SINISTRA DEMOCRATICA 2 (del dopo elezioni).

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Intervento di Giovanni Berlinguer


Claudio Fava ha detto giustamente che questo incontro non sarà la celebrazione di una identità ma l’inizio di una ricerca, che vogliamo condividere con altri soggetti della sinistra (e del centrosinistra), ragionando anche sulle nostre colpe, sui mutamenti profondi della società, sul rapporto con i cittadini, e sulle difficili prospettive dell’Italia.

Non dobbiamo nascondere che questo governo è frutto di un forte sostegno elettorale e gode tuttora di un grande consenso popolare. L’arroganza di Berlusconi, nell’imporre ancora una volta le sue leggi ad personam, ha però suscitato vivaci reazioni (e perfino qualche critica interna), che hanno rotto l’acquiescenza e il consenso obbligato. Da molte parti, inoltre, viene contestata la politica economica del governo: i sindacati respingono il trucco dell’1,7% come indice triennale dell’inflazione programmatica, imponendo così una riduzione consistente dei salari, già ora largamente insufficienti; e la rivista “Famiglia cristiana” definisce questa linea come “deludente”, usa l’espressione “luna di fiele”, afferma che alle famiglie è dedicata soltanto la “carità di Stato”, e chiede che non si scambi la vita dei poveri con una “carta degli anziani”.
Mi sembra perciò di percepire lo sviluppo, in tempi più rapidi del previsto, da una parte di una azione aggressiva del governo contro le libertà (l’ultima è quella feroce di Maroni: prendiamo le impronte digitali ai bambini rom che chiedono l’elemosina) e dall’altra parte una gran voglia di agire, di partecipare e di creare nuove aggregazioni; di scoprire forme di lotta aggiornate; di costruire movimenti; di lavorare nell’informazione e della diffusione dei saperi; di lottare per riequilibrare le entrate, le spese e i diritti delle persone.

Abbiamo bisogno, per questo, di un forte rinnovamento culturale e generazionale dei gruppi dirigenti, per analizzare meglio le cause della disfatta subita dalla sinistra e per aprire spazi a nuove esperienze e a fresche energie. Su queste basi si potrà costruire una ripresa della sinistra, a queste condizioni si potranno sviluppare alleanza appropriate, e si potrà procedere verso una maggiore unità.
Queste settimane sono dense di appuntamenti politici diversi, nella sinistra e nel centrosinistra. Vediamoli con molto rispetto. Non si può sfuggire, tuttavia, alla preoccupazione che nelle consultazioni congressuali di Rifondazione, del Pdci e dei Verdi vi siano dei rischi di ulteriori frammentazioni, come risultato di molte diverse mozioni. Sull’altro lato, quello del Partito Democratico), si paga ora la decisione di affrontare da soli l’appuntamento elettorale, e si stanno creando strutture interne, camuffate da “Fondazioni” o da altre aggregazioni interne, che sono foriere del potere personale e di instabilità permanente.

Può darsi che la mia preoccupazione sia eccessiva, o che sia considerata una inframmettenza esterna e indebita. Lo scenario, tuttavia, non lascia dubbi sul presente e sul futuro immediato: l’Italia attraverserà anni difficili, e per modificare il percorso c’è bisogno di due punti di svolta. Uno è la Costituente unita della sinistra; che sia però attuata, come ha scritto Luciana Castellina il 23 maggio, “senza precipitare subito in forme definite, che servirebbero solo a riproporre vecchi e nuovi gruppi dirigenti, pensati con il bilancino o a perpetuare l’esistenza di cose disparate come è stato l’Arcobaleno”. L’altro è pensare che il soggetto unitario della sinistra possa essere autonomo per i prossimi decenni di fronte ad un Pd centrista. In altre parole, dobbiamo lavorare per un sistema di alleanze.

Una pista più vicina, rispetto agli eventuali decenni, sta negli orientamenti che sono emersi nel Partito democratico in rapporto alla sua collocazione futura nel Parlamento europeo, che sono stati resi espliciti da Lapo Pistelli dopo i falliti tentativi di creare un “gruppo italiano” (impraticabile per i regolamenti) o una alleanza con altri paesi (impraticabile per il loro rifiuto). E’ stata perciò aperta una trattativa per collegare il Pd al gruppo socialista europeo, con un duplice eventuale accordo: Il Pse riconosce l’esigenza di una formazione politica più ampia, che raggruppi, oltre alle forze socialiste quelle liberal-democratiche e riformiste (un’idea caldeggiata da Giorgio Ruffolo), e al Pd viene aperta un’area specifica nell’ambito del gruppo del Pse.

