ILVO DIAMANTI -
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In quel teatrino si decide il voto
di ILVO DIAMANTI
DA QUANDO Silvio Berlusconi ha annunciato la sua "discesa in campo", quattordici anni fa, la televisione è divenuta una "arena politica". Anzi: la principale.
Luogo di confronto e soprattutto di scontro. Surrogato della partecipazione. Specchio di una società in cui le ideologie sono scivolate via, trasparenti come l'acqua. Quattordici anni, ma sembra essere cambiato poco. Come confermano le polemiche sollevate dalle intercettazioni pubblicate su Repubblica nei giorni scorsi. Hanno rivelato l'esistenza di un fitto dialogo fra dirigenti e giornalisti Rai e Mediaset, negli anni del governo Berlusconi. Allo scopo, esplicito, di proporre una "visione" uniforme della politica. E della realtà.
Anche i dati dell'Osservatorio di Demos-coop, dedicato al rapporto fra cittadini, media e politica, confermano l'importanza della televisione. Certo, negli ultimi anni, altri "canali" hanno assunto una importanza crescente, come fonti di informazione. Le reti satellitari e internet. A cui si rivolge, con regolarità, una quota molto ampia di persone (fra 30% e 40%). Tuttavia, il rilievo dei media "tradizionali" resta dominante. Visto che il 61% degli italiani, per informarsi, ascolta regolarmente la radio, il 63% legge i giornali e addirittura il 94% si rivolge alla televisione. La totalità, quindi.
C'è poi un aspetto ulteriore che rende centrale "l'arena televisiva". La composizione del suo "pubblico". Perché i lettori abituali dei giornali, ma soprattutto gli utenti delle reti satellitari e di Internet, sono più competenti e istruiti rispetto alla media. Mentre la televisione raggiunge tutti. Compresi i settori più disincantati. Gli elettori apatici, mobili, incerti. Quelli che decidono se e per chi votare solo alla fine. Le ultime settimane, gli ultimi giorni prima del voto. Talora: il giorno stesso. E' per questo che la tivù è "ancora" così importante, politicamente. Non solamente in periodo elettorale. Sempre. Perché, ormai, viviamo in tempi di campagna elettorale permanente.
I governi e i leader politici sono sottoposti a valutazione continua. I sondaggi incombono. E valgono quasi quanto le elezioni. Anche perché, dall'aprile del 2006, il voto è sempre lì, alla porta. Il centrosinistra, diviso. Fragile, al Senato. Berlusconi, a cercare la "spallata", per far cadere il governo e andare a nuove elezioni. Così, la tivù ha non solo mantenuto, ma perfino accentuato il suo ruolo. Resta, infatti, di gran lunga, il mezzo di informazione più utilizzato. E se gran parte dei cittadini "diffida" della televisione, tuttavia, "si fida" dei programmi e dei notiziari televisivi.
Il 72% degli italiani ha fiducia nei TGR, il 69% nel Tg1; quindi, in ordine, vengono Tg3, Tg2 e Tg5: tutti intorno al 60%. Gli altri Tg ottengono un gradimento più limitato per effetto - talora determinante - del minor grado di "copertura" delle reti da cui vengono trasmessi. Come La7 e i canali satellitari. Grande consenso, infine, è attribuito ai programmi che incrociano informazione, denuncia e satira (anti) politica. I contro-Tg, come "Striscia la notizia" e "Le Iene".
Gli italiani, quindi, diffidano della televisione, ma hanno fiducia dei Tg (e nei "contro-Tg"). Anche perché vengono usati, anch'essi, come riferimenti politici. Etichette, marchi, in base a cui confermare e rafforzare la propria posizione, i propri orientamenti. D'altronde, l'identificazione con Berlusconi fa di Mediaset una sorta di "bandiera" dell'appartenenza a Fi e, per estensione, al centrodestra. Destra e sinistra, più che la distinzione fra mercato e Stato, richiamano, da tempo, in Italia, l'alternativa fra Mediaset e tivù di Stato.
Nonostante le "relazioni pericolose" fra giornalisti e dirigenti dei due gruppi, rivelate dalle intercettazioni pubblicate da Repubblica. Per cui, come mostra l'indagine Demos-coop, tutti i Tg di Mediaset raccolgono maggior fiducia fra gli elettori di centrodestra. Più di tutti il Tg5. Perché il più autorevole del gruppo. Tutti gli altri notiziari, non solo quelli della Rai, riscuotono, invece, maggior credito fra gli elettori di centrosinistra. Anzitutto il Tg3, effettivamente guidato, per tradizione, da un direttore di sinistra.
Ma lo stesso Tg1, per definizione il più istituzionale, gode di maggiori consensi a centrosinistra. Non solo oggi, che ne è direttore Gianni Riotta. Avveniva anche quando a dirigerlo era Clemente Mimun. Di certo non ostile al precedente governo di centrodestra. Perfino il Tg2, la cui direzione, nella seconda Repubblica, spetta alla destra, viene considerato di "centro", dagli italiani. E, dunque, a sinistra dei notiziari Mediaset.
