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Ilvo Diamanti

Democrazia minima
 

Si odono ancora, distintamente, gli echi delle polemiche sollevate dalla rinuncia di Papa Benedetto XVI a proporre la sua lezione magistrale all'Università "la Sapienza" di Roma. Preoccupato dalla lettera dei 67 professori che avevano espresso, a tale proposito, il loro dissenso. E dalle manifestazioni annunciate da alcuni circoli di studenti, anch'essi apertamente contrari all'arrivo del Papa. Anche se, probabilmente, oltre alla preoccupazione è subentrata l'irritazione per il mancato senso di ospitalità (non si invita qualcuno a casa propria, come ha fatto il Rettore, per poi comunicargli che i figli lo accoglieranno, all'ingresso, per fischiarlo). Senza trascurare la volontà del Vaticano di far passare la religione civile fondata sulla "ragione" dalla parte del "torto". Rovesciando sui "militanti laici" la critica di intolleranza che, da qualche tempo, accompagna il rinnovato protagonismo della Chiesa sulla scena pubblica.

Le polemiche dei giorni seguenti (che proseguono ancora) si sono concentrate, soprattutto, sul concetto di laicità, di libertà, pluralismo. In particolare, è stata criticata - giustamente, a nostro avviso - l'azione volta a impedire la lezione di Joseph Ratzinger. Pontefice, ma anche eminente filosofo e teologo: sarebbe stato di casa all'Università. Per contro, altre voci, più circoscritte, hanno insistito sull'inopportunità che l'autorità più rappresentativa della Chiesa aprisse le lezioni di un centro di cultura pubblica e "laica", qual è la più grande università italiana.

Noi, tuttavia, vorremmo spostare l'attenzione dalla luna al dito che la indica. In altri termini, intendiamo soffermarci su un aspetto laterale, rispetto a questa discussione. E, tuttavia, sintomatico del male che affligge il nostro (povero) Paese; e indebolisce la nostra democrazia. Ci riferiamo alla sproporzione delle forze in campo.

67 professori esprimono il loro dissenso verso una iniziativa dell'Università in cui insegnano. Insieme ad altri 2000 docenti. Affiancati da circa 300 studenti, che manifestano la loro protesta. E la rilanciano giovedì scorso, quando avviene l'inaugurazione. Senza il Papa, ma di fronte al sindaco Veltroni e al ministro Mussi. Studenti molto diversi da quelli del mitico '68. Definiti e auto-definiti "autonomi", non perché si ispirino ai collettivi e ai movimenti "rivoluzionari" degli anni Settanta, ma perché dichiaratamente estranei e antagonisti rispetto ai soggetti politici attuali. "Antipolitici", per usare le categorie del nostro tempo. Ripetiamo un'altra volta: 300 studenti. Trecento: in una Università dove gli iscritti sono circa 140 mila.

Il nostro appunto (e disappunto) è riassunto da questi numeri. Una iniziativa di grande rilievo pubblico e di grande importanza simbolica si è, infatti, incagliata sul dissenso espresso dal 2,8 % dei professori e dallo 0,2 % degli studenti. Tanta sproporzione suggerisce una considerazione inquietante. La nostra democrazia non è più in grado di sopportare neppure una frazione di conflitto e di opposizione così ridotta. L'opposizione di alcuni professori di Università. Ambiente dove è, quantomeno, normale che vengano espresse distinzioni, differenze; talora "eresie" culturali. La sfida irrequieta e "maleducata" di un drappello di giovani studenti. Ai quali, per età e condizione, va comunque concessa la possibilità anche di sbagliare in proprio. Hanno di fronte una vita per sbagliare con la testa degli altri.

Una democrazia incapace di "tollerare" il dissenso (anche quando esprime posizioni "poco tolleranti"), neppure se è così minuscolo, ci appare seriamente malata. Tanto più se, poi, cede. Se non è in grado, comunque, di garantire il rispetto delle scelte assunte dagli organi di governo legittimi; condivise dalla stragrande maggioranza della società.

La colpa non è del 2 % degli intellettuali che si oppone, né dello 0,2 % della popolazione che manifesta. E' delle istituzioni, delle autorità che si arrendono loro. Una democrazia che, come in troppe, altre, precedenti occasioni, si piega di fronte a pressioni minime. E non sopporta il minimo dissenso. E' una democrazia minima.


(18 gennaio 2008)


