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Veltroni e l'urgenza di voltare pagina
di ILVO DIAMANTI
SE fossimo in Francia e si votasse per le presidenziali, Walter Veltroni avrebbe buone probabilità di farcela. In un ipotetico ballottaggio, secondo il sondaggio Demos-Eurisko per l'Atlante politico, batterebbe di misura Silvio Berlusconi e Pier Ferdinando Casini. Prevarrebbe largamente su Letizia Brichetto Moratti. Ma perderebbe, in modo dignitoso, con Gianfranco Fini. Il quale, tuttavia, difficilmente sarà chiamato a sfidarlo, visto che, a destra, non c'è alternativa a Berlusconi.
Come, d'altronde, a Veltroni nel centrosinistra. L'unico, oggi, a poter competere con i leader della Cdl. Bersani, la Finocchiaro, lo stesso Prodi: contro il Cavaliere perderebbero alla grande. Purtroppo per Veltroni, per il nascente Partito Democratico (PD) e per il centrosinistra, non siamo in Francia. Siamo in Italia. Dove si vota per i partiti e per le coalizioni, non per le persone. Dove il clima d'opinione, per quanto abbia reagito positivamente alla sua candidatura, è gravemente pregiudicato: dall'impopolarità del governo e dalle divisioni dell'Unione (su tutto). Dalla marcia lenta e tortuosa del PD.
Il governo, anzitutto, gode ormai di una sfiducia ampia e trasversale. Solo il 26,3% degli italiani gli attribuisce un voto sufficiente. 14 punti in meno rispetto a due mesi fa. Mai, da cinque anni a questa parte, il consenso per il governo era sceso tanto in basso.
Oltre il 60% degli elettori, di conseguenza, si dice convinto che, se oggi si votasse, vincerebbe la CdL. E le stime elettorali confermano questa previsione. La distanza tra le due coalizioni, infatti, è molto ampia: 55% a 44% per il centrodestra. Tre punti in più di due mesi fa. Mentre il PD è calato di quattro punti. Si è ridotto al 24%. Penalizzato, perlopiù, dai transfughi della SD. Non si può chiedere, d'altronde, a Veltroni di fare i miracoli, con una sola apparizione (non è mica il Cavaliere...). Soprattutto dopo mesi punteggiati di cattive notizie, per il governo e per il centrosinistra.
Prima: il cattivo risultato alle elezioni amministrative, in particolare nel Nord (complice, soprattutto, il calo della lista unitaria dell'Ulivo). Poi: i veleni esalati dal ritorno dell'affare Unipol-Bnl e dalle intercettazioni dei dialoghi fra esponenti DS e Consorte. A seguire: le polemiche sulla sostituzione del comandante della Guardia di Finanza. Ancora: la densa cappa di sfiducia antipolitica, che ha alimentato, soprattutto, il distacco da chi governa. Infine: il malessere delle categorie. La protesta antifiscale dei piccoli imprenditori e il negoziato inconcludente con i sindacati sulle pensioni.
Da ciò, l'incapacità del governo di capitalizzare il miglioramento degli indici economici. Oggi 6 italiani su 10 sono soddisfatti della loro condizione economica familiare (+2% rispetto ad aprile). Ma solo il 28% dell'economia italiana (-9% rispetto ad aprile), mentre l'87% delle persone si dice insoddisfatto di come vanno le cose in Italia (+2% rispetto ad aprile). Insomma, l'economia marcia, la disoccupazione è ai minimi storici, i conti pubblici sono migliorati. Ma gli italiani non se ne accorgono. Anzi pensano il contrario: che tutto vada male, per colpa del governo e della maggioranza che lo sostiene. Un fatto davvero incredibile.
In questo scenario, risulta difficile, a Veltroni, "voltare pagina" subito, come ha proclamato a Torino. Dichiarare, con la sua presenza, che il Partito Democratico è davvero (un) partito. Perché la delusione è cresciuta. Tanto più dopo le attese suscitate dai congressi dei DS e della Margherita di fine aprile. Perché la speranza è una cattiva consigliera. Quando è frustrata, suscita rigetto, fra gli elettori. I quali si attendevano un'accelerazione del progetto unitario. E invece hanno assistito alle solite schermaglie tra Prodi, i leader dei partiti e gli ulivisti. Certamente fondate, certamente incomprensibili ai più. Si attendevano, i sostenitori del PD, che qualcuno prendesse l'iniziativa, con decisione. Che Veltroni, per primo, sfidasse l'oligarchia del centrosinistra. Mentre ha rotto gli indugi solo ora, spinto dai leader DS e Margherita, preoccupati del collasso del sistema.
