SINISTRA DEMOCRATICA 2 (del dopo elezioni).
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Di Salvo: Basta crociate contro la 194 e false promesse. serve coerenza
Laicità dello Stato, libertà e autodeterminazione delle donne sono l’obiettivo del tiro di fuoco incrociato a palle incatenate, aperto ieri tra richieste di moratoria dell’aborto, giudizi politici “imbarazzati” sulla legge 194 dalla maggioranza e chiamata in causa del Papa.
Non è dato di capire quale è il metro di misura con il quale si parla della legge 194. In uno Stato laico sarebbe il confronto con la situazione della salute delle donne e del numero degli aborti prima della legge 194 e oggi. Le cifre parlano chiaro e indicano l’enorme riduzione del numero degli aborti. Caso mai il problema l’ostruzionismo alla legge 194 praticato da medici obiettori.
La condizione materiale in Italia delle donne, è nota: le donne sono le più precarie, sono quelle pagate meno, le più povere. E in prospettiva per le stesse ragioni quelle che percepiranno le pensioni più basse. Sono spesso costrette a lasciare il lavoro dopo una gravidanza per l’assenza di servizi di sostegno.
Ascoltiamo oggi tanta retorica da parte del governo e della maggioranza in questo senso. Dicono bisogna aiutare le donne madri. chiediamo meno promesse e più coerenza.
Allora perché Sacconi annuncia di voler cancellare la nostra legge contro le dimissioni in bianco: lo sanno che è quella che viene usata per cacciare le donne dal lavoro appena iniziano la gravidanza?
E perché ancora invece di usare le risorse per aumentare salari e pensioni Sacconi annuncia di voler incentivare gli straordinari? Lo sanno che gli straordinari li fanno gli uomini perché le donne non se li possono permettere?
La verità è che siamo di fronte ad una nuova crociata contro la legge 194 e la laicità dello Stato: le donne italiane non lo consentiranno.
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Fava: il Pd si accontenta delle prime iniziative del governo, noi siamo preoccupati
Se il Partito Democratico si accontenta delle generiche aperture al dialogo di Berlusconi, a noi preoccupano le sue prime concretissime iniziative di governo: ripristinare il nucleare, costruire il Ponte sullo Stretto, trasformare i Cpt in galere, alzare fino a 18 mesi la detenzione per gli immigrati irregolari, nessun intervento a favore dei ceti deboli'.
Lo afferma il neo coordinatore nazionale di sinistra Democratica, Claudio Fava.
'Cosi' come ci preoccupano, ma non ci stupiscono - conclude l'esponente di sd -, i silenzi del governo sul conflitto d'interessi: che maggioranza e opposizione sembrano aver ormai archiviato tra i reperti di un'altra epoca'.
da sinistra-democratica.it
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16/5/2008
La tv non è la terza Camera
OLIVIERO DILIBERTO
Non siamo più in Parlamento. Colpa nostra, certo. Ma anche per via dello sbarramento previsto dalla legge elettorale. Ma quale legge ha stabilito la soglia di sbarramento anche per l’accesso alla televisione?
A La Stampa va il merito di aver aperto il dibattito sulla rappresentazione delle forze politiche dopo la tornata elettorale del 13 e 14 aprile. Marcello Sorgi - «Ridateci Bertinotti (alla tv)» - ieri ha rotto una sorta di tabù: quello di un autentico arbitrio che si sta consumando, in un lugubre silenzio, non già ai danni di alcune forze politiche, ma a danno di tre milioni di elettori. Stiamo infatti assistendo all’espulsione dalla televisione di chi non è più in Parlamento. Ma che continua ad esistere nella società. Pongo una domanda semplice: è giusto tutto ciò? E poi, chi lo ha deciso? In campagna elettorale abbiamo, giustamente, ascoltato la voce di tutti, dai più grandi ai più piccoli. Scopo era - ripeto: giustamente - quello di dare la più larga rappresentazione delle forze in campo, garantire il pluralismo e la dialettica in un sistema che non è bipartitico. Perché l’Italia è diversa dai Paesi a due soli partiti (perfino la Gran Bretagna, ormai, non lo è più), è plurale, vivace, ha una tradizione di grande ricchezza nel confronto politico e sociale.