Vedremo cosa accadrà


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La politica italiana è necessariamente partecipe, in gran parte delle decisioni, degli orientamenti dell’Unione europea, che già condizionano la nostra vita quotidiana. La costruzione dell’Europa è stata definita da alcuni come “il più innovativo disegno politico del Novecento”, con qualche solida ragione: l’aver assicurato sessanta anni di pace, l’aver diffuso la democrazia, l’aver costruito lo stato sociale.
A metà degli anni Novanta, fra le 15 Nazioni che la componevano ben 13 avevano governi di sinistra o di centrosinistra, ma essi non hanno saputo sottrarsi all’ondata neoliberista e aprire nuove starde. Ora, fra le 27 nazioni, soltanto cinque o sei hanno una guida  socialista o progressista: basta una mano per contarli! Negli ultimi anni sono anche mutati i rapporti di forza anche nel Parlamento europeo, dove il gruppo liberal-democratico si associa molto frequentemente a quello popolare nel sostenere direttive apertamente reazionarie.
Si possono citare due casi recentissimi (e gravissimi). Uno riguarda l’immigrazione, un tema che in altri tempi era stato oggetto di decisioni positive, fra cui il ricongiungimento familiare e il diritto d’asilo. Ora è stato approvato un testo opposto, blindato, molto simile alle decisioni dell’attuale governo italiano, e molto crudele, rifiutando tutti gli emendamenti tesi ad abbassare la durata massima della detenzione, a migliorare la sorte dei bambini non accompagnati, a consentire qualche giorno in più per il rimpatrio volontario. La Direttiva prevede il trattenimento presso centri di detenzione fino al 18 mesi, i minori possono essere avviati a Stati diversi dalla loro origine, il rimpatrio volontario è fissato nel periodo fra 7 e 30 giorni, insufficiente per chi ha famiglia. Donata Gottardi, un’altra parlamentare del gruppo Pse, ha ricordato che “il flusso migratorio si è invertito nel nostro paese solo nel 1973” e ha aggiunto “Non è passato nemmeno un secolo da quando siamo partiti alla ricerca del lavoro sui piroscafi diretti in America, del Nord come del Sud, spesso emarginati con gli stessi pregiudizi che ora applichiamo a chi consideriamo usurpatore”.
L’altro caso riguarda il tempo di lavoro, che per oltre 150 anni è stato un punto cardinale per la vita degli operai, per la contrattazione, per avere diritto a una famiglia, per compiere le proprie scelte. La prima conquista fu nel 1848, tempo di rivoluzioni in Europa, che affermò il diritto degli operai di lavorare non più di 12 ore al giorno. All’inizio del Novecento si stabilì il riposo settimanale obbligatorio, il massimo di 48 ore lavorative, e poi i congedi pagati. Dopo la Seconda guerra mondiale furono ulteriormente ridotti i limiti di orario e allargati i congedi; e ci fu un lungo periodo di collaborazione e di contrattazione, che produsse un certo equilibrio di reddito, di potere e di sapere tra lavoro e capitale, e favorì lo sviluppo dell’economia europea.

Il 9 e 10 giugno 2008 il Consiglio (in rappresentanza di tutti i governi) decise di “emendare alcuni aspetti dell’organizzazione del tempo di lavoro” e di applicare la opt-out clause (clausola di dissociazione) che consente di non applicare il tempo massimo di lavoro (48 ore) se il lavoratore è d’accordo per lavorare un tempo più lungo sino a 60 o 65 ore, il che significa orari da 12 o 13 ore per cinque giorni consecutivi.


