SINISTRA DEMOCRATICA 2 (del dopo elezioni).

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Cara Sinistra ecco perché perdi

* Sandro Bondi


Gentile Direttore,

Alfredo Reichlin, in un recente articolo su l’Unità, ha testimoniato un’onestà intellettuale non comune. Del resto, dobbiamo a Reichlin un importante saggio di alcuni anni fa dedicato alla memoria ed al futuro della sinistra. Un saggio che, senza nascondere le difficoltà, apriva ad un riformismo progettuale di ampio respiro. Il capitolo generale della crisi attuale del mondo globalizzato attende ancora una lettura analitica e operativa. La politica non può che attrezzarsi a questo compito. Il sostanziale riconoscimento dell’arretratezza culturale della sinistra, che la rende inadeguata a questa sfida, è sotto gli occhi di tutti. Reichlin non fa sconti e fa bene. Se è vero, come è vero, che l’oligarchia finanziaria ha finora guidato la mondializzazione, è altrettanto vero che la sinistra si è trastullata in improbabili annessioni di modelli neoliberistici, oggi messi in discussione da esponenti dello stesso liberismo americano. Un errore culturale e quindi strategico.

L’orizzonte teorico deve aprire, infatti, al recupero di una visione politica all’altezza della crisi.

In una seria analisi dello stato delle cose non si può censurare questo dato. La categoria rubricata alla voce “destra” non favorisce la comprensione della realtà: di che si tratta? Lo stesso Reichlin accoglie nella sua disamina politica elementi critici e analitici svolti da Tremonti nel suo ultimo saggio. Tradotto in termini più direttamente politici: la politica deve ritornare a guidare l’economia come cifra del governo della globalizzazione. E ciò a fronte di tre crisi che si stanno sovrapponendo: finanziaria, energetica ed alimentare. Il Rapporto Unicef 2008 conferma che ci troviamo di fronte a un’emergenza devastante che tocca in primo luogo le radici dello sviluppo dei Paesi del Terzo Mondo ed, in parte, anche di quelli in via di sviluppo. I Paesi democratici più avanzati non possono non farsi carico di una tragedia che rischia di produrre un effetto di crisi sull’intero sistema mondiale, a cominciare da quello europeo-occidentale, attraversato già da una rilevante crisi finanziaria. Quando aumenta vertiginosamente il prezzo delle derrate alimentari e la fattura cerealicola dei Paesi poveri aumenta proporzionalmente, e quando abbiamo ben trentasette Paesi che attualmente attraversano crisi alimentari, dalla Somalia al Nicaragua, c’è anche il rischio che i gruppi religiosi più integralisti possano sfruttare questa situazione. Si tratta perciò di ristabilire il nesso tra lo sviluppo basato sul capitalismo democratico e la necessità di “spezzare le catene della povertà. È questa la sfida principale da vincere per ridare senso e slancio alla politica occidentale, europea ed americana. Questo tema è posto all’ordine del giorno da 21 saggi che hanno scritto un appello contro la “mondializzazione selvaggia”, pubblicato su Le Monde. Fra questi, vi sono fior di liberisti, a cominciare da Robert Rubin e Robert Solow, premi Nobel.

In gioco non sono solamente le dimensioni partitiche del confronto politico italiano. La posta in gioco è ben più corposa. Le dinamiche strutturali del capitalismo stanno mutando tutti gli scenari. Tutti. Anche quelli politico-istituzionali. Anche la democrazia. La sinistra perde e non convince più neanche gli operai perché traduce la crisi in reattività polemica in chiave moralistica oppure si fa scudo di corpi estranei come il neoliberismo, sul piano economico, e il laicismo, sul piano culturale. Senza aver costruito quel che Reichlin auspica: un modello culturale per la politica.

Ora, anche la questione della sicurezza, su cui ha ragionato Reichlin, con toni stavolta assai meno efficaci, si comprende all’interno di queste complesse dinamiche strutturali e non motivando una critica di natura etico-soggettivistica, che rischia di fermarsi alla denuncia del male, senza produrre lo scatto in avanti dell’analisi che conduce all’azione politica, al governo della realtà. Il territorio è diventato strategico non solo come spazio economico, ma, ancor più radicalmente, come spazio economico-politico, dunque la sicurezza come affermazione della legalità diventa la cartina di tornasole più netta di una chiara scelta culturale: si tratta della riaffermazione della legalità repubblicana e democratica. L’emergenza che vediamo oggi è l’esito di una mondializzazione mal concepita e non governata. Occorre andare al di là dell’emergenzialismo e situare le risposte con una visione strategica. Il che equivale a riaprire i capitoli della legalità e dell’immigrazione in tutta Europa. Basterebbe comparare i provvedimenti del nostro governo con quelli di Francia, Germania e Spagna, per comprendere quanto il governo del territorio e l’affermazione della legalità democratica siano uno dei fattori chiave della democrazia, anzi del modello di democrazia europeo. Questo significa “piantare i pedi sul terreno dei nuovi grandi conflitti”. Con un pensiero ed una risposta politica. La modernità è complessità allo stato puro, la politica deve stare al passo di questa congerie di mutamenti che spiazzano le modalità culturali ed analitiche classiche. Il confronto politico deve dunque spostarsi sul terreno dei conflitti reali, con un assetto culturale all’altezza dei tempi. Altrimenti la filosofia politica e, con essa, la politica faranno la fine della celebre nottola di Minerva che si leva sul far della sera. Troppo tardi.