Ciò che sta avvenendo non è la semplificazione del sistema, ma il suo azzeramento, una sorta di avvelenamento dei pozzi, l’idea che se non sei in Parlamento - ancorché non piccolo, tutt’altro che insignificante, ben radicato nella società italiana - non hai diritto di svolgere le tue argomentazioni dalle tribune televisive. Alcuni esponenti politici sono in televisione tutti i giorni. Chi scrive queste righe - è noto - non è mai stato amante del «minutaggio». La quantità non sempre coincide con la qualità. Né alcuno può ragionevolmente sostenere che io e la forza politica che rappresento siamo mai stati sovraesposti mediaticamente: anzi. Ma un conto è il senso della misura, un altro la cancellazione dagli spazi che - piaccia o no - consentono di parlare al Paese. Noi non siamo più in Parlamento, ma continuiamo a fare attività politica. Non siamo più in Parlamento, ma siamo nella società. Qualche giorno fa, mentre Berlusconi incontrava Napolitano per riceverne l'incarico (e giù fiumi di dichiarazioni in tv), io ero fuori dei cancelli della Bosch, fabbrica metalmeccanica di Bari. Non era la rappresentazione di come una forza politica cerca di riallacciare, con fatica, ma anche con caparbietà, il filo disperso con i propri elettori?
Tutto ciò è stato espulso dalla televisione pubblica, come in quella commerciale. Unanimità di censura.
Il problema è, dunque, molto serio. È il problema generale di come funziona in Italia l’informazione televisiva: si tratta di temi delicatissimi, quali il pluralismo e la libertà d’informazione. Di cui spesso si parla, ma per i quali pochissimo si fa. Temi che riguardano i diritti dei cittadini ad essere informati non a senso unico e non sulla base di una sorta di duopolio del pensiero unico, rappresentato da Pdl e Pd.
Le forze della sinistra italiana, passate attraverso quella sorta di linea d’ombra del 13 e 14 aprile, si stanno cimentando in un nuovo inizio. Per quanto ci riguarda, lo stiamo facendo con uno straordinario, necessario, anzi indispensabile, bagno d’umiltà. Vorremmo che tutto ciò venisse valutato almeno con un po’ di rispetto e di obiettività. Perché gli spazi di libertà che oggi vengono negati ad uno, domani potrebbero essere negati anche ad altri: e il danno, alla fine, sarà di tutti.
segretario del partito dei comunisti italiani
da lastampa.it
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Noi, sconfitti, facciamo come Gramsci
Stralci dell'intervento di Nichi Vendola, raccolti da Giovanna Nigi
Serve un nuovo spirito con cui affacciarsi alla nostra storia, per costruire una nuova storia di solidarietà: non è vero che una volta caduti ci si possa solo rialzare, si può andare anche più in profondità, facendosi ancora più male, come ha fatto Rifondazione Comunista.
Io mi ribello contro le scorciatoie e nel dolore, sia pubblico che privato, vedo l’occasione per fare due scelte completamente diverse. E il mio pensiero va alla morte del fratello di Bertinotti e a Fausto che in questo momento sta piangendo sia la sua morte che l’abbandono della sua parte politica. La prima scelta possibile è quella di un ripiegamento rancoroso, di un cinismo che mira a chiudersi, la seconda è quella di prendere una lente di ingrandimento per vedere di più e meglio.
Penso che le ragioni della sconfitta non possano essere cercate nel tempo corto dell’ultimo biennio. Certo, la tenaglia del voto ci ha schiacciato, ma se non avessimo accettato la sfida unitaria del governo saremmo stati travolti. Noi speravamo nel secondo tempo, Rifondazione era la garanzia che dopo il risanamento dei conti pubblici ci sarebbe stato il momento dell’aiuto verso le fasce più deboli: la raccomandazione che ci veniva dal nostro popolo era proprio questa, quella di resistere in attesa di questo secondo tempo, che purtroppo non è mai arrivato.
