ILVO DIAMANTI -
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POLITICA MAPPE
L'uomo anfibio tra pubblico e privato
ROMANO Prodi, negli ultimi giorni, ha polemizzato contro la "sfiducia artificiale". Quel malessere diffuso, fra gli italiani, cui hanno dedicato pagine intere autorevoli testate straniere. Il presidente del Consiglio non contesta queste analisi. D'altronde, tutti i sondaggi le confermano. Ma sostiene, in modo esplicito, che si tratta di sentimenti amplificati.
Costruiti, in qualche misura, "ad arte". Da un'opposizione irresponsabile. Ma anche dai media, pronti a trasformare sussurri in grida. Offrendo ai cittadini una rappresentazione pessimista; in contrasto con la realtà e con ciò che il governo, concretamente, "fa". Anche il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha contraddetto, con puntiglio, il "declinismo". Le letture che - in Italia e fuori - definiscono il nostro Paese depresso e stagnante. Dal punto di vista economico, demografico e del sentimento. C'è da scommettere che dedicherà una parte, almeno, del suo discorso di fine anno alla questione della fiducia. O del suo complemento: la sfiducia. Per presentare il 2008 come una svolta verso il futuro. Non come la pallida replica dell'anno che se ne va.
Si tratta di polemiche, in parte, giustificate. È vero: la sfiducia è ormai un argomento (forse il principale) di lotta politica agitato contro l'avversario. Da molto tempo. Da quando, cioè, con l'avvento di Berlusconi, si è affermata la "democrazia del pubblico", fondata sulla crescente importanza della personalizzazione, dei media e dei sondaggi.
È altrettanto vero che i media contribuiscono ad alimentare la sfiducia e l'insicurezza. D'altronde, i "buoni sentimenti" non fanno notizia. Non alzano l'audience. Vuoi mettere l'angoscia, la paura, l'odio? La bontà e la carità funzionano solo nelle fiction dedicate ai santi del passato, anche recente. Si tratti di Wojtyla o di San Francesco.
Queste "colpe", tuttavia, non assolvono la politica dalle sue responsabilità. Il senso di precarietà prodotto dall'azione di governo, i conflitti che agitano la maggioranza e l'opposizione. Ma non possono neppure svalutare le radici sociali e soggettive di questo sentimento. Che, invece, sono largamente rimosse. La sfiducia, l'incertezza e la delusione non costituiscono vizi dell'Italia d'oggi. Attraversano i principali Paesi occidentali da almeno vent'anni. Con poche pause. La sfiducia, peraltro, ha una "meccanica" particolare, come abbiamo sottolineato altre volte. Si concentra soprattutto sul "pubblico", ma anche sugli "altri".
D'altronde, il compito della tutela sociale, sanitaria, previdenziale dallo Stato si è spostato progressivamente sui privati. E sul "privato". Il lavoro è sempre più frantumato e temporaneo. Mentre i riferimenti che offrivano ideologia, identità e aggregazione si sono indeboliti. Fatti noti a tutti. Riassunti dal sociologo Richard Sennett nel "declino dell'uomo pubblico". Flessibile perché indebolito dalla "corruzione del carattere". Un fenomeno che si è affermato insieme alla "privatizzazione". Non solo in ambito economico, anche nella vita quotidiana. Dove ciascuno insegue "soluzioni private a problemi privati" (come osserva il filosofo Gilles Lipovetsky). Numerosi segni, d'altronde, rivelano il contemporaneo diffondersi di felicità individuale e infelicità pubblica.
A differenza di quanto sostiene il Nyt, gli italiani sono felici. Ma nel loro piccolo, nella loro vita personale, nella cerchia stretta della famiglia e degli amici. Nonostante le preoccupazioni economiche (il lavoro, il reddito, il costo della vita) stiano spargendo inquietudine anche in quest'ambito. Gli italiani, invece, si sentono insoddisfatti quando si guardano intorno. Quando si rivolgono ai servizi e alle istituzioni. Al sistema pubblico locale e soprattutto statale. Ma anche quando si rivolgono agli altri. Alle persone con cui non hanno consuetudine. (Soprattutto gli immigrati, perché cumulano le paure dell'altro che non ri/conosciamo; e della globalizzazione, che incombe su di noi, facendoci sentire vulnerabili). Per questo crescono le forme di aggregazione "diffidenti" e particolariste. Fondate sull'interesse professionale, locale. Oltre a una pluralità di appartenenze faziose, ideologiche e settarie. Nessuna in grado di marcare linee di confine nette; o di attrarre e mobilitare le "masse". Tutte in grado, però, di opporre veti. Di fare esplodere, insieme alla protesta, la sfiducia generale. Minoranze dominanti.
È difficile, indubbiamente, "governare" ma anche fare politica, mentre affonda l'uomo pubblico. Tanto più se, nel frattempo, l'uomo privato stenta ad emergere. A frasi largo. Perché la rivendicazione di uno "stato minimo" contrasta con la difficoltà (forse: la velleità) evidente di asserragliarsi dentro a un "io minimo" (la definizione è di Cristopher Lasch).
