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Autore Discussione: Franco VENTURINI  (Letto 34313 volte)
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« inserito:: Aprile 28, 2008, 10:04:10 pm »

L'Occidente non può perdere


di Franco Venturini


La parata militare e gli squilli di tromba, le massime autorità riunite in tribuna, la sparatoria improvvisa. Ieri l’afghano Hamid Karzai ha rischiato di finire i suoi giorni come l’egiziano Anwar Sadat nel 1981. Ma le somiglianze tra l’omicidio politico tentato a Kabul e quello compiuto ventisette anni fa al Cairo, per quanto spettacolari, finiscono qui. Perché l’Afghanistan di oggi, a differenza dell’Egitto dei primi anni Ottanta, ospita una guerra che l’Occidente non sa come vincere e non può permettersi di perdere. La cronaca delle ultime settimane, è vero, ci racconta una storia che dovrebbe indurre all’ottimismo. La Nato ha confermato a Bucarest la sua determinazione nella lotta contro i talebani. Sarkozy manderà in Afghanistan altri settecento soldati.

La vittoria elettorale di Berlusconi pone fine alla fronda della sinistra radicale e suggerisce un maggior impegno dell’Italia. La Germania farà anch’essa qualcosa dopo la scadenza del mandato parlamentare in ottobre. I caveat sulla mobilità delle forze alleate diventeranno in linea di principio più elastici. Persino la Russia fa la sua parte, autorizzando il transito dei rifornimenti. Ma la guerra afghana, dietro queste foglie di fico, resta una sfida estremamente ardua per la coalizione atlantica come lo era già stata per l’impero sovietico e prim’ancora per quello britannico. I talebani, autori dell'attentato a Karzai, non perdono terreno e mostrano di poter agire anche nella capitale. Gli aiuti civili che raggiungono effettivamente la popolazione sono meno della metà di quelli erogati.

Dietro le polemiche interalleate sui caveat militari ve ne sono altre più discrete ma più gravi, sulle modalità operative e sull’opportunità di dialogare con la parte meno ostile dei talebani. Clamoroso è il dissenso (anche tra Usa e Gran Bretagna) sui metodi migliori per rallentare la coltura dell’oppio quando non provvede l’inverno. La sostenibilità politica delle perdite comincia a diminuire sui fronti interni dei Paesi impegnati in prima linea e sconsiglia gli altri dall’andarci. Nel Pakistan finalmente democratico affiorano tentazioni di compromesso con i gruppi estremisti tacitamente ospitati. E come se tutto ciò non bastasse, l’Afghanistan è ormai in marcia di avvicinamento alle elezioni presidenziali del prossimo anno. L’attentato di Kabul è probabilmente il primo atto di una campagna che ci riserverà altre violenze. Hamid Karzai, che l’anno venturo vorrebbe ottenere un nuovo mandato, è sotto assedio: gli occidentali lo accusano di debolezza, lo incalzano i «signori della guerra» presenti sul territorio ma anche nel Parlamento di Kabul, lo indeboliscono le novità provenienti dal Pakistan.

E lui, forte del fatto di non avere alternative, reagisce prendendosela con gli alleati della Nato che uccidono ancora troppi civili, che impediscono ai talebani recuperabili di farsi avanti, che non tengono nel dovuto conto l’orgoglio nazionale di tutti gli afghani. Dichiarazioni tattiche per recuperare popolarità, certo, ma purtroppo anche argomentazioni fondate. La crisi afghana si avvia così a diventare sempre meno governabile. Tra etnìe che si temono, interessi da oppio e alleanze mutevoli, sin da oggi è difficile immaginare il recupero politico di una parte consistente dei talebani. Così come non sembra avere un gran futuro la speranza atlantica di costruirsi una exit strategy fondata sulla progressiva «afghanizzazione» del conflitto. Esattamente come avviene in Iraq, anche se McCain è l’unico candidato presidenziale Usa disposto a riconoscerlo.

Ma l’Afghanistan, diversamente dall’Iraq, è una guerra al terrorismo collettiva sin dalle origini e legittimata dopo l’Onu anche dalle dichiarazioni di Al Qaeda. In quella Kabul dove ieri Karzai ha sfiorato la morte è in gioco il concetto stesso di Occidente, e per questo lì l’Occidente non può perdere. Il che non gli impedisce di essere lontano della vittoria.

28 aprile 2008

da corriere.it
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« Risposta #1 inserito:: Giugno 26, 2008, 03:52:12 pm »

L'OCCIDENTE E I DISASTRI AFRICANI

Il silenzio su Mugabe


di Franco Venturini


I massacri che passano sotto silenzio in Congo, la strage del Darfur che continua, la mattanza tra bande rivali e forze straniere in Somalia. L'Africa brucia, come sempre. E sta per inventare, se il tiranno Robert Mugabe ignorerà fino in fondo le pressioni internazionali, una formula politica del tutto inedita: il ballottaggio presidenziale con un solo candidato.

Pensieri da riva nord potrebbero indurci ad alzare le spalle davanti a fatti lontani e oscuri. Ma così facendo sbaglieremmo di grosso. In Africa si gioca una determinante partita geopolitica ed energetica tra Cina e America mentre Russia e India cercano spazio. In Africa è stata individuata la «nuova frontiera» di Al Qaeda. In Africa si vanno consolidando aree di forte crescita che potrebbero risultare utili alle stanche economie europee. In Africa rimangono terribili serbatoi di fame e di disperazione, di esseri umani pronti a morire pur di tentare l'approdo a Lampedusa e dintorni. L'energia, la sicurezza, l'economia, l'immigrazione clandestina: è forse lontana da noi, questa Africa? E in un continente dove la democratizzazione ha comunque fatto progressi, faremmo forse bene a voltarci dall'altra parte davanti allo scempio dello Zimbabwe?

La sfida lanciata da Robert Mugabe, ben al contrario, diventa un test: importante per l'Occidente, e fondamentale per gli africani. Soltanto Dio può togliermi il potere, afferma il dittatore di Harare mentre fa incarcerare o uccidere i suoi oppositori. Ma poi, forse proprio perché l'Africa è cambiata, oppure perché gli è rimasta una vaga traccia delle regole britanniche da lui stesso sconfitte nel 1979, Mugabe pretende dalle urne una paradossale legittimazione. Ed è qui che gli africani, prim'ancora della comunità internazionale, hanno l'occasione di punire il tiranno e di affermare se stessi.

Evocare un intervento militare esterno sia pure «di pace», come ha fatto il capo dell'opposizione Morgan Tsvangirai, è per il momento pura retorica. Ma la legittimità del potere, quella sì può essere strappata a Robert Mugabe. È l'alone da ultimo sopravvissuto della lotta anticoloniale, sono le sue false credenziali di generoso padre della patria che vanno cancellate al cospetto delle crudeli repressioni degli ultimi mesi. E sono gli africani a dover provvedere.

Certo, l'Occidente farà bene a studiare sanzioni più mirate e più efficaci di quelle in vigore. Ed è positivo che Cina e Russia abbiano sottoscritto la condanna dell'Onu. Ma se non saranno gli africani a considerare illegittime le elezioni di domani, se non saranno loro a promuovere un ricambio di potere a Harare o almeno un governo di transizione, se non saranno loro a isolare il tiranno che ha portato l'ex ricco Zimbabwe all'80 per cento di disoccupazione e al milione per cento di inflazione, l'Africa avrà mancato una grande opportunità. E l'avrà mancata anche il presidente sudafricano Mbeki, che più di tutti possiede l'influenza e i mezzi necessari per accrescere la legittimità africana negando quella di Mugabe.
Non sarà facile, proprio perché Mugabe è stato un eroe dell'anticolonialismo. Ma se l'Africa ce la farà come è nel suo interesse, se riuscirà a tagliare il cordone ombelicale ormai impresentabile che accosta Mugabe ai miti veri e falsi del riscatto indipendentista, allora anche agli ex colonialisti si imporrà qualche riflessione.

