PARTITO DEMOCRATICO (dopo il voto).
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23/6/2008 (7:37) - RETROSCENA - LE STRATEGIE PER IL DOPO
Se Walter si stufa parte la sfida dei quarantenni
I favoriti: potrebbe essere l'ora del dalemiano Gianni Cuperlo o del bettiniano Nicola Zingaretti
FABIO MARTINI
ROMA
L’altro giorno Erminio Quartiani, cinquantenne deputato milanese del Pd, lo diceva scherzando ai colleghi: «Mica finisce che Walter ci saluta e se ne va in Africa?». Quella di Quartiani era una battuta, ma il problema è che da qualche tempo lo stesso interrogativo tormenta le riunioni notturne di una nuova lobby: quella che fa capo a Goffredo Bettini, uomo forte di Walter Veltroni. Già da settimane un drappello di quarantenni veltroniani - tra gli altri il ligure Andrea Orlando, il friulano Alessandro Maran, il lombardo Maurizio Martina, il veneto Andrea Martella, il romano Nicola Zingaretti - si incontrano e sotto la regia di Bettini, ragionano attorno a due scenari entrambi temuti: che succede se Veltroni, stanco delle tanti ostilità interne, non regge e decide di mollare? E che succede se invece Walter è costretto a lasciare dopo una possibile flessione del Pd alle Europee del 2009?
Certo, i “bettiniani” non discutono solo di questo, anche perché Walter Veltroni per ora non sembra avere alcuna intenzione di dar corpo alla vocazione africana. Il segretario tira dritto, ieri ha glissato sulla richiesta di sue dimissioni, mostra di pensare al futuro senza ansie. Certo, per ora la questione di un ricambio del leader è stato posto soltanto da Arturo Parisi ed è possibile che nelle prossime settimane, nei prossimi mesi e nei prossimi anni il leader del Pd riesca a riassorbire le tante spinte che vorrebbero portarlo fuori pista, ma è pur vero che il tema del dopo-Veltroni per la prima volta comincia ad occupare le chiacchiere e le riunioni delle correnti interne. Un tema di cui si occupano due “cenacoli” tra loro contrapposti. Quello di Goffredo Bettini, king-maker da una vita. Quello di Massimo D’Alema. E dai due circoli escono tentazioni analoghe: se proprio bisognerà trovare un successore a Walter, si potrebbe saltare la generazione dei 40-50enni più “visti” - personaggi come Pierluigi Bersani, Enrico Letta, Sergio Chiamparino, Rosy Bindi - e planare su quarantenni meno sperimentati.
Nel circolo di Goffredo Bettini il nome più accreditato è quello di Nicola Zingaretti. Quarantadue anni, romano, fratello minore di Luca - il commissario Montalbano - Zingaretti è salito alla ribalta nazionale 45 giorni fa, quando è stato eletto presidente della Provincia di Roma, compiendo il miracolo di ottenere nelle stesse sezioni elettorali della Capitale 59.000 voti in più di Francesco Rutelli. Protagonista di un cursus honorum da politico di una volta (segretario della Sinistra giovanile, consigliere comunale, segretario dei Ds di Roma, europarlamentare), Zingaretti assomma al profilo del “giovane vecchio” (in politica da 26 anni, un lessico che ricorda i quadri Pci), anche alcuni tratti naif. Nel suo sito, per spiegare “chi sono”, Zingaretti dice di sé: «Dal 1995 al 1997, come vicepresidente dell’Internazionale socialista giovanile, vivo in prima persona alcune tra le più significative vicende politiche degli ultimi anni: contribuisco a ricostruire la rete con i partiti progressisti in Bosnia».
