ILVO DIAMANTI -
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POLITICA
La partecipazione al voto sarà la prima prova del successo della nuova formazione
Nella gara tra i candidati sono mancati i faccia a faccia, limitati agli scontri
Nascere libero dal passato La grande occasione del Pd
di ILVO DIAMANTI
OGGI il Partito Democratico finisce di essere un progetto. Diventa un soggetto politico. Dopo un cammino lungo dodici anni. Perché il PD è certamente figlio, forse fratello, dell'Ulivo. L'atto di "fondazione" coincide con le "primarie": l'elezione dei segretari regionali e dell'assemblea costituente.
Ma soprattutto del segretario nazionale. Vincerà Walter Veltroni, il sindaco di Roma. Il più amato dagli elettori, come mostrano tutti i sondaggi. Tuttavia, il "successo" di questo rito di passaggio dipenderà soprattutto dalla "partecipazione". La cui valutazione sarà condizionata dal confronto con le primarie dell'Unione di due anni fa. Quando milioni di elettori garantirono l'investitura di Romano Prodi. In un contesto molto diverso. Perché in quell'occasione votarono gli elettori dell'intera coalizione, per eleggere il candidato premier in vista delle consultazioni politiche. In un clima di rivincita contro Berlusconi.
Cosa sarà il Pd? Certamente non un "partito personale", come FI. Ma, comunque, "personalizzato". Come sottolinea l'elezione diretta e la competizione fra i candidati. La campagna elettorale, per questo, avrebbe dovuto permettere di associare l'identità personale dei candidati a uno specifico profilo programmatico. Il che è avvenuto solo in parte. Il confronto fra i candidati, infatti, si è svolto a distanza.
Nessun faccia a faccia. Poche polemiche. Per paura di aprire divisioni in una fase così critica. Il forum offerto da Repubblica.it ha costituito una rara - forse l'unica - occasione di confronto fra i candidati. I quali hanno reagito a una serie di quesiti su diversi temi: modello di partito, alleanze, regole e riforme istituzionali, questioni etiche e sociali. I frequentatori del quotidiano on-line hanno votato, di volta in volta, la risposta che appariva loro più convincente.
Naturalmente, non si tratta di un "sondaggio". I "votanti", infatti, non costituiscono un "campione rappresentativo" dell'elettorato nazionale. E neppure dei Democratici. Tuttavia, "la Repubblica" rappresenta da sempre un riferimento condiviso dagli elettori di centrosinistra. In particolare, quelli attenti alla proposta dell'Ulivo e del Pd. Questa iniziativa va, dunque, considerata un'esperienza di "e-democracy". Nella quale i candidati hanno messo le proprie idee a confronto. Per sottoporle al giudizio di una cerchia molto estesa di "elettori" simpatetici e informati.
Quali indicazioni ne possiamo trarre?
1. Un primo aspetto riguarda la "partecipazione". Altissima, all'inizio: hanno votato circa 60mila e-lettori, in occasione del primo "confronto". Poi la partecipazione è scesa, per risalire in occasione del "messaggio finale" dei candidati. Nel complesso, 250mila risposte. Decine di migliaia di "cittadini" hanno, comunque, "partecipato" a questa campagna. Che ha rivelato una certa disabitudine dei principali candidati a "usare" il mezzo. E alla discussione aperta.
2. Dal confronto, ricostruito dalla tavola sinottica proposta in questa sede, emergono alcuni profili programmatici, più o meno definiti.
Rosy Bindi ha ribadito la sua impronta "solidarista". Ha usato un linguaggio diretto. Esplicita sui temi sociali, anzitutto il lavoro; impegnata a marcare la frattura con il passato. Enrico Letta si è preoccupato di interpretare il rinnovamento come "ricambio generazionale". L'apertura ai "giovani". Inoltre: ha posto l'accento sulla riforma fiscale, sulla questione settentrionale. Walter Veltroni ha recitato la parte del leader designato. Ha cercato di evitare posizioni troppo nette. Ha cercato di impersonare "l'identità democratica". Esprimendo la sua preferenza per un Pd che, alle elezioni, corra da solo. Gli altri candidati, Mario Adinolfi e Piergiorgio Gawronski, hanno usato la loro estraneità alla classe dirigente di partito come argomento politico e polemico.
3. Il voto degli e-lettori non ha seguito logiche di appartenenza. Ha, per questo, delineato esiti diversi, di volta in volta. D'altronde, gli "e-lettori" di questa "consultazione elettronica", non rappresentano gli "elettori" di centrosinistra e del Pd. Tanto meno la base militante e organizzata. Ne delimitano, invece, una componente informata, tecnologicamente competente, politicamente interessata. Una "minoranza attiva". Che ha reagito in base all'efficacia delle risposte dei candidati. Walter Veltroni, il leader "pre-destinato alla vittoria", ha riscosso il massimo consenso (40%) sul tema delle alleanze: rivendicando "l'autonomia del Pd", l'ambizione di "correre da solo".
