ILVO DIAMANTI -

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POLITICA IL RAPPORTO

Gli italiani prigionieri della sfiducia

di ILVO DIAMANTI


A un primo sguardo, la chiave di lettura di questo decimo "Rapporto sull'atteggiamento degli italiani verso lo Stato", condotto da Demos per la Repubblica, è la stessa degli ultimi anni. La sfiducia. Ha sfondato ogni limite. Nei confronti delle istituzioni, soprattutto, ha raggiunto un livello mai raggiunto dal 2000 ad oggi.

Questo sentimento colpisce, in particolare, la magistratura, la scuola, oltre, ovviamente, allo Stato. Anche il consenso verso l'Unione Europea, fra i cittadini, cala al di sotto del 50%. Per la prima volta. Mentre la fiducia nella Chiesa diminuisce sensibilmente. Perdono ulteriormente "credito" le banche. Per non parlare delle istituzioni rappresentative: parlamento e partiti.

Pubblico e privato. Giustizia e interessi. Enti locali e nazionali. Poteri civili e religiosi. Nessun riferimento sembra in grado di conservare credibilità e legittimità fra i cittadini. Nulla di nuovo, potremmo dire, per questo Paese. Dove lo Stato, tradizionalmente, non gode di grande consenso. Tanto più da qualche tempo.

Tuttavia, questa volta, nell'aria si coglie qualcosa di nuovo. Basta considerare con attenzione la "sfiducia", la quale può assumere significati molto diversi.
C'è, ad esempio, una sfiducia "costruttiva", che si esprime quando esiste un'alternativa all'ordine esistente. Ma esiste anche l'inverso: una fiducia "distruttiva", che spazza via un sistema privo di legittimità e consenso. Ancora: c'è la sfiducia "critica", che sfida e sanziona le istituzioni, per costringerle a correggersi. Oppure: la sfiducia "democratica", contrappeso alle tentazioni del potere. Garanzia di libertà. Per citare Benjamin Constant: "Ogni buona costituzione è un atto di sfiducia". Ma c'è anche una sfiducia "cinica", espressa da individui "apoti" o "estranei".

Che intendono "chiamarsi fuori": per ragioni tattiche, opportunistiche; oppure, al contrario, per dissenso radicale. In ognuno di questi casi, però, la sfiducia rivela un orientamento "strategico" dei cittadini nei confronti dello Stato e delle istituzioni. Questa fase, invece, ci sembra caratterizzata da un diverso tipo di sfiducia, che definiremmo "apatica". Senza passione.

Quasi indifferente. Di certo non finalizzata: né al confronto né allo scontro. Ma, soprattutto, non proiettata nel futuro. E' l'aspetto che distingue maggiormente questo Rapporto. Anche nei precedenti emergeva un diffuso sentimento di insoddisfazione retrospettiva e preventiva. Convinti, i cittadini, che "se ieri le cose sono andate male, domani andranno anche peggio".

La "sfiducia apatica", però, va oltre. Non evoca pessimismo, ma eclissi del futuro. Incapacità di guardare e di pensarsi oltre il presente. Anche perché, oggi, il linguaggio della politica e delle istituzioni risulta largamente incomprensibile. Due italiani su tre, d'altronde, ritengono che, ormai, non vi siano più grandi differenze tra i partiti. Certo: metà di essi pensa che "senza partiti non vi sia democrazia"; ma l'altra metà, di riflesso, la pensa in modo diverso. Anzi, circa il 40% sostiene che, anche senza partiti, la democrazia possa funzionare egualmente bene.

Ancora: il 54% degli italiani crede che i partiti debbano disporre di una "base di iscritti". Quindi: di un'organizzazione. Ma il 60% preferirebbe che la scelta del leader scavalcasse ogni vincolo associativo e avvenisse "attraverso elezioni aperte a tutti gli elettori interessati". La stessa indecisione si coglie di fronte alla distinzione fra destra e sinistra.

Insomma, la società italiana oggi appare "confusa". Priva di appigli a cui afferrarsi, per trovare stabilità e sicurezza. Ma anche di punti di riferimento, in base a cui orientarsi e aggregarsi. (Non a caso il Censis, nell'ultimo rapporto, per descrivere la società italiana ha parlato di "mucillagine": un'entità spappolata, senza coesione e senza spessore). Perché gli appigli e i riferimenti mancano. O sfuggono, cambiano di continuo. Oppure ancora: sono incomprensibili. Dal 1991, d'altronde, si susseguono progetti istituzionali, elettorali e politici sempre diversi, sempre provvisori.

