ILVO DIAMANTI -
Arlecchino:
Il Paese dei campanili così legato alle tradizioni: "Noi prima di tutto italiani"
Nell’indagine realizzata da Demos, Veneto e Lombardia sono lontani da Barcellona: i venti d’autonomia spirano sempre più deboli
Di ILVO DIAMANTI
25 settembre 2017
L'IDENTITÀ territoriale, in Italia, appare, fin dai tempi dell'Unità, attraversata da tensioni profonde. I referendum sull'autonomia, che si svolgeranno in Lombardia e nel Veneto, fra meno di un mese, sono destinati ad acuire le divisioni. Tanto più perché il clima del confronto fra centro e periferia, fra Stato e Regioni, si è surriscaldato, dopo l'intervento del governo contro la legge veneta che prevede l'esposizione del gonfalone di San Marco negli edifici pubblici.
Un provvedimento che rischia di accendere una campagna elettorale fin qui piuttosto spenta. Evocando, con qualche forzatura, l'esempio catalano.
L'Italia è storicamente segnata dalla distinzione, per alcuni versi una "frattura", fra Nord e Sud. E, quindi, dalla "questione meridionale", affiancata e sfidata, negli ultimi decenni, da una "questione settentrionale", polemica non solo verso il Mezzogiorno, ma, anzitutto, contro lo Stato. L'Italia, peraltro, ha sempre presentato un'identità frammentata da particolarismi. Carlo Azeglio Ciampi, Presidente della Repubblica nella seconda metà degli anni Novanta, una fase particolarmente accesa da conflitti territoriali, era solito dire che "l'Italia è un Paese di paesi. E di città. Unito dalle sue differenze." In altri termini, dal suo pluralismo di tradizioni, culture, paesaggi. Un "Paese di paesi". Mi sembra una definizione efficace e di lunga durata dell'Italia. Evoca, infatti, un profilo che si ripropone ancora oggi, quando si indaga sulle diverse e principali appartenenze territoriali dei cittadini.
Lo dimostrano i dati di un sondaggio di Demos (per Intesa Sanpaolo), condotto nelle scorse settimane. Dal quale emerge un sentimento di appartenenza territoriale composito e frastagliato. I contesti nei quali si riconoscono gli italiani, infatti, sono diversi. Anzitutto, l'Italia, indicata come primo riferimento dal 23% del campione. Quasi 1 italiano su 4. Ma ciò significa che gli altri 3 guardano altrove. In particolare: alla loro città (quasi 2 su 10). Quindi, alla loro Regione (12%). Poi alla "macro- area". Nord, Centro e Sud, insieme, raccolgono quasi il 20% delle preferenze "territoriali". Ci sono, infine, molte persone che si orientano oltre i confini nazionali e locali. L'8% si definisce, anzitutto, europeo. Mentre il 18% si rivolge in primo luogo "al mondo". Esprime, dunque, uno spirito apertamente "cosmopolita".
LE TABELLE
Nell'insieme, dunque, circa metà delle persone intervistate si richiama anzitutto all'ambito "locale". Gli italiani. Si dicono milanesi, napoletani, siciliani, veneti, piemontesi. Bolognesi, toscani. Romani. Marchigiani. Ma anche: del Nord oppure meridionali. Nel Mezzogiorno, in particolare, il sentimento "meridionalista" scavalca il 22%. Tuttavia, se consideriamo anche la seconda indicazione, cioè l'altra identità territoriale possibile per i cittadini, l'Italia si ripropone con forza, su livelli molto elevati. E ciò sottolinea una tendenza anch'essa di "lunga durata", del nostro "Paese di paesi". Ne ho scritto altre volte, in passato, visto il mio vizio di osservare il territorio, come chiave di lettura degli orientamenti politici, ma anche sociali. Noi siamo un popolo di "e italiani". Oppure, reciprocamente, di "italiani e". Detto in altri termini: siamo milanesi, napoletani, siciliani, veneti, piemontesi. Bolognesi, toscani. Cuneesi e vicentini. Romani. Marchigiani. Meridionali, settentrionali. "E" italiani. Ma anche viceversa. Italiani "e"... romani, napoletani, emiliani. E via dicendo. Le diverse identità territoriali, dunque, non appaiono in contrasto con quella nazionale. Ma ne costituiscono, semmai, il complemento.