Certo, il suo esordio, a Torino, ha riscosso successo di pubblico e di critica. Questo stesso sondaggio, condotto, per una parte, "dopo" il discorso programmatico di mercoledì, ha registrato una ripresa sensibile dell'interesse presso gli elettori di centrosinistra. Che hanno concentrato ulteriormente la loro preferenza a favore di Veltroni. Indicato come leader del PD dal 61% (23% in più di due mesi fa). Avrebbe potuto, dunque (e gli sarebbe convenuto), affrontare le primarie aperte, senza alcun timore. Visto che tutti gli altri leader, da Fassino a D'Alema, dalla Finocchiaro, da Bersani allo stesso Prodi, volano basso, quasi rasoterra. Fra il 3% e l'8%.
Il sindaco di Roma, dunque, oggi è un uomo solo al comando, nel PD. Ma diventare sindaco d'Italia è un'impresa ardua. Visto che, personalmente, fra gli italiani gode di un sostegno elettorale pari al Cavaliere. Ma l'Unione resta lontana dalla CdL. Per alcuni versi, il suo problema è analogo a quello di Berlusconi, nei mesi precedenti alle elezioni del 2006, quando tutti, a partire dai suoi alleati, lo davano per finito, insieme a FI e alla CdL. Anche Veltroni deve convincere gli elettori e i leader del centrosinistra che la partita non è chiusa. Che c'è ancora margine per riprendersi. Tanto più perché, contrariamente a quando governava il centrodestra, l'economia va bene, le famiglie hanno recuperato un po' di ottimismo. Però, Berlusconi era e resta padrone di FI e leader indiscusso della CdL, come emerge dal sondaggio dell'Atlante politico. Al punto da permettersi di indicare, alla successione, una ragazza, a cui solo l'1% degli elettori della CdL affiderebbe la leadership. Come dire: dopo di me il nulla. Veltroni, invece, non ha ancora la guida del PD. Anche perché il PD per ora non c'è. I sondaggi che attribuiscono all'effetto-Veltroni una crescita elettorale del PD fino al 10%, per questo, non misurano il presente, ma ipotecano il futuro. Un po' come il sondaggio americano esibito da Berlusconi due mesi prima del voto. Che prevedeva uno scenario divenuto, poi, molto vicino al vero. Ma, per ora, tutto da costruire. Veltroni, per ora, può contare su un ampio consenso personale. E sulla voglia di cambiare, che, nonostante tutto, è ancora estesa, nel centrosinistra. Tra gli elettori del PD, infatti, 7 su 10 parteciperebbero alle primarie per eleggere l'assemblea costituente, 8 su 10 per eleggere il leader del partito. In entrambi i casi, quasi il 10% in più rispetto allo scorso aprile. Disposti, 6 su 10, ad accettare, come due anni fa, di trasformare le primarie nel rito che sancisce il consenso al candidato predestinato. In nome dell'unità. Per paura di ulteriori lacerazioni. Tuttavia, l'intenzione di iscriversi al PD è scesa, anche se di poco: dal 31% al 27%. Segno, probabilmente, di un crescente distacco dal partito tradizionale, fondato sull'appartenenza e sull'apparato.
A favore di un rapporto meno istituzionale, più diretto e personalizzato, con il leader. Ma, al tempo stesso, questa minore adesione "formale" al PD suggerisce un pregiudizio scettico nei confronti dei partiti che sopravvivono. Gruppi dirigenti chiusi, che non riescono a spezzare il legame con il passato. Veltroni, se davvero vuole avere e dare speranza, a sé, al PD e al centrosinistra: deve davvero "voltare pagina". Abbandonare questo gruppo dirigente. Da cui, egli stesso, proviene. Di cui egli stesso ha fatto parte. Perché è difficile costruire il nuovo senza "sopprimere" il vecchio. Che è in noi.
(1 luglio 2007)
darepubblica.it
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Il referendum e l'incubo del '91
IL referendum abrogativo della legge elettorale sembra cosa fatta. Le firme raccolte superano, ormai, largamente la soglia di sicurezza. Il che ha prodotto un'intensa fibrillazione politica. In entrambe le coalizioni. Nell'Unione: Rifondazione e i partiti più piccoli, centristi o di sinistra non importa. Ad eccezione di Di Pietro. Nella CdL (o ciò che è ora): la Lega e l'UdC. Non ci stanno. Non vogliono modifiche per via referendaria. Solo per via parlamentare. Berlusconi, poi, oscilla, a seconda del momento. Ma, in cuor suo, teme il referendum. L'attuale legge non gli dispiace. Anzi. La considera "il meno peggio dei mondi possibili". Perché nessun altro, quanto lui, è in grado di tenere insieme le diverse componenti della "coalizione". E, con questa legge, la "coalizione" è l'unico metodo possibile per vincere le elezioni.