Espressi in un linguaggio sempre criptico. Partiti che cambiano nome e cognome; coalizioni a "geometria occasionale". Modelli istituzionali e leggi elettorali in continua evoluzione. Delineano una geografia confusa, dai confini imprecisi. Tra Spagna, Germania, Inghilterra e Francia. Un'ardita opera di sincretismo europeo. Dal sondaggio su cui si basa questo Rapporto, d'altronde, emerge che circa un elettore su due, fra quelli che guardano con favore il proporzionale, valuta in modo altrettanto positivo anche il maggioritario. Non ha in mente un modello diverso e specifico, ma si è, semplicemente, è perduto nel contorto dibattito sui sistemi elettorali. E non si raccapezza più.

E', inoltre, difficile immaginare il "futuro" delle istituzioni in un clima così instabile. Quando il leader dell'opposizione assicura che questo governo è destinato a cadere. Domani. La settimana prossima. Al massimo fra un mese o due. Quando i leader della maggioranza e gli stessi ministri chiedono continue verifiche, minacciano la sfiducia. Senza soluzione di continuità. Difficile non provare sconcerto e senso di precarietà quando idee, valori, norme, istituzioni - i riferimenti della vita pubblica e dell'identità personale - appaiono tanto confusi.

Così, le stesse fondamenta del sistema rivelano qualche scricchiolio un po' sinistro. Il consenso nei confronti della "democrazia" rimane alto. Espresso dal 68% dei cittadini. Ma è in calo sensibile, rispetto agli ultimi anni. Visto che quasi una persona su tre pensa che, almeno per qualche tempo, se ne possa fare a meno. Questa "larga minoranza" cresce ulteriormente nella popolazione giovanile, fino a raggiungere il 40% fra coloro che hanno meno di vent'anni.

I giovani, peraltro, riflettono e riproducono, accentuati, tutti i principali sintomi della sindrome da "presente infinito", che oggi affligge la società italiana. Stressata da orientamenti ambigui e stridenti. Essi, infatti, sono coinvolti in ogni forma di partecipazione. Impegnati a percorrere le vie della protesta. Convinti, più degli altri, che non ci sia bisogno dei partiti. Che destra e sinistra siano distinzioni indistinte. I giovani: esprimono nei confronti di Beppe Grillo il maggior grado di simpatia. Molto superiore a quella attribuita ai principali leader di destra e sinistra. Prodi e Berlusconi. Veltroni e Fini.

Qui è il paradosso italiano del nostro tempo. Questa miscela di sfiducia "apatica", mobilitazione sociale permanente, immaginazione istituzionale e politica senza freni. Questa scena affollata di figure, sigle, bandiere, parole. Non evocano l'antipolitica, ma l'iperpolitica. Troppa politica: sui media, nelle piazze, nei gazebo. Genera instabilità, alimenta distacco, soffoca il futuro.


(13 dicembre 2007)

da repubblica.it

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ECONOMIA

Un'inchiesta del New York Times parla di un Paese più povero e infelice. E' vero?

Una lunga e faticosa trasformazione è in atto. Ecco dove ci porterà

Declino, l'Italia ha sempre più paura

Che fine ha fatto il Belpaese?

di ILVO DIAMANTI

 
ABBIAMO discusso fin troppo di "declino", negli ultimi anni. Per questo, probabilmente, il ritorno prepotente di questa "parola" nel dibattito sul destino dell'Italia ha suscitato qualche reazione stizzita e, in generale, una certa prudenza.

Perché il declino è stato usato in altre, precedenti occasioni come una profezia, perlopiù irrealizzata (per nostra fortuna). Oppure come un argomento polemico, volto a indebolire le leadership di governo. Una discussione tutta "interna" al condominio italiano.

Come quella che, alcuni anni fa, ha coinvolto economisti, analisti, giornalisti, attori politici. Divisi in due fazioni: declinisti e antideclinisti. I primi sostenevano che l'economia del Paese perdeva velocità e competitività rispetto agli altri Paesi. Perché l'impresa era ammalata di nanismo, gli investimenti latitavano, le esportazioni calavano. Gli antideclinisti affermavano il contrario. Che si trattava di un ristagno prodotto da fattori e fatti internazionali. A partire dalla crisi provocata dall'11 settembre.

Poi, la discussione si era sopita. Anche perché, nel 2006, molti indicatori avevano cambiato segno. Si era parlato, allora, di ripresa. Il che, ovviamente, mal si combina con il concetto di "declino". Il quale delinea una parabola che ha avviato - irreversibilmente - la fase discendente. Non ammette "riprese". Al massimo, qualche sussulto.