Di pasta diversa è Gianni Cuperlo, uno dei pupilli di Massimo D’Alema. Quarantasette anni, triestino, una spessore culturale insolito per un politico - dalla comunicazione alla letteratura - un sito Internet e un blog molto letti, da un anno Cuperlo è uscito dall’officina dalemiana e nell’ultima Assemblea nazionale ha scandito una frase destinata a restare proverbiale. Rivolto a Veltroni «e a chi è stato alla guida negli ultimi 15 anni», ha chiesto «ad una intera leadership di lavorare per consegnare alle nuove generazioni un nuovo partito». Massimo D’Alema sta dunque meditando ad una riedizione del “metodo Deng”, il leader cinese che attorno a sé promosse una generazione giovane, tagliando fuori quella di “mezzo”? Alla fine l’enigma resta lo stesso di sempre: se davvero Veltroni un giorno dovesse uscire di scena, dopo uno strappo così cruento, il Pd è pronto a mettersi nelle mani di giovani di belle speranze? A quel punto non suonerà l’ora di Pierluigi Bersani? L’ex ministro, parlando di rinnovo generazionale, la mette così: «Non basta essere giovani, servono giovani di lungo corso, che abbiano già maturato esperienza, che godano di credibilità esterna». Se non è autoritratto, ci somiglia molto.
da lastampa.it
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Il braccio destro del leader: il congresso? Nel Pd la maggioranza era contraria
Bettini: «Arturo è un picconatore»
«Siamo colpiti e amareggiati per un attacco così violento e fuori misura»
ROMA — Bettini, Parisi si è arrabbiato sul serio questa volta. Non la colpisce un affondo di questo tipo da parte sua?
«Mi colpisce e mi amareggia l'attacco al Pd e a Veltroni così violento e fuori misura. Discutere è necessario come il pane, ma farlo a colpi di piccone è insensato».
Veramente Parisi spiega qual è il senso della sua uscita.
«Ma cosa vuole Parisi? Veltroni è stato chiamato da tutti in un momento di sbandamento e di lotta nella coalizione del centrosinistra. Ha mobilitato milioni di persone alle primarie, ha costruito il partito, ha fatto una campagna elettorale appassionata e innovativa, suscitando tante energie».
E ha perso...
«Certo non siamo al governo, ma abbiamo costruito la più grande forza riformista della storia italiana. Queste cose ho visto che le spiega molto bene un commentatore intelligente e certo non di sinistra come D’Alimonte sul Sole 24 Ore. E’ facile dare lezioni quando si è sempre "trasportati" da chi fa la fatica e ha il coraggio di mettere la faccia in prima persona. Nel centrosinistra ci sono troppi commentatori perennemente garantiti».
Nel centrosinistra vi sono anche molti giovani, ma sono ancora lontani dalle leve del comando.
«Verrà ilmomento in cui finalmente i giovani più bravi del Pd prenderanno la scopa per rinnovare veramente. E mi ci metto per primo io tra quelli da rinnovare. Anzi ho detto più volte che sento la mia funzione dirigente quasi esclusivamente legata a questo obbiettivo e alla costruzione di un partito totalmente nuovo».
A un certo punto sembrava che doveste andare a un congresso anticipato. Ora invece non se ne parla più, che è successo?
«Walter e io ancora più convintamente dopo il voto abbiamo proposto di tenere subito un congresso per discutere e verificare il gruppo dirigente e la sua linea in un rapporto di massa con gli iscritti e gli elettori. Le opinioni sono state in grande maggioranza contrarie: insistere avrebbe rafforzato in alcuni la sensazione di avere di fronte un imperatore buono in lotta contro gli oligarchi. Si è scelta un’altra strada che ci porterà in autunno a un importante momento nazionale di discussione politico-programmatica. Ma guardiamo avanti perché l’assemblea di venerdì è stata un successo politico».
Un successo? Non c’era nessuno.
«Le sedie vuote? Era un venerdì di giugno e sono tre volte che riuniamo un’assemblea che è di fatto un congresso, non un semplice organismo dirigente. Si guarda ossessivamente al dibattito all’interno del Pd e quasi mai all’assenza totale di vita democratica dei partiti della destra italiana. Nell’assemblea si è discusso con serietà, a partire dalla relazione di Veltroni che ha parlato crudemente della sconfitta ma ha anche rivendicato i punti fondamentali di un progetto politico che ha già cambiato grandemente lo scenario italiano. Si tratta ora di iniziare un cammino con modestia e tenacia. Nell’assemblea Marini, Fassino, Follini, Bersani, Bindi e Cuperlo, per parlare solo di alcuni tra i più autorevoli, hanno portato contributi diversi e anche critici, ma tutti guardando in avanti. E poi l’assemblea ha finalmente cominciato a promuovere forze nuove e libere da appartenenze anche nella formazione della Direzione nazionale ».