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Democrazia minima / 2

Microfisiologia partigiana della crisi


L'analista cinico e disilluso, abituato a trattare in modo cinico e disilluso la nostra democrazia cinica e disillusa potrebbe riassumere in modo cinico e disilluso l'esito di questa legislatura - ansiogena e convulsa. Usando, come approccio la "fisiologia partigiana". La patologia partitica, dettata dalla dipendenza del nostro sistema da una pletora di formazioni piccole e piccolissime. Partiti minuscoli, senza ideologia e senza programma. Perlopiù, riconducibili al solo leader. Alimentati e riprodotti da un sistema elettorale che impone le coalizioni preventive. E da una distribuzione del voto che divide gli italiani in due. Antiberlusconiani contro anticomunisti. Partiti che valgono poche centinaia di migliaia di voti. Per riferirsi all'ultimo punto di crisi: l'Udeur ha raccolto circa mezzo milione di voti, nel 2006. L'1,4% dei voti validi, ottenuti perlopiù in Campania. Determinanti, dato l'equilibrio delle forze in campo. Non solo fra gli elettori, ma anche in Parlamento. E soprattutto in Senato. Dove, infatti, numerosi "soggetti politici" sono in grado di condizionare le scelte della "maggioranza". Partiti individuali - o quasi - e individui senza partito. Pallaro, Di Gregorio, i Liberal-Democratici (LD: come Lamberto Dini), Turigliatto. E altri ancora, la cui visibilità dipende dal momento. Ovvio che ogni partito con basi elettorali limitate e tanto più i partiti individuali, presenti solo in Senato, temano ogni legge che ne metta a rischio l'esistenza. Ma anche l'influenza. Leggi maggioritarie veramente maggioritarie? No grazie. Proporzionali? A condizione che non pongano vincoli troppo esigenti. L'ideale: un proporzionale con soglia di sbarramento allo 0,5%. Oppure, in alternativa: una legge elettorale che "costringa" tutti a indicare le alleanze "prima" del voto. Così che, in un clima di incertezza tanto elevata, nessuno possa rinunciare a nessuno, se vuol vincere le elezioni. Leghe locali, pensionati, casalinghe, consumatori; e domani, immaginiamo, tassisti, professionisti e nimby di ogni genere, tipo e latitudine.

Nessun Vassallum e nessuna bozza Bianco; ma neppure il sistema tedesco (5% di sbarramento? Entrerebbero solo 5-6 partiti). Unica soluzione? Il "nanarellum". Un sistema elettorale che garantisca esistenza e influenza ai "nanetti", come li chiama Giovanni Sartori. Per questo, l'analista cinico e disilluso vede nel collasso di questi giorni un esito annunciato da tempo. A prescindere dalle inchieste dei magistrati. Qualcuno l'aveva pure detto, nei mesi scorsi. Ci pare Mastella, ma non vorremmo sbagliarci. (Anche perché non è il solo ad aver detto cose simili). Recitiamo a memoria: "Se si va al referendum, se questa maggioranza pensa di sostenerlo o di permetterlo; se accetterà "derive" maggioritarie, si sappia che il governo non durerà un minuto di più". Sarà un caso, ma la defezione di Mastella e dell'Udeur è venuta all'indomani della decisione della Corte Costituzionale, che ha decretato la legittimità del referendum elettorale; dopo il sostanziale stallo (fallimento) del negoziato (fra interessi impossibili da comporre) sulla legge elettorale, promosso da Veltroni e sostenuto, a parole, da Berlusconi; dopo la volontà, dichiarata da Veltroni, di far procedere il PD "da solo". Oggi, in sede negoziale. Ma anche domani, alle elezioni.

Sembra la cronaca di una fine annunciata. Colpisce una legislatura che, superato questo cupo gennaio, scivolerebbe, inevitabilmente, verso la prova del referendum.
Una questione di "fisiologia politica": è l'istinto di sopravvivenza dei partiti minimi (e non solo il loro) che sembra spingere alle elezioni, al più presto possibile. Per votare con il vituperato "porcellum". Meglio "porcelli" ma vivi, insomma.

E' una lettura cinica e disillusa, da analista cinico e disilluso. Banale e qualunquista: ce ne rendiamo conto. Utilizza argomenti mediocri. Fa riferimento agli istinti politici più elementari invece che agli accesi dibattiti dei giorni scorsi. Svaluta le polemiche aspre riguardo al rapporto fra magistratura e politica, Chiesa e Stato, cattolici e laici, Nord e Sud. I temi, gravi, della politica economica, finanziaria, internazionale, la sicurezza, l'occupazione, le morti sul lavoro. Trascura perfino la contrapposizione - a suo modo passionale - fra antiberlusconiani e anticomunisti. Dedica attenzione massima a cose minime, insomma. Lo stesso approccio, cinico e disilluso, tuttavia, suggerisce pensieri diversi e quasi opposti. Che sollevano qualche dubbio sulla fine anticipata - anzi: immediata - della legislatura. Sulle elezioni subito: ad aprile. Contro queste prospettive congiura l'istinto di conservazione dei parlamentari. Molti dei quali, se legislatura non arrivasse a metà percorso - se finisse prima di ottobre, insomma - perderebbero il diritto alla pensione. Rinuncerebbero ai numerosi benefit offerti loro dall'attuale carica. Senza alcuna garanzia di venire ricandidati e rieletti. Perché ogni seggio lasciato rischia di essere perso. Perché la concorrenza cresce sempre di più (se Mastella e l'Udeur, putacaso, confluissero nel centrodestra, a chi leverebbero posto? Posti?). Osservazioni venali e veniali di fronte alla gravità del momento e alla serietà dei motivi gridati dagli attori politici che interpretano la crisi attuale. Temi etici, estetici, programmatici, economici, deontologici, istituzionali, costituzionali e altro ancora.
Sbaglia sicuramente l'analista cinico e disilluso, quando descrive una "democrazia minima", i cui destini si decidono a Ceppaloni. Quando racconta farse che finiscono in tragedia.