Non per niente il garante Francesco Pizzetti ripete da tempo che stiamo perdendo la "privacy". Mentre Stefano Rodotà sostiene che l'abbiamo già perduta. I nostri dati personali, ormai, vengono raccolti e schedati: a ogni transazione bancaria, a ogni passaggio autostradale con il telepass, a ogni acquisto fatto con carta di credito o bancomat. Per non parlare dei cellulari. Che tutti possiedono. E usano dovunque: a casa, per strada, sul lavoro, a scuola, a pranzo, al cinema, in autobus, in auto. Perfino in Chiesa. Forse per comunicare meglio con Dio. Ciascuno di noi può essere rintracciato e "tracciato", un passo dopo l'altro, attraverso i cellulari. Sempre: il giorno e la notte. E che dire della rete? Google registra e archivia i nostri tracciati su Internet. Attraverso "Google maps", fra non molto, sarà possibile scrutare la nostra vita e i nostri movimenti. Cellulari e rete, insieme: permettono incursioni senza limite nella nostra vita quotidiana. I maggiori scandali degli ultimi anni/mesi, d'altronde, nascono da "intercettazioni". Da Calciopoli all'Unipol a Bancopoli, a Vallettopoli. Fino a quelle pubblicate qualche settimana fa fra dirigenti Rai e Mediaset. Ma, soprattutto: Berlusconi e Saccà. Certo: non si tratta di "gente comune". Però, grandi scandali e grandi intercettazioni rammentano che, a maggior ragione, i più piccoli potrebbero essere ascoltati e osservati. Senza troppi scrupoli.
Tutto ciò avviene senza destare eccessive preoccupazioni. Ci stiamo abituando alla riduzione dello spazio privato. Infatti (indagine Demos per Fondazione UniPolis, ottobre 2007), 1 italiano su 5 si dice disposto a farsi controllare la posta e le e-mail; circa 1 su 3 a permettere il monitoraggio sul proprio conto bancario. In nome della sicurezza. Ma, soprattutto, quasi 9 italiani su 10 chiedono che "venga aumentata la sorveglianza con telecamere di strade e luoghi pubblici". Siamo giunti alla "banalizzazione" della videosorveglianza (come ha scritto il sociologo Eric Heilmann). Le telecamere spuntano dovunque, evidenti. Ma non ci preoccupano. Elettrodomestici a cui affidiamo la soddisfazione del bisogno di sicurezza. Elementi "naturali" del nostro paesaggio quotidiano. Li accettiamo senza negoziarne le condizioni d'uso. Anche se gli obiettivi sorvegliati siamo "noi". Infine, sempre nel nome della sicurezza, si stanno preparando norme e controlli che permettano la schedatura del Dna. (Altrove, come in Francia, è già avvenuto). Degli immigrati, delle categorie "pericolose". Insomma, si mira a legalizzare la raccolta delle informazioni genetiche. La chiave per accedere alla nostra specifica "struttura individuale".
Un'ipotesi largamente condivisa. In nome della paura dell'altro. La banalizzazione e la diffusione delle tecnologie di controllo. L'abitudine a essere spiati senza saperlo. E a spiare gli altri a loro insaputa. La cessione di ogni estremo sistema immunitario della nostra individualità. Tutto ciò suggerisce un paradosso. Mentre celebriamo il declino del pubblico, in realtà, il nostro privato tramonta. Perché siamo sempre "in" pubblico. Siamo sempre pubblico. Spioni e spiati. Allo stesso tempo. Come non essere inquieti? Come non provare sfiducia e paura? La personalizzazione, la mediatizzazione, i nuovi partiti, le riforme istituzionali, lo stesso sistema elettorale. Risposte utili, talora importanti e perfino necessarie per restituire governabilità al Paese e rappresentanza alla società. Ma non bastano. Sono scorciatoie. Se la politica non dà risposte a questo "uomo anfibio", perso nella battigia tra pubblico e privato.
(30 dicembre 2007)
da repubblica.it
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CRONACA
Oggi i sentimenti più cupi "abitano" a destra, proprio come due-tre anni fa erano a sinistra
Il privato unico rifugio di speranza.
L'auspicio che i giovani salgano a posti-guida
Il Paese del disincanto invoca il ritorno al futuro
di ILVO DIAMANTI
Il clima d'opinione di un'epoca è segnato dalle "parole". Formule, frasi, slogan, modi di dire, che scandiscono i nostri discorsi. Li ripetiamo all'infinito. Senza accorgercene. Influenzano la nostra visione delle cose, disegnano la realtà intorno a noi. Perché le parole non sono neutrali. Possono cambiare significato, in base all'uso che ne facciamo. Ma, al tempo stesso, il loro uso ripetuto cambia significato alle cose.