La conferma giunge se osserviamo questi orientamenti in controluce. Attraverso il contesto territoriale ritenuto "più lontano". Il distacco dall'Italia, infatti, continua ad apparire limitato. Espresso da una quota di persone inferiore al 10% (il 7%, per la precisione). Nonostante i localismi e le pulsioni indipendentiste - anche se non più apertamente secessioniste - che agitano il Paese. L'ambito che ha visto crescere maggiormente il distacco dei cittadini, negli ultimi 10 anni, è, invece, l'Europa. Com'era prevedibile.
Dunque, siamo e restiamo un "Paese di paesi". Di città e di regioni. Un Paese dall'identità incompiuta e, quindi, "debole". Ma, per questo, dotato di "resistenza". In grado di superare le sfide che vengono dall'esterno. Dalla globalizzazione. Dal cammino incerto dell'Europa. Dalle presunte "invasioni". Perché il perimetro delle nostre appartenenze è aperto e flessibile. Capace, per questo, meglio di altri, di adattarsi ai cambiamenti e alle tensioni che giungono anche dall'interno.
Così, i referendum che si svolgeranno nel Lombardo-Veneto vanno ricondotti al significato reale che assumono presso i cittadini. Esprimono, cioè, una domanda di autonomia, non di distacco. (Il quesito referendario, d'altronde, parla di autonomia, non di indipendenza). Ma riflettono anche la ricerca di consenso politico e personale, da parte dei partiti e dei governatori - leghisti - che guidano le Regioni. (Come suggerisce un sondaggio dell'Osservatorio Nordest di Demos, di prossima pubblicazione sul Gazzettino). Così, a mio avviso, ha ragione Massimo Cacciari quando recrimina contro coloro (il governo regionale del Veneto) che hanno approvato la legge sull'esposizione della bandiera con il "Leone di San Marco". Ma anche contro chi l'ha "impugnata" (il governo nazionale). Perché: "queste cose non fanno che alimentare le pulsioni di quelli che andranno a votare al referendum". In altri termini: questa polemica rischia di amplificare la campagna elettorale in vista del referendum autonomista. Con l'effetto - imprevisto e non voluto dal governo nazionale - di mobilitare i cittadini. Fino ad oggi piuttosto distratti, intorno a questa scadenza.
Peraltro, anche l'iniziativa del governo regionale del Veneto potrebbe avere effetti imprevisti, dai promotori. Perché la bandiera "venetista" issata non "al posto di", ma "accanto a" quella italiana potrebbe essere concepita come una conferma ai dati presentati in questa Mappa. Che non pre-vedono l'alternativa: veneti O italiani. Ma, al contrario, l'integrazione reciproca: veneti E italiani. Guidati da Luca Zaia: il governatore di una Regione italiana. Perché il Lombardo-Veneto non è la Catalogna.