Il pensiero convenzionale vuole che il colonialismo abbia lasciato in Africa qualche opera, un vuoto di classe dirigente e confini forieri di violenze inevitabili. Tutto vero, ma non è vera, nemmeno in questo caso, la presunzione di impotenza che ne deriva. Se la Fao convoca un vertice sulla fame e poi resta al palo, è perché il doppio protezionismo degli americani e degli europei blocca ogni progresso. Se gli aiuti all'Africa si disperdono in mille rivoli, è perché i politici occidentali preferiscono i proclami e le grandi cifre a un impegno serio e programmato. Se in Darfur i massacri continuano, è perché alla più grande forza di pace mai varata dall' Onu continuano a mancare i due terzi degli effettivi e nessun Paese occidentale è pronto a contribuire.

Senza avere paura dei fantasmi della storia, l'Europa ex colonialista dovrebbe riconoscere di non avere una politica africana diversa dalla cura di alcuni interessi energetici e dai «gesti» umanitari. Invece una politica africana serve. E significa prevedere che gli africani vengano aiutati — di più — ma garantiscano in cambio livelli minimi di governance economica e politica. Significa incoraggiare le democrazie (senza «esportazioni» in punta di baionetta) e isolare i tiranni. Significa non permettere che i governi dei Grandi screditino l'Onu salvo poi metterla sotto accusa. Persa la speranza sul Darfur, è lo Zimbabwe il nuovo banco di prova.



26 giugno 2008

da corriere.it
« Ultima modifica: Marzo 27, 2010, 05:03:54 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #2 inserito:: Novembre 13, 2008, 02:51:30 pm »

EST-OVEST

Gli errori di Mosca

di Franco Venturini


I russi sono bravi in molti campi, ma in uno sono imbattibili: nel riuscire a passare dalla parte del torto anche quando hanno ottime frecce al loro arco.

È successo, l’estate scorsa, con la Georgia. Mosca e Tbilisi si provocavano reciprocamente da molti mesi, ma poi fu il presidente georgiano Saakhasvili, mentre il mondo intero guardava alle Olimpiadi di Pechino, a sbagliare i conti bombardando l’Ossezia del Sud e i suoi peacekeepers russi. Mosca non poteva stare a guardare, pena la perdita di ogni credibilità regionale e internazionale. Ma una volta superata con la mediazione europea la fase calda della crisi, il Cremlino avrebbe dovuto accontentarsi di un bottino già ricco. Invece, ha scelto di riconoscere l’indipendenza di Ossezia del Sud e Abkhazia. Con l’appoggio del solo Nicaragua. Contraddicendo la precedente indignazione per l’indipendenza del Kosovo. Mettendo in difficoltà i più disponibili tra i suoi interlocutori europei.

Qualcosa di analogo sta accadendo in queste ore nei messaggi che Medvedev e Putin (ma forse presto torneremo a dire Putin e Medvedev) stanno indirizzando al neoeletto Barack Obama. Il risentimento della Russia nei confronti dell’Amministrazione americana uscente è comprensibile. Malgrado il buon rapporto personale tra Bush e Putin, malgrado la lotta comune contro il terrorismo, malgrado i permessi di transito concessi dalla Russia verso l’Afghanistan, negli ultimi otto anni Mosca si è sentita vittima di una «strategia d’assedio» da parte statunitense. Prima la denuncia unilaterale del trattato Abm sulle difese missilistiche, poi l’estensione della Nato anche in territori ex-sovietici e la creazione di nuove basi militari ravvicinate (in Romania e in Bulgaria), poi ancora la volontà di far entrare Georgia e Ucraina nell’Alleanza Atlantica e — soprattutto — l’installazione di uno «scudo» anti-balistico in Polonia e nella Repubblica Ceca. Con gli Usa che sostengono di avere l’Iran nel mirino, e la Russia che si sente invece spiata e minacciata.

Non stupisce allora che tra Mosca e Washington la tensione abbia continuato a crescere, resuscitando persino approssimative ipotesi sul «ritorno della guerra fredda». Così come non stupisce che le ampie imperfezioni dell’autoproclamata democrazia russa, e l’uso dell’arma energetica da parte del Cremlino, abbiano avuto l’effetto di gettare olio sul fuoco.

Ma ora accade che Barack Obama abbia trionfalmente vinto le elezioni Usa, che manchino soltanto due mesi al suo insediamento alla Casa Bianca e che persistano, in attesa di opportune verifiche, le indicazioni emerse durante la campagna elettorale: posizione intransigente sulla integrità territoriale della Georgia (peraltro realisticamente irrecuperabile), e maggiore possibilismo sulla opportunità di schierare in Europa uno «scudo» anti- balistico la cui efficacia, tra l’altro, non è stata dimostrata.

Per il Cremlino si tratta di uno spiraglio non da poco, di una opportunità che andrebbe esplorata con la dovuta prudenza. E invece Medvedev che fa? Agita il bastone, rifiuta le proposte avanzate alla venticinquesima ora da Bush e annuncia che se Obama porterà a compimento il progetto dello «scudo» la Russia risponderà dislocando i nuovi Iskander nell’enclave di Kaliningrad.

Missile contro missile nel cuore della Nato e della Ue, con l’aggravante che se i vettori russi fossero dotati di testata nucleare salterebbe, dopo il trattato Cfe sulle forze convenzionali, anche l’Inf che vieta gli euromissili. E per non lasciare dubbi sulle sue intenzioni strategiche il Cremlino, mentre con una mano mostra il pugno di ferro, con l’altra torna a chiedere di negoziare un nuovo assetto complessivo della sicurezza europea. A Mosca non sembrano aver capito che intimorire, anche in sede di «risposta», non è sempre la tattica migliore. Obama, eletto su una linea internazionale più multilaterale e dialogante di quella di Bush, tutto può fare durante la transizione e il primo periodo di presidenza meno che mostrarsi debole, arrendevole o condizionabile da minacce esterne. Il risultato è che se anche avesse già deciso di archiviare lo «scudo», dopo i moniti di Medvedev dovrà come minimo rinviare la mossa. Eppure l’occasione di costruire un miglior rapporto Usa-Russia esiste, anche perché i principali governi europei (Berlusconi in testa) spingono in questa direzione e daranno il buon esempio domani a Nizza. Ma per raggiungere l’obbiettivo serviranno scambi di concessioni che Mosca non sembra contemplare. E servirà, soprattutto, che il Cremlino non dia ragione alla caricatura e non si muova con il garbo di un orso.

13 novembre 2008

da corriere.it
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« Risposta #3 inserito:: Gennaio 06, 2009, 11:42:52 am »

LA DIPLOMAZIA E LA GUERRA

La chance di Sarkozy


di Franco Venturini


L'agitarsi della diplomazia europea per i combattimenti a Gaza — pur ampiamente giustificato da considerazioni umanitarie — può apparire tardivo e inutile. Tardivo perché una Europa alle prese con la crisi finanziaria non si spese troppo, in novembre e nella prima metà di dicembre, a favore del rispetto e del prolungamento della vacillante tregua tra Israele e Hamas. Inutile perché è noto a tutti che Gerusalemme non intende per ora accettare alcuna tregua, ma anzi si sforza, come ha energicamente fatto ieri Tzipi Livni, di ricordare gli impegni che la comunità internazionale ha da tempo preso proprio contro Hamas.