Che riflette una domanda diffusa nel centrosinistra. Ha, inoltre, ottenuto un gradimento elevato quando ha espresso posizioni chiare. Sul Nord e sui temi etici, in particolare. Non ha, invece, convinto gli e-lettori su tre questioni: il modello di partito, il lavoro e nell'appello conclusivo. Probabilmente, per eccesso di prudenza. In questi casi è stato superato da Rosy Bindi. Quasi sempre oltre il 20% dei consensi, ha raggiunto il 35% di voti in occasione dell'appello conclusivo. Favorita, presumibilmente, dal linguaggio diretto.
Lo stesso Enrico Letta, pur navigando su livelli più bassi, ha conseguito un consenso significativo quando ha espresso in modo argomentato la sua attenzione al "territorio". Sulle questioni relative al Nord, le tasse, il rinnovamento del partito. Fra gli altri candidati, va ricordato il grado elevato di consensi ottenuto da Adinolfi. La cui popolarità è certamente più ampia nella rete che sul territorio. Tuttavia, quando ha affrontato la questione del lavoro e del precariato ha superato perfino Veltroni.
4. Comune ai candidati, "vecchi" e "nuovi" è l'incertezza dei riferimenti. Per cui il Pd appare un partito senza padri né maestri. Senza santi e senza dei. I cui numi ispiratori sono, per Veltroni, il pannello solare e il computer. Per Adinolfi, gli inventori di Google. Per Schettini (che ha abbandonato la competizione nelle ultime settimane) il mitico capitano Kirk dell'Enterprise. Per Bindi e Letta: nessuno. Un partito che, peraltro, ha estromesso dai suoi riferimenti la tradizione socialista. Un partito tanto "nuovo" da aver rimosso il passato e oscurato l'orizzonte.
Ora, conclusa questa campagna, un po' tiepida, è il momento del voto reale. Finalmente. Il cui esito sarà, certamente, diverso da quello espresso nel forum di Repubblica. it. Perché diversa è la cerchia degli elettori. Diversi i canali del consenso e di mobilitazione. L'auspicio è che la "fondazione" del "nuovo" partito non venga condizionata troppo da "vecchie" logiche e "vecchi" attori politici. Il Pd "può essere un modo originale di rilanciare la sinistra in Europa", ha sostenuto Marc Lazar (intervistato da Gigi Riva sull'Espresso). Ma se, invece, apparisse la riedizione, aggiornata, di una storia già scritta, rischierebbe l'insuccesso. Questa volta, riteniamo, senza appello.
(14 ottobre 2007)
da repubblica.it
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POLITICA IL COMMENTO
Dall'antipolitica all'iperpolitica
di ILVO DIAMANTI
LE PRIMARIE continuano a sorprendere gran parte degli osservatori, degli analisti, dei commentatori. E degli stessi attori politici coinvolti. Come era avvenuto due anni fa. Quando "travolsero" ogni previsione. Questa volta anche più di allora. Perché nell'aria si percepivano rumori poco rassicuranti. Il lamento del "popolo di sinistra", insoddisfatto del comportamento del governo e del ceto politico che lo rappresenta. Le grida di protesta, contro i privilegi della casta. Il rumore sordo e sgradevole dell'antipolitica. E come poteva mobilitare le persone e le passioni, in questa glaciazione della politica, l'atto di nascita di un "partito nuovo"? O, peggio, di un "nuovo" partito?
Promosso e guidato da uomini politici "vecchi" o, comunque, sicuramente non "inediti"? Invece, un'altra volta, si è assistito a una risposta di massa. Inattesa dagli stessi promotori. Il che getta più di un'ombra sull'antipolitica: il distacco dalla politica; il rifiuto delle sue pratiche e dei suoi attori. Esiste davvero? A questo punto, si rischia di non capire. Visto che, mettendo in fila le iniziative "politiche" degli ultimi giorni, delle ultime settimane, si rischia la vertigine. Il mal di capo.
Più di tre milioni di cittadini hanno partecipato alle primarie di due giorni fa. Una partecipazione enorme. Inattesa. Il giorno prima, An aveva mobilitato almeno 300mila militanti a protestare contro il governo. Nei giorni precedenti milioni di lavoratori avevano partecipato al referendum del sindacato. Un mese fa, centinaia di migliaia di persone avevano sottoscritto le proposte di Grillo per la "moralizzazione politica". E se mettiamo in fila le mobilitazioni organizzate da un anno a questa parte dalla destra, dalla sinistra cosiddetta radicale, da comitati e movimenti si raggiungono cifre superiori agli anni Settanta. Al mitico Sessantotto. Non solo.