Io mi sento una persona molto sconfitta e per questo mi sono fermato a pensare alla persona più sconfitta del Novecento, Antonio Gramsci. Gramsci fu sconfitto tre volte: la prima fu teorica, qundo diversamente dalla sua tesi, l’avvento del comunismo arrivò in una società non avanzata industrialmente come quella russa. La seconda fu l’isolamento da parte del suo partito (…), la terza nel dolore privato, lontano dagli affetti. E mi sono chiesto: cosa fece Gramsci davanti a queste sconfitte? Scrisse i Quaderni dal carcere, che erano il tentativo di rispondere alla domanda sul perché abbiamo perso. E Gramsci trova le ragioni della sconfitta nel reducismo, nell’egemonia culturale, in tutti fattori contingenti: il suo pensiero si allarga, arriva gli Stati Uniti, arriva a chiedersi cosa è cambiato con la catena di montaggio, nella vita anche privata degli operai?
Io non cito Gramsci come santino, ma lo cito per lo stile intellettuale che ha saputo usare nella sconfitta. La nostra sconfitta è a Ponticelli. La cronaca nera sa dire molte più cose della cronaca politica per capire il clima e gli umori di una paese. La cronaca nera mi fa rabbrividire. Lo scorso anno dei ragazzi hanno torturato un down: nel video si possono distinguere il pianto disperato del ragazzo, le risate dei suoi torturatori e il silenzio dei più bravi, che continuano a studiare nel loro banco. E sono loro i peggiori, quelli che non parlano e continuano a fare i bravi ragazzi. Da lì ai doppi roghi della Campania, doppia opera di igiene della camorra, il passo è breve.
È sul lungo periodo che dobbiamo ritrovare le ragioni della sconfitta. Una, è il ritardo nel capire la periferia: Gramsci per capire le ragioni della sconfitta ha dovuto studiare Benedetto Croce. Oggi la destra ha vinto perché ha dato delle risposte ideologiche al problema della sicurezza, illuminata dai fantasmi del pianerottolo e dal ritorno di tutte le antiche figure che hanno sempre criminalizzato la povertà. E la sinistra che ha offerto in cambio? La Lega dava aiuto al vecchietto, al giovane, li faceva sentire al riparo di una comunità, parlava la loro stessa lingua.
Questo ha avuto presa perché oggi sono saltate tutte le forme di comunità. Non c’è più Di Vittorio, non c’è più Cipputi, non ci sono più i vecchi operai che aiutano i giovani. Oggi c’è solo la precarietà che ha operato una mutazione profonda. Che senso ha dire torniamo nei posti di lavoro come se fossero rimasti sempre come li abbiamo lasciati? Che conoscenza abbiamo dei precari? Il nostro deve essere un lavoro di grande umiltà, di riconoscimento che oggi gli operai sono diversi da quelli di un tempo, anche i ricercatori universitari oggi sono operai. Dobbiamo liberarci dalla nostra spocchia e sarà un lavoro duro. Bisogna fare propria la lezione delle donne che ci hanno insegnato a partire da sé. Un tempo il partito era un pezzo del territorio ma dagli anni Settanta tutto è cambiato: enormi periferie programmate scientificamente senza piazze, ghetti mostruosi che impedivano dei rapporti di comunità. Le periferie sono state create apposta così, e la maggior parte delle giovani generazioni ha sviluppato una cultura nomade nel mangiare, nel ballare, e in tutto quello che fa. Questo è un tema decisivo per capire la sconfitta, la nuova conformazione della città. E un’altra è la crisi della famiglia, non solo nelle sue implosioni nevrotiche, ma nella sparizione di una delle tre generazioni che fino a trent’anni fa costituivano la famiglia. Oggi sono stati espulsi i nonni e le nonne, i bambini non sanno dire che lavoro facevano i nonni e non ascoltano più le loro storie, forse per questo otto bambini su dieci dicono che il loro maggiore problema è la solitudine.
Tre piste di ricerca, tre oggetti di analisi per trovare la ragione del nostro senso di smarrimento: in basso e in alto, da nord a sud, la destra parla una lingua unificata, noi parliamo un dialetto che sta diventando incomprensibile.