Ci sono diverse ragioni dietro a questa ostilità. Motivi specifici ed evidenti, nel caso dei partiti più piccoli. Perché, qualunque cosa avvenga, dopo il referendum sarà impossibile una condizione altrettanto favorevole, per loro. Oggi, qualsiasi formazione politica, dotata di una base elettorale di qualche decina di migliaia di voti, diventa determinante ai fini del risultato finale. Per questo, può chiedere e ottenere molto, in cambio del proprio appoggio. Se, poi, riesce ad approdare in Senato, allora, il suo peso cresce a dismisura. Assume un potere di veto e di ricatto infinito.
Vengono, poi, ragioni di strategia politica. Chi persegue una prospettiva "neocentrista" non può accettare un sistema elettorale che spezza in due lo schieramento. E "costringe" gli elettori moderati, di centro e dintorni, a scegliere. Qui, là oppure fuori. E' il problema che inquieta i Popolari della Margherita, una parte di Forza Italia. Oltre - di nuovo - a Udc e Udeur.
Però, le ragioni che inducono il titolare della Giustizia (e non un ministro qualsiasi) a minacciare la crisi di governo, nel caso si arrivasse al referendum - previsto, pare, dal Diritto e dalla Costituzione - non si possono riassumere in termini di "interessi particolari". Dietro alla "paura" del referendum elettorale c'è la memoria dei primi anni Novanta. Il referendum del 1991, promosso da Mariotto Segni. Ridotto, dalla Corte Costituzionale, a un quesito che riduceva le preferenze di voto a una sola. Poca cosa, sembrò allora, ma fu un terremoto. Uno tsunami. Perché venne usato dagli elettori come un grimaldello per forzare le porte del Palazzo. Per espugnare la fortezza della Partitocrazia. Identificata allora - al contrario di oggi, paradossalmente - con la preferenza, che oggi si vorrebbe ripristinare. Perché ieri veniva usata dalle "lobbies di partito", per accordarsi tra loro. E per "negoziare" con le "lobbies sociali" lo scambio fra benefici e consenso. Mentre oggi è considerata un metodo per affermare la responsabilità personale degli eletti nei confronti degli elettori.
Quello, comunque, venne inteso come un referendum "contro" i partiti e la classe politica della prima Repubblica. Che, non a caso, lo contrastarono. Craxi in testa. Il quale invitò i cittadini ad "andare al mare". I cittadini, invece, andarono a votare. Imprimendo una spinta violenta e determinante all'assetto della prima Repubblica. Il successivo referendum, che si svolse nel 1993, sancì il definitivo passaggio dal proporzionale al maggioritario misto, per il Senato. Un modello riprodotto, in larga misura, anche per la Camera, con la discussa legge che, deformando il nome del relatore, Giovanni Sartori ha definito, causticamente, "Mattarellum".
Il referendum elettorale, quindi, nella nostra storia recente, costituisce un cleavage; una "frattura". Marca la discontinuità nei rapporti fra società e politica. Anche il referendum fallito del 1999, che non raggiunse il quorum per poche migliaia di elettori, conferma questa regola. Mirava a ridurre il peso della quota proporzionale del Mattarellum. La sua bocciatura sottolinea la delusione degli elettori, per una transizione perenne. Che non si chiude mai. Riflette la reazione verso la tendenza a caricare sui cittadini il compito di sostenere le riforme che i "nuovi" politici non sono in grado di realizzare. Prepara e annuncia, quindi, il rilancio di Berlusconi. Sancito dal successo elettorale del 2001. Oggi, però, il referendum cade in un clima politico che rammenta molto il periodo 1990-93. Il sentimento antipolitico, infatti, è diffuso, solido, palpabile. Come allora. E' una nebbia pesante, che opprime la vista e i polmoni. La classe politica appare delegittimata. Il sistema partitico, peraltro, è più frammentato di prima. E non sembra in grado di varare una nuova legge elettorale. Troppo divisi e polverizzati gli interessi di parte. Ora si riparla di "sistema alla tedesca", con una soglia di sbarramento. Non superiore all'1%, sospettiamo. Nessuna sorpresa, dunque, che il referendum susciti tensioni tanto forti. D'altra parte, il referendum è di per sé "bipartitico". Non dà possibilità di mediazione, in campagna elettorale. E si infiltra dentro le coalizioni. Oppone, uno contro l'altro, i partiti alleati. Ma anche i leader, i militanti, gli elettori dello stesso partito.