Il livello di attenzione sui fatti e sui temi della politica, in questa fase, è salito rapidamente. Come testimoniano gli ascolti delle trasmissioni tivù che affrontano i temi politici, nella "versione antipolitica". E la tiratura dei libri che ne fanno oggetto di inchiesta e di denuncia. Il fatto è che tra politica e antipolitica il confine non sempre è chiaro. A separarle, talora, è una linea sottile. Visibile solo agli occhi di chi guarda. Da ciò l'esigenza di distinguere, almeno, due diverse facce dell'antipolitica. Da un lato, come "argomento", usato da leader, movimenti, partiti, ma anche dai media. Dall'altro, come "sentimento sociale".
Considerata da questo punto di vista, l'antipolitica rivela non rifiuto, ma una diffusa domanda di politica. Una estesa disponibilità a partecipare e a mobilitarsi, da parte di milioni di cittadini. Per questo, esibire e agitare la partecipazione alle primarie come una risposta al "vaffa-day", uno schiaffo a Grillo e ai suoi adepti, ci sembra un po' fuori luogo. Almeno, se si fa riferimento alla base sociale, ai partecipanti delle due manifestazioni. Che, in parte, si sovrappongono. Perché molti sostenitori del V-Day sono elettori del Pd che, nonostante gli anatemi di Grillo, hanno "votato" alle primarie. Hanno contribuito alla "fondazione" del "partito nuovo", all'elezione degli organismi e all'investitura di Walter Veltroni.
Il che, restando al tema delle primarie, ne sottolinea il significato. Il sentimento che ha animato una partecipazione tanto ampia, infatti, più che fiducia rivela sofferenza e un po' di insofferenza. E' richiesta di cambiare. Ma davvero. Di costruire un "partito" capace di ri-generare: la classe dirigente, il linguaggio, il rapporto con la società. Una grande occasione, per i leader del Pd. E soprattutto, anzitutto, per Walter Veltroni. Ma forse, anche, l'ultima.
Il sentimento antipolitico della società italiana, d'altronde, non appare particolarmente più esteso rispetto agli altri paesi europei. Dove si coglie un analogo sentimento di sfiducia nelle istituzioni rappresentative e nel ceto politico. (Basta consultare la ricerca europea condotta da laPolis-Demos-FNE, presentata sul volume della Rassegna Italiana di Sociologia attualmente in uscita). Peraltro, non si tratta di un fenomeno nuovo. Visto nel lungo periodo, anzi, sembra perfino essersi ridotto. Come mostrano alcuni studi recenti (ad esempio, una ricerca sulla "Immagine della politica e del buon governo", curata da Paolo Bellucci e dal Laboratorio di Analisi Politica dell'Università di Siena).
Se oggi, in Italia, risulta esplosivo è soprattutto perché la classe politica, per prima, predica l'antipolitica. E si presenta come uno specchio rotto (per riprendere la suggestiva metafora di Eugenio Scalfari), che, invece di riassumere la società, la frantuma ulteriormente. Ne restituisce una immagine deforme, invece che dignitosa. Perché, inoltre, ai media piace seguire, da vicino, il peggio della politica. Amplificare "l'indignazione popolare". Che "fa notizia". Alza gli ascolti. In questo Paese: c'è una parte della società, probabilmente maggioritaria, sicuramente molto ampia, che è migliore di chi la rappresenta e raffigura. Di chi la interpreta e la racconta. Così, noi che la interpretiamo e raccontiamo siamo destinati a sorprenderci. Sempre più spesso.
Perché la osserviamo attraverso la lente dei nostri pre-giudizi. In base ai quali distinguiamo l'antipolitica dalla politica. Separando, quasi, il bene dal male. Converrebbe, al proposito, usare un po' più di prudenza e di umiltà. Stiamo attraversando una fase di cambiamento delle democrazie rappresentative. La sfiducia, la protesta, gli stessi populismi. Lo sbriciolarsi della partecipazione politica in mille esperienze: collettive ma anche individuali. Le grandi mobilitazioni polemiche. Non sanciscono il rifiuto della democrazia.
Segnalano, invece, un insieme di pratiche attraverso le quali la società esercita poteri di correzione, controllo, pressione. I partiti, se vogliono continuare a esistere, se vogliono essere "utili", debbono tenerne conto. Aprirsi. "Rappresentarli". Al contrario di quanto è avvenuto negli ultimi anni, durante i quali si sono trasformati in oligarchie, rifugiandosi nelle istituzioni, per "difendersi" dalla società. La grande partecipazione alle primarie, per questo, costituisce un segnale molto importante.