Oggi, ad esempio, noi siamo colmi di "sfiducia". E dei suoi derivati: delusione, insoddisfazione, risentimento, disagio, malessere. È il linguaggio del tempo. Ci induce ad essere aggressivi, per autodifesa. Dirsi "buoni" suscita sospetto; oppure sorrisi di comprensione. Perché è sinonimo di "ingenui". Persone perbene ma poco furbe. Mentre a dirsi soddisfatti e ottimisti, a predicare fiducia e benessere, si rischiano commenti e giudizi "storti". Come è capitato a Prodi e Napolitano. I quali, nei loro discorsi di fine anno, hanno parlato, in modo premeditato, di serenità, fiducia.
Elencando altre "virtù" indicibili. Non contenti, hanno ribadito, entrambi, che l'economia e la società italiana non sono in "declino". ("La Spagna", ha ribadito il premier, "non ci ha superato").
Prevedibili le ironie di testate e commentatori che della dissacrazione hanno fatto un brand. D'altronde, la sfiducia e il declino sono meccanismi di delegittimazione istituzionale efficaci. Erodono il consenso di chi governa, da quando l'Opinione Pubblica sovrana non vota più per "atto di fede". E neppure per soddisfazione. Ma, al contrario, per insoddisfazione. E, visto che è insoddisfatta e sfiduciata da una quindicina d'anni, a ogni elezione punisce, puntualmente, chi governa.
Per questo, il sondaggio Demos-Eurisko - dedicato a rilevare gli atteggiamenti degli italiani nel passaggio tra vecchio e nuovo anno - registra una gran dose di pessimismo. Distribuito e tarato, però, su basi rigorosamente "politiche". Il pessimismo, infatti, cresce esponenzialmente scivolando da sinistra a destra.
Dalla maggioranza all'opposizione. Su tutti i temi: dall'economia nazionale al reddito personale; dalla sicurezza alle tasse. Fino alla Politica: la Madre di Ogni Malessere. Certo, qualcuno potrebbe osservare che motivi per essere ottimisti e per "pensare positivo" non ve ne siano molti. Citando, a ragione, le difficoltà crescenti che condizionano la vita di una parte della società ben definita. I lavoratori dipendenti del privato a reddito fisso. Oltre agli intermittenti e agli atipici (in gran numero fra i giovani).
Ma è anche vero che il pessimismo più elevato affligge i lavoratori autonomi e i liberi professionisti più degli operai. Non "gli ultimi", dunque; ma almeno i "quartultimi". Inoltre, qualche sospetto può emergere di fronte a un'impronta politica così marcata. E così variabile. Se oggi il pessimismo abita prevalentemente a destra, due o tre anni fa gravitava esattamente sull'altro versante. A sinistra. Che, allora, stava all'opposizione. Se nuove elezioni rovesciassero l'attuale assetto, è, dunque, probabile che le parti si invertirebbero di nuovo. E la nuvola del pessimismo tornerebbe a oscurare il cielo del centrosinistra.
Tuttavia, al di là del pregiudizio politico che vizia il giudizio sulle cose che ci riguardano, resta l'ipoteca delle parole. Gli italiani, conferma il sondaggio Demos-Eurisko, continuano a dirsi "felici". Anche se in misura minore degli anni scorsi. Dal 90% di due anni fa si è scesi all'80% delle ultime settimane. Però, accettano di dirsi felici solo in "privato". Ma anche rispetto al loro "privato". Sono, dunque, disposti a scommettere che la loro vita "personale", perfino il loro "reddito familiare" possano migliorare, nel corso del 2008. Però, all'esterno, di fronte agli altri, non lo ammetteranno mai.
Invece, la definizione più adatta a descrivere gli italiani - secondo gli italiani - è, coerentemente: "arrabbiati". Seguita, a distanza, da "opportunisti". È probabile, a questo proposito, che gli intervistati ritengano se stessi "arrabbiati" e gli altri "opportunisti". Certo: riusciamo ancora a definirci "ingegnosi", "creativi" e perfino "generosi". Ma usiamo queste etichette con minore convinzione di un tempo. Mentre cresce la tentazione di dirsi "depressi" ed "egoisti".
Il mito degli "italiani brava gente", in altri termini, sembra definitivamente tramontato. Dissolto. Appartiene a un passato che è passato per sempre. Anche se si trattava, appunto, di un mito. Una leggenda, che non reggeva alla prova dei fatti. Un luogo comune; magari poco fondato, ma, appunto, "comune". Condiviso. Orientava la nostra immagine pubblica. Ma anche la nostra auto-immagine. E, di conseguenza, la nostra condotta. Ma oggi pochi italiani accetterebbero di venir chiamati "brava gente". Soprattutto all'estero. Si sentirebbero squalificati.
Imprigionati nell'antica iconografia: sole-pizza-mandolino. (E, tra parentesi, mafia). Oggi la "brava gente" sembra, invece, seriamente e sinceramente incazzata. Perché la criminalità ci insidia, le retribuzioni sono troppo basse, i prezzi continuano a crescere. Mentre i politici si interrogano e discutono a tempo pieno sulla "legge elettorale", che interessa al 4,5% dei cittadini. Nessuno, insomma.