Fermo restando che un certo grado di flessibilità nell’orario di lavoro e nei tempi di vita può migliorare molte situazioni, le conseguenze possono essere assai gravi: una è che il sovraccarico di impegno può facilmente causare malattie e compromettere la sicurezza di chi lavora, come accadde ai sette lavoratori della Tyssen. Un’altra è che le donne già ora impegnate nel doppio lavoro, vedano ulteriormente accentuate le proprie discriminazioni. Inoltre, l’opt-out implica un contratto individuale nel quale il rapporto di potere tra lavoratore e azienda è fortemente sbilanciato. Sono queste alcune delle ragioni che hanno mosso all’azione le organizzazioni sindacali e politiche, con l’obiettivo di  modificare  sostanzialmente questi orientamenti.
Non mi soffermo su altri temi europei, alcuni impellenti e spinosi, come la difficoltà di proseguire e completare il Trattato di Lisbona, non solo per il referendum irlandese ma anche per altri rinvii e ostacoli; e si deve parlare anche di orientamenti positivi, raggiunti dall’Unione europea nei programmi per il clima e per le energie rinnovabili. Non mi soffermo anche perché sono certo che Pasqualina Napoletano, per le sue qualità e per la sua funzione di vice presidente del gruppo del Pse, interverrà con competenze maggiori e migliori delle mie sull’attualità e soprattutto sulle prospettive.
Concluderò con alcune osservazioni personali, partendo da un’esperienza vissuta negli ultimi tre anni (inizio nel 2005 e conclusione al maggio 2008) come componente di una Commissione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, incaricata di affrontare le disuguaglianze nella salute e le cause sociali che ostacolano una migliore condizione e una prospettiva di vita più salubre. Abbiamo svolto indagini comparate in molti paesi e interessato governi, università, movimenti di lotta per la salute e per l’accesso  alle cure, analizzato le tendenze degli ultimi decenni, valutato i molti progressi compiuti, ma constatando che le disuguaglianze prevedibili, prevenibili ed evitabili stanno crescendo in continuazione.