© Riproduzione riservata 25 settembre 2017
Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/09/25/news/il_paese_dei_campanili_cosi_legato_alle_tradizioni_noi_prima_di_tutto_italiani_-176427225/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P4-S1.8-T1
Arlecchino:
Il Pd ha 10 anni, ma ne dimostra molti di più
Il 14 ottobre 2007 nasceva il principale partito del centrosinistra, l'ultimo erede di Dc e Pci. Ma da allora molte cose sono cambiate
Di ILVO DIAMANTI
09 ottobre 2017
IL PARTITO democratico compie (quasi) dieci anni. Il 14 ottobre del 2007 si svolgevano, infatti, le primarie per l'elezione dell'Assemblea costituente. E del segretario. Le primarie rappresentano, dunque, il "rito fondativo" del Pd, per citare la formula coniata da Arturo Parisi. Insieme a Prodi, il sostenitore più determinato - e determinante - del passaggio dall'Ulivo dei partiti al partito dell'Ulivo. Un soggetto politico unitario del centrosinistra (senza trattino) capace di aggregare i principali partiti che avevano accompagnato la storia della Prima Repubblica: Dc e Pci. Per allargarne i confini. Da allora, molto tempo è passato e molte cose sono cambiate. Mi limito a indicarne due. La "scissione" recente delle componenti - e di alcuni leader - di sinistra, che ne ha mutato l'identità originaria. E la progressiva personalizzazione, che ha segnato il passaggio da Pd a PdR. Tanto più dopo le primarie (stra)vinte da Matteo Renzi, lo scorso fine aprile.
LE TABELLE …
C'è però un aspetto, meno dibattuto, che vale la pena di analizzare. Perché, a mio avviso, ha contribuito e contribuirà a modificare ulteriormente l'identità del PD. Ma, soprattutto, la sua capacità di interpretare un progetto. Di agire da "spina dorsale di un sistema malato" come ha scritto di recente, su queste pagine, Ezio Mauro. Mi riferisco alla struttura sociale della base attiva. Coinvolta nelle Primarie. Riguarda, soprattutto, il profilo dell'età. Infatti, il PD compie 10 anni, ma, in realtà, ne (di)mostra molti di più.
È invecchiato, soprattutto negli ultimi anni. Un aspetto significativo, che va tenuto sotto osservazione. Da chi si riconosce nel PD. Ma non solo. Anche se, considerando le intenzioni di voto "politico", emergono indicazioni più articolate. Il PD (Demos, settembre 2017) ottiene, infatti, consensi molto maggiori rispetto alla media fra gli "anziani" (con oltre 65 anni). Ma anche fra i più "giovani" (sotto i 30 anni). Presso i quali il PD "compete" con il M5s. Che, invece, cala sensibilmente fra gli "anziani". PD e M5s, secondo i sondaggi, risulterebbero i partiti più "votati", in questa fase.
È significativo che entrambi si affidino alle primarie, per selezionare i propri candidati. E, nel caso del M5s, per scegliere il leader. Naturalmente, interpretano due modelli diversi. Anzi: alternativi. Come rivelano i metodi utilizzati per le Primarie. Online, in-rete, nel caso del Movimento 5 Stelle. Un non-partito anti-partito, che tende a distanziarsi dagli altri. Anche nelle forme di partecipazione. Dall'altro lato, il PD. Erede dei partiti di massa.
Che, per questo, adotta metodi di partecipazione più tradizionali. Le Primarie costituiscono il tentativo di superare il passato. Adottando il modello utilizzato negli USA. Non per caso, per il PD, viene evocata la "via americana". Con la differenza, decisiva, che in Italia le (sue) Primarie avvengono nel solco dei partiti storici, che facevano della partecipazione un metodo di radicamento sul territorio.