Eppure nell'iniziativa dei ministri Ue non tutto è fuori tempo o ingenuo. Così come non è soltanto un caso di bulimia politica, dopo i successi della presidenza europea, a far giungere in Medio Oriente l'inarrestabile Nicolas Sarkozy. Il capo dell'Eliseo sembra invece avere in mente due obbiettivi ben chiari. Primo distinguersi da Bush, inserirsi nel vuoto della transizione americana e se possibile condizionare il silenzioso Obama che tra due settimane sarà alla Casa Bianca. Secondo e più importante, posizionare se stesso e l'Europa per un eventuale «scenario libanese», nel quale, come al termine del conflitto tra Israele e Hezbollah nel 2006, si rivelasse utile un apporto esterno per garantire la stabilità. Nel Sud Libano nacque Unifil II, e allora fu l'Italia a guidare l'operazione. Lo scenario può ripetersi a Gaza? La Livni e molti altri lo negano, ma nel dubbio questa volta è la Francia a proporsi. Il che ci porta a un quesito fondamentale: appurato che di tregua imminente non si parla, quale sarà la strategia israeliana nel medio termine?

Lo strapotere militare di Gerusalemme punterà a sradicare con la forza Hamas e ad eliminare i suoi leader, oppure Gaza sarà teatro «soltanto» di un castigo tanto duro da bloccare il lancio di razzi contro la popolazione civile israeliana e da indurre Hamas a più miti consigli? Immersi come sono in una campagna elettorale, la Livni, Barak e il loro rivale Netanyahu hanno lasciato trasparire approcci non identici. Che si riducono a due schemi principali. Nel primo, quello più radicale, l'operazione «piombo fuso » deve servire ad archiviare la struttura di potere di Hamas una volta per sempre, perché soltanto così Israele potrà acquisire la certezza di non vedersi piovere addosso nuovi razzi magari più micidiali di quelli usati finora dagli estremisti palestinesi. Questa ipotesi, però, avrà un prezzo alto in perdite di vite anche civili, comporterà una almeno iniziale rioccupazione militare di Gaza, e scaverà tra israeliani e palestinesi un fossato forse non più colmabile, certamente non colmabile da un delegittimato Abu Mazen seduto sui carri armati di Israele.

Non stupisce che a Gerusalemme consensi più ampi accompagnino un secondo scenario. No alla rioccupazione permanente o semi-permanente di Gaza. No alla eliminazione fisica di Hamas, perché non si può eliminare un intero movimento che è anche di popolo e che nel 2006 vinse le elezioni palestinesi. Sì a una azione militare tanto prolungata quanto servirà per distruggere le attrezzature di lancio dei razzi, i tunnel sotterranei di rifornimento, e ogni altro sostegno alla sfida missilistica di Hamas. A quel punto e soltanto a quel punto sarà concepibile un cessate il fuoco. Che tuttavia lasci a Israele le mani libere per nuove incursioni in caso di necessità e non conceda a Hamas l'apertura dei varchi di transito da e per Gaza (gli uomini di Hamas sono certamente pericolosi fanatici, ma andrebbe ricordato che la gestione di questi varchi da parte israeliana non è estranea ai furori che regnano nella Striscia) . Si tratta, in questo secondo caso, di uno scenario realistico? Certamente sì, ma molte sono ancora le incognite.

Per accettare la tregua Israele ha bisogno che siano prima cessati quei lanci di razzi che continuano in queste ore. Altrimenti si tratterebbe di una «non vittoria», come nel 2006 in Libano. Hamas ha invece l'esigenza opposta: che fino a un minuto prima del cessate il fuoco siano stati ancora lanciati dei razzi, in modo da avere qualcosa da negoziare. Malgrado la sproporzione delle forze, l'esito di questo braccio di ferro non è scontato. Come non è sicuro che serva, o che venga accettata (anche se Ehud Barak sarebbe meno contrario della Livni) una garanzia internazionale sul terreno. E soprattutto, che dirà, che farà Obama quando si sarà tolto il bavaglio che porta sulla bocca? Anticipare i tempi va bene, ma forse Sarkozy ha anticipato troppo. La guerra, sconvolgente al di là di ogni propaganda, continuerà. E gli abitanti civili di Gaza, fratelli per una volta del caporale israeliano Gilad Shalit ostaggio di Hamas, continueranno a sperare di vederne la fine.

06 gennaio 2009
da corriere.it
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« Risposta #4 inserito:: Febbraio 25, 2009, 10:10:33 am »

IL PIANO USA E L’IMPEGNO ITALIANO

La prima linea afghana


di Franco Venturini


Per l’Afghanistan si cambia? Lo hanno promesso il presidente Obama e il generale Petraeus, lo auspicano da anni gli alleati europei, ma ora che dalle parole bisogna passare ai fatti l’annunciata «nuova strategia» diventa più incerta ogni giorno che passa. L’America manderà altri 17 mila soldati. Tanti, si compiacciono i capi militari. Ma il surge di Obama in Afghanistan funzionerà come funzionò, grazie a Petraeus, quello di Bush in Iraq? Se non proprio il pessimismo, prevalgono i dubbi. Il «cimitero degli imperi», come lo chiama Ahmed Rashid, potrebbe riservare alla Nato la stessa sorte propinata agli inglesi e poi ai sovietici. E non si tratta soltanto del peso della Storia: oggi la guerra si combatte in Afghanistan ma anche in Pakistan, i talebani sono ovunque all’offensiva, si rafforza il potente incentivo del narcotraffico, e gli alleati occidentali, invece di conquistarlo, stanno perdendo l’appoggio della popolazione.

Anche perché nel 2008 sono stati uccisi dai bombardamenti 2.118 civili, la cifra annuale più alta dall’inizio delle ostilità. La ricetta di Obama, non a caso, ha due direzioni di marcia. La prima è militare, mentre la seconda, altrettanto importante, punta a un programma di ricostruzione efficace e percepibile da parte della popolazione. Cose in verità già dette, e mai attuate a livello adeguato. Manca il coordinamento tra impegno armato e impegno civile, gli aiuti stanziati sono insufficienti e arrivano a destinazione con il contagocce (Kabul afferma addirittura che ingenti somme siano state contabilizzate due volte), impera la corruzione e anche per questo si vorrebbe, ma soltanto in teoria, che Karzai non fosse confermato Presidente il prossimo agosto. E che dire degli europei? Offrono in coro complimenti a Obama, ricordano fieri «noi lo avevamo detto». E poi, in aggiunta ai rinforzi provvisori per il periodo elettorale, arrivano 600 uomini dalla Germania, 500 dall’Italia, 1.000 dalla Francia un anno fa. Molto meno di quanto volesse l’America, ma la nuova America è pragmatica: date allora, dice la Casa Bianca agli alleati, un ulteriore aiuto civile e finanziario.

Con l’insicurezza che cresce in ogni angolo dell’Afghanistan, con la crisi economica che incalza? Possiamo esserne certi, giungeranno altri gesti dimostrativi e poco più. La dichiarata «priorità » di Obama in politica estera, così, si scopre chiusa in una trappola che lascia pochi margini di manovra. Il concetto di «vittoria» va ripensato come è stato ripensato in Iraq, e non potrà comunque essere soltanto militare. Petraeus proverà, con poche probabilità di successo, a dividere i talebani come fece con i sunniti in Iraq. Il fattore Pakistan è una chiave di volta essenziale, ma nemmeno lì le cose vanno bene. Anche perché Obama deve ancora risolvere il dilemma tra incursioni armate oltre confine e relative ricadute nazionaliste che alimentano l’appoggio ai talebani.

E poi ci sono gli alleati, contenti del cambiamento degli Stati Uniti ma soprattutto cauti nell’appoggiarlo. Cosa farà la Spagna, riconciliata con Washington al punto che Moratinos vedrà oggi Hillary Clinton tre giorni prima di Frattini? Cosa farà la Polonia, se troverà i soldi per muovere le sue truppe? L’Italia un segnale di disponibilità lo ha dato, pur considerando «non permanente» l’accoglimento di una eventuale richiesta di intervento in prima linea. In realtà è poco probabile che un tale sollecito arrivi. Governo e opinione pubblica italiani, piuttosto, dovrebbero essere consapevoli del fatto che tutto l’Afghanistan è avviato a diventare una prima linea, che presto non esisteranno più «zone relativamente tranquille», e che i rischi per i nostri soldati, malgrado il loro impegno sia anche civile, crescono di settimana in settimana.