Perché tutta questa insistenza sul concetto del guardare avanti?
«L’urgenza di guardare in avanti, senza mai perdere tuttavia lo sforzo di una ricerca delle ragioni profonde della difficoltà, non solo in Italia ma in tutta Europa, delle forze di progresso sta nel fatto che la luna di miele del governo Berlusconi si sta rapidamente consumando. Hanno fatto tante promesse. Ma la crisi dell’Alitalia, così come i rifiuti, gli strappi istituzionali e le bugie sui buchi del bilancio di Roma sono sotto gli occhi di tutti. Così come stanno lì le drammatiche condizioni dei salariati e dei pensionati i cui redditi Tremonti vorrebbe legare a una previsione dell’inflazione che è metà di quella reale. Insomma, si cominciano a intravedere tutti gli elementi per una grande mobilitazione di massa che noi faremo in autunno e che cambierà definitivamente, almeno lo spero, il clima nel Paese».
Maria Teresa Meli
23 giugno 2008
da corriere.it
Admin:
Pd, otto punti per ripartire
Goffredo Bettini
1. Via via che scorrono i giorni mi pare che nel nostro popolo, e tra i gruppi dirigenti, si consolidi il nucleo essenziale del giudizio sul voto.
Abbiamo subito una sconfitta per il governo del Paese. Da non sottovalutare. Che viene da lontano. Allo stesso tempo, in un corpo a corpo senza precedenti, abbiamo piantato sul terreno la bandiera di una speranza. Il PD. La più grande forza riformista della storia italiana. Simile, per qualità e dimensione, ai grandi partiti che in tutta Europa sono alternativi alla destra. Senza questa speranza la sconfitta si sarebbe trasformata in una disfatta. Ci sono ora, invece, le condizioni per ripartire e combattere.
2. Per farlo, questo a me pare cruciale, occorre non perdere il filo che ci lega alla spinta, all’entusiasmo, all’innovazione che, innanzitutto, Veltroni è riuscito a mettere in campo nelle primarie, nella campagna di fondazione del Partito, nella competizione elettorale. È naturale che dopo la "botta" ci sia stata una fase sospesa. Ritengo fisiologiche incertezze e squilibri. Guai, tuttavia, a dimenticare che abbiamo messo in moto un "popolo", nuovo nella sua composizione. Esso si disperderà se la sospensione si dovesse protrarre oltre misura. E senza fondate ragioni.
3. I tempi di una nuova iniziativa nella società stringono. Il PD ne è consapevole. La crisi italiana si sta aggravando. Complice il governo di destra. Il Paese è spezzato. Socialmente: una parte non ce la fa proprio più. Salariati, pensionati, redditi fissi, giovani. Il ceto medio rischia di sprofondare. La carta dei poveri è l’implicita conferma che si dà per scontato questo processo. Poi, invece, c’è l’Italia dell’economia nera, illegale, criminosa. Dei manager superpagati, delle fortune finanziarie e delle "bolle" immobiliari. Quanto può reggere tutto ciò? Ma l’Italia è spezzata anche geograficamente e nel rapporto tra cittadini e istituzioni. Sta saltando un patto più generale che motiva lo stare insieme di una nazione, come ricorda sempre Reichlin. Si rivelano urgenti e fondate le ragioni per cui è nato il PD. C’è un’emergenza che chiama. Ci sono un coraggio, una missione, un senso nuovo dell’unità tra di noi che ci debbono guidare. L’impresa non è scontata. Ma immergendoci totalmente in questa Italia, così ricca di talenti e così dolente, possiamo forgiare il Partito. La sua vocazione maggioritaria. Ad un Paese spezzato dobbiamo rivolgere un "discorso" coerente ed unitario, che sappia riallineare nel nostro progetto la difesa delle parti più colpite del nostro popolo, con una prospettiva democratica valida per tutta l’Italia, ed un nostro posizionamento politico ed economico competitivo dentro il mondo, attraversato dai processi di globalizzazione.