Per questo preoccupa, anche al di là degli effetti che potrebbe produrre sulla legge elettorale. A generare nervosismo e reazioni, talora un po' isteriche, è la memoria del 1991. Il timore che il referendum si trasformi in un voto pro o contro "la casta", il "sistema dei partiti", il "ceto politico". Non c'è bisogno di sondaggi per capire quale sarebbe il risultato.
(20 luglio 2007)
da repubblica.it
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Centrosinistra, ultima chiamata
di ILVO DIAMANTI
La pausa estiva non sembra aver alleggerito il clima d'opinione del Paese. Otto italiani su dieci, infatti, pensano che le cose, nel Paese, vadano male. Il dato emerge dal sondaggio condotto da Demos-Eurisko per la Repubblica nei giorni scorsi. Nel pessimismo diffuso, tuttavia, si coglie qualche segno di ripresa, rispetto allo scorso giugno, quando la polemica contro i privilegi della "casta" era appena esplosa. Quando si era riaperto "l'affaire Unipol", che ha coinvolto i leader dei Ds. Allora la fiducia nel governo era caduta al livello minimo da tanti anni a questa parte: 27%. Oggi è risalita al 30%.
Ancora molto bassa, dunque. Il bicchiere, infatti, per oltre i due terzi è vuoto. Anche le stime elettorali, per il centrosinistra, migliorano. Ma, nuovamente, di poco. Un punto e mezzo appena. Il distacco dell'Unione dal Centrodestra, quindi, resta molto ampio: circa il 10%. La metà, se si considera separatamente l'UDC, che da qualche tempo tende a marcare la propria autonomia e la propria vocazione "centrista". Il leggero recupero del centrosinistra dipende, quasi per intero, dalla crescita del PD. Vi hanno contribuito la campagna in vista delle primarie, la candidatura alla segreteria di Veltroni, cui ha attribuito maggiore significato la sfida lanciata da leader autorevoli, come Rosy Bindi ed Enrico Letta. Negli ultimi due mesi e mezzo, dunque, è risalito di due punti. Si è attestato un po' sopra al 26%. Un dato, comunque, sensibilmente inferiore al risultato ottenuto dall'Ulivo alle elezioni politiche del 2006 e in quelle europee del 2004, quando superò il 30%. Un esito considerato, allora, deludente. Oggi verrebbe celebrato come un successo.
A differenza del recente passato, inoltre, anche la sinistra cosiddetta "radicale" - e in particolare RC - flette. Il che conferma la difficoltà di "fare l'opposizione nel governo". Per il resto, solo il "Di Pietro party" recupera qualcosa. Favorito dal "vento del 1992". La SD, uscita dai DS per non "morire Democratica", è una frazione. Così, il centrosinistra continua ad apparire debole, sul piano elettorale. Riflesso dello scarso livello di fiducia del governo tra i cittadini, in generale, e della delusione degli elettori di centrosinistra, in particolare. D'altronde, la gerarchia dei problemi che preoccupano l'opinione pubblica favorisce sicuramente la destra. La paura della criminalità, la xenofobia (letteralmente: paura degli stranieri - e quindi degli immigrati); e ancora: le tasse. Occupano da mesi e mesi il centro del dibattito politico e mediatico. Mentre, rispetto a qualche anno fa, hanno perso rilievo i temi "sociali", coerenti con i progetti e i valori della sinistra: il lavoro, l'ambiente, il costo della vita, i servizi sociali.
L'attenzione verso temi etici "sensibili", come la revisione della legge sull'aborto, rafforza l'impressione che sulla società soffi un impetuoso vento di destra. Spinto anche dalla domanda di una nuova stagione di processi alla politica, considerata corrotta e inefficiente. Mentre il progetto di riformare le pensioni, per quanto risponda a un'esigenza largamente condivisa, continua ad essere avversato dalla maggioranza degli elettori. Soprattutto di centrosinistra.
Da ciò il problema della maggioranza e del governo, oggi. Tra due fuochi. Perché il centrosinistra continua ad essere avversato dai lavoratori autonomi e indipendenti, che lo considerano il "partito statalista delle tasse"; e lo giudicano "troppo buono" per difendere dalla criminalità e dagli immigrati (considerati quasi "sinonimi"). Ma sconta anche la frustrazione del "proprio" elettorato tradizionale: i lavoratori dipendenti pubblici, gli operai delle grandi imprese, insoddisfatti dei propositi di riforma in tema di pensioni e di flessibilità del lavoro.
Questi indici evocano una stagione instabile, incerta. Non una tendenza irreversibile. C'è, invece, molta - fluida - attesa. Soprattutto - ma non solo - nel centrosinistra. Dettata dalle primarie, che avranno luogo fra un mese, il prossimo 14 ottobre. Il rito che sancisce il passaggio del Partito Democratico da progetto a soggetto. Una scadenza che suscita, però, sentimenti contrastanti. Una grande domanda di cambiamento insieme al timore, altrettanto grande, che prevalgano la conservazione e il trasformismo.