Barack Obama è presidente da troppo poco tempo per meritare che i suoi progetti vengano trattati come vane illusioni. Ma non deve stupire che siano sempre più numerosi, in Occidente, coloro che identificano l’idea di vittoria con una semplice exit strategy da questo infernale Afghanistan «cimitero degli imperi». Ed è forse qui che la nuova Amministrazione Usa potrà pesare di più. Allargando la questione afghana a tutta la regione (compreso l’Iran, che l’Italia vuole invitare a una riunione G-8). Parlando con quella parte del nemico che accetti di parlare costruttivamente. Migliorando i rapporti con la popolazione civile. E soprattutto accelerando la creazione di un esercito nazionale afghano in grado di raccogliere il testimone. L’alternativa è quel «Vietnam di Obama» che sarebbe, questa volta, anche il nostro.

24 febbraio 2009
da corriere.it
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« Risposta #5 inserito:: Marzo 02, 2009, 11:36:28 am »

Pragmatismo triste


di Franco Venturini


Se le buone intenzioni contassero più dei fatti, l'Europa avrebbe compiuto ieri un sostanziale passo avanti nella ricerca di una strategia anti-crisi. Esisteva il rischio di ricostruire il muro di Berlino vent'anni dopo la sua caduta? Non è andata così, perché ai soci dell'est che si erano riuniti per proprio conto prima del vertice di Bruxelles è stato ricordato che i «blocchi » non esistono più, che la solidarietà europea si manifesta caso per caso e che persino la presidenza ceca rifiuta l'idea di aiuti distribuiti su base regionale.

Il protezionismo affiorante minacciava di vanificare i benefici del mercato unico e di ingigantire il caos dell'ognun per sé? A Bruxelles la scomunica del protezionismo è stata unanime, e il mercato unico è stato descritto come insostituibile motore della ripresa e della crescita economica. Risultava impossibile mettere ordine nel settore bancario e riaprire il rubinetto del credito senza prima conoscere l'ammontare dei «titoli tossici » detenuti dagli istituti di credito e poter così elaborare risposte adeguate? I Ventisette hanno concordato una cornice comune europea, la Commissione eserciterà un ruolo di sorveglianza, e l'ipotesi della bad bank ha perso quota: oltre agli scettici della prima ora, anche in Italia perché Berlusconi non la ritiene necessaria e in Francia perché Sarkozy non la vuole.

Questo sarebbe il bilancio di Bruxelles, se le buone intenzioni contassero. Ma alle parole, con lo tsunami economico che incalza, è difficile fermarsi. L'est europeo rimane una bomba a orologeria, e il pericolo non è quello segnalato dal premier ungherese che ieri con una mano chiedeva 180 miliardi di aiuti e con l'altra paventava il ritorno della Cortina di ferro. Certo, l'est come blocco ha cessato di esistere. Ma proprio per questo le sue insolvenze sono legate a doppio filo con la salute delle banche «occidentali » che su quei mercati si sono gettate a capofitto dopo il precoce allargamento europeo del 2004.

Se Ungheria e Lettonia (i messi peggio) diventeranno Stati falliti, crescerà il rischio che l'Austria scivoli sulla stessa china, l'intento di dare regole nuove all'attività finanziaria diventerà ingestibile, e si dovranno moltiplicare nazionalizzazioni e aiuti d'emergenza. Il pericolo del muro, di un muro assai più contorto e discontinuo di quello di Berlino, resta in agguato. Il protezionismo è un male e il mercato unico è un bene. Ma chi ne dubitava? Il fatto è che l'unica alternativa al nazionalismo economico (e dunque al protezionismo) risiede in politiche comuni, quelle che l'Europa avrebbe dovuto mettere in essere.

Ma abbiamo dimenticato che quando Sarkozy (l'accusato di oggi) suggerì prima la creazione di fondi europei anti-crisi, e poi la valorizzazione dell'Eurogruppo e un governo comune dell'economia, fu la signora Merkel a dire nein onde evitare che la Germania pagasse per altri? Da lì, da quei rifiuti sono partite le vie nazionali alla crisi. E oggi è davvero difficile immaginare come possano essere fermate. Un esempio: Sarkò ha ritirato le clausole anti-delocalizzazione annesse ai massicci aiuti di Stato alla sua industria automobilistica. In cambio la Commissione ha approvato gli aiuti, legittimandoli. E noi dovremmo credere che le aziende automobilistiche francesi non ricorderanno egualmente quelle clausole, non le riterranno politicamente vincolanti? Il protezionismo, anche quello mascherato, si accentuerà con l'accentuarsi della crisi. E a salvare il mercato unico non basterà di certo la foglia di fico esibita ieri. Una «cornice europea» contro i titoli avvelenati. Benissimo.

Ma sembra di capire che dentro la cornice ogni Paese farà da sé, come sul resto. Il decantato coordinamento europeo diventerebbe allora ancor più labile, quello con gli USA risulterebbe impossibile, e a ciò nessun G-20 potrebbe porre rimedio. E poi, quanti sono questi veleni presenti nella pancia delle banche mondiali, tre volte il patrimonio delle banche stesse come ieri ha ipotizzato Berlusconi, di più, molto di più? L'Italia si sente al riparo, ma anche lei deve domandarsi come si farà a combattere il male se le banche di ogni latitudine continueranno a non indicare la sua gravità. Quello di ieri a Bruxelles è stato un tentativo di mettere d'accordo regole Ue sempre più in crisi e interventi pubblici sempre più massicci. Tentativo meritevole, ma fragilissimo davanti all'avanzare della crisi. E dopo, quando la tempesta sarà passata? Gli strappi saranno reversibili, oppure la Ue si scoprirà ridotta in macerie? Questo, oggi, sembra interessare poco. La casa brucia, bisogna spegnere l'incendio e si penserà poi ai danni che avranno fatto i pompieri. Per l'Europa è un pragmatismo triste.

02 marzo 2009
da corriere.it
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« Risposta #6 inserito:: Aprile 15, 2009, 08:52:57 am »

IL DIALOGO CON IRAN E TALEBANI

Obama e la mano troppo tesa


di Franco Venturini


Barack Obama l’ave­va detto: la mia sarà la politica della ma­no tesa. Bene, per­ché l’approccio ideologico e non dialogante di George Bu­sh aveva creato più problemi di quanti ne avesse risolti. Ma anche la politica della ma­no tesa ha un punto debole: occorre che la controparte l’accetti davvero, che esista­no tra i contraenti traguardi condivisi e flessibilità sul mo­do di raggiungerli. Altrimen­ti, la mano tesa può diventa­re sinonimo di debolezza. Può lasciare spazio a sapienti finzioni e a trappole micidia­li. Obama corre questo tipo di rischi? La risposta è sì, an­che se occorre sperare che si tratti di rischi calcolati.

Cominciamo dall’eccezio­ne che conferma la regola. Obama non aveva teso la ma­no alla Corea del Nord. La cu­pa dittatura di Pyongyang ha allora bussato alla porta del­la Casa Bianca con il lancio di un nuovo missile, e, visto il modesto esito dell’impresa, ieri ha sollecitato l’attenzio­ne del Presidente Usa ria­prendo il contenzioso nuclea­re e dando un calcio al tavolo dei negoziati. Domanda: si sa­rebbero comportati allo stes­so modo, i nordcoreani, se non avessero calcolato che Obama deve difendere la coe­renza della sua politica del sorriso?