Le date, peraltro, contribuiscono a chiarire i motivi sottesi ai sospetti suscitati da questo dibattito. Acceso negli anni di Berlusconi, si spegne quando al governo torna il centrosinistra, guidato da Prodi. Il quale non possiede poteri taumaturgici tali da invertire la parabola dello sviluppo. All'improvviso. In coincidenza (immediata) con il ritorno a Palazzo Chigi.

"Declino", per questo, è divenuto un concetto ambiguo. Una parola dal significato dubbio. Da usare con cautela. Un lemma del linguaggio polemico della politica. A cui si ricorre per stigmatizzare un governo "nemico".

Così, durante l'esperienza del governo Prodi, si assiste al "declino del declino". Anche se gli indici economici mostrano un andamento contraddittorio, inferiore alle attese dell'avvio. Per prudenza. Per timore di venire nuovamente smentiti dai fatti. E dagli "spiriti animali" (richiamati dal presidente Napolitano, a New York, qualche giorno fa) che attraversano la società e l'impresa italiana. Capaci, altre volte, di tirarsi fuori dalla palude afferrandosi per i propri capelli. Come il barone di Münchhausen.

Sentir parlare ancora di "declino", in modo brutale, sul New York Times, ha suscitato sconcerto. Ha, inoltre, indispettito e "insospettito" un poco. Visto che raramente il Nyt dedica tanto spazio al nostro piccolo Paese di periferia.

Tuttavia, l'autore, Ian Fisher, non è italiano. Non è frenato dalle nostre reticenze e resistenze "locali". Né ha timori nel riproporre stereotipi e luoghi comuni. Ma, soprattutto, non ha puntato sugli argomenti del passato, più o meno recente. L'andamento claudicante dell'economia c'entra poco nella sua ricostruzione.

Che, invece, ha allineato una sequenza di elementi a noi tutti molto noti. L'invecchiamento della popolazione, il calo demografico, i cervelli costretti a emigrare, il sistema politico bloccato, la fatica di fare riforme, il peso del debito pubblico, il distacco dei cittadini dalla classe politica, simbolizzato da Beppe Grillo.

Un ritratto divenuto, infine, di "senso comune". Documentato, per ultimo, dal "Decimo rapporto sull'atteggiamento degli italiani verso lo Stato", condotto da Demos-laPolis e pubblicato sul Venerdì di Repubblica nei giorni scorsi. Con una differenza significativa. L'uso di quella parola. "Declino". Suona come una condanna senza appello. Perché sancisce un destino. Tuttavia, se ci guardiamo dentro, se interroghiamo i nostri sentimenti e i nostri atteggiamenti, i primi a evocare il "declino", anche senza ammetterlo, senza pronunciarne la parola, siamo proprio noi.

Gli italiani, infatti, immaginano il prossimo futuro in modo pessimista. Sotto il profilo economico nazionale e familiare. Per quel che riguarda sicurezza, ambiente, servizi. Per non parlare della politica e delle istituzioni.
Dal punto di vista delle generazioni, ormai, i giovani sono sempre più rari e periferici, nelle gerarchie sociali e professionali. Ma, soprattutto, non si percepisce come il loro destino possa cambiare.

Circa due italiani su tre sono convinti che i giovani, nel corso della vita, non riusciranno a migliorare la posizione sociale raggiunta dai loro genitori (Demos per la Fondazione UniPolis, ottobre 2007). Ancora: una componente rilevante della popolazione ritiene di essere "scivolata" più in basso, nella stratificazione sociale, negli ultimi anni. Un terzo di coloro che si definiscono "ceto medio" denunciano un peggioramento della propria condizione e posizione. La stessa sindrome da "declino" è avvertita da quasi la metà di quanti si sentono "classe operaia", oppure ceto popolare (nel complesso, ancora la maggioranza: 40% della popolazione).

Non stiamo parlando di "dati di realtà", ma di percezioni, atteggiamenti, sentimenti. Cioè, lo stesso. Perché noi siamo ciò che ci sentiamo. E oggi ci sentiamo insicuri e "sfiduciati". Soprattutto quando alziamo gli occhi e ci guardiamo intorno. Quando osserviamo il sistema politico, le istituzioni. La nave in cui siamo imbarcati, tutti insieme. Gli italiani non riescono più a coglierne la direzione, la rotta, la destinazione. Perché la vedono "ferma".

