto 2014 | 08:15
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_agosto_25/grande-caos-l-onu-assente-c59a4fc2-2c17-11e4-9952-cb46fab97a50.shtml
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« Risposta #40 inserito:: Settembre 06, 2014, 04:51:00 pm »

Un inedito doppio fronte
La Nato più forte a est e un’alleanza anti-Isis
Di Franco Venturini

Stretta tra le paure europee verso una Russia bellicosa e i rivolgimenti mediorientali annunciati dai carnefici dell’Isis, l’Alleanza Atlantica era costretta a guardare avanti. Il mondo di oggi è privo delle regole che la Guerra fredda malgrado tutto aveva, i deterrenti di ieri non funzionano più o non sono più credibili, le minacce - Russia esclusa - sono nuove, con profonde radici regionali e non globali, alimentate da alleanze cangianti attorno a fattori religiosi, etnici, tribali che mal si combinano con la geopolitica degli interessi. Davanti alla destabilizzazione dilagante la Nato doveva battere un colpo, e lo ha fatto.

Non benissimo, perché la tregua in Ucraina decisa da Putin fin nell’orario ha preso in evidente contropiede le rampogne occidentali. Non benissimo anche perché contro l’Isis la Nato non può agire in quanto tale. Per l’Alleanza come per tutti, insomma, gli esami non finiscono qui. Ma un segnale di impotenza, che sarebbe stato disastroso, è stato evitato.

Il dossier ucraino era quello che la Nato era meglio preparata a trattare. Avendo Obama affermato sin dall’inizio delle ostilità che non ci sarebbe stato un coinvolgimento militare americano (o Nato), a Newport sono stati seguiti gli unici due binari rimanenti. Contro la Russia di Putin sanzioni economiche, che peraltro ora si trovano ferme in rampa di lancio in attesa di vedere se reggerà la tregua. A favore degli alleati dell’Europa orientale, invece, una forza di intervento rapido con un quartier generale dislocato all’est e depositi di armamenti pronti all’uso nelle Repubbliche baltiche, in Polonia e in Romania.

Servirà a trasmettere il messaggio che sì, l’Alleanza è pronta a «morire per Tallinn» come nel ‘39 si cominciò a morire per Danzica. Ma non può sfuggire come le lamentele russe sul progressivo avvicinamento delle forze Nato ai suoi confini abbiano qualche fondamento. E del resto la vera partita l’Occidente dovrà continuare a giocarla proprio con la Russia. L’Ucraina, anche se Putin ha la faccia tosta di dichiararsi del tutto estraneo alle sue vicende, offre ora uno strettissimo spazio di manovra che gli europei per primi dovrebbero sfruttare. Le incognite sono ancora pesanti, dal non garantito ritiro delle forze russe ai falchi di Kiev (e di Donetsk) che vogliono a tutti i costi la guerra. Ma proprio per questo bisogna avviare un processo politico, e negoziare l’unica via d’uscita possibile in un Paese ormai diviso da un mare di sangue dopo esserlo stato dai trascorsi storici: un accordo che garantisca sì la sovranità dell’Ucraina ma concedendo alle aree del Donbass un alto grado di autonomia. Non troppo alto. Che non consenta a Donetsk di fare la «sua» politica estera, per esempio, ma che non spinga nemmeno Kiev verso la Nato. Ora che un simulacro di deterrente è stato creato, bisogna inseguire un accordo politico che eviti una escalation militare nel mezzo dell’Europa. E questo lo deve capire anche l’America.

Resta l’Isis, resta la minaccia di un terremoto mediorientale. È stata creata una coalizione di dieci Paesi che comprende l’Italia e che coprirà le spalle a Obama nel passo che sembra ormai ineludibile: bombardare le retrovie dei tagliagola islamisti in Siria. Con l’Iran alleato di fatto. Con Assad che in qualche modo si mostrerà indispensabile. L’America e tutto l’Occidente dovranno pagare un prezzo politico alto. Ma l’Isis va fermato, e dopo tre anni di mancati interventi nella mattanza siriana il castigo politico appare meritato.
fventurini500@gmail.com

6 settembre 2014 | 07:58
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Da - http://www.corriere.it/esteri/14_settembre_06/inedito-doppio-fronte-aa533a36-3585-11e4-bdcf-fc2cde10119c.shtml
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« Risposta #41 inserito:: Settembre 20, 2014, 03:38:36 pm »

IL MODO GIUSTO DI FARSI VALERE IN EUROPA
E il semestre intanto passa

Di Franco Venturini

In Europa non dobbiamo avere paura di dire la nostra. Non deve farci sentire più insicuri un presidente del Consiglio che «ci mette la faccia» per chiedere a Bruxelles (pardon, a Berlino) più elasticità in un rigore che, almeno per quanto riguarda il deficit al 3% del Pil, il governo intende rispettare. E tuttavia, se per l’Italia è una conquista mostrarsi meno timida del solito, c’è modo e modo di farsi valere. E basta poco, anche con le migliori intenzioni, a spararsi sui piedi.