Noi abbiamo il problema di sopravvivenza di un mondo a rischio, si vince quando si è credibili agli occhi di chi vuole cambiare. Che vogliamo fare dopo la sconfitta, cercare un cielo di stelle fisse? No, per me il comunismo non è una risposta, è una domanda, e i miei alleati sono tutti quelli che vivono processi di liberazione. Per questo mi batto per il diritto alla vita di tutti, a cominciare da quello del mio avversario. Con Gramsci ritengo che l’avversario lo devi conoscere nella sua verità interna. Basta con l’icona del nemico che ci ubriaca e offusca i nostri sogni. I mezzi cattivi hanno inquinato le alte finalità, è importante scegliere il mezzo con cui lottare, perché il fine non lo giustifica. E come faccio a capire il mondo se non faccio mie anche storie diverse? Per prime quelle delle donne che un linguaggio criminale ha voluto accomunare al termine “uomini” per dire “uomini e donne”: abbiamo bisogno di questo, di una cultura di ambientalismo perché il buco della testa è anche il buco dell’ozono, e viceversa. E c’è chi pensa ancora che vita e bellezza siano solo dei vincoli.
Bisogna partire dalla differenza e dalla diversità: i rom ci dicono che abbiamo sempre bisogno di capri espiatori per sentirci al riparo. Donne, rom, gay, poi tutti gli altri. Come costruire un nuovo mondo se non ci arricchiamo delle differenza? Dobbiamo ripartire dall’idea che il mondo si può cambiare solo se troviamo un punto di contatto tra politica e società. È ancora una volta Gramsci a dire che per cambiare la società si deve stare dentro la politica e la società. Quindi non un esodo, non un rimanere chiusi nel palazzo, né scioglierci nel sociale. Né l’uno né l’altro, tutte e due le cose insieme: restituire alla politica la sua forma, che è quella di una bussola.
Pubblicato il: 19.05.08
Modificato il: 19.05.08 alle ore 22.07
© l'Unità.
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Incontro Veltroni-Fava: «Ora ricomincia il dialogo»
Patto di consultazione, confronto permanente sulle riforme, dialogo per trovare punti di convergenza all'opposizione e nuovo incontro la prossima settimana tra gli organi dirigenti. È quanto emerge dall’incontro tra il segretario del Pd, Walter Veltroni e Claudio Fava, coordinatore di Sinistra democratica. «L’epoca dell’autosufficienza declamata e conclamata come un valore è finita», sostiene Fava che continua, «con Veltroni ora comincia un lavoro per la costruzione di un nuovo centrosinistra». In quarantacinque minuti di faccia a faccia Fava assicura che tra lui e Veltroni non c'è alcuna voglia di riproporre l’Unione perché quella «è un esperienza accantonata», ma bisogna costruire «un terreno concreto di linee comuni di opposizione oggi e di governo domani». Il numero uno di Sinistra Democratica rassicura sull'ipotesi di una futura confluenza nel Pd: «È fuori discussione. Abbiamo già fatto una scelta alcuni anni fa e non dobbiamo ribadirla ogni volta».
Nel corso dell'incontro, informa anche una nota congiunta, «si è convenuto sulla necessità di dar vita ad un dialogo - nel rispetto delle reciproche autonomie - con l'obiettivo di individuare punti programmatici e politici di convergenze nell'opposizione al governo Berlusconi». In quest'ottica «il Partito democratico si è impegnato a stabilire con Sinistra democratica e con le altre forze di sinistra disponibili, un patto di consultazione per far emergere in Parlamento temi e proposte che tengano conto delle sensibilità e del punto di vista di forze che alle Camere non sono rappresentate. Si è altresì convenuto sulla necessità di avviare un confronto politico per costruire, in Italia e a livello locale, le condizioni di un nuovo centrosinistra basato su reali intese programmatiche e su una sfida di governo capace di innovare il Paese».
«Infine - conclude la nota - si è altresì convenuto che sia sulle riforme istituzionali che sulla eventuale modifica della legge elettorale europea si stabilirà una consultazione permanente con l'obiettivo di raggiungere soluzioni comuni. Claudio Fava e Walter Veltroni hanno infine concordato un incontro tra i gruppi dirigenti del Pd e di Sd che si svolgerà nelle prossime settimane».
Pubblicato il: 19.05.08
Modificato il: 19.05.08 alle ore 19.10
© l'Unità.