Sentono i timonieri discutere fra di loro senza accordarsi su un itinerario specifico. Peggio, dopo aver navigato "a vista" per anni, colgono parole già udite. (Ricordate il proporzionale?). Per cui li assale il sospetto che si stia tornando indietro. E, in fondo, ne provano quasi sollievo. Perché rientrare al porto da cui si è partiti tanti anni prima è meglio che zigzagare all'infinito intorno allo stesso punto.

Ecco: se il "declino" indica questa attesa di qualcosa che non arriva perché neppure sappiamo più di che si tratta; ce ne siamo dimenticati. Come i soldati asserragliati nel fortino in mezzo al "deserto dei tartari", raccontato da Dino Buzzati. Con la differenza che, in questo caso, il destino (e il nemico) è senza nome. Se tutto questo è vero, allora la definizione funziona. Siamo in declino. Non riusciamo più a spingere sull'acceleratore. A navigare verso un orizzonte, magari lontano e indefinito. Come ogni orizzonte. Tanto meno riusciamo a stabilire una mèta vicina. Un porto nel quale fermarsi per un po', nell'attesa che la nebbia si sollevi. Per questo, respiriamo sfiducia a pieni polmoni.

Tuttavia, non è vero che siamo "infelici", come afferma il Nyt. Nove italiani su dieci si dicono, al contrario, personalmente "felici" (Osservatorio su Capitale sociale di Demos-coop: aprile 2007). Appunto: "personalmente". Felici "nel loro piccolo". Nel chiuso delle relazioni familiari, della cerchia dei rapporti tra amici. Nelle loro case. E, per questo, un poco claustrofobici.

Gli italiani: sprigionano i loro "animal spirits" soprattutto quando agiscono da soli. Oppure in piccoli gruppi, piccole imprese, piccole lobbies, piccole bande. Capaci di scatenare piccoli conflitti dal grande impatto. Gli italiani. Felici a casa propria, ma intimoriti dagli "altri". Dagli stranieri. Una società sterile che ha paura di farsi "contaminare". E medita di rinchiudersi.
La parola "declino", forse, non è del tutto adatta a raffigurare lo stagno in cui siamo immersi. Da cui stentiamo ad uscire, perché ci manca una mappa, una guida, un navigatore.
Però, se ci irrita, se ci scuote, se fa reagire: allora va benissimo.

(18 dicembre 2007)

da repubblica.it

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CRONACA MAPPE

L'eclissi della bontà

di ILVO DIAMANTI


ALLA VIGILIA del Santo Natale dobbiamo denunciare la scomparsa di un ospite atteso, soprattutto in questi giorni. La Bontà. Da anni, ormai, le sue visite erano divenute saltuarie. Sporadiche. Ma quest'anno non l'abbiamo proprio vista. Forse si è nascosta. Inibita da qualche cartello, che, alle porte della città, la invitava a girare al largo. Su Google, nonostante la stagione propizia, digitando "bontà", la ricerca propone 1.200.000 risultati (link). Poco più di "egoismo". Mentre la parola "inganno" ne restituisce 100.000 in più. Essere o apparire "buoni", d'altronde, non è più considerato un fattore di successo. Ammesso che lo sia mai stato. Oggi, semmai, è un segno di debolezza. In politica, al governo, nell'amministrazione e nella società.

Prodi: ha dovuto contraddire il suo aspetto pacifico e morbido. E se non gli riesce di sembrare cattivo, oggi, almeno, tutti gli riconoscono il merito della "caparbietà". Della testardaggine. Deciso a resistere resistere e resistere. A ogni costo. Veltroni. Ha rinnegato l'invenzione del "buonismo". Dottrina, linguaggio e, al tempo stesso, fisiognomica. Oggi, Walter Veltroni prosegue nella via del "dialogo", che riconosce l'esistenza e la legittimità dell'altro - avversario e non più nemico. Ma è ben deciso a decidere. A spingere il Pd oltre l'Unione. Oltre la mediazione. Perché, in politica e nella vita, oggi non si è credibili senza fare i "duri".

Come Gianfranco Fini. Agevolato dalla biografia politica personale. Oggi è in "guerra": non solo con gli avversari, ma anche con gli alleati. Sopra tutti: Silvio Berlusconi. Il Cavaliere. L'eterno sorriso dell'uomo a cui piace piacere. Protagonista del romanzo popolare della Seconda Repubblica. Una fiction trasmessa senza soluzione di continuità e a reti unificate. Da qualche tempo si sposta da una piazza all'altra agghindato come un esistenzialista degli anni Cinquanta. Un personaggio di Beckett. O, meglio, un rivoluzionario, come l'ha definito, con affetto e ironia, il fedele Confalonieri: "Le immagini di piazza San Babila stracolma di gente che lo circonda, e lui che sale sul predellino dell'auto per salutare, mi ricordano l'arrivo di Lenin in Russia a bordo del treno piombato".