(24 gennaio 2008)

da repubblica.it

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Ilvo Diamanti

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Più che una casa, un collegio
 

Molti si sono sorpresi del rapido e disciplinato ritorno a casa di Fini e Casini.

O meglio: nella Casa delle Libertà. Dopo le ripetute polemiche dei mesi scorsi. Quando avevano certificato, a più riprese, la fine della coalizione, a causa dell'ultima invenzione del Cavaliere: un nuovo partito. Deciso in pochi giorni, da un uomo solo. Lui. Silvio Berlusconi. Artefice di Forza Italia, del Polo e della CdL. Deciso a cambiare ancora. Un nuovo soggetto politico. La scelta del nome affidata alla "gente comune", chiamata a esprimersi nei gazebo sparsi nelle strade e nelle piazze. Popolo della Libertà o Partito della Libertà? Barrare la casella corrispondente. Un luogo politico in cui far confluire tutti gli elettori - ma anche tutti i partiti - di centrodestra. L'ultima provocazione. Quasi una minaccia. Quasi che Fini e Casini potessero venire espropriati del loro partito e dei loro elettori da un giorno all'altro.

Da ciò le tensioni. Sottolineate da affermazioni perentorie, sulla stessa lunghezza d'onda: "Il Cavaliere pensi a Casa sua, tanto la Casa delle Libertà non c'è più". Non era vero, evidentemente. Poche settimane e tutto come prima. Gli stessi uomini nella stessa Casa. Il proprietario, Berlusconi, e gli inquilini: Fini e Casini. Oltre a Bossi. D'altronde, in questa situazione, ogni diversa possibilità appare impossibile. Il collasso improvviso del governo, la prospettiva - inevitabile - delle elezioni anticipate, con il Porcellum, che nessuno è riuscito a riformare, nonostante molti incontri, molti progetti e molte parole (vane). Lascia pochi margini di manovra ai partiti del centrodestra. L'unico modo per rivincere, sfruttando l'onda della sfiducia nei confronti del governo e del centrosinistra, è ripresentarsi uniti. Tutti. Intorno all'inventore di questa alleanza considerata impossibile, prima. Post-fascisti, nazionalisti e indipendentisti, nuovisti e neodemocristiani, nordisti e sudisti: tutti insieme. Solo Berlusconi poteva provarci e, prima ancora, pensarlo.

In seguito, questa Casa divenne una specie di Collegio. Difficile da abbandonare. Ogni volta che qualcuno aveva cercato di uscirne, si era perduto. Fini e, prima ancora, Bossi e la Lega. Erano rientrati, uno alla volta, nella Casa del Cavaliere. Perdonati e premiati.

D'altronde, senza di loro, il Cavaliere non era in grado di vincere (lo aveva sperimentato nel 1996). Ma senza Berlusconi, il destino degli altri è la marginalità. Prigionieri uno dell'altro. Ma con ruoli definiti e stabiliti. In particolare: il leader. Il sovrano. Sempre lo stesso. Anche questo spiega le insofferenze e le intemperanze dei due leader alleati. Fini e Casini.

Costretti a giocare da anni, e per chissà per quanto ancora, la parte delle "giovani promesse", dei candidati al "dopoberlusconi". Una "guerra di successione", come aveva riassunto, argutamente, Adriano Sofri i conflitti degli ultimi mesi in seno alla CdL. Rinviata, ancora una volta. Fino a quando, almeno, resterà in vigore questa legge. Che obbliga le forze politiche a coalizzarsi. Pena la sconfitta. E, infatti, Veltroni, quando promette che il Partito Democratico correrà da solo, non si illude. Ma pensa che sia necessario perdere oggi per vincere domani.

A destra, invece, Fini e Casini non ci sperano. Fini: conta ancora di succedere al Cavaliere. Il suo è il secondo partito della coalizione. Lui è il leader più stimato dagli italiani, insieme a Veltroni. Chissà. Se Berlusconi decidesse di fare altro. Magari, di salire al Colle non solo per consultazioni. Chissà. Dovrebbe toccare proprio a lui. (Ammesso che, alla fine, non prevalga una dinamica di tipo dinastico a favore di un erede della famiglia regnante...). Casini, invece, ormai dispera. Berlusconi non si fida più di lui. E viceversa.

Lui sa che non potrà succedergli. Inoltre, ha manifestato altre volte intolleranza per la condizione di "giovane di belle promesse", a cui è condannato da trent'anni. Ormai ha i capelli bianchi, è stato Presidente della Camera. Viene da un'altra Repubblica. Ad assistere Berlusconi, vent'anni dopo Forlani: proprio non ci sta. Però: il suo gruppo dirigente e i suoi elettori non lo seguirebbero. Lo ha verificato a proprie spese Follini, quando, meno di tre anni fa, sfidò Berlusconi. Sostenne che non era il candidato-premier giusto per il centrodestra. Che, comunque, bisognava superare lo statuto monarchico del centrodestra. Con l'esito di trovarsi solo, nel suo partito. E, quindi, fuori. Poi: il suo elettorato, soprattutto nel Mezzogiorno (la maggioranza), non accetterebbe di cambiare schieramento. A sinistra: mai. E, forse, neppure al centro. Meglio insieme a Berlusconi, soprattutto se promette il ritorno al governo.