da sinistra-democratica.it

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di Fabio Vander

Socialismo e democrazia fra passato e presente


Nella polemica fra Salvi e Zagato quel che più conta è il ‘non-detto’. E si tratta di questione che va ben al di là degli spunti contingenti della polemica. Qualcosa che riguarda il presente e il futuro di Sinistra democratica e soprattutto il futuro della sinistra e della democrazia italiana.
Zagato fondamentalmente paventa il rischio che la creazione di associazioni cultural-politiche significhi di fatto l’infeudamento correntizio di Sinistra democratica. E questo è l’aspetto contingente della polemica con Salvi. Cioè quello meno importante.
Meritevoli di approfondimento sono invece gli argomenti che Zagato usa per liquidare sostanzialmente il ragionamento di Salvi sulla necessità di un rinnovato socialismo. La replica inizia con l’invito a non polemizzare con Fava “partendo dal titolo di un’intervista”, con evidente riferimento all’intervista su “L’Unità” in cui Fava considerava conclusa l’esperienza socialdemocratica. La verità è però che c’è un settore di SD, quello proveniente più direttamente dal “Correntone”, che costituisce di fatto una sorta di “veltronismo di sinistra” e che con il leader del PD condivide tesi tralatizie quali: il comunismo è finito, il socialismo è finito, il ‘900 è finito, ecc., bisogna “andare oltre”, ecc. Che poi i compagni che pensandola così abbiano deciso di non aderire al PD è più un’inconseguenza loro che una risorsa per SD e la sinistra italiana.
Personalmente non ho motivo di pensare che Fava la pensi così; al contrario: sono stato molto rassicurato dalla forte frase pronunciata a Chianciano: “non aderiamo né aderiremo mai al PD”. Perfetto. Ma allora si capisce che non si tratta di un “titolo di intervista”. Perché non accettare il vacuo e pericoloso democratismo veltroniano si può, seriamente e senza ambiguità, solo contrapponendogli un’idea forte di sinistra, di socialismo e di democrazia.
Parlare di socialismo non significa dunque affacciarsi da un “balcone dell’Ottocento” (un’invettiva gratuita, perché forse la democrazia non è un “balcone dell’Ottocento”? Non lo è il liberalismo? Non lo è il repubblicanesimo? E il radicalismo? Chi decide ciò che è attuale e ciò che è sorpassato?). Significa avere armi puntute contro l’ideologia corrente, quella appunto loffiamente democratista, riformista, gradualista. Il moderatismo non è il destino della modernità. E il socialismo è l’antidoto. Certo un socialismo aggiornato. Ma anche questa è una banalità (che troppo spesso copre smanie liquidazioniste). Perché forse la democrazia non si deve aggiornare? “Destra” e “sinistra” non sono categorie da aggiornare? Perché si polemizza solo con chi parla di socialismo?
Così ad esempio Zagato usa l’argomento che il socialismo oggi “non tiene più insieme” le dimensioni della teoria e della prassi. Un argomento per tutte le stagioni. Perché forse oggi la democrazia tiene insieme teoria e prassi? Il liberalismo li tiene insieme? Berlusconi dice di essere liberale e moderato, dobbiamo credere che lo sia? Perché nessun pensatore liberale prende le distanze? Ce ne sono ancora, dopo Bobbio? E ancora: la globalizzazione è compatibile con la democrazia? Può essere una buona ‘prassi’ per la ‘teoria’ democratica del XXI secolo? Ragionare di questo per me significa ragionare di socialismo, oggi. Altro che “balcone dell’Ottocento”.
Ma Zagato usa anche un altro argomento improprio. Una frase nientemeno di Heidegger, definita “degli anni Trenta”, in cui si dice che “ormai solo un dio ci può salvare”. Certe volte si ha l’impressione che, con riferimento alla sinistra italiana, neanche un dio possa ormai tanto. In effetti la frase è del 1967, tratta da un’intervista che Heidegger impose fosse pubblicata solo dopo la sua morte, quindi si tratta di un testo sostanzialmente della seconda metà degli anni ‘70.  Ma il riferimento oltre che errato è anche del tutto estrinseco, Heidegger infatti non pensava né al “mercato”, né al “consumo”, ma al ‘tramonto dell’Occidente’, al compiersi della modernità come epoca della metafisica, ecc., cose che non meritano di essere strumentalizzate a fini di polemica da “sottoscala”.
Come le parole di Napoleoni: “dobbiamo cercare ancora”. Anche qui: tanto vero quanto ovvio. Zagato invece ne trae unilaterali conseguenze: “il socialismo ha un senso se sa cercare ancora”. Perché solo il socialismo? Forse che la democrazia può oggi avere un senso senza “cercare ancora”? Quale partito, movimento, cultura, religione può mai avere senso se smette di “cercare ancora”?
Concludendo e per ulteriore chiarezza: 1) non sono interessato a nessuna corrente entro SD; 2) socialismo non può significare adesione acritica a vecchi modelli tipo il “socialismo europeo” o il PSE, ma con la scusa di questo rischio non si può neanche liquidare qualsiasi istanza critica; 3) Sd deve accentuare i suoi caratteri di forza trainante di una Costituente della sinistra finalizzata ad un nuovo partito capace di conciliare, nel XXI secolo, critica del capitalismo e promozione della democrazia.   

da sinistra-democratica.it

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Rifondazione sull'orlo della scissione, lite sul tesseramento


Al posto di un congresso, il processo.

Ormai la corsa alla segreteria di Rifondazione comunista è segnata dallo scontro sempre più duro tra i due candidati, il governatore della Puglia Nichi Vendola e l'ex ministro della Solidarietà sociale Paolo Ferrero, con relative mozioni e linee contrapposte. L'uno contro l'altro a colpi di tessere, cioè voti, nei congressi locali appena iniziati, e di annullamenti dei risultati ottenuti. E la sentenza politica che si profila è quella di una scissione, sempre più vicina, forse persino prima del congresso nazionale in programma dal 24 al 27 luglio a Chianciano.

Almeno questa è la situazione a giovedì 3 luglio, giorno in cui Nichi Vendola, primo firmatario della mozione due che raccoglie la linea bertinottiana di apertura a una sinistra più diffusa, ha convocato una conferenza stampa in solitaria per contestare l'annullamento di un congresso. Uno dei primi, quello del circolo di Reggio Calabria-centro, i cui risultati sono stati annullati dalla commissione perché «i votanti non risultavano iscritti al partito» nel 2007.

Il problema è tutto nel tesseramento, cioè in chi ha diritto o no a decidere i delegati al congresso nazionale di Chianciano, decisi appunto nelle assise dei circoli territoriali.