Ma più dei politici nazionali, di governo e di opposizione, a stigmatizzare la "bontà" - come un vizio più che una virtù - sono i sindaci. Definiti, talora, "sceriffi". Formula coniata, anni fa, da Giancarlo Gentilini, sindaco di Treviso per dieci anni (e oggi "sindaco aggiunto"). Nemico giurato di mendicanti, zingari e immigrati. Al cui indirizzo ha lanciato iniziative e invettive dal forte impatto simbolico. Anche se, nei fatti, ha fatto molte cose "buone" (guai a dirglielo, però; la prenderebbe come un'offesa), visto che il grado di integrazione della sua città, certificato dalla Caritas (meritoria organizzazione dal nome fuori moda), è tra i più elevati d'Italia.

Il suo esempio, però, è stato seguito dai sindaci di altre città. Di destra e di sinistra. Da Verona a Bologna, passando per Cittadella e Firenze. Perfino a Roma. Tutti impegnati ad assumere iniziative "emblematiche" contro accattoni, lavavetri, rom, romeni, immigrati-con-meno-di-500-euro-di-reddito-al-mese. I sindaci, d'altronde, più delle altre autorità pubbliche, sono incalzati ogni giorno dalle pressioni dirette ed esplicite dei cittadini. Tuttavia, alcune loro scelte (le più clamorose), più che alla soluzione del problema, sembrano finalizzate a "rassicurare". Esibendo la "tolleranza zero". Insomma: meglio sceriffi che missionari.

L'eclissi della bontà, d'altronde, oggi si riflette in tutte le parole della stessa "famiglia" semantica. Lo dimostra l'impopolarità delle formule che evocano dialogo, mediazione, condivisione. Per esempio: la "concertazione". Per non parlare della "cooperazione". Offuscata da dispute che intrecciano politica e finanza. Per la stessa ragione, è cambiato perfino il significato della "sicurezza". Fino a vent'anni fa era, per definizione, "sociale". E riguardava la salute, la previdenza, il lavoro. Il futuro delle persone e delle famiglie. Oggi, invece, (come mostra una recente ricerca di Demos per la Fondazione UniPolis, ottobre 2007) evoca, per riflesso pavloviano, paura dell'altro. La criminalità comune, ma anche gli immigrati. Le minacce all'incolumità e al domicilio personale. Di conseguenza, alimenta la richiesta di militarizzare il territorio. Di sindaci sceriffi. Appunto.

La bontà si è eclissata anche nelle relazioni di vita quotidiana. D'altronde, 7 persone su 10, in Italia, ritengono che "gli altri, se ne avessero l'occasione, approfitterebbero della mia buona fede" (Demos, novembre 2007). Per questo, anche se si è buoni, conviene dissimularsi. Non rivelarsi come tali. Ma dimostrarsi ostici, spigolosi, furbi. Quantomeno a fini preventivi.

Il linguaggio "pubblico" si è evoluto (si fa per dire...) di conseguenza. Il turpiloquio non è più tale da tempo. Non per caso, la manifestazione, forse, più clamorosa contro la classe politica è stata promossa da Beppe Grillo al grido "Vaffa...". D'altronde, la rissa e l'aggressione (non solo) verbale fanno parte del repertorio di ogni programma tivù, in onda su ogni rete, a qualsiasi ora.

La bontà, invece, è neutralizzata nello "spettacolo". Disciolta nelle diverse varianti del format di Telethon (iniziativa, in sé, meritoria), che scivola da una trasmissione all'altra, da una rete all'altra. Così vediamo le stesse figure che, fino al giorno (e a un'ora) prima, si occupavano dei delitti più efferati e morbosi del momento, cambiare improvvisamente personaggio. Indossare una sciarpa, un nastro, un distintivo. Raccogliere fondi per una "buona" causa. Per tornare, subito dopo, allo stile e al linguaggio di sempre. Così lo stimolo sociale della bontà viene risvegliato, ma a distanza. Ciascuno reagisce individualmente, da solo. Un sms e via. Lo spettacolo continua.

Naturalmente, la "bontà" non è scomparsa. Anzi si sviluppa. È un bisogno biologico. Una pratica diffusa, che si traduce in mille attività solidali e volontarie. Cui partecipa una quota estesa, e crescente, di popolazione. In modo nascosto. Io buono? Per carità! Buono sarà lei!