Così, Tabacci, democristiano e proporzionalista irriducibile e senza pentimento, convinto; da sempre, che la via giusta è quella di mezzo, privo di ambizioni leaderiste, se n'è uscito, a sua volta. Tenterà di aprire uno spazio "autonomo", al centro, insieme all'ex leader della Cisl, Savino Pezzotta. Contando sul peso della tradizione moderata, ma anche sul disgusto di molti elettori, frustrati dagli esiti del bipolarismo di questi anni. Casini, invece, è rimasto a Casa. Con Fini e Bossi.

La foto di gruppo, in vista delle prossime elezioni, li vedrà tutti insieme, accanto al Cavaliere. Come nel 1994, nel 2001 e nel 2006. A conferma di una verità nota. Nel centrodestra il partito unico c'è sempre stato, anche se continua a proporre sigle diverse. Unito - e magari talora disunito - intorno a un leader. L'unico fattore capace di tenerli insieme. Ieri, oggi. Forse domani. Di certo, non c'è bisogno di primarie per indicarlo. Né di concorsi per indovinarlo.

(31 gennaio 2008)

DA repubblica.it

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Passioni apatiche nel Paese del mah

di ILVO DIAMANTI


MANCHERANNO due mesi e mezzo alle elezioni. Giorno più, giorno meno. L'incarico esplorativo affidato a Marini dal presidente Napolitano, allo scopo di formare un governo tecnico che riformi il sistema elettorale, risponde a un fine giusto quanto impraticabile. Scrivere una legge elettorale peggiore di quella attuale è, certamente, una missione impossibile. Ma l'idea di comporre, in qualche mese, orientamenti e interessi apertamente divergenti, anche fra partiti dello stesso schieramento, lo è altrettanto.

Se non al prezzo di compromessi improbabili. Col rischio di passare dal "porcellum" al "pasticcium". Per questo conviene essere realisti. La campagna elettorale è già cominciata (anche se non è mai finita). Difficile credere a governi di "pacificazione". Visto il clima politico di questa breve legislatura, la stessa formula appare sarcastica. Una presa in giro. Neppure le associazioni economiche, che pure hanno sostenuto questa esigenza, ci credono davvero. Al più, auspicano, come ha fatto ieri Montezemolo, una fase costituente. Ma "dopo" le elezioni.

Tuttavia, sbaglia chi vede nel voto una svolta, in grado di scuotere l'opinione pubblica. Un colpo di cancellino e via: il passato è passato. Si ricomincia daccapo. In effetti, dubitiamo che ciò possa avvenire. E, a nostro avviso, ne dubitano gli stessi italiani. I quali guardano al prossimo voto senza troppe illusioni. D'altronde, voltar pagina potrebbe significare il ritorno, due anni dopo, della stessa coalizione che ha governato il Paese dal 2001 al 2006. Un uomo solo al comando: Silvio Berlusconi. E intorno Fini, Casini, Bossi. Magari insieme ad alcune "new entries": Mastella e Dini.

Insomma: il nuovo che avanza. Difficile che questa prospettiva possa restituire speranza ai cittadini. Come era avvenuto nel 2001, quando, davvero, molti italiani si affidarono al Cavaliere perché, dopo tanti sacrifici, volevano finalmente essere felici. Pochi anni e la speranza finì sepolta sotto una valanga di delusione. Da cui Prodi e il governo di centrosinistra non sono riusciti a liberarli. Al contrario. Tuttavia, pensare che gli italiani possano affrontare con entusiasmo la prossima scadenza elettorale. Che ritengano sul serio la CdL (divisa da ambizioni personali e di partito, ma unita dal "porcellum" e dal Cavaliere) capace di cambiare l'Italia, rilanciare l'economia, ricucire gli strappi della società, ricostruire un clima di fiducia.

Sembra sinceramente troppo. Diciamo, allora, che gli italiani si sono adattati a vivere questa "vita in diretta". On-line. Come su Internet. Dove navighi a vista, visiti siti e incontri persone, comunichi e giochi. Poi, quando sei stanco, spegni e riaccendi. Se il computer non funziona, resetti. E ricominci. Tutto come prima.

Siamo un Paese attraversato da "passioni apatiche". Scosso da emozioni sterili. Arrabbiato per default. Si va al voto, si reclamano elezioni subito, senza illudersi che serva veramente. Che le cose possano cambiare sostanzialmente. Un po' come i processi infiniti, che vanno in onda a tempo pieno e si svolgono sotto gli occhi di tutti. Un tempo erano confinati in uno spazio dedicato: "un giorno in pretura". Poi si sono trasferiti "tutti i giorni da Vespa, Mentana e Cucuzza".