Vediamo i "segni" dell'attesa.
a) La candidatura di Walter Veltroni ha smosso le acque stagnati in cui rischiava di affondare il PD. Il sondaggio di Demos-Eurisko gli attribuisce un successo molto netto alle prossime primarie, con oltre il 70% dei voti. Nonostante oggi sia un "leader di parte", però, continua a mantenere un elevato consenso nella società. Infatti, insieme a Fini, egli appare ancora il leader politico "più amato dagli italiani".
b) L'elettorato potenziale del PD è molto più ampio di quello attuale. Le stime, oggi, gli attribuiscono poco più del 26% dei voti validi, ma la quota di coloro che ritengono possibile votarlo è molto più ampia. Intorno al 44%. Quasi il doppio. La componente dei "democratici indecisi" è costituita, in larga misura (40%), da elettori incerti "se" e "per chi" votare. In attesa; sulla soglia che separa speranza e delusione.
In altri termini, il progetto del PD è accompagnato, nel centrosinistra, da grandi aspettative, ma anche da un grande scetticismo, determinato dalle contrastanti vicende che ne hanno contrassegnato il cammino fino ad oggi. Un sentimento conteso e diviso, che emerge da alcuni dati dell'Atlante politico di Demos-Eurisko.
1. Il primo, segnalato nei giorni scorsi, riguarda il V-people. La base dei sostenitori delle manifestazioni promosse da Beppe Grillo. La cui incidenza è del 43% fra gli elettori in generale, ma sale al 58% fra quelli dell'Unione e supera il 60% fra i Democratici. I più determinati, quindi, nella critica radicale alla politica e ai politici espressa da Grillo.
2. L'altro segno è fornito dalla richiesta che la magistratura, per combattere la corruzione politica, intervenga, oggi, "come ai tempi di tangentopoli". Opinione condivisa da una maggioranza massiccia, nella popolazione: l'80%. Un dato che, però, sale all'84%, fra gli elettori dell'Unione, e aumenta ancora, seppur di poco, fra i Democratici.
Il che sottolinea, anzitutto, la distanza dell'attuale "sentimento antipolitico" rispetto all'esempio dell'Uomo Qualunque di Giannini, continuamente evocato, in questa fase. Ma l'UQ raccoglieva il voto di componenti politicamente e socialmente "marginali". Mentre la "protesta antipolitica", oggi, proviene in gran parte da componenti sociali "politicizzati", che appartengono a settori professionali "intellettuali", residenti in aree "urbane". Esprime, dunque, non solo una generica protesta "contro" la politica. Ma anche la domanda di "cambiarla". Di realizzare le promesse di rinnovamento, efficienza, moralizzazione troppe volte avanzate e sempre eluse e deluse, negli ultimi 15 anni. Questo sentimento appare particolarmente diffuso e ampio nella base del nascente PD e nel centrosinistra.
Da ciò il rischio, costituito dalle primarie e dalla nascita del PD. Vissute non come una semplice opportunità, ma come l'ultima chance. L'ultima chiamata.
Se la costruzione del PD, fin dalle primarie, venisse viziata da giochi di potere, pilotati dall'alto, dai soliti noti; se si rivelasse una finzione, un'operazione guidata dagli apparati dei vecchi partiti, al centro come in periferia; se, per questo, risultasse incapace di sviluppare la comunicazione con la società; se, contro le attese, rinunciasse a cambiare "davvero" la classe dirigente, i metodi e il linguaggio della politica: allora, non sarebbe retorico parlare di "un nuovo 1992".
Quindici anni dopo: potrebbe liquefare ciò che resta della sinistra.
(16 settembre 2007)
da repubblica.it
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Il paese degli impotenti
di ILVO DIAMANTI
Si dice che l'ondata di sfiducia popolare sia stata sollevata dall'indignazione contro i partiti, ridotti a oligarchie. E contro la classe politica. Una "casta", come recita il titolo del fortunatissimo libro-inchiesta di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo. Che gode di benefici esorbitanti. Inaccettabili per la "gente comune".
Non ne siamo sicuri. Crediamo, invece, che la delegittimazione non origini dal distacco della classe politica dalla società, ma dall'esatto contrario. La perdita di ogni differenza rispetto alla "gente comune". Di cui i politici riflettono e riproducono, amplificati, i vizi più delle virtù. Come pretendere che i cittadini possano provare rispetto o timore nei loro confronti?