Matteo Renzi è pericolosamente vicino a questa dolorosa constatazione. Non gli manca di certo la capacità di comunicare, ma la consapevolezza di dover rendere l’Italia più credibile quando la si guarda dalle capitali europee che contano, quella sì sembra fargli difetto. Il suo linguaggio è spesso aggressivo verso «l’Europa da cambiare», obiettivo che condividiamo ma con altro stile. La sua sfida per imporre Federica Mogherini nel ruolo di Alto rappresentante per la politica estera è stata vinta, ma ha creato malumori, per l’eccesso di irruenza troppo diverso dalle paludate mediazioni cui è abituata la Ue. Quanto al semestre di presidenza italiana, era nato zoppo per il tempo che avrebbe richiesto il ricambio della Commissione. E comunque quando qualcosa si prova a fare siamo alle solite, come dimostra il poco rispettoso tira e molla sul vertice che si terrà l’8 ottobre a Milano per discutere di lavoro. Un errore di calcolo pare del resto emergere sull’effettiva consistenza dell’«asse» con la Francia che ha le stesse nostre rivendicazioni, ma che si guarda bene dall’irritare la Germania, debole com’è nelle sue alte sfere politiche. Germania che a sua volta lascia trapelare una certa insofferenza nei confronti di una Italia definita «inconcludente».

Per convincere e ottenere (forse), Renzi, oltre a cambiare l’Europa, doveva e deve cambiare l’Italia. Non può bastare il suo ottimo risultato elettorale alle Europee. Fiducia nell’Italia significa riforme fatte e rese operative senza arenarsi nella vergognosa montagna dei decreti attuativi che non hanno mai visto la luce, significa pochi annunci ma seguiti da riscontri, significa non avere un Parlamento bloccato dai regolamenti di conti interni ai partiti (e qui la colpa non è di Renzi, o non è soltanto sua).

Non vogliamo dire che il premier abbia fatto poco o nulla nei suoi primi mesi di governo. Non sarebbe nemmeno giusto liquidare ora i suoi «mille giorni». Ma un problema esiste, ed è di considerevole entità: se Renzi non capirà alla svelta che un certo atteggiamento retorico («se vogliono la guerra avranno la guerra», ecc.) risulta controproducente in Europa più che mai se non è puntellato da realizzazioni compiute, sarà il suo stesso progetto a finire contro un muro. Un muro che potrebbe chiamarsi Katainen prima ancora di chiamarsi Merkel.

Resta l’ipotesi che Renzi sia arrivato alla conclusione che le resistenze alle riforme siano troppo forti, che si debba andare alle elezioni nel 2015 portando in dote i tentativi riformisti (vani?) cui stiamo per assistere a cominciare dal decreto lavoro. Si capirebbe, allora, che nella sua strategia certi messaggi diretti all’opinione pubblica nazionale prevalgano oggi sulla moderazione dei comportamenti verso l’Europa. Si tratterebbe comunque di un errore, perché il danno fatto renderebbe ancor più difficile una risalita già molto ardua. Ricordate il Telemaco del primo discorso a Strasburgo? Era coraggioso e pieno di speranza. Ma se non cambierà anche lui, assieme all’Italia e all’Europa, Ulisse non riuscirà a trovarlo.

19 settembre 2014 | 07:50
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_settembre_19/semestre-intanto-passa-33a31f40-3fbd-11e4-a191-c743378ace99.shtml
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« Risposta #42 inserito:: Gennaio 24, 2015, 10:38:25 am »

Risorse e ambiguità
Cosa manca nella lotta al terrore

Di Franco Venturini

Che la minaccia del terrorismo islamista fosse destinata ad accompagnarci a lungo dopo la strage francese, era scontato. Ma assai meno scontati si annunciavano l’analisi degli errori commessi a Parigi in tema di prevenzione, e soprattutto le contromisure che l’Occidente avrebbe adottato per proteggersi più efficacemente. Queste contromisure, discusse ieri a Bruxelles dai ministri degli Esteri della Ue in previsione del vertice europeo del 12 febbraio, viaggiano in ritardo e rischiano di non affrontare un paio di temi fondamentali.