Ma anche un allarme, che deve essere raccolto. Non possiamo immaginare, altrimenti, che la "rivoluzione di ottobre", come è stata definita da qualcuno, prosegua anche in novembre. E via di seguito. All'infinito. E non possiamo pensare a una società in "mobilitazione permanente", come avviene da troppo tempo.
Questo "surplus di politica", questa "iperpolitica" ci appare, infatti, l'altra faccia dell'antipolitica. Segni, entrambi, di una "domanda politica" frustrata. Se non dovesse trovare risposta, dopo tanti tentativi, allora è lecito attendersi l'esplosione. O l'implosione. Sicuramente la "delusione" e il distacco vero.
Per questo, dopo la bella "domenica delle primarie", ci sorprendiamo a sognare una democrazia diversa. Dove i cittadini non abbiano bisogno di scendere in piazza - né di votare - ogni mese, talora ogni fine settimana. Per contare. Dove ogni risultato elettorale non sia "sospettato" dall'avversario politico. "A prescindere", per citare Totò. Dove non sia necessario alzare la voce oppure urlare per farsi ascoltare. Dove si possa manifestare senza "fanculare" la classe politica. Dove la classe politica non debba essere "fanculata" per comportarsi in modo virtuoso ed equilibrato. Dove la politica costituisca "un" aspetto importante della vita. Uno, non il solo e neppure il più importante. Una democrazia normale. Magari po' più tiepida. Non soffocata dall'antipolitica. Ma neppure dalla "troppa politica".
(17 ottobre 2007)
da repubblica.it
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POLITICA BUSSOLE
Il Partito democratico fra nuova e vecchia politica
di ILVO DIAMANTI
La straordinaria partecipazione alle primarie del PD, domenica scorsa, riflette una domanda di partecipazione molto ampia, nella società. E soprattutto fra gli elettori di centrosinistra. Lo abbiamo scritto, nei giorni scorsi: più che di "antipolitica" dovremmo parlare di "iperpolitica". Visto che le mobilitazioni, negli ultimi mesi, si sono moltiplicate. Coinvolgendo masse imponenti di persone. Spinte, come si è detto, da una grande richiesta di cambiamento e di novità. Però, vale la pena di aggiungere: non solo.
Come ha suggerito Alfio Mastropaolo, dietro alla partecipazione di massa che ha "premiato" le primarie del PD, non c'è solo il "nuovo", ma anche il "vecchio". Il contributo della tradizione; dell'organizzazione dei partiti; delle cerchie personali. Logiche di appartenenza "ideologica", ma anche personale e particolaristica. Basta scorrere i dati della partecipazione su base regionale. A livello nazionale hanno votato 3 milioni e mezzo di elettori. Tra cui, va chiarito, anche giovani con meno di 18 anni (ma più di 16) e immigrati. Per cui si tratta di una base più ampia dell'elettorato chiamato a votare alle consultazioni politiche. Tuttavia, calcolato sul voto alla lista "Uniti nell'Ulivo" nel 2006, il peso degli elettori alle primarie risulta egualmente molto rilevante: il 29%. Ciò significa che ha votato alle primarie quasi un elettore su tre.
La distribuzione per regione, però, fa emergere una geografia particolare. Molto diversa dal passato. Non tanto per l'affluenza nelle regioni del Nord: significativa ma, comunque, al di sotto della media nazionale. Né per il buon grado di partecipazione registrato nelle "regioni rosse". Soprattutto in Emilia Romagna e in Umbria (oltre il 30%). Ma per la clamorosa mobilitazione che ha caratterizzato le regioni del Mezzogiorno. In Abruzzo l'affluenza alle primarie copre il 40% dei voti ottenuti nel 2006 (alla Camera) dalla lista "Uniti nell'Ulivo". In Puglia il 34%. In Sardegna il 32%. Ma vette insuperabili vengono toccate in Campania: 44%. E ancor di più in Basilicata: 53%. Fino al record della Calabria, dove i voti validi alle primarie costituiscono il 70% di quelli ottenuti dall'Ulivo un anno e mezzo fa. Certo, vale la pena di ripeterlo: c'è una quota di minorenni e di immigrati. Ma si tratta, comunque, di un dato cosmico.
Peraltro, la struttura del voto, su base territoriale, in questa occasione non riflette quella di due anni fa, che legittimò Prodi in vista delle elezioni del 2006. Rispetto ad allora, in tutte le regioni del Centronord si osserva un calo di voti (validi) più o meno sensibile. In particolare in Lombardia (-232.000), Emilia Romagna (-204.000), Toscana (-168.000) e in Veneto (-89.000). Anche nel Lazio, dove Veltroni ha trascinato la partecipazione al voto, si assiste a un ripiegamento sensibile rispetto alle primarie del 2005 (- 86.000 voti validi). D'altra parte era prevedibile, visto che due anni fa alle primarie avevano partecipato gli elettori di tutta la coalizione, per eleggere non il segretario di un partito, ma il candidato premier. Invece, contrariamente alle aspettative, in larga parte del Mezzogiorno, domenica scorsa si verifica una crescita dei voti, in alcuni casi molto consistente. Soprattutto in Puglia (+54.000), Abruzzo (+13.000), Basilicata (+17.000), Campania (+106.000) e, appunto, Calabria (+ 87.000).