4. Se questa è l’ispirazione di fondo, da perseguire con tenacia e pazienza, come non vedere anche le occasioni che la contingenza apre di fronte a noi? Avverto che possiamo rialzare la testa, anzi che la stiamo già in parte rialzando. Dopo il voto sembravamo chiusi in una morsa. Già le cose stanno cambiando. La luna di miele di Berlusconi sta esaurendosi rapidamente. È chiara la loro risposta. Accettazione della recessione e dell’inflazione. Abbassamento dei livelli di vita e dei consumi. Carità a chi non ce la fa, protezione per chi in qualche modo già ce l’ha fatta. E a completamento: l’ossessiva difesa dei loro interessi e di quelli del premier. In autunno verranno tempi ancora più duri. Tra la destra e la gente si apriranno crepe profonde. Tra il governo, e la risposta solo distruttiva che abbiamo visto a Piazza Navona, si apre dunque una prateria per un’iniziativa riformista. Per questo Veltroni ha voluto intrecciare la costruzione del Partito e il lancio del tesseramento con una grande mobilitazione di massa. "Salva l’Italia", appunto! Una petizione con cinque milioni di firme ed un fiume di popolo il 25 ottobre a Roma.
5. Non voglio nascondermi il fatto che ha contribuito ad una nostra fase di sospensione, un presunto contrasto nel gruppo dirigente su punti non secondari della nostra strategia. Il concetto, per esempio, di vocazione maggioritaria. Da alcuni letto come volontà di autosufficienza e scarsa attenzione per una politica di alleanze. Mille volte l’abbiamo detto: vocazione maggioritaria è volontà (necessità!) di rivolgere una nostra proposta riformista al Paese. Ponendo fine, per sempre, all’idea di essere i sensali che mediano le innumerevoli posizioni di alleanze tanto estese quanto litigiose e poco credibili; realizzate contro qualcuno e incapaci di governare, poi, per un progetto coerente. Lavoriamo per schieramenti coesi, affidabili nel loro profilo riformista. Dentro questa ottica o capovolgimento di logica, non abbiamo preclusioni o pregiudiziali verso alcuno nel campo democratico. Da soli non rivinceremo mai. Ma sappiamo che tali alleanze comportano un rinnovamento, in tutto il campo del centro-sinistra. Che ancora non c’è. Ecco perché mi pare un po’ accademico oggi, e del tutto irrealizzabile, parlare di un’intesa che va da Rifondazione all’UDC. O anche di un rapporto solo alla nostra sinistra. O solo alla nostra destra. Trovo tutto ciò politicistico, e alla fine statico. I partiti sono in una fase di forte transizione. Interloquiamo e spingiamo, piuttosto, per una loro riflessione positiva. Lasciamo allo sviluppo delle cose la maturazione di possibili futuri schieramenti elettorali per il governo.
6. Così come la discussione sulla legge elettorale (su cui è certamente utile avere un’iniziativa e una proposta anche in vista del referendum) ha, tuttavia, nel modo stringente con il quale è stata avanzata, un valore più simbolico, politico che concreto. Non voglio interpretare il pensiero di altri: ma nella sottolineatura della bontà del modello tedesco in D’Alema vedo la comprensibile preoccupazione di lanciare un messaggio ai possibili nostri interlocutori. Tutto ciò è positivo. Ma se questo è: non impicchiamoci sui modelli. In Parlamento, prima della caduta di Prodi, si era raggiunto un sostanziale accordo. Univa il modello tedesco con quello spagnolo. È la sostanza che ci deve interessare. È necessario un sistema elettorale che aiuti la costruzione di partiti che abbiano una loro autonomia, libertà, radicamento, profilo ideale. Nessuno pensa a soluzioni bipartitiche o di democrazia plebiscitaria. Ma deve essere chiaro l’obiettivo di ridurre la frantumazione patologica del nostro sistema politico, di ridare ai cittadini la possibilità di scegliere i propri rappresentanti e soprattutto di rendere chiaro prima del voto per quale governo e schieramento si vota, in una logica bipolare.