A Reggio Calabria-centro il governatore della Puglia Vendola avrebbe vinto con 345 voti, contro i 2 voti ottenuti dalla mozione uno di Ferrero, Grassi e Mantovani. Ma la commissione incaricata di valutare la correttezza delle votazioni e gli aventi diritto ha invalidato il voto accogliendo un ricorso dei "perdenti" della mozione due. Per Vendona «un atto illegale, proclamato con l'interdizione a poter ripetere il congresso». E lui, con i suoi, si dice pronto a ricorrere persino ad un «atto di disobbedienza per difendere il partito. Per noi quei voti sono validi».

Il problema non è solo per quei trecento voti contesi. I vendoliani temono che possano arrivare «altre decisioni di questo genere», altri annullamenti e congressi da ripetere.

Circola così, nella conferenza stampa, la parola «scissione». «La parola scissione va bandita», risponde Vendola. «Noi - riprende poi - rappresentiamo l'ala maggioritaria del partito, a meno che qualcuno non voglia impedire questo con interventi mirati o con una censura chirurgica».

Ma un simile contrasto sulle regole fanno tremare l'intero percorso verso il congresso nazionale. Anche se anche questa ipotesi viene scacciata come un altro incubo da Vendola: «Non consentiremo - ammonisce il leader della mozione due - l'annullamento del congresso nazionale e una militarizzazione per cui l'espulsione di una parte va a vantaggio dell'altra parte». La maggioranza nel congresso nazionale, infatti, viene deciso dal risultato dei congressi dei circoli locali, che determina il numero dei delegati che spettano a ciascuna mozione.

Intanto i rappresentanti della mozione uno (Paolo Ferrero-Claudio Grassi-Ramon-Mantovani) e quelli di tutte le altre mozioni accolgono con plauso la decisione della commissione, la cui maggioranza è di area Ferrero. «La decisione è avvenuta nel pieno rispetto delle regole -afferma Ferrero- e non può diventare argomento di dibattito politico». Inoltre, secondo l'ex ministro, il congresso nazionale dovrà «decidere la linea politica del partito». Al termine del quale Ferrero propone «una gestione unitaria a tutte le altre mozioni».

Le regole stabiliscono che per il congresso hanno diritto a partecipare tutti gli iscritti che abbiano rinnovato la tessera per il 2008. Ma la mozione uno ha più volte denunciato un «tesseramento gonfiato» soprattutto in alcune specifiche realtà del Sud Italia. Anche in una lettera aperta sul giornale Liberazione si parla della questione e di circoli «nei quali il numero delle tessere è più che raddoppiato rispetto allo scorso anno» e territori nei quali «il partito registra un numero di iscritti pari al 75 per cento dei voti raccolti dalla sinistra alle ultime politiche».

Si profilano, a questo proposito, altri ricorsi sulle votazioni svolte in altri circoli di Rifondazione, Bologna migranti, Pontici, Castellamare, Arezzo, che ancora devono essere discusse dalla commissione del congresso. Insomma, la situazione sul tesseramento, sulle regole, e i numeri è molto controversa.

A guardare ad esempio i siti online delle rispettive mozioni, ci sono dati contrastanti: secondo il sito della mozione uno, dopo circa un migliaio di congressi di circolo, poco meno di metà, l'area Ferrero sarebbe ancora in vantaggio con il 43,1 per cento dei voti rispetto al 42,9 della mozione due. Sul sito dell'area Vendola, invece, la situazione appare ribaltata: 44,9 per cento alla mozione due, 41,3 alla mozione uno.

Le decisioni che la commissione congressuale prenderà sui ricorsi presentati per il "tesseramento dopato" in alcuni circoli saranno quindi determinanti. Perché il congresso si faccia.

E come non bastasse, la divisione si inaprisce anche su altri fronti: Paolo Ferrero annuncia che l'8 luglio sarà in piazza Navona, assieme a Di Pietro, mentre Nichi Vendola, che invece critica l'opposizione dell'invettiva interpretata dall'Italia dei valori chiede al suo partito di riprendere la strada del confronto ad ampio raggio, per arrivare a costruire un «fronte molto largo delle opposizioni al governo delle destre». 