Ciò permette di precisare l'osservazione da cui siamo partiti. La grande partecipazione alle elezioni primarie di domenica scorsa sottolinea una stagione "iperpolitica" piuttosto che "antipolitica". In cui, però, convergono e si cumulano spinte diverse. Domande di "cambiamento", ma anche "continuità". La grande partecipazione alle primarie, infatti, ha raccolto e aggregato movimenti ed elettori d'opinione, alla ricerca di nuovi modelli di rappresentanza politica. Insieme ad ampie componenti ancora "fedeli" ai partiti tradizionali (e auto-dissolti: DS e Margherita); a settori, estesi, di voto "personale" e particolarista; e a solide clientele locali. E' un grande calderone, questo PD. Nel quale confluiscono componenti nuove, ma anche vecchie. (E, vogliamo precisare, il "vecchio" non è necessariamente peggio; talora, anzi, è anche meglio del "nuovo").
Ci vorranno molto coraggio e grande determinazione per costruire un "partito nuovo", capace di assorbire e coagulare l'eredità dei "partiti vecchi". Così pesante e localizzata. Ma, soprattutto, per costruire un partito che sia davvero "nazionale", in grado di superare i limiti territoriali del passato, anche recente. Il centrosinistra, infatti, nella seconda Repubblica, ha mantenuto la geografia elettorale del Pci. Tanto che Marc Lazar, facendo riferimento ai Ds, aveva parlato di una "Lega di centro". Mentre nel Nord non è mai riuscito a imporsi. Anzi, alle elezioni del 2006 si è ridotto a una "minoranza assediata". Oggi, le primarie descrivono un PD fin troppo "meridionalizzato".
Non sarà facile, con questa geografia e con questa base elettorale costruire un soggetto politico riformista e innovatore. Walter Veltroni, il sindaco di Roma: dovrà governare i localismi del suo partito. Dovrà, inoltre, "unire" la Basilicata al Veneto; la Calabria alla Lombardia. Come dire: ri-unire l'Italia.
(18 ottobre 2007)
da repubblica.it
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POLITICA MAPPE
La paura di nascere vecchi
ILVO DIAMANTI
L'assemblea costituente del Partito Democratico, ieri, è stata attraversata dalla voglia, diffusa e palpabile, di comunicare - a se stessa in primo luogo - il senso della discontinuità. Dall'ansia di rinnovamento. E dal timore, speculare, di finire impigliati nei fili del passato. Lo ha chiarito, da subito, Walter Veltroni, confessando che il vero problema, oggi, è "come evitare di versare il vino nuovo in otri vecchi". Per scongiurare un pericolo percepito, nel Pd: nascere vecchio.
Nel padiglione della fiera, a Rho, sede della manifestazione, i giovani delegati, peraltro, erano molti. Intervistati, ripresi, coccolati. In contrasto, però, con l'immagine lasciata dalle primarie. Caratterizzate da una partecipazione massiccia, superiore a ogni attesa. E da un profilo generazionale piuttosto maturo e, anzi, un po' vecchiotto. Come hanno visto quanti si sono fermati ai seggi; anzitutto gli scrutatori. Come ha sottolineato il sondaggio Demos-Eurisko presentato domenica scorsa su Repubblica. Il quale rileva che solo il 12% degli elettori alle primarie ha meno di 30 anni, mentre il 40% ne ha più di 64.
Ciò delinea uno squilibrio piuttosto rilevante rispetto alla società. Visto che la componente compresa fra 18 e 29 anni costituisce il 19% dell'elettorato, quella con oltre 64 anni il 22%. Dunque, anche se neonato, il Pd rivela un volto un po' attempato.
Naturalmente, questo aspetto è determinato, almeno in parte, dal "metodo" scelto per generare il Pd. Le primarie. Un rito collettivo. Ma, pur sempre, "individuale" e "istituzionale". Una "elezione", molto "impegnativa", condizionata da una scelta di valore e dal pagamento di una quota. Alla quale, però, ci si reca "da soli", oppure con i familiari. Mentre i giovani prediligono le "mobilitazioni comunitarie". Scosse da forti onde emotive. Centrate su fini e, spesso, nemici precisi. Dove si sta e/o si marcia insieme.