7. Democrazia dei partiti. Ma quali partiti? È vero che sono stati anni di antipolitica e di destrutturazione dei partiti. C’è stata qualche debolezza culturale ed ideale anche nostra. Forse. Ma il punto è un altro. Lo sfrondamento plebiscitario, populista, demagogico che ha contribuito a mettere le ali a Berlusconi, sta nel fallimento-esaurimento dei partiti della prima repubblica e nella loro assoluta incapacità di pensarsi in modo diverso. Il PD nasce per aprire una nuova stagione della politica. È la nostra scommessa più alta e difficile. Ci chiamiamo partito. Vogliamo fare le tessere. Organizzarci e radicarci. Ma dobbiamo farlo in modo nuovo. Non parlo solo di una decisiva funzione di formazione dei giovani, delle nuove classi dirigenti. Di un’animazione di ricerca culturale e ideale. Funzioni così scemate nei vecchi partiti e anche nella politica attuale di tutti i giorni. Dove pare che nessuno abbia più tempo per nessuno. E l’ansia del fare va tutta a discapito del pensiero profondo. Parlo di un’operazione ambiziosa che il PD deve tentare: ricostruire i termini di una nuova rappresentanza democratica. La rappresentanza è confronto, scambio, assimilazione di dati e poi, però, "potere" e "decisione". Ecco perché penso ad un partito che nello svolgimento della sua battaglia dia ai suoi iscritti "potere" e "decisione". I circoli debbono essere i "forum" di questa nuova rappresentanza. Decisioni impegnative (da quelle economiche a quelle sulle alleanze, da quelle sui temi eticamente sensibili alla selezione dei dirigenti), tutto deve passare attraverso campagne di discussioni libere, documentate, organizzate nazionalmente (anche con l’uso delle nuove tecnologie), dove ognuno vota con la propria testa, vale per uno, e contribuisce a costruire una volontà politica collettiva e democratica. Che peserà, in alcuni casi in modo vincolante. Abbiamo perciò bisogno come il pane, anche per istruire tali periodiche consultazioni, del pluralismo. E dobbiamo rafforzare le fondazioni, i centri di ricerca, le associazioni. Ma dico, anche a costo di sembrare vecchio, che personalmente sono contro le correnti: quelle catene di comando antidemocratiche che partono dal centro e vanno fino all’ultimo comune italiano e che alla fine non producono competizione delle idee, ma lotta per il potere; ossificando il nuovo partito nelle vecchie appartenenze. Quando ci sono i congressi si confrontano i leader e le loro piattaforme. Ma dopo ci dovrebbe essere una fusione generosa tra persone con storie diverse o senza storie, che possono continuamente unirsi e dividersi e poi riunirsi nella costruzione democratica e partecipata della volontà e decisione politica.
8. Il PD è la sola forza che ha dentro di sé le energie, i talenti, i leader che per forza, storia e autorevolezza possono tentare questa grande impresa riformista. Ad essi si intrecciano giovani di straordinario avvenire, cresciuti nella società, o nella Margherita, o nei DS. E oggi chiamati a grandi responsabilità. Sta a noi capire lo spirito del tempo, che invoca grandi prove e non un vivacchiare abitato dal ritorno di personalismi e chiusure antiche. Meglio una squadra che tenta una vittoria storica, piuttosto che singoli protagonisti, destinati tutti alla sconfitta.
* Coordinatore Iniziativa Politica PD
Pubblicato il: 20.07.08
Modificato il: 20.07.08 alle ore 14.58
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Dietro le quinte
Pd, spunta l'incubo del «nuovo Prodi»
«È una campagna per farci fuori»
Lo spettro del «federatore» e la tentazione Casini
ROMA — La mattina dopo Walter Veltroni è ancora nero. E si sfoga al telefono con un compagno di partito: «E' la seconda offensiva contro il Pd in pochi mesi: prima hanno appoggiato la manifestazione di piazza Navona che era chiaramente contro di noi, ora questa storia di Tavaroli...». La voce del leader tradisce disappunto, nervosismo e stanchezza. Nel quartier generale del Partito democratico ci si interroga ancora sugli articoli de la Repubblica. E tra un dubbio e l'altro, si insinua il sospetto che dietro ci sia di più, che la partita non la stia giocando solo quel giornale ma i cosiddetti «poteri forti» (il responsabile organizzativo del Pd Beppe Fioroni usa un altro termine che evoca scenari poco rassicuranti: «La massoneria»). Quale che sia la definizione usata si fa strada l'ipotesi di «una campagna orchestrata» con lo scopo di screditare tutta la dirigenza del partito, e, in definitiva, il Pd stesso.