Tuttavia, la pretesa contraria resta, appunto, una pretesa. L'ascesa di una classe politica inflessibile e muscolare è una leggenda. Un artifizio retorico. In questo Paese dove i governi non riescono a decidere. Prima Berlusconi, abile a deliberare soprattutto sulle questioni che lo riguardavano direttamente. Oggi Prodi, in difficoltà nel contrastare la sfida di categorie professionali piccole ma agguerrite: camionisti, tassisti, controllori di volo. Mentre i sindaci dichiarano guerre che poi non combattono. (Perché non ne hanno i mezzi). Contro pericoli il cui peso emotivo è molto superiore a quello reale. I furti in appartamento, ad esempio, percepiti come una minaccia concreta dal 23% degli italiani (Demos per UniPolis). Mentre l'effettiva incidenza del reato è lo 0,2%.

Insomma, la "cattiveria", più che un volto, è una maschera. Così si spiega il bagno di folla riservato a Sarkozy, a Roma. Lui sì capace di decidere, anche a costo di scatenare conflitti e fratture sociali. In aperto contrasto con tutti. Lavoratori dei trasporti, studenti, operai, bande delle banlieues e intellettuali "da caffè". Senza arretrare. Incrociando, semmai, la spada e il glamour: gli scioperi, Cecilia e Carla Bruni.

In Italia, invece, la fermezza appare, principalmente, uno stile esibito in pubblico. Cui non corrispondono comportamenti coerenti. L'eclissi della bontà, per questo, non è il prodotto di un diverso e opposto codice etico. Né, tanto meno, di un diverso e opposto modello di azione. È, invece, la maschera di un Paese impotente e indeciso. Un Paese in penombra, dove non si intravedono valori e uomini "forti". E, se anche emergessero, sarebbe difficile riconoscerli. Perché il Bambino, se oggi nascesse in Italia, non troverebbe ad attenderlo i tre re Magi. Ma Vespa, Mentana e Cucuzza. La vita in diretta. L'eterno presente. Dove non c'è spazio per la "buona" novella. Ma neppure per quella cattiva.

(23 dicembre 2007)

da repubblica.it

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Rubriche » Bussole

Una generazione difficile (da comunicare)

Ilvo Diamanti

 
Confesso che non avrei immaginato di ricevere tanti messaggi, di essere oggetto di tanti commenti "postati" sui blog, dopo le Mappe e le Bussole dedicate, nelle scorse settimane, ai giovani, agli studenti e alle città universitarie. Invece, continuano a giungere. Quasi tutti polemici nei miei confronti. A volte (soprattutto nei blog) acidi.

Gli studenti Erasmus dell'Università di Torino ne hanno fatto oggetto di una esercitazione: lettura dei miei testi e successivo commento. Puntualmente critico. Naturalmente, tante reazioni sono segno di interesse. Per questo, le ho lette con soddisfazione. Tutte. Anche quelle "politicamente scorrette" (non poche). Magari mi hanno irritato un poco, all'inizio. Ma solo all'inizio.

Tutta questa attenzione, però, mi ha sorpreso. In particolare, mi hanno spiazzato le critiche rivolte (in larga misura) ad aspetti che, nei miei testi, stanno sullo sfondo; occupano un posto minore. Ancor più le contestazioni a valutazioni ricavate dai miei articoli, ma che non mi appartengono. E sono di segno opposto rispetto a ciò che intendevo sostenere. Evidentemente, il messaggio lanciato sui media, spesso, viene recepito e interpretato in modo molto lontano dalle intenzioni originarie. Per colpa di chi "comunica", soprattutto. (Mia, in questo caso). Ma anche perché viene percepito e decifrato in base ad aspettative specifiche. Così, per quanto io abbia dedicato due distinti e successivi articoli alle medesime questioni, alcuni contenuti hanno suscitato, in molti lettori, opinioni in netto contrasto con quanto intendevo esprimere.

1. Il riferimento al delitto di Perugia, che ha sollevato tanta morbosa attenzione. Per me era solo uno spunto. L'occasione per entrare nella realtà delle città e della "socialità" universitaria. Molti lettori, invece, l'hanno considerato la chiave di lettura dei miei testi. Ritenuti, per questo, un esercizio di voyeurismo perbenista. Ispirato - viziato - dall'intento di stigmatizzare l'intera categoria degli "studenti fuori sede", come si trattasse di una popolazione dedita a pratiche dissolute e goderecce.