Con i protagonisti presenti, al gran completo: avvocati, imputati, testimoni, magistrati, psicologi, preti, criminologi, criminali, giornalisti, esperti. Affiancati da politici, veline e cuochi. I processi e le indagini si svolgono in diretta, sui media, perché non importa giungere a una soluzione. Scoprire i colpevoli. Anzi: è vero il contrario. Infatti, spesso, raggiunto il successo mediatico, i casi certi diventano incerti. I colpevoli predestinati diventano presunti e poi neppure quello. Cogne, Garlasco, Perugia. Oggi perfino Erba. Il che, da un certo punto di vista, è bene. Perché è giusto che la giustizia sia giusta. Ma il problema è un altro. Le persone si sono abituate al caso insoluto. O meglio ancora: il caso - personaggi e interpreti - per loro diventa più interessante della soluzione. "Passioni apatiche". Appunto.

Questo Paese dei casi insoluti, dei governi incompiuti, delle transizioni eterne. (Dopo 16 anni è lecito definire l'Italia una "Repubblica transitoria"). Ormai assiste all'esplosione di emergenze che diventano normali. Guarda Napoli, sepolta dai rifiuti. Da settimane, mesi. E immagina che lo sarà ancora: fra settimane e mesi. (Tanto più, visto che il disgusto e la protesta costituiranno importanti temi di campagna elettorale, determinanti ai fini del risultato).

Così gli scandali, sollevati a colpi di intercettazioni pubblicate e riprodotte sui media. Interpretate in tv, come fiction. Ormai ritornano, a ritmo regolare. E investono, in modo bipolare, destra e sinistra. Per cui nessuno, ormai, crede che verranno davvero risolti. Che si giungerà a una soluzione definita e definitiva. Che qualcuno pagherà. Un po' come la grande enfasi sulla Casta. Che infuria da mesi e mesi. Contro i privilegi della politica e della sottopolitica. Dei politici e dei sottopolitici. Che abitano le stanze del Palazzo e delle palazzine di provincia.

Fin qui, è servita a produrre best-seller editoriali, a elevare gli indici di ascolto delle trasmissioni televisive, a generare una miriade di blog e di meet-up di denuncia e protesta. E a promuovere manifestazioni partecipate e indignate. Con il risultato che alle prossime elezioni voteremo con la stessa legge elettorale, per liste decise dalle segreterie nazionali, senza possibilità di scelta per i cittadini. In altri termini: passeremo dalla Casta alla Casta.

Questa rabbia sterile e diffusa: invade la vita quotidiana e contamina il linguaggio. Fino a divenire un genere, uno stile di comunicazione. Fa vendere giornali e alza l'audience delle trasmissioni. La denuncia gridata, personalizzata, senza soluzione di continuità, a lungo andare, mitridatizza tutti. Perché ci si assuefa, in fondo. A questo mondo di ladri e malviventi. Veri e presunti. Inseguiti dagli inviati di Striscia e delle Iene. Intercettati da servizi segreti e agenzie private. Denunciati sui media, da cui ottengono spazio e visibilità. Fino a divenire, a loro volta, protagonisti. Eroi. Negativi: ma pur sempre eroi. Al centro della scena.

Questa protesta che dilaga ovunque, senza trovare soluzione. Sbocco. Quasi un fenomeno espressivo: si protesta per liberare il risentimento che sentiamo dentro di noi. Ma non per "ottenere". Al massimo per "impedire". Per porre e imporre veti. Rassegnandosi, però, a non cambiare.

Queste "passioni apatiche": generano una società impassibile. Che accetta le divisioni, perfino le contrapposizioni più radicali, senza reazioni forti. Pensiamo alle tensioni territoriali, alla frattura tra Nord e Sud. Aveva suscitato mobilitazioni violente, quindici anni fa, sulla spinta della Lega. Oggi sono date per scontate. A Nord: i cittadini vivono e gli imprenditori producono "come se" Roma non ci fosse. Votano Lega o Forza Italia. Per inerzia. Mentre in gran parte del Mezzogiorno prevale la rassegnazione ad essere tornati "Sud". Periferia economica e sociale. Che usa la politica come una risorsa particolarista e localista.

Più della legge elettorale, delle elezioni anticipate, del "porcellum" e del governo tecnico, è questo cielo grigio, è l'atmosfera uggiosa di questi giorni, che ci preoccupa maggiormente. Questo scenario in cui ciascuno è indotto ad arrangiarsi (l'arte in cui gli italiani riescono meglio - secondo gli italiani stessi). Questo Paese del mah... ("Come ti va?". "Mah...").
E ci preoccupa, personalmente, l'impressione di scrivere, da tempo, lo stesso articolo. Con parole neppure troppo diverse. Di tratteggiare la stessa mappa, una settimana dopo l'altra. Probabilmente, la "passione apatica", dopo un'osservazione prolungata e ravvicinata, ha contagiato anche noi.

Dopo aver trascorso troppo tempo a fare diagnosi, promettiamo, da domani, di interrogarci anche sulle terapie. Sapendo, però, che accettare e riconoscere la malattia è la prima condizione per guarire. L'altra, più difficile, è voler guarire davvero.


(3 febbraio 2008)

da repubblica.it

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Presidenzialismo all'italiana

di ILVO DIAMANTI


Ci stiamo avviando a un'elezione di svolta. Sancisce l'avvio di una democrazia dell'opinione, personalizzata e mediatica. Caratterizzata dalla competizione diretta fra i leader. Due fra tutti: Silvio Berlusconi, appunto, e Walter Veltroni. Come in Francia oppure negli Usa. Anche se in Italia non vige un sistema presidenziale, i principali candidati e i principali partiti agiscono "come se" fosse così.