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Il confronto è partito, ora bisogna trovare forme e contenuti nuovi
Si è svolta a Roma la prima assemblea del Movimento romano per la Sinistra, a un mese di distanza dalla Assemblea convocata a Firenze dalla Associazione per una Sinistra unita e plurale. Si è svolta alla presenza dei rappresentanti più importanti della sinistra politica e dell’associazionismo, presso l’associazione culturale Baobab, un coloratissimo locale tra Piazzale delle Province e Via Tiburtina. La folla di militanti e il nutrito gruppo di giornalisti riempiono tutti gli spazi dell’ampio locale in attesa di sentire i promotori dell’incontro e i big presenti, da Nichi Vendola a Claudio Fava, da Paul Ginsborg a Maurizio Acerbo e Paolo Cento.
La platea è attenta alle parole pronunciate dal palco, è carica, non risparmia qualche critica e qualche “battutaccia” nei confronti dei leader, sommerge di applausi l’intervento di Paul Ginsborg, ma si scalda moltissimo anche per Don Roberto Sardelli.
Quello che è emerso dagli interventi più rilevanti, a un mese dalla riunione di Firenze e dalla sconfitta elettorale, è la mancanza di novità nelle forme, nei contenuti, nei linguaggi; nonché nei metodi che presiedono all’organizzazione di questi eventi. L’urgenza di cambiare questa realtà ieri è stata ancora più evidente per l’assenza pressoché totale di under 30, un difetto che sta diventando strutturale e congenito a questo tipo di iniziative. Un dato ancor più grave se pensiamo all’importanza dell’incontro.
E questo non lo dice solo chi scrive, ma anche alcuni dei più insigni relatori.
Claudio Fava apre il suo intervento parlando degli ultimi fatti di cronaca – Ponticelli – e di cronaca politica – decreto sicurezza –. “L’Italia ha ricevuto fondi dall’Unione Europea per creare le condizioni per dare accoglienza e integrazione ai rom. Fondi che, tuttavia, non sono mai stati utilizzati. Il centrosinistra – Fava non si riferisce solo al governo nazionale, ma anche alle amministrazioni locali – non ha voluto usare quelle risorse perché considerava quelle problematiche marginali”. Critica Fassino che si è schierato contro le proteste del governo spagnolo di Zapatero sul decreto sicurezza, non rendendosi conto che la posizione spagnola era la posizione che avrebbe dovuto assumere il Pd. Definisce il suo incontro con Veltroni “un atto di cortesia personale e politica”, ma avverte: “abbiamo il dovere di indagare sulla possibilità di un centrosinistra diverso, e basato sulle affinità di progetti e di proposte".
Allo stesso tempo, però, "deve essere chiaro che se questa indagine non sarà possibile la responsabilità non sarà certo nostra”. Il coordinatore nazionale di Sd afferma che “bisogna ripartire da noi stessi per capire che c’è un problema della Sinistra. I conflitti sociali e le contraddizioni non possono essere affrontati per titoli, restando nei nostri recinti, mentre fuori il Paese cambia. L’infelicità è un tema complesso, che non abbiamo voluto affrontare”. Lamenta linguaggi vecchi: “Anche oggi non ho sentito la parola dubbio. E’ necessario modificare lo sguardo con cui decifriamo questo paese. Bisogna guardare prima alla comunità che alle sue forme, costruire una comunità di sinistra, mettersi in marcia e navigare in mare aperto. Non possiamo rimanere fermi e autosufficienti”.
Ad aprire il dibattito è stato Adriano Labbucci, esponente di Sinistra Democratica ed ex presidente del Consiglio provinciale di Roma: “Di fronte al tracollo della Sinistra Arcobaleno sarebbe sbagliata e velleitaria una risposta che veda il ritorno di ognuno nei propri accampamenti, alle proprie insegne e alle vecchie appartenenze, anche perchè quello che c'era prima, in larga parte, non c’è più. Evitiamo- sollecita Labbucci- di aggiungere al tracollo elettorale anche il nostro tracollo politico”. Serve insomma, per Labbucci, "un processo costituente della sinistra, che allarghi e che includa, che chiami a partecipare non soltanto quel milione e più che ha votato Sinistra Arcobaleno, ma anche tanti di quelli che non l’hanno votata. Ci sono ragioni, motivi e spazi per la Sinistra: la giustizia, la libertà, i diritti delle donne, i diritti dei lavoratori, le questioni etiche: sono questi gli spazi che la sinistra, con un progetto ambizioso, deve tornare ad occupare. Ma soprattutto – conclude Labbucci – bisogna reagire, dare segni di vitalità, riprendere a fare politica. Bisogna partire costruendo un profilo di opposizione qui a Roma”.