Lo stesso avviene per i programmi di approfondimento e dibattito. In modo più esplicito. Da Porta a Porta a Ballarò; da Otto e mezzo ad Anno Zero; da Report all'Infedele. Ogni trasmissione è "frequentata", dagli italiani, in base alle proprie preferenze politiche. Salotti animati da padroni di casa "amici". Che conducono la serata in modo da renderla interessante. Stimolano discussione. Suscitano la curiosità degli spettatori. E, talora, li coinvolgono, in modo complice.
A volte predicatori, altre ancora "vendicatori", perfino "giustizieri". Così le trasmissioni di Gad Lerner, Michele Santoro, Giovanni Floris, Milena Gabanelli sono seguite con fiducia soprattutto dagli elettori di sinistra. Mentre a destra apprezzano Enrico Mentana e soprattutto Bruno Vespa. Se Rai1 piace maggiormente agli elettori di (centro) sinistra, Vespa riscuote la stima soprattutto degli elettori di (centro) destra. Più di quanto avvenisse qualche anno fa. Per contro, "Otto e mezzo" viene posizionata, dagli italiani, intorno al "centro". Malgrado il conduttore, Giuliano Ferrara, sia apertamente simpatetico con il Cavaliere. Un po' perché bilanciato da Ritanna Armeni. Un po' perché sta su "La7", rete esterna al bipolarismo mediatico. Soprattutto perché è autocentrico, ma altrettanto "autonomo". Per quel che può valere il mio giudizio: "il meglio" sul mercato.
C'è, dunque, un "mondo mediatico", largamente riassunto dalla televisione, che "rappresenta" la politica e le sue divisioni. Se gran parte degli italiani (il 61%) ritiene che la tivù faccia male alla politica e i politici facciano male a rincorrerla, in effetti avviene esattamente il contrario. Perché i "politici" - grandi, medi, piccoli e piccolissimi - concorrono ad avverare la "superstizione" che vede nella televisione la scena principale, se non l'unica, della "politica come spettacolo". E dello "spettacolo della politica". Per cui cercano, in ogni modo, di divenirne attori. Protagonisti, se possibile; ma anche comprimari o, almeno, comparse. E ciò allarga il solco fra la politica - imprigionata nella "realtà mediale" - e la società - che, invece, vive nella "realtà reale".
Naturalmente, se la politica è racchiusa dentro i media; se il bipolarismo politico e quello mediatico coincidono, allora la questione del conflitto di interessi diviene topica. E la posizione dominante di Berlusconi critica. Come pensa gran parte degli italiani. Ma soprattutto quelli a cui non piacciono né il Cavaliere né le sue reti. Il consumo televisivo, invece, abbassa la sensibilità al conflitto di interessi. A coloro che trascorrono più di 4 ore al giorno davanti alla tivù, la proprietà della televisione, il controllo sull'informazione e sui palinsesti risultano meno preoccupanti. Perché la televisione tende a diventare, per loro, la normalità. La verità. Il paesaggio nel quale ci si muove.
Pensare di modificarlo, intervenendo sulle origini, diviene una questione teologica, più che politica. Perché la "superstizione mediatica" coincide con la realtà. Anche se (in parte) è una "finzione". In cui tutti fingono di riconoscersi. Voi (noi) davanti allo schermo. Non più cittadini, ma spettatori. Pronti a tifare. Ora coinvolti, ora incazzati. Galvanizzati dal giornalista preferito. Informati dal Tg "di riferimento". Sorridete: siete su "Scherzi a parte".
(26 novembre 2007)
da repubblica.it
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Ilvo Diamanti
Partiti e partenti
Le cronache politiche di questi ultimi giorni rafforzano il nostro sconcerto. La nostra inquietudine. Il paesaggio politico ci pare affollato eppure un po' spoglio. Assembrato, ma con alcuni vuoti evidenti. Ricostruiamo.
Il dibattito e il voto sul welfare, alla Camera, ha riproposto una varietà di posizioni, tra i "partiti" della medesima coalizione. Rifondazione ha votato a malincuore. I comunisti italiani anche. La sinistra pure. I "diniani" (ma chi sono? Quanti? Che programma hanno? Come si chiamano? Forse, anch'essi PD) hanno preso atto, con soddisfazione, della sconfitta della sinistra radicale e hanno confermato.
Manterranno le "mani libere". Come loro, lo SDI (entrati in Parlamento insieme ai radicali. Ma nel pugno ora sono rimasti solo petali appassiti).