Le primarie, invece, rispecchiano il rito del voto come "norma". Come "abitudine democratica". Stentiamo a rinunciarvi io e mio padre, ma non emozionano i nostri figli. Tuttavia, (come ha sottolineato Giuseppe De Rita sul Corriere della Sera) la bassa partecipazione giovanile non significa, automaticamente, che i più giovani non voteranno per il Pd. (Spesso si vota senza passione: "contro" invece che "per").
Ma i sondaggi suggeriscono qualche difficoltà anche sul piano elettorale. Tra i giovani con meno di trent'anni (sondaggio Demos-Eurisko, 16-18 ottobre), infatti, il Pd è stimato circa 4 punti percentuali sotto la media generale. Fra coloro che hanno più di 64 anni, invece, è quasi 10 punti sopra la media. Dunque, il "nuovo" Pd stenta, per ora, ad attirare i giovani.
C'è, tuttavia, da osservare che il problema non riguarda solo il Pd, ma il centrosinistra nell'insieme. Infatti, negli ultimi mesi, i giovani sembrano avere smarrito la strada che conduce a sinistra. Contrariamente a quanto è avvenuto dalla fine degli anni Novanta e fino alle elezioni del 2006 (come emerge dalla ricerca di Itanes: Dov'è la vittoria?, Il Mulino, 2006). Allora i giovani si erano spostati a sinistra, soprattutto gli studenti. Per motivi che abbiamo indicato altre volte. Li possiamo riassumere nella ripresa di grandi movimenti di protesta su temi di rilevanza universale, ma con un impatto particolarmente forte sulle generazioni più giovani. La guerra e l'insicurezza globale, l'occupazione, la scuola.
Da qualche mese, però, il voto giovanile non si orienta più a sinistra, nella stessa misura degli ultimi anni. Neanche fra gli studenti. A stento, pareggia con quello di destra. La stessa Rifondazione Comunista, fra i più giovani, è poco sopra la media generale. Nell'insieme, fra gli elettori con meno di 25 anni che un anno fa avevano votato per l'Unione, meno di 6 su 10, oggi riconfermerebbero la loro scelta (Demos-Eurisko, ottobre 2007).
Un cambiamento tanto rapido e profondo richiede, comunque, due precisazioni.
a) Non sono cambiati i giovani. Come mostrano numerose indagini, anche molto recenti, essi esprimono un livello di impegno nelle attività politiche, nel volontariato, nelle iniziative sui temi del territorio e dell'ambiente; e, inoltre, un grado di partecipazione a manifestazioni collettive (di protesta e di solidarietà) assai più elevati rispetto al resto della popolazione.
b) Gli orientamenti di voto dei giovani restano, comunque, instabili. E, piuttosto che defluire a destra, prendono la strada del "non voto" e del distacco.
Dunque: i giovani non hanno imboccato il "riflusso" individualista. Non si sono spostati a destra, dopo aver votato, per un decennio, a sinistra. Ma sono sicuramente più incerti e disincantati di prima.
Su questo cambiamento di umore influiscono, a nostro avviso, soprattutto tre ragioni.
1. La critica contro la classe politica e i partiti. "Antipolitica", si direbbe oggi. Anche se è vero il contrario, visti i tassi di interesse e di partecipazione politica che esprimono. È, però, vero che l'insofferenza verso i partiti e le istituzioni ha raggiunto l'intensità più elevata proprio fra i più giovani. I quali, non a caso, dimostrano l'adesione più ampia e convinta per le iniziative promosse, sulla rete e nelle piazze, da Beppe Grillo (ancora: Demos-Eurisko, settembre 2007; ma indicazioni analoghe vengono fornite da sondaggi condotti da Ipsos e Ispo). Un'insofferenza espressa soprattutto dalla base di centrosinistra, che ha colpito, in primo luogo, il governo dell'Unione (e alcune figure, come Mastella, in particolare).
2. Il senso di incertezza, alimentato dalle politiche del governo ma soprattutto dalle polemiche nel centrosinistra. L'enfasi sulla flessibilità del lavoro e, al tempo stesso, la difficoltà di riformare le pensioni hanno comunicato l'idea di un welfare costruito senza cura per i giovani. Certi che il loro lavoro sarà incerto. Almeno quanto il futuro.
3. La distanza dal linguaggio e dai temi della vita quotidiana che anima la comunicazione politica, soprattutto del centrosinistra. Anche la campagna delle primarie, ingessata dai "vecchi" partiti. Al centro ma soprattutto in periferia. Come poteva emozionare i giovani? Se lo stesso Enrico Letta, "giovane" democratico per definizione, più che ai giovani invisibili, che si sentono "precari" più che "flessibili", sembrava rivolgersi alla platea dei "giovani" imprenditori riuniti a Capri?