Ma è Don Roberto Sardelli a riscuotere i primi applausi, con un’analisi appassionata e lucida della situazione, lui che più di ogni altro si è battuto per i poveri, i diseredati e gli esclusi nella Capitale e che assiste ora allo scempio del decreto sicurezza del nuovo governo, non risparmiando critiche a Veltroni che, dice, da sindaco di Roma lo volle incontrare, ma che poi non fece niente di concreto e non diede alcun seguito a quell’incontro. “Per risolvere la crisi attuale della politica occorrono terapie d’urto che riescano a denotare una discontinuità chiara e tonda. Per questo le leadership politiche, oggi più che mai, devono essere scelte dal basso e non devono essere elargizioni delle segreterie di partito. L’essere di sinistra – conclude Don Sardelli – è a costruire perché parla all’intelligenza, laddove l’essere di destra è istintivo perché parla al ventre”.
Paul Ginsorg, con la pacatezza e l’ironia che lo contraddistinguono, è ancora più analitico. Richiama i militanti alla calma e alla lucidità, perché questo è ancora il momento degli interrogativi, non delle risposte. Con una provocazione efficace esorta i leader presenti ad essere all’altezza della sconfitta scioccante che abbiamo subito, perché rappresenta un’occasione irripetibile dalla quale ripartire in forme nuove, superando i vecchi modelli del Novecento. Se questo non verrà fatto, avverte, la Sinistra non riuscirà più a tornare in Parlamento. Plaude alle iniziative e agli incontri autoconvocati che si stanno moltiplicando in tutta Italia e pone a se stesso quattro interrogativi come tracce di riflessione da seguire per provare a ricostruire. “Finora, la prima reazione alla sconfitta è stata ampliare le divisioni: non credo che abbiamo perso perché miravamo a un processo unitario, anzi. Dobbiamo andare avanti sul cammino di un processo costituente e per farlo dobbiamo ripensare a come stare insieme, partendo da questioni di genere e di generazione, superando anche forme di riunione un po’ antiquate come quella di questa sera: bisogna essere più attivi e meno riflessivi, perché i giovani vogliono fare qualcosa, non ascoltare soltanto. Bisogna abbracciare nuove forme di democrazia: la democrazia deliberativa – che aumenta il grado di partecipazione attiva dei militanti alle decisioni –, la democrazia in movimento, sulla strada di riforme che partano dal basso”. E conclude con un’altra provocazione delle sue, citando proprio uno dei padri del liberalismo, John Stuart Mill: “Vogliamo cittadini attivi, critici, istruiti, pronti a intervenire”.
Nichi Vendola è in sintonia con Fava. Esorta a modificare i luoghi in cui la sinistra è cresciuta e vuole fare un discorso di metodo. Vorrebbe scrivere un saggio intitolato “Per la critica del verbo tornare”, che è impedimento alla rinascita della sinistra. “Si sente parlare di tornare alla base, tornare al territorio, tornare al lavoro: in queste espressioni vedo una pericolosa torsione demagogica, una distorsione dei problemi”.
L'invocazione del ritorno alla base, ad esempio, “ha un retrogusto oligarchico, soprattutto per chi per base intende un recinto ristretto: noi dobbiamo rompere il recinto che non ci consente di allargarci, altrimenti la base è come una curva sud che ognuno si porta dove vuole”. Ancora più “distorta”, per Vendola, l'espressione “Tornare al territorio: non può esistere un territorio mummia, il territorio vive e si trasforma.
E noi dobbiamo attraversarlo, non tornare a un territorio mitico.
Il verbo tornare, indica il rifugio in una nicchia identitaria, vista come un conto in banca da preservare, un bene da esibire dentro un ipotetico museo delle glorie del passato. Per me invece è altro, è ansia di conoscere e andare avanti”. E riguardo al nuovo ruolo della sinistra afferma: “siamo una minoranza, ma non vogliamo parlare come una minorità. Siamo una minoranza che vuole essere maggioranza e vogliamo far sentire a tutti la nostra voglia di cambiare il mondo”.
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