PARTITO DEMOCRATICO (dopo il voto).

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6/9/2008 (7:8)

L'ondata populista

Lega più Di Pietro al 20%
 
Un sondaggio choc gela Veltroni: il Pd non arriva più neanche al 30

FABIO MARTINI
ROMA


Talora ci sono numeri che riescono a scuotere anche i politici. E’ capitato l’altro giorno a Walter Veltroni, quando si è ritrovato sulla scrivania l’ultimo sondaggio riservato della Ipsos, l’unico istituto che periodicamente testa gli umori politici del popolo italiano. Ebbene, secondo quel sondaggio la Lega per la prima volta nella sua storia ha sfondato il muro del 10 per cento, ormai attestata sul 10,8%, una percentuale nazionale che ne fa anche il primo partito al Nord, grazie anche all’erosione di consensi ai danni del Pdl.

Dall’altra parte della barricata un boom parallelo accompagna la crescita dell’Italia dei Valori, il partito di Tonino Di Pietro, ormai a un passo da quota 9%, con un raddoppio di consensi rispetto al 4,4% delle Politiche. La contestuale escalation dei partiti populisti dei due schieramenti - assieme sfiorano quota 20% - ha contribuito ad addolcire un po’ la pillola a Veltroni: il suo Pd è al 29,8%, dunque in calo rispetto alle Politiche (33,1%), ma la caduta si colloca in un contesto che premia i partiti di «pancia», identitari, quelli dal messaggio più semplice e diretto e penalizza invece le forze più grandi, il Pd ma anche il Pdl.

Certo, è difficile consolarsi con l’«aria che tira». Anche perché con quei numeri lì Walter Veltroni rischia la pelle politica. Con la possibilità concreta di dover tirare le somme la sera del 9 giugno 2009, giorno delle elezioni europee. E infatti, dopo un’estate difficile e con una base sempre più smarrita, Veltroni ha capito che non basta ricominciare come se nulla fosse e ha deciso di giocarsi all’attacco i prossimi, decisivi nove mesi. Per questo il leader del Pd sta provando a preparare una energica ripartenza, scandita su tre tappe tenute assieme da un’idea di fondo: «Per crescere ancora, il Pd deve continuare a cambiare con lo slancio dei primi mesi e se possibile anche con maggior forza». Tradotto in soldoni significa che Veltroni è intenzionato a convocare in tempi stretti (nella prima metà di ottobre) l’Assemblea congressuale del Pd, presentarsi lì con un documento audace, innovativo su alcuni snodi programmatici, facendone la base di discussione per la Convention programmatica di inizio 2009, che dovrebbe diventare una sorta di Bad Godesberg della sinistra italiana.

Oggi il leader del Pd chiuderà la kermesse Democratica di Firenze, anziché col consueto comizio oceanico di fine festa dell’Unità, con un’intervista a Enrico Mentana, un format adatto a stare sui temi dell’attualità, mentre un discorso più impegnativo Veltroni intende farlo domenica 14 nella piazza di Montepulciano, a conclusione della prima Summer School organizzata dal Pd. Secondo un filo rosso che Giorgio Tonini, una delle punte della squadra veltroniana, spiega così: «Sui grandi temi del Paese e sui nostri tabù dobbiamo finalmente scolpire un profilo riformatore, non avendo paura di aprire una forte dialettica interna su qualcosa di “afferrabile” da parte della gente e concludendo la Convenzione programmatica con documenti chiari e non con una melassa unitaria che giocando sulle parole consenta a tutti di essere d’accordo. Se un partito ha le sue idee, su quelle negozi o rompi e la gente capisce, ma non possiamo continuare a barcollare».