Piero Fassino, che ancora l'altro giorno invitava i compagni di partito a non trarre conclusioni fantapolitiche e a «non fare dietrologie», con i collaboratori, ora, ragiona così: «È in atto un tentativo di delegittimare la classe dirigente del centrosinistra». Sembra proprio esserne convinto, il ministro degli Esteri del governo ombra: «Prima l'hanno fatto con me, quando ero segretario dei Ds, hanno orchestrato una campagna pensando che fosse meglio Walter. E adesso che Veltroni è diventato leader del Pd delegittimano anche lui, bocciandone dopo pochi mesi pure la linea politica...». Ma a che scopo tutto ciò? Quale sarebbe l'obiettivo finale di questa manovra di cui il Pd ora sospetta? Qualcuno, nel partito, cita l'editoriale di Andrea Romano sulla Stampa di qualche giorno fa, quello in cui si parla della necessità di «un nuovo Prodi», di un personaggio che vesta i panni del «federatore» per mettere in piedi e insieme un centrosinistra in grado di competere con il centrodestra nella prossima legislatura.
Un federatore, naturalmente, che faccia le veci di Walter Veltroni.
E Giorgio Tonini, che del segretario è amico, ammette che possa «esserci il tentativo di delegittimare l'intera leadership del Partito democratico che si proponeva l'obiettivo di ripristinare il primato della politica. Si fa così perché si punta all'arrivo dell'"uomo della Provvidenza" che dovrebbe ristrutturare il centrosinistra». Ermete Realacci, un altro dei dirigenti del Pd di rito veltroniano, è convinto che «i giornali abbiano interesse ad avere una politica debole perché così possono giocare un ruolo di supplenza». Fioroni pensa che però questa manovra sia destinata al fallimento: «Siamo un partito del 33 per cento. Potremo anche prendere un po' di meno, ma avremo sempre un bacino del 30 per cento, per cui di certi piani faremo carta straccia. Tra l'altro non vorrei che oltre all'idea di mettere sotto tutela il Pd ci sia anche dell'altro... magari questi signori pensano che coinvolgendo anche il nostro partito nelle vicende giudiziarie la loro situazione con la giustizia migliori...». Il responsabile organizzativo del Pd non aggiunge altro, ma dal modo in cui parla, si capisce che a Largo del Nazareno si teme che la partita non sia ancora chiusa, che possano esserci offensive di altro genere contro il partito.
Gianni Cuperlo, dalemiano di rito eterodosso, cerca di sdrammatizzare: «Ma perché ci vorrebbero indebolire? Più in ginocchio di così ». Scherza il deputato del Pd, ma poi comincia a riflettere ad alta voce: «Un nuovo Prodi? E chi potrebbe essere? L'ex presidente della Confindustria Luca Cordero di Montezemolo?». E riprende lo scherzo: «Ma no... ha un nome troppo lungo. Come si fa a metterlo tutto intero in un manifesto in cui si annuncia un suo comizio? Non c'entra mica...». Di nuovo stop allo scherzo, e Cuperlo continua così: «Comunque è difficile che Montezemolo sia assimilabile al centrosinistra. Io non potrei votarlo... Pier Ferdinando Casini? Ecco invece lui lo potrei votare». Già, Casini. Da qualche tempo nel Transatlantico di Montecitorio corre voce che Massimo D'Alema starebbe pensando al leader dell'Udc come candidato alla presidenza del Consiglio nella prossima legislatura, con la prospettiva di un centrosinistra ristrutturato in altro modo rispetto a quello attuale. Vera o falsa che sia questa voce che rimbalza tra le mura della Camera, comunque è indicativa di quel che si agita dentro il Partito democratico. Perché tentare la carta Casini è un modo per giocare d'anticipo, per tirare fuori un leader che sia sì nuovo, ma che sia comunque un politico. E non «l'uomo della Provvidenza » che tanto preoccupa Tonini, né quello della «massoneria» che tanto fa arrabbiare Fioroni.