*Ministro dei Beni e delle Attività Culturali



Pubblicato il: 27.05.08
Modificato il: 27.05.08 alle ore 13.36   
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Ferrero è in testa e Bertinotti torna per aiutare Vendola


Simone Collini


C’è chi guarda al pomodoro olandese (il “partito sociale” a cui punta Paolo Ferrero) e chi si interroga ancora sulle ragioni della sconfitta (Fausto Bertinotti), chi prova a far decollare il ticket per la costituente della sinistra che verrà (Nichi Vendola-Claudio Fava, primo faccia a faccia pubblico lunedì alla Festa della sinistra, a Genova) e chi si abbandona a una «dormita conviviale nel verde per combattere il mito della crescita infinita» (sabato a Torino, in chiusura della tre giorni titolata “Sinistra pride”). Libera da impegni parlamentari, la sinistra radicale prepara i congressi estivi ma intensifica anche le iniziative che dovrebbero portarla a risalire la china. Gli appuntamenti in piazza sono all’insegna dell’ottimismo, ma all’interno dei partiti il clima è tutt’altro che buono, complici gli ultimi sondaggi (il Prc non si muove dal 2,9% e il Pdci ruota attorno allo 0,9%) e divisioni precongressuali che nessuno sa dire a cosa potrebbero portare una volta che i congressi saranno terminati.

I rapporti più tesi si registrano dentro Rifondazione comunista, nella quale la discesa in campo di Vendola finora non ha portato alla linea bertinottiana della costituente della sinistra quel valore aggiunto che ci si era aspettati: alla fine delle votazioni nei comitati politici la mozione con cui il governatore della Puglia si candida a segretario del Prc ha incassato la maggioranza dei consensi nelle regioni del sud e nelle isole, ma nel nord a prevalere è stata la mozione Ferrero-Grassi, che ha anche ottenuto un successo superiore alle aspettative in una regione importante come la Toscana. È vero, come dice l’ex responsabile Organizzazione del partito Francesco Ferrara, che il vero congresso inizia ora e che finora sono stati consultati soltanto i gruppi dirigenti. Ma visti i botta e risposta delle ultime settimane, è facile intuire cosa succederà se la mozione Vendola vincerà senza però ottenere il 50%, oppure se (visto che dalla mozione Ferrero-Grassi già è partita qualche frecciata su un presunto tesseramento gonfiato nel sud) il governatore vincerà grazie ai tanti iscritti di Puglia, Campania e Calabria, pur non riuscendo a prevalere nelle regioni dal Lazio in su.

A rilanciare nei prossimi giorni la proposta della costituente di sinistra sarà Bertinotti. L’ex presidente della Camera ha pianificato una graduale rentrée politica che prevede lunedì la presentazione a Roma del libro di Piero Bevilacqua “Miseria dello sviluppo”, martedì un dibattito a Genova con Edoardo Sanguineti, giovedì un convegno dal titolo “Le ragioni della sconfitta”: Bertinotti aprirà e chiuderà i lavori, e con lui ci saranno Vendola, Rossana Rossanda, Ritanna Armeni, Franco Giordano, Alfonso Gianni.

Nello stesso giorno, nelle stesse ore, Ferrero sarà a un convegno sul cosiddetto «partito sociale», insieme all’ex ministro della Pianificazione sociale del governo del Venezuela Jorge Giordani e al parlamentare del Partito socialista olandese Tiny Cox. Il progetto di rilancio di Rifondazione, nelle intenzioni dell’ex titolare della Solidarietà sociale, si ispira proprio al cosiddetto partito del pomodoro (è nel simbolo, come richiamo alla protesta), che grazie al forte radicamento locale e alla centralità data alla questione morale (tetto massimo degli stipendi dei suoi eletti fissato a 2000 euro) è passato negli ultimi cinque anni dal 6 al 16%. Al convegno ci saranno associazioni di base che sperimentano pratiche contro il carovita, palestre popolari, centri sociali. «Non è un caso che organizziamo l’iniziativa al Pigneto», dice il responsabile politiche sociali del Prc Francesco Piobbichi.

Anche nel Pdci le acque si fanno piuttosto agitate. Per la prima volta dalla nascita del partito, ci saranno mozioni contrapposte a quella del segretario. A sfidare Oliviero Diliberto e la linea dell’«unire i comunisti» sarà Katia Bellillo, prima firmataria della mozione «Unire la sinistra». Nel documento si dice che «bisogna superare tutte le posizioni settarie e anacronistiche» e che «fra la sinistra e il Pd dobbiamo costruire un leale rapporto di collaborazione-competizione». Potrebbe non essere la sola a sfidare il segretario, visto l’attivismo dimostrato in commissione politica da Marco Rizzo, il suo parlare di una più specifica «costituente dei comunisti» e l’insistenza con cui ricorda che lui l’aveva detto che l’Arcobaleno era un fallimento. Se verrà bocciata la proposta di andare al congresso con documenti emendabili, Rizzo potrebbe uscire allo scoperto al comitato centrale di questo fine settimana, data ultima per la presentazione delle mozioni.

Pubblicato il: 06.06.08
Modificato il: 06.06.08 alle ore 12.12   
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Programma minimo per una sinistra egemone

(Proposta di integrazione al documento nazionale: Unire la sinistra che vuole rinnovarsi)


Per avviare una rigenerazione, su basi nuove, della sinistra nel nostro paese risulta indispensabile, unitamente al processo costituente di un nuovo soggetto politico della sinistra, individuare alcune basi programmatiche ed organizzative in grado di ristabilire una nuova “connessione sentimentale” fra La Sinistra ed il proprio, ricostruito, popolo. Connessione sentimentale che sarà possibile realizzare solamente prefigurando un nuovo modello sociale e di relazioni basato su forti principi di democratizzazione del governo della società, dell’economia, delle relazioni umane, della cultura e della sostenibilità sociale ed ambientale.