Si dovrà certamente modificare l’equilibrio tra sicurezza e privacy a favore della prima. Prendere l’aereo comporterà maggiori controlli e trasferimenti di dati. I social network, utilizzati dai terroristi con grande abilità e accertate complicità (ora si pensa a lanciare sul web una Tv all-news ), dovranno rassegnarsi a nuovi controlli. Si dovrà evitare che il carcere diventi in alcuni Paesi una scuola di islamismo aggressivo.

Ma se anche si riuscirà a fare tutto questo (e non sarà facile), mancheranno due iniziative che non tutti hanno voglia di affrontare e che sono invece necessarie.
L’Europa vive tempi di spending reviews, lo sappiamo bene. L’imperativo per i più è tagliare la spesa pubblica, o mettersi nelle condizioni di farlo. Ma la minaccia terroristica esige una eccezione che a Parigi è saltata agli occhi. Due poliziotti a protezione di un bersaglio evidente come Charlie Hebdo. I fratelli Kouachi sorvegliati fino a pochi mesi prima, e poi lasciati perdere. Qualcuno ha fatto scelte sbagliate, ma al di là degli errori il fatto è che per sorvegliare per 24 ore un potenziale terrorista servono talvolta quindici o venti uomini. Che non sono più disponibili, dopo i «tagli» e con la moltiplicazione delle minacce. Bisogna, ovunque, rifinanziare le attività anti terrorismo e poi esigere maggiore efficienza e una più completa collaborazione. Ma ciò accadrà davvero soltanto se la spesa pubblica relativa non verrà inserita sul libro nero dei patti finanziari europei, peraltro in prudente evoluzione.

Un secondo punto essenziale riguarda il finanziamento dei terroristi. Prendiamo quelli dell’Isis. Si foraggiano vendendo petrolio, in Siria e soprattutto in Iraq dove il «califfo» Baghdadi gioca le sue carte principali. Ma l’Isis, non è chiaro se fiancheggiatore o rivale della colonna di Al Qaeda coinvolta in queste ore nei tumulti dello Yemen, è cresciuto progressivamente negli oltre tre anni di guerra civile siriana, ha avuto i mezzi per conquistare nuovi adepti e per comprare nuove armi.

Questo ci porta al nocciolo della questione: prima di essere una guerra contro l’Occidente, quella che coinvolge Isis, Al Qaeda e molti altri è una guerra di islamici contro islamici, di sunniti contro sciiti, ma anche di gruppi di potere nell’uno e nell’altro campo. La geografia del terrore è un rompicapo, e non si presenta come tale soltanto quando si vuole recuperare sequestrati che porteranno ai tagliagole nuove risorse.

Ebbene, da anni è noto a tutti, e a tutte le intelligence in particolare, che accanto a questi rivoli finanziari le casse delle formazioni terroristiche vengono rimpinguate da Stati arabi che amano tenere i piedi in molte staffe per motivi interni o regionali: l’Arabia Saudita, il Qatar, il Kuwait, forse altri ancora. Questi Stati risultano essere nostri amici, nostri alleati, nostri fornitori, nostri partner commerciali. Non vogliamo, anche per una questione di interessi, trasformarli in nemici. Ma un po’ più di coerenza non dovremmo chiederla? E con noi gli Stati Uniti, anche se fu George Bush junior a mutare drammaticamente gli equilibri nel Golfo consegnando l’Iraq agli sciiti e offrendo una inedita profondità strategica allo sciita Iran (diversamente da quanto aveva fatto George Bush senior)?

Non siamo più in grado di evitare i temi più spinosi. Dobbiamo difenderci, e questo comporta alzare la voce. Così come comporta una discussione non pregiudiziale sulle caricature di Maometto, che allargano di continuo quello che gli esperti chiamano il «bacino di reclutamento» del terrorismo (soprattutto in Africa e nel Caucaso). E che forse dovrebbero tener conto del mondo reale, mentre difendono la nostra sacrosanta libertà di espressione.