Per questo è particolarmente interessante osservare come sia cambiata la partecipazione nel corso del tempo. Dal 2007 ad oggi, nel 2017. Anzitutto dal punto di vista della base coinvolta. Che si riduce progressivamente. In modo molto rilevante. Da oltre 3milioni e 550mila elettori (militanti), nel 2007 (quando si afferma Veltroni), si scende, infatti, a 3 milioni e 100mila, nel 2009 (affermazione di Bersani). Nel 2013 l'affluenza si ridimensiona ancora: 2 milioni e 800mila. Quest'anno, infine, scivola di circa un milione. E si attesta intorno a 1 milione e 800 mila. È interessante osservare come il calo più sensibile, per non dire il crollo, della partecipazione avvenga con l'avvento di Matteo Renzi. L'innovatore. Anzi: il "rottamatore". Il quale, lo scorso aprile, trionfa con il circa 70% dei voti. Eppure non riesce a frenare il disincanto politico, che consuma la passione verso i partiti. Ma soprattutto il PD. Perché il PD resta "l'ultimo partito", come recita il titolo di un interessante saggio di Paolo Natale e Luciano Fasano, appena pubblicato (da Giappichelli). Insieme all'ampiezza, cambia, in modo significativo, anche la struttura della partecipazione. Soprattutto, riguardo all'età. Se ci limitiamo alle due ultime consultazioni, l'evoluzione appare evidente. I votanti più giovani (16-34 anni) scendono dal 19%, nel 2013, al 15% nel 2017. Ma, soprattutto, nelle Primarie, è la quota di elettori "anziani" (65 anni e oltre) a crescere in misura rilevante: dal 29% nel 2013, al 42% nel 2017. Mentre, per quel che riguarda il voto al PD alle elezioni politiche, dal 2007 al 2017 (stime Demos) l'incidenza delle classi di età più giovani (18-34 anni) e anziane (65 anni e oltre), appare costante. Rispettivamente, intorno al 23-24%, i giovani, e al 40%, gli anziani.
Questi dati suggeriscono come sia in atto un cambiamento sensibile nella base del PD. Sta invecchiando. In misura molto più rapida e sensibile rispetto alla popolazione - e all'elettorato nell'insieme. Ma se il partito riesce ancora a intercettare il voto dei più giovani, in misura perfino superiore alla media, non riesce, però, ad appassionarli. I "giovani- adulti" (30-40enni), d'altronde, sono sempre più attratti dal M5s. Così, alle Primarie, come abbiamo osservato alcuni mesi fa, si è recato un "popolo dai capelli grigi" (o con pochi capelli...). Affiancato e accompagnato, talora, dai figli (e dai nipoti...). E ciò proietta ombre inquietanti sul futuro.
Perché è vero che la partecipazione attraverso i partiti è in declino.
Ma senza partecipazione i partiti non hanno speranza. Tanto più i partiti che hanno una storia radicata nella società e nel territorio. Come il PD. Per loro, oggi, la "rete" è utile, anzi necessaria. La televisione: inevitabile. Ma non possono bastare. Parallelamente, la "personalizzazione" procede senza sosta. Tanto più in tempi di "democrazia del pubblico". Di "democrazia digitale". Ma rischia di diventare deleteria. Trasformarsi in un "Partito personale", nel "Partito del capo" (per citare le note definizioni di Calise e Bordignon), diventare PdR. Distaccarsi dalla società e dal territorio.
A dispetto dei propositi di rottamazione: significa "invecchiare". Perdere il futuro.
© Riproduzione riservata 09 ottobre 2017
Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/10/09/news/il_pd_ha_10_anni_ma_ne_dimostra_molti_di_piu_-177744552/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P9-S3.4-T2
Arlecchino:
No a politica e religione, per i giovani è l’era delle passioni tiepide
Osservatorio Demos-Coop: si assottigliano le differenze tra generazioni e cresce la dipendenza dalla famiglia. Italiani sempre più incapaci di accettare le responsabilità della vita adulta.
La vecchiaia è l’unica paura comune e la gioventù dura fino a 52 anni
Di ILVO DIAMANTI
30 ottobre 2017
PARAFRASANDO il titolo di un noto libro, potremmo dire che viviamo in un'epoca di "passioni tiepide". Non "tristi", come quelle evocate da Miguel Benasayag e Gérard Schmit nel loro saggio (pubblicato nel 2004 da Feltrinelli). Piuttosto: "disincantate". Interpretate con realismo. In particolare dai giovani. Abituati a proiettare il futuro nel loro sguardo. E a orientare il nostro. Perché i giovani "sono" il futuro.
È l'immagine suggerita dal sondaggio dell'Osservatorio di Demos-Coop, condotto nei giorni scorsi e proposto oggi su Repubblica.