Per questi motivi crediamo che ci si debba (pre) occupare maggiormente delle parole. Del linguaggio con cui esprimiamo la nostra vita quotidiana e il nostro mondo.
Non possiamo che essere "arrabbiati" se le parole di pace e dialogo sono bandite, inutilizzate, inutilizzabili e inutili. Se, quando vengono usate in tivù e nei giornali, noi giriamo pagina e cambiamo canale. Se, quando sono pronunciate da una figura pubblica, diamo per scontato che siano false. Menzogne pronunziate ad arte. Se, quando le sentiamo esprimere nella vita quotidiana, guardiamo chi le ha pronunciate come fosse un nane (dalle mie parti: un tonto). Se, infine, quando le diciamo noi, sentiamo il dovere di scusarci subito.
Il 2008 si inscrive a pieno titolo nell'Era degli Apoti, in cui siamo entrati da tanti anni. Apoti, per citare Giuseppe Prezzolini: quelli che non la bevono. I disincantati. Non i "delusi": ma i "disillusi". Quelli che sono "delusi" per cautela metodica. Per difesa preventiva. Quelli che, negli ultimi vent'anni, hanno visto cadere muri, sistemi politici, regimi, partiti e leader. E li hanno visti riemergere e risorgere. Magari con altri nomi. Per cui non la bevono più. Pronunciano ogni parola con sospetto. Quest'anno sono in allarme di fronte alle incombenti celebrazioni di un quarantennale pericoloso.
Il Sessantotto. Un altro mito rivoluzionario, che evoca sogni, movimenti e mutamenti. Invecchiati e contestati. Come molti dei suoi profeti. Figurarsi: nell'Anno degli Apoti. Meglio neppure pronunciarlo. Un'altra parola-da-non-dire.
Gli italiani, oggi, sono naturaliter arrabbiati. Tuttavia, stimolate, due persone su tre ammettono di pensare al futuro con "speranza". Speranza: una parola sopravvissuta a stento allo spirito (cinico) del tempo. Si associa all'auspicio maggiormente condiviso dalla popolazione, per il nuovo anno: "più giovani ai posti di comando". Immediatamente seguito da: "migliorare la scuola e l'università". E' il "futuro" che avanza.
Sopravvissuto alla revisione del nostro vocabolario. Impoverito dal senso cinico dominante. Non sappiamo per quanto tempo ancora. Perché, di questo passo, molto presto anche il futuro non avrà più un nome. Una parola per dirlo. Così, fra un anno, festeggeremo ancora il 2008.
(3 gennaio 2008)
da repubblica.it
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CRONACA MAPPE
Criminalità, quando la percezione diventa reale
di ILVO DIAMANTI
LA COMMISSIONE affari istituzionali, presieduta da Luciano Violante, nei giorni scorsi ha invitato i direttori delle testate giornalistiche e delle reti televisive nazionali a spiegare perché la paura della criminalità continui a crescere mentre il fenomeno tende a ridimensionarsi.
Implicita - e neanche troppo - l'idea che la principale responsabile sia l'informazione televisiva. L'iniziativa ha provocato, da parte dei direttori e dei dirigenti radiotelevisivi, reazioni irritate. Largamente comprensibili e, a nostro avviso, giustificate. Tuttavia, la questione è sicuramente importante. E merita di essere affrontata, una volta di più.
Partendo dal problema di base: il divario fra i dati e le percezioni. Esiste davvero? A nostro avviso sì. L'abbiamo sostenuto altre volte e lo ribadiamo in questa sede. Anche se le statistiche variano, in base alla fonte e al dato rilevato. Si tratti del ministero dell'Interno, dell'Istat, di Eures-Ansa, delle autorità giudiziarie oppure, direttamente, delle Forze dell'ordine.
Comunque, negli ultimi quindici anni il numero dei reati, nell'insieme, non è cambiato. Semmai, in alcuni casi, particolarmente significativi, è calato. Dal 1991 al 2006, gli omicidi volontari si sono ridotti a un terzo (ministero dell'Interno): da 3,3 a 1,1 per 100mila abitanti. I furti in abitazione sono passati dallo 3,6 a 2,4 per mille abitanti. Gli scippi da 1,3 a 0,4 per mille abitanti. Sono cresciute, invece, le rapine: da 0,7 a 0,9 per 1000 abitanti. La percezione della minaccia criminale, invece, negli ultimi dieci anni è cresciuta in modo prepotente.
Nel 1997, l'Osservatorio Ispo (curato da Renato Mannheimer) faceva emergere come il 16% degli italiani indicasse la "criminalità" fra i due problemi più urgenti da affrontare. Due anni dopo, la quota di persone che riteneva urgente lo stesso problema raddoppiava: 35%. Più o meno la stessa percentuale rilevata nel 2002 (in una lista di temi un po' diversa) da Demos. La cui indagine più recente (novembre 2007) pone la "criminalità" al primo posto fra le preoccupazioni degli italiani (40%).