Fare comunità
Un nuovo soggetto della sinistra deve riscoprire, proiettandole verso il futuro, le proprie radici comunitarie e solidari. Non possiamo lasciare alla destra, ed al suo uso regressivo ed egoistico, l’idea di comunità. La Sinistra, a cavallo fra il 19° ed il 20° sec., è nata, con una vocazione di massa, dal “brodo di coltura” delle mutualità, delle società di mutuo soccorso, delle cooperative e delle leghe contadine.
Tali forme di associazionismo rappresentavano gli allora moderni strumenti di risposta e di organizzazione sociale di un popolo che, lottando per il proprio riscatto e per maggiori opportunità di benessere sociale, individuava nell’agire pensando i primi embrioni di una società diversa. Su quelle basi l’idea di liberazione dell’umanità, quindi l’idea di socialismo, ha saputo costruire, al di là delle differenziazioni storiche, una propria forza, un sogno collettivo su basi di massa, intendendo per massa l’aggregato tendenzialmente maggioritario di soggetti che nella società viveva e condivideva le medesime condizioni esistenziali e materiali.
Dobbiamo ripartire dai territori, costruire nuove forme di mutualità e socialità che rimettano in connessione, appunto sentimentale, la capacità di risposta ai nuovi bisogni di un nuovo, molteplice, popolo con i primi embrioni di un’idea diversa di società.
A tale scopo i Gruppi di acquisto solidale (GAS), le banche non profit, l’azionariato sociale, le banche del tempo, la costruzione di nuovi luoghi di socializzazione e di confronto possono rappresentare le nuove opportunità di costruzione di modelli di vita basati non più sul predominio della mercificazione ma su l’orientamento socialmente ed ambientalmente compatibile della produzione e dell’uso dei prodotti materiali ed immateriali.
Le nuove sedi della sinistra devono rappresentare un punto di riferimento essenziale per il sorgere e crescere di tali iniziative.

I nuovi beni comuni
I disastri sociali ed ambientali degli ultimi decenni, sono dovuti essenzialmente al crescere e consolidarsi dell’egemonia culturale del neo liberismo con il portato ideologico di una furia privatizzatrice che ha ridotto tutto a merce. L’acqua, la terra, il cibo, le fonti energetiche sono state (e sono) sempre più oggetto degli interessi delle multinazionali e quindi sottoposti sempre più alla logica del profitto. La finanziarizzazione dell’economia e le logiche speculative hanno preso come virtuali anche le fonti energetiche, quelle idriche, le stesse fonti alimentari. Oramai anche il grano, il mais, il riso che rappresentano gli alimenti base per la gran parte dell’umanità, sono diventate occasione di speculazioni, indicatori dei futuri rendimenti. La fame, le rivolte per il cibo e per il caro energia probabilmente non rientrano neppure nei fattori di costo dei moderni speculatori.
Gli organismi internazionali, primi fra tutti il FMI e la Banca Mondiale, hanno sottoposto gli stati ed i loro popoli alla logica imperante delle privatizzazioni e delle dismissioni, del ritrarsi degli stati dalla gestione, prima finalizzata all’universalità, dei beni comuni.
I disastri provocati in America latina hanno determinato la nascita di movimenti che, in risposta a tale situazione, hanno messo in crisi il neo liberismo facendo rinascere, su basi nuove, una sinistra che, diventata maggioranza, si ripropone di riportare in mani pubbliche la gestione dei beni comuni.
Anche nel nostro paese la nascita di una nuova sinistra deve essere in grado di proporre una visione aggiornata dei beni comuni e della gestione democratica ed universalistica degli stessi.
L’acqua, l’aria, la terra, le fonti di energia, le reti di trasmissione dell’energia, le reti di comunicazione e di conoscenza, i saperi, rappresentano la nuova frontiera dei beni comuni sui quali la Sinistra deve proporre e praticare, a partire dai territori, forme di gestione tese a garantire l’universalità della fruizione ed un nuovo controllo pubblico - dei molti - in grado anche di superare la dicotomia novecentesca fra privatizzazione e statalizzazione.
A tale proposito i territori rappresentano un elemento fondamentale sia di sperimentazione di nuove forme di gestione, sia di una nuova visione dei beni pubblici.
È fondamentale la battaglia per la pubblicità dell’acqua, così come le iniziative che gli enti locali, dove è e sarà presente il soggetto unitario della sinistra, riusciranno a realizzare in merito all’autosufficienza energetica, all’accessibilità per le reti di trasmissione della conoscenza e della comunicazione, per le reti di trasporto pubblico, per i sistemi dei servizi sociali, d’istruzione ed educativi.
Le forme proprietarie di tali beni comuni dovranno basarsi sul controllo democratico delle popolazioni interessate (es. gestione comunale, azionariato sociale).
L’ampliamento o, in antitesi, l’ulteriore riduzione di spazi di democrazia passano innanzitutto dalla capacità di gestione e dal controllo democratico che andrà a determinarsi sui beni comuni.

Diritto alla casa e legge dei suoli
La bolla speculativa che ha accompagnato, sostanzialmente nell’ultimo decennio, la politica dell’abitare non solo nel nostro paese, si sta finalmente sgonfiando. Dove è già esplosa ha reso palese che tale bolla speculativa era oramai diventata un elemento fondante della finanziarizzazione dell’economia. La crisi dei c.d. crediti subprime ha coinvolto le borse internazionali, le maggiori banche ed ha avvitato l’economia in un ciclo che tende a sostanziarsi come una vera fase di recessione.
Nel nostro paese, lo sgonfiarsi della bolla speculativa non ha avuto significative ripercussioni finanziarie ma ha comunque determinato serie problematiche sociali, incoraggiate anche da una visione particolarmente ristretta della BCE con la sua politica di innalzamento del tasso di interesse.
Il nostro paese si caratterizza su questo aspetto anche per un’assenza di programmazione e pianificazione, per un ritrarsi del pubblico dalla gestione del territorio, per una subordinazione culturale, anche ed in particolare degli amministratori locali, alle logiche delle imprese e dei costruttori.
Un aspetto determinate della bolla speculativa (e delle conseguenti cementificazioni e distruzioni del territorio che caratterizzano da decenni le politiche urbanistiche nel nostro paese) è ravvisabile in una legge dei suoli che incoraggia proprio la logica speculativa. Riteniamo importante rivedere tale normativa anche sulla base di quanto espresso più volte da un urbanista del livello di Campos Venuti, il quale afferma, nella sua proposta di riforma urbanistica, che non occorrerebbe più trattare i privati “come se avessero diritto ad avere gratis l’edificabilità.”
Le possibili soluzioni devono basarsi su una rinnovata politica abitativa, strettamente connessa ad una politica urbana socialmente ed ecologicamente compatibile. I Piani Regolatori Urbanistici devono essere strettamente connessi ai Piani Regolatori Sociali. Risulta necessario un rinnovato intervento dello Stato, come iniziato con il precedente governo, con nuovi e cospicui finanziamenti che consentano agli enti locali una nuova gestione pubblica della situazione urbana.
Occorrerà ragionare inoltre su strumenti, anche innovativi, che consentano processi di integrazione fra l’Ente locale ed il privato sociale e sulla necessità di programmare non solo quanto si costruisce ma anche le modalità, i costi e le forme di partecipazione del pubblico (cioè il chi ed il perché).
In particolare gli enti locali, devono decidere e programmare, sull’esempio di quanto avviene in altri paesi europei, gli interventi urbanistici determinando quote consistenti di edilizia pubblica e di edilizia destinata alla locazione in una visione progettuale uniforme stabilita dal livello dell’interesse pubblico.