2. Da qui la seconda "accusa": generalizzare episodi isolati ed eccezionali all'intera realtà studentesca (peggio: giovanile). Un problema denunciato soprattutto dagli studenti stranieri dell'Erasmus; che svolgono una parte degli studi universitari in atenei di altri Paesi.

3. Dietro a queste "critiche" c'è l'irritazione suscitata da alcuni passaggi dei miei articoli. In particolare, aver definito gli studenti delle città universitarie "non-cittadini" che vivono in "non-città" (echeggiando un concetto di Marc Augé, molto noto: i "non-luoghi"). Quasi degli "apolidi", insomma.

Tornare un'altra volta sullo stesso luogo, nelle stesse città, sullo stesso argomento, a questo punto, può risultare noioso e ridondante. Ma è proprio ciò che, in effetti, sto facendo. D'altronde, può essere utile chiarire alcuni concetti, evidentemente equivoci, viste le reazioni. Assumendomi il rischio - a questo punto calcolato - di sollevare nuovi dubbi, senza risolvere quelli emersi.

Tuttavia, mi pare importante precisare, soprattutto, perché io abbia parlato - consapevolmente - degli studenti come "non-cittadini" che popolano "non-città".
Le "città", per definizione, sono luoghi abitati da "cittadini". Cioè: persone "residenti", titolari di diritti e di doveri. In modo attivo. In quanto sono soggetti alle leggi, pagano le tasse. Partecipano alla formazione del governo locale scegliendo, con il voto, gli amministratori; oppure attraverso l'associazionismo di rappresentanza sociale ed economica (quello studentesco opera solo dentro all'università).

Gli studenti "fuori sede" hanno il domicilio nelle città in cui studiano, ma non vi risiedono. (Gli studenti Erasmus, poi, risiedono in altri Paesi). Certo, sono soggetti alle medesime regole e alle medesime leggi dei residenti, ma non hanno rappresentanza né poteri. Per questo sono "non-cittadini". La "città" in cui risiedono è quella dove vive la loro famiglia. Sono "irresponsabili": perché non sono chiamati a "rispondere" di ciò che riguarda la loro vita. Il loro luogo di vita. Mentre, parallelamente, le autorità locali non si sentono "responsabili" verso di loro. Perché gli studenti non votano.

Tuttavia, nelle città universitarie gli studenti costituiscono una componente rilevante, talora dominante. Non solo dal punto di vista demografico, ma anche economico. Sono una fonte di reddito, per chi affitta stanze e camere, per il commercio e l'artigianato locale. Ma sono anche un fattore di spesa: perché è l'amministrazione locale che gestisce servizi e infrastrutture. Bisogna tener conto, ancora, che gli stili di vita della popolazione dei residenti e degli studenti, per alcuni versi, contrastano. Per cui si assiste, non di rado, a conflitti fra i due mondi sociali. Gli studenti e i residenti: vivono separati. Vicini e al tempo stesso lontani. Le scelte delle amministrazioni locali, tuttavia, sono condizionate dai sentimenti e dalle reazioni dei residenti che li hanno eletti, da cui dipende la loro legittimazione, la loro futura rielezione. Per questa ragione ho parlato di non-città. Per indicare quei contesti abitati perlopiù da non-residenti. In questo caso, dagli studenti. Che sono non-cittadini, perché estranei ai diritti-doveri della rappresentanza. (Non) città che si riducono a contenitori per attività di consumo. E riducono la popolazione (studentesca) in consumatori.

In contesti di questo tipo, d'altronde, si indeboliscono i legami sociali e la presenza dell'autorità. Certo, la realtà giovanile è densa di reti interpersonali, di rapporti di amicizia. Però, per ragioni generazionali, comprensibili, è riluttante ai vincoli e ai controlli. Anzi: per definizione, li contraddice e li contesta. E' ambiente espressivo, emotivo, ricreativo. Inoltre, gli studenti stringono legami (anche affettivi) con l'ambiente locale talora saldi. Ma perlopiù sono di passaggio. Ho usato, per questi motivi, la formula "comunità artificiale".

Le città universitarie, per le stesse ragioni, costituiscono un caso esemplare della condizione dei giovani. Che vengono parcheggiati dagli adulti in luoghi separati, dove vivono fra loro. Una zona (relativamente) franca da regole e autorità. Dove agiscono con limitate responsabilità, pochi poteri e, in fondo, diritti.