Aggiungiamo che questa tendenza non è specificamente italiana, ma da noi risulta più acuta che altrove. Nell'indagine di Eurobarometro, condotta nello scorso autunno, la criminalità è considerata un problema prioritario dal 24% della popolazione, nell'insieme dei 27 Paesi della Ue; un dato stabile rispetto alla rilevazione primaverile. In Italia la stessa preoccupazione è, invece, denunciata dal 33% dei cittadini. Cinque punti percentuali in più rispetto al precedente sondaggio.
Il divario fra la misura e la percezione della criminalità, a nostro avviso, esiste. Ma spiegare l'insicurezza come un prodotto dell'informazione televisiva è sicuramente sbagliato.
1. In primo luogo, si tratta di una lettura riduttiva, fondata su termini e concetti che, negli ultimi anni, hanno cambiato significato, in modo profondo. Per quel che riguarda il fenomeno della "criminalità", le comparazioni con il passato sono improprie (lo ha notato, di recente, Nando Pagnoncelli). Trascurano il peso, dominante, dei reati che minacciano l'intimità, il domicilio, l'incolumità delle persone. Riassunti nelle definizioni di "microcriminalità" o di criminalità "comune". Ma per la gente "comune" questi reati, commessi negli ambienti di vita quotidiana, costituiscono, la vera "macro-criminalità". Gli stessi omicidi volontari (dimezzati dal 1990 al 2005: da 1695 a 601: Rapporto Eures-Ansa, 2006), d'altronde, avvengono soprattutto nella cerchia familiare e amicale (40%). Il senso di insicurezza è, quindi, cresciuto perché i reati di gran lunga più diffusi ci insidiano direttamente, da vicino. Personalmente. Noi, la nostra casa, i nostri cari.
2. Anche per quel che riguarda le responsabilità dell'informazione televisiva, occorre precisare. Di certo, la televisione è, oggi, il primo e principale mezzo di informazione. L'87% degli italiani afferma di seguire, ogni giorno, le notizie in tivù (Demos-coop, novembre 2007). Tuttavia, lo spazio dedicato dai telegiornali alla "nera" è limitato. Si va dal 2-3% del tempo complessivo, nel 2007, su Tg1, Tg3 e Tg4, fino al 4-5% sul Tg2 e su Studio Aperto (dati Geca Italia). Una frazione troppo piccola per incolparli di aver distorto la percezione degli italiani. E', semmai, utile allargare il campo all'intero sistema della comunicazione. Per quel che riguarda la televisione: ai rotocalchi di approfondimento, ai programmi che miscelano informazione e intrattenimento, alle trasmissioni popolari del pomeriggio e del mattino. E' qui che i delitti di vita quotidiana occupano maggiore spazio. Al punto da divenire sequel di successo.
Inoltre, non dobbiamo trascurare gli altri media. I quotidiani e i settimanali. Non solo perché si rivolgono a un settore particolarmente informato. Ma perché, da quando si è affermata l'informazione su Internet, intervengono sui fatti, in tempo reale. Perché, inoltre, i giornalisti televisivi impostano i notiziari incalzati (e influenzati) dalle edizioni on-line dei quotidiani e dai tg delle reti satellitari (Sky e Rai-News 24, in primo luogo).
3. Tuttavia, ricondurre lo scarto fra realtà ed emozione al ruolo (e alle responsabilità) dell'informazione significa ignorare almeno altri due "colpevoli". Altrettanto significativi. Il primo è il cambiamento del paesaggio urbano e sociale. Il rarefarsi delle reti di solidarietà, dei contatti personali, della fiducia. Le risorse che rendevano più "sicuro" il mondo intorno a noi. Ne abbiamo parlato altre volte: quando non conosciamo chi abita intorno a noi, viviamo chiusi in casa, blindati (porte, finestre, mura), armati, difesi da cani da guardia che ci separano dagli altri; quando il territorio circostante diventa inguardabile e inospitale.
Allora, è difficile non sentirsi inquieti, impauriti. Sperduti. Allora i media diventano sempre più importanti, perché costituiscono il principale, spesso unico canale di relazione con il mondo. E trasferiscono in casa nostra il mondo, con i suoi molteplici motivi di tensione e di paura.
Il secondo "colpevole" è l'ambiente che, nei giorni scorsi, ha "chiamato a rapporto" l'informazione radiotelevisiva: la classe politica. Perché, da un lato, usa la sicurezza e l'insicurezza come armi improprie, per catturare consensi. Alimentando e usando le paure come bandiere e, spesso, come clave. Mentre, dall'altro, non è estranea al sistema mediatico. Al contrario. I politici: sui media, li incontri ovunque.
Soprattutto in tivù. Quando si discute di immigrazione e del costo della vita. Quando irrompono i rifiuti di Napoli. Ma anche nella saga infinita dei delitti "di fuori porta". A Cogne, Garlasco, Erba, Perugia. I politici: pronti a tutto pur di conquistare qualche minuto sugli schermi. Basterebbe chiedere ai direttori delle testate radiotelevisive (giornalistiche e non) quante telefonate ricevano, ogni giorno, da politici (destra o sinistra, non c'è differenza) bramosi di esternare i loro sentimenti e le loro opinioni sui fatti del giorno. In altri termini: di apparire.