Il mondo dei lavori
“La complessità si governa o con la democratizzazione o con la coercizione”
La nuova sinistra che vogliamo costruire dovrà essere in grado di dare espressione ad una nuova centralità multipolare del variegato e frammentato mondo dei lavori, frutto della odierna società complessa, superando vecchie logiche di centralità di una categoria rispetto alle altre.
A partire dalla rivoluzione informatica abbiamo assistito all’emergere di una costruzione ideologica basata sulla fine della classe operaia, e quindi del lavoro complessivamente inteso, come rappresentazione autonoma e potenzialmente antagonista rispetto alla logica del profitto e dello sfruttamento.
Più concretamente il capitale, unitamente a forme di fordizzazione dei nuovi lavori e del lavoro intellettuale, con i propri modelli produttivi e culturali di indiscriminato saccheggio dell’umano e del naturale, ha sussulto l’intera società.
Paradossalmente proprio quando, in particolare nei nuovi lavori ed in settori sempre più vasti del lavoro intellettuale proletarizzato, emerge l’inutilità e l’inefficienza del comando, la costruzione ideologica dominante controlla e rende in funzione patologica, asservita alla propria irrazionalità, il general intellect, facendone modalità organizzativa di atomizzazione e consenso e deprivandolo delle immanenti potenzialità di liberazione.
La Sinistra, per avere una vocazione maggioritaria, dovrà mettere in connessione politica, essere contenitore molteplice di queste differenti soggettività sociali e solo così potrà percepirne le esigenze materiali, quelle retributive, le condizioni di vita - ma con grande attenzione a quelle psicologiche - del mondo dei lavori subordinati e parasubordinati, dei lavori apparentemente autonomi, manuali o intellettuali, fino alle figure di alta professionalità che agiscono nell’ambito della ricerca, innestando e promuovendo processi di democratizzazione dei luoghi di lavoro.
La democrazia (e quindi la partecipazione) nei luoghi di lavoro assume un carattere fondante nella sperimentazione di più efficaci sistemi organizzativi, in grado di produrre sulla base del maggiore risparmio di energia naturale umana ed energia naturale extra umana.
Infatti l’irruzione continua, violenta e totalizzante dell’irrazionale modo di produzione agisce direttamente non solo nelle alterazioni naturali e climatiche ma anche nelle sfere psicologiche più profonde degli individui e delle individue, soggiogandole ad inumana impotenza – pensiamo alle generazioni private della prospettiva di  futuro, annichilite dal precariato, o subordinate a ricatti o violenze psicologiche sui luoghi dei lavori, e/o ingabbiate a tal punto nella costrizione da non poter più nemmeno rivendicare il diritto inalienabile alla salute e alla sicurezza del lavoro.
Nella fabbrica, per almeno due decenni tra gli anni ’60 e ‘70, la riflessione, l’indagine e le lotte su questo terreno furono molto avanzate, riuscendo a creare senso comune ed egemonia su battaglie di civiltà, contribuendo a far nascere associazioni di grande impegno e valore morale, professionale e politico quale ad esempio “Medicina Democratica”.
Ora si tratterebbe di riappropriarsi di quell’esempio per approfondire nuove forme di conoscenza e di critica degli odierni modi di lavorare, nei diversi settori, privati e pubblici, e delle odierne ripercussioni sull’integrità fisica morale e psicologica delle lavoratrici e dei lavoratori, manuali ed intellettuali. Senza questo sforzo non saremo in grado di contrastare nemmeno le forme più marcatamente schiaviste che ha assunto lo sfruttamento per una parte dei lavoratori (pensiamo ai migranti, ma non solo). Il caporalato, da forma residuale di sfruttamento, è divenuto, con l’appalto e il subappalto di umani, forma plusmoderna della nostra economia.
L’impossibilità di garantirsi un futuro, di incidere minimamente sulla funzione sociale, ambientale e dell’organizzazione del proprio lavoro crea oggi una nuova forma di alienazione, più penetrante, che non è più solo disagio rispetto ad un contesto, ma destabilizzazione interiore.
Individui e individue con forti connotazioni di insicurezza, di fragilità, ma culturalmente subordinate al mito della potenza. Questo rappresenta un terreno fertile al generarsi e all’estendersi della violenza nella società e alle violente risposte repressive di un potere forte.
La democrazia (e quindi la partecipazione) nei luoghi di lavoro, assume carattere fondamentale nella decisione sociale di cosa e come produrre (merci materiali ed immateriali) sia per recuperare un nuovo senso della propria esistenza che vada oltre l’isolamento individuale, ma anche, più concretamente, nell’invertire il massiccio spostamento di ricchezza dal lavoro alla rendita ed al profitto che si è realizzato in questi anni.
La realizzazione di forme più avanzate di democrazia presuppone quindi la realizzazione di forme di partecipazione non tanto agli utili di impresa ma in particolare alle decisioni della stessa.