L’America di Obama ha fat­to del conflitto afghano la sua priorità. Entro pochi me­si arriveranno sul terreno 21 mila nuovi soldati Usa. Il raf­forzamento dello strumento militare, nella strategia di Obama, è funzionale alla di­struzione di Al Qaeda e in contemporanea alla indivi­duazione di una pragmatica exit strategy. Per facilitare le cose si è pensato di tendere la mano ai talebani «modera­ti » cercando di dividerli da quelli più intransigenti. L’idea non è inedita, il gene­rale Petraeus l’ha collaudata in Iraq con i sunniti, e in Af­ghanistan come altrove è giu­sto parlare con tutti a comin­ciare dai nemici (in modo di­retto o indiretto lo fanno, ap­punto, tutti). Peccato che l’Af­ghanistan non sia l’Iraq, e che i talebani non siano le ve­nali bande sunnite della pro­vincia di Anbar. Peccato che per le forze occidentali la guerra butti male. Peccato che i talebani non abbiano in­centivi al dialogo (semmai l’incentivo sta dalla parte del traffico di oppio). Il piano del bastone e della carota, in­somma, rischia di cadere nel vuoto. E nel frattempo il Paki­stan potrebbe andare in pez­zi.

Obama ha teso la mano, soprattutto, all’Iran. Accenti di disponibilità, coinvolgi­menti diplomatici, segnali non troppo invadenti in vista delle elezioni di giugno (con la speranza non dichiarata che Ahmadinejad le perda), e infine una proposta nego­ziale in bella forma. Teheran ha accettato. Ma nel contem­po ha precisato che i pro­grammi nucleari prosegui­ranno, al pari di quelli balisti­ci. E nulla ha detto delle sue influenze armate in Medio Oriente. Il rischio è ovvio: che l’Iran incassi le conces­sioni promesse ma non dia nulla in cambio. Secondo il New York Times gli Usa e l’Europa potrebbero trattare con Teheran senza più esige­re la preventiva sospensione dell’arricchimento dell’ura­nio. Sarebbe una scommessa ulteriore. Forse capace di mandare in archivio l’opzio­ne militare, forse vincente malgrado gli scontati e fon­dati timori di Israele, forse in grado di orientare favorevol­mente l’esito elettorale. For­se. Ma se la scommessa inve­ce non funzionasse? Obama rischia di trovarsi alla fine senza più opzioni salvo quel­la militare che voleva seppel­lire.

Ne dobbiamo concludere che Obama sbaglia, quando tende la mano?

No di certo. Ma dobbiamo, questo sì, au­gurargli moltissima fortuna, perché ne avrà e ne avremo bisogno.


15 aprile 2009

da corriere.it
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« Risposta #7 inserito:: Maggio 21, 2009, 10:16:06 am »

La trappola di Teheran


Nella cronaca diplomatica i colpi di scena non sono una rarità, ma quello toccato ieri al nostro ministro degli Esteri ha pochi precedenti. Franco Frattini aveva già preparato la valigia e si accingeva a partire per Teheran quando il protocollo iraniano, con un’ora o poco più di anticipo, ha trasmesso alla Farnesina una nuova «condizionante» richiesta: doveva essere previsto un incontro con il presidente Ahmadinejad a Semnan. Nella stessa località, cioè, dove l’Iran aveva appena lanciato con successo un missile terra-terra di nuova generazione, capace di colpire Israele, le basi Usa in Medio Oriente e l’Europa sudorientale. Fiutata la trappola che lo avrebbe in qualche modo associato al minaccioso esperimento balistico, Frattini ha giustamente deciso di non partire. E sulla pista sono rimaste soltanto due inevitabili considerazioni.

La prima riguarda proprio il ministro Frattini, che nel prevedere il viaggio ha peccato d’imprudenza. Non perché la sua politica di coinvolgere l’Iran nella stabilizzazione dell’Afghanistan e del Pakistan sia errata. Non perché l’Italia abbia preso una iniziativa isolata (Hillary Clinton era d’accordo, gli europei sapevano che Frattini si sarebbe mosso entro la fine di maggio). Ma piuttosto perché fra tre settimane in Iran si elegge il nuovo presidente. Perché a Teheran è in corso una campagna elettorale opaca e senza esclusione di colpi. Perché era prevedibile che in questo clima Ahmadinejad, favorito ma non sicuro di vincere, avrebbe tentato di usare a suo profitto la prima visita di un ministro degli Esteri occidentale negli ultimi quattro anni (cosa diversa è stata la missione del rappresentante Ue Solana nel 2008).

Ahmadinejad—ed è questa la seconda considerazione—ha infatti puntualmente confermato il suo profilo politico: quello di un provocatore a tempo pieno che tenta di bilanciare il disastro dell’economia iraniana distribuendo a piene mani l’oppio dell’ipernazionalismo e dell’odio verso Israele. La corsa al nucleare (che a dispetto degli scettici egli afferma essere pacifica) e lo sviluppo dei missili balistici (che pacifici non possono essere) rappresentano le «cambiali» elettorali di Ahmadinejad, le uniche di cui egli davvero disponga. Non meraviglia allora il tentativo di Frattini, né può stupire la ben scarsa considerazione in cui il presidente iraniano mostra di tenere l’Europa e l’Italia, che pure è il primo partner commerciale di Teheran. Convinto che sia l’Occidente ad avere bisogno di lui e non viceversa, Ahmadinejad riconosce soltanto agli Usa la dignità di interlocutore. Ma poi non esprime, nemmeno in quella direzione, una politica che autorizzi le speranze messe in campo da Washington e che Frattini voleva corroborare.

L’incidente diplomatico di ieri, così, serve a ricordarci che l’Iran resta un problema pericolosamente aperto. La Casa Bianca dovrà aspettare il dopo-elezioni per capirci qualcosa. Obama ha rifiutato di fissare un limite alla sua pazienza come gli chiedeva Netanyahu, ma ha avvertito che in mancanza di progressi entro il 2009 l’Occidente farà ricorso a nuove e più dure sanzioni. Il che metterà alla prova la coesione transatlantica. E non basterà ad escludere un ricorso preventivo alla forza da parte di Israele. È su questa mina che il nostro ministro degli Esteri, pur animato dalle migliori intenzioni, è andato a mettere il piede. Una mina ancora metaforica, per fortuna.


Franco Venturini

21 maggio 2009
da corriere.it
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« Risposta #8 inserito:: Maggio 26, 2009, 02:55:42 pm »

Ricatti globali


Per bussare alla por­ta di Obama la Co­rea del Nord ha scelto l’unico meto­do che conosce: il ricatto nucleare. Il test atomico di ieri è il primo dal 2006, quando alla Casa Bianca c’era ancora George Bush e Pyongyang voleva alzare la posta di un balbettante ne­goziato. L’anno dopo, in ef­fetti, si arrivò a un accordo molto vantaggioso per i nord-coreani. Ma poi nel mondo sono sorti nuovi problemi e soprattutto è ar­rivato Barack Obama.

Secondaria rispetto alle molte urgenze che attende­vano il nuovo presidente, la Corea del Nord si è senti­ta trascurata. Ecco, allora, il promemoria del 5 aprile: il lancio di un missile bali­stico a lunga gittata. In Oc­cidente, proteste e nient’al­tro. Forse, deve aver pensa­to il carissimo leader Kim Jong-il, serve un messag­gio più forte. È il turno del­l’esplosione sotterranea di un ordigno atomico.

La cronaca di queste ore ci riferisce di altre proteste, di altra indignazione, di al­tri impegni all’intransigen­za. Ma in realtà l’America e la comunità internazionale nascondono un segreto: la loro impotenza, oggi come ieri, davanti alle reiterate provocazioni di Pyong­yang.