Mastella, stavolta, non ha aperto vertenze. Ma si sa che è "moderato". Per cui, fa proprie le riserva dei diniani, dei socialisti italiani. E le critiche dell'Udc. Tutti, nella maggioranza, si sono dati appuntamento a gennaio. Per una "verifica". A cui parteciperà, immaginiamo, un numero imprecisato di interlocutori. Che corrispondono ai "partiti" presenti nei rami del Parlamento. Compreso il Senato. Dove sono determinanti anche i voti dei "comunisti dissidenti", di De Gregorio, dell'Svp, oltre che dei diniani. E, ovviamente, dei senatori a vita (i quali potrebbero, a loro volta, fondare un "partito", che risulterebbe potentissimo, nonché autorevole e "maturo"). Se si incontreranno tutti, i rappresentanti dei partiti del centrosinistra, insieme ai 105 membri del governo, Prodi dovrà prenotare una sala convegni capiente, con un impianto acustico efficiente.
D'altra parte, il centrodestra non è che in questa fase abbia dato una immagine così compatta e "organizzata". Anche nell'opposizione: tutti con le mani libere. Tutti a recitare, in ordine sparso, le stesse cose. In modo un poco monotono, per la verità. Berlusconi. E' da un anno e mezzo che promette la caduta del governo illegittimo. Echeggiato da tutti i leader del centrodestra, che, nelle dichiarazioni di voto alla Camera, hanno sottolineato, marcato, ribadito: "il governo è al capolinea, la maggioranza non c'è più". Patetico. Perché magari è anche vero... Però l'abbiamo sentito dire, una settimana sì e l'altra pure, da quando Prodi ha ricevuto l'incarico. Se dovesse cadere davvero, a questo punto, non ci crederebbe nessuno. Come al lupo di Pierino. E poi, oggi, la stessa cosa vale per l'opposizione. Per il centrodestra. La Casa delle Libertà non c'è più. L'ha dichiarato, tempo fa, Casini, qualche settimana fa, Fini. La settimana scorsa, Berlusconi. Dove prima c'era la Casa delle Libertà oggi tutti hanno le mani libere. Berlusconi: ha deciso di andare "oltre" Forza Italia. L'ha deciso da solo, come da solo ha fatto e guidato il partito (e, in verità, anche la CdL). Il partito che verrà: si chiamerà Partito della Libertà. O forse del Popolo. Deciderà la gente. Mediante un referendum, le primarie. O, meglio, un sondaggio. Però andare "oltre" FI, non significa scioglierla. Resterà FI e confluirà nel PdL o nel PdP, insieme ad altri che lo vorranno. I circoli della Brambilla, gli amici di Giovanardi. Tutti gli elettori di buona volontà. Mentre Casini e Fini, a loro volta, pensano come "reagire". Come evolvere. Che fare, fuori dalla Casa delle Libertà, con le mani libere.
Ciascuno di loro pensa di "ri-formare" il partito. Lo storico Alessandro Campi, sul Foglio, ha suggerito di sciogliere An. Mentre si parla (lo ha fatto apertamente anche Bruno Tabacci) di una nuova formazione politica, che riunisca An e Udc, nella casa del Partito Popolare Europeo. Ma da tempo, sappiamo, si parla del progetto di aggregare vari soggetti politici che navigano "al centro del mondo politico". Cioè: Udc, Udeur, PDiniano, Di Pietro. Insieme ad altre figure autorevoli. Fra tutte: Montezemolo e Pezzotta. Così al centro diverrebbe, temiamo, una sorta di "terra di mezzo". Dove lo scontro per la leadership potrebbe determinare guerre "personali" e di gruppo laceranti.
Infine, il PD. Con il leader, Walter Veltroni, impegnato a trattare, trattare, trattare. Con gli alleati (si fa per dire) e con i leader dell'opposizione. Fini, Casini, Berlusconi. Maroni. Intorno a una legge elettorale, i cui contorni e contenuti, ormai, sono così fantasiosi da apparire onirici. Il sistema tedesco, spagnolo, francese, il modello comunale con l'elezione diretta dei sindaci; il mattarellum rivalutato e il porcellum corretto.
Veltroni discute e tratta con pazienza, Perché il dialogo, in sé, è un valore in questo Paese spezzato e sbriciolato. Però, oggi, tutti parlano linguaggi un po' incoerenti. E avanza il progetto di un proporzionale con effetti maggioritari e bipolari. Nel frattempo cerca di costruire il PD. Di decidere cosa sarà. Come sarà. Gli organismi, i sistemi di decisione, di reclutamento, di consultazione. Con o senza iscritti? Federale o centrale? Giovane oppure adulto? Femminile oppure no?
Queste alcuni fotogrammi, alcune parole, alcune tracce, che noi abbiamo tratto, raccolto, assemblato, da osservatori interessati e partecipi del paesaggio politico. Affastellati. Alla rinfusa. D'altronde non possiamo che confessare la nostra confusione. Il nostro spaesamento. La difficoltà di tracciare mappe e di impostare bussole. Ci sentiamo scombussolati. Di una cosa, però, siamo certi. Occorrerà tenerne conto.