Il lavoro pubblico e la pubblica amministrazione
La pubblica amministrazione ed i circa 3,5 milioni di lavoratori che ne rendono possibile il funzionamento sono da ormai troppi anni soggetti ad un attacco ideologico teso a mettere in discussione la stessa necessità del pubblico. L’attuale Parlamento rappresenta emblematicamente, proprio nella visione del pubblico impiego, la costruzione culturale di un pensiero unico volto non tanto ad un miglioramento dell’efficacia e dell’efficienza della pubblica amministrazione in rapporto ai servizi che deve fornire ma, tolti i veli della propaganda ideologica, alla riduzione massiccia di questi servizi per liberare, in nome di una fallimentare ideologia del mercato, nuovi spazi di profitto ad un sistema economico-finanziario che con le precedenti privatizzazioni ha saputo realizzare enormi profitti scaricando sui cittadini i costi sociali e l’inefficienza dei risultati.
La riforma della Pubblica amministrazione a partire dai primi anni novanta (e dal 1983 per quanto concerne i sistemi contrattuali dei dipendenti), a fronte di un significativo aumento delle produttività, dovuta in particolare all’informatizzazione ed a una semplificazione dei procedimenti, è rimasta comunque incompiuta. Le ragioni di tale situazione sono ravvisabili essenzialmente nei pregiudizi ideologici non fondati su dati reali che sottostavano a tale riforma, nel non aver saputo fare i conti con il problema oramai plurisecolare dell’inefficienza delle classi dirigenti nel nostro paese, con la loro capacità di farsi casta (nelle professioni, nei dirigenti pubblici, nella politica, nell’economia), di resistere a tentativi di innovazione e modernizzazione.
La selezione inefficace delle classi dirigenti, l’aumento spropositato delle loro retribuzioni, l’endemica incapacità di rendere conto dei risultati, la connessione sempre più stretta fra classi dirigenti e ceto politico sono state le ricadute forse evitabili della c.d. riforma Bassanini. Tale riforma si è dimostrata decisamente carente negli aspetti del controllo da parte dell’utente, nella capacità di mettere in rete, rendere partecipi le tante professionalità presenti nel pubblico impiego.
La cancellazione dei controlli sulla legittimità e correttezza contabile, la commistione / subordinazione fra dirigenti e vertici politici, fondata su una visione falsamente americanizzante della PA, hanno reso palese il divario fra gli obiettivi proclamati ed i risultati raggiunti, fino ai casi più eclatanti, di distorsione di risorse pubbliche a fini privati o, peggio, con mezzi o fini assimilabili alla criminalità.
Nella costruzione sociale dei pubblici dipendenti assistiamo, come dato anomalo del nostro paese rispetto all’Unione Europea, ad una massiccia divisione di classe con caratteri propri di una visione castale decisamente preoccupante. Infatti, in particolare nel pubblico impiego, si denota una capacità-concretizzazione di crescita professionale e di carriera direttamente proporzionale al ceto sociale di provenienza. A partire dagli anni novanta le nuove immissioni di personale nella PA, mediamente con una conseguita preparazione culturale superiore al proprio inquadramento, rappresentato essenzialmente dai figli dei ceti operai e popolari che avevano avuto, a seguito della scolarizzazione di massa, accesso a forme di istruzione superiore o universitaria, si sono trovati a dover competere con una classe dirigente mediamente poco professionalizzata ed ancor meno propensa a lasciar spazio al nuovo che avanza. Le carriere automatiche o pilotate, le clientele precostituite, hanno visto consolidato il proprio potere, reiterato la selezione di funzionari dello status quo, e sono state in generale poco propense, se non del tutto avverse, a mettersi in discussione e a favorire un reale rinnovamento e l’innovazione del funzionamento della macchina amministrativa, forzatamente relegando a volte anche persone motivate al ruolo di assemblatori della catena di montaggio del procedimento amministrativo.
Venuto meno il vecchio compromesso democristiano, che vedeva nel pubblico impiego una propria base elettorale e clientelare, fra bassi stipendi e basso rendimento, i lavoratori e le lavoratrici del pubblico si sono trovati a dover fare i conti con basse retribuzioni, poche possibilità di crescita professionale ed un substrato ideologico, divenuto senso comune, che li etichetta con il poco esaltante appellativo di fannulloni ed assenteisti. Il danno e la beffa.
Nonostante tutto i tentativi generosi di innovazione non sono mancati, pensiamo ad es. alla c.d. scuola del benessere organizzativo, alla capacità di mutuare da altre esperienze sistemi organizzativi ”a staff” che motivino il personale al raggiungimento di obiettivi “utili” per l’utenza, in un’alleanza democratica, che ove sperimentata ha dato dei risultati decisamente incoraggianti e soddisfacenti, sia per il personale che per l’utente esterno.
Riteniamo che tali modalità organizzative, unitamente alla soluzione dell’oramai ineludibile problematica delle basse retribuzioni, possano fornire le indicazioni giuste su cui muoversi per una pubblica amministrazione realmente in grado di dare servizi efficienti ai cittadini, considerando che tutti i pubblici dipendenti sono anche cittadini, sia quando lavorano (e molti, dall’interno, vorrebbero che la Costituzione fosse rispettata alla lettera, dove impone, attraverso l’esercizio pubblico, imparzialità, correttezza ed efficacia per il buon andamento della pubblica amministrazione) che quando a loro volta si trovano ad essere utenti (3,5 milioni di utenti) di altri pubblici servizi.