Da ciò due considerazioni finali, del tutto provvisorie.
La prima riguarda i giovani. Non sono "bamboccioni". Al contrario: sono perlopiù "autonomi", anche quando risiedono con i genitori e si appoggiano alla famiglia. Costretti a vivere in un mondo incerto e instabile, sfruttano tutte le risorse disponibili. In un rapporto di reciproca utilità e dipendenza, con gli adulti.
D'altronde, sono al centro delle strategie di consumo e di marketing; ma anche delle attenzioni e delle preoccupazioni dei genitori. Che non li lasciano crescere. Ed essi accettano (o fingono) di non crescere. Se fa loro comodo. Questa condizione di "centralità" comunicativa e affettiva li rende più reattivi verso quanti li ignorano. Oppure non parlano la loro lingua. La politica li ignora. Il centrosinistra, oggi, non parla la loro lingua. La seconda - e conclusiva - considerazione riguarda il Pd. Veltroni ha ragione quando sostiene che non è possibile "tenere il vino nuovo dentro botti vecchie". Ma solo in parte. La verità è che botti troppo vecchie impediscono al vino nuovo di entrare. E corrompono il poco che entra. Per cui, la questione vera non è costruire otri nuovi. Ma eliminarli.
Fuor di metafora: costruire un partito senza militanti, senza iscritti e senza sezioni. A differenza di quanto ha sostenuto ieri Michele Salvati, riteniamo che non ce ne sia bisogno. La militanza, la partecipazione, le associazioni: in questa società iperpolitica, sono fin troppo diffuse. Il partito deve solo intercettarle. Non può essere un "otre", un recipiente chiuso. Ma un "luogo" aperto, dai confini mobili. Non un partito "personale", ma un partito "personalizzato". Affollato di persone. Che selezioni "persone" capaci di governare. Persone. Che non abbiano il futuro dietro alle spalle. Solo così potrà parlare ai giovani ed essere ascoltato. Solo così potrà liberarsi del passato.
(28 ottobre 2007)
da repubblica.it
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Il Paese sperduto nell'Assoluto relativo
di ILVO DIAMANTI
GLI italiani marciano, con passo sicuro, verso la secessione. Però non mirano a dividere il Paese, il Nord dal Sud, come volevano (e ancora vorrebbero) i leghisti. Gli italiani, invece, sembrano pronti a realizzare la secessione da se stessi. Inseguendo, con pari intensità e determinazione, obiettivi opposti.
Senza provare disagio, senza sentirsi dissociati. In particolare, appaiono impauriti dalle minacce alla sicurezza della comunità. E al tempo stesso indulgenti, verso chi li commette. Soprattutto quando il responsabile "appartiene" alla comunità stessa. Quando è "uno di noi".
Gli italiani. Temono gli stranieri. Considerano gli immigrati un pericolo per l'ordine pubblico (quasi il 50%, sondaggio Demos per UniPolis). Guardano con sospetto i romeni, i rom, gli slavi, i maghrebini e i cinesi. Ne valutano in modo severo le componenti e i comportamenti devianti. Invocano per essi "tolleranza zero". Espulsioni immediate, anche dentro i confini dell'Unione Europea. Eppure "tollerano", ben al di là dello zero, gli "ultrà". Da molto tempo. Vi si sono assuefatti. Trovano inaccettabili (giustamente) gli episodi di violenza e di illegalità quotidiana commessi dagli immigrati. Ma sono indulgenti verso gli squadristi che, ogni domenica, saccheggiano gli autogrill, danneggiano i vagoni dei treni su cui viaggiano (senza biglietto), lasciano macerie al loro passaggio nelle città in cui si recano. E poi si fronteggiano, negli stadi ma soprattutto fuori; esibendo cartelli su cui campeggiano slogan infami; che fanno provare vergogna solo a leggerli.
Gli ultrà. Che, domenica scorsa, hanno interrotto partite (com'era già avvenuto a Roma, tre anni fa), assalito posti di polizia, aggredito giornalisti, ridotto in stato di assedio interi quartieri della capitale. Verso di loro la maggioranza degli italiani chiede comprensione. E indulgenza. Come mostra un sondaggio condotto da Demos, nei giorni scorsi, su un campione rappresentativo della popolazione. Di fronte alle proteste e alle violenze dei tifosi, avvenute dopo la morte di Gabriele Sandri, il 38% degli italiani afferma che "sono sbagliate e vanno fermate con l'uso della forza". Una frazione minima, prossima al 2%, le considera "giuste". Mentre una larga maggioranza (56%) pensa che le violenze, per quanto "sbagliate", vadano comunque "comprese".