I partiti oggi sono un participio passato. Partiti. Senza che, per ora, siano arrivati i loro sostituti. C'è molta gente in marcia. Non si capisce bene verso dove. Chiamiamoli partenti.
(29 novembre 2007)
da repubblica.it
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L'infinita periferia dell'Italia
di ILVO DIAMANTI
UNA VAMPATA di violenza, per alcuni giorni, ha investito la banlieue parigina. In modo più delimitato, rispetto a due anni fa, quando si era rapidamente propagata intorno a Parigi e in altre città francesi. Per molte settimane. Questa volta, invece, si è concentrata a Villiers-le-Bel. A Nord della capitale.
Contagiando solo la vicina Saint-Denis, teatro di battaglia nel 2005. Inoltre, gli incidenti sembrano essere finiti abbastanza in fretta. Tuttavia, due notti di violenze hanno provocato, tra le forze di polizia, oltre 120 feriti, alcuni gravi. Ovvero: più o meno quanti in tre settimane di scontri due anni fa. Secondo il governo francese, si tratta di delinquenza giovanile organizzata, che ha "sfruttato" un episodio tragico (la morte di due ragazzi in moto, in seguito allo scontro con un'auto della polizia) per scatenare la guerriglia. Insomma: racaille. Teppaglia, feccia... La definizione usata da Sarkozy, all'epoca degli scontri di due anni fa. Quand'era ministro degli Interni. Tuttavia, se si trattasse "solo" di delinquenza comune, un sistema di polizia efficiente, come quello francese, un Presidente determinato, come Sarkozy, avrebbero contrastato il ripetersi di esplosioni violente, in tempi tanto ravvicinati, negli stessi luoghi. A Villiers-le-Ville, Saint Denis e nella banlieue parigina. Dove comportamenti violenti si ripetono con disarmante e straordinaria regolarità. Se ciò non è avvenuto, probabilmente, è perché questa violenza non nasce nel vuoto. Rischiando la banalizzazione sociologica di alcune letture sociologiche (o sedicenti tali) degli anni Settanta: questa violenza è "anche" figlia del contesto in cui esplode. Banlieues degradate, ad alta concentrazione etnica. Strade e piazze difficili da attraversare, per chi non vive nella zona. (E anche per chi ci vive). Tassi di disoccupazione giovanile elevati. Relazioni intergenerazionali difficili. Genitori che non riescono più a esercitare l'antica autorità sui figli. Un'architettura che denuncia "estraneità". Dello Stato, delle istituzioni. Questi quartieri, queste città periferiche "producono" tipi sociali violenti e marginali. Un Paese, come la Francia, ostile alla sola idea di "comunitarismo", intesa come modello di integrazione fondato sulla comune appartenenza religiosa, nazionale, etnica, oggi affronta una situazione peggiore. Alla periferia delle città e nelle città periferiche, emerge, infatti, un "comunitarismo" senza "comunità". Favorito da "aggregati etnici" (non previsti) che hanno perduto i legami (e le capacità di controllo) di una comunità.
Se pensiamo a noi, è forte la tentazione di chiamarsi fuori. Non siamo la Francia. L'Italia è una terra di città piccole e medie. Con rare eccezioni. Un "Paese di compaesani", come l'ha definito il sociologo Paolo Segatti. Che ancora non si è rassegnato al flusso, massiccio, degli "stranieri". E vorrebbe lasciarli fuori. Alle porte della città. Come a Cittadella e in altri comuni veneti, dove, per scoraggiare il flusso dei poveracci, i sindaci hanno emesso un'ordinanza che vincola la concessione agli stranieri della residenza ad alcuni requisiti. Fra cui un reddito minimo intorno ai 500 euro mensili. (Se applicato ai residenti, produrrebbe l'espulsione di numerosi pensionati).
L'Italia non è la Francia. Ma si sta avviando lungo un cammino altrettanto rischioso. Perché si sta trasformando, in modo inconsapevole, in una periferia infinita. Che produce sradicamento, indebolisce il controllo sociale, non contrasta la diffusione di comportamenti violenti.
Nelle nostre metropoli, d'altronde, emergono, da tempo, lacerazioni visibili. A Milano. La "rivolta" del quartiere cinese. Il moltiplicarsi di episodi di ordinaria violenza, nelle periferie, che hanno indotto la sindaca Moratti a promuovere una marcia popolare, per rivendicare maggiore attenzione dal governo. (Come se, durante gli anni precedenti, quando essa stessa sedeva al governo, il problema non esistesse).
A Roma. Dove alcuni eventi drammatici (ultimo: la tragica aggressione di una donna, a opera di un rom) hanno fatto esplodere il malessere delle zone suburbane. Ulteriormente degradate a causa del flusso costante di nuovi immigrati dall'est europeo. Ammassati in baracche provvisorie.