Pubblicato il: 03.07.08
Modificato il: 03.07.08 alle ore 21.26   
© l'Unità.

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di Ernesto Fedi


Congresso socialista, è l'ora del dialogo e del confronto per un grande soggetto della sinistra


L’apertura del congresso socialista di Montecatini non prometteva niente di buono per chi voleva recuperare quel partito ad un progetto che vedesse, accanto al Partito Democratico, una formazione di sinistra di governo,  larga e in grado di condizionare l’intera politica del centro-sinistra.

La corrente di maggioranza, che faceva capo a Riccardo Nencini ed era appoggiata dal grosso del gruppo dirigente, da Angius a De Michelis, da Craxi a Battilocchio, forte di circa il 75% dei voti congressuali, puntava ad un asse preferenziale con il partito di Veltroni (tanto che qualcuno parlava addirittura di confluenza) e guardava con grandissima attenzione all’UDC, per realizzare un nuovo centro-sinistra che escludesse la sinistra cosiddetta radicale.

La corrente di minoranza di Pia Locatelli, Turci, Grillini, De Bue e Mosca, intendeva lavorare per una nuova sinistra che comprendesse, come diceva Mosca,  “le parti più ragionevoli della Sinistra Arcobaleno”.

Giunti all’elezione del Segretario nella persona di Nencini, per votarlo all’unanimità, la minoranza aveva posto precise condizioni.
Innanzitutto doveva essere esplicitamente fugato ogni sospetto sull’ipotesi di confluenza nel Partito Democratico.

Niente assi preferenziali, ma il partito avrebbe dovuto guardarsi attorno a trecentosessanta gradi senza esclusioni, tantomeno a sinistra, dove si sarebbero dovuti stabilire rapporti di particolare attenzione con quanti si collocano “nella grande famiglia del socialismo europeo ed internazionale”.
Alla presidenza sarebbe dovuta  andare la Locatelli,  anziché Angius.

Queste condizioni sono state accettate in toto, al punto da far dire a molti che politicamente il congresso è stato vinto, o comunque fortemente condizionato dalla minoranza.

Il documento conclusivo recita, infatti, che il partito  non può chiudersi in sé stesso, deve parlare con tutti, confrontandosi in primo luogo con le forze della sinistra non massimalista.

E conclude che occorre “costruire una sinistra di governo che oggi non c’è e che non è riconducibile alla politica del Partito Democratico, per le sue ambiguità e la sua incerta collocazione internazionale. Così come abbiamo affermato la nostra autonomia nelle ultime elezioni, la riaffermiamo oggi come condizione dell’essere del nostro nuovo partito”.

Sul piano dei contenuti , è sempre scritto nel documento conclusivo, si guarda “al mondo del lavoro, dell’istruzione, della ricerca, della cultura, della nuova società multiculturale” e si intende “dare rappresentanza agli interessi sociali più deboli in una politica di sviluppo e modernizzazione della società”.

Senza dubbio, il partito nel sul complesso, è uscito dal congresso su una posizione diversa da quella iniziale. Passi avanti, rispetto soprattutto alla gestione di Boselli e di Villetti, sono stati fatti ed è doveroso prenderne atto,  anche se con cautela e senza farsi troppe illusioni.

Molte sono le differenze che  rimangono marcate. La convergenza resta difficile  su importanti e qualificanti punti strategici e programmatici.
Ma sembra che il nuovo corso socialista si sia reso conto che, con meno dell’1%,  si fa poca strada. De resto, autorevoli esponenti della Costituente socialista, che non hanno di proposito partecipato al Congresso, come Formica e Macaluso,  lo sostengono da sempre.

Il primo auspica un socialismo largo. Il secondo sostiene che “non è pensabile e non è serio che forze politiche con  uno, due, o tre punti percentuali o poco più, si definiscano socialiste. Un partito socialista in tutto il mondo è tale se ha consensi larghi di popolo”.

Rimane, pertanto, all’ordine del giorno,  anche per il nuovo partito socialista,  l’esigenza di ricomporre il quadro politico su basi nuove. Rimane centrale la necessità di realizzare una grande sinistra di governo , indispensabile per il rilancio di un rinnovato centro-sinistra.