Qui non interessa sollevare altra indignazione, verso comportamenti che, evidentemente, non indignano. Neppure esprimere indignazione verso la mancanza di indignazione verso atti che invece la meritano. È nota, d'altronde, la crescente difficoltà di indignarsi, che attraversa la nostra società. La continua ascesa della soglia di tolleranza. Quando il "colpevole" è uno di noi. Vogliamo sottolineare, invece, l'incoerenza, di questo atteggiamento. La "morale ambigua" che anima i sentimenti degli italiani verso gli "altri", ma anche verso se stessi.
Nonostante le polemiche seguite ai tragici fatti di domenica scorsa, la polizia risulta l'istituzione di gran lunga più stimata dagli italiani. Nei loro confronti esprime, infatti, fiducia il 73% degli intervistati. Più di quanta ne riceva ogni altro riferimento associativo e istituzionale. Compresi i più "considerati". Dal Presidente della Repubblica, alla Chiesa, al volontariato. La polizia, "nonostante" le polemiche e le critiche cui è stata sottoposta negli ultimi tempi, continua a godere di grande credito sociale. Perché rispecchia la "domanda di sicurezza" dei cittadini. Ne riflette le paure e le inquietudini. Da ciò il paradosso, l'ossimoro. Impauriti e indulgenti verso i violenti. Dalla parte dei poliziotti ma comprensivi con gli ultrà che li attaccano. Inflessibili contro le illegalità, ma disponibili a "dialogare" con coloro che le commettono. Dentro e fuori gli stadi.
Questa "dissociazione" appare particolarmente acuta tra i più giovani. Il 75% di coloro che hanno meno di 25 anni, infatti, esprime condanna e, al contempo, comprensione verso le violenze degli ultrà. Il 5% le condivide. Ma oltre la metà dei giovani (il 54%, per la precisione) dichiara grande fiducia nelle forze dell'ordine.
Nei sentimenti umani, tuttavia, l'incoerenza, più che un'eccezione, è una regola. Provare, al tempo stesso, paura e attrazione, desiderio e repulsione, odio e amore, disprezzo e ammirazione: non è raro. Il problema sorge quando queste antinomie vengono "ammesse" ed espresse in modo così aperto. Quando l'incoerenza viene riconosciuta e accettata senza disagio. Quando, anzi, appare quasi "normale".
L'incoerenza come diritto. Regola. Adottata in molte altre occasioni. Che ci "legittima" a considerare l'allungamento dell'età pensionabile una necessità ineludibile. Salvo schierarsi, senza se e senza ma, contro ogni riforma che vada in questa direzione.
Che ci spinge ad approvare ogni legge che liberalizzi le professioni, riduca le barriere al mercato dei servizi e del lavoro. Salvo, poi, opporsi, quando tocca la "nostra" professione, la "nostra" lobby, il "nostro" gruppo di interesse. In pratica: sempre, comunque e dovunque. Visto che quasi tutti gli italiani hanno in famiglia qualcuno che appartiene a un ordine, una professione, una corporazione, un club.
Allo stesso modo, quasi tutti fra noi hanno in famiglia un "tifoso". Magari non "ultrà". Ma, comunque, contagiato da sentimenti ultrà, contro amici, familiari, conoscenti e non. Tifosi di altre squadre. Nella vita quotidiana. Perché siamo un popolo di tifosi. Sempre pronti a issare la nostra bandiera. A cantare il nostro inno. Per rivendicare il nostro "frammento" di identità e di interesse.
Noi italiani. Un popolo di tassisti, farmacisti, notai, commercialisti, autotrasportatori, avvocati, veneti, romani, siciliani, interisti, bianconeri, milanisti, laziali, romanisti. Disposti a mettere da parte le nostre divisioni faziose quando di fronte c'è il "nemico Pubblico". Lo Stato. A cui chiediamo, tuttavia, di difenderci. Da noi stessi. Dalle nostre reciproche minacce.
Noi italiani. Invochiamo l'ordine e pratichiamo l'anomia. Rivendichiamo sicurezza ma siamo comprensivi con chi la minaccia. Siamo inflessibili con gli "altri" e con gli "stranieri", ma indulgenti con noi stessi. Abbiamo pochi valori e poche regole comuni. In rapido degrado. Ogni casta, ogni tribù, ogni clan, ogni contrada, ogni famiglia usa la propria bussola etica. Di cui modifica i punti cardinali, in modo disinvolto. A seconda del momento e della necessità. Siamo il Paese dell'Assoluto Relativo. Dalla parte dei poliziotti ma non contro gli ultrà. Inflessibili e indulgenti al tempo stesso. Vogliamo la tolleranza zero. Virgola cinque.
Per questo, a volte, anzi: sempre più spesso, ci capita di provare malessere. Difficile non sentirsi confusi - e un po' infelici - se i confini del paesaggio etico si perdono.
(18 novembre 2007)
da repubblica.it
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