A Napoli. Dove la lunga scia di violenza è, riduttivamente, ricondotta alla "camorra". Mentre riassume i percorsi di "normale devianza", che attraversano alcuni quartieri marginali. Come Scampia: raccontata, con rara efficacia, da Roberto Saviano insieme ad altri autori, in un libro antecedente al fortunatissimo "Gomorra" ("Napoli comincia a Scampia", L'Ancora del Mediterraneo, 2005).
Ma segnali di decomposizione si avvertono anche - soprattutto - nell'Italia minore. Nella provincia "dove si vive bene". Non è un caso che la "crescita della criminalità" sia avvertita soprattutto nelle regioni del Centro (62%; media nazionale 51%: indagine Demos per UniPolis, novembre 2007) e nei comuni medio-piccoli (56%). Indipendentemente dall'effettivo andamento del fenomeno (che le statistiche considerano in calo). Il fatto è che molti, troppi borghi, molte, troppe piccole città si stanno svuotando. Ridotte a grandi supermarket. Parchi giochi. Musei. Oppure, come abbiamo osservato qualche settimana fa, in "cittadelle universitarie". Abitate da - anzi, affittate a - studenti. Mentre gli abitanti si sono trasferiti all'esterno. Creando periferie ricche. Ma pur sempre periferie. Aggregati senza centro. Con scarse relazioni. Cariche di edifici affollati. Oppure costellate da villette pregevoli e cascinali ristrutturati. Una umanità che perde l'abitudine alle relazioni; e il "controllo" sul territorio. Il Nord "padano" e "pedemontano", da parte sua, questa strada l'ha già intrapresa da tempo. E' divenuto una metropoli inconsapevole. Che incorpora una miriade di piccoli comuni. Perduti in un viluppo di strade, punteggiato di rotonde impossibili da attraversare a piedi; mentre chi passa in bici corre un rischio mortale. Anche perché, in Italia, il tasso di automobili è il più alto d'Europa: quasi 6 ogni 10 abitanti. La provincia tranquilla e quieta del Nord. Una galassia puntiforme. Una specie di Los Angeles involontaria. Dove maturano piccoli omicidi, inattesi e feroci. Dove la "comunità" ha perso ogni controllo sulla società e sulle persone. Perché si è decomposta. Né possono surrogarla pallide caricature, come le "ronde" padane. Riescono solamente ad accrescerne la nostalgia.
Difficile riconoscere il paesaggio intorno a noi. E' cambiato troppo in troppo poco tempo. Edificato, impersonale e desocializzato. Dove, per rispondere al malessere che si respira, le persone si chiudono dentro casa. E gli amministratori erigono nuove mura, visibili e invisibili, intorno alle città. Ma anche dentro alle città.
Incapaci di "riconoscere" i problemi, ma anche i propri meriti. Preferendo negarli, per opportunismo. Pensiamo, ad esempio, alle città del Nordest. Le aree che, come dimostrano le statistiche della Caritas e del Cnel, garantiscono livelli di integrazione degli immigrati fra i più elevati in Italia. Ebbene, preferiscono negarlo. Si presentano per quel che "non" sono: inospitali. E rifiutano, anzitutto, di proporsi come un "buon modello" di accoglienza. Fondato sul lavoro, sull'offerta di servizi, espressa dalle associazioni del mondo economico e dal volontariato.
Meglio immaginare il Nord Est come il Far West degli sceriffi. Pronti a spingere la racaille fuori dalle mura della "cittadella" assediata.
E vero, non siamo la Francia, dove le banlieues critiche si concentrano intorno ad alcune metropoli. Nell'Italia del nostro tempo, invece, la periferia dilaga ovunque. Come una metastasi. Alimentata da logiche immobiliari e immobiliariste; da mille paure. Che la politica si limita a inseguire e ad assecondare. La nostra banlieue infinita non ha un aspetto cupo. Piuttosto: "grigio". Un reticolo di quartieri residenziali. Cresciuti, in modo disordinato, intorno a un "centro storico", bello e inabitato. La nostra periferia infinita. Non trasmette identità. Non promuove relazioni. Non comunica regole. Non plasma uno spirito "estetico", tanto meno "etico". Al più: un individuo "mimetico". E insicuro.
(2 dicembre 2007)
da repubblica.it
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Seconda Repubblica, il lungo tramonto
di ILVO DIAMANTI
Suona un poco strano il ritorno di parole da tempo in disuso. Per esempio: "proporzionale". Echeggia un passato che sembrava davvero passato. Un lemma estratto dal dizionario della "prima Repubblica".
Mentre la transizione verso la "seconda" è fondata sul binomio: maggioritario e bipolarismo. Invece, da qualche tempo, il proporzionale è ritornato alla grande. Sdoganato, negli incontri fra Veltroni e i leader di centrodestra. Soprattutto con Berlusconi. Associato al "modello tedesco" (evocato, fino a ieri, solo nel dibattito sul federalismo). Se ne parla ad alta voce apertamente. A destra e a sinistra. Leader nostalgici (come Tabacci) oppure critici (come Parisi) evocano, con toni opposti, il ritorno al passato. Alla "prima Repubblica".