La democratizzazione dell’economia
La Sinistra del nuovo millennio dovrà porsi, se vuole realmente essere in grado di incidere, di prospettare un’idea diversa di società, il problema della democratizzazione dell’economia. Non è possibile infatti affrontare i gravi problemi climatici, la catastrofe annunciata del mondo in cui viviamo, le profonde diseguaglianze sociali, senza porsi il problema di chi decide su cosa, come e per chi produrre.
La finanziarizzazione dell’economia, la dislocazione dei processi produttivi alla ricerca spasmodica di una manodopera a costo sempre più basso, la logica del profitto totalmente insensibile alle necessità reali dei popoli richiedono risposte adeguate ai tempi. Se non è possibile continuare nella direzione imposta dall’ideologia neoliberista non è tuttavia neanche possibile riproporre modelli storicamente determinati. Occorre superare definitivamente la falsa dicotomia fra privato e statalizzazione. Le forme del pubblico e dell’attivazione di processi di democratizzazione non potranno più inseguire superati e sconfitti modelli gerarchici ma dovranno più opportunamente seguire le forme del “rizoma”, dell’”edera” della “rete” in grado di adattarsi alle esigenze dei territori, di rendere flessibili e mobili le forme di partecipazione. La partecipazione dei produttori nei sistemi decisionali non è più scindibile dalla partecipazione dei consumatori, quindi dalla partecipazione sociale nel decidere dove, cosa e come produrre.
Di conseguenza anche le forme proprietarie dovranno adattarsi a tali necessità.

Un’economia fondata sulla pace.
Un nuovo modello sociale deve considerare le politiche di pace come fattore determinante di progresso sociale basato sulla consapevolezza che le guerre, con il connesso aumento del PIL ed il parallelo deteriorarsi di tutti gli indicatori di benessere sociale, sono un sistema inefficiente di allocazione delle risorse. Un nuovo modello sociale non può che basarsi su una diversa redistribuzione fra spese sociali e spese militari attivando politiche di riconversione dell’industria bellica ed invertendo sostanzialmente la tendenza all’aumento delle spese per scopi militari e di difesa che hanno caratterizzato, in modo preoccupante, anche il nostro paese.
Per costruire e praticare scelte di economia di pace è necessario infatti riconvertire le imprese belliche in attività civili ricordando, a tal proposito, quanto già scritto da leader politici del calibro di Willy Brandt ed Olof Palme o da un premio Nobel per l'economia come il prof. Wassily Leontief e Faye Duchin i quali hanno prodotto un modello econometrico sulle spese militari teso a dimostrare i benefici per l’economia mondiale che deriverebbero dall’investire quanto speso dal settore dell'industria belliche in attività civili.

La nuova questione morale e la rinascita sociale. Per una Carta Etica della Sinistra.
La proposizione di una nuova questione morale, di una serie di principi e pratiche a cui attenersi dell’agire politico rappresentano la cartina di tornasole per la costituzione di un nuovo soggetto politico della sinistra. La sinistra per essere credibile deve saper riconquistare, unitamente alla concretezza nell’agire per la risoluzione delle questioni sociali ed ambientali che affliggono la nostra società, ad una rinnovata visione del mondo, una propria “diversità” che identifichi e caratterizzi i propri militanti, i propri quadri dirigenti. Tale diversità rispetto all’immoralità diffusa, ad una pratica politica intesa come opportunità di carriera, alla sempre più stretta identificazione fra amministratori e dirigenti politici, deve concretizzarsi in una “carta etica” nella quale si riconoscano i militanti della sinistra e che faccia nel contempo riconoscere gli stessi come reali portatori di interessi dei ceti popolari. Una diversità che sia in grado di ridare all’immaginario sociale la funzione alta e disinteressata della politica quale la forma prima di volontariato, di servizio alla società.

I principi di tale carta dovranno basarsi essenzialmente su:
•    la separazione fra incarichi di dirigenza politica ed incarichi amministrativi;
•    lo stabilire un tetto massimo per le cariche retribuite (ad es. non oltre il 50% rispetto al proprio reddito precedente all’incarico ricoperto);
•    la previsione, per i militanti della sinistra che abbiano incarichi retribuiti elettivi o di nomina politica, che una quota del 50% di tale retribuzione sia devoluta al soggetto politico della Sinistra per le iniziative politiche e sociali;
•    la previsione del c.d. vincolo del II mandato, per cui i militanti della Sinistra che ricoprano incarichi elettivi e/o di nomina politica non possano essere riconfermati oltre il II mandato.
•    La previsione generale di una forbice retributiva per cui il reddito medio, derivate da incarichi di nomina politica e/o elettiva non possa comunque essere superiore di oltre il 50% al reddito medio di impiegati ed operai.

Passato e Futuro
La Sinistra per proiettarsi nel futuro, per dare un senso alle domande di equità e giustizia sociale che hanno costituito la propria missione storica, non può, non deve, rimuovere il proprio passato. Le rimozioni creano sempre disfunzioni psicologiche, perdite del senso di sé, di cui il Partito Democratico rappresenta un esempio da non seguire.
Nel contempo la Sinistra non deve trasformare il proprio passato in un’icona intangibile, irraggiungibile. Le icone, le cerimonie e santificazioni del passato sono il miglior modo per renderlo inattivo, per cancellarne la memoria.
La differenziazione storica, le divisioni che hanno attraversato al sinistra nel secolo scorso non hanno più senso, rappresentano differenze storicamente determinate che hanno esaurito la propria ragione d’essere. La sconfitta dell’esperienza storica del movimento comunista internazionale non è il contraltare della vittoria di quella che è stata la socialdemocrazia, anch’essa in crisi e riferibile ad una fase storica determinata. Lo stesso ambientalismo attraversa una crisi derivante dal non essere riuscito a coniugare, nel senso comune, la questione ambientale con la questione sociale.
Tutto questo non implica però che le motivazioni, le ragioni d’essere, che hanno dato un senso di massa a quei movimenti siano venuti meno; non implica neppure che termini come comunismo, socialismo, ambientalismo debbano essere seppelliti quali residui del passato, debbano essere rimossi. Al contrario, per dare nuova vitalità a quello che tali termini hanno rappresentato, occorre ricostruire, senza rimuovere né perdonare, una nuova visione del mondo, una nuova idea di socialismo che faccia tesoro del passato ma sia in grado di proiettarsi nel futuro.