Per di più, sia l’attuale legge elettorale, sia quella di risulta dal referendum, sia altre eventuali avranno alte soglie di sbarramento, che costringeranno a nuove fusioni o a nuove aggregazioni.

Ed è lecito domandarsi  con chi ricercherà rapporti preferenziali ed eventualmente con chi si aggregherà il nuovo partito socialista.  Sceglierà il centro di Casini o di Veltroni, o guarderà a sinistra?
Molto dipenderà da noi . Dal progetto e dall’iniziativa che sapremo mettere in campo e dai rapporti che sapremo stabilire.

Il dialogo ed il confronto, dunque, vanno tenuti aperti e vanno incoraggiati, in  particolare con quanti si muovono nella nostra stesso direzione,  che non sono poi così pochi. E soprattutto con il mondo della cultura socialista, indispensabile al rinnovamento della sinistra italiana. Con quegli intellettuali che non si chiudono in recinti identitari,  ma guardano ad orizzonti più ampi ed intendono dare il loro contributo alla formazione di una forte sinistra di governo. Tutto  ciò nella consapevolezza che non sarà possibile rilanciare un centro- sinistra rinnovato, forte e capace di  battere questo centro-destra, senza la formazione di un grande soggetto politico,  che rappresenti la sinistra di governo ed in larghissima misura sia fortemente ancorato ai valori del socialismo.

Questo vale per tutto il popolo socialista, oggi un po’ disperso ovunque. Ma vale soprattutto per quanti  pur appartenendo al campo valoriale della sinistra e del socialismo, hanno finito per cadere nell’imbroglio del voto utile ed hanno dato la loro adesione ad un Partito Democratico,  dal quale non si sentono certo rappresentati.

Un’ultima considerazione sulla comune appartenenza,  nostra e del partito socialista,  al PSE e sul modo di intenderla.
Oggi per tutti è ineludibile la domanda: che cosa significa essere socialisti nel XXI secolo? Certo non è sufficiente rifugiarsi passivamente e acriticamente nel PSE. Non bastano le etichette per essere autenticamente socialisti.

Per di più il socialismo europeo, per tornare a vincere, ha oggi bisogno di una profonda opera di ristrutturazione ed aggiornamento.  Ed il PSE, così com’è, mostra non pochi limiti. Non è un partito  sovranazionale con una sua visione unitaria dell’Europa e del mondo globalizzato. Spesso sembra contenere il tutto e il contrario di tutto.  E’ la somma di tanti partiti nazionali non poche volte in contrasto tra di loro, anche su temi cruciali e su argomenti fondanti per una nuova società.

Certo il socialismo in Europa ha saputo creare le migliori condizioni di vita dell’intero pianeta. Ralph Darhendorf  ha definito quella socialista, con la creazione dello Stato sociale, la più grande rivoluzione dai tempi di Cristo ad oggi.
Ma la società è cambiata. I problemi che siamo chiamati a fronteggiare e a risolvere impongono un rinnovamento profondo e tale da portarci oltre tutte le esperienze storicizzate nel Novecento.

E’ necessario trovare una risposta univoca al modello di sviluppo ipercapitalistico che governa attualmente la globalizzazione, caratterizzata da profonde ingiustizie sociali e da uno sviluppo non sostenibile.
A questo proposito  è indispensabile il confronto, il dialogo la contaminazione con altre culture, come quella ambientalista, femminista, pacifista, che hanno un’ origine ed una storia diversa dal Socialismo.

E’ indispensabile una approfondita opera di riflessione e di ricerca partendo dal presupposto che nessuno è depositario di una verità totale ed assoluta.
Il PSE è l’unico cantiere in Europa dove ciò avviene. Altro di rilevante non c’è. Bisogna parteciparvi dinamicamente e non staticamente per dare un contributo proficuo al suo rinnovamento, per renderlo di nuovo vincente e capace di creare una società più avanzata, più libera e più giusta.