Per la stessa ragione, dubitiamo che sia giusto definire la classe politica una "casta". Termine usato per indicare un gruppo sociale distinto e diverso dagli altri, in base a motivi (religiosi, come in India) socialmente condivisi. I cui membri, se occupano posizioni più elevate, possono accedere a privilegi specifici. Se la classe politica fosse davvero una "casta", dunque, i riconoscimenti e i vantaggi di cui gode non provocherebbero scandalo.
Sarebbero considerati "benefici di status" legittimi, legati al loro ruolo di rappresentanza e di governo. D'altronde, è quanto avviene altrove ed è avvenuto in passato anche in Italia, senza il "rigetto" popolare di questa fase. Gli innumerevoli scandali, denunciati da tutti i media, a nostro avviso, c'entrano solo in parte con questa ondata di sdegno. Conta di più, semmai, l'insoddisfazione per le "prestazioni" dei politici. La convinzione diffusa che siano poco competenti e poco efficaci. Che, per questo, i privilegi loro accordati siano un "costo" sociale improduttivo. Senza benefici per la società. D'altronde il Presidente della Repubblica Francese, Nicolas Sarkozy, oggi tanto ammirato, in Italia, da destra a sinistra, ha dichiarato esplicitamente: "se un uomo politico è capace ed efficiente, non vedo perché dovrebbe, in aggiunta, vivere modestamente". Appunto: se è "capace ed efficiente". Altrimenti, come in Italia, esplode il risentimento popolare.
Tuttavia, neppure questa spiegazione, da sola, ci pare sufficiente. Quando la sfiducia si trasforma in dileggio generalizzato e sfocia nello "sputo di massa", non si tratta solo di dissenso. E' qualcosa di peggio: "banalizzazione". Perdita delle distinzioni fra i cittadini e chi li rappresenta e governa. La classe politica, in altri termini, è al centro delle polemiche non perché sia una "casta", lontana da noi. Ma, al contrario, perché ci somiglia troppo. Difetti, debolezze ed egoismi quotidiani compresi. Ma se i politici sono come noi, perché dovrebbero godere di tanti privilegi e favori?
Il problema è che, da molti anni, i politici fanno di tutto per mostrarsi e per apparire "persone come noi". Anzi: fanno di tutto per "mostrarsi" e "apparire". Hanno accettato la logica e le regole della "berlusconizzazione". Senza considerare che solo Berlusconi è "padrone delle televisioni".
Tutti gli altri, perlopiù copie modeste, si sono tuffati nei "media" senza mai un ripensamento. Hanno inflazionato le televisioni con la loro presenza. Convinti che fra "immagine" e "potere", fra "popolarità" e "autorità" vi sia un legame di reciprocità. Più immagine = più potere. Più popolarità = più autorità. E viceversa.
I politici. Hanno creduto che divenire personaggi televisivi familiari li avrebbe resi simpatici e, al tempo stesso, credibili. Ne avrebbe fatto crescere il consenso e la legittimità. Così, eccoli, all'assalto delle tivù, nazionali o locali non importa. A cucinare, cantare, danzare, giocare a biliardo, simulare orgasmi. Insieme a veline, cuochi, ballerini, tronisti, psicologi, sociologi, criminologi, criminali, enologi, attori, attrici, missitalia, calciatori, allenatori, motociclisti. Leader politici e di governo che nei cabaret televisivi duettano con i loro imitatori. Fino a rendere difficile individuare l'originale. Li abbiamo visti ricevere torte in faccia, lanciate da soubrettes dalle grandi forme, generosamente esibite. Hanno riempito le riviste di informazione gossip. Soprattutto quelle dove, scorrendo nomi e fotografie, non riconosci quasi nessuno. I soliti ignoti. La "Penisola dei famosi", descritta con quotidiana e chirurgica ferocia dai reportage di Dagospia. Un sito di riferimento per capire se uno esiste. Se "conta".
Gli uomini politici. Tutti impegnati a conquistare un posto al sole. Nei salotti tivù più esposti, più visibili. Porta a porta, ma anche Ballarò, Anno Zero, Matrix. Pronti alla mischia. Accettando (spesso cercando) la rissa, l'insulto, la frase a effetto. Pronti a darsi sulla voce, perché non è importante convincere e spiegare, ma gridare più degli altri. Avere l'ultima parola. Non importa quale.
Per cui ha fatto bene il Presidente Giorgio Napolitano, a diffidare gli uomini che hanno cariche pubbliche da questa bulimia televisiva. Il suo ammonimento, però, arriva tardi. Assai prima che Grillo invadesse la rete e - di recente - le piazze, la classe politica si era già squalificata da sola. Come ha commentato Altan, con disarmante ferocia, sulla prima pagina della Repubblica di qualche giorno fa. Quando fa dire alla caricatura del "politico" medio: "Basta con la demagogia. Siamo perfettamente in grado di mandarci a fanculo da soli".