Non ha alcun senso dividersi oggi fra comunisti e socialisti, le antiche scissioni avevano un senso, una propria funzione ed uno scopo, quando si sono determinate. Non rappresentavano la rinuncia all’idea di socialismo ma una ridefinizione delle pratiche, dei tentativi, dei percorsi da costruire. Anche la vecchia terminologia che divideva fra riforme e rivoluzione rappresentavano le differenti modalità per costruire un’altra società.
A noi spetta il compito di ridefinire la stessa idea di un’altra società, la stessa idea di socialismo che abbia senso e consenso nel sentimento comune, nei sogni collettivi delle classi popolari. A noi spetta il compito di ricostruire un movimento che muti lo stato di cose presenti, verso la liberazione umana.

*Sd di Chiaravalle

da sinistra-democratica.it

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Mussi: costituente di sinistra e riaprire un rapporto col Pd



Claudio FavaLa Sinistra Democratica continua a puntare con decisione verso la costruzione di una Costituente di sinistra che sia il primo passo verso la realizzazione di un nuovo soggetto politico. Alla seconda giornata di lavori dell'Assemblea nazionale di Chianciano Terme che si conclude domenica, gli interventi hanno ribadito che l'esperienza della Sinistra arcobaleno alle ultime elezioni politiche è stata un errore, come è stata un errore l'idea di «autosufficienza» che ha caratterizzato la linea politica del Partito democratico. «Certe somme di identità - dice il coordinatore Claudio Fava - sono diventate solo un cartello elettorale e sono state percepite come tale dal nostro elettorato».

Per il coordinatore del movimento , la sinistra non può più essere una somma di piccole patrie, o un arcipelago o una addizione di nomenclature «altrimenti il paese sarà a lungo consegnato alle destre». C'è interesse nella Sinistra democratica per un rapporto con un Pd che sappia rivedere criticamente se stesso, che comprenda che la sua nascita è stata una sorta di «fusione a freddo» con una parte del centro della politica.  Sintetizza Fabio Mussi: «Senza alleanze non si va da nessuna parte». L'unico scoglio per il ritrovato rapporto con i democratici può essere quello del feeling tra Pd e centristi dell'Udc: «Cosa sarebbe - si chiede Fava - un abbraccio tra democratici e Udc? Un circo equestre, un minestrone indigeribile...». Tra l'altro, ammonisce, «non credo che Casini e il suo partito abbiano in mente di unirsi con chi è a sinistra del Pd e con chi chiamano, genericamente Rifondazione».

La sinistra disegnata da Fava e da Mussi non dovrebbe adeguarsi, come in parte ha fatto il Pd a un qualunque mutamento di sentire del Paese. «Un esempio fra tutti, la sicurezza, tema che non va lasciato alla destra ma che il Pd - sottolinea Fava - imposta in modo spesso improprio».

«Da soli non si va da nessuna parte - ha ricordato Fabio Mussi nel suo intervento -. Voglio ricordare che i due partiti che da soli in Italia hanno ottenuto nel passato il 75% dei voti, c'era il Partito comunista e la Democrazia cristiana, non hanno mai teorizzato, persino quando la Dc aveva la maggioranza, di governare da soli, ma hanno sempre cercato alleanze». «L'agenda politica - prosegue Mussi - è in mano alla destra, bisogna riaprire una prospettiva di centrosinistra. Prendo atto che Veltroni ha precisato di non aver mai parlato di autosufficienza ma il Pd ha poi seguito questo principio che ripeto non porta da nessuna parte». Per l'ex coordinatore di Sinistra Democratica, «la linea è chiara: cercare di aggregare quanto più possibile a sinistra, per poter condizionare la politica del Pd, riaprire il rapporto col Pd ed una prospettiva di centrosinistra in Italia che oggi, allo stato dei fatti, è chiusa. Quello che fu il centrosinistra è in un vicolo cieco, e con la configurazione attuale non si va da nessuna parte. È impensabile che nel Parlamento di un grande paese europeo non ci sia una forza che si definisce di sinistra».

Il progetto di Sd incassa l'interesse di Franco Giordano, già segretario di Rifondazione, il quale boccia senza appello il progetto di Oliviero Diliberto di unità dei comunisti, che cancellerebbe in un istante 15 anni di esperienza politica di Rifondazione. «Io penso - dice Giordano nel suo intervento - che bisogna avviare un progetto costituente a sinistra anche perché Rifondazione non si salva e rischia di estinguersi se vive in una maniera statica e identitaria».

Per Giordano, la relazione di Fava è «un intervento costruttivo, assolutamente utile nell'ottica della ricostruzione di questo campo largo», mentre l'unità dei comunisti avanzata dal Pdci «è improponibile, cancellerebbe di colpo 15 anni di innovazione politica e culturale di Rifondazione. Negherei me stesso, la mia cultura, la mia storia su tanti terreni come la nonviolenza e il rapporto coi movimenti».

Riguardo al possibile confronto col Pd per un nuovo centrosinistra, l'ex segretario di Rifondazione ha puntualizzato che «una cosa è confrontarsi con chi vuole importare il modello americano in Italia, insistendo sulla logica bipartitica e autosufficienze; altra cosa è farlo con chi vuole stare dentro il modello europeo. Il modello americano presuppone la cancellazione della sinistra, o il suo confinamento ad iniziative sociali, o ad un aspetto marginale e folcloristico».