La più parossistica e iso­lata dittatura comunista del pianeta ha l’atomica e un esercito di un milione di uomini, ma senza mas­sicci aiuti non è in grado di nutrire decentemente i suoi cittadini. Gli Usa di Bu­sh avevano pensato di per­correre questa strada. A Pyongyang arrivarono tan­ti generi di prima necessi­tà. Ma tutto quel ben di Dio, invece di indurre i ge­rarchi nord-coreani al prag­matismo, ebbe l’effetto con­trario: Pyongyang ruppe con Seul e cacciò gli ispetto­ri dell’Agenzia atomica pri­ma di rinnovare, per due volte, il suo solito ricatto. Evidentemente alla casta paranoica che governa la Corea del Nord serve anche quello status che soltanto l’attenzione dell’America può conferire e serve so­prattutto che il Paese conti­nui a essere un grande cam­po di concentramento pri­vo di rischi per il potere. Un potere misterioso, che dopo la malattia di Kim Jong-il potrebbe essere og­gi nelle mani di militari ol­tranzisti.

Il risultato è la sconfitta di tutti. Della Cina, che si vanta di esercitare su Pyon­gyang una certa influenza. Della Russia, che usa citare la sua mediazione con i nord-coreani come esem­pio di comportamento co­struttivo. Ma anche del­l’America di Obama, che ve­de aprirsi un nuovo fronte di crisi proprio mentre l’ira­niano Ahmadinejad restitu­isce al mittente l’idea di ne­goziare sull’arricchimento dell’uranio.

Proprio nei confronti dei programmi atomici del­­l’Iran e delle bombe atomi­che già esistenti nella Co­rea del Nord si è detto spes­so che gli Usa di Bush ab­biano applicato due pesi e due misure. È vero, per ra­gioni ovvie: l’Iran minaccia Israele e può far scattare la proliferazione nucleare nel grande forziere mondiale del petrolio, la Corea del Nord è inattaccabile per­ché garantita dalla Cina e non crea un pericolo di pro­liferazione in aree cruciali. Eppure Obama, malgrado queste differenze, dovrà porsi il problema. Forse è il caso che sia lui, per una vol­ta, a ritirare la mano che era stata tesa ai ricattatori di Pyongyang.

Franco Venturini
26 maggio 2009

da corriere.it
« Ultima modifica: Dicembre 28, 2009, 10:03:02 am da Admin » Registrato
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« Risposta #9 inserito:: Giugno 27, 2009, 10:38:25 am »

LE CAUTELE DEL G8

Joan Baez a Teheran


Sull'Iran il G8 di Trie­ste ha fatto il massi­mo di quello che po­teva fare, cioè non molto. Nel comunicato ven­gono deplorate le violenze del dopo-elezioni e si chie­de il rispetto dei diritti umani. Parole che possono sembrare insufficienti. Ma due motivi impedivano di andare oltre. Non si voleva uno scontro con la Russia, che comunque ha accetta­to espressioni mai prima sottoscritte. E soprattutto occorreva lasciare aperto lo spiraglio nel quale Ba­rack Obama aveva infilato la sua mano tesa.

La posizione del presi­dente Usa si va facendo ogni giorno più difficile. Al­le prime manifestazioni di protesta e alle prime vitti­me della repressione Oba­ma aveva reagito con gran­de cautela. Poi le violenze delle milizie pro Ahmadi­nejad sono diventate intol­lerabili, e il volto coperto di sangue della giovane Ne­da ha fatto il giro del mon­do diventando la bandiera di una rivolta di popolo. Obama ha allora alzato il to­no, fino a parlare, come ha fatto ieri, di oltraggio alle regole internazionali e di brutalità senza limiti delle autorità di Teheran. Nessun capo della Casa Bianca avrebbe potuto fare diversamente. Ma Barack Obama, ed è qui il legame con Trieste, non ha mai detto che la sua disponibili­tà al dialogo veniva revoca­ta, non ha mai messo una croce definitiva sulla spe­ranza di prevenire la poten­ziale minaccia nucleare ira­niana con il metodo del ne­goziato.

La linea di Obama è giu­sta: davanti al calvario di Teheran l'Occidente deve riaffermare i propri valori senza troppi peli sulla lin­gua, e nel contempo non deve tornare a quella dottri­na bushiana del «non si parla con» che tanti guasti ha prodotto e che nessuno applica fino in fondo. Ma è proprio qui, è su questa mano tesa malgra­do tutto, che Ahmadinejad fa ora piovere i suoi veleni. Nei giorni scorsi, mentre i blog di Teheran riferivano di massacri non verificabi­li, il presidente iraniano si è scagliato contro Gran Bre­tagna e Stati Uniti. La Bbc è diventata una organizzazio­ne sovversiva. Si è provve­duto ad allontanare due di­plomatici inglesi. È stato ti­rato in ballo un complotto della Cia. Gli Usa sono stati accusati di ingerenza, e Obama di «parlare come Bush». È stato resuscitato, insomma, il vecchio Sata­na a stelle e strisce che per decenni ha nutrito il nazio­nalismo iraniano.

Scaricare all'esterno le tensioni interne è un classi­co. Ma in questo caso il gio­chetto di Ahmadinejad può avere conseguenze gra­vi, come se non bastasse la tragica perdita di vite uma­ne che ha insanguinato Teheran. Nessuno, nemme­no Obama, potrà superare in poco tempo la somma negativa delle pesanti accu­se pubbliche all'America e della repressione armata. Il negoziato nucleare, am­messo che un giorno ci sia, è rinviato per esigenze poli­tiche. Ma nella vicenda del nucleare iraniano il tempo è un fattore cruciale, per­ché al di là dei morti e del­le rampogne l'arricchimen­to dell'uranio prosegue. Obama per primo, così, po­trebbe trovarsi un giorno con una sola opzione sul ta­volo: quel ricorso alla forza che tutti, Israele compreso, preferirebbero evitare.

Ancora una volta Ahma­dinejad si comporta come se «volesse» essere bom­bardato. E Obama, tra mil­le equilibrismi, deve impe­gnarsi in una ardua corsa contro il tempo per rende­re possibile una soluzione alternativa. Paradossale. Forse non ci resta che spe­rare in Joan Baez, la splen­dida voce del movimento anti Vietnam, quando tor­na a cantare il suo We shall overcome in lingua farsi.

Franco Venturini
27 giugno 2009
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« Risposta #10 inserito:: Luglio 09, 2009, 12:16:21 pm »

L'incognita cinese


Il G8 dell'Aquila, ieri, non è rimasto orfano del presidente Hu Jintao. Perché la Cina entrerà in scena soltanto oggi nel formato del G14, ma anche perché gli Otto hanno mostrato coraggio decisionale proprio là dove Hu Jintao, prima di rientrare improvvisamente a Pechino, aveva comunicato al presidente di turno Berlusconi il suo scetticismo: nella difesa dell'ambiente. Per la prima volta gli Otto si sono impegnati a ridurre le emissioni di gas serra del 50 per cento entro il 2050 (rispetto ai livelli del 1990, anche se Obama preferirebbe fissare il riferimento al meno severo 2005). Il solito proclama, le solite buone intenzioni destinate a rimanere lettera morta? Forse no, perché i Paesi più industrializzati, recependo le critiche di quelli emergenti, promettono che per loro il taglio sarà dell'80 per cento. Così, dicono gli otto Grandi, si riuscirà a ottenere che la temperatura globale non salga di più di due gradi rispetto all'era pre-industriale.

E qui torna in gioco Hu Jintao. Perché senza la partecipazione di Cina e India l'accordo di ieri rischierebbe di giungere moribondo alla conferenza di Copenaghen incaricata di disegnare il dopo Kyoto. Perché senza Cina e India gli stessi europei danno diverse interpretazioni dei loro accordi in sede Ue, figurarsi gli americani. Oggi, insomma, l'assenza di Hu si farà sentire. Forse anche lui direbbe no. Ma soprattutto è improbabile che la sua acefala delegazione dica sì. E così dovrà ricominciare quella rincorsa della Cina che oggi, come mai prima, tiene in ostaggio il mondo.