Sbagliano.
È la fine della "transizione". Oppure, se si preferisce, il "tramonto della seconda Repubblica". Ci si volge indietro per incapacità di andare e, ancor prima, di guardare avanti. Un po' per paura e soprattutto per debolezza. "Rompere" con il passato, dichiarare chiusa un'esperienza, non è facile. Tanto più perché, ora, non ci sono scialuppe e si teme il naufragio. Non è un caso che questo governo continui a marciare sull'orlo dell'abisso. Non precipita solo perché non si trova chi abbia il coraggio di dargli la spinta decisiva. Nella maggioranza, ma anche nell'opposizione. E quando il danno pare irreparabile, interviene il "fato".
Interpretato, giovedì scorso, al Senato, da Francesco Cossiga. Anch'egli rammenta l'improvvisa attualità del passato. Il governo è, quindi, privo di fiducia, ma anche di sfiducia. Solo per questo resiste. La "seconda Repubblica" maggioritaria e bipolare è finita. Nei due poli sono venuti meno i baricentri. Anzitutto, i leader: perché è stata fondata da Berlusconi e consolidata da Prodi. Che hanno trasformato, progressivamente, il bipolarismo in "bipersonalismo".
Berlusconi: ha costruito un partito personale, mediatico, fondato sulla comunicazione, il marketing. Ha "reclutato" gli esclusi della prima Repubblica: post-fascisti, indipendentisti e neodemocristiani. In nome del "nuovo" e dell'anticomunismo. Uniti, per forza e per necessità, da lui. Il Cavaliere. Unico riferimento in grado di "legittimarli", dopo averli sdoganati. L'unica "colla" capace di tenere insieme pezzi così sgranati. Prodi: la reazione degli "altri" all'affermazione di Berlusconi. L'unico ad aver reso possibile la coabitazione (sempre complessa) fra partiti e soggetti politici distanti: per cultura, identità, tradizione. Post e neo-comunisti, ex e neo-democristiani, socialisti, laici, ecologisti, ultra-garantisti e giustizialisti. Non un "padrone di casa", come Berlusconi. Ma un "mediatore". A volte, "amministratore di condominio", altre volte "manager decisionista". Deve la sua forza alla debolezza dei partiti di centrosinistra. Nessuno dei quali in grado di esprimere una leadership condivisa. "Costretti" a stare insieme dalla sfida di Berlusconi.
Un bipolarismo nato e cresciuto attorno a due persone e a due modelli complementari. Da un lato un "partito personale" e dall'altro il progetto di un "partito americano". Nuovo. Capace di rimpiazzare i precedenti. Forza Italia e l'Ulivo (divenuto poi Pd).
Oggi questo percorso è finito, ma stenta a trovare sbocchi.
La "fondazione" del Pd ha sbloccato l'intero sistema dei partiti, sottolineandone (e accentuandone) i limiti. Prodi, l'ispiratore del "nuovo soggetto politico", oggi non ne è più il leader. È, invece, il premier di un governo, sostenuto da una maggioranza eterogenea e frammentata, che esprime valori e interessi diversi e, quasi, inconciliabili. Anche perché vi partecipano, in posizione determinante, liste locali, personali e individuali. Sorte, talora, in Parlamento, meglio: in Senato. Prodi: è il leader dell'Unione. Ma l'Unione, oggi, è un ossimoro. Visto che lo stesso Pd ha determinato, nel centrosinistra, spinte aggregative (la "Cosa rossa") e "disgreganti". Nel complesso: conflittualità e concorrenza.
Nel centrodestra, Berlusconi non è più il "padrone di casa". Perché si è aperta, fragorosa, la "guerra di successione" (come l'ha felicemente definita Adriano Sofri). Fini e Casini, dopo 13 anni di apprendistato e di attesa, hanno scelto di "non morire berlusconiani". Spezzando l'immagine di "giovani promesse", a cui sembravano rassegnati. D'altronde, la giovinezza è passata da un pezzo, anche per loro. Mentre l'ascesa di Walter Veltroni, sull'altro versante, (fino a ieri, anch'egli una giovane promessa) rischia di farli invecchiare definitivamente. Non torneranno indietro.
La Lega, infine, teme a sua volta di ridursi a una piccola corrente autonomista, sperduta in mezzo al Popolo della Libertà. Berlusconi, d'altronde, ha già smontato la vecchia Casa. Perché, appunto, "vecchia". Abitata da inquilini riottosi. Così, senza pensarci su troppo, si è avviato a ri-fondare il partito, convinto di occupare, da solo, lo spazio elettorale degli (ex) alleati. Un partito ancor più "personale".
Tendenzialmente "dinastico". La leadership: ereditaria.
Il gruppo dirigente: figure "cooptate" da lui e selezionate dai suoi consulenti di marketing. Per trasmettere l'idea del nuovo.