Dunque, si aprono oggi a Firenze nove mesi decisivi per Walter Veltroni. L’opposizione al segretario - che ha in D’Alema, Marini e Parisi le sue punte di diamante - è frastagliata, mossa da motivazioni diverse. Ma Veltroni soffre assai la fronda, in questi giorni lo ha detto con una certa energia, attaccando tutti coloro che segano il ramo dell’albero sul quale abitano: «E’ un’idea ottocentesca di partito quella di discutere sempre tra di noi, con una bulimia del discutere per cui una discussione porta sempre un’altra discussione», mentre invece dopo 8 mesi «non si può avere l’ansia da prestazione». Ma quel che Veltroni dice in privato testimonia un risentimento forte, privo di spunti autocritici: «La verità è che dobbiamo recuperare la freschezza della prima fase, accelerare l’innovazione che ci ha portati fin dove siamo arrivati e temo che altri appuntamenti ci diranno quale risultato sia stato il 34 per cento». Come dire: se alle Europee andiamo indietro la colpa non è mia, ma di chi ha remato contro.

da lastampa.it

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L'accordo obbligato


di Dario Di vico


Il Pd non è contrario al raggiungimento di un accordo tra Confindustria e sindacati sulla nuova contrattazione.
Anzi per quanto è andato in scena a Cernobbio si può tranquillamente affermare che Walter Veltroni, Enrico Letta e Piero Fassino, presenti in riva al lago auspicano caldamente che la Cgil non si sfili, che Guglielmo Epifani alla fine firmi l'intesa per modernizzare gli storici accordi del '93. Il segnale (criptato) di disponibilità lo ha dato Veltroni affermando davanti alla platea degli imprenditori che bisogna «rafforzare la contrattazione aziendale territoriale ». Gli esponenti del Pd sanno benissimo che, pur estraneo alla trattativa, il governo Berlusconi si avvantaggerà dal raggiungimento di un'intesa tra le parti sociali. Potrà rivendicare l'attivismo del ministro Maurizio Sacconi e sostenere che sotto il governo Prodi industriali e sindacati non erano arrivati a capo di nulla. Allora perché il Pd incoraggia (o addirittura prega) la Cgil a firmare? Veltroni & C. temono per le sorti dell'unità sindacale. Un accordo separato tra la Confindustria e le sole Cisl e Uil rappresenterebbe comunque un successo per il governo e produrrebbe a sinistra il doppio inconveniente della rincorsa alla piazza e della radicalizzazione della Cgil.

Ma, diplomazia sindacale a parte, si ha l'impressione che nei gruppi dirigenti del Pd siano sopravvenuti ragionamenti di portata più ampia. Vedono il governo macinare politica, proporre soluzioni per rifiuti e Alitalia, dialogare sempre più fittamente con l'establishment e ne traggono la conseguenza che la risposta non può consistere nella somma tra petizione «salva l'Italia» e manifestazione del 25 ottobre. Sono maturate così negli ultimi giorni scelte importanti: Fassino ha appoggiato l'azione del ministro Franco Frattini nella crisi georgiana, con Luciano Violante è ripartita una vera riflessione su politica e giustizia, sul federalismo fiscale il confronto maggioranza- opposizione è diventato moneta corrente. E ora si aggiunge la contrattazione decentrata. Ma un partito d'opposizione può pensare di crescere elaborando solo (meritorie) convergenze con il governo? Certo che no. Alla disponibilità al dialogo dovrà presto o tardi affiancare un robusto pacchetto di divergenze, o meglio una piattaforma politico- culturale alternativa e competitiva. Anche chi consiglia a Veltroni di coltivare le arti del confronto non gli chiede certo di rinunciare all'anima. Ed è qui il vero punto dolente. Si può ricominciare a macinare politica applicandosi a singoli dossier, ma per ridarsi un'anima non basta la ragioneria politica. Il contributo che può venire dalle sinistre europee è vicino allo zero e i laburisti inglesi messi di fronte allo stesso problema stanno pensando addirittura di richiamare Tony Blair, il Pd non ha nemmeno questa chance.

08 settembre 2008

da corriere.it

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