Maria Teresa Meli
24 luglio 2008(ultima modifica: 25 luglio 2008)
da corriere.it
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POLITICA IL PERSONAGGIO
"Si mette in conto anche di andare contro gli interessi della città per contrastarmi"
Torino, Chiamparino sfida il Pd "Se non servo, posso andarmene"
Il sindaco scrive al segretario piemontese Morgando: ditemi se sono una risorsa
di PAOLO GRISERI
TORINO - Caro partito, fammi capire se ti servo ancora. Non è un iscritto della base ma Sergio Chiamparino, il sindaco più popolare del Pd, a prendere carta e penna per esprimere tutta la sua amarezza al segretario piemontese, Gianfranco Morgando ("ti ho invitato a essere il segretario di tutti, sono rimasto sostanzialmente inascoltato"). Un partito in cui, scrive Chiamparino, "si mette in conto anche di andare contro gli interessi della città per contrastare le mie opinioni e soprattutto, credo, il mio possibile ruolo".
Un partito in cui "possono esprimersi soltanto i dirigenti che contrastano le mie posizioni" e dove le "logiche di pura redistribuzione del potere sembrano le uniche a dominare, non so se solo a Torino". Dunque, anche se "può sembrare paradossale", Chiamparino chiede di "capire se quel che la mia amministrazione ha realizzato in questi anni è o no una risorsa su cui investire per il futuro". Poi l'attacco finale: "Se guardo agli atti concreti di questo nostro partito, non l'ho capito. È invece importante saperlo, se non altro perché ognuno si assuma le proprie responsabilità anche in vista delle prossime scadenze elettorali".
La lettera pubblica diffusa ieri rappresenta il momento di massima tensione tra il sindaco di Torino e il partito locale. Ieri pomeriggio i vertici nazionali preferivano non entrare nella polemica facendo comunque sapere che la stima e la fiducia in Chiamparino sono intatte, come dimostra la sua nomina a ministro ombra per le riforme. Dunque il paradosso è che il sindaco di Torino sembra più in sintonia con i vertici nazionali che con il partito locale.
Nessuno è profeta in patria e i nodi che vengono al pettine ora sono certamente i frutti avvelenati di una polemica che risale alle primarie di ottobre quando da Roma si tentò di imporre l'elezione di un candidato rutelliano alla guida del partito piemontese. I massimi esponenti del Pd regionale, da Chiamparino a Mercedes Bresso, a Piero Fassino sostennero la scelta del vertice nazionale mentre dalle urne uscì, un po' a sorpresa, il nome di Gianfranco Morgando, sostenuto da un'alleanza tra la componente cattolica e la sinistra interna. Uno smacco per il sindaco che aveva da poco ottenuto la riconferma con il 66 per cento dei voti dei torinesi.
Quella storia, in realtà, non è mai finita. Oggi Chiamparino accusa Morgando di non aver saputo riunire il partito dopo le divisioni di ottobre. E lascia intendere un possibile divorzio dal Pd piemontese: "Ognuno si assuma le sue responsabilità in vista delle prossime scadenze elettorali".
Chiamparino, al suo secondo mandato, non è rieleggibile e nella lettera diffusa ieri annuncia che non si ricandiderà comunque alla guida dell'amministrazione torinese, anche se venisse istituita la città metropolitana. Il sindaco di Torino starebbe invece riflettendo sulla possibilità di rilanciare quell'idea del Pd del Nord che aveva proposto lo scorso anno in occasione della fusione tra Ds e Margherita.
Per ora il segretario regionale Morgando preferisce non commentare la lettera del sindaco: "Sono in vacanza all'estero - ha fatto sapere ieri - commenterò quando tornerò in Italia". Solidale con Chiamparino è invece il suo predecessore, Valentino Castellani: "Sergio ha ragione, il partito piemontese non può rimanere imbrigliato nelle logiche di fazione tradendo le aspettative della base".
(14 agosto 2008)
da repubblica.it
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