Il fatto è che il potere suscita prestigio e timore.
Quando è "legittimo", riconosciuto, evoca rispetto. "Deferenza". E i riti, gli stessi privilegi che lo accompagnano, contribuiscono ad alimentarlo e a riprodurlo. Per questo, gli uomini che dispongono davvero di "potere" non hanno bisogno di esibirlo. Non hanno bisogno di parole. Bastano il ruolo e i "segni" che lo distinguono. Il timore che possa esercitarlo. Basta la fama che lo circonda. Ciampi non ha mai messo piede in uno studio televisivo. E Cuccia: mai una parola, un'immagine. Lo ricordate? Staffelli, il mastino di "Striscia la notizia" che lo tallona, lo interroga, microfono e telecamera addosso. E lui: non una frase. Neppure una parola. Una piega del viso. E De Gaulle? Parlava il meno possibile.
Certo: altri tempi. L'era del marketing e dell'immagine ha cambiato tutto. E' la democrazia del pubblico. La comunicazione diventa una risorsa. Perfino una necessità. Però, Blair (ieri) e Sarkozy (oggi) i media non solo li conoscono, ma li "usano". Nel senso che non si fanno "usare". Invece, in Italia, avviene il contrario. Ma ve lo immaginate Sarkozy interpellato dal Trio Medusa, delle Iene, sull'ultimo provvedimento in tema di immigrazione. E poi, immancabilmente, irriso a ogni risposta? Oppure incalzato dalla "Iena" Enrico Lucci, che, come normalmente fa con "grandi" politici e imprenditori italiani, scherza con lui come fosse un amicone. Un compagno di notti brave. Riuscite a immaginarlo?
Per questo è inutile prendersela con Grillo. Il quale ha guadagnato popolarità, in passato, andando in tivù. E si è conquistato credito e potere, in seguito, quando ha smesso di andarci. Sulle piazze egli si limita a replicare uno spettacolo che va in onda quotidianamente sugli schermi. Sui media. Stessi protagonisti, stesse comparse. Così le sue prediche corrosive, magari divertono, poi indignano. Ma alla fine lasciano un senso di vuoto. Perché evocano la storia di un Paese minore: il nostro. Dove privilegi grandi e piccoli vengono esibiti senza vergogna da tanti piccoli potenti. Pardon: tanti piccoli impotenti. Che non suscitano più né rispetto, né deferenza. E neppure paura. Perché li abbiamo sempre sotto gli occhi. Seguiti ovunque dalle telecamere. Più che una "casta", il "cast" di una politica ridotta ad avanspettacolo. A un reality show. Se la democrazia esige che le stanze del potere abbiano pareti di cristallo, per noi è come guardare la casa del "Grande Fratello".
(23 settembre 2007)
da repubblica.it
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Un prodotto mediatico di successo: l'antipolitica
Mastella e Diliberto a Ballarò
L'antipolitica è un "prodotto" mediatico. Almeno in parte. Certo: ha radici sociali profonde e attori politici che la alimentano di continuo. Da molti anni. Però, la sua "visibilità" è cresciuta troppo, negli ultimi mesi, nelle ultime settimane, per essere spiegata solamente su base sociale e politica. Anche il successo del V-Day non può essere attribuito solo alla capacità di Beppe Grillo e della sua "rete" di MeetUp.
Naturalmente, Grillo ha costruito un sistema organizzativo e comunicativo molto rilevante. I "suoi" militanti internautici sono molti e competenti. Attivi. Egli stesso è costantemente in movimento, e "mobilita" con i suoi spettacoli-comizi, ogni volta migliaia di persone. Però il boom del V-Day è "successivo". E' la "visione" della piazza gremita rilanciata da Sky e dalle prime pagine dei quotidiani on-line (su tutti, "la Repubblica") ad aver fatto tracimare l'iniziativa, che ha invaso, a cascata, i principali media. Anche quelli che l'avevano occultato, a bella posta. L'invettiva di Grillo, rilanciata dovunque; le repliche accese e risentite dei suoi "bersagli", hanno fatto il resto. Però, il V-Day e Grillo - trasferiti sui media - sono solo l'ultimo, clamoroso caso di "spettacolo dell'antipolitica". Il "genere" di maggior successo, in questa fase. Più dei reality. Più della fiction. Di Miss Italia e dei telecabaret.