Non è forse vero, in tema di crisi economica e finanziaria, che la Cina ha stimolato il suo mercato interno più di chiunque altro e continua a crescere dell'otto per cento? Non è forse vero che la Cina finanzia buona parte del deficit statunitense? Il G8 di ciò è perfettamente consapevole come lo è il G20 e la sua diagnosi, tutta prudenza diversamente da quella sul clima, non ha riservato sorprese. E' vero che esistono segnali di miglioramento, ma la ripresa ancora non c'è ed è prematuro parlare di exit strategy per prevenire che i massicci stimoli già varati inneschino inflazione o portino alle stelle i debiti pubblici. Bisogna invece tenere la rotta, preparare un sistema di regole (i global standards voluti dall'Italia), rafforzare e riformare il Fondo monetario, colpire i paradisi fiscali. E, con urgenza, lottare contro la disoccupazione. Il seguito alla prossima più importante puntata, al G20 di Pittsburgh, in settembre.

E le crisi regionali, l'impegno alla non proliferazione appena sottoscritto da Obama e Medvedev, la scontata condanna della Nord Corea che spara missili come fuochi d'artificio? C'è stato anche questo, ieri. Con la condanna di Ahmadinejad per la negazione dell’Olocausto, e una formula più morbida sulle repressioni post-elettorali. Perché il consenso è di continuare a scommettere sulla politica della mano tesa nella speranza di imbrigliare le ambizioni nucleari di Teheran. Una scommessa a tempo, per forza di cose. Piuttosto, sui 160 ammazzati dello Xinjiang, non era il caso di dire una parola? Dimenticavo, anche se è partito, Hu Jintao pesa.

Franco Venturini
09 luglio 2009

da corriere.it
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« Risposta #11 inserito:: Dicembre 28, 2009, 09:59:52 am »

Cambiare strategia

Dopo la «mano tesa » di Obama, dopo le proposte negoziali dell’Agenzia atomica, dopo gli avvertimenti che le sanzioni sono in arrivo e le iniziative militari non vanno escluse, l’Occidente non sa più cosa fare con l’Iran. A Teheran la protesta anti- regime è ormai un movimento di massa, ma non di una massa qualunque. I filmati sfuggiti alla censura mostrano che i dimostranti sono quasi tutti giovani. E se questo è un elemento importante ovunque, lo è particolarmente in Iran dove 48 milioni di cittadini (la maggioranza della popolazione) hanno meno di 33 anni. Non basta. I tumulti dalla capitale si sono estesi a tutte le principali città, e a Teheran sono stati teatro di violenze anche quei quartieri della nomenklatura sciita che inizialmente i dimostranti evitavano.

La sfida al potere diventa dunque sempre più decisa, e nulla fa pensare che un regime sulla difensiva possa riassorbire il dissenso militante di chi, pur appoggiando in linea di principio i programmi nucleari iraniani, vuole libertà, modernizzazione, prosperità economica e una politica estera di dialogo. Quella in atto è ormai una rivoluzione strisciante. Che ha avuto per primo risultato quello di invadere i Palazzi di Teheran e sconvolgere gli equilibri preesistenti. E per secondo quello di trasformare l’Occidente in un re nudo.

Lo si è visto in occasione delle proposte per l’arricchimento dell’uranio in condizioni di sicurezza: il «falco» Ahmadinejad stavolta pareva propenso al confronto, mentre il presunto moderato Larijani ha guidato il partito del «no». Non si sa più, in pratica, a chi debba rivolgersi la «mano tesa» di Obama, o chi a Teheran sia eventualmente in grado di stringerla senza rischiare l’accusa di tradimento.

Certo, abbiamo in riserva le nuove sanzioni. Ma dietro i paraventi formali, chi crede alla loro efficacia? La Cina, sempre in cerca di buoni affari, fa il doppio gioco. La Russia è possibilista con Medvedev e contraria con Putin. In Europa gli unici davvero convinti sono i francesi. Ma anche loro sanno che è difficile colpire il regime senza colpire il popolo, e che l’unica sanzione in grado di spaventare Teheran, quella del blocco del greggio che torna dall’estero trasformato in benzina, è di fatto inattuabile.

La conseguenza è che davanti all’Iran e ai suoi piani nucleari l’Occidente si muove in un vuoto strategico, prigioniero dei suoi tentativi falliti. E inevitabilmente avanza così l’opzione militare, pur carica com’è di robuste controindicazioni tanto per Israele quanto per gli Usa e gli altri occidentali. Verrebbe da pensare che Obama, nel 2010, dovrà tentare di guadagnarsi proprio in Iran il suo Nobel per la pace. Ma la bacchetta magica non sembra averla nemmeno lui. Forse è più giusto riporre la nostra speranza nei ragazzi e nelle ragazze di Teheran, pronti a sacrificarsi per quel che noi non sappiamo dar loro.

Franco Venturini

28 dicembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #12 inserito:: Febbraio 23, 2010, 03:06:08 pm »

La svolta di Americani e Inglesi


L’opposizione esagera e non cattura la logica di quanto sta accadendo in Afghanistan, la maggioranza sottovaluta e rivela qualche contrasto di accenti. Così il presunto «caso Sequi», nato dalla mancata conferma del diplomatico italiano a rappresentante della Ue a Kabul, è stato preso in ostaggio dai soliti litigi nostrani. Mentre si dovrebbe alzare lo sguardo, e tentare di capire.

Da una settimana le forze americane e britanniche dislocate nell'Afghanistan meridionale conducono un’offensiva contro la roccaforte talebana di Marja. L’operazione si inserisce in una nuova strategia suggerita dal comandante delle forze Nato Stanley McChrystal e ratificata dagli alleati. In estrema sintesi, si tratta di far leva sui rinforzi forniti dagli Usa e in piccola misura dagli europei (gli italiani più di tutti, con 1.000 uomini) per attuare tre fasi successive. Nella prima talebani e qaedisti devono essere battuti militarmente là dove sono più radicati, sperando che i pachistani facciano altrettanto oltre confine. Nella seconda l'Isaf e il governo di Kabul devono tendere la mano a chi volesse scegliere il dialogo. Nella terza le forze straniere sperano di cominciare a ritirarsi e di passare la mano agli afghani entro il 2013.

Un piano del genere non ha molte probabilità di riuscita perché ai talebani manca quella sensazione di sconfitta imminente che potrebbe spingerli al compromesso, ma ha il merito di essere comunque un piano dopo tanta confusione nella strategia degli occidentali. Piuttosto, è davvero arduo sperare in uno sbocco accettabile del progetto se continuerà ad accadere quel che è accaduto ieri: l'ennesimo bombardamento sbagliato, l’ennesima strage di civili. Come potranno i militari della Nato tendere la mano all'insieme della popolazione locale (la «fase due») se continuerà a crescere, come è cresciuto nel 2009, il numero dei civili uccisi in bombardamenti dal grilletto troppo facile?

La questione resta aperta, ma è l'insieme dello sforzo americano che qui ci interessa. Le forze di Washington in Afghanistan si apprestano a diventare maggioranza rispetto a tutte le altre messe insieme. Il comando è americano. Il piano che si tenta di attuare, anche se la cosa viene detta con pudore politico (si parla di «reinserimento» dei talebani), è americano. Sono gli americani, assieme ai britannici, ad attaccare Marja e a preparare i passi successivi.

Può allora davvero meravigliare, più che mai dopo l'annunciata defezione olandese, che americani e britannici vogliano avere uomini loro nei posti-chiave? Il rappresentante Ue a Kabul è uno di questi, e il nuovo prescelto della baronessa Ashton, il lituano Usackas, è particolarmente vicino tanto a Washington quanto a Londra. La delusione è legittima, perché Ettore Sequi aveva fatto bene. Ma gridare allo scandalo —anche se è vero che i 1.000 uomini promessi dall'Italia qualcosa dovrebbero contare—significa non capire che al punto in cui siamo gli anglo-americani preferiscono controllare ogni bullone di una macchina che deve vincere per poi portare al disimpegno.