E' questa la novità. Non solo Berlusconi, anche Veltroni si comporta da candidato presidenziale. Non solo il Popolo della libertà, l'ultima invenzione del Cavaliere: anche il Partito democratico agisce da partito "presidenzialista". Il ruolo assunto dai media appare dominante, per scelta consapevole e condivisa. Veltroni e Berlusconi hanno presentato la propria candidatura, una settimana fa, con un discorso puntualmente teletrasmesso. Scegliendo due scenari diversi ed egualmente significativi. Berlusconi è tornato al teatro di San Babila, dove, accanto a Michela Brambilla, ha arringato i militanti dei Circoli della Libertà; il seme del Pdl. Veltroni ha parlato a Spello. Di fronte una folla di giovani. Alle spalle: l'immagine suggestiva del borgo medievale, la cui storia riassume la tradizione rossa e quella cattolica.
Insomma: il manifesto del "suo" Pd. Nei giorni seguenti, entrambi sono stati ospiti nel salotto televisivo di Bruno Vespa. Per definizione, la "terza Camera" del Parlamento; diciamo pure la "Cameretta". Quindi, altre apparizioni, in trasmissioni e reti diverse. Uno Mattina, Tg1, Matrix, TV7. Ed è solo l'inizio, immaginiamo. Veltroni, peraltro, oggi partirà con un pullman "democratico" per un viaggio attraverso le province italiane. Per mantenere il contatto con il territorio. E con i media.

Va detto che anche i precedenti candidati premier del centrosinistra avevano frequentato i media. Per necessità, Prodi, che non ha mai amato la tivù. Non solo Mediaset: neppure la Rai. Facendo della sua allergia all'immagine un marchio personale. Mentre Rutelli, nel 2001, aveva cercato di sfruttare al meglio la propria competenza e presenza mediatica. Si era scontrato, però, con la "resistenza" dei leader dell'Ulivo, che lo avevano candidato perché convinti di perdere. E con l'indisponibilità di Berlusconi, vincitore annunciato, a confrontarsi con lui.

Oggi, invece, tutto è cambiato. Due leader, due partiti al loro servizio, il reciproco riconoscimento, la comunicazione come terreno di confronto condiviso. Anche per imporsi e, al tempo stesso, difendersi, di fronte a un'offerta politica che si è pluralizzata.
Per polarizzare la competizione e mettere fuori gioco i concorrenti. In un versante, la Sinistra Arcobaleno, guidata da Bertinotti. Nell'altro, la Destra, di Storace e Santanché. Al centro: l'Udc di Casini (alfine "spinto" a correre in proprio), la Rosa Bianca di Tabacci e Pezzotta. Perfino l'Udeur di Mastella. I quali accusano i soggetti politici maggiori di voler trasformare il bipolarismo in bipartitismo. Ma la tendenza, come abbiamo detto, sembra annunciare una competizione bipersonale, piuttosto che bipartitica. Un modello presidenziale "di fatto". Fra leader e partiti personalizzati che si confrontano senza insultarsi. Con una agenda che, fin qui, appare quasi speculare. Con differenze di tono. Ma sul lavoro, sulle tasse, sulla sicurezza, sulla politica estera. Non si colgono abissi. Fratture irreparabili. Mentre sulle questioni sensibili e discriminanti, come sui temi etici (famiglia e aborto), prevale la prudenza. Non è un caso che Berlusconi non abbia "accolto" la lista di Giuliano Ferrara. Né che il Pd si dimostri freddo verso i radicali; o meglio: verso il loro "marchio".

I temi polemici dominanti degli ultimi quindici anni sembrano, per ora, messi da parte. L'anticomunismo, anzitutto. Anche perché i "comunisti" sono usciti dal centrosinistra; hanno dato vita alla Sinistra Arcobaleno. Rinunciando perfino al loro simbolo storico: la falce e il martello. Parallelamente, si è affievolita la polemica antiberlusconiana.

Insomma: il modello imposto da Berlusconi, 15 anni fa, oggi è condiviso anche da Veltroni. Che lo interpreta con disinvoltura e abilità. Il leader del Pd è, infatti, apparso convincente e rassicurante quanto il Cavaliere. Più "berlusconiano" di lui, oseremmo dire. I sondaggi suggeriscono, infatti, che Veltroni sia riuscito, sin qui, a intercettare un gradimento superiore a Berlusconi, in occasione dei discorsi inaugurali, a Spello e a San Babila (entrambi trasmessi in tivù). Ma anche a Porta a Porta. La roccaforte da cui, nel 2001, il Cavaliere aveva lanciato il suo "programma per l'Italia". La sua marcia trionfale alla conquista del governo del Paese. Anche stavolta Berlusconi ha tenuto la scena, da consumato attore della politica qual è. Ma è apparso più "vecchio". Non tanto per un problema di età (anche se la sua maschera senza tempo inquieta un poco). E' che, ormai, è oberato dalla sua storia politica. Che coincide con la cosiddetta seconda Repubblica.