Pubblicato il: 28.06.08
Modificato il: 29.06.08 alle ore 0.42   
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Tre riflessioni sul Salvi di Chianciano

Gianni Zagato*


La decisione di Salvi di riesumare dal passato – un passato che si era chiuso con la fine  della vicenda politica dei Democratici di Sinistra – l’associazione chiamata Socialismo Duemila  mi suggerisce tre riflessioni. Proverò ad esporle con una certa schiettezza.
Prima riflessione. Il dibattito politico e culturale intorno al socialismo, se sia vivo o morto, se abbia un futuro e come debba fare i conti col suo passato, è un dibattito che ci accompagna da diversi anni, in tutta Europa e non solo in Italia.  Si è certo caricato di una valenza nuova dopo la caduta del muro di Berlino, vent’anni fa, quando è sembrato di assistere al tramonto di ogni ideologia tranne una, l’ideologia del mercato come unica verità della nuova Storia. Ma  le domande sul destino del socialismo, sull’esaurimento o meno della socialdemocrazia dentro la vicenda europea se le ponevano già prima  - erano gli anni Settanta – uomini come Olof Palme, Willy Brandt. E da noi, Enrico Berlinguer. E le loro domande erano serie e profonde. Partivano da un’analisi che faceva i conti con la fine annunciata di un modello storico di sviluppo  che proprio nei paesi europei aveva conosciuto i maggiori successi nell’emancipazione sociale e civile e che finiva per chiamare in causa, attraverso  una crisi che appariva irreversibile, la forma  del partito politico, la sua capacità di rappresentanza, la forza della sua organizzazione dentro la società.  Ora, diversi anni dopo, siamo nel pieno di quella crisi. I risultati elettorali, in Italia come in tanta parte d’Europa,  ne sono soltanto  l’epifenomeno. Se guardiamo la questione partendo dal titolo di un’intervista, finiamo per essere strumentali anche senza volerlo.

Seconda riflessione. Il limite di questo dibattito sul socialismo che da anni ci attraversa è che restiamo fermi su una appartenenza quasi fine a se stessa, senza che dentro quell’appartenenza si sviluppi un campo reale e profondo di ricerca, prima di tutto culturale,  del pensiero della crisi e di come uscirne. E’ Gramsci (Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce) a dirci che il socialismo è “una filosofia che è anche una politica e una politica che è anche una filosofia”.  Ma purtroppo il socialismo che oggi abbiamo davanti agli occhi in Europa non tiene più insieme queste due dimensioni, coessenziali invece  per un suo nuovo protagonismo , tanto di  fronte alla critica di questo modello di sviluppo ipercapitalistico, quanto alla necessità di indicare un’alternativa, una nuova e diversa agenda di fronte ai mali del mondo contemporaneo, primo dei quali il riproporsi dell’ingiustizia sociale in una dimensione che appare immensa e sconvolgente. La domanda principale che dobbiamo porci – per  chi sta beninteso nel campo della sinistra da rimettere in cammino – non è se siamo tanto o poco socialisti, fedeli o meno a questa parola come ad un a priori che ci consegni la soluzione dei nostri problemi.  La domanda invece fondamentale su cui lavorare è piuttosto quale teoria critica di questo capitalismo dominante il pensiero socialista – e con esso i partiti  che a quel pensiero fanno riferimento – sa sviluppare. Si tratta di guardare il mondo non da un balcone dell’Ottocento come nostalgicamente finisce per fare Salvi a Chianciano, ma di guardarlo dalla tromba delle scale, perché è lì purtroppo che ci troviamo.  Non il richiamo allora  al socialismo come a una ricetta tranquillizzante, bensì una ricerca  dura e difficile che chiama quel pensiero ad andare non solo dentro se stesso, ad andare anche fuori incontrando culture – il femminismo e l’ambientalismo, ad esempio – che non sono fondative originariamente del socialismo ma senza le quali quella ricerca non produrrebbe risposte nuove. Negli anni Trenta Martin Heidegger giungeva a dire che “la politica è morta, solo un dio ci può salvare”. E quel dio poteva essere il credo di una religione o il dio del mercato e del consumo. Molti anni dopo un economista e filosofo italiano, Claudio Napoleoni, prendendo spunto da quella frase arrivava a dire: “dobbiamo cercare ancora”. Il socialismo ha un senso se sa cercare ancora.

Terza riflessione. Riguarda noi, noi di Sinistra Democratica. Quello che stiamo cercando di fare è, insieme, capire attraverso lo specchio del voto cosa è successo in Italia e come mettere in atto una risposta, una risposta chiamata sinistra. Non abbiamo rappresentanza parlamentare, non abbiamo risorse materiali comparabili con altri nostri competitori. Vogliamo costruire una risposta alla crisi del centrosinistra e proporla, per un comune lavoro e impegno, tanto a chi sta con noi a sinistra ed è attraversato da una riflessione interna che pone rischi seri di altre frammentazioni e rotture, quanto al Partito Democratico che ha dispiegato fin qui una strategia solitaria e perdente. Mi chiedo: c’è proprio bisogno che dentro Sinistra Democratica, per opera di uno dei suoi più esposti dirigenti, si dia luogo ad una associazione a sé stante? Con aderenti, iscrizioni, statuti, risorse suppongo. Non assomiglia tutto questo a quella frammentazione leaderistica e correntizia che già sta pregiudicando l’esistenza, ancora prima di nascere veramente, del partito democratico? Cosa finiremo per fare, caro Salvi, lavorare la mattina per Sinistra Democratica e il pomeriggio per Socialismo Duemila?  Oltre tutto il nome ci riporta indietro, inutile nasconderlo. Al tempo dei ds, del correntone che era una cosa e socialismo duemila un’altra. E’ un bene che un movimento come il nostro abbia tanti e autorevoli leaders. Ma prima ancora, se vogliamo fare strada, ci serve una comunità. E leaders capaci di costruire comunità, rimboccandosi le maniche con tutto il loro impegno. Siamo dentro una disfatta, non dimentichiamolo, siamo a ridosso della tromba delle scale. Non stiamo più guardando il mondo da un balcone dell’Ottocento.

*Responsabile Organizzazione Sd

da sinistra-democratica.it

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