Non vi è dunque motivo di polemica antigovernativa, così come è errato dire che nulla di rilevante è accaduto. In entrambi i casi si fa torto al nostro impegno in Afghanistan, al quale servono invece determinazione e serenità di giudizio.

Franco Venturini
23 febbraio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA

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« Risposta #13 inserito:: Marzo 27, 2010, 04:58:40 pm »

I NODI DELL’ACCORDO OBAMA-MEDVEDEV

Il disarmo e la polveriera


Se tutte le settimane fossero come questa, Barack Obama potrebbe essere certo di avere un posto nei libri di storia. Dopo la firma martedì di una riforma sanitaria ridimensionata ma comunque rivoluzionaria per gli Usa, ieri il capo della Casa Bianca ha annunciato il suo primo tangibile successo in politica estera: un accordo con la Russia per tagliare i rispettivi arsenali nucleari

I numeri del nuovo trattato, che è il più importante dalla caduta del muro di Berlino, servono a ricordarci che viviamo tutti seduti su una polveriera e che la fine della guerra fredda non ha eliminato l'esistenza di ordigni atomici in grado di polverizzare molte volte l'intero pianeta. E' dunque con un senso di consapevole relatività che le riduzioni concordate vanno viste: i russi, che ne hanno di più, taglieranno del trenta per cento le loro 2.500 testate offensive; gli americani, che ne hanno 2.000, le porteranno a livello di 1.550 stabilendo così con i russi una parità a livello più basso.

Quel che rimarrà in entrambi gli arsenali sarà ancora ampiamente in grado di provocare l'apocalisse. Del resto il disarmo tra Washington e Mosca è sempre stato materia di piccoli passi, con la differenza che questa volta Obama è deciso ad andare oltre e a proporre persino la sua visione, purtroppo utopica, di un mondo totalmente privo di armi nucleari. Nulla vieta di sperare. Ma a chi vuole tenere i piedi per terra non sfuggirà che l'importanza dell'accordo è più politica che militare

Perché rafforza Obama trasformando in risultati concreti quel tanto pubblicizzato reset che aveva fatto seguito ai tempestosi rapporti tra il Cremlino e la presidenza Bush. Perché va incontro anche agli interessi russi, i quali hanno difficoltà a mantenere il loro enorme arsenale e volevano concludere un trattato di disarmo con l'America. Soprattutto, perché l'intesa che Obama e Medvedev sottoscriveranno l'8 aprile a Praga potrebbe avere una serie di ricadute positive su due appuntamenti ormai prossimi: la conferenza per la sicurezza nucleare a Washington e, in maggio, il delicato tentativo di rilanciare il Trattato di non-proliferazione (Tnp).

Gli Usa e gli europei (ma con maggior discrezione anche i russi) sperano di rendere più ardue le acrobazie che consentono oggi all'Iran di dichiararsi «in regola » con le disposizioni del Tnp. Vogliono evitare che si inneschi una proliferazione atomica (per esempio a seguito della nascita di armamenti nucleari iraniani) che segnerebbe il tramonto definitivo delle attuali limitazioni. E ritengono che l'esempio dato con l'intesa tra Mosca e Washington, oltre a soddisfare una clausola del medesimo Tnp, possa rafforzare la mano di chi contro la minaccia di proliferazione vuole continuare a battersi.

Intenti realistici? Ne dubitiamo. Soprattutto perché dubitiamo che l'Iran si faccia impressionare dal patto Usa-Russia, e perché sappiamo che un Iran nucleare renderebbe inevitabile un processo di proliferazione. Ma finché esiste la trincea essa va difesa, ed è questo che l'Obama vittorioso vuole fare. Certo, non tutte le settimane saranno come questa. Sarà rischiosa, in particolare, quella in cui il Senato di Washington si esprimerà sulla ratifica di un accordo sospettato di limitare le difese anti- balistiche americane. Ma per ora Obama non ci pensa, e si gode il calendario.

Franco Venturini

27 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #14 inserito:: Ottobre 30, 2010, 12:34:24 am »

L'ansia del debito altrui

Nei suoi dissensi l'Europa ha spesso trovato spinte di progresso, ma i contrasti che l'affliggono oggi, radicalizzati da ricette economico-finanziarie che toccano in profondità le culture dei singoli Stati, rischiano per la prima volta di farla bruscamente arretrare.
Sin dal primo affacciarsi della crisi innescata dal dissesto greco, la Ue si è trovata davanti un bivio: arrendersi al caos, oppure cogliere nel crollo delle finanze elleniche una occasione per varare, se non proprio un governo, almeno una governance economica comune. La novità è che ora, dopo che ognuno ha detto la sua e che l'ha detta soprattutto Angela Merkel, l'Europa si scopre costretta a scegliere tra una decadenza ineluttabile e un arduo salvataggio. Il braccio di ferro tra le due opzioni andrà ben oltre il rinvio a dicembre che chiuderà stasera il vertice dei Ventisette. E andrà anche oltre le modifiche già concordate e ratificate ieri del Patto di Stabilità, che vedono l'Italia soddisfatta dall'allargamento dei criteri per calcolare il debito.

La Germania di Angela Merkel e la Francia di Nicolas Sarkozy, questo è il punto, vogliono molto di più e lo vogliono entro il 2013. In cambio di un minore automatismo nell'infliggere punizioni agli Stati che mal gestiscono le loro finanze pubbliche (questo voleva Sarko), la cancelliera ha ottenuto dal capo dell'Eliseo l'impegno a una revisione del Trattato di Lisbona. Per introdurre un meccanismo permanente volto a proteggere i soci virtuosi dall'insolvenza dei reprobi, e per introdurre la possibilità di privare i cattivi del diritto di voto in Consiglio. Quanto basta per provocare nella maggioranza degli «altri» un muro di obbiezioni. Ci sono voluti otto anni per varare il Trattato di Lisbona, dovremmo modificarlo e ricominciare con il tormento dei referendum e delle ratifiche? E poi, è davvero pensabile per uno Stato sovrano l'espulsione di fatto, anche se provvisoria, dalla Ue?
Il presidente Van Rompuy ha proposto di introdurre il fondo permanente con una procedura che non rimetta in gioco tutto il Trattato. Alcuni pensano che la Merkel rinuncerà alla privazione del voto per i Paesi dalle mani bucate. Si vedrà a dicembre. Ma quel che a molti sembra sfuggire è che dietro la partita contabile-disciplinare riemergono culture nazionali consolidate e tenaci, in grado di orientare le rispettive opinioni pubbliche contro l'intesa.

La Germania patria del rigore è rimasta traumatizzata dalle truffe di bilancio greche. Con l'adozione dell'euro abbiamo concluso un contratto e altri lo hanno violato, è il ritornello tedesco. Ora per andare avanti servono garanzie e castighi. L'Euro deve diventare un nuovo Marco, per difendere la Germania dal lassismo altrui. La Germania, insomma, non è più quella che diceva «se è buono per l'Europa, è buono per noi». Non è più quella di Kohl che ricordava la guerra. E la sua opinione pubblica esige di essere rassicurata, prima di correggere i suoi attuali e inediti soprassalti di eurostanchezza. Quanto all'alleata (per ora) Francia, davvero accetterà di modificare il suo pensiero di sempre sull'intangibile sovranità degli Stati? E che dire di quanti - come noi, nei decenni - hanno cercato nella finanza allegra un supplemento di benessere?
Oltre alla volontà politica, questa volta per progredire servirà una convergenza di storie diverse. Altrimenti l'Europa si scoprirà senza un modello di sviluppo e senza un progetto per il suo futuro, con danno dei suoi già scossi sistemi democratici.

Franco Venturini
29 ottobre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_ottobre_29/ansia-debito-altrui-franco-venturini-editoriale_9fea8a06-e31b-11df-b688-00144f02aabc.shtml
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