D'altronde, la società, e soprattutto i giovani, si sono abituati al clima di sfiducia che grava su di noi. Ormai da troppi anni. Così, lo attraversano senza troppa paura. In particolare, i "giovani-adulti" (secondo i demografi), la "generazione del millennio", secondo l'Istat.
Insomma, coloro che hanno fra 25 e 36 anni e stanno a metà fra giovinezza ed età adulta. E cumulano l'insicurezza di chi ha di fronte un futuro carico di incognite e la sicurezza di chi i problemi del futuro ha iniziato a sperimentarli. È la metafora di una società che non accetta di invecchiare. Dove tanti, quasi tutti, vorrebbero restare "per sempre giovani". A costo di protrarre all'infinito le incertezze degli adolescenti. È un aspetto che avevamo già osservato altre volte, in passato. Ma oggi si ripropone, in modo, se possibile, più marcato. La giovinezza, secondo gli italiani, si allunga sempre più. Quanto più gli anni passano. Fra coloro che non superano i 36 anni, la giovinezza finisce poco più avanti: a 42 anni. Poi, via via che gli anni passano, anche la giovinezza si allunga. Fino a 62 anni, per coloro che hanno superato 71 anni. La "generazione della ricostruzione". Parallelamente, si allontana anche la soglia della vecchiaia. Tanto che, secondo i più anziani, pardon, i "meno giovani", si diventa "vecchi" solo dopo aver compiuto 80 anni. Non è una novità. La nostalgia della giovinezza spinge a negare la vecchiaia. E induce ad accettare di essere vecchi... solo dopo la morte. Eppure, ogni volta mi stupisco. Non riesco a farmene una ragione. La vecchiaia come dis-valore: significa negare l'importanza dell'esperienza. La maturità. D'altra parte, l'età adulta si restringe sempre di più. Così, la nostra biografia accosta e oppone gioventù e vecchiaia. Una accanto all'altra. E riduce l'età adulta a un passaggio rapido. Quasi occasionale. "Diventare grandi", una promessa attesa, quando ero bambino, oggi appare quasi una minaccia. Al più ci è concessa la condizione di "adulti con riserva" (per citare un bel libro di Edmondo Berselli).
Le fratture generazionali, così, appaiono meno evidenti e meno marcate di un tempo. Io stesso, alla fine degli anni Novanta, avevo definito i giovani una "Generazione invisibile" (Ed. Il Sole 24ore, 1999). Per sottolineare la progressiva marginalità dei giovani, ma, ancor più, la loro coerenza con gli orientamenti degli... adulti. Meglio, dei genitori. Al punto da non coglierne più le distanze. Cioè: le specificità generazionali. D'altronde, gli anni delle contestazioni sociali, ma prima ancora, familiari - dei figli contro i genitori - erano lontani. In seguito, non si sono più riproposte. Anzi: i genitori, la famiglia, sono divenuti l'appiglio che permette ai figli di condurre la loro transizione infinita all'età adulta. Si spiega soprattutto così l'importanza attribuita dai più giovani ai rapporti con la famiglia. Ma soprattutto all'indipendenza e all'autonomia. Tre su quattro, fra quanti hanno fino a 24 anni, li considerano molto importanti. Nel 2003 erano poco più di uno su due. Segno evidente che il sostegno della famiglia è necessario, ma, al tempo stesso, aumenta, la domanda di in-dipendenza. Di crescere e auto- realizzarsi. Di affermarsi e "fare carriera". Obiettivo ambito dal 41% dei più giovani: quasi 10 punti in più rispetto ai primi anni 2000. Una speranza che, per essere realizzata, li spinge a guardare - e andare - altrove.