La "seconda Repubblica", quindi, è finita. Insieme ai poli, di cui i due leader costituivano i baricentri. Il problema è che nessuno pare in grado di superarne il tramonto. Ci vorrebbero istituzioni nuove, norme condivise. Tanto più se si insiste a battere la strada del maggioritario, che più delle altre esige un ampio consenso di fondo tra i principali attori politici (come ha annotato Leonardo Morlino). Ma non è facile abbattere insieme a Berlusconi una Repubblica inventata da Berlusconi, fondata sul berlusconismo e sull'anti-berlusconismo.
Per cui si torna a guardare indietro. E, come in passato, il dibattito pubblico si concentra sulle riforme istituzionali. Anzi: su quella elettorale. Che ha segnato la fine della "prima Repubblica" e la transizione. Dal 1991 fino ad oggi. Ricorrendo, di volta in volta, al referendum. Nel nome del "popolo sovrano", che supplisce all'incapacità della classe politica e alla crisi del sistema. Il referendum. Come "rito di massa" per "abbattere" la prima Repubblica (nel 1991 e nel 1993). Oppure, quest'anno, come rivolta popolare contro la "casta" dei partiti.
Il tema della riforma elettorale, all'origine della rappresentanza politica, paradossalmente, ha alimentato l'antipolitica. E ne è stato, a sua volta, contagiato. Come pensare, altrimenti, che i cittadini si possano appassionare a un dibattito che verte, in modo ossessivo ed esclusivo, sull'alternativa fra modello tedesco, francese e spagnolo? Fra "mattarellum", "porcellum" e "vassallum"?
Un sondaggio condotto nei giorni scorsi da Demos per "la Repubblica" (campione nazionale rappresentativo, 1.300 casi) sottolinea che circa un elettore su due, fra quelli che guardano con favore il proporzionale, valuta in modo altrettanto positivo il maggioritario. In altri termini: "confondono" il significato dei sistemi elettorali. Una materia da specialisti: non si può chiedere loro di essere competenti come Giovanni Sartori. Per cui la affrontano con un misto di rifiuto e distacco.
Da ciò il rischio, che corre la nostra democrazia in questa fase. Gli artefici della "transizione", del maggioritario bipersonale non sono in grado di chiuderla. Prodi, come ha ammesso, "non può fare miracoli". Berlusconi invece sì. Ma non ha ancora deciso quali. I (non troppo) nuovi protagonisti (Veltroni, Fini e Casini) faticano a liberarsi dei vecchi. Ad aprire una nuova stagione.
Per cui non deve sorprendere che oggi gli italiani esprimano un atteggiamento positivo per Beppe Grillo (57%), in misura molto superiore che per Prodi (29%) e Berlusconi (39%). Ma anche Veltroni (49%) e Fini (50% - sondaggio Demos per "la Repubblica", di prossima pubblicazione).
Un ulteriore segno della "sindrome antipolitica" che attanaglia la società? Forse. Ma se il "tramonto" di questa seconda Repubblica dura così a lungo, la notte comincia a far paura. E, in attesa del "nuovo giorno", si accontentano del V-Day.
(9 dicembre 2007)
da repubblica.it
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Ilvo Diamanti
Una generazione in libertà vigilata
Alcune settimane fa ho dedicato una "mappa" alle "città universitarie". Prendendo spunto - ma solamente lo spunto - dall'omicidio di Perugia. Sottolineavo come tendano a diventare delle "società artificiali" Abbandonate dai residenti, "affittate" agli studenti, i quali vivono fuori "controllo" per le famiglie e le istituzioni. Perché la città "diventa" loro, anche se non "è" loro. E non lo sarà mai, del tutto. Visto che costituiscono una "popolazione in affitto". Di passaggio. Vi trascorreranno alcuni anni, poi andranno altrove. Da ciò l'insicurezza che pervade un luogo dove l'autorità e le istituzioni sono deboli; o meglio: latitano. Restano sullo sfondo. Dove gli studenti, alla fine, rischiano di diventare quasi degli "apolidi". "Non-cittadini" di una "non-città".
Alcuni hanno inteso queste mie annotazioni come un atto di accusa contro i giovani. In particolare: contro gli studenti. Infine, contro il "programma Erasmus", che promuove l'esperienza degli "scambi" internazionali fra università, permettendo agli studenti di svolgere una parte del loro itinerario di studi in altri Paesi.
Chiaramente, non è così.
In primo luogo, ritengo gli anni dell'università fra i più importanti nella formazione non solo culturale e professionale, ma anche personale, dei giovani. E penso, inoltre, che si debbano trascorrere "lontano da casa". Ormai, i giovani vivono in una condizione quasi simbiotica con la loro famiglia. Il che ne allunga la dipendenza e, quindi, i tempi della "maturità". Intesa come "autonomia" e "responsabilità". A trent'anni, mostrano le inchieste dello Iard, circa i due terzi dei giovani risiedono ancora con i genitori. A trentacinque, circa un terzo. Studiare "lontano" da casa, dalla famiglia, diventa, quindi, una delle poche possibilità di "sperimentare" l'autonomia. Non solo per le donne, sottoposte, da sempre, a maggiori "controlli" da parte dei genitori. Anche per gli uomini, dopo l'abolizione del servizio di leva obbligatorio. A prescindere da specifiche valutazioni di merito: occasione di vita comune con altri giovani, di altre regioni, lontano dagli occhi dei genitori. Per questo ho assistito con fastidio alla proliferazione di sedi universitarie in tutta Italia.