Non si tratta di un invito a tenerli di più in famiglia, insieme ai genitori. Al contrario: penso che i giovani debbano uscire di casa presto. Non solo per studiare. Ma per lavorare e per vivere. Non solo da studenti. Ma da cittadini. Oggi, invece, sette su dieci, a ventinove anni, risiedono ancora con i genitori. Perché non hanno ancora un lavoro stabile, una casa propria (costerebbe troppo). Inoltre (come ha osservato Guido Maggioni), è finito il tempo in cui la famiglia, per educare i figli, usava "mezzi autoritari e coercitivi".

Quando (fino agli anni Sessanta) ci si sposava "anche" per fuggire da casa, per liberarsi all'autorità autoritaria dei genitori. Per vivere la propria vita. Per diventare cittadini. Oggi, non ce n'è più bisogno. I giovani possono sperimentare la loro autonomia (relativa) presto. Fin dall'adolescenza si allontanano dalla famiglia, per studiare le lingue, fare corsi di perfezionamento, stages. L'Erasmus. Sono più liberi. Ma al tempo stesso più dipendenti. Figli insicuri di genitori insicuri. I giovani. Condannati a una lunga transizione verso una maturità che non arriva. Purtroppo per loro. E per noi.


(P.S. Fra i motivi polemici nei confronti dei miei articoli, ritorna, frequente, un fastidio stilistico. Verso la mia prosa, che presenta poche virgole e troppe virgolette, oltre a uno sterminato numero di punti - in libertà. Ma, a questo proposito, ho poco da spiegare. Se non che i miei testi si possono trasmettere facilmente per sms)


(24 dicembre 2007)

da repubblica.it

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Rubriche » Bussole
 
LD leader della LdC

di Ilvo Diamanti


Lamberto Dini, leader dei Liberaldemocratici, ha dichiarato che il suo partito ha levato la fiducia al governo. Che Prodi, quindi, non ha più la maggioranza. Al Senato.

Liberaldemocratici. O forse Liberal Democratici: LD. Una sigla che non ricordiamo di aver visto alle elezioni del 2006. Anche se tante erano le liste, in quell'occasione, che qualcuna, sicuramente, ci è sfuggita. Peraltro, liberaldemocratico è un attributo cultural-politico diffuso. Forse solo gli esponenti della sinistra radicale lo rifiutano. Ma non tutti, probabilmente. Tuttavia, non crediamo che Lamberto Dini parli a nome loro. Dei liberaldemocratici di tutto il Paese. Anche perché dubitiamo che i liberaldemocratici si riconoscano - tutti quanti - nella sua figura. Con tutto rispetto: Ciampi è un'altra cosa. Riteniamo, invece, che si riferisca davvero a un partito. Che, riassunto in sigla, d'altronde, coincide con le sue iniziali. LD come Lamberto Dini.

Già in passato aveva usato lo stesso acronimo. Ma allora si chiamava Lista Dini. O meglio: Rinnovamento Italiano. Presente alle elezioni europee del 1999. Dove ottenne l'1,1%. In cifre: 350mila voti. Immaginiamo che Lamberto Dini, leader di LD, parli a nome loro, quando sostiene che il governo non ha più la maggioranza dei consensi. Non ha più la fiducia del Paese. Ridotta al 25% degli elettori. Per la defezione dell'1,1% degli elettori che egli rappresenta. Forse, però, quando LD parla di un partito, non fa riferimento a "elettori". Ma a singoli senatori. Dini, in primo luogo. Un partito senatoriale, dunque. Da non confondersi con gli altri "nanetti", su cui ironizza, regolarmente, Giovanni Sartori. Perché l'Udeur di Mastella, i socialisti di diversa collocazione, perfino i pensionati si sono presentati alle elezioni. I loro voti - magari pochi - li hanno presi. LD, invece, dopo il 1999 si è embedded in altri contenitori.

L'ultima traccia della sua base elettorale risale a quei 300mila voti o poco più ottenuti alle europee di otto anni fa. Chissà: nel frattempo potrebbero essere cresciuti. Per cui immaginiamo che LD vorrà presentarsi con la propria lista, da solo, alle prossime elezioni. Meglio se con una nuova legge elettorale, in cui la coalizione non sia "premiata" e non divenga, quindi, una soluzione obbligata. In cui ogni lista sia costretta a correre con le proprie gambe. Oggi, però, abbiamo il sospetto che LD indichi un PID: Partito individuale Dini. O, meglio, un PdI. Partito di individui, che si associano per esercitare il loro potere di "ricatto" in Senato. Per il bene del Paese. Ma soprattutto il proprio. Chiamiamolo, allora, più correttamente LdC: Lista della Casta.

(27 dicembre 2007)

da repubblica.it

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