Dietro allo scarto fra le misure e la percezione dell'insicurezza, quindi, non ci sono i tg o la tivù in sé. Ma il diverso rapporto fra comunicazione, informazione e vita quotidiana. Che è divenuto diretto e immediato. Le informazioni fluiscono in tempo reale e raggiungono le persone in ogni momento. Per cui, viviamo in un eterno presente. Gli eventi fluiscono, senza soluzione di continuità. Qualcuno sovrasta gli altri. Per una settimana, un giorno, magari un solo minuto.
Il ruolo di chi fa informazione, nel mondo dell'iperinformazione, per questo, è determinante. Nella babele di notizie, che fluiscono senza sosta, i media fissano il punto su cui si concentra l'attenzione di tutti. Come una torcia nella notte - ha suggerito Zygmunt Bauman - illuminano un fatto, un evento, una persona. Assecondati, anzi, sollecitati dal sistema politico, che da tempo ha sostituito la partecipazione con la comunicazione. E ha bisogno di dare un volto, un'identità, un nome all'incertezza incerta che alita nell'aria. E inquieta tutti. Certo, la realtà conta, ci mancherebbe. Ma, per "imporsi", deve bucare la notte.
Incendiare il buio. Altrimenti la notte, dopo un po', cala di nuovo e inghiotte tutto e tutti. E' questo il pericolo da evitare: che la "percezione" sia l'unico "fatto" significativo. Come ha rammentato Ezio Mauro, nel suo viaggio a Torino, intorno alla Thyssen. Dove ha incontrato gli operai. Invisibili, da tempo. Per diventare visibili hanno dovuto bruciare. In sette. Come torce. Ora che si sono "spenti", c'è il rischio che il buio li inghiotta di nuovo.
(13 gennaio 2008)
da repubblica.it
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Rubriche Bussole
Democrazia minima
Ilvo Diamanti
Si odono ancora, distintamente, gli echi delle polemiche sollevate dalla rinuncia di Papa Benedetto XVI a proporre la sua lezione magistrale all'Università "la Sapienza" di Roma. Preoccupato dalla lettera dei 67 professori che avevano espresso il loro dissenso verso la sua visita. E dalle manifestazioni annunciate da alcuni circoli di studenti, anch'essi apertamente contrari all'arrivo del Papa. Anche se, probabilmente, oltre alla preoccupazione è subentrata l'irritazione per il mancato senso di ospitalità (non si invita qualcuno a casa propria per poi comunicargli che i figli lo accoglieranno, all'ingresso, per fischiarlo). Senza trascurare la volontà del Vaticano di far passare la religione civile che coltiva la centralità della "ragione" dalla parte del "torto". Rovesciando sui "militanti laici" la critica di intolleranza che, da qualche tempo, accompagna il rinnovato protagonismo della Chiesa sulla scena pubblica.
Le polemiche dei giorni seguenti (che proseguono ancora) si sono concentrate, soprattutto, sul concetto di laicità, di libertà, pluralismo. In particolare, è stata criticata - giustamente, a nostro avviso - l'azione volta a impedire la lezione di Joseph Ratzinger. Pontefice, ma anche eminente filosofo e teologo: sarebbe stato di casa all'Università. Per contro, altre voci, più circoscritte, hanno insistito sull'inopportunità che l'autorità più rappresentativa della Chiesa aprisse le lezioni di un centro di cultura pubblica e "laica", qual è la più grande università italiana.
Noi, tuttavia, vorremmo spostare l'attenzione dalla luna al dito che la indica. In altri termini, intendiamo soffermarci su un aspetto laterale, rispetto a questa discussione. E, tuttavia, sintomatico del male che affligge il nostro (povero) Paese; e indebolisce la nostra democrazia. Ci riferiamo alla sproporzione delle forze in campo.
Sessantassette professori esprimono il loro dissenso verso una iniziativa dell'Università in cui insegnano. Insieme ad altri 2000 docenti. Affiancati da circa 300 studenti, che manifestano la loro protesta. E la rilanciano giovedì scorso, quando avviene l'inaugurazione. Senza il Papa, ma di fronte al sindaco Veltroni e al ministro Mussi. Studenti molto diversi da quelli del mitico '68. Definiti e auto-definiti "autonomi", non perché si ispirino ai collettivi e ai movimenti "rivoluzionari" degli anni Settanta, ma perché dichiaratamente estranei e antagonisti rispetto ai soggetti politici attuali. "Antipolitici", per usare le categorie del nostro tempo. Ripetiamo un'altra volta: 300 studenti. Trecento: in una Università dove gli iscritti sono circa 140 mila.