20 gennaio 2015 | 08:22
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_gennaio_20/lotta-terrore-alleanze-risorse-cosa-manca-f0903edc-a073-11e4-b571-55218c79aee3.shtml
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« Risposta #43 inserito:: Marzo 06, 2015, 05:29:55 pm »

RUSSIA

Renzi-Putin e l’Ucraina il non detto di un vertice scomodo
I dubbi sull’opportunità di iniziare il viaggio con la tappa iniziale di Kiev e poi smorzare i torni di fronte al presidente russo

Di Franco Venturini

Matteo Renzi ha perso un’occasione importante per dare alla politica estera italiana l’autorevolezza che da troppi anni le manca. Aveva deciso, il presidente del Consiglio, di andare da Putin dopo una tappa iniziale a Kiev. Esercizio non privo di rischi formali, vista la mancanza di precedenti nell’Ue dopo l’annessione della Crimea (eccezion fatta per l’incontro tra Putin e Hollande all’aeroporto di Mosca, in dicembre). L’iniziativa di Renzi mi piaceva, al pari di certe sue insofferenze verso una Italia sempre troppo timorosa di disturbare. Ma chi vuole farsi sentire deve aver chiaro quel che intende dire, ed è qui che Renzi ha deluso.

Il presidente del Consiglio voleva dimostrare che, malgrado l’Ucraina e le sanzioni, l’Italia rimaneva un interlocutore privilegiato della Russia. Bene, la Germania o la Francia discutono anch’esse con Mosca di sanzioni e contro-sanzioni, ma con l’altra mano confermano di averle sottoscritte (come l’Italia), ne ribadiscono le motivazioni, auspicano la loro revoca ma avvertono l’interlocutore che c’è il rischio di una nuova stretta (ne ha parlato proprio ieri la Merkel, e gli americani guidati dal «falco» Victoria Nuland hanno già ripreso le pressioni sugli europei).

L’Ucraina, insomma, non poteva essere spinta sotto il tappeto dietro formule di comodo. E invece, se si deve giudicare dal poco che è stato reso noto, è andata proprio così. Viva gli accordi di Minsk-2 (le intese raggiunte il 12 febbraio da Russia, Ucraina, Francia e Germania), l’Italia darà tutto il suo appoggio, indicheremo modelli di autonomia che abbiamo in casa, e via compiacendo. Ma l’Occidente e l’Europa ai quali l’Italia appartiene avrebbero di sicuro gradito anche un invito a ritirare le forze russe dall’est dell’Ucraina, per esempio. E forse il più sorpreso nel non sentirselo ripetere, magari senza condonare le colpe di Kiev, deve essere stato proprio Putin. Questo di equilibrare meglio le responsabilità di Mosca e quelle di Kiev avrebbe potuto essere una chiave intelligente, che molti in Europa segretamente caldeggiano. L’Italia ne sarebbe uscita bene, propositiva e ferma nelle sue alleanze senza nulla perdere con Putin. Ma avvicinarsi troppo al business as usual dietro il paravento di Minsk-2 è stato un errore che servirà - poco - soltanto al Presidente russo.

Sugli altri obiettivi del viaggio Renzi ha avuto quel che cercava, ma non si tratta di novità: il ruolo della Russia in Siria, in Iran, nella guerra al terrorismo internazionale, sono utili promemoria ai quali tutti dovrebbero pensare. Sulla lotta all’Isis e sulla minaccia che rappresenta in Libia, Putin ha detto sì alla priorità italiana. Ma l’aveva già fatto, mettendo a disposizione navi militari, anche alla luce dell’asse che ormai la unisce all’Egitto. Renzi avrebbe potuto e dovuto fare meglio. Forse, da fiorentino, si è sentito prigioniero delle pagine di Dostoevskij sulla bellezza che salverà il mondo. Un sogno, oggi. Soprattutto in Russia.

6 marzo 2015 | 08:55
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_marzo_06/renzi-putin-l-ucraina-non-detto-un-vertice-scomodo-c4b9054e-c3cf-11e4-8449-728dbb91cb1a.shtml
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« Risposta #44 inserito:: Aprile 25, 2015, 05:04:48 pm »

Il segnale atteso sui migranti che è arrivato a metà
Ieri a Bruxelles la Ue ha forse preso coscienza degli orrori del Mediterraneo che esigono una risposta unitaria e decisa.
Ma questo primo passo non basta. Per salvare la sua identità serve andare avanti e presto

Di Franco Venturini

L’Europa non ha capito fino in fondo, ieri a Bruxelles, che il Mediterraneo trasformato in fossa comune metteva in gioco la sua legittimità morale e dunque politica. Non ha capito che la tragedia in corso, dopo tanta retorica, esigeva una risposta forte e solidale in armonia con i suoi valori. E così dal vertice straordinario è uscita una Europa ordinaria, capace sì di prendere alcune decisioni importanti («clamorose» le ha definite Renzi) ma già divisa sulla loro applicazione.

Consapevole sì dell’enormità della posta in gioco ma egoista fino all’inverosimile nel difendere interessi nazionali, sensibilità delle opinioni pubbliche o elezioni prossime.