Conclusa (per ora) l'esperienza politica di Prodi (suo compagno di strada per oltre dieci anni), Berlusconi è rimasto solo. Unico testimone di un'era che ha annunciato il "nuovo" quindici anni fa. Ma ora suscita frustrazione. E' un monumento a se stesso, il Cavaliere. Un'istituzione. Fatica a "dare la scossa" agli spettatori (pardon: agli elettori). Veltroni, in questa fase, sembra in grado di rispondere meglio alla domanda di cambiamento diffusa nella società. Anche se, come recita di continuo Berlusconi, neppure lui è "nuovo". Fa politica da oltre trent'anni. Però, nel nuovo decennio (secolo, millennio) - ha cambiato mestiere e immagine. Ha fatto il sindaco della capitale.
Veltroni, quindi, sembra aver fatto breccia nella società media che si specchia nei media.

I sondaggi (per ultimo: Ipsos) indicano che, in un ipotetico "faccia a faccia" presidenziale, terrebbe testa a Berlusconi. Mentre dal punto di vista "partitico" il Pdl mantiene un vantaggio ancora rilevante nei confronti del Pd (che, pure, sta crescendo). Da ciò la strategia di Veltroni: "personalizzare" la competizione. Dimenticando, per quanto possibile, le appartenenze e gli orientamenti di partito. Per cui è possibile che Veltroni continui a presentarsi da solo, sui media. In attesa di misurarsi con Berlusconi. Una questione diretta e personale, fra lui e Silvio. Come fra Sarko e Ségolène, in Francia. Oppure, negli Usa, fra Obama e la Clinton. Per ridurre il distacco tra Pd e Pdl. Sfruttando la concorrenza accesa (da Udc, Udeur, Rb e Destra) che si è aperta nel mercato elettorale a cui si rivolge il Pdl.

Così, il gioco delle parti sembra essersi quasi rovesciato, rispetto al passato. Quando Berlusconi era la comunicazione e il centrosinistra l'organizzazione. Oggi, al contrario, Veltroni cerca il confronto diretto con Berlusconi. Mentre Berlusconi sfrutta il peso del retroterra politico. Il Pd punta sulla personalizzazione, il Pdl sulle appartenenze. Il Pd evoca e indica il "nuovo", mentre il Pdl lo insegue.

Non sappiamo, però, cosa avverrebbe se i sondaggi indicassero un'effettiva e significativa riduzione della distanza fra Pd e Pdl. Se Veltroni minacciasse davvero la leadership del Cavaliere. Allora, forse, la "politica delle buone maniere" e del reciproco riconoscimento potrebbe interrompersi bruscamente. Berlusconi potrebbe decidere di cambiare registro, come avvenne due anni fa, al convegno degli industriali a Vicenza. I toni della campagna cambierebbero. Veltroni tornerebbe un comunista. L'erede di Prodi. Il Signore delle tasse. Berlusconi, a sua volta, diverrebbe, di nuovo, non l'avversario, ma il Nemico. Da sconfiggere ed emarginare.

Insomma, il destino della nostra democrazia sembra legato all'esito delle prossime elezioni. Molto dipende da chi saranno i candidati alla vittoria finale. Berluskozy e Obama Veltroni. Oppure, come sempre, il Caimano e il Comunista.

(17 febbraio 2008)

da repubblica.it

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di Ilvo Diamanti

Bussole

Passioni e ri/sentimenti in un tempo di cambiamento


Il caso di Casini è utile per capire ciò che sta capitando in questi tempi di cambiamento politico. Non peraltro gli abbiamo dedicato particolare attenzione, negli ultimi mesi. Al proposito, la questione che suscita maggiore curiosità (e discussione), è la seguente. Quanto pesano, sulle scelte di Casini, le ragioni "personali"? Quanto, invece, le ragioni "politiche"? Casini giura che il suo unico (o perlomeno: principale) interesse è di salvaguardare l'identità. Il marchio del partito. Che riassume una storia democristiana. Per cui: l'eredità della DC. Di garantire lo spazio e i valori del Centro, contro il "nuovismo" della logica maggioritaria, espresso da PD e PDL. Grandi contenitori anonimi senza tradizione. Per cui ha chiesto, invano, di mantenere la sua bandiera. In altri termini: di potersi apparentare senza sciogliersi nel nuovo partito di Berlusconi. Seguendo l'esempio della Lega, piuttosto che quello di Fini e di AN. Divenuti PdL e Popolari europei dalla sera alla mattina. O viceversa: dalla mattina alla sera. Senza esitazioni. D'altro canto, Berlusconi e Fini, echeggiati dai megafoni che li circondano, hanno liquidato la scelta di Casini come un fatto personale. Indotto - secondo loro - dall'insofferenza nei confronti del Cavaliere. Il Padrone, che tratta gli alleati da beneficiati. Ragazzi fortunati, che, se non lo avessero incontrato, sarebbero rimasti a fare la gavetta a vita. Uno a destra l'altro al centro. Entrambi "fuori" (gioco). Invece hanno ricevuto poteri e onori. Onori e poteri. Occupando perfino cariche politiche e istituzionali importanti. Casini: la Presidenza della Camera. Dopo essere stato allievo e assistente di Forlani, interpretare la parte dell'attor giovane e belloccio nella rappresentazione politica e mediatica allestita da Berlusconi: insopportabile.