Il nostro appunto (e disappunto) è riassunto da questi numeri. Una iniziativa di grande rilievo pubblico e di grande importanza simbolica si è, infatti, incagliata sul dissenso espresso dal 2,8% dei professori e dallo 0,2% degli studenti. Tanta sproporzione suggerisce una considerazione inquietante. La nostra democrazia non è più in grado di sopportare neppure una frazione di conflitto e di opposizione così ridotta. L'opposizione di alcuni professori di Università. Ambiente dove è, quantomeno, normale che vengano espresse distinzioni, differenze; talora "eresie" culturali. La sfida irrequieta e "maleducata" di un drappello di giovani studenti. Ai quali, per età e condizione, va concessa la possibilità anche di sbagliare in proprio. Hanno di fronte una vita per sbagliare con la testa degli altri.
Una democrazia incapace di "tollerare" un dissenso così minuscolo - anche se esprime posizioni "poco tolleranti" - è seriamente malata. Tanto più se, poi, cede. Non è in grado, comunque, di garantire il rispetto delle scelte assunte dagli organi di governo legittimi; condivise dalla stragrande maggioranza della società.
La colpa non è del 2% degli intellettuali che si oppone, né dello 0,2% della popolazione che manifesta. E' delle istituzioni, delle autorità che si arrendono loro.
Una democrazia che, come in troppe, altre, precedenti occasioni, si piega di fronte a pressioni minime. E non sopporta il minimo dissenso. E' una democrazia minima.
(18 gennaio 2008)
da repubblica.it
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POLITICA IL COMMENTO
La notte della Repubblica
di ILVO DIAMANTI
SETTIMANE come questa lasciano un sentimento di sconcerto di rara intensità. Un giorno dopo l'altro, una cattiva notizia. Un'emergenza.
Senza soluzione di continuità. I rifiuti di Napoli e le polemiche sulla lezione di Benedetto XVI alla Sapienza, annunziata e successivamente annullata. Le accuse dei magistrati a Sandra Lonardo e al marito, Clemente Mastella; e le dimissioni del ministro Guardasigilli. L'appoggio esterno dell'Udeur al governo (un paradosso) e la possibile crisi.
L'inchiesta sulle segnalazioni di Berlusconi a Saccà e la condanna del governatore siciliano Cuffaro per favoreggiamento. E ancora: i contrasti fra Confindustria e sindacato, le proteste dei metalmeccanici. Fino alla nuova tragedia sul lavoro, a Marghera. Non manca proprio nulla al catalogo dei mali italiani - antichi e nuovi. Per cui cresce la tentazione popolare (non di rado praticata) di star lontani dai giornali e dai telegiornali. Oppure, di girare pagina e canale ogni volta che incontriamo la politica, ma anche la cronaca.
L'inverno civile che stiamo attraversando non accenna a chiudersi, tanto meno a intiepidirsi.
Non deve sorprende, allora, se, da molte parti, si evocano i primi anni Novanta. La fine della prima Repubblica. L'avvio di una transizione patologica che non transita mai, ma diventa sempre più indecifrabile.
Molti segni, d'altronde, suggeriscono questo accostamento. Gli (esorbitanti) indici di sfiducia nelle istituzioni e negli attori politici; il ricorso al referendum sulla legge elettorale; gli scontri fra magistrati e politici. Il copione di questa stagione rammenta da vicino quello di quindici anni fa. C'è, per questo, chi invoca il '92; una nuova frattura. Per ritentare l'impresa avviata allora, senza fortuna. Voltare pagina, andare oltre "l'anomalia italiana".
Come la chiamavano gli osservatori stranieri. Come la percepivano, con fastidio, gli stessi italiani. I quali, però, oggi assistono spaesati alla catena senza fine delle cattive notizie. Quasi rassegnati. Perché molto è cambiato dal '92. A differenza di allora, non hanno ganci a cui attaccarsi, né reti che li tengano insieme. Ma, soprattutto, non riescono a guardare avanti. A sperare.
1. Agli inizi degli anni Novanta, gli italiani, di fronte alla dissoluzione dei partiti e alla delegittimazione della classe politica, potevano aggrapparsi ad alcuni appigli. I magistrati, considerati i "giustizieri". I tribuni del popolo indignato, che "non ne poteva più". I nuovi soggetti politici, emersi nel vuoto prodotto dallo sbriciolarsi della prima Repubblica. Partiti: la Lega, la Rete. In seguito, Berlusconi e Forza Italia. An, cresciuta sulle radici del Msi. Mariotto Segni e i referendari. L'Ulivo nascente. Inoltre, i sindaci, che colmavano la distanza fra istituzioni e società "personalizzando" il rapporto con i cittadini su base locale.
La "questione settentrionale", agitata dalle piccole imprese e dai movimenti autonomisti, non marcava solo distacco, ma anche domanda di riforme profonde. E alimentava il disordinato dinamismo del Mezzogiorno. Sotto il profilo economico, dell'associazionismo, delle città.
Poi, ci rassicurava il vincolo esterno imposto dall'Unione Europea. Che ci costringeva a comportamenti finanziari ed economici virtuosi. In fondo, la grande fiducia riscossa dall'Unione Europea in quegli anni rifletteva la grande sfiducia nello Stato e nella classe politica del nostro Paese.