Non solo perché ha prodotto dequalificazione. Ma anche perché ha indotto molti giovani e molte famiglie a scegliere l'Ateneo in base alla "comodità". Il corso di laurea prêt-à-porter, nell'Università fuori-porta. Accentuando ulteriormente il vizio italiano del familismo. Oltre a scoraggiare la ricerca di opportunità ed esperienze formative in base alla "qualità". Che non sempre si trova dietro casa. E raramente si incontra in piccole sedi, prive di storia e tradizione.
In secondo luogo, considero, a maggior ragione, l'Erasmus un'esperienza innovativa e importante, per l'Università e per gli studenti.
Dal punto di vista della formazione: favorisce il contatto con atenei di altri Paesi. In alcuni casi, prestigiosi. Impone l'uso - e quindi favorisce l'apprendimento - di una lingua straniera. Che non dovrebbe essere più tale. Nel senso che dovrebbe risultare "normale", per tutti, ma soprattutto per i giovani.
Dal punto di vista della crescita personale: abitua i giovani a vivere con altri giovani, di altri Paesi; ad "arrangiarsi". Sottraendosi, per qualche tempo, ai controlli esercitati - ma anche ai servizi offerti - dai genitori. Di più: credo che, al di là dell'opportunità offerta dall'Erasmus, i giovani dovrebbero progettare una parte, almeno, del percorso universitario fuori dal proprio Paese. Affrontare una laurea specialistica, un corso di perfezionamento, un master nella sede di un altro stato europeo, negli Usa o altrove.
Tutto ciò, però, nulla ha a che vedere con il fenomeno (la deriva) di cui mi ero occupato tempo addietro. La tendenza a "cedere" quartieri e, talora, intere città agli studenti. I quali vengono trattati, i questo modo, da consumatori. Essi stessi, anzi, diventano un "consumo", un'attrazione. La "città dei giovani", abitata da "giovani", abbandonata ai "giovani". Punteggiata di paninoteche, pub, fast-food, club, pizzerie. Dove si celebrano feste e meeting ludici, la notte. Non sono città. Non sono campus. Perché nelle città, come nei campus, la presenza dell'autorità è visibile. Scandite da norme, regole, controlli. Limiti. Che si possono o meno rispettare: ma esistono. Nelle città, in particolare, i residenti sono in larga misura "cittadini". Titolari di diritti e di doveri. Coinvolti nel "governo" del territorio e della società. Ciò che non avviene nelle "città universitarie". Dove gli studenti sono quasi esclusivamente - ripetiamo - consumatori. "Irresponsabili". Tuttavia, non intendo neppure "demonizzare", in modo generico, questi luoghi. Spesso, nelle città universitarie (io insegno e vivo parte della mia vita in una di queste, peraltro bellissima) gli studenti riescono a "vivere e studiare bene". Soprattutto se i residenti non la svuotano e non la riducono a un centro residenziale. In affitto. Si tratta, comunque, di contesti nei quali è più facile il contatto e il rapporto con i docenti. Dove, infine, si formano amicizie importanti e forti. Che durano una vita.
Tuttavia, queste realtà mi sembrano significative ed esemplari del modo in cui è "concepita" e "trattata" la gioventù, oggi. Cioè: come una "minoranza protetta". Una specie in via di estinzione. Accudita, ma, al tempo stesso, "isolata" dalla società adulta. I giovani, vivono in una condizione di "dipendenza dorata" sempre più a lungo. In apparenza liberi, nella realtà molto meno. Perché la loro residenza, il loro progetto formativo, il loro lavoro (precario) e, in definitiva, la loro "sopravvivenza", dipendono dal sostegno dei genitori.
Né li rende "liberi" il fatto che gli ambiti e le figure accanto a cui crescono abbiano perso gran parte della loro autorità: la famiglia, la scuola, le istituzioni locali e nazionali. Al contrario: è, per essi, motivo di ulteriore condizionamento. Perché non si può apprendere il valore della libertà se non ci sono "autorità" con cui relazionarsi, misurarsi; a cui opporsi. Da cui "liberarsi".
Non sono i giovani, né gli studenti, il problema. Il problema siamo noi: genitori, professori, adulti, che abbiamo trasformato la giovinezza in un recinto. Un perimetro chiuso. Da cui i giovani usciranno solo quando saranno talmente vecchi da non mettere in discussione il nostro "potere".
(10 dicembre 2007)
da repubblica.it
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