Lo certificano i dati, in modo inequivocabile. La serata di Ballarò di martedì scorso, dedicata ai privilegi e ai privilegiati della politica: 4 milioni e mezzo di audience. Ospiti di primo piano: Gian Antonio Stella, l'autore, insieme a Sergio Rizzo, della "Casta". La "Bibbia dei cultori del genere. E soprattutto Mastella. Il bersaglio immobile, su cui sparare a colpo sicuro. Una settimana fa: "Anno Zero", il programma di Michele Santoro, dedicato a Grillo, al Vaffa-day e all'antipolitica: è andato oltre ai 5 milioni. Clou della serata: la requisitoria di Marco Travaglio. Contro Clemente Mastella. Sempre lui.
Ancora, pochi giorni fa, lo stesso menu su Matrix. D'altronde, Mentana è stato fra i primi a "scoprire" la forza di attrazione dell'argomento. E ogni volta che ha ospitato Stella e Rizzo, a presentare i fatti e i misfatti della "Casta", ha conseguito risultati di ascolto straordinari. Il V-Day di Grillo, peraltro, ha fatto crescere gli ascolti di tutti i programmi di approfondimento. Primo Piano, TV 7. Lo stesso Tg2 ha avuto il suo momento di gloria quando il direttore Mauro Mazza ha evocato il rischio che la "colonna infame" recitata da Grillo, sulle piazze, possa trasformare i politici privilegiati (gli "untori" del male che indetta la nazione) in potenziali bersagli di azioni violente. Come negli anni di piombo. D'altronde, "La Casta", il libro di Stella e Rizzo ha raggiunto livelli di vendita strabilianti. E' divenuto un best-seller cosmico. Come "Il nome della rosa", "Va dove ti porta il cuore" o "Harry Potter.
Da ciò il dubbio rivelato all'inizio. L'onda antipolitica, o ciò che si intende con questo termine abusato, oggi procede impetuosa. Ma non solo perché esistono seri e fondati motivi per indignarsi. Non solo perché il sistema politico non pare in grado di autoriformarsi. Di dare segni di ravvedimento. Ma anche perché, anche se ciò avvenisse, i media non glielo permetterebbero. Non lo riconoscerebbero. Almeno fino a quando il "format" funziona, insieme ai suoi personaggi. Perché l'Antipolitica raddoppia gli ascolti televisivi, moltiplica le vendite dei libri e sostiene le tirature dei giornali. Paradossalmente, rende popolari anche le "vittime". Mastella, ormai, è linciato dovunque. Una vittima sacrificale. Dato in pasto all'indignazione pubblica. Presente o assente che sia, non importa. E' diventato un simulacro. Un'icona. Come Di Pietro, il grande Accusatore. Sembra aver ritrovato la verve dei bei tempi di Mani Pulite.
E immaginiamo che i programmi di satira, informazione e denuncia ("Striscia la Notizia" e "le Iene", in primo luogo), tornati dopo la pausa estiva, inseguiranno i protagonisti politici delle mille malefatte quotidiane, dei mille privilegi, dei centomila sprechi, del milione e passa di interessi privati in pubblico ufficio. Per deriderli, irriderli, sputtanarli, denunciarli.
Senza pietà. Perché questo chiede "la gente". Disgustata, per giustificati motivi. Ma anche perché attratta dalla gogna e dalla ghigliottina su cui vengono immolati i potenti e gli impotenti. Perché questo piace al pubblico: vedere scorrere il sangue blu, rosso e rossoblu. Il grandguignol. Fa audience. Quindi continuerà. Almeno fino a quando la fame di vendetta non verrà soffocata dalla bulimia antipolitica. Fino a che tanto sangue non renderà il pubblico sempre meno sensibile - e infine insensibile. Fino a che lo spettacolo della corruzione dei politici, replicato senza sosta, non "finirà per sfinirci". Rendendoci tutti indifferenti. Mitridatizzati. In grado di assumere ogni veleno.
Fino a che gli ascolti non cominceranno a calare. E le piazze, convocate a fanculare i politici, smetteranno di riempirsi. Fino a che il pubblico non si sarà convinto (e rassegnato) che, "se così fan tutti", "se la politica fa schifo", meglio girare canale. Cercare qualcosa di diverso. Più attraente, inquietante. Un'altra madre che ammazza il figlio; un altro figlio che ammazza la madre (e magari anche il padre); un ragazzo che ammazza l'amica; un branco di studenti che violenta una compagna di classe; oppure palpeggia e filma la professoressa; una maestra che insidia i bimbi dell'asilo; un prete pedofilo che circuisce i ragazzini. Episodi che "vanno" sempre. E sempre di più. Successi evergreen.
Mentre l'avanspettacolo dell'antipolitica funziona alla grande: ma solo una volta ogni quindici anni.
(27 settembre 2007)
da repubblica.it
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