Un'altra lettura "personale", suggerisce che Casini non riuscisse ad accettare di vedersi ridotto al quinto-sesto posto nella gerarchia del nuovo partito. D'altronde, come interpretare altrimenti il modo in cui si era materializzato il PdL: nuovo prodotto politico del centrodestra? Inventato da Berlusconi in autunno. Per non lasciare la bandiera del "nuovo" al Pd di Walter Veltroni. E per smuovere le acque nella CdL. In FI: congelata e frammentata da mille interessi e mille particolarismi. E, a maggior ragione, per addomesticare gli alleati, AN e UdC. Che tanto l'avevano fatto penare ai tempi del suo governo. Ma anche dopo. Sempre pronti a sfidarlo, a marcare le distanze, a mettere in discussione il suo primato. Era ora di finirla. Per cui, anno nuovo, partito nuovo. Chi ci sta ci sta. Gli altri: a casa loro. D'altronde, aveva sdoganato lui Fini e il suo partito, quando non era neppure considerato post, ma neo-fascista. E i Dc di Casini. Pochi voti e molte pretese. Senza di lui sarebbero scomparsi. Anche perché, in maggioranza, i loro elettori non li avrebbero seguiti. Sarebbero rimasti con il Cavaliere. Bossi e la Lega, invece: alleati fedeli. Non hanno mai creato problemi, dopo il "ritorno a casa", nel 2000. Basta assecondare il loro chiodo fisso: il Nord, il federalismo. Tollerarne le intemperanze. Il PdL, nelle intenzioni di Berlusconi, serviva, anzi: serve a spazzare via tutte queste resistenze. Come foglie secche. Anche Fini aveva polemizzato violentemente con Berlusconi, nei mesi scorsi. Però, le elezioni alle porte, ha dovuto decidere in corsa. Prendere o lasciare. Ha preso. Anche perché Berlusconi lo ha coinvolto "prima" di Casini. Ciò che ha il significato di una investitura. Come avesse vinto lui la "guerra di successione" (formula di Sofri), che lo ha opposto a Casini, negli anni e nei mesi scorsi. Non importa che i tempi del ricambio al vertice del nuovo partito siano tutt'altro che precisi e definiti. Berlusconi, d'altronde, è - e, comunque, ritiene di essere - eterno. Il problema è di "gerarchia". Chi ambisce alla fascia di capitano, se finisce in panchina, ha chiuso. Da ciò la reazione di Casini. Se non è possibile ambire alla successione del "grande partito di centrodestra", allora meglio restare il leader di un "piccolo partito di centro" alleato con la destra. Meglio n. 1 dell'UdC che il 5 del PdL. Richiesta inaccettabile, soprattutto per Fini (che ha rinunciato a tutto, per fare il n. 2 alla PdL). Poi si sa: una parola tira l'altra. Ciascuno chiede all'altro di fare un passo indietro, e pianta la propria bandiera un passo in avanti. Fino a che la discussione degenera e non c'è più spazio per le mediazioni. Fino a che nessuno può fare altro che andare per la propria strada. Con un certo timore. Perché i voti dell'UdC, anche se smagrita, servirebbero a Berlusconi, per vincere sicuro. E la Grande Casa di Berlusconi è sempre stata accogliente, per Casini. Per quanto vi abbia vissuto da inquilino. E come tale sia stato trattato.

Va detto che, nella narrazione dei media, ma anche nei discorsi pubblici, l'interpretazione personalistica ha preso il sopravvento su quella politica. I conflitti privati hanno convinto più dei discorsi sulla missione del Centro. Questa micropolitica della vita quotidiana, che valuta le stanze del potere come fossero luoghi di relazioni private. Posta in questi termini, tuttavia, la questione risulta incomprensibile. Perché oppone "personale" e "politico". Come se la dimensione "biografica" fosse alternativa a quella "partitica". Non è così. Non è mai stato così. Ma oggi meno di sempre. Perché la differenza fra i partiti e i leader è sfumata. La distanza: sottile. La scena politica è affollata da partiti personali e personalizzati. Leader senza partiti. Oppure, con intorno partiti "à la carte". Usa e getta. Creati su misura. Inutile tornare sull'argomento. Per un catalogo aggiornato (dal PiDG al PLD) preferisco rinviare alle altre, precedenti Bussole.

Resta l'impressione che per interpretare la politica italiana (e non solo) occorra andare oltre la scienza e la sociologia politica. Oltre gli studi e le discipline istituzionali. Oltre le analisi elettorali e geopolitiche. E dedicare più tempo al gossip, alle confidenze, ai sussurri, al pissi pissi. Consultando, sui giornali, le cronache del Palazzo. Ascoltando le voci di corridoio. Attenti a Dagospia oltre (più) che alle riviste del Mulino. Più della classica coppia amico/nemico, in politica contano la gelosia, l'ambizione, l'irritazione, l'invidia. Sentimenti e risentimenti piccoli, capaci di suscitare grandi passioni.

(21 febbraio 2008)

da repubblica.it

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