Sappiamo bene che i flussi dei migranti, e dietro di loro la questione libica, pongono problemi di enorme complessità. Ma questo non può alleggerire la coscienza di una Europa chiamata a dar prova di sé davanti a una ecatombe che non finirà in assenza di iniziative sollecite e coraggiose. Ebbene l’Unione, allineando la solidarietà umanitaria con quella spesso centellinata nelle crisi finanziarie, ha fatto a metà. Ha triplicato la dotazione finanziaria dell’operazione Triton e di quella Poseidon, arrivando a quei nove milioni mensili che la sola Italia spendeva lo scorso anno con l’iniziativa Mare Nostrum. Ha moltiplicato le navi impegnate nel pattugliamento grazie agli impegni presi da Gran Bretagna (una portaelicotteri e due unità minori), Germania (tre fregate), Francia, Belgio, Irlanda. Ma ha lasciato alla discrezione di ogni comandante la possibilità di spingersi oltre le 30 miglia dalle coste italiane, che restano il limite della missione e riducono così la sua capacità di condurre operazioni di ricerca e salvataggio. Il premier britannico Cameron, a due settimane dalla prova delle urne, ha difeso una posizione che esemplifica bene il tenore del dibattito di ieri: diamo tre navi a Triton e speriamo di contribuire a salvare vite, ma le persone prese a bordo devono essere portate nel Paese più vicino cioè in Italia, non in Gran Bretagna. Il che oltretutto sembra contraddire gli accordi di Dublino, visto che una nave è territorio del Paese di cui batte bandiera.

Renzi è parso soddisfatto perché l’Europa si è data per la prima volta una strategia in materia di migrazioni. In parte ha ragione, visto che ci saranno più soldi, più navi, più iniziative di cooperazione con l’Africa (si terrà un vertice euro-africano a Malta) e soprattutto, come ha assicurato la Merkel, è stato avviato un percorso per cambiare la distribuzione dei profughi. Ma è anche vero che nella confusione dei dati che esiste anche in Italia alcuni tra i 28 hanno potuto sostenere nuovamente una tesi smentita dalle cifre e cioè che Triton deve evitare di costituire, come avrebbe fatto lo scorso anno Mare Nostrum, un incoraggiamento alle migrazioni offrendo soccorsi solleciti e maggiori probabilità di salvare la pelle. La verità è che i movimenti dei disperati che fuggono dalle guerre, queste sì sempre più numerose e crudeli, sono invece cresciuti dopo la fine di Mare Nostrum e soprattutto si sono moltiplicate le perdite di vite (circa mille contro 17 nel 2014, negli stessi mesi) . Ambiguo è anche il programma su base volontaria per accogliere cinquemila profughi in Paesi che non ne ospitano o ne ospitano pochi. E Renzi si è trovato talvolta quasi isolato nelle sue battaglie, con l’appoggio soltanto di Malta e Grecia perché persino la Spagna non voleva che la Ue mettesse il naso nei suoi metodi e la Francia appariva troppo timida o troppo preoccupata dal terrorismo che le cresce in casa. L’Europa dei piccoli passi non poteva però non affrontare l’altra faccia del «che fare», quella che contempla a titolo di ipotesi la distruzione dei barconi degli scafisti con «azioni mirate», l’individuazione e la cattura dei loro capi grazie al supporto dell’intelligence e a possibili azioni lampo, in una parola la guerra al «business dei migranti». La responsabile della politica estera della Ue, Federica Mogherini, è stata incaricata di approfondire simili possibilità anche dal punto di vista legale: serve prima una risoluzione dell’Onu, si può agire in assenza di una richiesta libica (da Tripoli è invece giunta una minacciosa contrarietà), chi parteciperebbe e chi no tra gli europei e tra gli altri? Compito arduo e forse non breve. E lo stesso si può dire dell’idea di esaminare le credenziali per l’asilo in Stati amici e vicini: chi accetterebbe di creare campi di rifugiati sul proprio territorio in attesa della sentenza dei funzionari, e dove andrebbe chi avesse superato l’esame? Forse in Germania, che accoglie già un terzo di tutti i rifugiati? Altro tempo, molto tempo, mentre il tempo non c’è. L’Europa ha forse preso coscienza ieri di almeno una parte degli orrori mediterranei che esigono una sua risposta il più possibile unitaria, alta e decisa. Non basta, se vuole salvare quel tanto di identità che le resta. Il primo passo ne esige altri.

24 aprile 2015 | 09:40
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