Noi ci stiamo in questo spirito. Con questi presupposti intendiamo andare al confronto con i compagni del nuovo partito socialista, nell’auspicio che sappiano fare altrettanto.

da sinistra-democratica.it

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L'approvazione del Lodo Alfano è solo un passo dei tanti gravi compiuti in solo 2 mesi

Siamo, ormai, in una democrazia autoritaria di massa


di Cesare Salvi*


L’approvazione da parte della Camera del cosiddetto Lodo Alfano è un atto politicamente e istituzionalmente grave. Molte argomentazioni critiche sono state svolte da autorevoli giuristi,  e non é quindi necessario tornarci. Se la legge sarà approvata dal Senato, come tutto lascia prevedere, il Presidente della Repubblica non potrà che promulgarla, come fece del resto il suo predecessore Ciampi per il lodo Schifani.

Il Capo dello Stato può infatti rinviare una legge solo se “manifestamente” incostituzionale, e in questo caso l’avverbio non può applicarsi, perché la precedente sentenza della Corte non si era pronunciata sull’esigenza o meno di una normativa costituzionale.

Ma al di là delle critiche giuridiche e di merito, il punto che va sottolineato è che questo cosiddetto lodo si inserisce in una visione complessiva delle istituzioni democratiche che il governo Berlusconi sta seguendo dall’inizio della legislatura e che va contestata in radice.
La tesi è che la democrazia si esaurisce  nell’investitura popolare del capo del Governo, e che una volta che questa si è avuta nessun ostacolo deve essere frapposto all’attuazione di quanto deciso dall’eletto dal popolo. L’argomento per il quale la giustizia va bloccata quando intende agire nei confronti del capo del governo, perché altrimenti gli si impedirebbe  di dedicare  tutto il suo tempo e le sue energie  ai compiti affidatigli dal popolo, fa il paio con il metodo e il merito adottati in tutti gli altri campi di intervento  fin qui avviati dal governo Berlusconi.

Il metodo: il ricorso al decreto legge e la fiducia su maxiemendamenti non sono purtroppo una novità, ma non era mai accaduto che in pochi giorni si costringesse il parlamento  a votare praticamente senza dibattito la manovra economica  e provvedimenti come quelli  sulla sicurezza e l’immigrazione, sui rifiuti, su Alitalia, che contengono una miriade di disposizioni di grande peso e incidenza, spesso del tutto estranee al titolo del provvedimento. Ma anche qui si dice: Berlusconi è stato eletto dal popolo, deve poter attuare al più presto le sue decisioni; al punto che si esalta come prova di efficienza il fatto che in pochi minuti il Consiglio dei Ministri abbia approvato la complessa manovra economica predisposta da Tremonti.

Quanto al merito, e al di là del pesante giudizio negativo sulle singole decisioni, si deve constatare l’assoluta noncuranza che viene frapposta a obiezioni legate ai vincoli giuridici  che pure in uno stato di diritto circoscrivono anche (e soprattutto) l’azione del governo: dalle norme costituzionali a quelle dell’Unione europea, a trattati internazionali come la convenzione sui diritti dell’uomo. Pochi hanno notato che una misura certamente grave e comunque al centro dell’attenzione pubblica, come il prelievo delle impronte dei Rom, non è avvenuta né per legge né per decreto, ma con il ricorso a un’ordinanza di emergenza per la protezione civile emanata dal ministro dell’interno: si è usato cioè uno strumento giuridico previsto per tutt’altri fini e che non è passato al vaglio né del Parlamento e nemmeno dello stesso Consiglio dei Ministri.

Se è vero che è ambiguo parlare di dittatura o di regime, è certo però che si profila quella che si potrebbe chiamare una democrazia autoritaria di massa: l’idea cioè che una persona, purché eletta dal popolo e confortata dai sondaggi, possa e debba decidere tutto ciò che vuole.
Come si vede, il problema non è l’antiberlusconismo viscerale, ma un inquietante degrado della qualità della democrazia e dello stesso stato di diritto, che va fermamente contrastato e sul quale occorre pretendere chiarezza prima di qualunque dialogo sulle riforme.

Purtroppo lo stravolgimento della democrazia parlamentare in democrazia dei leaders ha radici in un degrado della cultura politica che ha toccato, e non marginalmente, anche il centro sinistra. A maggior ragione, una sinistra moderna e rinnovata deve sapere porre al centro, accanto alle questioni sociali, quelle delle libertà e del rispetto dello stato di diritto.

*del Consiglio Nazionale di Sd

da sinistra-democratica.it

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