2. Il Paese, per quanto diviso e attraversato da tensioni profonde, nei primi anni Novanta era tenuto insieme da alcune grandi organizzazioni di rappresentanza economica, dalle associazioni volontarie. La "concertazione", promossa da Ciampi (al tempo presidente del Consiglio) insieme a sindacati, Confindustria e, in seguito, ad altre organizzazioni di categoria, costituì un metodo per affrontare la crisi economica del Paese. Ma anche per ridurre il deficit di consenso e di fiducia nelle istituzioni. D'altronde, insieme al "muro" erano crollate anche le ideologie.
Mentre, dopo la fine della Dc, i cattolici si erano "sparsi" in tutte le direzioni, in tutti i principali partiti.
L'Italia, quindici anni fa, nonostante le tensioni e le fratture, appariva un Paese accomunato dalle particolarità; per questo flessibile, capace di adattarsi, di "arrangiarsi" nelle occasioni più difficili. Di reagire alle emergenze. Anzi: di reggere alle fratture (come quella Nord/Sud) e di trasformare le emergenze in motivo di unità e rilancio. Oggi, invece, i colpi e i contraccolpi che scuotono il sistema non suscitano speranza. Solo spaesamento.
3. I ganci si sono sganciati. Rispetto ai primi anni Novanta è cresciuta ulteriormente la sfiducia nei confronti dei "partiti" e dei "politici". La "casta" dei privilegiati (per riprendere il titolo del fortunato libro di Stella e Rizzo). Contro cui si è mobilitata una protesta "antipolitica" molto ampia. Il cui esponente più significativo è Beppe Grillo.
I sindaci, soprattutto al Sud, non fanno più miracoli. Anzi. I cittadini li sentono lontani, quanto e più degli altri politici. Il Paese si è spezzato. Il Mezzogiorno: rientrato nella spirale del sottosviluppo, ricacciato negli stereotipi del passato. Il Nord - e il Nordest, in particolare - impegnato a marcare le distanze da Roma e dal Sud. L'Unione Europea non è percepita più come un'ancora, ma, da una quota crescente di cittadini, come un vincolo, un freno. Il Paese più eurottimista d'Europa, infine, è divenuto euroscettico. Insofferente verso l'euro, considerato responsabile dell'inflazione crescente. Per alcuni attori politici, come la Lega, Bruxelles è, da tempo, come Roma. Entrambe capitali di Stati nemici.
I magistrati non godono più del consenso popolare. La fiducia nei loro confronti si è quasi dimezzata, rispetto a quindici anni fa. Ma è calata anche rispetto a pochi anni addietro. Sono percepiti non più come "garanti" della democrazia, ma come "un" potere in conflitto con gli altri.
4. Non c'è più colla a tenere insieme i pezzi della società e del Paese. Le organizzazioni economiche e sociali - Confindustria e sindacati in primo luogo - appaiono anch'esse largamente "sfiduciate" dai cittadini. Non "concertano" più. Confliggono, si dividono e dividono. La stessa presenza di grandi associazioni oggi appare un po' sbiadita. Le Onlus si stanno trasformando in grandi imprese, per quanto dedite a finalità benefiche. Parte del volontariato si è, anch'esso, aziendalizzato. La compassione e la solidarietà si sono mediatizzate. Praticate a distanza. Un Sms, un'offerta sul proprio conto. Un clic e via. Siamo più buoni.
Cattolici e laici: non definiscono più identità compatibili. Ma sempre più alternative. Solchi di una comunità che non è più tale. Divisa dall'etica e nella politica.
5. Così, anche i rimedi e le terapie non hanno più la stessa presa di un tempo. Lo stesso referendum è accolto dai più (che lo sostengono) come il male minore. Una pistola puntata alla tempia, per costringere il legislatore a legiferare. Ma dopo vent'anni di referendum elettorali, affidare loro una missione salvifica pare davvero troppo. Anche la minaccia di nuove elezioni.
Magari, anzi, probabilmente si avvia a diventare un destino ineluttabile. Ma è difficile immaginare che un nuovo terremoto, uno strappo violento, possa sottrarci a questa condizione miserevole. Perché, quindici anni dopo, è svanita la speranza che aveva accompagnato il "crollo" del sistema. Quasi come un evento liberatorio. Una palingenesi che avrebbe fatto sorgere un ordine nuovo. Uomini nuovi. Per questo, ora che è quasi buio, affrontare la notte di una lunga campagna elettorale fa correre un brivido.
Senza ganci, senza colla, senza cornici. Ma con queste regole, queste divisioni, questi partiti e questi leader, in gran parte responsabili della lunga e improduttiva transizione italiana. Qualcuno è disposto a sperare ancora in un big-bang che riunisca i pezzi di questo Paese a pezzi? E che, per caso (o per caos), ricomponga il complesso mosaico italiano?
(20 gennaio 2008)
da repubblica.it
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