I più giovani, insieme ai giovani-adulti, i millennials, sono la generazione della rete, la generazione più globalizzata. Abituati a comunicare a distanza. E a orientarsi verso "altrove", sostenuti dai genitori. E dai nonni. Per questo non riescono a sfuggire al senso di solitudine, che grava su tutta la società. Certo, i giovani-più-giovani sono sostenuti e aiutati da reti amicali più fitte. Ma i loro fratelli maggiori, i giovani-adulti, la "generazione del millennio", ne soffrono più degli altri. Nel sondaggio di Demos-Coop, il 39% di essi, quasi 4 su 10, ammettono di "sentirsi soli". D'altra parte, internet e i social media permettono di restare sempre in contatto con gli altri. Gli amici. Ma sei tu, davanti al tuo schermo. Da solo. Oppure in mezzo agli altri. A comunicare. Da solo. Con il tuo smartphone.
Così, le passioni non diventano "tristi", ma più tiepide. Perché le stesse "fedi" sbiadiscono. E si perdono. La politica: non interessa più quasi a nessuno. Anche fra i più giovani. Presso i quali la componente che considera importante la politica non va oltre il 14%. Poco sopra alla media generale. Sono lontani i tempi della "contestazione". La stessa "generazione dell'impegno" - del '68 - appare disillusa. Elisa Lello, in una ricerca pubblicata alcuni anni fa, ha parlato di una "triste gioventù", (Maggioli, 2015). Insomma, non c'è più fede. Soprattutto fra i più giovani. Lo ha spiegato Franco Garelli, studioso delle religioni giustamente ri-conosciuto, in un testo dal titolo esplicito: "Piccoli atei crescono" (Il Mulino, 2016). L'indagine di Demos- Coop lo conferma, visto che la religione è ritenuta importante solo dal 7% della "generazione della rete". Un quarto, rispetto alla popolazione nell'insieme. Meno di un terzo rispetto al 2003.
In altri termini, "non c'è più religione". Soprattutto fra i più giovani. Così, diventa difficile provare "passioni". Accese e perfino tristi. Prevale il disincanto.
E le passioni si raffreddano. Divengono tiepide. Eppure conviene "credere" nei giovani. Perché, comunque, più di tutti gli altri, "credono" nell'Europa. Perché sono il nostro futuro. E più di tutti gli altri, "credono" nel futuro.
© Riproduzione riservata 30 ottobre 2017
Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/10/30/news/no_a_politica_e_religione_per_i_giovani_e_l_era_delle_passioni_tiepide-179732808/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-T1
Arlecchino:
Ilvo Diamanti, Marc Lazar
POPOLOCRAZIA
La metamorfosi delle nostre democrazie
Argomenti:
Attualità politica ed economica
La dinamica politica è diventata elementare: il popolo contro le élite, quelli in basso contro quelli in alto, i ‘buoni’ contro i ‘cattivi’. La ‘popolizzazione’ degli spiriti e delle pratiche politiche ha disseppellito il mito della ‘vera democrazia’ forgiata dal “popolo autentico” con ciò minando alle fondamenta la democrazia rappresentativa che si avvia a diventare una popolocrazia. Il populismo è comparso e compare sempre in periodi di forti incertezze, di traumatici, di fasi di crisi. Crisi economiche, sociali, culturali. E, soprattutto, crisi politiche quando rientrano nell’ambito dell’eccezionale, dell’inatteso, dell’imprevisto, dell’inedito: la delegittimazione dei governanti, delle istituzioni, delle regole e delle norme in vigore, delle abituali procedure di mediazione. È su questo terreno che i populisti possono prosperare, dipingendo un quadro apocalittico del presente e proponendo il ritorno a un passato favoleggiato o facendo intravedere un futuro radioso. Sono contemporaneamente i prodotti di queste crisi e i loro creatori. Come sta rispondendo la democrazia a tutto questo? Ahimè inglobando elementi di populismo: adeguando gli stili e il linguaggio politico, i modelli di partito, le scelte e le strategie di governo. In una parola, sta trasformando se stessa in una popolocrazia.
Da https://www.laterza.it/index.php?option=com_laterza&Itemid=97&task=
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